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C'è un punto di debolezza nelle posizioni dei fautori del bipolarismo, che in questi giorni sono insorti a gran voce - in nome dell'opportunità dell'alternanza fra due Poli nel governo del paese -, contro l'ipotesi del «terzo polo» o del «nuovo centro», rilanciata con forza da Mario Monti. La debolezza sta nel cattivo, anzi nel pessimo funzionamento del bipolarismo all'italiana: frutto di una raffazzonata legge maggioritaria, che ha compresso il tradizionale pluralismo del sistema politico italiano, ma ha prodotto due schieramenti che per la loro scarsa omogeneità e incoerenza non paiono in grado di svolgere, con incisività ed efficacia, né il ruolo di maggioranza né quello di opposizione. Qui, infatti, sta l'interrogativo fondamentale che si presenta quando si pensa che siamo ormai a meno di un anno dalle nuove elezioni politiche. Dove stanno, nell'attuale situazione di preoccupante crisi della democrazia e di grave declino economico e sociale, le condizioni per sperare che l'Italia possa avere un governo capace di affrontare positivamente questi problemi con chiarezza di idee e con reale capacità operativa?

Che nulla si possa attendere al riguardo dal centro-destra è sin troppo palese. Lo dimostra non solo il disastroso bilancio di questi anni: ma soprattutto il fatto che questo disastro non è casuale, ma è il frutto - oltre che di pochezza politica e culturale - della congenita subordinazione di questo schieramento da un lato ai ricatti dell'estremismo plebeo e sciovinista della Lega, dall'altro alle pressioni degli interessi particolaristici e privatistici di Berlusconi e del suo gruppo. Ma anche la coalizione di centro-sinistra, al di là dell'obiettivo, certamente importante, di porre fine al governo di Berlusconi, non sembra in grado di prospettare con coerenza e con la necessaria unità convincenti obiettivi politici e programmatici di un suo futuro governo. «Non siamo pronti»: con queste parole Alessandro Robecchi riassumeva in modo incisivo questa situazione sulla prima pagina del manifesto di domenica scorsa.

Naturalmente è molto difficile e anzi quasi impossibile dire se possa esservi qualche altra soluzione. Certamente non lo sarebbe una confusa e improvvisata operazione trasformistica che travolgendo i due Poli porti al governo, come qualcuno ha ipotizzato, le forze di centro dei due schieramenti. Ancora più confusa e pressoché impraticabile appare l'ipotesi avanzata da alcuni commentatori (per esempio Ernesto Galli della Loggia), ossia l'ipotesi di una sorta di parallelismo fra due centri, che dovrebbe realizzarsi assicurando che nelle elezioni prevalgano (ma come farlo?) le forze più centrali dell'una e dell'altra coalizione. Per carità di patria non richiamo neppure un'altra eventualità, quella data ricerca di un'intesa fra i due Poli in nome di una comune visione degli interessi nazionali: quell'intesa che già fu tentata nella precedente legislatura, con esito peraltro fallimentare, attraverso la Commissione bicamerale.

In definitiva la strada più realistica sembra restare quella che tutti coloro che chiedono all'Unione di centro-sinistra qualcosa di più che la pur importante vittoria elettorale su Berlusconi, facciano pressione perché i partiti dell'Unione - anziché gingillarsi nel gioco inutile e pericoloso delle primarie o insistere in diatribe interne che servono solamente ad alimentare ambizioni e rivalità - si decidano finalmente a utilizzare con serietà i mesi che ancora restano per ricercare un'intesa su una piattaforma politica e programmatica che entri davvero nel merito dei problemi: che sappia cioè coordinare efficacemente la necessaria azione di risanamento della finanza e dei conti pubblici con le scelte fondamentali per ridare forza agli istituti e alla partecipazione democratica, per riconquistare e consolidare i diritti dei lavoratori, per promuovere un'occupazione seria e qualificata, e per un rilancio efficiente e qualificante dello Stato sociale.Si può ancora sperare che accada qualcosa di simile? O ci si deve invece rassegnare all'idea che un governo di centro-sinistra sia destinato ad essere solo il classico «governo di lacrime e sangue», chiamato a far pagare al paese e soprattutto al lavoro dipendente i sacrifici e i prezzi del necessario risanamento, per cedere subito dopo il passo a un nuovo governo di centro-destra?

Se così fosse, non ci sarebbe davvero da sorprendersi se qualcuno mostra di preferire un'ipotesi alla Mario Monti. Ossia che, una volta eliminato Berlusconi, si possa presto arrivare - con le opportune modifiche elettorali magari favorite da un travaso di voti tra un polo e l'altro - al governo di uno schieramento moderato di centro che si assume l'onere del risanamento e che sia sufficientemente moderato per mediare tra i differenti interessi. Sarebbe, in sostanza, l'operazione neocentrista di cui tanto si parla. Alla quale, però, non si risponde efficacemente difendendo a ogni costo una sbagliata legge maggioritaria, oppure con un ulteriore spostamento verso il centro, come vorrebbe Rutelli. Che i moderati facciano i moderati è del tutto naturale. Ma, per un buon funzionamento della democrazia, occorre che si ricostituisca una robusta forza di sinistra che, dal governo o dall'opposizione, si impegni nella difesa dei diritti del lavoro, delle conquiste in campo sociale, degli istituti di democrazia.

Non si tratta di rimpiangere il passato. Ma anche dal passato c'è qualcosa da imparare. Non è vero, infatti, ciò che ha scritto sul manifesto Valentino Parlato: ossia che «il vecchio Pci, dall'opposizione, aveva governato meglio e di più di quanto i Ds non abbiano fatto da Palazzo Chigi»?

E'una favola quella dei due capitalismi e «non si può fare di ogni erba un fascio», sostiene Massimo D'Alema. In parte è vero: il capitalista è una bestia immorale che pensa unicamente al profitto, spesso in modo truffaldino. Però il presidente D'Alema ha la memoria un po' corta: non ricorda le battaglie condotte nel suo partito - quando aveva un nome migliore dell'attuale - da Claudio Napoleoni, per esempio, per un «patto dei produttori» dove tra i produttori non c'era certo spazio per la speculazione finanziaria. L'intervista del Presidente Ds al Sole-24 Ore è un inno al capitalismo e una rinuncia definitiva a ogni ipotesi di elementi di socialismo. Un'intervista furba, intelligente, spregiudicata, con molto buon senso, ma soprattutto elettorale: i Ds sono pronti a caricarsi il capitalismo italiano sulle spalle regalandogli nuovi margini di libertà, ma con un maggior rispetto delle regole.

Non si può accusare il centro sinistra di non essersi opposto ai vari condoni varati da Tremonti. Però vale la pena ripartire da quei condoni (tombali e anonimi) per cercare di spiegare l'emergere di nuove ricchezze. Fra tutti questi capitalisti emergenti ci sono sicuramente persone per bene. Però gli improvvisi arricchimenti fanno nascere più di un dubbio perché si entra in un'area opaca quella nella quale «si fanno soldi con i soldi», come diceva il protagonista di «8 settimane e mezzo». Per dirla in termini di analisi marxiana: al circuito «merce-denaro-merce» si sostituisce quello «denaro-merce-denaro». E tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fese distributiva; con la seconda c'è il trionfo della solo speculazione, dell'arricchimento individuale.

I capitalisti italiani (produttori di merci) negli ultimi 30 anni sono saltati come birilli: dall'illuminato Olivetti, al patron Borghi (quello della mitica Ignis) abbiamo visto sparire generazioni di industriali che avevano creato ricchezza. Problemi generazionali non sono mancati, ma, molto spesso, la crisi è arrivata dalla finanza (da un sistema bancario incapace di affiancare le imprese italiane) nella quale esplodevano i casi di Sindona e Calvi. Un sistema nel quale la P2 arrivò a controllare subdolamente il Corriere della sera strappato dalle mani del fragile Rizzoli. Questo spiega l'enorme attenzione che da settimane circonda il tentativo di scalata di Stefano Ricucci alla RcS. Possibile che D'Alema non lo capisca e si concentri piuttosto sulla fragilità degli imprenditori che controllano con un Patto la Rcs?

Il sistema bancario italiano oggi - forse - è abbastanza sano: ci sono banchieri che fanno molto bene il loro mestiere e spesso supportano egregiamente (magari anche per difendere i loro interessi come nel caso Fiat) l'attività produttiva. Però il marcio c'è ancora. Gli spregiudicati finanziamenti per favorire scalate e Opa ne sono la dimostrazione. Insomma, i capitalisti non sono tutti uguali: forse perché siamo un po' romantici seguitiamo a preferire il padrone che apre fabbriche, da lavoro e produce merci (ce ne sono molti e D'Alema farebbe bene a valorizzarli) a chi produce «denaro a mezzo di denaro», parafrasando Sraffa.

Il movimento cooperativo ha acquisito tanti meriti: ha creato lavoro e modernità dovendo resistere agli attacchi che con l'ultimo governo si sono intensificati. E' vero: come dice D'Alema l'Unipol è una spa quotata in borsa e quindi i suoi criteri di gestione sono quelli del capitalismo puro. Occorre ricordare, però, che Unipol è diventata grande grazie alla fede di centinaia di migliaia di assicurati che preferivano questa assicurazione ad altre grazie a una identificazione solo ideologica. Di più: la spa Unipol è controllata dal sistema cooperativo e sinceramente i 2,5 miliardi di euro di aumento di capitale finalizzati all'acquisto di Bnl forse potevano essere spesi meglio. Insomma, D'Alema stia attento: a giocare con la grande finanza (Cuccia) e con i «capitani coraggiosi» c'è il rischio di scottarsi e di perdere di vista i valori fondamentali che si vogliono rappresentare.

Titolo originale: Islamising global conflict – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

If you think religion is the source of terrorism you really fail to see the root causes of conflict and extremism

Nonostante i nostri migliori sforzi per non confessarlo, stiamo sperimentando un conflitto di culture politiche di cui i recenti attentati di Londra o l’assassinio dell’inviato egiziano a Baghdad sono solo alcune manifestazioni [gli attentati di Sharm el Sheik non erano ancora avvenuti n.d.T.]. Madrid, Mosca, Istanbul o New York; tutte, insieme al massacro quotidiano in Iraq, sono parte del fenomeno globale del terrore, al momento ideologia politica che accresce il suo impulso.

La polizia di Londra, in risposta alla costernazione e richiesta di risposte pubbliche, ha messo in campo tutte le proprie capacità investigative scoprendo alcune tracce importanti, e concludendo rapidamente che le esplosioni portano il marchio della famigerata Al-Qaeda. Tutti sono curiosi di sapere “chi, dove e come”, e sembra stiano trovando le risposte giuste. Ma nessuno sembra porsi la domanda fondamentale, da cui dipende tutto: perché? Solo ponendoci questa questione, potremmo capire il fervore politico che guida gli atti del terrorismo, le cui onde sismiche hanno fatto sinora tremare i cinque continenti del mondo.

Il terrorismo è una conseguenza dell’ostracismo politico, non del fanatismo religioso. Non fermenta nelle moschee d’Egitto o nei madrassas del Pakistan, ma nelle lontane celle d’isolamento, nelle camere di tortura, nell’atmosfera di paura costruita da regimi dittatoriali come strumento di governo legittimo. L’occupazione militare straniera in Iraq, gli omicidi mirati nei territori palestinesi, la presenza militare in molti stati del Medio Oriente lo alimentano. Chi lo mette in pratica lo considera un metodo di resistenza alla distorsione dell’identità nazionale e dei valori tradizionali, sotto l’egida della globalizzazione. Se il terrorismo fosse un prodotto collaterale della formazione religiosa, pochi dei gruppi neo-conservative giudeo-cristiani potrebbero sfuggire a questa definizione. C’è solo da guardare l’Iraq imbrattato di sangue, per vedere che il terrorismo non ha motivazioni religiose, ma politiche.

Nell’era post 11 settembre, l’amministrazione USA del Presidente George W. Bush ha tratto le conclusione giuste, ma adottato le politiche sbagliate. Il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha riconosciuto durante la sua visita in Egitto del mese scorso che per 60 anni la politica estera degli Stati Uniti nel Medio Oriente “ha perseguito la stabilità a spese della democrazia, senza ottenere nessuna delle due”. La stabilità in Medio Oriente, e in molte altre regioni del mondo, non è mai stata tanto sfuggente come ora, e il terrorismo mai tanto letale. Secondo il presidente russo Vladimir Putin, il terrorismo è “la piaga del 21° secolo” e, nonostante le fiere affermazioni pubbliche dei leaders delle nazioni colpite, la gente è davvero spaventata.

Sembra che il dibattito sul terrorismo, che ha prodotto 12 trattati internazionali per combatterlo negli anni ’60 e ’70, si sia congelato nello spazio e nel tempo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Si è affermata una sola politica: tutto il mondo deve diventare un campo di battaglia contro il terrorismo. Le prospettive si sono offuscate, l’agenda confusa, e gli atti di terrore aumentati in modo esponenziale. Alcuni elementi fondamentali del dibattito sul terrorismo, come la legittimità della resistenza armata contro l’occupazione militare straniera, gli atti illegali di terrorismo di stato contro la gente sotto occupazione, la persecuzione dei singoli da parte delle dittature in nome della sicurezza dello stato, sono stati scavalcati e sostituiti da un’ampia e indiscriminata nozione di terrorismo. E così l’intera questione è stata ridotta a come proteggere la civiltà occidentale contro assalitori musulmani incitati da un culto religioso assassino. Una definizione che è stata speranzosamente gestita dai leaders israeliani che hanno utilizzato il trauma dell’11 settembre per convincere l’amministrazione Bush che i combattenti palestinesi erano contigui agli assalitori suicidi di Al-Qaeda: sono tutti musulmani, fanatici, tesi alla distruzione dei simboli della civiltà occidentale.

Sollevare la questione del perché? è, sempre, legittimare le velleità terroristiche, o indebolire il fronte della sicurezza. Quando sono in gioco le vite delle persone la tutela delle cose, la protezione di entrambi è la principale responsabilità di qualunque governo. Ma ridurre un fenomeno globale ad una questione di sicurezza, significa perdere di vista un punto focale, e chiaramente non diminuisce il pericolo. Un punto di partenza, potrebbe essere rivolgere lo sguardo e l’analisi alle radici etno-politiche come cause del terrorismo. È qui che i decenni di sforzi delle Nazioni Unite di coniare una definizione impermeabile di terrorismo hanno cominciato a vacillare, e il dibattito si è fermato. Può darsi che il tentativo di costruire una definizione onnicomprensiva fosse obiettivo troppo ambizioso per le variopinte componenti dell’ONU. Ad ogni modo la questione centrale del dibattito era la distinzione fra movimenti di liberazione nazionale, in lotta per l’indipendenza dall’occupazione militare straniera, e atti indiscriminati di terrorismo commessi da bande criminali per motivi di intimidazione politica o vantaggio economico. Mentre le nazioni in via di sviluppo in gran parte appoggiavano questa distinzione, alcuni paesi occidentali – con in testa gli Stati Uniti e Israele – si opponevano ad essa. Questo negava sostegno alla lotta anti- apartheid in Sud Africa, dove si processavano e imprigionavano militanti dello African National Congress accusandoli di “terrorismo”, e alla lotta dell’OLP contro l’occupazione israeliana. Quando fallì questo tentativo di dialogo, lo scenario mondiale divenne aperto a tutti, portatori di buone o cattive intenzioni.

Alcuni potrebbero dire che abbiamo già attraversato momenti del genere, e che il terrorismo è stato sconfitto. Ricorderebbero gli anni ’60 e ’70, quando movimenti pseudo-rivoluzionari guidati da pseudo-ideali marxisti scossero la società globale. Erano i giorni dei Chicago Black Panthers, dell’Esercito di Liberazione Simbionese, degli Weathermen, del gruppo Baader Meinhof e delle Brigate Rosse, fra altra marmaglia di movimenti in USA, Europa, Asia e Medio Oriente. Una forte reazione delle forze di sicurezza, e la mancanza di radici a sostegno di queste ideologie estremiste, li schiacciarono tutti. Quello che vediamo oggi non è lo stesso panorama.

Ci sono buoni motivi per ritenere che collegare l’Islam col terrorismo politico non sia una coincidenza. È un’idea dei neo-conservative di Washington, spalleggiati da Israele, per forzare uno scontro con le forze del mondo arabo che vedono nella propria fede musulmana un punto di riferimento per la propria salvezza. Per stimolare questo scontro, l’Islam viene presentato come sinonimo di terrorismo, e la reazione anti-islamica sta salendo, particolarmente in Europa. Ma, se potesse prevalere un approccio più freddo, potrebbe non imporsi come inevitabile uno scontro.

Quello di cui c’è bisogno ora, è di far rivivere il dibattito sul terrorismo, le radici delle sue cause, i mezzi per contenerlo ed eliminarlo. Questo dibattito dovrebbe svilupparsi non a livello di ministeri degli interni, ma fra i gruppi inter-culturali, religiosi e per i diritti umani della società civile. La gamma delle questioni da affrontare deve essere il più ampia possibile, per evitare la possibilità di escludere aspetti e soggetti, il che rappresenta già una delle cause alla radice di tutto. Si tratterebbe di un dialogo parallelo a quello delle conferenze intergovernative, che di solito cercano di definire strumenti più operativi per affrontare il terrorismo. Aiuterebbe a mettere a fuoco – e forse anche a isolare – le cause di terrorismo, e a sviluppare un consenso di base sulle varie questioni.

Fare l’equazione Islam uguale terrorismo, e combattere entrambi a livello globale, non solo creerà un parallelismo artificioso, ma porterà ad un conflitto sempre più vasto e pericoloso, come dimostra il caso dell’insanguinato Iraq. E d’altra parte, solo mettere insieme le “teste fredde” ci potrà salvare da questo flagello.

Nota: l’Autore è ex corrispondente da Washington, D.C. per Al-Ahram, ed ex direttore della Radio/Televisione delle Nazioni Unite a New York. Qui il testo originale al sito di Al-Ahram Weekly online (f.b.)

E Hollywood scrive la storia d’Europa

Da poche settimane, le Crociate . Immediatamente prima Troia , Alessandro e il Gladiatore . Come tutti sanno, sono i titoli di altrettanti film apparsi negli ultimi anni: l’ordine in cui li ho citati non è quello della loro uscita effettiva, bensì quello cronologico degli eventi in essi narrati, il che serve a dare un’idea dell’ampiezza dell’arco storico coperto. Si va dal paradigma omerico di tutte le guerre alla dimensione dell’impero, a quella dello scontro tra grandi civiltà (le crociate, appunto) passando per la luminosa figura del giovane capo vittorioso, figlio dell’Ellade, Alessandro, cui toccò in sorte di unire simbolicamente sotto il suo genio l’Asia e l’Europa.

Come si vede, ciò a cui ci troviamo davanti è né più né meno che il primo tratto degli snodi fondamentali di quello che potremmo chiamare il canone occidentale. La narrazione, cioè, degli eventi, dei personaggi e delle situazioni chiave che hanno definito l’identità storico-culturale di questa parte del mondo. Naturalmente di film sull’antica Roma o sulla cavalleria medioevale ne sono stati sempre fatti, la novità sta nella rapida successione con la quale questi film di cui sto parlando sono usciti e nel fatto che raccontano sì storie, ma fin dal titolo ambiscono a prendere (e prendono effettivamente) di petto gli archetipi codificati della memoria storica dell’Occidente.

Credo che non sia affatto un caso che questi film siano tutti di produzione americana. Essi, infatti, sono l’indizio di cose profonde che si muovono oggi al fondo della società americana, dell’immagine di sé degli Usa e che modellano il ruolo anche culturale dell’America in rapporto al resto del mondo. Ciò che si muove è soprattutto l’idea che nella nuova temperie storica apertasi l’11 settembre - ma i cui segni premonitori si addensavano già da tempo - gli Usa sono qualche cosa di assai più grande di una sia pur gigantesca superpotenza. Sono i campioni di un’intera civiltà. Come già avvenne nel 1945, quando dall’altra parte c’era l’Unione Sovietica, l’impressione che l’opinione pubblica americana percepisce è non solo che si tratta di una sfida mortale, ma che essa proviene da un totalmente «altro», intrinsecamente ostile; ed è ciò che, proprio come allora, provoca nell’animo americano una sorta di autorappresentazione superidentitaria, in cui vocazione nazionale e universalismo si intrecciano strettamente. L’Occidente è per l’appunto questa superidentità, puntualmente riscoperta e riproposta. Ed è la condizione degli Stati Uniti come Impero d’Occidente e dunque come eredi attuali in prima persona di un’intera lunghissima parabola storico-culturale, che i film come Il gladiatore , Alexander o Le crociate più o meno apertamente rivendicano e illustrano.

Certo, l’analogia tra l’America attuale e una o l’altra delle vicende narrate non è esplicita, ma basta e avanza, mi pare, il fatto che quelle vicende con tutta la loro ovvia carica identitaria, percepibilissima da qualunque spettatore dell’emisfero Nord del pianeta, tornino oggi a circolare per iniziativa di quel massimo organo della cultura americana che è Hollywood, e dunque con la sua inconfondibile «aura», con il plot , le tipizzazioni umane, i modi emotivi, che da sempre sono nel tipico registro di quella grande macchina ideativo-produttiva.

Con in più qualcosa d’altro, assolutamente decisivo: l’afflato etico, la proposizione, per così dire, dell’esemplarietà morale della trama e dei personaggi, l’intento consapevolmente pedagogico tipico di ogni autentica prospettiva nazionalpopolare, com’è appunto quella di Hollywood. Non per nulla al centro della produzione cinematografica americana post 11 settembre c’è un film come The Passion di Mel Gibson. In The Passion la riproposizione del canone occidentale tocca un apice, vuoi per l’ovvio carattere fondante di quel canone medesimo che ha la narrazione cristiana, ma vuoi anche perché ne illustra il valore ultimo, che non può che essere un valore religioso. Tra l’altro il cristianesimo gibsoniano, intriso di fisicità e di dolore, tutto ridotto quasi al sanguinoso sacrificio di sé del Dio-uomo e al martirio inflittogli dai suoi carnefici, si presta bene a essere sentito come il più congruo ai tempi di ferro verso i quali forse siamo avviati. Non solo: di certo è anche quello che meglio è in grado di rappresentare una linea divisoria netta tra «noi e loro», tra i cristiani e gli altri.

Dopo l’11 settembre, insomma, gli Usa avvertono il bisogno e si assumono il compito di raccontare l’identità occidentale, di percorrerne le tappe con ovvio orgoglio identitario. C’è bisogno di aggiungere che si tratta di un’identità democratica, attenta agli obblighi del politicamente corretto? No, naturalmente: si pensi per esempio a certe ridicolaggini «multiculturali» delle Crociate , ovvero alla trattazione del tema omosessuale in Alexander o a certe autocensure presenti pure in Gibson.

La portata ideologico-culturale dell’impresa si manifesta in pieno se si pensa alla situazione che c’è da quest’altra parte dell’Atlantico. Da quanto tempo gli europei non fanno non già un grande film «in costume», ma un grande film storico? Cioè un film che affronti complessivamente una pagina decisiva della nostra storia, dandocene altresì un’interpretazione «forte»? Se si sta alla produzione cinematografica, si direbbe che l’unico uso della storia che è ormai possibile alla cultura di massa del Vecchio Continente è quello che consiste o nella rivisitazione del passato generazionale (tipo La meglio gioventù ), ovvero nel ricordo delle catastrofi belliche e dei connessi nazismi e fascismi. La nostalgia e la deprecatio , insomma, sembrano essere le uniche due dimensioni memoriali consentite al discorso pubblico europeo, gli unici usi possibili del passato.

In America, invece, il passato è ancora pienamente legittimato a fungere da ispirazione identitaria positiva, da grande ispirazione identitaria. È decisivo, naturalmente, il fatto di non avere alle spalle i crimini e gli abbagli che invece ha avuto l’Europa e che ne hanno determinato la sconfitta epocale riassunta simbolicamente nelle due date del 1945 e del 1989. A differenza dell’Europa, l’immagine positiva della storia americana significa, invece, la possibilità di una lettura altrettanto positiva dell’intero, lungo processo che ha portato fino all’oggi: lettura che si estende all’intero percorso storico dell’Occidente, con relativa appropriazione-identificazione nel medesimo.

È precisamente ciò che consente agli Usa di fare i film storici di cui si sta dicendo, perché è precisamente l’insieme della positività e della possibile appropriazione-identificazione che ne consegue, è questo insieme dei due fatti che consente di esperire adeguatamente il registro epico, connaturato a quei film stessi e che a sua volta produce nuova costruzione di identità.

Hollywood si riconferma così ciò che essa è da oltre mezzo secolo: la sola, incontrastata, depositaria dell’immaginario complessivo dei popoli dell’emisfero settentrionale del pianeta. Non solo per ciò che riguarda il presente, ma pure per il passato: anzi, si direbbe, sempre di più proprio per quel che riguarda il passato. Anche in questo ambito, infatti, l’Europa, la sua anima, la sua cultura e la sua arte, non sembrano capaci di dire più nulla. Mortificata dalla storia e privata di ogni autentico ruolo sulla scena del mondo, essa non sa neppure se possiede o no un’identità, e semmai quale sia, né di conseguenza sa più cosa fare del proprio passato. Se proprio vuole averne un’idea, non le resta che andare al cinema a vedere un film americano.

L’Italia è come un bellissimo Meccano, purtroppo è montato male. Ci sono qua e là negli ingranaggi dei cunei che bloccano i movimenti; il risultato è che il Meccano brilla, ma non si muove e se cerchi di spingerlo si capovolge. Non c’è altro da fare che smontarlo, e poi rimontarlo pezzo per pezzo. Credo che questa bella similitudine sia di Romano Prodi, nove anni fa, in uno dei primi giorni del suo governo. Poi, per entrare nell’euro, dovette occuparsi, giustamente, di macroeconomia e non ebbe più tempo per dar seguito a quell’intuizione intelligente.

Berlusconi ci promise di capovolgere il Paese come un guanto: la misura del suo fallimento la si legge, prima ancora che nei dati dell’Istat, nella relazione che l’Autorità Antitrust ha inviato al Parlamento a commento delle norme sulla competitività approvate definitivamente ieri. Riferendosi agli Ordini professionali, l’Autorità scrive: «La competitività dei professionisti italiani richiede un profondo rinnovamento del sistema degli Ordini, ma dal provvedimento del governo non emerge alcun ripensamento del loro ruolo».

Piccole cose, qualcuno dirà. Nulla di più sbagliato. Il bel Meccano è bloccato da una moltitudine di cunei, alcuni grandi e solidissimi come le posizioni dominanti di Enel, Telecom ed Eni, (e l’annullamento da parte del Tar del Lazio della multa comminata dall’Antitrust a Telecom Italia per abuso di posizione dominante lascia assai perplessi), altri piccoli come il monopolio dei farmacisti sulla vendita dell’aspirina, ma non meno dannosi.

Forse dovremmo anche chiederci come mai, all’improvviso, è spuntato tanto denaro accumulato nel settore immobiliare. Come si sono create le ricchezze dei nuovi padroni della finanza, signori fino a ieri sconosciuti, e che oggi sono in grado di acquistare partecipazioni importanti in banche e società quotate in Borsa. Anche questo dipende, in parte, da un sistema che non funziona. Incapaci di ridurre il numero dei dipendenti pubblici, abbiamo fatto quadrare i conti tagliando i trasferimenti ai Comuni, e questi, per sopravvivere, hanno usato il solo strumento di cui dispongono: le licenze edilizie e la possibilità di monetizzare le aree verdi, cioè chiedere a chi costruisce contanti, anziché standard. Il risultato è un uso estensivo del territorio e forse anche qualche transazione non proprio trasparente tra immobiliaristi e amministratori pubblici.

Berlusconi attribuisce la profonda crisi in cui siamo piombati all’euro e al patto di stabilità. Ora che il patto è stato modificato annuncia una Finanziaria per lo sviluppo e oggi incomincerà tagliando l’Irap senza preoccuparsi di come far fronte alla perdita di gettito. È evidentemente la strada sbagliata. Il rischio è che il Meccano si capovolga, travolto dalla perdita di credibilità nei mercati finanziari.

Molti temono le sparate di Bertinotti sulla proprietà privata e l’ipoteca che la sinistra estrema potrebbe esercitare su un governo Prodi. Non è questo, secondo me, il vero rischio per la nostra economia. Bensì che le mille piccole rendite che si arricchiscono spostando il Meccano e impedendogli di funzionare l’abbiano vinta anche con il professor Prodi.

CRONISTI nelle ultime quarantott’ore hanno dato fondo a tutte le risorse del lessico e dell’immaginazione per descrivere quanto sta accadendo tra Palazzo Chigi, il Quirinale e gli altri palazzi della politica. E anche in Vaticano e nelle sacre cappelle dove si amministra la religione da parte di un gerontocomio nel quale i settantenni sono considerati giovani e i sessantenni poco più che ragazzi.

Alcuni ci sono egregiamente riusciti. Francesco Merlo, commentando l’irre-orre dell’Udc ha scoperto l’inedita prassi di dimettersi il venerdì lasciando aperta la porta al re-immettersi il lunedì. Concita De Gregorio ha evocato Fellini per descrivere una città che di botto si è trovata con due sedi vacanti, percorsa da cortei di suorine, preti in clergyman, cappuccini in sandali e saio che incrociavano all’altezza della galleria Colonna intitolata ad Alberto Sordi fitte schiere di portaborse e di «peones» provenienti o diretti verso Montecitorio, circondati da paparazzi come ai tempi della Dolce vita. Mancava Anita Ekberg; in compenso furoreggiavano le tre veline di «Striscia» dedite al rito della «baceria», che consiste nell’amorosa aggressione del Vip di giornata per potergli stampare sulle guance il rossetto d’un bacio-ricordo. Ad evitare quel rischio Follini pare abbia usato l’automobile tre volte di seguito per percorrere centocinquanta metri dalla Camera all’ufficio di Gianni Letta che nel frattempo tagliava la torta e stappava spumante per festeggiare il suo settantesimo compleanno nel bel mezzo d’una rissa politica in salsa berlusconese (auguri).

Va detto come ultimo tocco che le lettere di dimissioni firmate venerdì dai ministri e sottosegretari dell’Udc e indirizzate al presidente del Consiglio e al capo dello Stato sono rimaste sulla scrivania di Follini fino alla tarda mattinata di ieri, quando finalmente sono state rimesse ai destinatari istituzionali e la crisi di governo si è formalmente aperta.

In questo quadro dai lineamenti comici e grotteschi si è tuttavia consumato un evento non privo di elementi drammatici. Eccone l’elenco. La solitaria e insolita fermezza dei moderati post-democristiani, costretti a rompere un sodalizio decennale con il capo del populismo italiano e con il gruppo di avventura che lo circonda. La disperazione di Berlusconi, costretto alle dimissioni ma aggrappato fino all’ultimo minuto alla sua postazione di capo di governo, dal quale 15 milioni di elettori l’hanno strappato con la forza del voto.

Il declino malinconico (per lui) e inarrestabile di Gianfranco Fini, ormai ex aspirante al titolo di delfino e successore del re, stretto e quasi schiacciato tra Forza Italia e Lega, con un partito penalizzato dagli elettori e dilaniato da una lotta senza quartiere tra i suoi colonnelli.

Infine (e soprattutto) gli italiani che dopo quattro anni di governo berlusconiano, tessuto di promesse non mantenute e di annunci mai seguiti dai fatti, si trovano ora al centro di un disastro economico, politico, istituzionale e morale, causato dalla leggerezza con la quale la maggioranza degli elettori rilasciò nel 2001 una sorta di delega in bianco a quel gruppo avventuroso e dilettantesco che ha portato il paese a queste distrette.

Sì, ci vorrebbe Fellini per raccontare in immagini il rapido procedere d’un simile degrado, ma ci vorrebbe la penna di Gogol per penetrare al fondo d’una vera e propria mutazione antropologica che ha colpito una società intera facendole perdere i frutti d’un lungo e faticoso cammino che l’aveva portata a gareggiare con i paesi più ricchi e sviluppati del mondo e che ora la fa galleggiare al fondo delle classifiche internazionali da dove potrà risollevarsi solo prendendo coscienza di quanto è accaduto e pagando con severi sacrifici l’errore compiuto quattro anni fa.

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Quanto sta per accadere nei prossimi giorni è ancora alquanto oscuro. Una sola cosa è certa: Silvio Berlusconi dovrà salire nelle prossime ore al Quirinale e presentare a Ciampi le dimissioni del suo governo. Secondo la prassi il presidente della Repubblica lo inviterà a restare in carica per l’ordinaria amministrazione e aprirà le consultazioni con i presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari. Il reincarico è certo, ma credo non possa esser conferito prima di un incontro sia pur brevissimo di Ciampi con i rappresentanti del Parlamento: il ritiro di un’importante componente politica del governo pone infatti il problema di accertare se vi sia ancora una maggioranza o se anch’essa, insieme al governo, non si sia dissolta. Accertamento che non basta leggere nei giornali e nelle dichiarazioni televisive ma che deve essere registrato nelle forme istituzionalmente previste.

I seguiti, lo ripeto, sono ancora oscuri. Dipendono infatti dal negoziato sul programma e sulla composizione del governo, che è già in corso all’interno della ex coalizione di centrodestra, finora con esiti negativi, ribaditi ancora una volta da Follini in una dichiarazione resa alla stampa alle 17.30 di ieri.

Programma. I due documenti finora redatti da Berlusconi - Letta e consegnati il primo a Fini la scorsa settimana e il secondo (che ne è quasi la fotocopia) a Follini venerdì, impostano assai genericamente i lineamenti di una politica economica che è esattamente l’opposto di quella fin qui seguita nei quattro anni trascorsi dal 2001. Non entriamo nel merito di quelle proposte, ma ciò che conta per la storia deriva dal fatto che i due principali membri della coalizione hanno imposto questa svolta programmatica addebitando alla politica fin qui adottata la responsabilità della recente sconfitta elettorale. Non ci potrebbe essere conferma più lampante che la linea precedente altro non è stata che un cumulo di errori, di vacui annunci, di successi vantati ma inesistenti e di impegni non mantenuti.

A un presidente del Consiglio credibile sarebbe sufficiente presentare a un suo (ex) alleato un documento accettabile pur nella sua genericità, ma a un personaggio antropologicamente bugiardo e riconosciuto come tale questo non basterà per riguadagnare il consenso della sua maggioranza parlamentare (quello popolare è un altro paio di maniche molto più arduo da riconquistare).

L’Udc e forse anche Alleanza nazionale pretenderanno un testo parlamentare molto più concretamente impegnativo e soprattutto una struttura di governo che modifichi alcuni punti particolarmente sensibili: l’Economia, le Riforme, l’assetto della Rai e la politica delle telecomunicazioni.

Se il negoziato andrà a buon fine è anche possibile (anche se alquanto grottesco) che l’Udc si re-immetta nel governo.

Altrimenti non resta altra strada che quella dell’appoggio esterno e probabilmente delle elezioni immediate entro la fine di giugno. Il tempo è dunque strettissimo e il negoziato tra le rissose correnti del centrodestra non ha molti margini. Dovrà essere intenso quanto breve. Se ci sarà fumata bianca torneranno tutti insieme e procederanno fino alla fine. Si riaffideranno così alle mani di un «boss» la cui antropologia non è correggibile.

Credo che questo sia il vero rovello di Follini: l’ipotesi di rientrare nella gabbia sia pur dorata dalla quale è riuscito ad evadere per il bene della sua parte e del Paese.

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Post Scriptum. Queste convulse vicende politiche hanno inevitabilmente lasciato in seconda fila altri due grotteschi eventi la cui importanza, di fatto e di principio, è tuttavia di grande rilievo. Si tratta delle due Opa rispettivamente lanciate da una grande banca olandese sulla Antonveneta e da una grande banca spagnola sulla Banca Nazionale del Lavoro. La cronaca di queste operazioni è stata ovviamente seguita con l’attenzione dovuta dai giornali e un aspetto è balzato in piena evidenza: la volontà del governatore della Banca d’Italia di far fallire le due operazioni e la sua attiva partecipazione a conciliaboli continui da lui stesso promossi per organizzare cordate «nazionali» in opposizione al possibile ingresso delle due banche europee nel mercato italiano del credito.

Se le manovre guidate dal governatore sboccassero in altrettante Opa più favorevoli agli azionisti delle banche contese, non ci sarebbero obiezioni di merito anche se non rientra nei compiti della Banca d’Italia di discriminare gli operatori europei non italiani. Ma qui non si tratta di contro-Opa, bensì di cordate camuffate ma assolutamente evidenti. Per di più, nel caso Antonveneta, alla testa della cordata ispirata dal governatore c’è la Banca Popolare di Lodi, la quale sta bruciando nella fornace d’un rastrellamento a prezzi altissimi del titolo Antonveneta gran parte delle proprie risorse fino al punto ormai prossimo se già non superato di impegnare l’intero suo capitale che dovrebbe invece garantire i depositanti.

Un governo e un ministro dell’Economia nel pieno delle loro attribuzioni avrebbero dovuto richiamare fermamente il governatore il quale sembra usare la preziosa indipendenza garantita al suo Istituto per interferire su terreni che non sono di sua competenza bensì del mercato, regolato sul tema specifico da apposite leggi. E, aggiungo e sottolineo, un’opposizione consapevole avrebbe dovuto far sentire energicamente la sua voce in difesa del mercato, delle sue regole, degli azionisti e soprattutto dei principi della libera concorrenza tra imprenditori europei. Il fatto che ciò non sia avvenuto con la dovuta energia suscita in noi stupefatta preoccupazione.

La lunga ed estenuante transizione italiana è arrivata al suo approdo. Vista dalla fine, la storia si vede sempre meglio. Vista dalla fine, e caduti uno dopo l'altro i veli che nei primi anni `90 fecero brindare molta sinistra al «nuovo inizio», la transizione mostra con chiarezza la sua posta in gioco più vera. Che è stata, dall'inizio, la rottura e la riscrittura del patto costituzionale fondativo della Repubblica. Non questo o quel punto, questo o quel potere, questo o quel diritto, ma l'impianto, la concezione della democrazia, la storia novecentesca e antifascista di quel patto. Non a caso la maggioranza che ha messo al mondo la proposta della nuova Carta è fatta di tre forze fin dall'inizio eterogenee, ma fin dall'inizio cementate dalla loro comune estraneità e ostilità alla Carta del `48. Nel voto del Senato di ieri non c'è, per il centrosinistra, una sconfitta politica: c'è una sconfitta, e una verità, storica. Bisogna guardare in faccia questa sconfitta e questa verità senza diminuirle. Perché è vero che l'ultima parola non è ancora detta e spetta al referendum, ma è vero altresì che il referendum non si potrà vincere senza questa cruda consapevolezza, derubricando la posta in gioco o smussando le ragioni dello scontro. L'esito di oggi si poteva evitare? Sì, si poteva evitare; o almeno si poteva lottare con convinzione per evitarlo. Si poteva evitare, dagli anni ottanta in poi, di interiorizzare l'idea che la democrazia italiana avesse bisogno solo di qualche iniezione di governabilità. Si poteva evitare, negli anni novanta, di abbracciare il sistema maggioritario come la panacea di tutti i mali, senza nemmeno preoccuparsi di dotarlo delle garanzie necessarie a non farlo funzionare (oggi e anche in passato, quando fu il centrosinistra a riformare da solo il titolo V) come onnipotenza della maggioranza. Si poteva evitare di innamorarsi con frivolezza di tutti i figurini istituzionali disponibili sul mercato internazionale, dividendosi sul premierato israeliano e sul semipresidenzialismo francese invece di arginare e ribaltare il sovversivismo di Berlusconi, Bossi e Fini. Si poteva evitare di giocare a dadi con la Costituzione e con le istituzioni per risolvere problemi di natura squisitamente politica interni ai partiti e alle coalizioni. Ci voleva una politica costituzionale; non c'è stata.

Bisogna ricostruirla e comunicarla all'opinione pubblica con la convinzione che serve nelle battaglie decisive. Non è vero che la materia è astrusa quanto sembra e non è detto che sia meno coinvolgente di un Porta a Porta su Sanremo. Intrattenere gli elettori sui dispositivi tecnici della riforma può essere difficile, ma spiegarne il senso è semplice. E il senso è questo: una riforma che dà tutti i poteri al premier, riduce il parlamento a una camera di consultazione medievale, sovrappone quattro fonti legislative, altera le funzioni di garanzia del presidente della Repubblica e della Corte. E soprattutto, svuota la rappresentanza e fa a pezzi i diritti fondamentali. Ce n'è abbastanza per mobilitare chiunque.

Esiziale sarebbe invece, per l'opposizione, restare paralizzata dall'annosa paura che difendere il patto del `48 significhi macchiarsi di conservatorismo, e che riformarlo significhi riscriverlo nello stesso senso, solo un po' più moderato, del centrodestra. La Costituzione non va né difesa come un totem né stracciata come un certificato scaduto: va rilanciata, nel suo spirito originario, all'altezza del presente. Magari con un occhio puntato alla Costituzione europea, cornice necessaria, ancorché a sua volta controversa, per smarcarsi dal talk show della transizione nazionale e compiere il salto che la storia impone davvero dal Novecento al secolo nuovo.

La stampa italiana, la politica italiana, non usciranno mai dal loro vizio di fondo: considerare qualunque episodio, o grande fatto, che avvenga in un luogo qualsiasi del mondo, solo come una variante della politica interna, un'occasione per polemiche domestiche, per colpire l'avversario, per guadagnare o perdere consensi. La liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari non hanno fatto eccezione.

La stampa italiana, la politica italiana, non usciranno mai dal loro vizio di fondo: considerare qualunque episodio, o grande fatto, che avvenga in un luogo qualsiasi del mondo, solo come una variante della politica interna, un'occasione per polemiche domestiche, per colpire l'avversario, per guadagnare o perdere consensi.

La liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari non hanno fatto eccezione. Giuliana, un paio d'ore dopo il suo arrivo a Roma, era già sotto accusa. Un giornale a diffusione nazionale, come "Libero", che è la punta di lancia dello schieramento politico di centro-destra, ha iniziato una campagna contro di lei come l'aveva condotta, senza risparmio di mezzi e di denari, contro Simona Torretta e Simona Pari. Nella prima pagina di "Libero" di ieri c'è un titolo grandissimo, in testata, con la foto di Giuliana, e iltitolo dice così: "Non si dia più un euro per riavere gli ostaggi ingrati". Non so se vi rendete subito conto del significato esatto di questo titolo. Potrebbe essere tradotto in questo modo: "Il governo doveva lasciare morire la Sgrena perché lei è comunista". "Libero" sostiene che una persona che si rispetti, se qualcuno paga un riscatto per lei - per liberarla - una volta libera deve fare abiura dei suoi pensieri, della sua personalità, delle idee che ha, e deve assumere il pensiero (e gli interessi) di chi ha pagato. Naturalmente dentro questa polemica c'è molta strumentalità, molto provincialismo (del tipo del quale parlavamo prima) ma c'è anche un principio al quale, in realtà, difficilmente la destra riesce a sfuggire (e spesso noi non ne teniamo conto): la convinzione, sincera, che la cosa che vale più di tutte, al mondo, è il denaro, perché il denaro è l'unica rappresentazione totale delle merci, delle terre, delle materie prime, del lavoro e del pensiero. Il denaro è lo strumento di organizzazione e di remunerazione di tutte queste cose, e dunque tutte le rappresenta e a tutte è superiore. Pagando il riscatto per Giuliana Sgrena il governo ha comprato Giuliana.

Per fortuna non è così. E per fortuna la destra italiana, che riesce spesso a vincere le elezioni e anche a imporre pezzi fondamentali del suo pensiero e del suo senso comune (il bigottismo, il gerarchismo, il machismo, il forcaiolismo, l'egoismo) su alcuni temi resta minoritaria e perdente. Per esempio su questo tema: la superiorità del denaro sul pensiero e sullo spirito.

Gli attacchi a Giuliana però non sono venuti solo da "Libero" e da destra. Si sono aperte su di lei discussioni sconclusionate sostenute anche da giornalisti valenti e autorevolissimi. Persino il principe di tutti i giornalisti, Scalfari, è intervenuto e ha rimproverato a Giuliana Sgrena alcuni errori professionali. Quale è stato l'errore di Giuliana? Essere rimasta troppo tempo nello stesso posto (era stata lei stessa, peraltro, a riflettere su questa sua ingenuità). Ma cosa cosa c'entrano le ingenuità coraggiose, come quella di Giuliana, con gli errori professionali? Credo che abbiamo perso del tutto il senso e lo scopo della nostra professione. Fare i giornalisti - mi hanno insegnato da ragazzo, e io ci avevo creduto - serve a informare, a diffondere notizie, conoscenze, verità. L'errore professionale è quando si ignora una notizia importante o se ne da una falsa, o quando si usa in modo arrogante il proprio potere di informare perseguitando qualcuno. Non è un errore professionale - sapevo io - rischiare qualcosa di proprio, forse anche la vita, per scoprire delle cose ancora segrete e per raccontarle ai propri lettori. Per esempio - era questo lo scopo di Giuliana - le infamie di Falluja. Anzi, è segno di grande coraggio, di intrepidezza, di passione. Sono doti delle quali noi giornalisti non sempre siamo ricchi. Non so se ne è ricco Scalfari, io poco. Non so come è abituato lui a comportarsi nei teatri di guerra. Credo però che dovremmo essere grati a Giuliana per averci fatto vedere come si fa. Invece di insolentirla, potremmo dirle: grazie. E' abbastanza facile, non costa niente.

Liberazione cambia giornale, l' Unità cambia direttore. Quella di ieri è stata una giornata alquanto movimentata per i due giornali facenti capo ai due principali partiti della sinistra - l'uno con un rapporto proprietario diretto con Rifondazione comunista, l'altro con un meccanismo indiretto che garantisce alla testata fondata da Gramsci i fondi pubblici per l'editoria dei Ds. Ma mentre il cambio della grafica e del formato di Liberazione era stato annunciato, un po' più a sorpresa è arrivata la soluzione alla lunga guerriglia che da mesi ha contrapposto la direzione dell' Unità all'azionista-ombra dei Ds: il direttore Furio Colombo, difeso dalla stragrande maggioranza della redazione, ha ceduto il passo al suo ex-vice e fedelissimo Antonio Padellaro. «Abbiamo vinto», hanno detto entrambi presentandosi all'assemblea della redazione; lasciando tutti soddisfatti sull'esito della vicenda ma alquanto dubbiosi sulla risposta alla domanda: ma allora chi ha perso? Liberazione è arrivata in edicola in formato «lungo»: l'addio al tabloid per il ritorno a un giornale «più scritto, più da leggere» è proposto dal direttore Piero Sansonetti - ex giornalista de L'Unità, da qualche mese chiamato a rilanciare il giornale bertinottiano in concomitanza con la svolta e il transito del partito verso Unione e governo - come la risposta a un cambiamento di fase e contesto politico. Il tabloid per la battaglia, il «giornalone» per pensare, leggere, portare materiali: una filosofia che ha il suo risvolto pratico-giornalistico più evidente nel ritorno della terza pagina di cultura. A una prima pagina più mobile - con un'apertura, un lungo articolo e due commenti - segue una foliazione più rigida (con la classica partizione tra esteri, politica, economia e lavoro, ecc.). L'articolo scritto in prima pagina ieri dava conto di numeri e schieramenti del congresso di Rifondazione, oggi sarà sulla Cina: «non è di norma legato al `fatto del giorno'», spiega Sansonetti. Che dice di aver avuto ieri solo complimenti, racconta quasi stupito di non aver avuto eccessive ingerenze né pressioni dal partito nelle sue varie correnti e chiede qualche giorno di tempo per fare bilanci.

A qualche chilometro di distanza, nella nuova redazione romana vicino Porta Portese, l'Unità viveva una delle giornate più intense dal 28 marzo 2001, giorno del ritorno in edicola dopo la clamorosa chiusura dell'estate precedente. Il consiglio di amministrazione della Nie (Nuova Iniziativa Editoriale), terminato all'una di notte, aveva emanato il verdetto: Antonio Padellaro è il nuovo direttore dal 15 marzo, Furio Colombo resta come editorialista. Mesi e mesi di braccio di ferro più o meno silenzioso con i Ds, e infine ore e ore di consiglio, per giungere alla più naturale delle successioni? Padellaro ammette che qualcosa non torna: «Eravamo d'accordo per una staffetta, ma non adesso: nel 2006, dopo le elezioni politiche. C'è stata un'accelerazione, il perché non lo so. Oggi Furio scriverà un articolo sul 'perché?', che resta una domanda senza risposta. So però che restiamo tutti e due, che la proprietà ha garantito il rispetto dell'autonomia del giornale, e piena libertà d'azione nella riorganizzazione della redazione a partire dalle strutture di vertice». Il direttore uscente all'assemblea che si è svolta ieri in redazione l'ha spiegata con una metafora: «Per tornare dall'America all'Italia ci vogliano più ore che per tornare dall'Italia in America. Questione di venti contrari». Venti contrari che hanno imposto al direttore che ha riportato in edicola l'Unità un passo indietro.

«Il perché? Chiedetelo ai Ds», ha detto meno diplomaticamente lo stesso Colombo in un'intervista al sito affaritaliani.it. I Ds, insoddisfatti del tono «urlato» del giornale di Colombo-Padellaro già all'indomani della vittoria di Berlusconi, e poi via via più insofferenti nella stagione dei movimenti, quel 2002 dei girotondi cavalcato da l'Unità lancia in resta; i Ds, che per l'Unità (come del resto per l'Unione) temono di essere «portatori d'acqua» senza ricevere niente in cambio; i Ds, che passano all'attacco non appena il vento editoriale cambia un po' e le copie vendute in edicola cominciano a scendere. I Ds, che fino all'ultimo hanno provato a imporre altri nomi, e che alla fine hanno ottenuto la testa di Colombo ma per ritrovarsela solo spostata un po' più in là (come editorialista in esclusiva per il «loro» giornale) e sostituita senza radicali cambiamenti di linea. Che abbiano perso anche stavolta? «In cinque ore di consiglio di amministrazione, non si è parlato mai di Ds», dice Giorgio Poidomani, amministratore delegato della Nie, che ieri sprizzava soddisfazione da tutti i pori. «Il cambiamento del giornale ci sarà, ma con la redazione unita», spiega. Un cambiamento affidato a Padellaro, «che è un ottimo professionista, tutti gli dobbiamo dare l'opportunità di provare la sfida». Dal punto di vista grafico, è pronta una riforma in più tappe, che arriverà al full-color. Quanto ai toni, «già da un po' stavamo sostituendo con un registro più ironico quell'aggressività iniziale che era necessaria per imporci, per far riaffermare l'Unità nelle edicole», spiega Padellaro. Un cambiamento che non sembra una de-colombizzazione. Reggerà? Nella redazione, che è rimasta compatta nella difesa della linea Colombo-Padellaro, serpeggia l'incertezza e il sospetto che tra qualche mese il partito tornerà all'attacco e la proprietà lo seguirà più decisamente. Ma, ammettono in molti, tutto dipende dal verdetto delle edicole. L'idea che il nuovo direttore sia in prova è invece del tutto smentita dal Cdr, che incassa la soluzione trovata ieri come una propria vittoria: «Colombo ha ripristinato all' Unità l'etica di un giornalismo libero, questo resta», dice Enrico Fierro del Cdr, che annuncia anche una «vigilanza» sulla riforma grafica («la fascia rossa resta») e un'iniziativa inedita: l'attivazione di «meccanismi scientifici di controllo sulla diffusione in edicola».

Due settimane fa, esattamente il 16 gennaio scorso, scrissi un articolo pubblicato con il titolo "La lunga battaglia intorno all’embrione". L’occasione era stata la sentenza della Corte costituzionale che, respingendo uno dei quesiti proposti dai promotori del referendum abrogativo della legge numero 40 sulla fecondazione assistita e ammettendone gli altri quattro, ha dato il via alla consultazione referendaria. In quell’articolo facevo alcune considerazioni sulla predetta sentenza e soprattutto sulla controversa questione denominata "i diritti dell’embrione" potenzialmente confliggenti con i diritti dei genitori.

Non tornerò su questo aspetto; tutto ciò che si poteva dire in proposito è stato detto e sarà certamente ripetuto quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale referendaria. Ma nel frattempo, il 17 gennaio, si è riunita a Bari la Conferenza episcopale italiana che ha ascoltato e approvato la prolusione del suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È proprio di questa prolusione che desidero oggi occuparmi; nelle sue dieci pagine a stampa essa compie una vasta rassegna dei fatti accaduti nei tre mesi trascorsi dalla precedente sessione della Cei toccando temi ardui dal punto di vista teologico e filosofico, per passare a temi di rilevante importanza etica e pastorale, affrontando infine argomenti più propriamente politici sia a livello europeo sia italiano.

Avviene di solito che quando la Cei si riunisce i mezzi di comunicazione, dandone notizia, concentrano la loro attenzione su qualche giudizio, indicazione, prescrizione, concernenti fatti di stretta attualità, trascurando il resto. Raramente la pubblica opinione conosce nella sua interezza gli atti delle riunioni episcopali e il testo della prolusione del presidente.

All’ombra di questo (inevitabile) silenzio della stampa è accaduto nel corso degli anni che l’attenzione della Cei si espandesse quasi senza più confini e coinvolgesse l’attività episcopale in temi del tutto estranei all’evangelizzazione e alla catechesi che sono propri della funzione episcopale.

È anche accaduto che i temi toccati non fossero soltanto estranei ma addirittura preclusi all’intervento della gerarchia ecclesiastica, senza però che tali e a volte macroscopiche interferenze venissero colte per quel che in realtà sono e cioè invasioni di campo da parte della Chiesa di domini di stretta competenza dello Stato e quindi lesivi di quel principio di laicità accettato e solennemente ribadito anche nel concordato che recita infatti: «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono nel proprio ordine indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti» e ancora: «La Repubblica Italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione».

Questi sono dunque i temi sui quali la Chiesa esercita il suo magistero, ovviamente in concorrenza con altre religioni e culti presenti sul territorio della Repubblica: evangelizzazione, carità, santificazione. Altre questioni che riguardano l’organizzazione della comunità civile, sono viceversa di pertinenza dello Stato e della società che esso rappresenta. Nulla vieta che la Chiesa fornisca ai suoi fedeli (che sono parte integrante della società civile) tutte le indicazioni di principio giudicate coerenti con la fede e la morale cattolica, mentre le è invece vietato ogni sorta di intervento sui comportamenti e le iniziative politiche, riguardanti una sfera di attività di esclusiva competenza delle istituzioni e dei cittadini, siano essi credenti nella fede cattolica o in altre religioni o non credenti affatto.

* * *

Alla luce di queste elementari distinzioni di campo tra attività religiosa e attività diciamo così temporale, sono rimasto sorpreso, dico la verità, dalla versatilità della Cei su una quantità di temi che non la riguardano.

Mentre la prima parte della prolusione Ruini apre la discussione su un argomento del massimo interesse religioso e cioè quello della sofferenza subita senza colpa dall’umanità e del rapporto tra Dio e gli uomini rispetto alla presenza del male nel mondo; e mentre questo tema eterno viene giustamente riproposto dal cardinal Ruini in concomitanza con il maremoto di recente avvenuto nel sud dell’Asia e delle immani rovine da esso cagionate; subito dopo si passa a discutere della Costituzione europea e in particolare della possibile ammissione della Turchia nella Ue e a quali condizioni una decisione in merito potrebbe avvenire.

Capisco che l’ammissione nella Ue d’un Paese quasi esclusivamente musulmano possa destare preoccupazione nella gerarchia cattolica la quale tuttavia, nel testo di Ruini, si limita a chiedere reciprocità in tema di libertà religiosa. Mi pare che ne abbia pieno diritto e che questa richiesta resti nell’ambito dei suoi legittimi interessi.

Molto più stravaganti sono altri temi. Li enumero citando il testo. «Negli ultimi mesi è stata ancora alta la tensione tra gli schieramenti politici ed anche, a fasi alterne, all’interno di ciascuno di essi come pure non di rado tra le diverse istituzioni... L’approvazione di alcune riforme è avvenuta in questa chiave di conflittualità che condiziona inevitabilmente la loro accoglienza e il loro concreto valore».

Personalmente posso anche condividere questo giudizio, più volte del resto enunciato dal presidente della Repubblica. Ma mi domando a che titolo ne parli il presidente della Cei sulla cui bocca parole di questo genere risultano improprie e stonate. Che cosa direbbe il cardinale Ruini se un ministro della Repubblica nel corso di un dibattito parlamentare si esprimesse in merito ad un conflitto, che so, tra la Curia vaticana e l’Ordine dei gesuiti o tra la medesima Curia e l’associazione degli Ordini delle suore, a proposito delle rispettive iniziative e/o dell’autonomia e/o delle competenze richieste da una parte e negate dall’altra? Non griderebbe, e giustamente, il Vicario del Papa alla violazione dei principi concordatari che vietano allo Stato di occuparsi di questioni attinenti alla vita interna della Chiesa? E non si pongono così le premesse, con l’aria di formulare opinioni di comune buonsenso, al progressivo ampliamento della presenza ecclesiale in campi che non la riguardano affatto?

Così per quanto riguarda la legge finanziaria «tesa a stimolare lo sviluppo» ma «sul versante delle famiglie, pur in presenza di alcune misure apprezzabili, i criteri impiegati rimangono però poco idonei a perseguire quella politica organica che sarebbe meglio promossa dall’adozione del quoziente familiare».

Lo ripeto: non contesto il merito di tali indicazioni; ne contesto l’ammissibilità da parte di un’istituzione ecclesiastica la quale non solo non ha titolo ma alla quale è espressamente precluso di inoltrarsi su questo terreno, anche a salvaguardia dell’autonomia e della laicità degli stessi cattolici politicamente impegnati. Ad essi è lecito che la Chiesa ricordi il suo interesse verso la famiglia ma non che prescriva addirittura le specifiche norme che il Parlamento e il governo dovrebbero adottare per render contento l’episcopato italiano.

Stesse osservazioni mi sento di dover fare sulla legge "salva-Previti" nella prolusione di Ruini esplicitamente citata e criticata. Quando ho letto quelle righe me lo sarei abbracciato, il cardinale; ma poi mi sono detto: io posso scrivere dieci articoli contro quell’obbrobrio di legge, ma la Conferenza episcopale non ha alcun diritto di occuparsene ed è dunque mio dovere di cittadino difendere la separazione del potere civile da quello religioso. In un solo caso quest’ultimo può denunciare una legge dello Stato: quando essa violi il principio della libertà religiosa, i diritti dell’uomo e la sua dignità. Può darsi (non sono lontano dal pensarlo) che la "salva-Previti" leda quei diritti violando in particolare quello dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Ma allora bisogna dirlo esplicitamente e non ripararsi dietro «la diffusa perplessità di una legge che genera il sospetto d’aver di mira situazioni di singole persone». È un giudizio troppo severo o troppo poco per giustificare l’intervento della Chiesa su un provvedimento in discussione nel Parlamento della Repubblica.

* * *

Ma vengo all’aspetto più eclatante della prolusione Ruini, fatta propria da tutti i vescovi della Cei. Riguarda il referendum abrogativo della legge 40. Lo ripeto: non entrerò nel merito della questione ma mi limiterò all’analisi del documento del cardinale.

Egli parte da un’affermazione: la legge 40 non soddisfa appieno le esigenze della Chiesa in materia di fecondazione medicalmente assistita; è troppo permissiva per i gusti della gerarchia ecclesiastica. Tuttavia disegna un impianto apprezzabile che, allo stato dei fatti, è il massimo che si possa raggiungere. Ne consegue che ogni modifica di quella legge non può che peggiorarne la qualità dal punto di vista della Chiesa. Perciò essa non va emendata. Bisogna invece mobilitare le coscienze affinché il referendum abrogativo fallisca. La Chiesa farà di tutto perché ciò avvenga e si riserva di decidere, in prossimità della consultazione, quale sia la via migliore da seguire: se votare "no" oppure disertare dal voto e impedire così il raggiungimento del "quorum" necessario per la validità del referendum.

Eminentissimo cardinale, mi auguro che lei e i suoi confratelli non vi siate resi conto d’esservi inoltrati su un terreno all’ingresso del quale è scritto in caratteri cubitali che a voi, proprio a voi, è precluso l’ingresso.

Voi potete dire e ridire fino alla noia che l’embrione è una persona, così come i vostri confratelli di quattrocento anni fa sostenevano che il sole gira intorno alla Terra e misero in catene il grande scienziato che sosteneva il contrario. Ciò che invece non potete assolutamente fare è di prescrivere agli elettori quale sia il modo più efficace per impedire l’abrogazione (parziale) d’una legge attraverso il legittimo esercizio del voto popolare.

Qualche dubbio deve averlo avuto anche lei, caro Ruini, quando a conclusione del suo testo ha scritto: «Siamo consapevoli delle difficoltà che ci attendono e delle critiche cui potremo essere sottoposti. È però doveroso per noi esprimerci con sincerità e chiarezza e siamo sostenuti dalla coscienza di adempiere alla nostra missione».

Lei sarà pur convinto di adempiere alla sua missione prescrivendo agli elettori se debbano votare o no. Ma sta di fatto che con il documento letto a Bari il 17 gennaio lei, presidente della Cei, ha violato gli articoli 1 e 2 del Concordato Lateranense. Se avessimo un presidente del Consiglio di normale sensibilità per le prerogative e la dignità dello Stato, lei avrebbe già ricevuto una nota di protesta dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede.

Ma noi non abbiamo purtroppo un presidente del Consiglio che senta questo tipo di doveri. E infatti egli è proprio colui che ad una Conferenza episcopale così poco riguardosa dei principi di laicità fa più comodo di avere come frontaliere. Posso capirla, caro cardinale, ma deploro profondamente questo modo di procedere.

A due anni dal crack della Parmalat, con mezzo mondo bancario inquisito per aver piazzato presso i risparmiatori titoli che si sapevano marci, col banchiere difensore dell'interesse nazionale in galera e il suo ex governatore in pensione forzata, il governo Berlusconi-Tremonti detta la sua versione della tutela del risparmio, cioè dei nostri soldi: permettere alle imprese di falsificare i bilanci e al governo di prendersi anche la Banca d'Italia. Appena sparita dalla scena (fuori tempo massimo) la massa ingombrante di Antonio Fazio, ecco riapparire nuda e cruda la massa critica del coagulo di interessi che ci governa. Litigiosa, contraddittoria e in affanno quanto si vuole, ma al momento cruciale sempre cementata dal solido principio proprietario: chi vince (o compra) prende tutto. Ognuno è padrone in casa propria, e pazienza se la «casa» coincide con la cosa pubblica. La questione del falso in bilancio, che aveva inaugurato la legislatura, la chiude simbolicamente e scandalosamente. Sotto il roboante titolo della Tutela del risparmio e sull'onda emotiva dello scandalo che ha travolto l'unica istituzione che era uscita indenne dalla prima repubblica, il governo si presenta alle camere chiedendo di alleggerire la repressione penale per chi trucca i bilanci delle società. E impone la fiducia su un testo che spacca il capello in quattro tra reato di «danno» e di «pericolo», che chiude un occhio su truffe in modica quantità, che salva le società non quotate. Anche se non ci fosse in corso un processo che riguarda il capo del governo e la sua società (non quotata), ci sarebbe da chiedersi con che faccia si possa spacciare tutto ciò per Tutela del risparmio.

Il resto segue, e va nella stessa direzione. I criteri di nomina del nuovo governatore, che mettono il pallino nelle mani del governo, e più ancora di questi i nomi che circolano in queste ore - tra i quali c'è addirittura un fresco ex-ministro della stessa maggioranza di governo - rischiano di mettere una pietra sull'indipendenza della Banca d'Italia, completando così in pochi giorni il lavoro avviato da Fazio, con la sua ostinata resistenza a muoversi, negli ultimi mesi. Il pasticcio sui poteri in materia di concorrenza tra le banche, attribuiti in comproprietà a Bankitalia e Antitrust, rivela la scelta di non scegliere dopo due anni di braccio di ferro sull'argomento. E le foglie di fico sulla tutela dei risparmiatori, con l'istituzione di un ridicolo garante - un altro dipartimento da istituire in fretta e furia presso la presidenza del consiglio, magari per amministrare quell'altro ridicolo «fondo» che la legge finanziaria mette a disposizione delle vittime dei crack: quali vittime? con che criteri? e con quali soldi? Il riccone che ha speculato e ha perso, o il pensionato che si è lasciato convincere a investire la sua liquidazione in bond Cirio?

La stagione dei crack, degli scandali e dei furbetti sembra così chiudersi con la vittoria dei furboni. Tramontato Fazio, Tremonti si gode la sua rivincita, Berlusconi - il cui ruolo dietro le quinte delle scalate non è ancora ben chiaro, ma il cui atteggiamento pilatesco sulla vicenda Bankitalia è stato chiarissimo - mantiene ferma la cifra di tutta la sua vita politica: l'interesse personale. Forse stanno ancora decidendo se a questi scopi sia più utile piazzare in Banca d'Italia un governatore amico - Ciampi permettendo - o cercare un'intesa bipartisan sul nome del futuro governatore - magari un nome che salvi anche la faccia dell'Italia. Ma nell'attesa del nome resta la sostanza. E resta quel piccolo comma sul falso in bilancio, imposto con voto di fiducia, che illumina l'intera operazione.

Titolo originale: A new left turn for Europe– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Quindici anni dopo la cadute del Muro di Berlino, l’eredità del comunismo sta lasciando un nuovo segno nel panorama politico. Spesso si è trattato di “rinnovarsi o morire”, e rinnovarsi ha significato nuove alleanze, che avrebbero fatto rivoltare nella tomba i padri fondatori.

Ma in molti paesi, una sinistra ibrida sta sviluppando la capacità di riempire il vuoto sempre più ampio che si crea mentre i partiti socialdemocratici come il Labour in Gran Bretagna o la SPD in Germania, adottano alcune politiche della destra. Il cauto ottimismo di Oskar Lafontaine in Germania, uno dei primi a combattere dall’interno questa tendenza, ne è un simbolo.

Lafontaine e il nuovo Linkspartei che guida, si muovono sul palcoscenico europeo. Il partito è stato fra gli organizzatori del primo congresso di questo nuovo animale politico, lo European Left Party (ELP). Ben 360 persone hanno partecipato al congresso tenuto a Atene nello scorso fine settimana. Si andava da protagonisti significativi sulla scena europea, come il Partito della Rifondazione Comunista, partner radicale nell’Unione di Romano Prodi, la coalizione che spera di scalzare Silvio Berlusconi nell’aprile del prossimo anno, sino a piccole formazioni come il Partito Comunista dell’Estonia, liete di “far parte di qualcosa di grande”, per dirla col suo delegato Sirje Kingsepp.

Quello che hanno in comune è l’impegno a rinnovare la sinistra nel quadro di una strategia comune europea. Erano assenti i partiti comunisti ortodossi, come quelli del Portogallo e della Grecia.

Frequentatore abituale delle riunioni all’Internazionale Socialista, Lafontaine è in un’ottima posizione per giudicare la particolarità del nuovo attore politico: “La differenza è che qui i partiti sono impegnati in una strategia di dimensione europea” dice. “Uno degli errori dei gruppi socialdemocratici [nel passato] era che fossero troppo preoccupati delle questioni nazionali. Era molto difficile trovare soluzioni a livello europeo. Qui la situazione è migliore”.

Lafontaine concede che una delle ragioni di ciò è che i partiti riuniti allo Stadio della Pace e dell’Amicizia, poco fuori Atene, sono anche fuori dai governi. “I partiti di governo sono sedotti dalle priorità nazionali. Qui c’è una discussione migliore, senza i pericoli dell’opportunismo”.

Ma che dire, del pericolo di impotenza? Si è discusso di campagne a scala europea: contro la direttiva Bolkestein sulla privatizzazione dei servizi; per i diritti degli immigrati e dei richiedenti asilo; per il ritiro delle truppe dall’Iraq. È stato eletto un esecutivo col compito di coordinare le varie iniziative, non solo fra i partiti componenti, ma anche movimenti sociali e sindacati.

L’intenzione è di creare un attore politico e un’identità europei: qualcosa di più dei blocchi all’interno del parlamento europeo, che sono essenzialmente gruppi di pressione su temi nazionali. Uno dei componenti dell’esecutivo ha ipotizzato che alle prossime elezioni europee i partiti potrebbero presentare candidati sotto il simbolo dello ELP oltre al proprio, e magari scambiarsi i candidati attraverso i confini.

I delegati guardano a questo obiettivo pan-europeo con apparente fiducia. Lo slogan dell’evento era “ Possiamo cambiare l’Europa”. I delegati francesi vantavano ancora la vittoria nella campagna per il NO alla costituzione europea. Secondo loro la vittoria non è stata solo nel numero di voti, ma nel fatto che la maggioranza è stata conquistata senza sollevare pregiudizi antieuropei, con argomenti a favore di una Europa alternativa. Un effetto collaterale è stato la stessa campagna, che ha radicalmente trasformato la sinistra francese, producendo un riallineamento impensabile cinque anni fa.

Un segno di ciò era il presentarsi insieme di Alain Krivine, leader della Ligue Communiste trotzkista e antagonista storico del Partito Comunista francese, e dei dirigente dell’ala sinistra del Partito Socialista che avevano rotto con la linea di maggioranza per sostenere la campagna.

”Questa esperienza ci ha dato la sensazione che potevamo vincere, che non eravamo marginali” spiega Elisabeth Gautier, delegata del Partito Comunista Francese e rappresentante di Espace Marx, fondazione aperta di ricerca e dibattito.

I delegati italiani condividono questa fiducia. Sono arrivati pieni di entusiasmo dopo l’esperimento di tenere le primarie per la scelta del candidato dell’Unione contro Berlusconi. “Ci aspettavamo 2 milioni di partecipanti e invece sono stati 4,3. È un segnale di come la gente parteciperebbe alla politica se ne avesse la possibilità” spiega Salvatore Cannavò del Partito della Rifondazione Comunista.

La stretta collaborazione fra i partiti impegnati nello ELP rende questo tipo di innovazioni attraenti. È l’arricchimento incrociato di culture politiche, uno dei principali risultati del nuovo partito. “Abbiamo imparato molto dagli italiani” dice Christiane Reymann, femminista della PDS tedesca che ha guidato la rivolta al congresso di fondazione ELP contro il dominio maschile nel partito. “La loro influenza è stata vitale nella creazione del Linskpartei”.

L’esperienza italiana dimostra come i partiti hanno rinunciato a considerarsi un’avanguardia, e almeno tentino di vedere sé stessi come “un attore tra molti”, nelle parole di Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista. Lavorare insieme ai movimenti sociali richiede un cambio di cultura e di linguaggio. Una rete autonoma femminista, per metà nel partito, metà indipendente ma sostenuta con fondi del partito, ha cominciato a portare la realtà un po’ più vicina alla retorica. Le predominanti facce e capelli bianchi maschili del congresso, indicano che c’é molta strada da fare.

Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: George Bush: God told me to end the tyranny in Iraq – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

George Bush ha affermato di essere in missione per conto di Dio, mentre lanciava le invasioni di Afghanistan e Iraq, secondo un anziano politico palestinese in un’intervista che sarà trasmessa nei prossimi giorni dalla BBC.

Bush ha rivelato l’intensità del suo fervore religioso incontrando una delegazione palestinese durante il vertice israelo-palestinese tenuto nella località turistica egiziana di Sharm el-Sheikh, quattro mesi dopo l’invasione dell’Iraq guidata nel 2003 dagli USA.

Uno dei delegati, Nabil Shaath, a quell’epoca ministro palestinese, ha rivelato: “Il Presidente Bush ci disse: ‘Sono spinto a questa missione da Dio’. Lui mi ha detto, ‘George, vai e combatti questi terroristi in Afghanistan’. E io l’ho fatto. Poi ancora mi ha detto ‘George, vai e metti fine alla tirannia in Iraq’. E io l’ho fatto”.

Bush continua: “E ora, sento di nuovo la parola di Dio che si rivolge a me, ‘Vai a dare ai palestinesi il loro stato, a Israele la sua sicurezza, e fai la pace in Medio Oriente’. E per Dio io lo farò”.

Bush, diventato un Cristiano Rinato a 40 anni, è uno dei leaders più religiosi di tutti i tempi ad occupare la Casa Bianca, e il fatto gli da’ parecchio sostegno tra le media degli americani.

Poco dopo questo incontro, il quotidiano israeliano Haaretz riportò una trascrizione palestinese dell’evento, che conteneva una versione delle parole di Bush. Ma la delegazione palestinese era riluttante a riconoscerne pubblicamente l’autenticità.

La BBC ha convinto Shaath a registrare per la prima volta quella che sarà la prima puntata di una serie di tre sulla diplomazia israelo-palestinese: Elusive Peace, che inizia lunedì.

L’elemento religioso emerge come questione importante anche quando si dice che Bush e Tony Blair avrebbero pregato insieme nel 2002 al ranch di Crawford, Texas, durante il vertice in cui si concordò in via di principio l’invasione dell’Iraq. Blair ha seccamente rifiutato di confermare o smentire la notizia.

Mahmoud Abbas, primo ministro palestinese e componente della delegazione di Sharm el-Sheikh, ha dichiarato al programma della BBC che Bush aveva detto: “Ho un obbligo morale e religioso. Devo darvi uno stato palestinese. E lo farò”.

I commenti di Shaath arrivano contemporaneamente al discorso pronunciato da Bush ieri, allo scopo di rafforzare il sostegno americano alla guerra in Iraq.

Ha rivelato che USA e alleati hanno evitato almeno 10 gravi tentativi attentati da parte di Al Qaeda dopo l’11 settembre, fra cui tre contro gli USA. “Grazie a questi progressi, il nemico è ferito: ma è ancora in grado di sviluppare manovre a livello mondiale” ha detto. Ha poi aggiunto che i gruppi radicali islamici hanno usato una serie di scuse per giustificare i propri attacchi, dal conflitto con Israele alla Crociate di mille anni fa.

“Siamo di fronte ad una ideologia radicale con obiettivi immutabili: mettere in schiavitù intere nazioni e intimidire il mondo” ha proseguito.

Ha ammesso che Al Qaeda, guidata in Iraq da Abu Musab al-Zarqawi, e altri gruppi, hanno guadagnato terreno, ma che gli USA non se ne andranno sinché non sarà ristabilita la sicurezza. “Alcuni osservatori commentano che l’America farebbe meglio ad uscirne, diminuendo il numero delle vittime. È un’illusione pericolosa, da respingere con una semplice domanda: saranno più, o meno sicuri, gli Stati Uniti e le altre nazioni, con Zarqawi e Bin Laden che controllano l’Iraq, la sua gente, le sue risorse?”.

Nota: il testo originale di questo altrettanto originale pezzo, al sito del Guardian (f.b.)

Londra ancora sotto attacco. La stessa scena del 7 luglio: tre bombe nei vagoni della Tube, un quarto ordigno su un autobus, esattamente come due settimane fa. Lo stesso esplosivo. Probabilmente la stessa «rete» locale jihadista. Il significato simbolico è evidente: siamo noi, siamo molti, possiamo colpirvi ancora. E possiamo farlo nello stesso modo. Una sfida che solo l´imperizia dei nuovi stragisti non ha trasformato in una nuova terribile tragedia.

L´intento è evidente: seminare il panico. Colpire in uno dei suoi gangli vitali, il sistema dei trasporti, una metropoli occidentale: riuscire a paralizzare con il terrore chi aveva fatto della frase "Non abbiamo paura", una parola d´ordine sentita e condivisa da tutti.

È il terrore a lungo annunciato da Osama bin Laden nei suoi proclami, quando sosteneva che gli occidentali non sapevano che cosa volesse dire, contrariamente ai popoli musulmani, vivere nella paura. Ora, sembrano dire gli jihadisti di Londra, lo sapete. Il luglio londinese sembra, dunque, il segnale che l´attacco massiccio all´Europa è iniziato.

Piccoli gruppi locali possono causare, con i loro attacchi diffusi, enormi danni e vittime. Un esempio che, purtroppo, può essere seguito da altre cellule. Nel resto d´Europa e in Italia. Il rischio è che questo terrorismo a «bassa intensità simbolica», diventi endemico. La strategia di contrasto è quella più volte indicata dallo stesso Blair: prevenzione, intelligence, integrazione delle comunità musulmane in Europa. Ma il ciclo politico dello jihadismo europeo potrebbe essere solo all´inizio. La sua struttura cellulare ne favorisce la riproduzione. Il XXI secolo si apre con un problema enorme: estirpare le radici dell´odio verso l´Occidente di quanti hanno scelto la strada del radicalismo islamico. La natura della sfida è chiara: solo se si riuscirà a debellare il terrorismo jihadista si riuscirà a evitare che le sirene xenofobe intonino il canto della criminalizzazione dell´intera comunità islamica europea.

In caso contrario il rispettivo richiamo identitario inasprirà il conflitto. Anche questo è l´obiettivo degli jihadisti londinesi: fare dell´Europa il terreno dello scontro tra civiltà all´interno di un medesimo spazio sociale. Una prospettiva terrificante, che va scongiurata con ogni mezzo.

Al terrorismo di Al Qaeda rischia di non mancare la manodopera: c´è una gioventù islamica che si sente umiliata da un senso di inadeguatezza della propria appartenenza religiosa e culturale, che teme ossessivamente la contaminazione con il sistema di valori occidentale. Sensazione che coinvolge anche parte dei musulmani in Occidente, incapaci di vivere una non facile identità plurima. E che di fronte a un integrazione che può apparire, talvolta. soddisfacente sul piano economico e sociale ma non su quello culturale, fanno ricorso, saccheggiandone il repertorio simbolico, alla loro identità originaria. Un´identità di riserva, talvolta inabissata, ma come in un fiume carsico, pronta a riemergere impetuosamente nel momento in cui vi è bisogno di marcare una differenza antagonista. Identità rivisitata non secondo i canoni tradizionali ma attraverso quelli islamisti radicali, capaci di parlare a individui che vivono nella modernità, anche spuria, e di fornire risposte che semplificano la complessità di un ambiente sempre più permeato dal "politeismo dei valori". Quando quei giovani, occidentali o meno, si arruolano nelle file qaediste e decidono di "sacrificarsi" il loro obiettivo non è tanto la nascita o la liberazione di una nazione ma la ricostituzione della comunità. O meglio di una neo-comunità. Una neo-umma continuamente agognata ma impossibile da ricostituire, minata com´è in partenza dal suo essere comunque contaminata dalla quotidianità e dal contatto con l´Occidente divenuto globale. Il "martirio" diventa così, anche, l´inconscio tentativo di sfuggire alla morte della comunità impossibile; di spargere lutto per evitare di elaborare, nuovamente, il lutto. Quando questa "infelicità con desiderio" incontra la filiera organizzativa che la mette in forma, come nel caso londinese, il risultato è devastante. È il terrore.

Anche per questa sua funerea natura, per il suo "essere per la morte", il "martirio" neo-ummista è un alto fattore di rischio. La sua volontà autodistruttiva diventa collettivamente distruttiva. Il solo contrasto poliziesco o di intelligence non è sufficiente a impedire il proliferare e l´attivazione delle bombe umane. La battaglia delle idee, quella per l´interpretazione della tradizione religiosa, la ricostituzione di un senso della vita tra i giovani fedeli di Allah nel mondo islamico e in Occidente, diventa così parte integrante delle esigenze di sicurezza di ciascuno di noi.

Quindici anni e più di spoliticizzazione della società italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, più chiaro e più comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non è questo il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento referendario, che pure c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un alibi - l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale, culturale e politica, del referendum non è passata nell'opinione pubblica, che evidentemente l'ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire però che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco che la materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà personali, laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto della maternità, della paternità e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo della vita. S'era già visto del resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione con le gerarchie vaticane.

E' in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in questo vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla Cei di cantare vittoria contro «l'assioma modernizzazione-secolarizzazione», spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.

L'America che ha premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con molta convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell'apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di formazione dell'opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società, diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così, è da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione.

L’Europa sta tornando a combattere per il proprio Lebensraum, il suo spazio vitale? Al tempo dei nazisti Lebensraum voleva dire espansione, assoggettamento e annientamento di altri popoli: un processo culminato con il programma di schiavizzazione degli slavi e di annientamento "scientifico" di ebrei e zingari. Oggi la rivendicazione di uno spazio vitale significa barriere sempre più alte contro l’immigrazione di uomini e donne (non popoli, né nazioni; e meno che mai eserciti o Stati in armi); e poi, segregazione; internamento; cacciata e deportazioni, che sempre più spesso si concludono con l’eliminazione delle persone coinvolte: a volte fisica (in un naufragio o in un abbandono in mezzo al deserto); quasi sempre civile e umana.

Si associa alla rivendicazione del nostro Lebensraum, e della sua legittimità, proprio come allora, una vantata superiorità, etnica e culturale, della "civiltà" occidentale (su cui ci richiama, con martellante ripetizione, un’aspirante senatrice della Repubblica); o, più banalmente, la difesa oltranzista di un benessere, vero o presunto, fatto coincidere con il nostro stile di vita; stile di vita "non negoziabile", per usare un’espressione di Bush; anche se per lo più sotto attacco da parte di quegli stessi Governi che se ne dichiarano paladini.

Al posto dei forni verso cui venivano convogliati come mandrie gli "uomini di troppo" che i nazisti dovevano annientare, ecco ora aprirsi le discariche del deserto, verso cui risospingere, senza alcuna preoccupazione per la loro sopravvivenza, gli "uomini di troppo" che l’Europa, e per suo conto l’Italia, non vuole accogliere (Rimandiamo chi trova questo paragone eccessivo ai reportage sul tema che Claudio Gatti ha pubblicato recentemente su L’Espresso). Certo per ora si tratta di poche migliaia di refoulés, deportati in Libia e in Egitto, contro i milioni annientati nei campi di sterminio nazisti o sovietici. Ma quanto a misura, i profughi provvisoriamente sistemati in campi da cui non possono più uscire sono ormai oltre 20 milioni; alcuni dei quali da ormai tre e più generazioni. Che ne sarà di loro?

Per gli ebrei caduti sotto il tallone del Terzo Reich non c’era via di fuga possibile; le frontiere erano chiuse e la disponibilità ad accoglierli degli Stati che mantenevano con i territori di provenienza dei canali aperti si faceva di giorno in giorno più stretta: di qui la forza assunta dal sogno di Israele, di un territorio fisico dove ricostruire la propria Gerusalemme: un sogno dalle radici tanto forti, profonde e legittimate, da resistere al peggiore logoramento; fino a costituire probabilmente l’elemento di maggiore continuità tra il disordine dell’Europa di ieri e quello del mondo di oggi. Ma gli immigrati deportati perché per loro non c’è posto nel Lebensraum europeo magari dopo essere fortunosamente scampati a un naufragio, essere stati accatastati e violati come topi in un centro di permanenza temporanea (CPT), essere stati imbarcati in un viaggio verso il nulla dentro velivoli sigillati, sorvolando le coste da cui si erano imbarcati per un percorso di sola andata, perché il loro paese di origine non li vuole, non li sa nutrire, li massacra, li usa come carne da cannone – quegli "immigrati", dove troveranno mai la loro Gerusalemme?

D’altronde non è difficile immaginare che le dinamiche che si sviluppano in una barca che affonda, in un CPT sottratto a qualsiasi ispezione, o ai piedi della scaletta di imbarco per un volo di deportati, non siano molto differenti da quelle che si potevano innescare in un lager o in un gulag: mors tua, vita mea. La dottrina dell’annientamento dei clandestini non è ancora stata enunciata e forse non lo sarà mai (anche se già nella recente campagna elettorale c’è stato chi si è fatto raffigurare con la spada in mano, sopra un mucchio di cadaveri con su scritto "immigrati, terroristi, centri sociali, criminalità"); ma la pratica, quella sì, è già iniziata.

E’ merito di Zygmunt Bauman (Vite di scarto, Laterza, 2005) aver dato risalto, affrontando questo problema centrale del nostro tempo, all’analogia tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e di consumo e i "rifiuti umani" generati dai processi storici. Le successive modalità di smaltimento dei rifiuti umani si rivelano in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia: lo sviluppo capitalistico, durante la fase di accumulazione originaria, aveva creato un "esercito industriale di riserva" (è il termine utilizzato da Marx), cioè una massa di popolazione "superflua" che il colonialismo e l’imperialismo classico si erano incaricati di "smaltire", almeno per la parte eccedente il fabbisogno potenziale di una fase espansiva del ciclo economico, in territori conquistati in continenti lontani (per rendere più problematico il ritorno) e considerati "vuoti", solo perché abitati da popoli cui non si voleva riconoscere il titolo di membri del consesso umano.

Ma oggi il mondo è "pieno". Come non esiste più una noman’s land in cui abbandonare gli scarti della produzione e del consumo, perché la popolazione è cresciuta, si è sparpagliata e le infrastrutture hanno saturato il territorio – e per questo il problema dello smaltimento dei rifiuti, quasi ignorato agli albori dell’era industriale, ha acquistato un’importanza crescente – così non esistono più "frontiere", West, continenti, paesi, territori "spopolati": cioè privi, più ancora che di abitanti, di attività economiche e di presenze istituzionali (siano esse Stati legittimati dalla cosiddetta Comunità internazionale, ovvero "Signori della guerra" locali) verso cui convogliare la popolazione eccedente. Eccedenze che oggi e questa è la novità del nostro tempo si generano a ritmi molto più rapidi nei paesi già coloniali che nei paesi già colonizzatori. La discarica permanente, come sistema di smaltimento dei rifiuti, non è più praticabile. E’ stata sostituita, per ora, e in attesa di una soluzione definitiva, dal "deposito temporaneo", di cui i CPT, in Italia o all’estero, sono un esempio emblematico. Ma si tratta di un palliativo, perché all’orizzonte si delinea con sempre maggiore chiarezza la prospettiva del campo di sterminio: possibilmente gestito da una schiera di stati "ascari" – gli stessi verso cui alcuni servizi segreti inviano i sospetti che non possono torturare in patria disponibili a fare i kapo in conto terzi.

E noi? Il popolo dei non refoulés? Ci ritroviamo beneficiari, se non anche difensori, del nostro Lebensraum protetto contro le torme degli immigrati "invasori": pronti ad accettare i costi di questa protezione, per lo meno finché a pagarli saranno altri e a noi sarà data la possibilità di ignorarli. Sappiamo però come è finita in altri tempi la storia del Lebensraum; non solo per le sue vittime designate, ma anche per chi ne avrebbe dovuto beneficiare; e quali costi abbia comportato per tutti la pretesa superiorità di un popolo. Così, il parallelismo tra rifiuti umani e rifiuti materiali sviluppato da Bauman (la cui visione artigianale e preindustriale del riciclaggio, tuttavia, ancora legata più allo stato dell’oggetto dismesso che alle sue potenzialità, poco ci aiuta in questa ricerca) lascia comunque, intravedere una possibile via di uscita.

Sono stati i costi di smaltimento (non solo economici, ma anche ambientali, sociali e politici) sempre più alti, e non certo il desiderio di mantenere integre le risorse della natura, a sospingere, seppure con molta ritrosia, industria e governi lungo la strada del recupero e del riciclaggio, strumenti essenziali di salvaguardia del pianeta. Una valutazione rigorosa dei costi economici, ma soprattutto sociali, culturali e umani della difesa del Lebensraum europeo potrebbe sospingerci verso atteggiamenti più rispettosi delle "risorse umane" che la globalizzazione sta mettendo in circolazione in tutto il pianeta.

Crepuscolo del Cavaliere

Da Titano a Titanic. Da la Repubblica del 16 aprile 2005

IMPALLINATO come un qualsiasi governo Forlani, impastoiato nei riti peggiori della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi conosce la seconda crisi della sua alterna parabola ultradecennale da presidente del Consiglio. Nel ‘94 lo affondò Umberto Bossi, urlando contro i «porci democristiani» che osarono minacciare le «pensioni padane», propiziando la lunga e dolorosa traversata nel deserto del governo Dini. Nel 2005 lo affonda il post-democristiano Marco Follini, rompendo con "il fronte del Nord" leghista che ha preso in ostaggio la coalizione, snaturando irreparabilmente il progetto di un centrodestra responsabile e presentabile.

Manca il sigillo "tecnico" delle dimissioni del primo ministro. Ma dopo il ritiro della delegazione Udc dal governo, per Berlusconi è già, a tutti gli effetti, crisi politica. Il Cavaliere avrebbe un solo dovere. Recarsi dal Capo dello Stato per riferirgli l´esito negativo del vertice della Cdl, come aveva promesso di fare nell´incontro al Quirinale di tre giorni fa. Rimettere nelle mani di Ciampi il suo mandato. E poi chiedere immediatamente le elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione più corretta e lineare sul piano istituzionale. E invece Berlusconi la rifiuta, confermando la sua natura "aliena", al sistema di regole e alla prassi costituzionale: la crisi di governo non è un suo affare personale, che può regolare nei modi e nei tempi che gli convengono di più, come se si trattasse di un consiglio di amministrazione della Fininvest.

Ma a questo punto, il voto sarebbe anche la soluzione più sensata e conveniente dal punto di vista politico. Il Cavaliere non può governare senza l´Udc. Non si può illudere nemmeno di tirare a campare con l´appoggio esterno dei centristi. Sarebbe uno stillicidio estenuante per quel che resta della Cdl, e un´agonia insopportabile per il Paese. Senza Udc e Nuovo Psi il perimetro del centrodestra si riduce a 298 seggi alla Camera (rispetto a una maggioranza di 309) e a 140 seggi al Senato (rispetto a una maggioranza di 161). Con le riforme, il Dpef e una Finanziaria delicatissima da varare, in appena 59 giorni utili di lavori parlamentari, il governo sarebbe costretto al Vietnam quotidiano dei franchi tiratori.

Pur nel suo incurabile delirio di onnipotenza, anche il premier, almeno di questo, si deve essere convinto. Tenta di recuperare Follini anche a costo di sottostare a quello che gli deve apparire come un «ricatto intollerabile». Ma cerca di farlo a modo suo. Nascondendo la verità, a se stesso e al Paese. Manda Letta sul Colle, e si dichiara pronto ad andarci a sua volta, dimissionario, solo con la soluzione "chiavi in mano" della crisi. Con un Berlusconi-bis che finga di recepire le richieste programmatiche dell´Udc (le stesse scritte inutilmente un anno fa sul famoso "preambolo", che avrebbe dovuto chiudere la verifica). E che finga di esaudire la pretesa di «discontinuità» con correzioni marginali alla squadra di governo. Marco Follini non ci sta. E per ora tiene duro. Gli va dato atto, questa volta, di aver dimostrato coraggio e coerenza. Un "partitino" del 5%, per salvare almeno in apparenza la tradizione dorotea ma più nobile del cattolicesimo democratico, ha fatto saltare gli ingranaggi di quella che fu la felice "fabbrica del consenso" berlusconiana. Il coraggio e la coerenza che invece, ancora una volta, sono mancati a Gianfranco Fini. Ha le stesse perplessità di Follini sulla gestione "padronale" del Polo. Coltiva la stessa idiosincrasia politica rispetto al frontismo dittatoriale dell´asse Forza Italia-Lega. Ma di nuovo si è sfilato dalla resa dei conti. Confermando la cultura gregaria di An. Un "partitone" del 12%, immobile e imprigionato tra il suo passato (che lo risucchia nel gorgo impresentabile della destra sociale post-missina) e il suo presente (che lo costringe a un´adesione puramente utilitaristica alla "catena di comando" del premier). Una forza inutile, che risulta sdoganata per la storia (anche se con tanta, troppa fretta), ma non ancora per la politica. Una forza debole, che non riesce quasi ad esistere se non come sbiadito "correntone" del partito azzurro.

Su quali gambe potrà mai camminare allora una maggioranza del genere, quand´anche riuscisse a uscire da questa crisi? È questa la domanda vera, che oggi dovrebbe guidare le scelte del Cavaliere. Molto più che lo spirito di vendetta, sempre più dannoso per il Paese. O il falso mito dell´invincibilità, ormai offuscato da troppe cadute. Quello che è successo ieri, in fondo, era insieme inevitabile e impensabile. Inevitabile, perché il tracollo delle regionali ha solo sancito la fine conclamata di un modello politico, il berlusconismo, che in realtà era in stato comatoso già da un pezzo, e che solo l´irriducibile vocazione al combattimento del Cavaliere e l´ingestibile "vincolo di coalizione" dei suoi alleati tenevano ancora artificialmente in vita. Impensabile perché solo tre anni e mezzo fa questo stesso centrodestra, sotto le insegne trionfali dell´Imprenditore d´Italia, aveva conquistato nel Paese e in Parlamento la più ampia maggioranza della storia repubblicana, e aveva sbaragliato un centrosinistra costretto a vagare tra le macerie post-uliviste. In quel giugno del 2001, nell´opposizione lacerata da una sconfitta rovinosamente subìta e nell´altra metà dell´Italia inebriata dal "sogno azzurro" finalmente compiuto, il dibattito ruotava intorno a un unico dubbio: Berlusconi al governo durerà "solo" dieci anni, oppure andrà avanti per non meno di tre legislature?

Non è inutile ricordarlo, nel giorno in cui quella maggioranza si sfascia tra le spinte rivendicative di un´identità irrisolta e quel sogno naufraga sugli scogli di una leadership inaridita. Comunque vada a finire questa crisi, resta un dato politico, che pesa fino quasi a schiantarla sulla biografia berlusconiana: il Cavaliere ha fallito. È costretto a rinunciare alla sua grande ambizione (restare negli annali come il primo premier di un governo durato l´intera legislatura) perché ha dilapidato un patrimonio politico enorme. Ha demeritato per le ragioni esattamente opposte a quelle che Angelo Panebianco gli ha riconosciuto qualche giorno fa sul Corriere della Sera: non ha creato «una destra di governo», non ha «dato a questa destra un´ideologia spendibile contro la sinistra», non ha contrapposto «la visione dinamica e ottimista di chi scommette sul liberalismo economico, sulle virtù dell´individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità, civile e non solo economica, dell´impresa e del mercato». Con lui è salita alla guida del Paese una destra avventurista e populista, totalmente diversa e "altra" rispetto a tutte le destre al governo in Europa. Con lui, attraverso il patto di ferro con il Senatur, si è affermato un ideologismo socialmente "contundente" e politicamente radicale, nel quale non si può riconoscere quell´area "di mezzo", quell´elettorato moderato senza il quale non si governa un Paese in eterna transizione come l´Italia.

Con lui è andato al potere un premier che, attraverso l´esasperazione del suo conflitto di interessi, ha fatto strame del liberalismo economico. Un premier che, attraverso la pubblicizzazione della sua vicenda giudiziaria privata, ha ridotto fin quasi ad annullarla la soglia della moralità del profitto. Un premier che, come ha ripetuto proprio ieri il leader della Confindustria, non si è mai occupato seriamente della "centralità dell´impresa" (se non della sua Mediaset) e non ha mai praticato davvero le virtù del mercato (dove sono le privatizzazioni, dove sono le liberalizzazioni e le riforme degli ordini professionali?). Inchiodato a una formula improduttiva che Luca Lanzalaco (nel suo libro appena uscito dal Mulino, "Le Politiche istituzionali") chiama "riformismo declamatorio", Berlusconi non ha saputo rispondere alla domanda di modernizzazione che arrivava proprio dai suoi elettori. Di fatto, ha tradito il "blocco sociale" che lo aveva mandato a Palazzo Chigi, come ha riconosciuto perfino Sandro Bondi, sul Riformista di ieri.

Adesso, per uscire dalla crisi, il Cavaliere potrà anche farsi tentare ancora una volta dalle soluzioni più estreme. Potrà anche ricadere nell´azzardo, in puro stile dannunziano, di cui ieri scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio («c´è un anno di contratto ancora, e via, fino in fondo, fino al fondo»). Potrà anche rinchiudersi un´altra volta in trincea, sfidando tutto e tutti insieme alla Lega e ad An, fino alla fine della legislatura. Da solo, come ha sempre fatto, nella sua visione titanica, messianica e irrimediabilmente egotistica della politica. Ma ormai niente sarà più come prima. «Non vi libererete tanto facilmente di me...», ha tuonato ieri, all´apice della sua rabbia di monarca autocratico e spodestato. Per l´Italia è più una minaccia che una rassicurazione. La metafora è usurata, ma stavolta ci sta tutta: questo non è più Titano, è solo Titanic.

Mario Pirani Costituzione sfasciata

Non tutto è perduto; a condizione che l’opposizione cambi strada. Das la Repubblica del 23 marzo 2005

OGGI è una giornata tra le più nere per la nostra Patria da quando essa è risorta a vita democratica. Il Senato approverà, infatti, in queste ore, così come ha già fatto la Camera, una riforma costituzionale devastante. Entro tre mesi, quindi, il Parlamento potrà procedere alla seconda lettura, poco più di una formalità, poiché non saranno ammessi emendamenti e un rapido voto a maggioranza sancirà un esito scontato in partenza. Resterà, come ultima speranza, il referendum popolare che, peraltro, Berlusconi vorrebbe far slittare a una data posteriore alle elezioni politiche.

Quando in un discorso ai capi gruppo dell’Unione (11 marzo us) Romano Prodi mise in guardia gli astanti, ma altresì l’opinione pubblica, contro l’incombente pericolo di un testo che conteneva le premesse di una dittatura della maggioranza e, ancor più, di una dittatura del premier, non mancò chi considerò il suo intervento eccessivo e allarmistaPurtroppo Prodi aveva perfettamente ragione non solo per l’impianto dirompente di una riforma alla cui discussione e approvazione sono state imposte poche ore contingentate di dibattito parlamentare ma per la sostanziale timidezza e disattenzione con cui il centro sinistra ha affrontato un passaggio istituzionale di una gravità senza precedenti. È pur vero che a palazzo Madama i senatori del centro sinistra avevano durante tutto l’iter della legge esercitato una tenace azione di contrasto, ma questa non aveva trovato alcun riscontro esterno. In questo contesto persino i cartelli di protesta e la bagarre di ieri a palazzo Madama danno ormai solo l’impressione di un tardivo risveglio all’ultima ora dell’opposizione.

Esaminerò più avanti quelle che a me appaiono le colpevoli motivazioni di un simile comportamento. Ora vorrei partire dalla via d’uscita suggerita in extremis da Michele Salvati (Corriere del 19 us), a mio avviso del tutto improponibile. Il prestigioso economista (ormai anche politologo di valore) reputando fondato lo "sconcerto di fronte a un altra Costituzione, né più né meno... radicalmente riscritta... che modifica in profondità le funzioni e i poteri di tutti gli organi dello Stato... attraverso tempi strettamente contingentati, tanto che il maggior partito di opposizione si è visto assegnare un’ora e mezza per discutere i 57 articoli del testo", suggerisce all’Ulivo di giocare una carta: approvare con voto bi-partisan gli articoli sulla devoluzione e mettere così al riparo la Lega dal pericolo di un referendum abrogativo, chiedendo, in cambio, il rinvio del resto della riforma a una futura assemblea costituente, in concomitanza con la prossima Legislatura. Se questa idea, peraltro tecnicamente del tutto problematica, dovesse trovare uno sbocco, magari alla vigilia delle riletture al Senato e alla Camera, l’Ulivo non giocherebbe una carta "illuministica", come crede Salvati, ma si giocherebbe la faccia, per usare un eufemismo gentile.

La devoluzione, nella nuova formulazione, approfondisce le crepe all’unità d’Italia già inferte in una stagione di pulsione suicida dal centro sinistra al termine della passata Legislatura, allorquando modificò unilateralmente il Titolo V della Costituzione. Ora il nuovo testo non solo assegna la competenza legislativa esclusiva alle Regioni in settori decisivi quali la scuola, la sanità, l’assistenza (con la disarticolazione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale), con allegata la costituenda polizia regionale, ma vi aggiunge tutte quelle materie non comprese fra quelle riservate esplicitamente allo Stato, e, cioè, commercio, agricoltura, artigianato, turismo, industria (con eccezione per l’energia). Or bene, nei grandi e piccoli Stati federali, dalla Germania alla Spagna, dal Belgio al Canada la competenza non è mai esclusiva delle regioni ma è sempre mitigata da qualche clausola che legittima la potestà d’intervento federale anche nelle materie attribuite alla legislazione decentrata. La Costituzione tedesca, ad esempio, afferma che il Parlamento federale ha diritto di legiferare in ogni campo qualora questo sia necessario per tutelare l’unità giuridica o economica del Paese e l’eguaglianza nell’esercizio dei diritti dei cittadini. Negli Stati Uniti sono indicate solo le competenze federali esclusive, ma quando Washington lo ritenga necessario la Casa Bianca e il Campidoglio le estendono a piacimento: così, pur non essendo la Sanità compresa fra le materie federali, le fondamentali leggi sull’assistenza sanitaria (Medicaid e Medicare) sono approvate e finanziate su scala federale.

Tralascio altri esempi solo per ragioni di spazio. Comunque non vi è una costituzione federale paragonabile a quella che l’Italia si appresta a darsi e che ci trasformerà, se le cose andranno nel senso voluto da Berlusconi e Bossi, con l’acquiescenza imperdonabile dei loro alleati, in una specie di confederazione di regioni indipendenti. Basta riflettere ai contenuti della devoluzione per respingere, quindi, ogni idea di scambio che, oltretutto, determinerebbe un affievolimento del deterrente referendario, privato del potente anelito a salvare e ricomporre l’unità d’Italia.

Quanto al resto della cinquantina di articoli riscritti essi sconvolgono e in buona parte annullano la Costituzione repubblicana del 1947: definiscono una nuova forma di governo, cambiano la struttura del Parlamento, modificano i caratteri dello Stato, rivedono al ribasso i poteri degli organi di garanzia (Presidenza della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale, ecc.), rendono quasi ingestibile la formazione delle leggi. Non è poi vero che la riforma lasci integra la prima parte della vecchia Costituzione che riguarda i diritti fondamentali del cittadino. Questi diritti, formulati in linea di principio nella prima parte, formalmente non toccata, della Carta costituzionale, trovano concreta applicazione nella legislazione corrente che è regolata attraverso la cosiddetta riserva di legge. Il suo depotenziamento mette ora a rischio il diritto di famiglia, compresa la disciplina del divorzio e dell’aborto, il diritto del lavoro, compreso lo sciopero, le libertà sindacali, ecc, il diritto penale e quello civile, l’ordinamento giudiziario e la giustizia amministrativa. D’ora in avanti, se la riforma non verrà affossata dai cittadini, le leggi in moltissimi casi saranno il prodotto della volontà della sola Camera dei deputati, nella quale il premier, in forza del sistema maggioritario (costituzionalizzato dal nuovo art. 92) avrà, comunque, una maggioranza sicura (anche nel caso non abbia ottenuto la maggioranza dei voti). Le disposizioni del nuovo art. 94 forniscono al premier uno strumento fortissimo di ricatto sulla sua stessa maggioranza. Egli, infatti, è in grado di esigere l’approvazione in blocco di una legge da lui proposta, abbinandola alla questione di fiducia che, se negata, condannerebbe la Camera all’automatico scioglimento anticipato. Neppure una eventuale maggioranza sostitutiva, con l’apporto dell’opposizione, eviterebbe il decreto di scioglimento, anche se è pur vero che questa spada puntata contro eventuali dissenzienti ha due lame: in una coalizione con ali estreme riottose (ad esempio la Lega, ma analogo discorso può farsi per un governo dell’Ulivo con Rifondazione) se una di queste vuol far saltare il banco, le basta votare anche da sola la sfiducia per ottenere lo scioglimento del Parlamento. Come si vede ad occhio nudo è un testo che trasuda prepotenza e diffidenza, accompagnate da uno scambio improprio tra speculari poteri di ricatto.

Il tutto in un quadro che assomma il massimo della destrutturazione dello Stato unitario al massimo del centralismo autoritario. Berlusconi, se i suoi piani avranno successo, godrà dei poteri congiunti di Bush e di Blair senza le garanzie e i contrappesi che condizionano l’operato del presidente americano e del premier inglese.

Il primo, infatti, non dipende dalla fiducia del Congresso, può opporre il suo veto alle leggi, nomina i giudici della Corte suprema, ma, in cambio, non può sciogliere le Camere, mettere la fiducia sulle leggi, emanare decreti, far passare le sue nomine senza il severo vaglio del Senato; il secondo è sottoposto alla sua maggioranza che può mandarlo a casa e sostituirlo, come è accaduto alla Thatcher ed anche impedirgli di sciogliere i Comuni senza il suo consenso.

Si potrebbe continuare a lungo nell’analisi di questo osceno rifacimento costituzionale. Resta da chiedersi perché il centro sinistra sia rimasto tanto inerte e perché l’opinione pubblica sia stata lasciata praticamente all’oscuro (si è arrivati al cambio della Costituzione senza neppure chiedere un dibattito a Porta a porta, a Ballarò o a l’Infedele). Le spiegazioni potrebbero essere più di una: in primo luogo il complesso di colpa, senza il coraggio di una salutare autocritica, per aver, con la modifica del Titolo V, aperto il varco allo sfascio successivo, nel vacuo proposito di agganciare la Lega o di tagliarle l’erba sotto i piedi: in secondo luogo la speranza balorda che la CdL non avrebbe portato fino in fondo il disegno, una sottovalutazione che dimostra come non si sia pienamente afferrato quanto congeniale ad ambedue i soggetti sia l’alleanza tra Berlusconi e Bossi; in terzo luogo uno scadimento culturale che ha condotto, sia durante la Bicamerale che dopo, ad affrontare i temi del necessario aggiornamento della Carta senza un forte e coerente impianto costituzionale in testa, concependo i punti fondamentali come oggetto di possibile e fortuito scambio politico (così si è arrivati, ad esempio, da parte di autorevoli esponenti del centrosinistra ad abbracciare l’idea del premierato); qualche inespresso pensiero sui vantaggi, comunque, di una Costituzione "forte" nel caso di un futuro cambio di governo; infine l’idea sbagliata che della questione poco importi alla gente (i successi di pubblico delle iniziative volontarie dei Comitati per la Costituzione animati dalla Fondazione Astrid, da "Libertà e Giustizia", dai Gruppi Dossetti con l’adesione convinta delle tre Confederazioni sindacali provano come, viceversa, siano sensibili i cittadini non appena messi in condizione di percepire quale nefandezza si stia compiendo quasi all’insaputa).

Se fino a oggi le battaglie costituzionali sono state tutte perdute dal centro sinistra, è ancora possibile rovesciare le sorti finali del confronto. A condizione di svegliarsi e di cambiare linea.

Non credo che chi detiene Giuliana Sgrena sia così addentro alle cose italiane da aver voluto intervenire con il video e la sua supplica: «lasciate l'Iraq», quattro ore prima del voto al Senato sul rifinanziamento al contingente italiano. Saprebbe che in quella seduta ci sarebbe stata comunque una maggioranza per mantenere le truppe. Eppure la prima interpretazione dei giornali e delle tv è stata quella d'una super operazione preparata a fini italiani. Con quale fondamento? Nessuno. Tanto più se è vero che la consegna del video non è avvenuta ieri l'altro all'hotel Palestine, ma per strada a un giornalista che lo consegnò al comando americano e che questo l'ha passato, non senza esaminarlo, ai servizi italiani. La verità è che dei sequestratori non si sa nulla. E non si vuole ammetterlo, né ammettere che il ritiro sarebbe del tutto ragionevole, come hanno capito altri tredici paesi. Si preferisce discettare sull'abilità della nostra intelligence, scordandosi che quella che fa parte della «missione di pace» si guarda bene dal tenere d'occhio i nostri pochi giornalisti che sbarcano a Bagdad. Forse non ne chiedono l'assistenza, ma che intelligence è se non sa vigilare con discrezione? Certo non vigilava l'uscita dell'università da cui sarebbe necessariamente emersa Giuliana Sgrena, non ha notato le due auto ferme con otto uomini armati dentro, né è intervenuta mentre sequestravano la nostra compagna e le guardie di quel democratico paese sparavano in alto. Se - dice il governo - il contingente deve restare in Iraq per garantire la sicurezza, certo non è quella dei nostri concittadini. Che pure è il primo obbligo dello stato, quello per cui in cambio si sta alle sue leggi e si pagano le tasse. E' sciocca la battuta virtuosa: «Dai terroristi non ci si fa dettare la politica». Nessuno lo pretende. Dai terroristi lo stato deve proteggerti e se non ci riesce deve riscattarti. Lo pensava Moro, lo penso anch'io.

Ma nel pianto della nostra Giuliana c'era l'angoscia di chi non spera che il suo paese la ascolterà. E assieme l'amarezza del capire che qualunque cosa abbia fatto per il popolo iracheno ai suoi sequestratori non importava niente. Perché hanno sicuramente veduto Al Jazeera e sentito la condanna degli Ulema e di Al Sistani, ma lei resta per loro una occidentale e basta. Questo Giuliana ci ha detto: più forte di tutto è l'odio per gli occupanti. E questo dicono tutti quelli che testimoniano dell'Iraq, incluso gli ultimi mercenari americani - nella privatizzazione crescente della guerra sono, secondo Le Monde, oltre 30.000.

E' in questo quadro che, anche a non sentire pietà per la nostra amica, mantenere le nostre truppe in Iraq è privo di senso. Accresce l'odio e basta. Possono riempirsi la bocca di missioni di pace i nostri governanti, coprendosi sotto l'ala del poco glorioso comunicato 1.546 dell'Onu, di fatto avallante una guerra che aveva condannato. L'Italia è andata in Iraq soltanto per essere gradita a George W. Bush. La scarsa quantità dei nostri militari rende loro impossibile far altro che tenersi acquartierati, con scarse sortite per timore degli spari della guerriglia. Alle molto più numerose truppe americane non va molto meglio. I nostri uomini non servono né come pacificatori né come mediatori in una nazione sconquassata fra gli sciiti dell'iraniano Al Sistani, i curdi pieni di rancore, i sunniti esclusi o autoesclusi. In quel tumulto di furore e sangue l'occupazione unifica le etnie soltanto nell'odio che nutrono per essa, del quale il governo Allawi ha pagato il prezzo alle elezioni.

A che serve dunque il nostro contingente se non a garantire all'Italia uno spazietto nel bottino del dopoguerra, sul quale è ormai scesa la zampata americana? Andarsene non è soltanto salvare la vita di Giuliana. Se quel paese potrà risorgere e vincere le sue frange terroriste, lo potrà fare solo a occupazione finita.

Caso Sicilia, la Rai sconfessa Report

di ALESSANDRA ZINITI

PALERMO - Ora la patata bollente passa nelle mani di Giovanni Masotti e Daniela Vergara. Trasmissione "riparatrice" sulla Sicilia quella di "Punto e a capo" della prossima settimana su Rai 2 promessa dal direttore generale della Rai Flavio Cattaneo per placare l'ira del presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro, indignato per l'immagine dell'isola venuta fuori dall'inchiesta sulla mafia mandata in onda sabato sera da "Report" su Rai 3. Così almeno ha raccontato ieri Cuffaro ai giornalisti chiamati anche per annunciare l'invio di una lettera di protesta al presidente della Repubblica Ciampi e la richiesta di immediata convocazione della commissione di vigilanza della Rai.

Tanto indignato Cuffaro da resistere a stento alla tentazione di lanciare una sorta di rivolta del canone: "Certo, non potrò mai dire ai siciliani di non pagare il canone, ma mi rendo conto che dopo la trasmissione faranno un grosso sforzo nel continuare a pagare il servizio pubblico".

"Dire che la Sicilia di oggi è quella in cui l'80 per cento degli imprenditori pagano il pizzo o se ne vanno e quelli che restano sono costretti a vivere sotto scorta è un falso - ha detto il governatore - . Che ci provoca un grosso danno di immagine proprio in un momento in cui decine di grossi imprenditori del nord vengono ad investire nell'Isola e non certo perché sono collusi con la mafia. Quelli che pagano il pizzo saranno il 5-10 per cento. I magistrati dicono cose diverse? E io non ci credo. I dati veri dicono che il prodotto interno lordo in Sicilia nel 2003 è cresciuto dell'1,8 per cento, ben di più della media nazionale dello 0,4 per cento, e questa è la riscossa di un territorio, della sua voglia di impresa, della cultura della legalità".

Alle proteste di Cuffaro si aggiungono anche quelle dei ministri La Loggia e Giovanardi (ieri a Palermo) e quelle degli imprenditori. In una lettera al direttore di Rai 3, il vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno Ettore Artioli stigmatizza gli "odiosi luoghi comuni secondo i quali tutta la Sicilia sarebbe governata dalla delinquenza organizzata e tutti quelli che si ostinano a vivere e a lavorare in questa regione sono inevitabilmente complici e collusi con la criminalità". E mentre il sindaco forzista di Catania e medico personale di Berlusconi Umberto Scapagnini annuncia "la sospensione di ogni rapporto ufficiale con il servizio pubblico" e un fitto scambio di telefonate Palermo-Roma ventila anche una "ospitata" di Cuffaro in una delle prossime trasmissioni mattutine della Rai, il direttore della terza rete Paolo Ruffini respinge gli attacchi: "Questa polemica proprio non la capisco. Io sono siciliano e la Sicilia la amo veramente. E il programma della Gabanelli, che era assolutamente antiretorico, ha dato voce alla Sicilia perbene, mostrando proprio il contrario di quello che gli viene imputato, ovvero che esistono molti siciliani che si battono contro la mafia. Non è che vietando di parlarne si sconfigge la mafia, la si sconfigge anche denunciandola e dando voce a chi la combatte e la denuncia. Dando voce alla Sicilia perbene".

E a fianco della redazione di Report scende anche il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi: "Un reportage giustamente e fortemente impegnato ad analizzare la recente evoluzione del fenomeno mafioso in Sicilia. Solo fatti e realtà, per qualcuno forse scomodi".

Da sinistra il commento sconsolato dell'eurodeputato ds Claudio Fava: "Da presidente della Regione siciliana è accusato di aver favorito Cosa nostra, da spettatore televisivo si indigna per un documentario di denuncia sulla mafia. La psicologia del signor Totò Cuffaro è davvero bizzarra...".

Scoppia lo scandalo: parla di mafia

di CURZIO MALTESE

UNA bella inchiesta di Report su Raitre ha interrotto per una sera gli anni di omertà televisiva sulla mafia, con l'eccezione di qualche buona ma innocua fiction.

Puntuale è scattata la censura della maggioranza. Tutti in prima fila, gli esponenti siciliani di Forza Italia, il presidente della Regione Cuffaro, il sindaco di Catania Scapagnini, non per combattere la mafia ma il giornalismo anti-mafia.

Per difendere la "loro" Sicilia "diffamata e offesa" con "vecchie storie", frutto di pregiudizio politico. Senza neppure rendersi conto di usare gli argomenti, il linguaggio, le frasi fatte di un Totò Riina o di tanti mafiosi da film.

In verità i legami fra Cosa Nostra e politica erano stati appena sfiorati dal programma di Raitre, forse nell'illusione di scampare alla mannaia. Ma ormai nella maggioranza dei "61 collegi su 61" basta la sola parola "mafia" per scatenare reazioni isteriche, violente e a volte ridicole. Come la richiesta di ottenere una "trasmissione riparatrice" su Raidue per "mostrare l'altro volto della Sicilia", avanzata da Cuffaro e prontamente accolta dallo spaventapasseri di destra piazzato alla direzione generale della tv pubblica, Flavio Cattaneo. Che ci faranno vedere, carretti e balli folcloristici? Sono anni che in tv, Rai o Mediaset, ci fanno vedere l'altro volto della Sicilia, quello falso, dove la mafia non esiste.

Il torto di Milena Gabanelli e degli inviati di Report è di aver ricordato che la mafia invece esiste ed è tornata a controllare il territorio. Non si sono visti scoop o rivelazioni clamorose nella puntata dell'altra sera.

Soltanto l'ostinato, intelligente racconto di che cos'è la nuova criminalità organizzata, attraverso episodi piccoli e grandi. I tre incendi al locale gestito dal capo dei commercianti anti racket del siracusano, scanditi ogni nove mesi esatti, nell'incredibile impotenza delle forze dell'ordine. Le strane fughe a un passo dall'arresto di Bernardo Provenzano, che dev'essere da trent'anni l'uomo più fortunato del pianeta oppure uno che ha buoni informatori nelle istituzioni. Un'inchiesta seria, documentata, equilibrata, che ha dato voce per una volta alla Sicilia del coraggio e dell'onestà, l'ha fatta sentire meno sola. Un ottimo esempio di quel servizio pubblico che tutti, a parole, invocano dalla Rai.

La censura a Report è l'ultimo episodio di una lunga storia di televisione di regime, cominciata nel 2001 con la vittoria di Berlusconi e il proclama di Sofia contro Biagi e Santoro, proseguita con l'epurazione della satira e dell'informazione indipendente, fino alla grottesca sospensione del Molière di Paolo Rossi domenica scorsa. Ma è anche l'episodio più grave e triste, nella sua cinica prevedibilità.

E' prevedibile ma deprimente che un personaggio come Totò Cuffaro, che deve rispondere alla giustizia dell'accusa di favoreggiamento alla mafia, scateni pubblicamente l'ennesima campagna contro l'antimafia. E' altrettanto scontato ma triste che Forza Italia, il cui fondatore Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, metta alla gogna chi indaga sulla mafia. Possibile che nessuno, nel centrodestra, provi imbarazzo per questo processo alla rovescia? Non ci aspettiamo grandi prove di senso dello Stato dalla maggioranza. Ma se è vero che "la Sicilia non è soltanto mafia" neppuro lo è tutta l'Udc o Forza Italia.

E dunque perché lasciar parlare su questi temi soltanto una compagnia di indagati o condannati?

Quanto al danno che queste inchieste e perfino alcuni sceneggiati produrrebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia, vecchia accusa di Berlusconi, bisogna mettersi d'accordo. Un episodio come questo è destinato a fare il giro del pianeta, portando l'immagine più desolante di un'Italia omertosa, governata da amici degli amici.

Qualche mese fa le Monde ha rappresentato una vignetta con Berlusconi che presentava la sua squadra. Da una parte un gruppo di ciechi col bastone e i cani: "I miei elettori". Dall'altra un pugno di ceffi con coppola e occhiali da sole: "I mie collaboratori". La battuta è stata ripresa da tutte le televisioni del mondo, tranne una. Davvero un bel colpo d'immagine, altro che "La Piovra".

Dunque lo Scandalo. Lo scrivo con la maiuscola perché è grosso. Grave. Ma non si deve considerare come uno scandalo che riguarda le banche intese come sistema. Le più grandi ma anche le medie e le piccole ne sono fuori. E quindi tirarcele dentro è improprio e pericoloso.

Riguarda invece due operazioni pubbliche di acquisto (Opa) tentate una su Antonveneta e l´altra su Banca Nazionale del Lavoro che ne sono state oggetti (passivi) e Banca Popolare di Lodi e Unipol che ne sono stati invece i soggetti (attivi). Ma ciò che lo rende grave, anzi gravissimo, deriva dal coinvolgimento evidente della Banca d´Italia, del governatore Fazio, del capo della Vigilanza e (per omissione) del Consiglio Superiore e del Direttorio dell´Istituto. E questo è il primo aspetto della questione.

Il secondo aspetto da considerare è l´inesistenza del governo protrattasi per quasi sei mesi fino ad oggi. Il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ci ha fatto sapere l´altro ieri che questa inspiegabile e colpevole inesistenza cesserà martedì prossimo quando si riunirà un Consiglio dei ministri straordinario, tutto dedicato all´argomento e finalizzato all´approvazione di una norma da inserire nella legge sul risparmio, che è rimasta insabbiata per due anni nelle aule parlamentari perché la maggioranza aveva altro da fare.

Questa norma dovrebbe introdurre il mandato a termine del governatore per cinque anni e contenere anche un´appendice transitoria in forza della quale Fazio potrebbe essere licenziato istantaneamente dal governo unito per la prima volta del potere di nomina e di revoca sul governatore e sul Direttorio.

Il terzo aspetto riguarda alcuni partiti, con diverse gradazioni di responsabilità. Nell´ordine: la Lega, il partito trasversale pro-Fazio, Forza Italia, i Ds.

Ciascuno di questi aspetti merita un´analisi attenta che cercheremo di fare con la massima chiarezza e obiettività. Ma prima di addentrarci nel groviglio che si è creato è necessario cominciare da un preliminare che riguarda la magistratura.

Su questo tema osservo una (sospetta) uniformità di giudizio da parte dei politici, sia quelli di governo a cominciare dal presidente del Consiglio sia gran parte di quelli dell´opposizione. Quasi tutti concordano nel sottolineare che la magistratura di oggi

Insomma non è quella di Mani pulite, con l´evidente sottinteso che non commetterà analoghi errori, non sarà analogamente faziosa e giustizialista, non farà tintinnare manette.

Quella triste stagione (aggiungono) che fece tanto male all´Italia si è chiusa per sempre. Questo dicono i politici e ad essi fanno coro molti e importanti giornali, anch´essi "rinsaviti" rispetto ad allora.

Ebbene, io penso onestamente che i magistrati oggi all´opera sullo scandalo delle Opa non facciano altro che muoversi sul tracciato di Mani pulite, che poi non fu altro che un più incisivo funzionamento delle Procure e della magistratura giudicante dopo anni di fin troppo evidente sonnolenza della giurisdizione nei confronti dei reati contro la corruzione pubblica elevata a sistema di governo.

Errori e forzature furono certo commessi nelle inchieste di tredici anni fa e potranno esser commessi anche nello scandalo che abbiamo ora sott´occhi. Ma non tali da inficiare il risultato complessivo e finale. La magistratura di allora bonificò un terreno che la politica aveva lasciato imputridire per tutto il decennio degli anni Ottanta. Così oggi, perché anche oggi dobbiamo ai procuratori di Milano e di Roma e non certo alle forze politiche e al governo, se lo scandalo è emerso in tutti i suoi connotati e se il personaggio che ne è al centro si trova ormai in un angolo dal quale sarà assai difficile che possa uscire.

La magistratura italiana dunque una volta ancora ha reso un servizio al paese il quale deve avere sempre più a cuore la difesa della sua indipendenza.

E questa è la prima conclusione che lo scandalo ci suggerisce.

***

Sul primo aspetto, quello delle due Opa, esiste un tratto unificante e un altro che le fa invece radicalmente diverse una dall´altra.

Il tratto unificante deriva dalla circostanza che le prime Opa sulle due prede furono lanciate da due banche europee non italiane: la Abn Amro (olandese) su Antonveneta, la Banca di Bilbao sulla Bnl. Ad entrambe si oppose il governatore Fazio con affannato moltiplicarsi di appelli, incontri, incoraggiamenti, affinché si formassero cordate e intervenissero "cavalieri bianchi" a difesa dell´italianità del sistema, passando allegramente sopra alle direttive europee in materia di Opa.

In ossequio (interessato) alla difesa del tricolore bancario, nacquero due iniziative: si fece largo la Popolare di Lodi per Antonveneta e la Unipol per Bnl. Fazio fece tutto quanto gli era possibile fare per favorire sia l´una che l´altra, manipolando il calendario delle autorizzazioni e chiudendo tutt´e due gli occhi quando "l´italianità" gli suggeriva di chiuderli.

Qui però finisce il tratto comune e cominciano le differenze tra le due operazioni. Quella promossa da Fiorani si è configurata fin dall´inizio come un´azione truffaldina di manipolazione del mercato, uso di fondi illeciti, ruberie vere e proprie a danno dei depositanti, uso di prestanome e di società offshore e di complici.

Insomma, come si dice un po´ alla greve, un porcaio nel quale Fiorani e soci hanno inzuppato abbondantemente il pane a vantaggio di se stessi oltre che della banca di Lodi della quale da anni avevano fatto il centro delle loro malversazioni.

Niente di paragonabile è accaduto nell´operazione Unipol. Se ne possono non condividere gli obiettivi e l´adeguatezza delle garanzie, ma sulla liceità dell´operazione nessuno finora ha avanzato dubbi. E del resto l´atteggiamento della Bilbao è stato molto diverso da quello della Abn Amro, penalizzata quest´ultima con ben altra durezza dalle scorrettezze del concorrente e dalla complicità della Banca d´Italia.

Quando alcuni esponenti dei Ds difendono il diritto del movimento cooperativo a operare sul mercato alla pari con gli altri soggetti economici «nel rispetto delle regole», sostengono dunque una tesi perfettamente legittima, impugnabile solo per ragioni animate da faziosità politica.

Diverso tuttavia è il caso personale dell´amministratore delegato di Unipol. Risulta dall´inchiesta giudiziaria in corso su di lui che Consorte abbia ottenuto favori personali da Fiorani e lucrato vantaggi illeciti e personali da tali favori. Siamo ancora ben lontani dal rinvio a giudizio e ancor più da un processo vero e proprio, ma queste prime risultanze dovrebbero indurre i dirigenti Ds alla massima cautela e lontananza dal soggetto incriminato.

C´è di più. Già nello scorso agosto in un articolo sull´argomento avevo scritto che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un´Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato. Quando questo metodo non viene rigorosamente osservato ne derivano soltanto confusione e coinvolgimenti che, essi sì, costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti.

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Sulla grave latitanza del governo durata oltre sei mesi non c´è altro da aggiungere. Fecero eccezione sia Tremonti sia Siniscalco, che chiesero per motivi diversi le dimissioni di Fazio. Ambedue ci rimisero il posto e questo dice già molto sull´intera questione.

Ora si annuncia un provvedimento che dia al governo il potere di nominare e revocare il governatore, a cominciare da subito. E si profila in materia un accordo tra governo e opposizione, ovviamente senza che sia posta la questione di fiducia che renderebbe impraticabile quell´accordo.

Tutto bene perché se c´è un tema bipartisan è quello che riguarda la Banca d´Italia e la sua credibilità scesa ai più bassi livelli, che dev´essere senza ulteriore indugio recuperata.

Tuttavia un provvedimento che dia al governo poteri di nomina e revoca sulla più alta istituzione monetaria nazionale nel quadro, addirittura, della Banca centrale europea, investe una materia delicatissima sulla quale le forze politiche debbono osservare la massima attenzione.

Finora la nomina del governatore è stata un atto "plurimo"; ha implicato infatti il concorso sostanziale di tre distinte autorità: il Consiglio superiore della Banca, il governo, il presidente della Repubblica la cui firma del decreto di nomina non è (ripeto non è) un atto burocraticamente dovuto.

E´ buona l´idea che si individui nel governo anziché nel Consiglio superiore l´organo di iniziativa e di proposta.

Buona anche l´idea di sottoporre la proposta all´approvazione delle Commissioni parlamentari competenti, le quali dovrebbero votare con maggioranza qualificata associando quindi alla nomina e alla revoca anche l´opposizione. Ma è evidente che dev´essere altresì mantenuto il peso specifico della firma del capo dello Stato, cioè della più alta autorità di garanzia esistente nel nostro ordinamento. Il capo dello Stato rappresenta il garante di tutte le altre autorità di garanzia; per quanto riguarda la Banca d´Italia il suo ruolo deve perciò restare determinante dal momento stesso in cui comincia a prender corpo la scelta da compiere.

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Concludo. A differenza di Tangentopoli, dove l´intero sistema pubblico era entrato in crisi deformando la struttura stessa della democrazia, lo scandalo di oggi poteva e doveva essere evitato. Bastava l´azione preventiva degli organi di controllo; invece è stata necessaria quella repressiva della magistratura.

Auguriamoci che serva di lezione. A chi governa oggi e a chi governerà domani. Auguriamoci la sconfitta dei furbi e la vittoria degli intelligenti.

Finora è troppo spesso accaduto il contrario. Il vero cambiamento che attendiamo è proprio questo e speriamo che avvenga.

Cominciamo con l’eliminare le bassezze. Un esponente della comunità ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a manifestare davanti all’ambasciata dell’Iran giovedì sera non soltanto è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perchè ammalato o all’estero. Io sono in questa condizione. E però non a Pacifici, che una voltami ha additato come terrorista alle sassate dei suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perchè nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi; secondo, perchè non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di Fini e sotto l’egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la scena.

E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l’uscita di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta geografica, e miserrimo il rattoppo: ´Ma non sarà l’Iran a cominciare, e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per vent’anniª. Grave che una folla di giovani emeno giovani e financo di donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le strade di Tehran di questaminaccia simbolica.

Perchè è un mero simbolo, ancorchè pessimo. Non solo Israele è uno degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall’Iran, ma quel che gli ebrei hanno subito nel ‘900 fa dell’esistenza di una terra loro, dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo che l’umanità deve a se stessa. Se c’è qualcosa da cancellare è l’incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela incapacità di Israele di presentarsi come in stato d’assedio e quindi di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé. Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo stato di Israele mente il saggio Sharon riconosce pienamente l’esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno corda ai reciproci fondamentalismi.

Su questo l’appello a partecipare al presidio di giovedì non dice nè solo nè tutta la verità. E’ una manovra che fa comodo alla destra, viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo. Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un’analoga immagine: al venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel ‘900 la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono conseguite da parte della sinistra l’abbandono di ogni principio, e nei paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all’identità di sangue e terra. È giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all’ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro che una regressione dell’una e dell’altra molto al di qua del punto da cui si era partiti.

La fine dei laicismi arabi Ë una catastrofe per quei paesi: davvero solo gli ayatollah potevano liberare l’Iran dalla modernità poliziesca e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al venire meno di ogni progressismo arabo? E sono lo sette fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono terreno del populismo.

Così quel che potrebbe essere stato, anche nel caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che qualcuno si decida a dirlo.

Ma davvero è stato il Generale Agosto a sconfiggere l’appello di Paolo Flores d’Arcais e di altri intellettuali a candidare alle primarie un esponente della «stagione dei movimenti»? E davvero di quella stagione non è rimasto quasi più niente, poche gocce di benzina e basta per un centrosinistra destinato a vivere ormai di apparati di partito? Antonio Padellaro ha già dato la risposta fondamentale: il popolo protagonista di quella stagione ha scelto di votare Romano Prodi.

Ma è utile aggiungere qualche altra nota su passato e presente per dare un senso più preciso agli scenari attuali; e per aiutarci a non consegnare né a Berlusconi né alle oligarchie di partito l’immagine di un’Unione senza ossigeno civile.

Torniamo dunque per un attimo all’origine: all’urlo di Moretti, ossia al canonico punto di svolta (e di lancio) di quella stagione. Quella sera di febbraio del 2002 a Piazza Navona le migliaia di persone presenti non erano venute a sentire il regista, il cui intervento fu in realtà uno spettacolare fuori programma. Avevano invece raccolto l’invito alla mobilitazione per una «legge uguale per tutti» di quaranta parlamentari dell’Ulivo. I quali da mesi percepivano il rischio di farsi risucchiare da quello che Gramsci chiamava il «cretinismo parlamentare», ossia la conta imbelle di maggioranze e minoranze mentre la democrazia viene spolpata. Una risposta all’altezza della prima sequenza di leggi della vergogna, così si pensava, sarebbe stata possibile solo con il sostegno di un movimento di popolo. Era il ritorno sulla piazza (come a Firenze e Milano nelle stesse settimane) dopo una lunga stagione di latitanza. Per quei tempi fu un successo, che si avvalse anche dell’aiuto organizzativo di una sezione Ds del centro di Roma. Sul palco venne dato ampio spazio agli esponenti della società civile. Chiuse Moretti con la sua frase iconoclasta («Con questi dirigenti non vinceremo mai»). E suscitò un’ovazione ed effetti tonificanti. Ma resta il dato di fatto: sin dall’inizio parlamentari e società civile procedettero appaiati (nelle loro espressioni più vitali) nell’impegno per difendere le ragioni della democrazia e della decenza istituzionale.

La stessa manifestazione di piazza San Giovanni nacque sull’onda di una forte mobilitazione intorno al Senato (anche allora era agosto...) in cui, dopo un’occupazione notturna dell’aula della commissione Giustizia, si realizzò una indimenticabile fusione tra rappresentanti delle istituzioni e movimento. Di più: l’appuntamento del 14 settembre vide un impegno diretto di tutta l’opposizione (che saggiamente rinunciò a promuoverlo in proprio per facilitare una partecipazione dei cittadini trasversale agli schieramenti politici).

Come dimenticarlo? Per preparare la manifestazione in molte città vennero messe a disposizione le sedi politiche, le feste de l’Unità brulicavano di banchetti per l’organizzazione del viaggio a Roma, non ci fu associazione vicina a questo o quel partito che non si sentisse direttamente impegnata a portare almeno «un pullman a Roma». Non ci fu insomma, quella volta, la nascita di un popolo alla ricerca di una nuova rappresentanza politica. Semplicemente, da un lato si mobilitò un’Italia più incline all’associazionismo civile; dall’altro si espresse al meglio la nuova natura dei partiti, assai più fluidi e sciolti di una volta. Più disposti a «stare nei movimenti» in virtù di una somma di convinzioni individuali e in virtù di direttive centrali.

Non fu l’unico grandioso momento di quella stagione. Il sabato primaverile dei tre milioni di Cofferati, il febbraio successivo con altri tre milioni per la pace, segnarono un ciclo di partecipazione senza precedenti nella storia d’Italia, con cifre da fare impallidire il pur mitico Sessantotto.

Poteva durare all’infinito? Certamente no. I grandi movimenti si formano per combinazioni chimiche irripetibili allestite dalla Storia (da noi, pare, a cicli quasi decennali: ’68-’72, ’77, ’90-’93, 2002-’03). Questo spiega perché, fuori da quelle combinazioni chimiche, una nuova san Giovanni oggi non sia pensabile neanche per la SalvaPreviti, che pure è dieci volte peggio della Cirami. E perché oggi, diciamo dal lodo Schifani in poi, si lamentino vuoti politici su una sponda o sull’altra.

Talvolta con i cittadini più attivi che si sentono privi di una adeguata rappresentanza politica. Altre volte con i parlamentari più sensibili che si percepiscono, nei vuoti di attenzione dell’opinione pubblica, alla stregua di liberi professionisti dell’opposizione. E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il dato di fondo di questa quiete apparente dell’agosto 2005. Essa in fondo si è prodotta anche perché, da quel 2002, il centrosinistra ha infilato una vittoria elettorale dopo l’altra così che oggi il popolo dei movimenti guarda soprattutto a come potrà, dopo quella dura fase di resistenza, portare al governo i propri valori.

Certo, se qualcuno scommise, dopo il Palavobis, all’interno e all’esterno dei movimenti, sulla frana dei partiti del centrosinistra e dei suoi gruppi dirigenti anziché su un rapporto dialettico tra partiti e movimenti, puntò cioè su un processo di sostituzione affinché su un processo di scambio e osmosi, allora la delusione è legittima. Perché quei famosi dirigenti, nonostante tutto, anche grazie alla (provvidenziale) spinta critica dei movimenti, hanno vinto per ora tutte le prove. Non solo, ma proprio uno dei protagonisti del Palavobis, Roberto Zaccaria, è stato recentemente eletto a Milano nel collegio di Bossi a testimonianza che il rapporto dialettico c’è stato e ha funzionato anche a distanza di tempo.

Ma se la delusione nasce dall’atteggiamento attuale verso le primarie, essa davvero non appare giustificata. Per il semplice e solare fatto che quel popolo dei movimenti che per decine di manifestazioni ci ha chiesto unità (e rispetto per il patrimonio di entusiasmo che ci offriva) ha già deciso di votare Romano Prodi. Perché lo considera il punto di unità più avanzato possibile e dunque, anche per questo, il candidato che offre più possibilità di vittoria. E perché vuole, con il proprio voto alle primarie, metterlo al riparo da eventuali, sempre possibili, «congiure di palazzo» o pretestuose divisioni una volta che dovesse andare al governo.

Quanto alla presenza, nella competizione di ottobre, di esponenti della «stagione dei movimenti», essa, per onore di cronaca, ci sarà comunque. Ivan Scalfarotto (e gliel’ho detto con sincera chiarezza) non avrà il mio voto. Ma è indubbio che con «adottiamo la Costituzione» è stato attivo in tutta l’esperienza milanese nei momenti dell’onda alta e ha poi continuato a Londra con «Libertà e Giustizia»; non avrà notorietà o influenza mediatica, ma mi sembra onesto riconoscergli i titoli acquisiti sul campo, fra cui quello di averci messo almeno la faccia direttamente.

Su un punto decisivo Flores ha però ragione. Ed è che occorre fare di tutto perché gli elettori del centrosinistra sentano che il loro voto non servirà solo a battere Berlusconi. Che sentano che «vale la pena» votare per l’Unione. È questa una preoccupazione condivisa da molti, anche nei partiti, se è vero che iniziano a essere un po’ troppe, sia in sede locale sia in sede nazionale, le docce fredde che arrivano addosso a chi non aspetta altro che una svolta nei valori e nei metodi della politica. Che le primarie siano dunque il luogo giusto per dire che il popolo del centrosinistra c’è, partecipa ed è attento. Dopo sarà più facile, o meno problematico, ottenere che le scelte delle candidature esprimano una domanda di cambiamento.

Dopo sarà più facile, o meno problematico, avere un governo in cui possa riconoscersi il popolo che in quel cruciale 2002-2003 ha chiesto a voce più alta un’Italia civile, libera e pulita.

Titolo originale: Knowing me, knowing you – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

George Orwell sarebbe rimasto scioccato dal sostegno popolare alla diffusione delle tecnologie della sorveglianza.

non c’è dubbio sul fatto che il mondo sia entrato nell’era della sorveglianza: con il Regno Unito in testa. La Gran Bretagna ora ha oltre 4 milioni di telecamere CCTV operanti, angeli custodi della società secolarizzata. Se si tenesse un referendum sulla scia degli attacchi terroristici per sistemare telecamere in ogni strada, probabilmente vincerebbe a soverchiante maggioranza. Ciò sorprende lievemente, non solo per le implicazioni di lungo termine riguardo alle libertà civili, ma perché le videocamere non sembrano aver agito come deterrente per i terroristi, anche se hanno reso più facile identificarli dopo, vivi o morti.

Il metodo principale per rintracciare i sospetti di terrorismo è stato il monitoraggio delle conversazioni sui telefoni cellulari. Non solo gli operatori possono localizzare gli utenti con un margine di qualche metro “triangolando” il segnale da tre stazioni base, ma – secondo un’indagine del Financial Times – gli operatori (autorizzati dalla magistratura) possono installare da postazione remota un software sull’apparecchio, che attiva il microfono anche quando l’utente non sta chiamando. Chi ha più bisogno di una carta d’identità, se possono far questo?

Al vertice di tutta questo scrutamento ufficiale, c’è la moda crescente della sorveglianza personale da milioni di telefonini “ smart” dotati di telecamera e funzioni video, che diventano più potenti ogni settimana. Non passerà molto tempo, indubbiamente, prima che vengano inserite telecamere miniaturizzate dentro occhiali, con riprese che poi saranno spedite a un sito remoto per l’archiviazione.

La tecnologia ha indubbiamente aiutato i terroristi ad organizzarsi. Internet è uno strumento per il proselitismo dei fondamentalisti, per informazioni su attività come costruirsi le bombe, per tenersi in contatto con persone con gli stessi orientamenti, mentre i telefoni mobili offrono comunicazione costante e, in alcuni casi, un detonatore.

La tecnologia offre anche metodi senza precedenti per rintracciare i criminali. Ma ogni avanzamento nelle indagini tecnologiche genera una contro-reazione da parte dei terroristi. Nello stesso modo in cui c’è stato uno spostamento dal riciclaggio di denaro attraverso il sistema bancario internazionale (verso le transazioni in contanti) a causa dei migliorati controlli governativi, così gli eventi dello scorso mese potrebbero persuadere i terroristi ad abbandonare i telefonini a favore di forme di comunicazione più primitive, come le conversazioni dirette faccia a faccia.

Mentre la tecnologia continua a progredire a grande velocità, il modo di sapere chi siamo diventa spaventoso. Il numero in edicola di Business Week elenca i modi attraverso cui possiamo essere identificati esattamente a partire dal DNA e dalle schede di identificazione per frequenze radio (RFID) all’odore del corpo, al respiro, alla saliva. Ci sono anche scienziati al lavoro sul “riconoscimento da andatura”, in modo tale che in futuro le videocamere ci possano individuare in mezzo alla folla dal modo in cui camminiamo.

Il pericolo di tutto ciò è che poche persone obiettano, finché esiste una seria minaccia di terrorismo. Ma una volta (se?) passato il pericolo, l’infrastruttura della sorveglianza resterà. E allora potrebbe non essere la polizia a ricostruire un’immagine sfocata dalla folla per catturare un terrorista, ma un dipendente dell’impresa responsabile delle immagini a estorcere denaro da qualcuno trovato in situazioni compromettenti. Come osserva un redattore di Business Week “Traiamo la maggior parte della nostra sicurezza dalla libertà”. Se George Orwell fosse vivo oggi (21 anni dopo la Londra che aveva descritto in “ 1984”) rimarrebbe esterrefatto vedendo che il tipo di sorveglianza che temeva è sostenuto non da un governo che lo impone a milioni di abitanti ignari, ma da una spontanea approvazione popolare. Questo non costituisce un problema al momento. Ma lo sarà in futuro, sia che accettiamo di rinunciare alle libertà civili in modo permanente come risposta ad un’emergenza temporanea, sia che il costo di installazione delle infrastrutture divenga tanto enorme da erodere la nostra ricchezza personale. In ogni caso, Bin Laden avrebbe vinto.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

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