Il trionfo inglese dell’anatra azzoppata
Né i nostri centristi né i nostri riformisti hanno ragione: chi ha realmente vinto in UK è la sinistra. Da la Repubblica dell’8 maggio
MAGGIOR parte della stampa italiana e dei commentatori politici che ne illustrano le pagine ha salutato il risultato delle elezioni britanniche come una vittoria storica di Tony Blair, il leader che ha conquistato il terzo mandato consecutivo per sé e per il suo partito senza nulla concedere agli elettori del Labour anche se questa inflessibilità gli è costata un prezzo elevato in termini di seggi parlamentari e di carisma personale. "Così fanno i grandi statisti: quando avvistano un obiettivo che coincide con l´interesse generale del paese mantengono la barra del timone e alla fine ottengono rispetto e consenso", questo scrivono ammirati i nostri columnist.
Diversa, molto diversa, è stata invece la valutazione dei giornali inglesi di cui ha dato conto ieri Bernardo Valli con una precisa analisi di quanto è accaduto nella giornata elettorale di giovedì.
Il giudizio pressoché unanime del Guardian, dell´Independent, del Times e dell´Economist è che Blair sia stato ridotto dagli elettori a un´anatra azzoppata, che il suo terzo governo non durerà che pochi mesi e che nel frattempo dovrà cambiare molti punti del programma con il quale si era presentato alle urne. La sua maggioranza ai Comuni, che era di oltre 161 seggi, si è ridotta a 66, la percentuale dei voti ricevuti è arretrata dal 41 al 36 contro il 33 dei conservatori e il 23 dei liberaldemocratici. In sostanza più della metà degli elettori ha votato contro il premier; un dato che i meccanismi dell´uninominale secco non può comunque nascondere e che ha fornito a Blair una scialuppa di salvataggio costruita e guidata dal cancelliere dello scacchiere Gordon Brown, suo successore in pectore molto prima (prevedono gli analisti inglesi) di quanto lo stesso Blair abbia previsto.
I commenti italiani hanno una loro spiegazione: essi badano assai poco al significato inglese delle elezioni inglesi. Gli interessa molto di più trarre un significato italiano. Ma purtroppo per loro commettono un grossolano errore: se trattassimo gli attuali rapporti di forza italiani con la legge elettorale inglese, il Polo berlusconiano sarebbe spazzato via al punto da creare una situazione addirittura imbarazzante dal punto di vista della rappresentanza democratica.
Quanto all´inflessibilità della leadership blairiana i dubbi sono anche maggiori. Il premier riconfermato non deve aver letto i commenti encomiastici dei suoi ammirati cisalpini, visto che, subito dopo il deludente risultato, ha dichiarato: «Ho compreso il messaggio degli elettori. D´ora in poi darò il massimo ascolto alle loro richieste». Si può star certi che lo farà anche perché, se continuasse ad ignorarle, la fronda laburista e l´opposizione liberaldemocratica sarebbero in grado di costringervelo.
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Alcuni politici di casa nostra, sia pure con discordanti e talora opposte finalità, a proposito delle elezioni inglesi hanno sentenziato che nelle urne di giovedì "ha vinto il centro" aggiungendo che Blair ha ottenuto il terzo mandato perché il Labour ha cambiato elettorato e chi lo vota non è più di sinistra. Queste apodittiche conclusioni portano la firma di Follini, di Enrico Letta, di Rutelli, ma anche di Prodi, Fassino, D´Alema (che però non parlano di «centro» ma di «vittoria riformista») e infine di Bertinotti che ovviamente dà alla (supposta) vittoria del "centro" un senso dispregiativo.
Ma di quale centro si tratta? Di quale riformismo? Bisogna stare molto attenti al senso delle parole e alla loro effettiva corrispondenza con i fatti reali. Di questi tempi infatti le trappole lessicali possono produrre danni, errori e fraintendimenti molto azzardati.
I conservatori inglesi non sono un partito di centro.
Rappresentano una destra alquanto ammuffita, poco liberale, pochissimo democratica. Sulla politica estera hanno fornito a Blair più di una stampella ai Comuni. La loro più memorabile battaglia è stata quella contro l´abolizione della caccia alla volpe. Del resto, nel corso di due mandati e mezzo, la "Lady di ferro" fece in loro nome tutto il lavoro che c´era da fare lasciandoli disoccupati per un gran numero d´anni, che non sono ancora interamente trascorsi. Non sono certo di centro i conservatori inglesi, eppure hanno ottenuto un consistente aumento di consensi.
Il che non ha impedito che il loro leader si dimettesse all´indomani delle elezioni: conservatori ma molto perbene.
Qui da noi fatti di questo genere non si sono quasi mai visti (salvo il D´Alema dopo le regionali del ´99).
I liberaldemocratici sono un partito di centro? Formulo meglio la domanda: si collocano alla destra o alla sinistra di Blair? Sulla guerra irachena si sono costantemente schierati contro di lui e contro Bush. È di centro questa posizione? Soprattutto si sono schierati contro di lui perché sulle motivazioni di quella guerra (preventiva) il premier ha mentito al Parlamento. Questa è anche una delle ragioni per cui il 5 per cento degli elettori ha abbandonato il Labour.
Non solo e forse non tanto per la guerra, ma per la menzogna in luogo pubblico con la quale è stata motivata.
Capisco che in Italia un´accusa del genere sarebbe accolta da clamorose risate ma in Gran Bretagna non è così. Chi viene scoperto in flagrante bugia dinanzi ai Comuni viene marcato e pagherà lo scotto. Non si può fare. Ecco perché Blair è un´anatra azzoppata. (Berlusconi, altro che azzoppato, sarebbe da tempo un leader in carriola).
Forse i liberaldemocratici sarebbero di centro nella politica economica? Non mi pare. Diciamo che vogliono servizi pubblici più efficienti e sono disposti, come Blair e come Brown, a stanziare maggiori risorse per sanità, trasporti, scuola, stringendo le spese, a cominciare da quelle militari.
Diciamo (ma lo dicono loro stessi) che sono liberali di sinistra. Dunque, per loro autentica autodefinizione, col centro hanno ben poco a che fare.
Tant´è che nei prossimi mesi li vedremo spesso votare con i laburisti di sinistra contro il governo.
Gordon Brown è di centro? Non direi. Quando si scontrò con Blair dieci anni fa per la guida del partito, Brown aveva il vecchio Labour nel cuore e ce l´ha ancora, così dice.
Con la testa ne ha aggiornato l´approccio sociale: la middle class non è rappresentata dai sindacati e perciò spetta al Labour rappresentarla. La middle class vede che la scuola pubblica inglese è uno sfascio, i trasporti ferroviari privati sono uno sfascio, la sanità alterna punti di eccellenza con punti di degrado, le diseguaglianze non sono diminuite dopo nove anni di governo laburista.
L´economia va meglio che in Europa continentale, ma i timori di recessione lambiscono anche le bianche scogliere di Dover.
Se il vero esponente della middle class è oggi Brown perché Brown è il leader che dà sicurezza alle paure di impoverimento delle frange deboli della classe di mezzo; se Brown è il vero artefice di una vittoria elettorale ottenuta con la somma algebrica d´un consenso alla politica sociale e di un dissenso sulla guerra irachena e sulle menzogne che l´hanno motivata; se queste due affermazioni riflettono la realtà dei fatti, allora è sbagliato affermare che giovedì in Gran Bretagna ha vinto il centro.
Per la semplice ragione che il centro non c´è.
Il centro non c´è più in nessuna società evoluta.
Semmai esistono molti centri che si manifestano in diverse situazioni, si intersecano, si combattono, le stesse persone e gli stessi gruppi sociali sono al tempo stesso su posizioni radicali, moderate, conservatrici, progressiste, pacifiste, interventiste. Non c´è più uno specchio ma un prisma: queste sono le società di oggi.
Due punti restano fermi e costituiscono un discrimine: la spinta verso la libertà che metta a rischio la spinta verso l´eguaglianza e addirittura provochi il suo contrario, è una posizione di destra e non di sinistra. La spinta che soppianti lo Stato di diritto con l´arbitrio della maggioranza non è né democratica né liberale.
Blair ha avuto molti meriti, soprattutto quello di cercare un welfare inclusivo in un´economia dinamica. Ma avuto anche molti demeriti. Soprattutto quello di prendere decisioni di estrema importanza contrarie ai sentimenti e alle convinzioni della larga maggioranza della pubblica opinione. Questo modo di agire non è lungimirante. Non si governano società complesse senza la partecipazione, manipolando il consenso sulla base di bugie e false informazioni.
Il risultato è dunque denso di insegnamenti per tutti.
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Post scriptum. C´è ancora qualcuno che sostiene la tesi di un Iraq dove le cose si stanno mettendo finalmente sulla buona strada. Blair per esempio la pensa ancora così e lo dice. Anche Bush la pensa così, ma questo è ovvio.
Berlusconi non credo abbia ferme opinioni in materia, ma si adegua e promette che i nostri militari saranno presto in condizioni di tornare in patria «naturalmente d´accordo con gli alleati e con il governo iracheno». Il commento più pertinente su questa posizione l´ha fatto Andreotti in Senato in occasione del voto sulla fiducia: «Queste condizioni le vedremo realizzarsi tra qualche generazione».
È giusto non mescolare il doloroso caso Calipari con il ritiro delle truppe italiane dall´Iraq, ma è altrettanto giusto incalzare il governo a predisporre autonomamente la strategia di uscita dall´Iraq fissando
Anche se si trattava di elezioni locali, i risultati delle Regionali hanno messo in luce un vero e proprio andamento di carattere nazionale che va al di là delle specificità del confronto interno alle singole regioni. Ne consegue l'impressione diffusa che il valore politico della consultazione prevalga in larga misura su quello amministrativo. Lo suggerisce specialmente la notevole omogeneità territoriale di molti fenomeni, dalla variazione nella partecipazione all'intensità degli spostamenti di voto, sino, in certi casi, alle differenziazioni tra capoluogo ( ove il candidato del centrodestra ha generalmente più difficoltà) e resto della regione.
Da questo punto di vista, la novità più significativa, rispetto a tante consultazioni precedenti, sta nel fatto che questa volta si sono manifestati dei veri e propri spostamenti diretti da una coalizione all'altra e non solo da e per l'astensione. Ilvo Diamanti ha efficacemente definito questo fenomeno «la fine della glaciazione dell'elettorato italiano» .
Per la verità, alcuni di questi flussi erano già occorsi in occasione delle Europee dell'anno scorso: ma, certo, non in maniera così evidente. Non è dunque un caso, forse, se più di un quinto dei votanti afferma di avere individuato solo negli ultimi giorni il partito da scegliere. E se un altro 13% dice di averlo fatto appena qualche settimana prima.
Quanti manifestano una standing decision , dichiarando di avere deciso «da sempre» la forza politica da preferire, costituiscono ormai solo grosso modo un terzo dei votanti. La mobilità potenziale è assai elevata, così come lo è, di conseguenza, l'indecisione.
La vittoria del centrosinistra è fuori di dubbio. Se si raffronta il risultato di quest'anno con quello delle Regionali del 2000, si rileva che, a parità di partecipazione, complessivamente, il centrodestra ha perduto circa 2 milioni di voti e che altrettanti ne ha guadagnati il centrosinistra.
Ma è errato parlare genericamente di sconfitta del centrodestra. Lo possono fare i politici della coalizione, per evitare di accentuare ulteriormente i conflitti interni. I dati mostrano però come FI abbia subito una erosione molto maggiore dei suoi alleati. La Lega ha addirittura incrementato il proprio seguito. Anche per questo, forse, Fini e Bossi sono assai meno restii di Berlusconi all'ipotesi di elezioni anticipate.
Se poi si raffronta il dato odierno con quello delle Politiche del 2001, si evidenzia anche il ruolo giocato dall' astensionismo, che è tradizionalmente maggiore nelle elezioni amministrative. Anche in questo caso, i dati suggeriscono che esso abbia colpito in misura più ele vata il centrodestra e ancor più FI, mentre il centrosinistra è riuscito in larga parte a recuperare il calo comunque dovuto alla diminuzione complessiva dei votanti con l'afflusso di voti dall' esterno.
E' vero dunque che il consenso per il centrodestra e per FI, in particolare, si è progressivamente eroso attraverso un passaggio verso il non voto da parte degli elettori « delusi » della CdL.
Ma è vero anche che, in questa occasione, esso è diminuito in misura rilevante anche a causa di defezioni verso l'opposizione. Una prima stima, basata sull'analisi dei dati disponibili sin qui, suggerisce che il centrode stra abbia perduto circa il 20% dei consensi ricevuti nel 2001, con una ripartizione grosso modo eguale tra passaggi verso il fronte opposto e verso l'astensione, ma con una prevalenza di questi ultimi.
Resta da chiedersi come mai si sia aspettato il risultato elettorale delle Regionali per prendere atto del fatto che la relazione tra la CdL e l'elettorato si era, ormai da diverso tempo, incrinata.
Già le elezioni Europee, svoltesi grosso modo un anno fa, avevano mostrato come il centrosinistra ottenesse, sia pure di poco (300 mila voti), più consensi di quanto non riuscissero a fare, nel loro insieme, le forze di governo. E, ancora prima, lo evidenziavano i dati di sondaggio, anche quelli pubblicati sul Corriere della Sera . Che, da molti mesi, documentavano il vantaggio dei partiti dell'opposizione in termini di intenzioni di voto e che, anzi, indicavano nelle ultime settimane una sorta di recupero da parte della CdL. Ciò che potrebbe fare ipotizzare che le cose sarebbero andate assai peggio per le forze di governo se, per assurdo, si fosse votato a gennaio subito dopo la delusione (giustificata o meno) conseguente alla promessa riduzione della pressione fiscale. Sembra paradossale che Berlusconi, che ha insegnato agli altri politici l'uso delle ricerche di opinione e ne ha fatto apprezzare l'importanza, questa volta non ne abbia tenuto sufficientemente conto.
ROMA - Se non potesse apparire di cattivo gusto Stefano Rodotà quasi quasi si lascerebbe scappare che tutta la storia di Laziomatica e dei computer del Comune di Roma violati è, dal punto di vista dell´astrazione teorica, la conferma di quanto lui ha sostenuto tante volte in questi anni d´esperienza come Garante della privacy. Dice Rodotà: «Sono rimasto profondamente colpito perché ho avuto la prova empirica che la tutela dei dati personali è uno snodo fondamentale per la democrazia. E deriva da qui l´enorme responsabilità di un´istituzione come la nostra».
È davvero convinto che una brutta vicenda di ladroneria informatica possa essere così rivelatrice?
«Ci sono almeno tre risvolti inquietanti che mi hanno turbato profondamente sin dalle prime indiscrezioni di cronaca. Al gradino più basso c´è la notizia di un grave episodio di pirateria informatica che si manifesta con l´intrusione illegittima all´interno di una banca dati; subito dopo si pone un problema di garanzie visto che la gestione di una materia così delicata era stata affidata dalla Regione Lazio a un soggetto esterno; infine c´è la disciplina dei dati che è condizione fondante per la democrazia. Dell´avvenuta violazione stanno discutendo tutti, della garanzia dei dati si occupa l´ufficio del Garante, ma è necessario che l´opinione pubblica rifletta bene sui rischi di quanto è accaduto».
Perché questa vicenda è così grave?
«Spesso si dice che le norme sulla privacy riguardano fatti e aspetti minori, secondari, strettamente legati alla singola persona, invece il caso Laziomatica dimostra che la protezione dei dati non è fine a se stessa, non attiene al singolo che cerca di proteggere il suo orticello, ma riguarda gli organi che prendono decisioni sulla vita dei cittadini. In questo senso, la disciplina dei dati è alla base del corretto funzionamento della democrazia ed è la garanzia per l´uguaglianza tra i cittadini. Basta pensare alle conseguenze che si scatenerebbero qualora venissero violati i dati relativi alla salute e se, di conseguenza, una persona venisse discriminata a vantaggio di un´altra».
Chi sottovaluta la tutela della privacy compie un grossolano errore?
«Bisogna mettere da parte le tesi riduzionistiche, quelle che vorrebbero meno protezione, dimostrando che il rigore nella tutela dei dati non è un fatto egoistico, ma è di vitale importanza per assicurare un buon funzionamento del sistema politico».
È la ragione che l´ha spinta, nonostante il suo incarico sia giunto alla conclusione, a intervenire ugualmente sulla Laziomatica?
«Ci siamo mossi perfettamente in tempo. Risalgono a mercoledì le prime notizie della violazione, e giovedì era già in programma l´ultima riunione ufficiale del nostro collegio che ha subito deciso di far partire un´ispezione. Si è mosso il nucleo della Guardia di finanza che da tre anni lavora con l´ufficio del Garante. È un gruppo altamente specializzato».
Quest´intervento ispettivo non rischia di duplicare, e quindi disturbare o addirittura interferire, con l´indagine della procura?
«Ma noi operiamo anche per incarico della procura di Roma, e quando i risultati del nostro lavoro saranno pronti, essi verranno subito trasmessi alla magistratura».
Che obiettivo specifico si pone la vostra inchiesta?
«Innanzitutto dobbiamo chiarire le modalità della violazione, scoprire chi ne è il responsabile, quantificare che ampiezza ha avuto la penetrazione nel sistema informatico dell´anagrafe».
Questi non sono gli obiettivi di piazzale Clodio, per cui lavorano anche al Viminale, dove il ministro ha promosso un´indagine?
«Noi dobbiamo andare al di là del fatto specifico. Per questo raccoglieremo elementi per una valutazione molto più ampia e complessiva. Per esempio c´interessa scoprire come fosse configurata la situazione ancor prima dell´intrusione. Chi, all´interno della Laziomatica, era autorizzato all´accesso? E quali categorie di dati poteva ottenere? I dati inaccessibili per i tecnici della Laziomatica potevano essere acquisiti anche da altri ma con accessi legittimi? C´erano sufficienti misure di sicurezza?».
Definirebbe la vostra una sorta di doppia indagine?
«Sì, è una definizione corretta. Da un lato cercheremo di capire come si sono svolti i fatti, dall´altro lavoreremo sul contesto alla luce delle regole che tutelano la privacy. In questa vicenda, tra l´altro, è coinvolta una società privata e ciò rende la nostra attenzione sul trattamento dei dati ancor più scrupolosa. Giusto a febbraio, presentando al Senato la relazione conclusiva del garante, mi ero soffermato sui delicati aspetti dell´outsourcing. Quando, nella gestione dei dati intervengono soggetti esterni all´amministrazione, allora le garanzie debbono essere molto più elevate perché il rischio di distorsioni e di deviazioni è assai più rilevante».
Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdì la giornata più drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo così ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi «legati ai trasferimenti». Avevo imparato a capire che aria tirava dall'atteggiamento delle mie due «sentinelle», i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perché me ne andavo oppure perché restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto «so solo che te ne andrai, ma non so quando». A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: «Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma». Per Roma, hanno detto proprio così.
Ho provato una strana sensazione. Perché quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento più difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era «certo» ora si apriva un baratro di incertezze, una più pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: «Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire». Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Già mi abituavo ad una momentanea cecità. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista più i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. «Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare...tra dieci minuti ti verranno a cercare». Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano così.
Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato...che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un'altra condizione, quella della libertà? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera».
Mi ha fatto togliere la «benda» di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo «Nicola». Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si è seduto al mio fianco. L'autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto...quando...Io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.
L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, «siamo italiani, siamo italiani...», Nicola Calipari si è buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perché. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente è andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta «perché ci sono gli americani che non vogliono che tu torni». Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della più amara delle verità.
Il resto non lo posso ancora raccontare.
Questo è stato il giorno più drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. «Chiedi aiuto a tuo marito», dicevano. E l'ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è cambiata. Me lo raccontava l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due Simone, «la mia vita non è più la stessa», diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perché ho provato tutta la durezza della verità, la sua difficile proponibilità. E la fragilità di chi la tenta.
Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: «Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!». E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. «Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura». E io ribattevo, quasi a provocarli: «E' facile rapire una donna debole come me, perché non provate con i militari americani?». Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore «politico» non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra.
E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei «provocatori». Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: «Dimmi la verità, mi volete uccidere». Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. «Vieni a vedere un film in tv», mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.
I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdì, al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni mattina si alzava alla 5 per pregare, mi ha fatto le sue «congratulazioni» incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo «se ti comporti bene parti subito». Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta «Liberate Giuliana» sulla sua maglietta.
Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?». L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.
Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto?
HA FATTO molta impressione la personalità del nuovo segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, nel corso del suo recente viaggio in Europa culminato con l´incontro con Chirac a Parigi e con gli alleati della Nato e dell´Unione europea a Bruxelles. Una personalità ? è stato unanimemente riconosciuto ? dotata di grande fascino, di una lucidità mentale fuori dall´ordinario e di una evidente capacità realizzatrice.
Che cosa voleva e che cosa ha chiesto la signora Rice agli alleati europei? Due cose soprattutto: che superassero le divisioni del recente passato con gli Stati Uniti sulla guerra irachena e che, d´ora in poi, fossero disponibili a lavorare con il presidente Bush contribuendo alla ricostruzione di un nuovo Stato democratico in Iraq. Non nuove truppe da inviare, ma la preparazione di nuovi corpi militari iracheni necessari a garantire la sicurezza nel paese, nonché la selezione di una classe dirigente capace di autogovernarlo.
Una strategia di uscita dell´esercito angloamericano attualmente non c´è, ha detto la Rice, aggiungendo due corollari che tuttavia fanno a pugni tra loro. Il primo, rivolto agli europei, è stato: «D´ora in poi dovremo decidere insieme». Il secondo: «Ce ne andremo dall´Iraq quando il lavoro sarà compiuto». Ma chi deciderà che il lavoro è compiuto? E di quale lavoro esattamente si parla?
A Washington è opinione comune che per conoscere veramente i dati della situazione bisogna farsi guidare da ciò che dice la vera autorità della Casa Bianca, il vicepresidente Cheney. Mai prima di lui un vicepresidente aveva contato qualcosa. Lui invece è il vero depositario del potere.
Ebbene, Cheney, proprio mentre la Rice era in viaggio tra Europa e Medio Oriente, ha detto qualche cosa di molto preciso su quel famoso lavoro da compiere. Ha detto che esso sarà finalmente compiuto quando le forze armate irachene saranno in grado di garantire la sicurezza interna e anche quella esterna del paese. Esterna. Cioè nei confronti dei paesi confinanti. Cioè della Siria e soprattutto dell´Iran.
Questa precisazione non viene da Condoleezza ma da Cheney. È chiaro tuttavia che entrambi stanno parlando della medesima cosa, anche perché la Rice sul tasto dell´Iran ha battuto e ribattuto più volte.
L´opzione militare nei confronti di quel paese, ha detto la Rice, non è in agenda ma è altrettanto evidente che non può esser tolta dal tavolo e nessuno la toglierà.
Con l´Iran bisogna trattare duramente. Non può permettersi di arrivare sulla soglia dell´arma nucleare.
Infine, sempre nei suoi contatti con gli alleati europei, il nuovo segretario di Stato ha definito con efficace eloquenza la strategia che guida il secondo mandato presidenziale di Bush: gli Usa e l´Occidente unito debbono diffondere nel mondo gli ideali e le istituzioni della libertà e della democrazia aiutando in tutti i modi la caduta dei regimi illiberali e tirannici. Noi siamo certi che a questa missione (è sempre la Rice a parlare) che incarna al tempo stesso i valori dell´Occidente e la sua sicurezza, i nostri alleati europei parteciperanno con piena adesione e con il contributo della loro esperienza diplomatica, politica, culturale.
Il presidente Bush a sua volta è atteso in Europa nell´ultima decade di febbraio. Ricalcherà certamente, ma con la maggiore autorevolezza della carica che ricopre, le indicazioni del suo segretario di Stato. Esalterà con parole ispirate, come è solito fare, la missione salvifica dell´Occidente nel mondo.
Potrà vantare due esiti positivi: le elezioni irachene e la tregua firmata a Sharm el Sheik da israeliani e palestinesi. Sarà certamente ascoltato in tutte le capitali europee con amicizia e rispetto. E poi?
Che cosa accadrà, che cosa dovrebbe accadere poi?
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Ho letto nei giorni scorsi il saggio che sta per esser pubblicato in versione italiana da Garzanti, di Chalmers Johnson, intitolato "Le lacrime dell´impero". L´autore è un americano molto critico della strategia missionaria propugnata da Bush, Rice, Cheney (quest´ultimo in verità più attento agli interessi che ai valori). Mi sembra opportuno trascriverne qualche passo (anticipato sul Corriere della Sera del 9 febbraio) che sottolinea alcuni aspetti di realtà e dà voce ad un settore importante dell´opinione pubblica americana.
"Gli americani amano ripetere che il mondo è cambiato per effetto degli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001. Sarebbe più corretto dire che quegli attacchi hanno prodotto un pericoloso cambiamento nel modo di pensare di alcuni nostri leader. Essi hanno cominciato a considerare la nostra Repubblica alla stregua d´un vero e proprio Impero, una nuova Roma, il più grande colosso della storia, non più vincolato al diritto internazionale, alle preoccupazioni degli alleati o a limiti di sorta nel ricorso alla forza militare.
Un numero crescente di persone comincia ora, in questo nostro paese, a cogliere ciò che in gran parte di non americani già sa, e cioè che gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso da ciò che affermano di essere: sono un moloc militare che punta a dominare il mondo.
Solo con estrema lentezza noi americani ci siamo resi conto del ruolo sempre più importante assunto dalle Forze armate nel nostro paese e dell´erosione dei fondamenti della nostra Repubblica costituzionale per mano del potere esecutivo, vera e propria ?potenza imperiale´.
Il raggio d´azione dell´impero americano è globale.
Nel settembre 2001 il dipartimento della Difesa contava almeno 725 basi militari al di fuori del territorio Usa. In realtà sono assai più numerose perché in molti casi operano all´interno di altre strutture sotto copertura di vario genere. E molte altre ne sono state create da allora.
Ci vorrebbe una rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democratico, per abolire la Cia o anche solo per far rispettare l´articolo 1, sezione 9, proposizione 7 della Costituzione americana: ?Nessuna somma dovrà essere prelevata dal Tesoro se non in seguito a stanziamenti decretati per legge´. Questo articolo è quello che conferisce al Congresso il suo potere e fa degli Stati Uniti una democrazia. Ebbene, per il dipartimento della Difesa e per la Cia come per tutte le altre agenzie d´intelligence quest´articolo non è mai valso.
Il militarismo, l´arroganza del potere e l´imperialismo entrano fatalmente in rotta di collisione con la struttura democratica dell´America e ne distorcono cultura e valori fondamentali".
Questa trasformazione della superpotenza americana in una democrazia imperiale, così lucidamente descritta da Chalmers Johnson, si basa su dati di fatto specifici difficilmente contestabili. È anche vero che la potenza degli Usa nel mondo è cresciuta anche a causa dell´incapacità europea di creare un soggetto unitario e del vuoto culturale e politico che ha provocato l´affermarsi in Europa e in Russia dei due totalitarismi che hanno devastato il continente e violato ogni senso di umanità. Ma è altrettanto vero che la democrazia imperiale cui l´America sembra ormai essere approdata a quindici anni di distanza dalla sua vittoria nella guerra fredda, suscita perplessità o addirittura avversione nel resto del mondo.
La strategia missionaria lanciata da Bush non sembra uno strumento adatto a superare quella perplessità e quell´avversione.
Nell´Europa moderna del resto le vocazioni messianiche non hanno mai avuto fortuna. Non attecchì neppure la rivoluzione francese quando fu portata a cavallo da Napoleone suscitando la nascita dei nazionalismi e la reazione culturale del romanticismo. Tanto meno ebbe fortuna la rivoluzione trotzkista nata dal Manifesto di Marx-Engels, né il leninismo-stalinismo sorretto dal mito dell´Armata rossa e puntellato dagli orribili lager di sterminio. Per non parlare della missione razzista di Hitler, che è addirittura fuori da ogni proponibilità mentale.
Lo Stato etico depositario di una qualsiasi morale cui educare i popoli non attecchisce fortunatamente in Europa, ci vuol altro il resistibile fascino della Rice per renderlo accettabile nella terra di Talleyrand.
* * *
Che cosa dunque si può fare per chiudere finalmente il bubbone mesopotamico e quello palestinese, che nonostante qualche tenue progresso sono ancora pericolosamente aperti?
E che cosa si può fare affinché nuovi e devastanti conflitti non esplodano nelle mani della potenza imperiale ove mai essa fosse tentata ancora una volta dall´opzione militare?
La tregua fra Israele e la Palestina è sicuramente la notizia più confortante di questa agitata fase di errori e di ritardi. Lì le condizioni per un processo positivo ci sono e lì l´unità d´azione tra Usa ed Europa può rappresentare un elemento decisivo. Bisogna arrivare al più presto alla nascita dello Stato palestinese aiutando il negoziato tra le due parti anche attraverso finanziamenti massicci che diano lavoro, dignità e reddito stabile al popolo palestinese e rinsanguino le stremate finanze di Israele. Un vincolo associativo con l´Ue potrebbe anch´esso aiutare una soluzione rapida e duratura dando speranze e prospettive di futuro alla coabitazione pacifica dei due popoli in un così stretto fazzoletto di terra.
In Iraq, nonostante le elezioni, la partita è invece ancora apertissima.
Apertissima col terrorismo, che attizza ogni giorno la guerra civile.
Apertissima con l´emergente potere sciita che reclama uno Stato coranico e con l´autonomismo federalista curdo che già si atteggia a nazione separata.
Si vedono ora gli effetti nefasti e la difficoltà di limitarli, prodotti da chi, scoperchiando il vaso di Pandora, ha consentito il diffondersi di una nube di veleni mortiferi in tutta la regione.
Gli alleati europei possono fare ben poco in quel contesto.
Possono soltanto collaborare alla preparazione delle forze di sicurezza irachene e sollecitare un graduale ritiro delle forze di occupazione. E possono auspicare il riconoscimento di solide garanzie alla minoranza sunnita.
Ma sono parole. I fatti non dipendono da noi e neppure dall´America.
Dipendono dalle tribù irachene, dal clero che le guida, dall´aiuto economico che gli Usa saranno in grado di offrire. L´Europa nel suo complesso non ha voluto questa guerra; il dopoguerra ha confermato drammaticamente che l´Europa aveva ragione. Metterci di fronte ai fatti compiuti perseverando negli intenti missionari è un tentativo patetico che rinvierebbe a tempo indefinito la guarigione della piaga irachena.
Molto, ovviamente, dipende dall´opinione pubblica americana. Pongo qui una domanda di non secondaria importanza: se nella primavera del 2003 Bush avesse chiesto al suo paese e al Congresso di autorizzare la guerra irachena con l´obiettivo di abbattere il regime saddamista, sarebbe stato autorizzato a marciare? E Blair avrebbe avuto disco verde dalla camera dei Comuni? S´inventarono la fola delle armi di distruzione di massa per ottenere quell´autorizzazione. Diversamente la risposta del Congresso e dei Comuni sarebbe stata quasi certamente negativa.
La potenza imperiale, nella primavera del 2003, barò al gioco con l´Onu, con la Comunità internazionale, con l´Europa. Ma soprattutto con l´opinione pubblica del suo paese.
È improbabile che possa farlo un´altra volta se non vogliamo inoltrarci in un ventennio d´immani tensioni costellato da conflitti militari.
Con una effervescenza e una leggerezza alla Gene Kelly («Cantando sotto la pioggia») Francesco Rutelli ha danzato ieri sulle parole socialdemocrazia, ugualitarismo, lavoro, mercato, innovazione.
Purtroppo non ero a Fiesole ad ascoltarlo. Ero fra migliaia di persone retrograde e perdute nel buco nero del passato che si erano riunite in un salone gremito all'inverosimile nella Fiera di Roma (Ds, Rifondazione, Comunisti italiani, manifesto, Liberazione, tante Unità nella sala, tutta roba da scaricare, roba che per vincere non serve) dove la cecità verso il presente era tale che si parlava, pensate, di Sinistra.
Il rimpianto di non essere stato a Fiesole però è sincero. Perché persino dalle trascrizioni un po' anonime delle agenzie di stampa si sente quel modo di parlare per frasi brevi e ricche di humour che nei film americani consentono al protagonista di passare dal tono parlato alla canzone, dalla camminata alla danza con infinita naturalezza. Nello spettacolo la qualità della performance basta a se stessa. Nel caso di Fiesole frastorna. Perché mai Francesco Rutelli, capo di un partito che è parte indispensabile dell'opposizione e di una campagna elettorale accanita contro un governo di persone illegali e pericolose vuole, sia pure con gesti leggeri e quasi cantando, sganciare il suo vagone dagli altri, proprio mentre il treno di Prodi sta per partire? Il suo vagone è carico di persone che hanno lottato e stanno lottando per una vittoria elettorale che si può ottenere soltanto tutti insieme, e proprio mentre stavano dicendo: «Visto, la destra è divisa e passa il tempo a insultarsi, mentre il centrosinistra, intorno a Prodi, finalmente è unito».
Dico queste cose per far capire che cerco di distinguere tra il festoso colpo di scena di Rutelli a Fiesole, che appare senza dubbio pieno di verve e suscita ammirazione, in un mondo di politica cupa, dal senso di ciò che ha detto.
Non mi sembra giusto attribuirgli intenzioni, né mi sembra utile camminare sulla linea di divisione da lui tracciata. Ma devo permettermi di osservare che - nell'impeto allegro del suo discorso - ha urtato senza ragione (senza una ragione che si possa capire a distanza) non solo la sensibilità di una parte grandissima dei suoi amici o alleati, non solo la loro storia.
Ma alcuni punti di riferimento culturale, morale, politico di ciò che chiamiamo democrazia e di ciò che definiamo, con riferimento ad alcuni diritti e ad alcune garanzie fondamentali, Occidente.
* * *
Il discorso di Rutelli infatti, apre con un elenco di parole da respingere (con un certo vigoroso sdegno che certo è una sorpresa). Queste parole sono socialdemocrazia, egualitarismo, welfare (detto “vecchio welfare” e meglio traducibile come Stato sociale che garantisce pensioni, sussidi, ammortizzatori sociali, scuole pubbliche e gratuite, cure mediche garantite). Tutte queste parole riguardano vita e destino di tanti (salvo le trecentomila famiglie “redditiere” che, ci hanno detto, campano felicemente in Italia) e sono gonfie di senso e di storia.
Poi Rutelli propone una lista di parole nuove, che suonano bene, e sono gradevoli a dirsi. Sono utopia, futuro, ambiente, Europa, buon governo, sicurezza. Ma sono contenitori da riempire. L'utopia va da una parte e dall'altra, il futuro è speranza o terrore, l'ambiente è Tsunami o specie protette, l'Europa è Borghezio o Mario Monti. Berlusconi dice, sia pure senza fondamento, di essere un buon governo. La sicurezza può essere Canton Ticino o Stato di polizia.
Siamo certi che Rutelli non intendeva in nessun caso evocare il lato negativo o ambiguo di ciascuna delle parole nuove con cui ha provocato un soprassalto alla coalizione di cui la Margherita è parte essenziale. Di certo ha indicato uno scaffale vuoto, in cui tutto resta da definire, da scegliere, da discutere, da realizzare o anche solo da disegnare come progetto. E ha spinto fuori grossi pezzi di storia civile contemporanea, tutti quelli che porta in dote, per unirsi e per vincere, non solo la sinistra democratica del mondo, ma anche vaste zone di liberalismo laico e cristiano.
La cultura socialista e socialdemocratica italiana (forse persino Bobo Craxi e De Michelis, che pure si sono dislocati nel centrodestra) presenteranno - penso - obiezioni importanti alla camminata di Rutelli sui valori della socialdemocrazia. Anzi, diciamo meglio, su valori fondanti delle democrazie contemporanee.
Per parte mia raccoglierò alcune obiezioni dal mondo, dalla storia, dalla cultura americana. Dimostrano, credo, che c'è stata una certa leggerezza estemporanea nel proporre di accantonare il valore di uguaglianza. Dice Rutelli: «Quella egualitaria è una società povera, finta. Spesso sopraffatta da poteri oscuri». Dicono i “Federalist papers” dei Padri fondatori della Costituzione americana: «Un Paese che non sia di eguali non può prosperare». La frase che così audacemente contraddice Rutelli è stata firmata da Publius (Alexander Hamilton) nel gennaio del 1787.
Ma nel 1848 torna sull'argomento Alexis de Tocqueville che a pag. 139 del primo volume di “Democracy in America” (Vintage Book, New York, 1945) scrive: «Ciò che ti colpisce in America è il senso di uguaglianza che ogni cittadino prova nel confronto dell'altro. È ciò che lega questo Paese come nessun Paese in Europa. Perché qui l'uguaglianza è vista come un diritto, non come un dovere». Molti anni più tardi (1916) John Dewey, il fondatore del sistema educativo americano, indica senza esitazione in che modo si realizza, dal suo punto di vista di educatore, la democrazia: «L'espandersi della democrazia inevitabilmente diventa un vasto movimento di sostegno della scuola pubblica. Non vi è un altro modo per produrre una società di uguali. Stato e statale, quando si parla di scuola, sono sinonimi di ciò che che è umano e solidale».
Nel 1992 tocca a Michael Walzer intervenire sul rapporto tra uguaglianza e democrazia, nel suo libro “What it means to be an American” (“Che cosa significa essere americani”, New York, 1992): «A me sembra che la nostra singolare forma di cittadinanza basata sull'uguaglianza e la nostra tradizione pluralistica abbiano un comune nemico. Entrambe sono minacciate da una radicale cultura di privatizzazione. Infatti il legame di cittadinanza non funziona quando le persone sono abbandonate al proprio destino. Funziona quando i cittadini sono legati tra loro da interessi comuni, opportunità uguali e la loro cultura è della comunità, non dei privati».
E ai nostri giorni è il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz a definire il problema, (“The roaring nineties”, New York, 2003). «Nessuna innovazione della vita politica democratica è possibile se gli interessi privati dei grandi gruppi sono più importanti degli interessi della collettività, ovvero se di fronte agli interessi prevalenti di alcuni, i cittadini cessano di essere uguali». Stiglitz nota, dalla pubblicistica americana, il festoso e continuo guizzare della parola “innovazione” per dire “conservazione”, o meglio ancora, “smantellamento”. E deliberatamente la usa per mettere in guardia. Come farebbe un idraulico ammonisce di non toccare certi tubi per evitare di distruggere una rete invece di migliorarla.
Offriamo volentieri queste riflessioni, che vengono da un mondo nuovo, che ha fatto recenti esperienze di smantellamento, e in cui i più autorevoli personaggi dell'economia (da Joseph Stiglitz a Paul Krugman) chiedono di stare attenti, nella frenesia di cambiamento e nella gara di originalità, a non abbattere muri maestri. Mostrano, indicando certi aspetti della vita americana e delle sue decine di milioni di cittadini non più uguali perché senza Welfare, senza sostegni, senza istituzioni pubbliche (il problema di accedere agli ospedali per i 36 milioni di non assicurati) che abbattendo certi muri maestri restano solo calcinacci.
Ma torniamo al discorso di Rutelli e al suo festoso liquidare la socialdemocrazia. Come abbiamo detto, parla sotto la pioggia di un governo che anche lui definisce pessimo. In una cosa ha certamente ragione, e il suo ammonimento serva per tutti: non abbiamo ancora vinto.
Dopo le rivelazioni a proposito di renditions e di prigioni segrete della Cia in Europa, il Washington Post ha pubblicato il 6 dicembre il suo ultimo articolo-bomba.
Craig Whitlock racconta che, mentre le autorità italiane hanno negato fermamente di aver avuto un qulsiasi ruolo nel sequestro dell'Imam Abu Omar (Nasr), o di essere stati a conoscenza del progetto di rapimento, alcuni agenti ed ex-agenti dell'intelligence Usa, non autorizzati a discutere pubblicamente l'operazione, e quindi coperti dall'anonimato, hanno dichiarato che la Cia informò l'intelligence militare italiana con anticipo.
"Dopo che la faccenda divenne nota al pubblico" scrive Whitlock "gli agenti della Cia coinvolti nella decisione di rapire Nasr dissero ai loro superiori che l'agenzia di intelligence italiana aveva svelato il piano al primo ministro italiano Silvio Berlusconi. Tuttavia, sempre secondo le stesse fonti, nel caso dovesse sorgere una disputa tra Italia e Stati Uniti, non pare che esista una documentazione a sostegno della tesi che Berlusconi fosse a conoscenza del progetto. Parecchi ex-agenti hanno asserito che l'esistenza di una documentazione di questo tipo, su argomenti così sensibili, è molto poco probabile. 'Il prezzo dell'affare è che, se ti prendono, sei solò ha detto un ex-agente".
Scrive però il giornalista americano che "ci sono segnali di un progressivo disagio del governo Berlusconi nei confronti del procedere dell'indagine penale, condotta a Milano da un'autorità giudiziaria indipendente. Pubblici ministeri e giudici, il mese scorso, hanno firmato i documenti con cui chiedono agli Stati Uniti l'estradizione dei presunti agenti Cia, ma il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, finora non ha dato il suo consenso ad inoltrarli, sebbene tale atto costituisca di solito una semplice formalità.
Dopo essersi incontrato con Alberto Gonzales, il suo equivalente negli Stati Uniti, Castelli ha espresso dubbi sul fatto che l'indagine fosse motivata politicamente, definendo il pubblico ministero come un "militante" di sinistra, il cui lavoro va attentamente valutato. I pubblici ministeri hanno respinto qualsiasi pregiudizio di tipo politico, e hanno dichiarato che continueranno "a lavorare nelle indagini sul terrorismo in stretto contatto con l'Fbi".
E così, tra agenti dell'intelligence, ministri, e governi risulta davvero problematico orientarsi. Il pubblico legge una serie di dichiarazioni in cui, viste le contraddizioni, c'è, evidentemente, qualcuno che mente, ma è molto difficile decidere chi. E certamente non sono d'aiuto le recentissime dichiarazioni del segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, attualmente in visita in Europa, che hanno contribuito a rendere sempre più perplesso sia il pubblico americano che quello europeo.
E a proposito di pubblico, l'altro giorno, il 7 dicembre, Craig Whitlock si è intrattenuto con i suoi lettori per qualche ora, rispondendo a domande sugli argomenti trattati nei suoi articoli e in quelli di Dana Priest. Il testo di domande e risposte è leggibile nel sito del Washington Post, e vale la pena di scorrerlo.
Da Louisville, per esempio, un lettore chiede a Whitlock se abbia parlato con il ministro Usa Gonzales per sapere che tipo di pressioni Gonzales abbia esercitato su Castelli. Vuol sapere anche qualcosa sulla reputazione del pm Armando Spataro, e se si può ritenere che Spataro riuscirà a resistere alle pesanti pressioni politiche da parte dei governi Usa e italiano. Il lettore si chiede anche se queste pressioni non siano contrarie alle leggi degli Stati Uniti, e se è così, perché non si apra un'indagine. Whitlock lo rassicura fornendogli ottime referenze del magistrato italiano: Spataro ha perseguito mafiosi, terroristi, e politici corrotti, e in centinaia di pagine dell'inchiesta condotta dal suo ufficio è impossibile trovare un riferimento alle idee politiche di chicchesia. Il Dipartimento di Giustizia Usa ha invece rifiutato di fornire qualsiasi delucidazione sull'incontro Gonzales/Castelli.
Da Greenville telefona un lettore per congratularsi con Whitlock per la serie di articoli sul sequestro di Abu Omar. È inviperito: i rapitori americani usavano nomi e documenti falsi e hanno pernottato in alberghi di lusso, presumibilmente a spese dei contribuenti americani. Dice anche che, ovviamente, il procuratore italiano non riceverà nessun aiuto dalle autorità americane (Dipartimento di Giustizia, Fbi, o Cia). E allora ecco il suo consiglio: se il procuratore vuol conoscere la vera identità dei rapitori, perché non prova a rivolgersi al pubblico mondiale attraverso l'Internet? Potrebbe postare tutti i dati in suo possesso: fotografie, itinerari, intercettazioni telefoniche, resoconti delle carte di credito, etc. Qualcuno che gironzola sul web, compresi gli americani, potrebbe magari riconoscere qualcuno di questi spendaccioni. Fra i contribuenti americani c'è un sacco di gente che crede nella giustizia e nei diritti civili, e che è disposta a spendere qualcosa per raddrizzare le cose.
- Perché non ha ancora postato il malloppone sul web? - chiede il lettore di Greenville - (1) Non ci aveva pensato? O (2) forse è coinvolto in qualche giochetto politico e, in realtà, i rapitori non li vuol beccare? - -Idea molto interessante - commenta Whitlock - anche se decisamente insolita. Forse la Fox potrebbe trasmettere uno show dal titolo "Italy's Most Wanted" - ma aggiunge subito: - Naturalmente si tratta di uno scherzo -. Forse perché con certi lettori di Greenville non si può mai sapere: c'è il rischio che ti prendano in parola.
Da Toronto chiama un lettore un pò più smaliziato: leggendo gli articoli del WP è rimasto colpito dall'incredibile dilettantismo con cui gli agenti della sicurezza Usa combattono la "guerra al terrore". E c'è un altro pensiero che lo colpisce: la radice del dilettantismo va ricercata nella decisione dei politici di emulare i vecchi serial tv e i film di spionaggio. Nell'articolo di Whitlock c'è quella ex-spia che dice: "Il prezzo dell'affare è che, se ti prendono, sei solo". Ma assomiglia proprio al nastro pre-registrato e autodistruggente con le istruzioni settimanali di Mr. Phelps in "Mission Impossible", che finiva immancabilmente con la frase: "in caso di vostra cattura, il Segretario negherà di essere a conoscenza di ogni vostra azione"!
Solo che, cercando di imitare i successi di Jim Phelps, gli agenti Usa finiscono con l'assomigliare piuttosto a Maxwell Smart, l'agente 86, la parodia della spia americana, il protagonista della serie televisiva degli anni '60, 'Get Smart', creato dalla fantasia di Mel Brooks. Unica, ma importante differenza, secondo il lettore di Toronto: nè Phelps nè Smart frequentavano alberghi con conti a sei zeri. E questo signore canadese qualche ragione ce l'ha. Se andate a leggervi qualche "frase famosa" fra quelle pronunciate dai protagonisti di "Get Smart", vi potete imbattere in uno scambio di battute tra Maxwell Smart e la sua assistente, l'agente 99, del seguente tenore:
AGENTE 99: Oh, Max, che terribile arma di distruzione!
SMART: Sì. Vedi: la Cina, la Russia e la Francia dovrebbero bandire tutte le armi nucleari. Dobbiamo insistere perché lo facciano.
AGENTE 99: Oh, Max, e se non lo faranno?
SMART: Allora, potremmo essere costretti a farli saltare tutti in aria. E l'unico modo per mantenere la pace nel mondo.
Non dite che non vi ricorda qualcosa: il problema sta nel fatto che non è più un film comico, ma qualcos'altro.
Qui il Bollettino dell'Osservatorio sulla legalità
NEL DIBATTITO sulla satira che da qualche giorno ha occupato quasi interamente lo spazio pubblico rimbalzando da un giornale all´altro, da una televisione all´altra e coinvolgendo i palazzi del potere politico e mediatico, c´è un difetto di analisi piuttosto grave. Si ignora cioè che il ruolo della cultura in genere e di quella satirica in particolare è quello di contrastare il Potere, svelarne gli arcani e insomma mettere a nudo il re.
In tempi di potere assoluto questo ruolo era esercitato dai giullari di corte col beneplacito del sovrano, ma poi il gioco diventò più duro e la cultura (e la satira) dette l´assalto al palazzo dell´assolutismo, politico e religioso. Non sarebbe stato possibile prima che nascesse il mercato e un´iniziale nucleo di opinione pubblica. Fu il mercato a liberare la cultura dalla prigione del mecenatismo del potere. Da quel momento nasce il ruolo autonomo degli intellettuali, degli artisti, degli scrittori satirici, dei comici, dei giornali e nasce la forza della pubblica opinione. Nasce insomma l´opposizione al Potere. Celentano direbbe oggi che la cultura e la satira sono rock e il Potere è lento; con linguaggio appena più colto si può dire che il Potere è saturnino e la cultura e la satira sono mercuriali.
Questa dicotomia moderna tra Potere e cultura ha prodotto un effetto importante. Poiché il Potere è strutturalmente conservatore e la cultura è strutturalmente innovatrice; poiché i conservatori hanno di solito anteposto l´autorità alla libertà mentre gli innovatori hanno privilegiato la seconda rispetto alla prima; poiché i conservatori conservano i privilegi della tradizione e gli innovatori si battono per l´eguaglianza delle condizioni; da questi successivi passaggi storicamente avvenuti tra il Rinascimento e l´esplosione dell´Illuminismo si è andata configurando una destra conservatrice e una sinistra liberale, poi democratica, poi socialista.
La cultura (e la satira) non sono necessariamente di sinistra ma il loro Dna è quello che le contrappone al Potere. Il quale, salvo brevi e occasionali apparizioni, si è identificato con la destra. Simmetricamente la cultura si è strutturalmente trovata a ridosso della sinistra. Questa è stata in Europa e in tutto l´Occidente la storia delle idee resa ancor più evidente dal fatto che la cultura e la satira sono state contro la sinistra in tutti quei casi in cui essa si è trasformata in totalitarismo e oppressione.
Purtroppo questa analisi storica manca a gran parte di coloro che sono intervenuti nel dibattito sulla satira. Si è lamentato che essa fosse unidirezionale, procedendo cioè a senso unico; si è invocata una satira che satireggi allo stesso tempo gli uni e gli altri, che sia equidistante o "terzista" che dir si voglia.
È curioso che anche menti coltivate non si rendano conto, quando affermano e reclamano quest´equidistanza, di dire una sciocchezza. La satira è contro il Potere o non è. Il Potere dal canto suo non può usare le stesse armi, non può satireggiare la satira, non può schierare contro Benigni un altro Benigni. Ha soltanto due strade: accettare con umiltà il dileggio o reprimerlo. Ma se lo reprime, accresce la pesantezza della sua natura saturnina ed eccita la satira schierando con essa la cultura a tutti i livelli.
È sempre stato così: il Potere da un lato, la cultura, la satira, il giornalismo dall´altro. La pretesa egemonia culturale della sinistra italiana si verificò negli anni del dopoguerra e fino agli Ottanta per il semplice fatto che la cultura si opponeva al Potere che in quegli anni era monopolizzato dalla Democrazia cristiana. E quindi la cultura si trovò ancora una volta a ridosso della sinistra politica.
* * *
La satira ha origini illustri. Lasciamo da parte la sua preistoria, Aristofane ad Atene, Giovenale nella Roma imperiale. Agli albori della modernità troviamo i personaggi di Rabelais, la dissacrante risata di Gargantua e Pantagruel. Ma la pienezza della satira d´autore è segnata da due date. Nel 1729 a Londra Jonathan Swift pubblica il pamphlet "Modest Proposal For Preventing the Children of Poor People from Being a Burden to Their Parents or the Country and for Making Them Beneficial to the Public" (Modesta proposta per impedire che i figli dei poveri siano di peso ai loro genitori e al paese e per renderli utili al pubblico). La modesta proposta, alquanto macabra, consisteva nell´usarli come generi commestibili.
Vent´anni dopo, nel 1749, Denis Diderot scrisse l´altrettanto famosa Lettera dei ciechi. Swift col suo pamphlet raggiunse il massimo della notorietà, Diderot fu imprigionato alla Bastiglia. Tutto sommato ai fratelli Guzzanti è andata meglio. A Benigni è andata benissimo. La loro satira è graffiante e divertente. Quella di Swift e di Diderot era feroce come lo fu due secoli dopo, quella di Krauss e di Grosz. Comunque il percorso della satira è quello e non potrebbe esser altro, quali che ne siano gli esiti per gli artisti che vi si dedicano e per i potenti che ne sono i bersagli.
Aggiungo che essa è il sale della democrazia. Il guaio è quando diventa l´unica forma di opposizione perché allora vuol dire che la democrazia è già morta o moribonda.
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Il nostro dibattito pubblico di questi giorni, centrato sulla satira, sull´informazione e ovviamente sull´alternativa politica che acquista sempre maggior spessore man mano che la campagna elettorale entra nel vivo, ripropone anche una domanda ricorrente ormai da un decennio: perché il personaggio Berlusconi campeggia fino a mettere in ombra altri temi di assai maggior peso? È un sintomo di povertà di idee e di programmi? L´indice d´una faziosità estrema, sia in coloro che ne fanno il bersaglio quasi esclusivo delle loro inventive e dei loro lazzi sia in quelli che giurano su di lui come il solo, l´unico guaritore dei mali d´Italia? Non è grottesco concentrare su una persona tutto il bene o tutto il male? Non rappresenta, questa personalizzazione così radicale, il sintomo più evidente del nostro declino? Ebbene, io non credo che queste domande siano ben poste. Non credo che Berlusconi sia uno dei problemi dell´Italia di oggi. Credo invece che Berlusconi sia il problema perché riassume in sé tutti gli altri e li materializza, li rappresenta, li esprime come di più non si potrebbe.
Berlusconi concentra in sé e proietta al di fuori di sé nel dibattito pubblico una natura che fa parte della storia di questo paese e in un certo senso nella natura di ciascuno di noi.
In ciascuno di noi c´è un po´ di quello che chiamiamo berlusconismo se con questa parola si intende l´amore di sé, il bisogno di sedurre, il dilettantismo, il pressappochismo, la bugiarderia, il trasformismo, il gusto del comando per il comando, l´ebbrezza del potere, l´arroganza verso gli avversari, il disprezzo delle regole.
C´è tutto questo in ciascuno di noi e quindi nella società in cui viviamo e della quale siamo partecipi. Ma in lui questi vari connotati esistono allo stato puro, archetipico. Li impersona con assoluta naturalezza. Ne è consapevole e infatti li usa con sagacia. Il suo successo è dovuto a quei requisiti ed è infatti alla loro diffusa presenza nella società che egli fa appello da dieci anni. Con successo fino a qualche tempo fa.
Solo che ci sono molte altre cose in ciascuno di noi e nello spirito del paese. Diverse da queste. Opposte a queste. La novità di questa fase sta nel fatto che la società italiana sta rivalutando altre sue caratteristiche, un´altra parte della sua composita natura, più responsabile, meno credula, meno fiduciosa nella taumaturgia e nei miracoli, più attenta alla ragione e meno disponibile alle emozioni, meno fiduciosa nel «fai da te», più esigente di risultati. Insomma non più disposta a farsi fregare.
Può cambiare natura Silvio Berlusconi e assumerne una più consona allo spirito pubblico emerso in quest´ultima fase del berlusconismo al potere? È stata la scommessa di Follini. Perduta. È stata la scommessa di molti, moltissimi italiani sfiduciati della partitocrazia, sfiduciati di una burocrazia lentigrada e fiscale, da istituzioni inefficienti e corrotte, allevati da una cultura televisiva futilmente edonistica, abbeverati al mito del successo. La scommessa di puntare sulla carta vincente. Perduta.
In realtà l´antiberlusconismo che oggi funge da collante non ha come bersaglio una persona ma una natura che in qualche modo ci appartiene. Il boato di applausi che ha accolto lo sketch di Celentano-Benigni quando hanno cantato e mimato La coppia più bella del mondo era la manifestazione di uno stato d´animo nuovo, la speranza antica di riprendere una strada interrotta e riprenderla in buona e nuova compagnia. Se qualcuno avesse intonato Bella Ciao non avrebbe avuto la stessa risposta corale. La coppia più bella del mondo siamo tutti noi quando ci togliamo il fango dalle scarpe e dai panni e andiamo avanti la mano nella mano con umiltà, tenacia, generosità e fiducia in noi stessi e nell´altro. Negli altri.
Noi non ce l´abbiamo con Silvio Berlusconi ma con il berlusconismo. Quello sì, è il problema e toglierlo di mezzo realizza almeno due terzi di un programma politico. Concludo con una battuta celebre di Petrolini, diretta a uno spettatore che dalla galleria del teatro lo fischiava. Il grande comico s´interruppe, ci fu una pausa. Poi nel silenzio generale disse: «Io nun ce l´ho co te ma co quello che te stà vicino e nun te butta de sotto».
Produrre e riprodurre l’essere umano, quale entità biologica, sociale e culturale, comporta molti tipi di costi. Vi sono i costi necessari per ridurre gli aggravi della malattia, degli incidenti sul lavoro, della vecchiaia vissuta in solitudine. I costi per far fronte alla disoccupazione involontaria, alle traversie familiari, a improvvise crisi economiche e sociali. Ma anche i costi per poter godere di un tempo libero non solo marginale, e di poter scegliere liberamente se e quanto studiare, nonché il tipo di professione che si preferisce, indipendentemente dalle limitazioni dovute al fatto di esser nati in un determinato strato sociale.
Lo stato sociale (stato del benessere, welfare state) può quindi essere definito come lo stato che si assume la responsabilità di coprire nella maggior misura possibile, per il maggior numero di persone possibile, i suddetti costi di riproduzione e riproduzione dell’essere umano. Chiedendo a ciascuno, beninteso, un congruo contributo. E ponendo speciale attenzione ai costi che non è nemmeno pensabile di poter coprire mediante comportamenti individuali virtuosi, poiché essi superano qualsiasi possibilità di risparmio o di spesa o di acquisizione di informazioni disponibili alla persona.
Un giovane non può scegliere la professione che più gradirebbe se fa parte di una famiglia povera, che ha un estremo bisogno di mandarlo a lavorare al più presto per integrare il proprio reddito. Una lavoratrice che per molti anni guadagna in media sei, settecento euro al mese, perché non riesce a trovare un’occupazione stabile, non è nella condizione di investire il 30 per cento di quel salario per farsi una pensione integrativa.
Una famiglia, anche se di classe media, che perda di colpo il maggior produttore di reddito, si tratti del padre o della madre, avrà serie difficoltà a sostenere il costo degli studi dei figli.
Così inteso, lo stato sociale è stata una grande conquista civile della seconda metà del XX secolo, anche se le sue radici son partite nell’Ottocento. Conquista ottenuta in gran parte con le lotte dei sindacati e l’azione dei governi socialdemocratici, laburisti, di centrosinistra dell’epoca. Ma anche con il contributo non irrilevante di forze politiche conservatrici.
Colui che si può definire l’inventore del moderno stato sociale, William Henry Beveridge, lui stesso un moderato, pubblicò il suo primo rapporto - Social Insurance and Allied Services - in piena guerra, nel 1942, su richiesta del governo conservatore di Winston Churchill, che poi ne adottò appieno i suggerimenti. In un secondo rapporto, del 1944 (ne ha parlato Lucio Villari su Republica) proponeva un piano per favorire l’occupazione e una più equa distribuzione del reddito.
Né Beveridge né Churchill erano mossi solamente da intenti umanitari. Intendevano contrastare l’influenza ideologica e politica dell’Urss, che essi prevedevano si sarebbe estesa in Europa dopo la guerra, come in effetti avvenne. Ciò significa che nelle fondamenta dello stato sociale quale abbiamo conosciuto, non c’è stata soltanto una ispirazione "comunista", come oggi qualcuno direbbe, ma anche una discreta dose di timore che le idee della sinistra avessero presa sulle masse lavoratrici.
Oggi lo stato sociale appare in difficoltà per ragioni al tempo stesso ideologiche e materiali. Tra le prime va collocata la vittoriosa offensiva in Europa e nel mondo dell’ideologia neo-liberale, più recentemente neo-cons, il cui nucleo costitutivo è l’idea che ciascuno deve far fronte validamente, con le proprie sole forze, alle vicende della vita. Se non ci riesce, tanto peggio per lui o per lei: finirà nella vasta schiera dei perdenti, ai quali i vincitori, certi di aver meritato la propria vittoria quanto i primi hanno meritato la sconfitta, destineranno compassionevolmente qualche modesto sussidio.
In questa prospettiva spietata, lo stato sociale viene naturalmente presentato come un costoso aiuto prestato a individui che di fatto non ne avrebbero diritto.
I fattori materiali della crisi dello stato sociale vanno visti anzitutto nell’aumento dei costi di produzione e riproduzione - biologica, sociale e culturale - dell’essere umano al livello di civiltà che abbiamo raggiunto. Far studiare i figli per vent’anni, dalla materna all’università, costa molto di più che non metterli al lavoro appena finita la scuola dell’obbligo. I progressi della medicina e della chirurgia continuano a migliorare la durata e la qualità della nostra vita, ma richiedono infrastrutture e tecnologie sempre più costose.
Le persone non muoiono opportunamente poco dopo essere andate in pensione, come accadeva quando Bismarck - altro antenato di destra dello stato sociale - introdusse uno dei primi sistemi previdenziali obbligatori. Vivono in media circa vent’anni dopo il collocamento a riposo, e le casse degli enti pensionistici ne soffrono. Anche se non affatto nella misura che i neo-conservatori sono usi denunciare, al fine di forzare riforme delle pensioni di fatto ben poco attinenti ai problemi reali del sistema previdenziale, com’è appena avvenuto in Italia.
Un altro fattore che pesa sulla struttura tradizionale dello stato sociale è la diffusione del lavoro discontinuo, flessibile, precario, che si osserva nel nostro come in altri paesi. Da ciò nasce una preoccupante forbice: i bisogni di protezione e di tutele di vario ordine che lo stato sociale ha per vocazione di assicurare aumentano, mentre diminuiscono i contributi che i lavoratori versano per alimentare il suo bilancio.
Questi diversi fattori portano a dire che la copertura dei costi dell’uomo assicurata dallo stato sociale va oggi cercata anche per altre vie. Se, ad esempio, il reddito da lavoro è discontinuo, e quindi minore, per un numero crescente di persone, bisognerà trovare nuovi modi per integrare il finanziamento dei costi della sanità, della maternità, della previdenza, del sostegno economico da erogare alle persone nei periodi di non lavoro.
Quel che occorre in ogni caso difendere è la concezione stessa alla base dello stato sociale: i costi dell’essere umano sono così elevati, così imprevedibili per ogni persona, così negativi per le famiglie e per la società quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di sopportarli sia assunta dalla collettività, ovvero dallo stato, come uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore né mediazioni al singolo individuo.
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LA DISCUSSIONE sul "centro" diventò uno dei temi favoriti del chiacchiericcio italico fin dal 2001, quando Berlusconi batté il centrosinistra guidato da Francesco Rutelli. Nel 2003, con le prime sonore sconfitte amministrative subite dalla Casa delle libertà la chiacchiera salottiera si trasformò in polemica politica. Ma dopo la schiacciante vittoria dell’Ulivo nelle regionali del 2004 il tema del centro e della sua possibile resurrezione ha ispirato la condotta di una parte non trascurabile della classe politica e di quella economica, ha suscitato l’attenzione quasi maniacale di alcuni giornali e di quasi tutti i dibattiti televisivi e ha ottenuto il convinto appoggio dell’Udc di Casini e Follini che ne ha fatto motivo di scontro all’interno del centrodestra. Scontro arrivato a un tale livello di intensità da compromettere l’esistenza stessa della coalizione.
Negli ultimi giorni l’intensità si è indebolita, come del resto è sempre avvenuto tra alleati litigiosi ma legati da convenienze elettorali imprescindibili. Ma sotto quella cenere il fuoco non è affatto spento e le sue propaggini lambiscono anche il sottobosco dell’Ulivo, materia infiammabile per eccellenza come ben sanno i piromani delle nostre estati.
Insomma la rinascita del centrismo tiene banco all’interno del gracile establishment italiano, suscita entusiasmi di vecchi arnesi e di giovani leve e contrapposti anatemi.
Vedere gli uni e gli altri all’opera può essere un test valido sulla vanità, l’ipocrisia e la pigrizia mentale che affliggono la nostra classe dirigente, compresa in essa gran parte dei "petits maîtres" che affollano le tribune giornalistiche e televisive producendo mirabili confusionismi lessicali, scambiando i moderati con i liberali, i liberali con i riformisti o, a scelta, con i conservatori, questi ultimi con i nazionalisti, giocando a palla con queste parole diventate intercambiabili e raccolte tutte nel taumaturgico contenitore del centrismo. Insomma, un chiassoso circo equestre di scadente qualità.
«A mio parere vanno tenuti distinti gli elettori di centro dai partiti di centro: i primi sono preziosi, i secondi dannosi. Gli elettori di centro sono preziosi perché meno ideologici e più orientati ai risultati di quanto non lo siano i loro concittadini di destra e di sinistra; hanno una mobilità di voto che vivacizza la competizione tra i due schieramenti e rafforza il controllo dell’opposizione sulla maggioranza. I partiti di centro invece sono dannosi perché quando assumono consistenza diventano inamovibili e depotenziano la competizione politica a sfavore del buongoverno».
Questa lucida diagnosi l’ha scritta venerdì scorso Franco Bruni sulla Stampa. Descrive perfettamente quanto è accaduto per quarant’anni con la Democrazia cristiana e con le sue alleanze a geometria variabile ma sempre attorcigliate attorno al centro. Naturalmente la Dc operò in un comodo stato di necessità determinato dalla guerra fredda e dalla indisponibilità democratica del Pci.
Oggi le condizioni sono molto diverse ma la tentazione di dar vita a partiti di centro permane. La tentazione si fa sentire con molta forza nell’Udc, in settori di Forza Italia, nell’Udeur di Mastella, nella Margherita di Rutelli. Ma si fa sentire soprattutto nella "business community".
Gli affari sono affari e viaggiano sulla lunghezza d’onda dell’etica degli affari: produrre ricchezza, trattenerne la parte maggiore per finanziare l’impresa e remunerare il capitale, pagare le imposte nella misura minima possibile, indurre lo Stato e la classe politica a impregnarsi della cultura imprenditoriale, la sola che possa promuovere lo sviluppo del paese e il benessere di tutti gli strati sociali.
Questa, grosso modo, è l’etica degli affari, anzi del capitalismo nelle sue forme migliori. Prevede regole e sanzioni per chi non le rispetta, purché appunto le regole riflettano la cultura dell’impresa. Naturalmente ci sono anche imprenditori che se ne infischiano delle eventuali regole e fanno di tutto per eluderle. Sono parecchi, ma per convenzione sono considerati "mele marce" che non dovrebbero inquinare le mele buone.
Quanto sia valido questo assioma in un paese dove il capo del governo e della maggioranza è una mela col verme in corpo, è un’anomalia che ha creato e continua a creare non pochi problemi.
Così stando le cose, risulta evidente che il luogo preferito dai capitalisti "buoni" (ma anche da quelli "cattivi") è il centro poiché dal centro ci si può più agevolmente muovere verso i due schieramenti maggiori «secondo i risultati», come ha scritto il professor Franco Bruni sopra citato. Ma il professor Bruni converrà che non tutti i ceti sociali ragionano sulla base della cultura d’impresa. Non esiste infatti soltanto quella in un paese maturo e complesso.
Esiste per esempio la cultura della solidarietà sociale, la cultura ecologica, la cultura dell’eguaglianza delle posizioni di partenza, la cultura della felicità. E non è affatto detto che i risultati in base ai quali queste varie culture giudicano le azioni di un governo siano gli stessi. Anzi non lo sono affatto.
Sicché può accadere (accade sempre più spesso) che mentre quei famosi risultati sono soddisfacenti per i moderati di centro dediti alla cultura d’impresa, siano invece considerati insufficienti o addirittura pessimi da chi è sensibile alla cultura ecologica o a quella solidaristica o all’occupazione eccetera eccetera. Come si forma in tali condizioni una maggioranza in grado di governare?
Tutto ciò per dire che in una società complessa non è solo il centro a decidere, ma una quantità di altri ceti, valori, risultati che vanno tenuti insieme da finalità e anche idealità che trovino tra di loro un comune denominatore. La democrazia è appunto questo e spetta alla politica, alla buona politica riuscire a tenere insieme queste diversità non con i teoremi delle scuole studiati a tavolino bensì con sentimenti, passioni, esperienza del vissuto e speranze per l’avvenire.
* * *
Credo che i centristi "full time" dell’Udc siano perfettamente consapevoli delle riflessioni fin qui svolte e credo lo siano anche i centristi di sinistra. Se perseverano nel loro programma di reviviscenza del centro le motivazioni sono dunque altre. Quali?
Per quanto riguarda Casini-Follini i motivi che li spingono mi sembrano abbastanza evidenti. Vedono una probabile sconfitta della Casa delle libertà. Temono (con ragione) di esser proprio loro il partito più a rischio di un esodo rilevante di elettori moderati in fuga verso l’opposta sponda e ancora di più verso l’astensione.
Il loro problema è dunque di trattenerli e anche di spostare voti all’interno del centrodestra, da Forza Italia e da An sulle liste dell’Udc. In altre parole lottano per la sopravvivenza: trattenere gli elettori in fuga, reclutarne altri dai partiti alleati. Per ottenere questi (legittimi) risultati debbono forzare al massimo il dissenso rispetto alla leadership berlusconiana senza però rompere un’alleanza che è la sola tavola di salvezza di cui al momento dispongono. Poi, ad elezioni avvenute e comunque vadano, tutto sarà diverso.
Per quanto riguarda i centristi della sinistra il problema è diverso: vogliono raggiungere i Ds in quantità di consensi. Per questo tengono alta la tensione con quel partito utilizzando anche l’argomento della questione morale sorta a proposito del "risiko" bancario.
Se l’obiettivo sarà raggiunto, saranno in grado di negoziare da posizioni di forza la composizione del governo e la sua politica valendosi anche della probabile disponibilità dell’Udc a convergere su temi specifici e importanti.
Se poi le elezioni si concludessero con un sostanziale pareggio, avrebbero buone carte per puntare su una "grossa coalizione" non impossibile dopo la liquidazione di Berlusconi. Si tratta di un progetto realizzabile? Diciamo che si tratta di un progetto non impossibile. Ma è chiaro che, per la governabilità del paese, quel progetto si accompagna ad un lungo periodo di tensioni non propriamente idonee a farci uscire da uno stallo politico ed economico che dura da troppo tempo.
La soluzione migliore, in tempi agitati come questi, sta invece in una vittoria netta di una delle due coalizioni e, all’interno di essa, nel rafforzamento altrettanto netto del partito che funge da pilastro centrale. Non sto dichiarando preferenze per questo o quello, ma semplicemente esponendo le condizioni logiche di efficienza auspicabili per far uscire l’Italia dalla palude nella quale si trova.
Post scriptum. Debbo una breve risposta alla lettera che lunedì scorso Piero Fassino ha inviato al nostro giornale a proposito del mio articolo dedicato al tema delle Opa bancarie e in particolare al suo atteggiamento nei confronti dell’Unipol e dell’iniziativa presa da quella società nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro.
Avevo posto al segretario dei Ds due specifiche domande: quale era stato il contenuto delle sue conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Milano con Giovanni Consorte (Unipol); quale sarebbe stato il suo comportamento verso Consorte se l’ipotesi di una sua comune strategia con la Popolare Italiana (Fiorani) e gli speculatori Ricucci, Gnutti e compagni, fosse stata dimostrata. Ovviamente, nel porre tale domanda, avevo anche precisato che per quanto so di lui l’onestà di Fassino era comunque fuori discussione. I lettori ricorderanno forse le sue risposte che comunque riepilogo. Sul primo punto Fassino ha precisato di avere avuto con Consorte una sola telefonata nella quale si è informato sull’andamento dell’Opa. Ha anche detto di aver ricevuto telefonate dal presidente della Bnl, Abete, e da uno degli azionisti in contrasto con l’Unipol (Della Valle) che volevano anch’essi prospettargli le loro valutazioni.
Il segretario d’un partito importante può e anzi deve – dice Fassino – essere al corrente nelle grandi linee delle iniziative economiche che hanno un peso sull’economia del paese. Ha ancora precisato di non avere avuto alcun contatto né telefonico né d’altro tipo con il governatore della Banca d’Italia o con banchieri e operatori comunque interessati a queste vicende.
Sul secondo punto il segretario Ds ha ricordato i rapporti storici della sinistra con il movimento cooperativo aggiungendo di ritenere che il rafforzamento dell’Unipol nel rispetto delle regole vigenti sarebbe da lui considerato un fatto positivo. Ha tuttavia aggiunto che qualora un’unica strategia scalatoria fosse stata costruita da Consorte-Fiorani-Ricucci e compagni per opporsi con mezzi non leciti all’ingresso di banche europee in Italia e – peggio – per assaltare un importante giornale italiano, allora il suo atteggiamento verso Unipol non avrebbe potuto non tener conto di questi fatti.
Personalmente trovo del tutto soddisfacenti queste risposte mentre continuo a ritenere che i politici debbano astenersi da qualunque contatto con operatori durante una competizione in corso.
Reputo anche che l’insistenza sul tema Unipol da parte di altre voci interessate a impedire che quella società possa realizzare la sua iniziativa nel pieno rispetto delle regole sia pienamente legittima se adottata dalla parte in causa (Banca di Bilbao) e viceversa nasconda intenti di altro tipo se adottata da terzi in mancanza di fatti nuovi.
Unipol ha presentato da pochi giorni il suo prospetto alla Consob, alla Banca d’Italia, all’Isvap e all’Antitrust. Dalle analisi di queste quattro istituzioni conosceremo se l’operazione è validamente assistita da risorse e da motivazioni. Poi ogni osservatore potrà interloquire non più sul piano della questione morale ma su quello della valutazione economica.
MILANO — «Il tenore di molte delle conversazioni intercettate — riassume il giudice Clementina Forleo — evidenzia che i rapporti tra gli indagati e altri personaggi» dell'inchiesta, «lungi dall'incanalarsi in fisiologici rapporti istituzionali o in rapporti meramente amicali, che legittimamente avrebbero potuto snodarsi parallelamente ai primi, appaiono contrassegnati da illegittime pressioni da un lato e da illeciti favoritismi dall'altro, in totale spregio delle regole». Eccone alcuni squarci, tratti dalla trama (finte cessioni di quote orchestrate a tavolino con la conoscenza in apparenza di Bankitalia, una frenetica ricerca di telefoni «puliti», l'operato della Consob sottoposto a minaccia in conversazioni tra un controllato da Consob e chi era un controllore come Bankitalia) disegnata dal centinaio di pagine dei provvedimenti firmati ieri dal gip Forleo.
Nel mirino Cardia e i controlli della Consob. E la moglie del Governatore rassicura Fiorani Sono le 21.40 del 27 giugno, e Cristina Rosati assicura a Fiorani di aver raccomandato al marito Antonio Fazio di richiamarlo:
Rosati: «Ma chiama subito (sottinteso: ho detto a mio marito, ndr), va', perché tu, dico, mica mi puoi trattare così Giampiero, eh».
Fiorani: «Poverino tuo marito, fa le cose che devono fare... veramente non se ne può più, anche oggi una giornata ancora bruttissima Cristina... ma no, perché questi maledetti (scusa il termine) della Consob mi han fatto ancora l'ennesimo ricatto, che abbiam forse rimosso e abbiamo spostato, però... Con Cardia che personalmente dice "ma ci sto ripensando", dopo che tutti i suoi collaboratori avevano approvato per intero il nostro progetto (...) È come ammazzarti col piede e poi schiacciarti, allora io mi sono arrabbiato e ho detto: benissimo, allora chiamate il mio avvocato, facciamo una letteraccia pesantissima, contro Cardia, mettiamogli paura anche noi a questo punto e vediamo di passare anche noi all'attacco perché sono veramente stufo stufo stufo, guarda veramente stufo... però improvvisamente loro davanti a questa minaccia allora alle sei mi tira fuori... ma allora forse la causa l'ha rimossa, forse va bene... insomma vigliaccate, Cristina, vigliaccate».
«Ora non sbagliamo»
A questo punto del colloquio, la moglie passa il telefono a Fazio, che rassicura Fiorani indicandogli il riequilibrio dei coefficienti patrimoniali (perseguito dalla Bpi attraverso quelle che la Procura ritiene finte cessioni di quote come alla Earchimede di Gnutti) come la mossa che potrebbe «risolvere tutto» ai fini del via libera di Bankitalia.
Fazio: «Guarda che stavo a scherzare quando ho detto che son venuto in ufficio per te».
Fiorani: «No, scusami no, ma Tonino mi spiace, anzi mi spiace da matti perché per colpa mia... sai questi ulteriori disagi!».
Fazio: «Ma che colpa tua, vabbè... va benissimo quello (incomprensibile)».
Fiorani: «Stavo raccontando che sono cose incredibili che hanno dell'inverosimile, cioè non è un Paese questo dove si può... non si può Tonino».
Fazio: (incomprensibile).
Fiorani: «No, pazienza, certo certo, hai ragione e faremo l'impossibile per dare una risposta ferma... però ti par giusto che davanti a una nostra risposta minacciosa improvvisamente lui (Cardia, ndr) è tornato sui suoi passi oggi e allora dice che il nostro prospetto va bene così... ma non può, non può un Paese così andare avanti a lavorare per minacce e basta, non si costruisce niente».
Fazio: «(incomprensibile) non bisogna sbagliare nessuna mossa adesso».
Fiorani: «No, infatti, guai... ma domani è importante (...) Ma non è programmato però di sentirlo Cardia, no, non pensavi di sentirlo?».
Fazio: «No, no, ma però ci penso io».
Fiorani: «Non è il caso...».
Fazio: «Tu vai avanti con quella cosa che...».
Fiorani: «Ok, domani facciamo anche quella, vedrai Tonino».
Fazio: «Ci son dei numeri molto buoni, insomma, ecco».
Fiorani: «E lo so, lo so, infatti».
Fazio: «Adesso non mi dire quello che... insomma bisogna andare avanti, ecco, va bene adesso, eh va bene?».
Fiorani: «Chiarissimo chiarissimo, grazie ancora».
Fazio: «Quello poi risolve... quello poi risolve tutto, va bene?».
Fiorani: «Ma è chiaro, siamo arrivati fino a qua, figurati, domani facciamo».
Fazio: «Va bene, appunto, se ci fosse quello va bene».
Fiorani: «E certo, grazie Tonino».
Fazio: «Stai tranquillo, ciao».
«Facciamo l'ambaradan»
A ruota, alle 21.50, Fiorani chiama Ricucci e gli dice che «su un passaggio bisogna riflettere», in quanto «fatti bene i conti, andiamo a beccarci uno sforamento dei coefficienti patrimoniali»: quindi è necessario fare tutto «l'ambaradan» dopo il 30 giugno. Ma Ricucci ha un problema: è la Deutsche Bank, dice, che sarebbe rigida nell'apporre sugli atti dell'operazione la stessa data in cui essa viene posta in essere.
A rassicurare Fiorani, angosciato dal fatto che Fazio non gli abbia ancora dato l'agognata autorizzazione di Bankitalia, una sera è la stessa moglie del governatore. Fiorani, intercettato, viene chiamato da un tale Gigi che dispone di un'utenza di cellulare che il provvedimento giudiziario di ieri indica essere «risultata intestata al Senato della Repubblica».
Rosati: «Oh che non mi vuoi più bene».
Fiorani: «No, no».
Rosati: «Sono gelosa... sono gelosa».
Fiorani: «Tu adesso mi vieni a dire...».
Rosati: «Senti, tu adesso mi devi fare una promessa».
Fiorani: «Sì».
Rosati: «Devi, fino a domani, devi stare zitto, non parlà con nessuno. Sei in una botte di ferro, stai tran-quil-lo»».
Fiorani: «Vedrai che non sarà così. Io non ho sbagliato, Cristina, non ho mai sbagliato».
Rosati: «Manco io ho sbagliato, manco io ho sbagliato, e lo sai bene».
Fiorani: «Stavolta abbiamo purtroppo un presentimento diverso mio e tuo... però di presentimenti, guarda».
Rosati: «Appunto, appunto, appunto Giampi, sì».
Fiorani: «Vedrai».
Rosati: «Guarda, qui non è solo, guarda è la reputazione di mio marito, di 40 anni di vita».
Fiorani: «Ma lo fanno fuori, Cristina, lo fanno, c'è qualcuno che vuole farlo fuori, Cristina...».
Rosati: «Ma lo so (...) Stai tranquillo, stavolta guardo io, e tu lo sai, figurati, ho provato».
Fiorani: «Lo so,lo so».
Rosati: «Davvero tutti i passi. Guarda io l'altra sera mi sono vista veramente persa, e lo sai, mi sono mossa tempestivamente».
Fiorani: «Poi hai scoperto che non c'era motivazione (...) Quello che è successo te lo dirà Gigi, è una cosa incredibile, cioè c'erano delle incomprensioni da parte della struttura... non solo, non ricevevano più i miei... Ho dovuto, ho dovuto forzare la mano io con tuo marito e Diego (incomprensibile) A questo punto, Cristina, comunque pazienza, dai».
Rosati: «No, no, no no, non ti voglio sentì parlare così... non stare arrabbiato... Io che fai, mi butto dal balcone domani?».
Fiorani: «No, no, ma perché tuo marito è talmente buono, tuo marito è talmente buono, è talmente, è talmente... sì».
Rosati: «No, no, ascolta, Titanic mica l'hanno fatto già due volte... non si buttano 40 anni dalla finestra. Ma guarda, io, io sono notti che non dormo neanch'io, ma non, io stasera guarda, chiamala pazzia, chiamala cosa, io stasera sono molto tranquilla, molto molto... quindi ci risentiamo caso mai più tardi, tu c'hai quel numero che ti ho dato...».
«Tu sei l'aquilone devi volare alto»
Che cosa rappresenti la moglie di Fazio per Fiorani, lo esterna lo stesso banchiere lodigiano in una intercettazione così sunteggiata dal brogliaccio degli inquirenti: «Fiorani le dice di essere il loro aquilone e di volare alto... Fiorani dice che loro possono tirare le fila, ma l'aquilone che deve volare lontano è lei».
Meno poetica, e tutta da comprendere prima di trarne arbitrarie conclusioni, è quello che Fiorani dice alla moglie di Fazio il 18 luglio.
Fiorani: «Poi domani ti porterò il documento, il primo documento di versamento che t'ho fatto da... mmh, da noi e poi da anche altri che saranno fatti, su quel conto corrente di conto terzi, ricordi...».
Rosati: «Eh, poi questo ne parliamo perché... coso sì, va benissimo».
È persino umoristico quanto la moglie di Fazio e Fiorani si preoccupino di essere sotto controllo e poi finiscano per esserlo lo stesso. Il 14 luglio alle ore 11.30, riassume un brogliaccio, la moglie di Fazio «chiama il Governatore che le comunica di aver intrattenuto una lunga telefonata con Fiorani, il quale è molto contento, ma la donna comunica che non passa più da loro perché ha paura, aggiungendo che la sera prima anche Gigi Grillo era preoccupato». Grillo è un senatore di Forza Italia, sostenitore di Fazio. «Va segnalato — aggiungono gli inquirenti — che il Governatore comunica alla moglie di aver appreso che erano state disposte delle intercettazioni e che in particolare Fiorani era "sotto controllo". La moglie appare meravigliata dal momento che "quella persona", in contatto con "l'onorevole... amico di Grillo", aveva riferito "cose completamente diverse"».
Una novità di rilievo, per il cuore delle indagini, arriva dalle deposizioni di due dei consulenti esterni con i quali Fazio e il suo capo della Vigilanza, Francesco Frasca, aggirarono il no all'autorizzazione a Fiorani che gli ispettori di Bankitalia Castaldi e Clementi non avevano accettato di modificare. Se infatti il professor Merusi si è «appellato al segreto professionale», il professor Ferro Luzzi il 14 luglio ai pm «ammetteva di non aver mai letto l'atto della Consob e di non conoscere altri particolari della vicenda che invece avrebbero dovuto essergli comunicati, avendo a suo dire la Banca d'Italia abusato delle sue prestazioni professionali, per le quali non ha chiesto né ricevuto compenso».
Quando l'1 luglio «Fiorani chiama a un telefono dell'Unipol un tale Gianni, costui chiede al banchiere di dire "ai tre amici" che dovranno vendere all'Unipol al prezzo dell'Opa, "per poter rompere il fronte"». Il 2 luglio Fiorani sempre a Gianni (Giovanni Consorte?) «parla della riunione con Ricucci, Coppola e Gnutti, e riferisce di aver fatto presente che è lui, il Gianni, l'"allenatore", e che quindi loro devono adeguarsi. Con Ricucci "ci vuole pazienza"».
«Pronti col bazooka»
Il 28 giugno, nel seguito della telefonata delle 11.14, Fiorani e Gnutti tornano sul loro incubo Consob.
Fiorani: «Speriamo oggi pomeriggio la Consob... noi siamo pronti con i bazooka, con i bazooka siamo pronti, eh, non vogliamo sorprese, per cui qualunque sorpresa ci fosse noi siam pronti a partire, perché loro non possono permettersi di impedire che un'offerta vada sul mercato, noi partiamo con la diffida formale che abbiamo già steso... E quindi Cardia non può pensare di sognarsi le cose e poi... ma è solo lui il problema... solamente lui per logiche interne e... di qualunque tipo se non l'ha capiti oppure per altre cose, non possiamo scherzare con il fuoco».
Gnutti: «Cazzo, fare una telefonata invece... ai massimi livelli e dire che "oh guarda che oggi..."?» Fiorani: «Ah ma c'ho pensato anche a quello... ormai guarda che siccome la chiamata lui l'ha già ricevuta, io ho l'impressione che gli uomini lavorano nel migliore delle ipotesi per paura... allora bisogna partire noi con le minacce».
Gnutti: «Noi lo facciamo di quarantotto».
Ancora il 28 giugno, ma alle 13.11, Fiorani racconta a un suo manager il discorso che dice di aver fatto a un soggetto vicino al presidente della Consob Cardia, propedeutico alla riunione pomeridiana.
Fiorani: «Gli ho detto testualmente: guardi, professore, io mi auguro che tutto quanto funzioni bene oggi, mi raccomando a lei, mi raccomando al Presidente, lo dice al Presidente, non facciamo che si alzi un ulteriore livello di conflitto che ne abbiamo già abbastanza, ma se così sarà noi dovremo farlo ahimè... Ho detto: dipende da te e dalla persona a cui vai a riferire a mezzogiorno... che sia molto chiaro il messaggio!».
Ibambini di Baghdad usati dai marines come scudi e ammazzati dai kamikaze come mosche ci guardano e ci interrogano e chiedono conto delle loro esistenze interrotte. Ci guardano e ci interrogano e ci chiedono conto le vittime di Londra e di New York, di Madrid e di Baghdad, di Gerusalemme e di Bali, di Beslan e di Kabul e di tutte le altre stazioni del girone infernale della guerra permanente globale. Definirla scontro di civiltà, dopo l'11 settembre, fu la trovata truffaldina di chi aveva bisogno di rassicurazioni: il Male sono loro, il Bene siamo noi; confini certi e identità certificate ci dividono; la logica amico-nemico riuscirà ancora una volta a fare ordine sulla superficie geopolitica del pianeta. Diagnosi sbagliata, e conseguente strategia ottusa, tanto crudele quanto inefficace. L'11 settembre non era l'inizio dello scontro di civiltà, ma della guerra civile globale. In cui i confini sono saltati e le identità sono mescolate, l'attacco viene da dentro perché nel mondo globale non c'è più un fuori, l'altro ci assomiglia perché è già passato attraverso l'occidentalizzazione, le vittime sono quelle che capita, ordinary people di metropoli multiculturali e cosmopolite. Si vedeva già dalla forma hollywoodiana dell'attentato alle torri gemelle. Adesso che dei kamikaze londinesi è nota la provenienza e la cittadinanza, si vede meglio. La vocazione suicida-omicida può germogliare nei sobborghi di Londra, fra immigrati di terza generazione nati britannici e di educazione britannica: la democrazia e l'Occidente non li avevano convinti, figurarsi la loro esportazione armata. I martiri sono fra noi. Non ci sono alieni e non c'è la guerra dei mondi, ma la guerra di un mondo.
Alla guerra civile globale, gli Stati uniti hanno risposto con la strategia nazionale e revanchista di una potenza ferita e arrogante, che stendeva la bandiera come un velo d'ignoranza sopra gli strappi del diritto internazionale e della Costituzione. L'Europa, s'è detto in questi anni con ottimismo, non l'avrebbe fatto; l'Unione europea, anzi, doveva nascere contro quegli strappi, a difesa della civiltà giuridica, del diritto e dei diritti. Oggi che anche l'Europa ha paura, quel programma non si deve infrangere. Non può essere la sospensione di Schengen la risposta al kamikaze di Leeds, né l'introduzione dei dati biometrici per i visti, né la raccolta delle telefonate e delle e-mail; e inquieta che a deciderle o a invocarle sia quella stessa Francia che ha detto no all'Unione e sì, con la legge contro il velo, alla laicizzazione forzata delle ragazze islamiche. Tre segni di una illusione nazionalista che evidentemente può convivere con l'opposizione alla guerra americana all'Iraq.
La paura si aggira per l'Europa come un novello spettro. Gli spettri non vanno rimossi, vanno guardati - altrimenti si vendicano. Dopo Londra e dopo Madrid aver paura di salire su un autobus è umano. Disumano sarebbe, com'è stato dall'altra parte dell'oceano, gonfiare i muscoli e ripristinare i confini per anestetizzare l'ansia e bloccare la ricerca. Il tempo della guerra civile globale è il tempo di una fragilità senza scampo, che unifica l'umanità dei primi della terra a quella degli ultimi. Nella culla europea della politica moderna basata sulla forza, passa solo per la coscienza di questa fragilità interdipendente la possibilità della politica a venire.
Il trucco principale del fronte teo-con che il 12 giugno si astiene o vota no consiste nell'aggiungere di tutto e di più alla già intricata materia referendaria. A sentire i suoi esponenti stiamo per votare non su una legge, la sua forma e la sua efficacia, ma: sullo statuto ontologico dell'embrione, sull'invasione delle pecore Dolly, sull'eugenetica, sull'intero catalogo della ricerca scientifica da qui al Tremila e chi più ne ha più ne metta. Va reso merito a Chiara Lalli di aver seguito, nel suo Libertà procreativa (Liguori, prefazione di John Harris, pp. 210, 14 euro), il metodo precisamente inverso: non aggiunge, toglie; non sporca il tema, lo pulisce. Sulla base di un impianto liberale che aiuta a riportare la posta in gioco referendaria ai suoi termini essenziali, anche se qualche volta semplifica troppo i dilemmi, tralasciando le dimensioni dell'immaginario e del simbolico inevitabilmente evocate dallo scenario biotecnologico, ed evitando di misurarsi con l'asimmetria della differenza sessuale che nella procreazione (e non solo nella procreazione) complica i giochi dell'individuo liberale. Due presupposti sostengono tutto il ragionamento. Primo, la libertà procreativa (ovvero la possibilità di scegliere se, quando e quanti figli mettere al mondo) è un bene inviolabile in quanto è espressione della libertà individuale; ed è una libertà negativa, cioè non tollera ingerenze né da parte di terzi né da parte dello Stato. Secondo, essendo la libertà procreativa ampiamente ammessa nella procreazione naturale, per limitarla nella procreazione artificiale sarebbero necessari argomenti validi, che la legge 40 non offre. Non c'è nessun argomento valido a sostegno della patente discriminazione che esclude le single dall'accesso alle Tra; né a sostegno del divieto per tutti, single e coppie, di accedere alla fecondazione eterologa. La controprova è semplice. In natura, si concepisce sotto le più disparate forme di relazione interpersonale e sociale: fra marito e moglie, fra amanti, fra un uomo sposato e un'amante e fra una donna sposata e un amante, fra una lesbica e un eterosessuale e un gay, fra una single e un partner occasionale; si danno casi di coppie sterili i cui singoli componenti si rivelano fecondi quando si accoppiano con un altro o un'altra partner, e in tal modo procreano; si danno casi di donne che non possono sostenere una gravidanza e mettono al mondo un figlio «prendendo a prestito» l'utero di un'altra in un patto d'amicizia. Nello scenario tecnologico così com'è normato dalla legge 40, per uomini, donne e coppie sterili queste possibilità si restringono enormemente: per usufruire delle Tra bisogna essere un uomo e una donna eterosessuali, sposati o conviventi e fedelissimi; onmosessuali, single, amanti, donatori e donatrici escono di scena. La legge 40, insomma, vieta di fare in laboratorio ciò che in natura è consentito.
Com'è possibile che si sia arrivato a questo? E com'è possibile che tutt'ora, nel dibattito referendario, si alluda invece continuamente al «disordine» che le tecnologie introdurrebbero in un «ordinato» mondo della natura? E' possibile, perché la legge varata dal parlamento italiano è una legge paternalista e moralista, argomenta Chiara Lalli, che non rispetta i limiti della coercizione legale della libertà individuale. E' possibile, perché sulle tecnologie riproduttive viene scaricata la paura per le trasformazioni della famiglia che nelle società occidentali sono in corso non da oggi. E' possibile, perché i media hanno alimentato per dieci anni le preoccupazioni per la presunta infelicità dei figli «artificiali», come se al mondo non esistessero milioni di bambini nati in natura da un padre biologico diverso da quello legale.
Un capitolo cruciale è dedicato infine alla questione dei diritti del concepito, e oltre a dimostrare l'assurdità di una grammatica che contrappone l'embrione alla madre ripercorre le tappe attraverso le quali questa grammatica si è fatta strada non solo in Italia ma anche negli Stati uniti. Sull'embrione si gioca una partita più ampia di quella ingaggiata in Italia dall'astensionismo di Ruini. Ne va della civiltà giuridica, di qua e di là dall'Atlantico.
ROMA - La seconda sezione penale della Cassazione ha confermato l'assoluzione per i tre neofascisti accusati della strage di piazza Fontana, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Rigettato, dunque, il ricorso presentato dalla Procura di Milano e dalle parti civili contro il verdetto con il quale la Corte d'assise d'appello di Milano - il 12 marzo 2004 - aveva annullato le condanne all'ergastolo emesse in primo grado. Per l'effetto del rigetto dei ricorsi della Procura e delle parti civili, la seconda sezione penale ha condannato alle spese processuali gli stessi familiari delle vittime che si erano costituti parti civili. Annullata definitivamente la condanna a un anno di reclusione per favoreggiamento per Stefano Tringali. Per conoscere le motivazioni della decisione bisognerà attendere almeno 30 giorni.
"Una sentenza che non rende giustizia": questo il primo commento dei familiari delle vittime diffuso dal portavoce, l'avvocato Federico Finicato. "Siamo davanti a una sentenza che non rende giustizia - ribadisce il legale - un processo che ha portato tantissimi elementi ma le prove non si sono volute leggere. E' un altro pezzo di storia che resta coperto dal mistero".
"L'unica cosa che posso dire è che questa è una Corte di legittimità. Ha agito secondo diritto". Così il procuratore generale della Cassazione, Enrico Delehaye, che aveva chiesto anch'egli il rigetto dei ricorsi, ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano un commento sulla decisione. Alla richiesta di un giudizio, come cittadino e non come rappresentante dell'accusa, il pg ha risposto: "Ho detto quello che potevo, forse più di quanto ci si aspettasse".
La sentenza "è una vera botta per i famigliari delle vittime" ha commentato invece Massimo Giannuzzi, avvocato di stato, l'unico legale presente alla lettura del dispositivo in Cassazione; "non posso essere contento di questa decisione - ha aggiunto - tuttavia, per valutarla, attendo di conoscere le motivazioni dei giudici".
E' stato il primo clamoroso attentato della storia dell'Italia repubblicana. Alle 16.37 del 12 dicembre del 1969, alla Banca dell'Agricoltura a Milano esplose un ordigno con sette chili di tritolo. Morirono 17 persone, oltre 80 quelle ferite. Tante le piste battute in quasi trentasei anni d'indagini e processi, da quella anarchica a quella neofascista, con inchieste che hanno coinvolto anche i servizi segreti e sulle quali ha pesato a lungo la morte, in questura, del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli e, sullo sfondo, anche quella, tre anni dopo, del commissario di polizia Luigi Calabresi, accusato dalla sinistra extraparlamentare di essere l'assassino di Pinelli.
Le indagini, da Milano si sono allargate al Veneto fino al Giappone, dove è residente Delfo Zorzi, l'uomo ritenuto - dagli ultimi magistrati che hanno indagato sulla vicenda - la 'mente' della strage. I processi, dal capoluogo lombardo vennero invece trasferiti a Roma, poi a Catanzaro, per tornare infine, nel 2000 a Milano.
I mezzi di informazione italiani si sono adattati all’aria che tira e hanno cominciato ad autocensurarsi, sia sulla stampa sia in televisione.
(da "L’ombra del potere" di David Lane – Editori Laterza, 2005 – pag. 205)
Chi di televisione ferisce, di televisione perisce. Si potrebbe anche liquidare così, parafrasando un vecchio detto popolare, l’apparizione a sorpresa di Silvio Berlusconi a Ballarò dopo la débacle elettorale del centrodestra alle regionali. E magari mettersi l’animo in pace, per archiviare la pratica e compiacersi retrospettivamente per la profezia di Indro Montanelli secondo cui, a furia di vedere e ascoltare il Cavaliere in tv, alla fine gli italiani si sarebbero vaccinati contro il virus del berlusconismo.
Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano in questi termini? Non sono stati già commessi in passato troppi errori di sottovalutazione o di distrazione, compreso l’ultimo sulle nomine all’Authority sulle comunicazioni, per smobilitare o abbassare la guardia? E poi, non abbiamo sempre detto che la "questione televisiva", cioè la concentrazione di potere mediatico a danno del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza, è in realtà una questione pre-politica; che riguarda le condizioni fondamentali della vita democratica; che non comincia con la fatidica "discesa in campo" di Berlusconi e neppure finisce con la sua ipotetica ed eventuale uscita dal campo?
È vero che questa volta il centrodestra ha perso, e in modo netto e clamoroso, pur controllando le televisioni pubbliche e private. Ma a ben vedere è proprio il risultato amministrativo che conferma il pericolo sul piano più generale: alle regionali si votava per candidati, liste e programmi locali; fuori da una contrapposizione di tipo ideologico; senza la partecipazione carismatica del "lìder maximo". Fin dai tempi delle "giunte rosse" che in qualche modo rappresentavano un surrogato di alternanza al regime democristiano, questo è sempre stato un voto più libero, meno condizionato dalle appartenenze politiche e meno vincolato dalla fedeltà di partito. E oggi, in un ambito più circoscritto, spesso l’influenza delle tv (e dei quotidiani) locali può contare anche più di quelle nazionali.
Nessuno d’altra parte è tanto rozzo e sprovveduto da aver mai sostenuto che Berlusconi vince perché controlla le televisioni. O soltanto per questo. Dalle analisi di un sociologo come Renato Mannheimer o di un politologo come Ilvo Diamanti, sappiamo però che una buona parte dell’elettorato riceve l’informazione politica esclusivamente o prevalentemente dalla tv e che questa influisce in modo particolare sulla quota degli indecisi, l’ago della bilancia che - soprattutto in un sistema maggioritario - alla fine determina il risultato, la vittoria di uno schieramento sull’altro. Il fatto è che, in mancanza di controprove, nessuno è in grado di dire con certezza quale sarebbe l’esito del voto in condizioni di effettiva parità, se il centrodestra avrebbe vinto ugualmente alle ultime politiche oppure no, se avrebbe perso alle regionali con un distacco ancora maggiore.
Non si spiegherebbe altrimenti l’attenzione che la stampa internazionale, dal New York Times fino all’Economist, continua a rivolgere all’anomalia del "caso italiano". Né la produzione saggistica che i corrispondenti dei giornali stranieri, come quello del settimanale economico di lingua inglese citato all’inizio, dedicano alla "Berlusconi’s Shadow", tradotto più benevolmente in italiano dall’editore Laterza "L’ombra del potere". Ancor prima dell’indecenza del conflitto di interessi, da vent’anni a questa parte c’è in Italia lo scandalo di una concentrazione televisiva e pubblicitaria che danneggia l’intero sistema, drena risorse a favore della tv, e ora occupa e sequestra il servizio pubblico a vantaggio dell’azienda che appartiene al premier e della sua maggioranza parlamentare, in quello che Umberto Eco chiama "il regime del populismo mediatico".
Mentre perfino gli alleati di governo lanciano (finalmente) a Berlusconi l’invito a cedere Mediaset per liberare se stesso e tutto il centrodestra da una tale ipoteca politica, il fronte dei cerchiobottisti di professione rilancia compatto la parola d’ordine del disimpegno, dell’indifferenza, di un malinteso minimalismo, con l’aria di deridere magari l’ingenuità o peggio ancora la faziosità di chi non è abbastanza "scafato" per capire come gira il mondo. E pensare che, prima dell’approvazione di una legge tanto innocua quanto inutile come quella che porta il nome dell’ex ministro Frattini, qualcuno scrisse che la legislatura non sarebbe neppure cominciata senza la soluzione del conflitto di interessi. Purtroppo, invece, è cominciata, ha prodotto molti guasti e francamente non si vede l’ora che finisca quanto prima.
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La decisione di presentarsi all’ultimo momento a Ballarò, al posto di uno dei suoi ministri, è stato - come ha già scritto il direttore di questo giornale - un gesto di disperazione e anche di debolezza da parte del presidente del Consiglio. Nell’ansia di recuperare il terreno perduto e magari di rivendicare la propria leadership sul centrodestra, Berlusconi non poteva scegliere però un’occasione meno propizia. Non solo perché il set della trasmissione, un’arena politica con il pubblico diviso in due schieramenti, è quello che offre minori riguardi e protezioni alla figura istituzionale del premier. Ma anche perché, accettando il confronto diretto con l’opposizione, il presidente del Consiglio s’è dovuto misurare con i due avversari peggiori che gli potevano capitare: Massimo D’Alema e Francesco Rutelli, entrambi più preparati ed efficaci di lui, più giovani e - diciamo così - anche più telegenici. Perfino D’Alema, che notoriamente non è un campione di simpatia, è riuscito a risultare così più affabile e accattivante.
L’errore maggiore, tuttavia, il presidente del Consiglio l’ha commesso riproponendo tal quale il "modello del berlusconismo", imperniato sulla sua persona e sul suo carisma, come ricetta miracolosa per curare i mali del centrodestra, battere l’Unione di Romano Prodi e riconquistare la maggioranza. Evidentemente, l’analisi dell’ultima sconfitta non è stata così lucida da consentirgli finora di individuarne l’origine più remota. E’ un motivo in più per contrastare ora in Parlamento, a un anno dalle politiche, qualsiasi tentativo di modificare la legge elettorale e di abolire la vituperata par condicio.
(sabatorepubblica. it)
NEL pasticcio mediatico-diplomatico creato da Berlusconi sulla questione del ritiro dall´Iraq, la sola vera notizia che resta in piedi è la "non-notizia". Il presidente del Consiglio, a poche ore di distanza dal cancan sollevato a Porta a porta il 15 marzo, l´ha addirittura teorizzata; ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al presidente della Camera: "Non verrò in Parlamento come chiede l´opposizione. Che cosa verrei a dire? Dovrei forse commentare una non-notizia?".
In un certo senso ha ragione, ma in un altro senso ha invece torto marcio. Resta infatti da chiarire perché sia andato in televisione per lanciare sulle onde dell´etere una non-notizia che ha fatto in pochi minuti il giro del mondo suscitando precisazioni e richieste di chiarimenti da parte di Bush incalzato dalla stampa americana, precisazioni e smentite da parte di Blair dinanzi ai Commons, disagio nel ministro degli Esteri Gianfranco Fini, irritazione vivissima al Quirinale.
Tutto questo bailamme per una non-notizia? Una gaffe madornale (l´ennesima) del premier italiano? Un rischio calcolato a fini elettorali? Oppure l´autentico desiderio di preparare uno sganciamento dall´amico americano senza però la forza di realizzarlo, facendo macchina indietro dinanzi all´immediato richiamo all´ordine da parte della Casa Bianca? Ezio Mauro, il giorno stesso in cui la non-notizia è rimbalzata sui tavoli delle redazioni, ne ha individuato esattamente la natura: uno spot pubblicitario per riassorbire il distacco crescente della maggioranza dell´opinione pubblica dalla presenza italiana in Iraq; un gioco delle tre carte condotto spregiudicatamente su un tema delicatissimo che vede in gioco la stessa incolumità dei militari italiani a Nassiriya; una perdita drammatica di credibilità del nostro paese sulla scena internazionale.
«Ma nel tuo paese c´è ancora tanta gente che crede a queste panzane?», mi ha chiesto un collega inglese che aveva appena ascoltato le dichiarazioni di Blair a Westminster. Spero di no, gli ho risposto, ma francamente non ne sono sicuro.
Il tema dunque è questo: il presidente del Consiglio prepara e lancia spot pubblicitari con la connivenza d´un eminente giornalista del servizio pubblico televisivo (che si guarda bene dal metterlo in difficoltà) nel tentativo di riguadagnare un consenso che sta perdendo, e usa per questa indecente operazione niente meno che il tema della pace e della guerra, incurante del fatto che abbiamo in Iraq più di tremila soldati, blindati in una sorta di fortezza dei Tartari, a rischio di azioni di terrorismo e di guerriglia di cui spot così irresponsabili potrebbero elevare l´intensità e la pericolosità.
Questo tema, secondo me, non è ancora stato ben valutato né dalle forze politiche della maggioranza ma neppure (spiace dirlo) da quelle dell´opposizione.
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Ci voleva poco a capire che l´exit strategy berlusconiana era totalmente inesistente. Bush, che parla per tutta la coalizione dei "volenterosi" l´aveva già detto subito dopo le elezioni irachene del 30 gennaio: «Nessuno più di noi desidera riportare a casa i nostri soldati. Non resteremo in Iraq un giorno di più del necessario, ma neppure un giorno di meno. Ce ne andremo quando le forze della polizia e dell´esercito iracheno saranno in grado di garantire la sicurezza del paese e quando il governo iracheno ce lo chiederà».
Il 15 marzo Berlusconi ha ripetuto questa frase quasi compitandone il contenuto. Ma con una aggiunta: «Ferme queste condizioni, cominceremo a preparare un graduale ritiro entro il prossimo autunno». «Quando esattamente?», ha chiesto il conduttore della trasmissione. «A settembre» ha risposto il premier. «Questa sì che è una notizia», ha chiosato il conduttore adorante.
Invece no, era ovviamente una non-notizia, vincolata a una serie di condizioni molto lontane dall´essere adempiute. Le forze di sicurezza irachene sono ancora scarse, impreparate, inaffidabili, a detta degli stessi generali americani incaricati della loro istruzione.
Guerriglia e terrorismo insanguinano l´Iraq sunnita (e non solo quello) ogni giorno. L´Assemblea nazionale votata il 30 gennaio si sta ancora accapigliando perché sciiti e curdi litigano sul federalismo, sulla legge coranica, sul petrolio di Kirkuk. In più, nel corso dei prossimi mesi, dovrà esser votata la Costituzione e, entro il gennaio 2006, un´altra assemblea che dovrà eleggere un governo definitivo (quello attuale è provvisorio).
In queste condizioni parlare di ritiro dai «volenterosi» cominciando dal prossimo settembre è pura chimera, a meno che non si tratti d´una decisione unilaterale come fecero gli spagnoli di Zapatero e come hanno deciso di fare i polacchi e gli ucraini.
«Presidente, perché ha parlato di settembre?» gli ha chiesto il 16 marzo un cronista dell´Unità. «Perché noi crediamo, anzi io credo, che a settembre le forze di sicurezza irachene istruite da noi saranno pronte ad entrare in azione», ha risposto il premier. Ed è vero, a settembre i militari italiani che a Nassiriya addestrano un contingente di poliziotti iracheni avranno terminato il corso di istruzione di qualche centinaio di unità. Voleva dire il nostro premier che in quel momento ce ne andremo per esaurimento del nostro compito? Neppure per sogno. Bush non ha alcun bisogno "militare" delle truppe italiane a Nassiriya, dove il potere reale è nelle mani delle tribù sciite come in tutto il Sud del paese. Ma Bush ha bisogno "politico" dei soldati italiani. Se ce ne andassimo infatti, i soli "volenterosi" resterebbero gli anglo-americani. Noi non abbiamo nessun compito da svolgere; la preparazione dei poliziotti iracheni poteva essere tranquillamente fatta fuori dal territorio di quel paese, come hanno deciso di fare la Francia e la Germania; l´assistenza alla popolazione potrebbe essere condotta dalla Protezione civile e dai volontari, con molto minore costo.
Noi siamo a Nassiriya soltanto per ragioni politiche che consentono a Bush di mantenere la facciata del multilateralismo e a Berlusconi di sostenere l´esistenza di un rapporto preferenziale tra Usa e Italia e quindi di una crescente importanza del nostro Paese sulla scena internazionale.
Dunque a settembre non esisteranno le condizioni per iniziare l´exit plan che esiste solo nella testa di Berlusconi. Ma la non-notizia lanciata a metà marzo, venti giorni prima delle elezioni regionali, sarà potuta servire a recuperare qualche consenso da parte degli elettori della Casa delle Libertà, indignati dall´uccisione del nostro agente segreto al check-point dell´aeroporto e disincantati dalle tante panzane berlusconiane. «Esiste ancora gente che gli crede?» ebbene sì, esiste ancora. E così uno statista da operetta gioca con la credibilità internazionale del Paese.
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Piero Fassino e Massimo D´Alema hanno capito fin dall´inizio la natura della patacca berlusconiana. Patacca in sé. Noumeno di patacca. Ma non ci hanno insistito quanto quel noumeno avrebbe forse meritato. Prodi ha preferito non parlare, ma forse, a volte, l´eleganza non buca il video. Le altre reazioni si possono suddividere in due categorie.
La prima, della cosiddetta sinistra radicale, ha lo stigma di Sigonella, quando l´allora premier Bettino Craxi coprì un´illegalità del suo governo denunciando l´illegalità eguale e contraria del governo americano, che pretendeva di spadroneggiare nella base militare di Sigonella. La sinistra italiana (allora il Pci) non vide la prima illegalità con la quale furono sottratti dal governo alla magistratura italiana alcuni pericolosissimi terroristi mediorientali, ma applaudì entusiasticamente il premier italiano che una volta tanto aveva messo in riga gli americani. Così nel caso di Berlusconi, lo stigma di Sigonella si è fatto sentire ancora una volta e la sinistra radicale ha puntato sul premier «che sembrava prendere le distanze dalla Casa Bianca».
Il secondo tipo di reazione, del centrosinistra riformista, è stato di prendere sul serio Berlusconi sostenendo che finalmente il premier si spostava sulla linea dell´opposizione rendendo possibile a quest´ultima di convergere con la maggioranza «guardando al futuro».
Pessime entrambe queste reazioni, che avevano capito niente o ben poco della vera natura della patacca lanciata a Porta a Porta.
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Dedico qualche riga finale al prestigio internazionale dell´Italia che deriverebbe dal preteso asse Washington-Roma del quale la nostra presenza militare in Iraq sarebbe al tempo stesso causa ed effetto. A parte il fatto che di special relationship vera e reale con Washington ce n´è una sola ed è quella britannica.
Il filo diretto tra Berlusconi e Bush, se si prescinde dalla cosiddetta politica delle pacche sulle spalle, non ha dato all´Italia nessun vantaggio concreto in termini politici, strategici, economici. Ma per ovvie ragioni ha marginalizzato l´Italia rispetto all´Unione europea e alle nazioni che ne costituiscono il nucleo principale.
Il recente viaggio in Europa di Bush e di Condoleezza Rice, che ha gettato le basi di una ricucitura tra Usa da un lato e Germania e Francia dall´altro, ha del resto diminuito il peso del governo di Roma anche agli occhi dell´amico George. Berlusconi poteva servire per dividere l´Europa, ma serve molto di meno da quando l´America si è accorta d´aver bisogno dell´Unione europea e non di un suo membro soltanto.
Queste considerazioni dovrebbero spingere il nostro governo ad una profonda revisione della sua strategia internazionale. Ma un governo pataccaro non sembra il più adatto alla bisogna.
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Post Scriptum. Miriam Mafai ha benissimo scritto ieri sull´invadenza crescente e non più oltre tollerabile della gerarchia ecclesiastica italiana, cardinal Ruini in testa, nella politica del nostro paese. I continui interventi dei vescovi sulle modalità del voto nel prossimo referendum vanno assai al di là del caso specifico pur importantissimo e violano i rapporti di correttezza tra due entità, lo Stato e la Chiesa, che il Concordato stabilisce indipendenti e sovrani nelle relative sfere di competenza.
Da interventi siffatti viene distrutto il principio stesso della laicità delle istituzioni civili e dei cittadini che esse rappresentano.
Nessuno nega alla gerarchia ecclesiastica il diritto di parlare e di diffondere liberamente i dogmi della sua dottrina e i valori della sua morale. Nessuno le impedisce, nella fattispecie, di sostenere che l´embrione è vita umana e attuale (anche se i padri della scolastica con san Tommaso in testa affermavano diversamente) e che distruggerlo equivalga ad un omicidio. Il Papa è addirittura arrivato a paragonare l´aborto alla Shoah.
Ciò che invece la gerarchia ecclesiastica non può fare senza violare clamorosamente le norme concordatarie è prescrivere il comportamento dei cattolici e in generale degli elettori per quanto riguarda le modalità del voto in una consultazione elettorale prevista dalla Costituzione italiana.
I vescovi sono arrivati al punto di definire «immaturi» quei cattolici che andranno a votare al referendum e invece «maturi» solo quelli che si asterranno dal voto. E così risulteranno immaturi i cattolicissimi Scalfaro e Andreotti. E naturalmente immaturo Romano Prodi che ha detto di essere tenuto ad obbedire alla propria coscienza di cattolico ma non ad obbedire al «non expedit» dei vescovi.
L´arcivescovo di Genova dal canto suo ha prescritto ai cattolici di non leggere il libro "Il Codice da Vinci". I parroci d´un piccolo paese di Calabria nel quale il filosofo Gianni Vattimo si presenta come candidato sindaco, parlano in chiesa dal pulpito vincolando i fedeli a votargli contro.
Tutti questi casi, dal più grande al più piccolo, sono violazioni macroscopiche del Concordato. Alcuni di essi configurano addirittura reati penali per i quali le Procure della Repubblica dovrebbero intervenire.
Spiace che un cattolico democratico come Enrico Letta, figura eminente d´un partito di centrosinistra, annunciando che si asterrà dal voto referendario (cosa che rientra nella sua libera decisione) non spieghi almeno le ragioni che lo inducono a ignorare le motivazioni dei requisiti referendari. Spiace soprattutto che, assumendo lo stesso comportamento raccomandato dal cardinale Ruini, non aggiunga di considerare in debito l´intervento della gerarchia vescovile che getta più di un´ombra sulla laicità dei cattolici quando essi decidono autonomamente di adottare il comportamento dell´astensione.
Quisquilie? Al contrario. Principi essenziali della convivenza civile. Il non expedit cadde con la firma del Concordato del ‘29. Ci si ritorna 76 anni dopo? E i cattolici della Margherita accettano senza fiatare questo rigurgito clericale? Speravamo che fossero usciti di minorità. Ci eravamo dunque illusi?
Non è un atto formale l'adesione immediata della Cgil alla manifestazione di sabato prossimo per la liberazione di Giuliana, Florence, Hussein, tutti i rapiti e il popolo iracheno. Dal momento in cui si è diffusa la voce del rapimento della nostra inviata a Baghdad, i segnali da corso d'Italia non si sono fatti attendere. Già nella manifestazione promossa al Campidoglio dal sindaco di Roma Walter Veltroni, il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani aveva portato la sua solidarietà. Cgil non vuol dire soltanto il suo segretario e il gruppo dirigente nazionale. Cgil vuol dire categorie, come ad esempio la Fiom, i cui segretari sono subito venuti in redazione per dirci: siamo con voi, come possiamo aiutarvi? Cgil vuol dire decine di Camere del lavoro che hanno svolto un ruolo determinante nell'organizzazione di cortei, presìdi, sit-in, fiaccolate. E già da ieri, chi intende partecipare alla manifestazione - speriamo la festa per l'avvenuta liberazione di Giuliana - di Roma, è alla Camera del lavoro della sua città che telefona, per sapere se sono già stati organizzati pullman o treni. Guglielmo Epifani ha contribuito, anche personalmente, a non farci sentire soli in questo momento drammatico per la redazione del manifesto. Per questo gli abbiamo chiesto di spiegare ai lettori come questo momento viene vissuto nella sua organizzazione.
La Cgil sabato sarà a Roma con noi, per la pace e per la liberazione dei prigionieri in Iraq. Con quali contenuti e motivazioni?
E' presto detto: la solidarietà, che ci fa stare vicini a Giuliana, al manifesto e a chi svolge in Iraq il lavoro prezioso quanto pericoloso di raccontare la verità, parlando con la popolazione civile. La seconda ragione è che in questi momenti bisogna fare, tenere sveglia l'attenzione e viva la coscienza di tutti. Non si può restare fermi, dobbiamo mettere in campo tutto quel che possiamo. Anche per questo è necessario che tutte le componenti della società che in questi giorni trepidano per la sorte di Giuliana e gli altri rapiti restino unite e unite manifestino sabato prossimo. E' importante e positivo che l'intero sindacalismo confederale abbia aderito; sia pure con modalità diverse, anche la Cisl e la Uil saranno con noi sabato, e questo per la Cgil è un motivo di soddisfazione. Guai a restringere il fronte, e noi vogliamo contribuire ad allargarlo.
Battersi per la liberazione di tutti i giornalisti e le altre persone rapite non vuol anche dire battersi per la pace e contro la guerra in Iraq che non accenna a diminuire di intensità?
La situazione a Baghdad e in tutto l'Iraq è ben lungi dall'essere normalizzata. Lo dice la cronaca che resta tragica, senza nascondere il valore democratico delle elezioni che in qualche modo, e a prescindere dalla percentuale dei votanti, si sono tenute qualche giorno fa. Persino gli osservatori meno sospettabili di essere di parte ammettono che quel paese non è pacificato. Con un'aggravante: prima il terrorismo in Iraq non c'era, oggi c'è. C'è il terrorismo e c'è una forte resistenza. In questa situazione difficile si muovono anche bande di irregolari, magari interessate all'utilizzo dei rapimenti per estorcere soldi, al punto di colpire a caso.
Forse perché è più facile colpire un giornalista che opera sul campo, interroga la società civile e racconta come le persone vivono tra bombe e autobombe...
Certo, i giornalisti embedded corrono meno rischi dei giornalisti liberi. Ma in tutte le guerre chi fa informazione libera è nel mirino.
Le conseguenze di questa guerra e di quel che i nostri governanti chiamano dopoguerra confermano l'opposizione della Cgil alla soluzione militare, oppure oggi prevalgono altre considerazioni?
Ogni giorno di più è ribadita la fondatezza della nostra posizione: la guerra era una scelta sbagliata e l'Iraq che essa ha svelato conferma ciò che anche due anni fa era evidente: con forme di pressione interne ed esterne si sarebbe potuto far cadere il dittatore senza provocare migliaia di morti e tutti i disastri conseguenti alla guerra e all'occupazione.
Eppure, la politica estera del governo Berlusconi non è cambiata di una virgola.
Il profilo del nostro paese è curioso. Da una parte si fa esattamente tutto quello che Bush decide e pretende venga fatto, dall'altra resta viva la tradizionale apertura dell'Italia verso i paesi arabi. Berlusconi tende a nascondere la subalternità agli Usa per rivendersi l'altra immagine, ma a nessuno sfugge che l'Italia in questa emergenza non ha certo svolto il ruolo della Germania, della Francia e, in un secondo momento, della Spagna. Eppure, questi paesi dovrebbero essere i nostri primi interlocutori.
Dunque, ha fatto bene l'opposizione ad annunciare il voto contrario al rifinanziamento della missione?
Ha fatto una scelta semplicemente coerente e ovvia. Anche se un problema esiste e chiama in causa il ruolo delle Nazioni uniti: non si può lasciare l'Iraq nel vuoto.
Siamo molto contenti dell'adesione della Cgil alla manifestazione di sabato. E per onestà, devo dirti che ci aspettiamo che non si tratti di un atto formale: siete o non siete, anche da un punto di vista organizzativo il più importante sindacato italiano?
Per sabato garantiamo una forte presenza dell'organizzazione e abbiamo dato indicazione alle strutture di impegnarsi in una forte mobilitazione, perché l'appuntamento di sabato - che anche noi speriamo si trasformi in una festa per l'avvenuta liberazione di Giuliana - è un fatto importante per la nostra democrazia.
IL DIBATTITO sul laicismo è stato concluso due settimane fa su queste pagine e già si preannunciano altri qualificati interventi che ospiteremo volentieri e che saranno infine tutti raccolti in un volume che diffonderemo con Repubblica. Ma ora i laici - religiosi e non - sono chiamati a confrontarsi con un appuntamento quanto mai impegnativo: il referendum sulla legge numero 40 che tratta della procreazione medicalmente assistita. Una legge approvata poco più di un anno fa dopo un’incubazione assai lunga da una maggioranza trasversale nella quale al centrodestra, massicciamente favorevole salvo poche eccezioni, si affiancarono quasi tutti i cattolici militanti nello schieramento di centrosinistra.
Quella legge tuttavia, anche dopo la sua entrata in vigore, suscitò una folata di critiche argomentate e aspre, non solo da parte dell’opinione pubblica laica ma in particolare da parte della classe medica, degli scienziati, delle donne. Anche in questo caso dunque un arco trasversale di segno opposto a quello formatosi in Parlamento per l’approvazione della legge.
In queste condizioni fu relativamente facile la raccolta delle firme per l’indizione del referendum abrogativo, anzi di cinque referendum unificati poi dalla Corte di Cassazione e infine trasmessi alla Corte Costituzionale per l’approvazione di merito. Tre giorni fa la sentenza, che ha respinto il referendum mirante all’abrogazione totale della legge ed ha invece approvato gli altri quattro quesiti con i quali i promotori chiedono di cancellare alcuni articoli e cioè quelli contenenti il diritto del concepito equiparato in tutto ai diritti di persone già nate ed esistenti, i limiti posti alla ricerca scientifica sugli embrioni e l’uso delle cellule staminali a scopo terapeutico, i limiti alla procreazione degli embrioni e al loro impianto, il divieto dell’accertamento medico sulla sanità dell’embrione, il divieto alla procreazione eterologa cioè ottenuta utilizzando ovuli o seme forniti da persone estranee alla coppia ma ovviamente con il consenso della coppia stessa. Si tratta in sostanza degli architravi delle legge 40 ed è proprio su di essi che si erano orientate le critiche dell’opinione laica.
Il capo dello Stato, su parere del presidente del Consiglio, dovrà ora fissare la data del referendum che deve aver luogo in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, a meno che nel frattempo il Parlamento non ridiscuta la legge 40 emendandola in modo da soddisfare i quesiti abrogativi proposti nel referendum.
Il dibattito sul merito è dunque destinato a riaccendersi, anzi si è già riacceso e verte sulle questioni inerenti e pertinenti ai quesiti di abrogazione.
Preliminare però all’analisi di tali questioni è l’esame della sentenza della Corte, possibile fin d’ora a lume di logica anche in assenza delle motivazioni che non sono ancora note. Ma il dispositivo ha una sua eloquenza e, se si può dir così, parla da solo.
Prima di inoltrarmi nell’esame delle suddette questioni sento tuttavia il dovere, come cittadino, di ringraziare le forze politiche che si sono impegnate nella raccolta delle firme per l’indizione del referendum e segnatamente il Partito radicale. Dai radicali mi dividono molte cose, a cominciare dal loro abuso di richieste referendarie che ha avuto il negativo effetto di logorare l’istituto e quasi di renderlo inviso agli elettori. Salvo nei casi in cui una consistente parte di essi rivendichi quei diritti che una legge può in ipotesi aver loro sottratto e voglia legittimamente riappropriarsene. I promotori del referendum adempiano in tal caso utilmente al ruolo di dare sbocco completo a quella volontà popolare, quale che ne sia poi l’esito istituzionale.
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Comincio con il preliminare, la sentenza della Corte.
Ha giudicato improponibile il referendum sull’abrogazione totale della legge 40, ma ha invece ritenuto validi e ammissibili i quattro quesiti miranti ad abrogare alcuni articoli della legge stessa. Perché? Quale può essere la "ratio" di questa complessa sentenza che al tempo stesso nega e concede? Secondo me la "ratio" è abbastanza chiara. Il Parlamento ha approvato una legge che detta criteri su una questione, la procreazione assistita, fino a quel momento priva d’una normativa e quindi soggetta ad abusi gravi, lesivi della salute e fonte anche di discriminazioni vistose tra abbienti e non abbienti nel ricorso alle risorse che la medicina genetica mette oggi a disposizione.
L’abrogazione totale della legge 40 avrebbe riportato a zero il faticoso iter parlamentare rinviando a chissà quando il recupero del suo impianto.
Ma continuiamo l’esame della sentenza. L’ammissibilità dei quesiti referendari accolti dalla Corte consente, almeno sulla carta, che il Parlamento intervenga subito, entro la scadenza referendaria, modificando la legge in modo tale da soddisfare i quesiti referendari. La Corte cioè ha tenuto conto, come doveva, sia dell’autonomia delle richieste di chi ha promosso il referendum abrogativo sia della sovranità legislativa del Parlamento e ha sentenziato di conseguenza.
In questo quadro la domanda se ora sia opportuno oppure no che il Parlamento modifichi la legge evitando il referendum mi sembra di secondario interesse. Se il referendum si farà e se dovessero vincere i "no" o se il quorum del 50 più 1 per cento non fosse raggiunto, la legge attuale risulterà confermata senza emendamenti. Se invece vincesse il "sì" o se la legge fosse emendata prima del referendum e allo scopo di evitarlo, avrebbero vinto in entrambi i casi i promotori del referendum stesso.
Queste sono le diverse possibilità teoriche.
Personalmente penso che il tempo disponibile per un intervento parlamentare immediato e soprattutto la voglia di farlo non vi siano. Andare al referendum mi sembra dunque la scelta più chiara e più rispettosa della sovranità popolare.
Il tema sovrastante su tutti gli altri quando si esamini il merito della questione sta comunque nella natura dell’embrione e se esso sia fin dalle prime ore di vita una "persona" titolare di diritti oppure un grumo di cellule evolutive, una persona "potenziale" ma una non-persona "attuale" e che quindi non possa usufruire di diritti soggettivi.
Le opinioni su questo punto capitale sono molto divise. Io non credo che l’embrione sia una persona e penso che la sua capacità evolutiva non sia un dato sufficiente ad attribuirgli diritti autonomi e conflittuali con altri diritti. Penso che l’embrione, prima che la sua capacità evolutiva da potenziale divenga attuale dotandolo di un minimo di organi biologici che lo configurino come soggetto, sia ancora interamente confuso con il corpo della madre e non distinguibile giuridicamente da lei e dalle sue determinazioni. Il legislatore può entro certi limiti condizionare tali determinazioni in funzione di un pubblico interesse, badando però a non annullare quel diritto soggettivo in nome d’un altro diritto conflittuale ma secondo me inesistente.
Mi rendo conto che questa opinione è, appunto, opinabile.
Legittima ma opinabile. Ci sono però altre considerazioni che vanno prese in esame. Le seguenti.
Chi decide di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita non avendo altre possibilità di procreare, desidera evidentemente dar vita ad un nuovo essere. Agisce dunque in favore di una nuova vita. Non si comprendono perciò le limitazioni che vengono poste a questa pulsione creativa e gli ostacoli che giocano obiettivamente contro la nascita di nuove vite e nuove persone. Nello scontro fin troppo aspro tra le varie opinioni, i cosiddetti "movimenti per la vita" di ispirazione cattolica hanno tacciato i loro avversari come "partito della morte". Non si rendono conto che una definizione del genere, oltre ad essere settaria, si presta ad essere rovesciata. Il partito della vita è quello che favorisce la realizzazione d’un desiderio che può condurre alla nascita di nuove creature o quello che pone ostacoli a quella realizzazione? E ancora: l’uso terapeutico di cellule staminali per combattere malattie mortali e quindi per salvare vite esistenti è un gesto in favore della vita oppure un gesto mortifero quando riceva quelle cellule preziose da embrioni in soprannumero?
Si tratta di questioni estremamente complesse e non risolvibili se si attribuisce al concepito, fin dal primo istante del concepimento, una personalità attuale e gli si attribuiscono diritti di intensità pari a quelli di cui sono portatrici le persone attualmente esistenti. Non solo.
L’attribuzione di tali diritti a una non-persona fa sì che il suo unico possibile delegato sia lo Stato. Ecco l’ultimo paradosso di questo modo di pensare: lo Stato, attraverso le norme da esso formulate, si attribuisce il diritto di decidere in nome del concepito contro il diritto soggettivo della madre e della coppia genitoriale. Lo Stato cioè distrugge diritti soggettivi arrogandosi la rappresentanza di un diritto soggettivo attribuito per legge ad un soggetto potenziale ma inesistente allo stato dei fatti.
A me sembra chiaro che lo Stato abbia un rilevante interesse a regolamentare i diritti soggettivi genitoriali in materia di procreazione medicalmente assistita; ma un interesse non è un diritto soggettivo e lo Stato non può esercitarlo per delega d’un gruppo di cellule vive ed evolutive quanto si voglia. Lo Stato può agire sulla base di un interesse proprio e della collettività che rappresenta, ma quell’interesse non giustifica in nessun caso la confisca e la soppressione di un diritto soggettivo senza che ciò configuri un gravissimo abuso di potere.
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Io non credo che le osservazioni sopra esposte siano superabili né credo che in questa discussione siano coinvolti e lesi principi religiosi. La religione difende il principio della vita, ma anche i non-religiosi lo difendono se non altro seguendo l’impulso alla sopravvivenza della specie. I religiosi difendono la vita dell’embrione, ma anche i non religiosi la difendono; si è mai visto o udito qualcuno che auspichi una sistematica strage di embrioni? Il problema nasce quando, in nome di persone potenziali si inventano diritti confliggenti con quelli di persone esistenti e si fanno soggiacere i secondi rispetto ai primi. Questo, appunto, è il paradosso contenuto nella legge 40 e a questo paradosso vogliono porre rimedio i quesiti referendari che la sentenza della Corte ha giudicato ammissibili. In nome della vita. In nome dei diritti intangibili della persona. In nome del dovere di curare persone ammalate di morbi mortali. In nome della libera ricerca scientifica.
Lo Stato può regolamentare l’esercizio dei diritti inalienabili degli individui, ma non può sopprimerli né confiscarli e non può attribuirsene la rappresentanza senza trasformarsi in uno Stato totalitario. Quanto alla religione, essa può raccomandare ai credenti comportamenti ritenuti coerenti con i principi della fede ma non può neppure tentare di imporli a una libera comunità senza con ciò violare quella "laicità" che dovrebbe rappresentare il terreno comune di tutti coloro che hanno a cuore la civile e ordinata convivenza.
ADESSO dunque il programma c’è. Sia quello lungo sia quello breve, i primi cento giorni collocati nello sfondo d’una intera legislatura. I provvedimenti e gli interventi da effettuare per recuperare l’unità del paese nel solco di principi e di convinzioni morali condivise da tutta l’Italia democratica e riformista. E c’è anche la squadra che dovrà guidare la campagna elettorale e – se il risultato sarà quello atteso – la nuova maggioranza parlamentare e il nuovo governo.
Chi vorrà analizzare i contenuti di quanto è emerso dalle due assemblee, della Margherita a Milano e dei Ds a Firenze, potrà consentire o dissentire nel merito ma dovrà ammettere che il quadro d’insieme è chiaro, la direzione di marcia è stata nettamente indicata e l’appuntamento con il futuro partito democratico ne rappresenta lo sbocco finale realizzabile entro un termine ragionevolmente prossimo.
Ho, purtroppo per la mia anagrafe, un’esperienza di campagne elettorali di oltre mezzo secolo, quasi sempre come osservatore, talvolta come partecipante. Posso dunque testimoniare che l’Italia riformatrice non si è mai presentata ai nastri di partenza così preparata e matura come questa volta.
Comunque vada la sorte elettorale, questo è già un primo obiettivo raggiunto; lo si deve, secondo me, a due cause: l’uscita definitiva delle forze riformiste dagli involucri che le hanno trattenute per molto tempo, le hanno soffocate all’ombra di pregiudizi e interessi, e le hanno contrapposte.
L’involucro democristiano da un lato e quello comunista dall’altro. Le ingessature ideologiche e i bendaggi mummificati sono durati lungamente sotto la forma degli ex e dei post, ma ora finalmente sono stati rotti. Ne è uscita una vitalità nuova, una convergenza di propositi e un’alacrità di proposte da mettere in opera per i cittadini e con i cittadini. Non l’arcaico politichese degli apparati e neppure il distillato pseudo-modernista dei tecnocrati, ma il senso compiuto della «polis», una comunità partecipe senza la quale è diventato impossibile governare un mondo sempre più complesso e più variegato di interessi e di idee.
L’avanguardia di questa nuova stagione l’abbiamo scoperta e vista all’opera due mesi fa: quei quattro milioni e mezzo di italiani che hanno affollato i gazebo delle primarie dando vita ad un evento mai verificatosi prima di allora. Romano Prodi, ricordando quell’eccezionale fenomeno, ha detto a Firenze che in quella giornata del 6 ottobre scorso è stato costruito un ponte che collega la classe politica alla società. E D’Alema ha aggiunto che quel giorno è stata chiusa la fase dell’antipolitica e del politichese.
La penso anch’io allo stesso modo. Il potere degli apparati crolla quando i cittadini rivendicano la loro sovranità ed esercitano attivamente il loro diritto di partecipare; nello stesso momento e per le stesse ragioni crolla il qualunquismo che è l’altra faccia del politichese e degli apparati.
Gli stimoli venuti da Firenze e da Milano sono il primo risultato di forze liberate. Dovranno costruire il futuro prendendo nelle loro mani il presente. Le premesse finalmente ci sono.
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Guardiamole più da vicino queste premesse.
All’assemblea diessina di Firenze ha preso la parola, portando il saluto della Margherita, Dario Franceschini, uno dei dirigenti di maggior rilievo del suo partito. Il suo intervento è stato centrato su una parola-chiave, ripresa subito dopo da Fassino: la laicità. Se ne è fatto fin troppo abuso di quella parola, fino ad annacquarne e addirittura a stravolgerne l’essenza, sicché Franceschini ha dovuto chiarirne l’autentico significato. La laicità costituisce l’essenza della democrazia moderna ed è il diritto di ogni individuo, gruppo, comunità, insomma soggetto singolo o collettivo, di sostenere i propri diritti e di essere ascoltato con attenzione e rispetto.
Reciproci. Senza imposizioni e sopraffazioni. Senza imporre la propria verità a chi non la condivide.
La democrazia è il contenitore di queste parziali verità e parziali interessi. La volontà della maggioranza si costruisce attorno alla sintesi delle diverse tesi. Le istituzioni della democrazia hanno il compito di attuare quella volontà garantendo che essa non potrà trasformarsi in un sistema chiuso ma ampliare lo spazio pubblico che include e non esclude.
Questa è la laicità ed è ai nostri occhi della massima importanza che un concetto così alto sia stato posto dai principali rappresentanti dei due partiti riformisti costituendo perciò stesso il fondamento del costruendo partito democratico.
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Dalla laicità discende la politica dei diritti. Lo Stato di diritto. Il rispetto delle garanzie. L’eguaglianza delle posizioni di partenza e quindi la massima attenzione verso i deboli affinché non siano esclusi.
Il punto nevralgico dell’esclusione o dell’inclusione è collocato nel mercato del lavoro, nella disoccupazione duratura, nel precariato permanente.
Anche su questo punto l’approdo cui sono arrivati i due partiti dell’alleanza riformista è comune: flessibilità mirata a costruire processi professionali stabili e sorretta da una solida rete di ammortizzatori sociali.
I critici osserveranno (hanno già osservato) che flessibilità e occupazione duratura sono affermazioni contraddittorie, un ossimoro se vogliamo usare il lessico della retorica. Per certi aspetti anche libertà ed eguaglianza raffigurano un ossimoro. La vita sociale è costellata di ossimori, la modernità ne ha accresciuto il numero, la globalizzazione l’ha moltiplicato. Il più celebre che aprì appunto l’era moderna lo pronunciò Colombo quando salpò dal molo di Siviglia per le Americhe: «Buscar el levante por el ponente», raggiungere il levante facendo rotta a ponente. Non fu questo il più felice degli ossimori? Diventò un risultato perché la terra era rotonda. Così molte contraddizioni si risolvono quando si scopre che i percorsi sociali non sono mai rettilinei ma circolari, circostanza troppo spesso ignorata dai qualunquisti e dai tecnocrati. La democrazia non può che avere un impianto circolare nel quale tutti i valori e gli interessi legittimi sono collocati sulla linea della circonferenza sentendosi ciascuno il centro della propria circonferenza.
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Noi - è stato detto da Prodi - non diremo come Berlusconi che il fisco è un nemico, proprio mentre il suo governo quinquennale si conclude con l’aumento della pressione fiscale, la decurtazione del potere d’acquisto, la stagnazione del reddito e la crescita esponenziale del deficit e del debito pubblico. Noi diciamo invece che un fisco amico deve servire a sostenere le fasce deboli della società, a premiare le imprese innovatrici, a migliorare la competitività, a penalizzare le rendite e i profitti di speculazione e a stanare l’evasione e l’elusione.
Questi aspetti della questione fiscale sono stati ampiamente descritti nella relazione programmatica di Bersani e ripresi nella conclusione di Fassino. Specifici provvedimenti in materia sono stati indicati da un lavoro di équipe cui Vincenzo Visco ha fornito il contributo d’una lunga esperienza alle Finanze e al Tesoro. Analoghe proposte erano state illustrate a Milano da Enrico Letta per la Margherita.
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Non sembri idilliaca questa sintesi dello schieramento di battaglia con il quale la «lista grande» del centrosinistra ha aperto la sua campagna elettorale. D’Alema ha detto che la vera lotta, lo sforzo più arduo, comincerà dopo la vittoria, quando le parole dovranno cedere il posto ai fatti concreti.
Esattamente, la vera lotta comincerà allora. Né sarà idilliaca la nascita del partito democratico proprio perché le resistenze degli apparati non mancheranno, le legittime ambizioni all’interno dei gruppi dirigenti neppure, le vie di fuga, le tentazioni, le antipatie stratificate si faranno sentire per un pezzo.
Di qui una fretta eccessiva da un lato, una lentezza altrettanto eccessiva dall’altro, due difetti simmetricamente opposti ai quali non bisogna cedere. Chi dice che per tenere a battesimo il nuovo partito ci vorranno cinque o addirittura dieci anni in realtà non lo vuole. E chi afferma (ce ne sono) facciamo subito prima delle elezioni, neppure lui lo vuole.
L’esempio di Sharon, che ha creato il suo nuovo partito in poche settimane ed è accreditato della vittoria, non calza affatto perché l’incubazione di quell’iniziativa è durata anni, l’evoluzione dell’opinione pubblica israeliana in favore della pace è cominciata solo nel momento in cui fu varato il progetto di sgombero degli insediamenti di Gaza e della Cisgiordania, la morte di Arafat ha sgomberato il campo e spento la seconda Intifada.
Non poche settimane, ma anni di logoramento del Likud e di esaurimento dei laburisti.
Un elemento importante per quanto riguarda il caso italiano sarà l’esito elettorale della «lista grande» e, al Senato, i risultati del voto ai partiti in lizza. Se la «lista grande» arriverà al 35 per cento o addirittura lo supererà, sarà stato compiuto un passo decisivo verso il partito democratico e la sua formazione potrà procedere in fretta. Il propulsore di questa spinta è inevitabilmente Romano Prodi. Prese più del 70 per cento dei voti alle primarie, in un campione rappresentativo di metà del corpo elettorale. Quel 70 per cento equivale appunto al 35 cui può aspirare la «lista grande» da lui capeggiata.
Gli elettori che gli hanno dato il voto sanno che Prodi sarà il propulsore d’un riformismo forte come egli stesso ha detto più volte. Forte non è un aggettivo generico.
Significa un più su tutti gli elementi dei vari ossimori: più libertà e più eguaglianza, più sviluppo e più rigore, più flessibilità e più sicurezza di lavoro, più tecnologia e più ecologia, più rispetto per la Chiesa e più autonomia delle coscienze e rispetto delle loro singole decisioni, più indipendenza della magistratura e più responsabilità dei magistrati, più scuola di formazione e più preparazione del corpo docente, più autonomia degli enti locali e più responsabilità dei loro amministratori.
Infine più cultura, più politica, meno politichese.
Si tratta come si vede di compiti che richiedono l’impegno di una squadra di talenti numerosa e, come ora si usa dire, coesa. La squadra c’è e sarà arricchita da più giovani leve che per fortuna non mancano. La coesione è ancora, almeno in parte, un dover essere.
Una cosa è certa: il partito democratico non sarà un partito di moderati.
La moderazione è un concetto positivo e valido per tutti, i moderati invece sono una parte con connotati specifici. Hanno sicuramente altri strumenti per esprimersi, specie se l’anomalia berlusconiana sarà spazzata via dal corpo elettorale.
Certo l’alternativa Casini è deboluccia. Comincia ad effondere un sentore polveroso di vecchie sacrestie. Il passato non depone molto a suo favore, cinque anni di fedeltà alla causa berlusconiana non sono un «atout».
Diciamo che Casini guida la cavalleria leggera. Un punto di partenza, sapendo però che poi ci vorrà la fanteria.
Cercherà un ticket, ma con chi? Quali sono le divisioni di fanteria disposte a battersi per l’ex presidente della Camera? Il cardinale? I cardinali lanciano messaggi di pace e chiedono appoggio in nome della fede.
L’appoggio è benvenuto da qualsiasi provenienza. Lo accettarono perfino da Mussolini e per undici anni sembrò incrollabile. Finché sarà utile blandiranno Casini, se non servirà più lo lasceranno a godersi un po’ di vacanza.
Noi laici queste cose le conosciamo. Proprio per questo ci piace la laicità: piena libertà a tutti di parlare e proporre, rispetto per tutti e ognuno faccia da solo la sua strada. Nel rispetto della legge e, nel caso della Chiesa, dei Trattati stipulati con lo Stato. Non più né meno di questo.
CAGLIARI - La scrivania di Quintino Sella? A rischio imminente di sequestro per pignoramento. Magari con tutto il palazzo umbertino nel quale ha sede il ministero dell’Economia, ammesso che si salvi Palazzo Chigi, lasciando tranquillo Berlusconi fino al prossimo aprile, quando si prevede che dovrà lascialo a Prodi. Giulio Tremonti, che dinanzi a quella storica scrivania selliana siede, non ha ancora capito bene in quale guaio si è cacciato prendendo di petto mercoledì sera a Palazzo Chigi Renato Soru, governatore della Sardegna, con il quale ha rischiato addirittura lo scontro fisico.
Aduso al codice barbaricino, che vige tra Oliena e Dorgali e che difficilmente perdona, il governatore sardo è ancora furibondo per l’arroganza con la quale è stato trattato da Tremonti - con Berlusconi impacciato paciere - e annuncia, con lampo barbaricino negli occhi, ricorsi alla Corte Costituzionale, pignoramento di beni di Stato, persino l’applicazione dell’articolo 51 dello Statuto regionale che prevede la sospensione di leggi dello Stato "lesive dell’interesse della Regione", come lui ritiene la finanziaria di Tremonti.
Presidente Soru, col governo di Roma finirà come in Catalogna nel 1640, quando ci fu una sollevazione contro il duca Olivares per il taglio delle risorse finanziarie? O come in Scozia nel 1978, quando ci fu la ribellione contro una devolution un po’ tirchia?
«In Sardegna c’è uno spirito di ribellione, di irredentismo ben noto, ma noi ci riteniamo un pezzo dello Stato italiano e lo Stato lo rispettiamo. Ma lo Stato deve rispettare noi».
Non lo fa?
«No. Il ministro Tremonti ed io siamo due servitori dello Stato. Lui deve capire che chi ha queste responsabilità non può essere così arrogante».
Cosa le ha fatto esattamente?
«E’ stato poco rispettoso. Io gli ho detto che rivendico il diritto di essere ascoltato e possibilmente non in piedi».
Solo una questione di cerimoniale o di villania?
«Neanche per idea, una questione assolutamente sostanziale».
Ce la spieghi bene.
«Semplicissimo: chiediamo la corretta applicazione delle norme del 1948. Lo Stato incassa l’Irpef e sette decimi, in base alla legge, li deve dare alla Sardegna. Negli ultimi dodici anni lo Stato ha dato solo i quattro decimi. Per l’Iva, invece, è prevista una quota variabile, da negoziare ogni anno. Nel ‘91 avevamo i quattro decimi. Da allora l’Iva dello Stato è aumentata dell’82% e la nostra è diminuita dell’11%».
Risultato?
«La Sardegna nel 1999 aveva 250 milioni di debiti, ora ne ha 3 miliardi, uno squilibrio strutturale di bilancio certificato dalla Ragioneria generale dello Stato, che ha recepito le nostre ragioni. Ma lo Stato è moroso con noi per almeno 4,5 miliardi di euro per le quote di tasse che non ci ha versate».
E Tremonti?
«Mi ha assolutamente sgomentato il comportamento strumentale di un ministro della Repubblica. Un signore che non vuol sentire ragioni e trova scuse. Uno che non vuole affrontare i problemi per portare a casa chissà quale finanziaria, per il resto "chissenefrega". Uno che non conosce le leggi. La sua tesi era che la Sicilia ha trattato i dieci decimi dell’Iva e delle altre imposte in varie sedi e nella sede della Conferenza Stato-Regioni. Gli ho spiegato, che il nostro caso è diverso e che quella Conferenza di cui lui parlava è nata ben dopo lo Statuto sardo. Quel signore crede di essere andato a scuola solo lui. Nei confronti della Sardegna, in realtà, è in atto una malversazione. Noi non chiediamo nuove condizioni, come la Sicilia, ma il rispetto di norme già chiare e precise. Chiediamo soltanto quello che ci spetta. La legge finanziaria dello Stato deve, sottolineo deve, prevedere il pagamento della quota di tributi che ci spetta per legge. Altrimenti si tratta di risorse trattenute indebitamente, per usare un eufemismo».
Figli e figliastri, presidente Soru, tra regioni di centrodestra e di centrosinistra?
«Capisco le difficoltà del paese, ma io non posso indebitarmi per 500 milioni di euro per coprire parte del disavanzo di un solo anno, mentre la Lombardia di Formigoni accende mutui per soli 18 milioni di euro».
Ma Berlusconi ha detto che siete tutti suoi figli e che i figli vanno trattati equamente.
«Altroché. Io non posso fare il bilancio 2006 senza i soldi che mi spettano per legge e li rivendico in tutti i modi possibili. Userò tutti gli strumenti consentiti dalla legge».
Pignorerà il tavolo di Quintino Sella dinanzi al quale siede Tremonti?
«Spero di no, ma se occorre lo farò, ricorrerò alla Corte Costituzionale e a tutti i possibili gradi di giudizio».
Compreso il rigetto della finanziaria di Tremonti?
«Sì, il nostro Statuto dice all’articolo 51 che possiamo chiedere la sospensione delle leggi gravemente lesive degli interessi della regione. E’ ciò che faremo per la finanziaria di Tremonti, per una legge gravemente lesiva».
Capisce che creerebbe una crisi istituzionale senza precedenti?
«Lo capisco benissimo, solo Tremonti pensa che io non capisca. Lui magari prenda atto che noi, che abbiamo a cuore il paese, abbiamo tagliato del 52% il disavanzo, cancellati 50 tra enti, consorzi e comunità montane, 600 o 700 posti di consiglieri d’amministrazione, tagliato fondi a tutti. La Sardegna fa il suo dovere. Lui può dire lo stesso?».
Il governo dice che voi fate shopping.
«Ma quale shopping. Capisco che Tremonti, come dice, non abbia i soldi per pagare le pensioni, ma cerchi almeno di avere rispetto per una regione come la Sardegna che con il 2,5% della popolazione sopporta l’80% delle bombe che ogni anno scoppiano in Italia. Una regione nelle cui miniere volevano mettere tutte le scorie nucleari. Una regione che dopo 33 anni sopporta i sommergibili nucleari americani in base ad accordi secretati. Ci dica Tremonti, ci dica Berlusconi, ci dica chiunque sia responsabile, chi mai ha autorizzato la triplicazione della base americana della Maddalena. E’ abnorme, c’è qualcosa che non va nella democrazia italiana».
Governatore, si dice che lei sia talmente infuriato che vuole mettere una tassa su villa Certosa e sulle altre innumerevoli ville sarde del nostro premier. E’ uno scherzo?
«Bisogna che i sacrifici siano fatti con equità. Ma prima di tagliare i fondi per le politiche sociali, io penso che si possano aumentare le tasse sulle plusvalenze, sulle rendite finanziarie, sul fortissimo incremento del valore degli immobili e persino sul soggiorno. Chiederemo altri sacrifici ai nostri cittadini, ma useremo la leva fiscale anche con gli altri. In questi anni che plusvalenze hanno avuto i proprietari di immobili in Costa Smeralda? Quanta gente s’è arricchita? Che cosa hanno lasciato qui da noi, se non metri cubi di cemento? Ci sono 500 mila seconde case. Se le occupano per tre mesi l’anno siamo felici, ma pagano le loro tasse? Se le pagano in altre parti d’Italia perché non qui?».
Ma allora ha ragione Tremonti quando dice che voi sardi piangete sempre?
«Io non piango mai, se piango lo faccio per ben altro, non per Tremonti. Figurarsi se chiedo l’elemosina a uno come lui. Chiedo solo il rispetto dei diritti acquisiti dallo Statuto del 1948, che noi difenderemo oltre le nostre forze. Quei diritti nacquero con la guerra del ‘15-’18 nella quale lasciarono la vita 60 mila sardi. Da lì nasce la specialità che io ho il dovere di difendere, Tremonti o non Tremonti.
Chissà se il presidente Ciampi avrà inserito la parola «piazza» nel suo Dizionario della democrazia, che da domani va in libreria? C'è da dubitarne, conoscendo l'ex governatore della Banca d'Italia. Eppure la storia democratica di questo paese - ma vale anche per buona parte dell'Europa - con la «piazza» come spazio della politica ha avuto molto a che fare. Non solo nel bene, ma anche nel male, come ci ricordano il primo fascismo, la polizia di Scelba, qualche bomba non troppo lontana. Era una «dialettica» che oggi qualcuno può considerare primitiva, ma che ha segnato il nostro Novecento. Cancellarla non è un bene. Come non è un bene trasformare la «piazza» in qualcosa d'altro, da luogo della politica a teatro di una rappresentazione malefica. E' ciò che è accaduto ieri a Roma - e qualche giorno fa a Milano - con un'esercitazione antiterrorismo utile solo come promemoria per un inevitabile domani. Perché i veri protagonisti delle manovre di ieri non sono stati i poliziotti, gli infermieri, i vigili del fuoco: loro erano solo comparse mandate in strada per convincere gli spettatori - cioè tutti noi - a prepararsi al peggio. Una simulazione che non è servita a testare l'efficienza dei soccorsi dopo un attacco terroristico ma a rendere «normale» e «plausibile» la vita quotidiana in guerra. «Ecco il futuro che vi attende», questo è il messaggio. Che ammette una duplice resa: la politica non può risolvere i conflitti in corso, intelligence e uomini in armi non possono prevenire la violenza. E che, nelle sue punte estreme, rivendica la giustezza della scelta - questa sì profondamente politica - della via militare che non vuole nemmeno prendere in esame l'idea di disertare la guerra, pena la bolla di traditori dell'Occidente. Quasi fossimo nel 1571 a Lepanto, o nel 1683 a Vienna.
Povera piazza, riempita di figuranti e manichini, attorniata da paure e belliche grida. Ridotta a luogo delle passività, a rappresentazione del peggio. In perfetta continuità con lo spirito berlusconiano che fa appello alle insicurezze più profonde per esorcizzare il pericolo (sempre un po' comunista) dei barbari pronti a sbranare la dolce vita dei lustrini televisivi su cui il presidente del consiglio ha costruito le sue fortune e la sua popolarità. Violentata - la piazza - nella sua concretezza di corpi in movimento che possono produrre un agire comune - cioè la politica - per diventare il luogo del contrasto al male o l'annuncio del male stesso quando non si riempie a comando ma come prodotto di un sentire comune.
E quanta fatica costa ridarle vitalità, quanti dubbi incontra, anche a sinistra, considerarla un luogo positivo, una risorsa. Come è difficile per la nostra opposizione pensare di scendere in strada senza la paura che qualcosa possa sfuggire al controllo degli stati maggiori. Perché tra le virtù della piazza - quella non simulata - c'è l'imprevidibilità di chi la riempie e le dà vita. Nutrendo la pratica della democrazia. Come dovrà accadere domenica prossima e, poi, alla manifestazione dei sindacati contro la finanziaria. Affinché non si tratti di altre esercitazioni.
Nella torbida confusione di questa fine d'estate s'avanza all'orizzonte uno strano guerriero. Non è detto che venga avanti e tanto meno che vinca, ma la sua ombra c'è. Anche altri - penso al Riformista e anche a Libero - ne avvertono la presenza. Si tratta del «terzo polo», che potrebbe nascere dalla dissoluzione dell'armata di Berlusconi e da una frattura dell'Unione di centro-sinistra. I segni di questo possibile esito sono già nelle cronache giornalistiche. Da una parte il diffuso convincimento che Berlusconi ha perso e la conseguente polemica senza esclusione di colpi all'interno del suo campo, soprattutto da parte dell'Udc e di quella parte dell'elettorato che non ha gli impedimenti di An o della Lega a cambiare fronte. Dall'altra parte l'attacco - soprattutto con l'uso e l'abuso della questione morale - contro i Ds.
Siamo arrivati al punto che i Ds debbono chiedere a Prodi non tanto una solidarietà, ma una conferma della sua appartenenza al loro fronte. Finora Prodi tace, in ogni modo evita affermazioni nette. La risposta di Giulio Santagata («se uno dei due chiede che gli si dica "ti amo", vorrà dire che lo diremo») suona quasi un insulto. E si potrebbe aggiungere il sospetto che il rinvio al dopo primarie del programma possa voler dire che Prodi si vuole lasciare le mani libere. Anche il riavvicinamento, dopo le recenti polemiche, tra Prodi e Rutelli dà da pensare.
Tutto questo - è quasi inutile scriverlo, ma non va dimenticato - nella attuale situazione di profonda crisi economica, con imprese fortemente indebitate (a cominciare dalla Fiat) e con banche fortemente esposte con crediti non dico in sofferenza, ma di non semplice rientro.
Insomma in una situazione di diffusa e ragionevole paura. Una situazione nella quale, riducendosi il potere del capitale cresce quello dell'opinione e della stampa scritta: le tv aiutano certamente a vincere le elezioni come Berlusconi insegna, ma valgono meno nell'orientamento dell'opinione di quelli che contano, che pesano sul governo degli affari.
Così il fattore di accelerazione o addirittura di scatenamento dei mali che covavano è stato il tentativo di scalata di Ricucci e soci al Corsera, poi, ma con effetti analoghi, c'è stata la Unipol con la Banca Nazionale del Lavoro. Avere messo in gioco il Corriere ha determinato lo stato di emergenza.
Normalmente, ma tanto più in una situazione di emergenza il Corriere della Sera è importante, lo è storicamente tanto che si dice che nella prima guerra mondiale fosse Luigi Albertini a ordinare a Cadorna le famose offensive sull'Isonzo. Oggi (forse c'è anche Cadorna) siamo in una situazione di massima precarietà e il Corsera diventa ancora più importante. Il tentativo di scalata di Ricucci e soci, magari con il consenso di Berlusconi, era evidentemente pericoloso e andava bloccato. Qualcuno aveva suggerito un modesto intervento della guardia di finanza, ma si è trasformata in una guerra generale, che ha investito duramente Bankitalia con evidente danno per il sistema paese.
Su Ricucci e soci c'è poco da aggiungere a quel che abbiamo scritto e riscritto. Ma questo non significa che il sindacato di controllo di Rcs sia un sancta sanctorum (sarebbe interessante sapere per quale ragione Cesare Romiti e Alessandro Profumo se ne sono usciti) e neppure che Luca di Montezemolo sia l'Arcangelo Gabriele, con tribunale a Cortina d'Ampezzo.
Il punto è - così può sembrare - che in questa situazione di emergenza il Corriere viene assunto come arma decisiva e che la lotta diventa senza quartiere. E si accelerano le divaricazioni degli schieramenti finora esistenti.
Berlusconi è un re sconfitto che va abbandonato, ma non ci si può nemmeno fidare dei Ds che (nonostante tutte le loro ritrattazioni) hanno sempre un'origine comunista e poi potrebbero anche usare le cooperative. Il terzo polo può nascere, per aiutare lor signori, proprio perché malmessi: sarebbe la soluzione per sopravvivere e magari ricominciare. Archiviando il bipolarismo sotto le insegne di Casini.
A questo punto Romano Prodi deve parlar chiaro e non rinviare il suo programma a dopo le primarie. Il fantasma del terzo polo si sta materializzando..
IL PROFESSOR Buttiglione non è contrario a un candidato leader prelevato fuori dalla politica: porterebbe, dice testualmente, "un soffio di moralità". L´espressione è strepitosa. Ricorda, nella raffinata svenevolezza, la "lacrima di latte" che le signore desiderano nel loro té, appena un´impressione, un´ombra, un quasi niente. Il soffio di moralità è gozzaniano, intenerisce e insieme strugge, e ci rammenta che il ruvido vigore delle idee antiche (penso alla "questione morale" di Berlinguer, sono passati solo vent´anni ma pare il Gioberti, o Quintino Sella) è ormai sfiorito: oggi si attende un soffio, un refolo, un rigo appena, e già sarebbe – diciamolo – grasso che cola. Il bello, poi, è che perfino questa nuance di rettitudine, timidamente invocata in un´intervista estiva, è più che sufficiente a turbare gli animi. Nel centrodestra saranno in molti a leggere in quel soffio un siluro contro il premier, che di doti ne possiede a bizzeffe, ma ha costruito il suo successo soprattutto sul suo allegro e disinibito immoralismo, che tanto piace agli italiani. È sul dosaggio, dunque, che si aprirà il classico rovente dibattito: se di moralità ce ne vorrebbe un chilo, un etto o basterebbe un grammo, e soprattutto se pesa più un chilo di moralità o un chilo di voti. E patti chiari, poi: se uno porta la moralità, a un altro tocca portare il vino, e a un terzo (non Buttiglione) sua sorella.
Per una volta do' ragione a una battuta di Tony Blair: bisogna estirpare le radici del terrorismo. E sono profonde. La prima viene da un atto incontrovertibile: prima della guerra del Golfo il terrorismo non c'era. C'era l'Islam, c'era il Corano, c'erano i wahabiti, c'era un forte insediamento musulmano in Europa, ma non c'era lo scontro fra civiltà, quello che oggi riempie le bocche da una parte e dall'altra. Non che nel Medio Oriente mancasse l'attentato politico, ma era mirato - come da noi - ai singoli e ai potenti o, nel caso dell'Algeria, al proprio interno dopo l'esclusione del Fis dalla vittoria elettorale. Non c'era lo spargimento di sangue e paura fra la gente semplice di un altro paese, quella che va al lavoro ogni mattina, perché senta sulla propria pelle gli effetti più o meno collaterali della guerra voluta dai soli capi contro questo o quello stato del Medio Oriente. Questa radice primaria viene regolarmente rimossa malgrado che negli anni `90 fosse annunciata da Al Qaeda. Per prenderla sul serio c'è voluto il massacro alle due Torri.
Seconda radice certa, la risposta degli Stati Uniti con un'altra guerra, in Afganistan e in Iraq, non poteva essere più stupida e arrogante: il terrorismo si è esteso ben oltre Al Qaeda, come arma specifica della guerra asimmetrica. In Palestina colpisce solo gli israeliani e necessita di kamikaze, travolgendo quei disgraziati paesi in uno scontro senza fine. Ma quello che è definito terrorismo internazionale ha morso, dopo un primo attentato a Parigi, ben più aspramente Madrid e Londra (e domani, ci ha promesso il nostro premier, probabilmente morderà noi). Gli attentati ai trasporti nelle ore di punta sono facili, al posto del kamikaze c'è qualcuno che se la può anche filare fidando nel timer e in ogni caso, se è preso, viene preso dopo e ha in conto la morte o la galera o la tortura.
Terza radice: la demenza di fare una guerra al terrorismo colpendo uno stato, come se si trattasse di un esercito regolare al di là di una frontiera. Non solo non lo colpisce, colpisce degli innocenti e ne moltiplica gli adepti. Non prenderne atto è stupido. Li cattureremo, ha assicurato Blair. Già, chi? dove? come? Ha più buon senso l' intelligence quando dichiara che prevedere uno di questi attentati è impossibile. Non si possono perquisire tutti gli autobus, i metrò, i tram. E poi magari tutti i passanti. Questo genere di rimedi stanno colpendo perversamente le libertà civili delle nostre contrade.
In conclusione s'è fatto un errore dopo l'altro. Per estirpare il fondamentalismo terrorista occorre chiudere con le guerre in Medio Oriente. Bisogna affogarlo nella pace. Nella pace, quella che tutte le genti preferiscono, non avrebbe più terra per allignare, acqua dove nuotare. Che sia intrinseco all'Islam volere la distruzione dell'Occidente è una bufala, vi è convissuto per secoli e se mai ne è stato attaccato: la distruzione degli infedeli è stata la bandiera delle crociate papaline.
Queste verità, che sono di evidente buon senso, sfuggono soprattutto al dibattito italiano. Dal repulisti di tutti i musulmani in Europa gridato dalla Lega, alla moltiplicazione di un' intelligence che li dovrebbe sorvegliare, auspicata da Fassino, alla concessione di un diritto di esistere fra noi soltanto quando avranno denunciato un arabo (tesi della delazione tanto cara a Giuliano Ferrara) è tutto una variazione sul mostrare i muscoli nello scontro di civiltà - perfino il Corriere vi ha messo, anche se sottovoce, la sua elogiando dei Ds il realismo dell'invito a scordare il passato.
Se c'è una politica insensata è questa. Se ci fosse un vero ruolo autentico per l'Europa dovrebbe essere quello di sciogliersi dai vincoli con l'amministrazione Bush, la più incapace delle presidenze americane del secolo, e far sentire con un'unica voce la crudele inefficacia delle strade seguite finora. E' già tardi, ma è meglio tardi che mai.