La morte di Nicola Calipari, agente di alto livello dei servizi segreti italiani, persona di fiducia del governo italiano, ucciso mentre compiva una missione su istruzioni precise del governo italiano, è solo in apparenza una questione internazionale, o un problema nei rapporti e nelle relazioni fra Italia e Stati Uniti.
Calipari, come è tristemente noto e come viene ripetuto ogni giorno sui nostri giornali e dalla nostra televisione, è stato ucciso da una pattuglia americana che ha fatto fuoco sulla macchina - che forse correva veloce e forse andava piano, che forse ha visto e forse non ha visto (o non ha avuto) segnali di avvertimento - mentre quella macchina stava portando all’aeroporto di Baghdad la giornalista italiana Giuliana Sgrena, appena liberata dagli agenti italiani dopo un rapimento e una trattativa durata un mese.
L’incidente è apparso subito gravissimo per due ragioni. La prima è che un alto funzionario italiano è stato ucciso mentre compiva una missione autorizzata e anzi comandata dal suo governo. Sia chiaro che non ci sono ragioni per credere che sia stato ucciso con intenzione.
Ma prima ancora che ce lo riveli la relativa indifferenza e irritazione degli alleati americani, ci viene detto, più o meno chiaramente, che Calipari è stato ucciso come può accadere di notte in zona di guerra: un’auto corre, una pattuglia spara.
Segue una grande e penosa finzione, la «commissione paritetica di inchiesta». Gli americani, che, anche quando sono brutali, sono sinceri e non amano le sceneggiate su gravi questioni politiche, non hanno mai detto che avrebbero aperto una inchiesta, ma soltanto che avrebbero ricostruito e accertato i fatti.
Non hanno mai parlato di “commissione paritetica”. Hanno dichiarato semplicemente - e onestamente - che due italiani sarebbero stati ammessi come “uditori” di quella commissione. Quella commissione non era di giudici indipendenti ma di militari incaricati di rappresentare le ragioni dei militari.
Dunque niente confronti, niente interrogatori, niente verifiche sul posto. Ma invece esibizione di materiale segreto, come le registrazioni delle telefonate e il monitoraggio dei satelliti.
Ci troviamo di fronte a due realtà diverse. Gli americani si sono dati come scopo esclusivo (ma esplicitamente dichiarato fin dall’inizio, con onesta brutalità) di accertare - nel senso di dimostrarne la correttezza e la legittimità - il comportamento dei loro soldati in area americana, in tempo di guerra e sotto l’esclusiva responsabilità di comandi di truppe americane, o di gruppi privati da essi dipendenti.
Gli italiani hanno annunciato la commissione congiunta, fatto credere a una situazione di parità, di accesso ai reperti, di autorità e di diritti condivisi. Hanno preannunciato un esito che avrebbe potuto essere più o meno favorevole agli italiani ma che avrebbe avuto comunque la forza, la logica, la legittimità di un verdetto accettabile.
La conclusione non è un verdetto, non è una decisione giuridica. È un comunicato con il quale una autorità militare verifica il comportamento dei propri uomini e - dall’unico punto di vista della sua logica di controllo del territorio in zona di guerra - conferma e approva l’operato dei propri uomini (come dimostra il rapporto militare diffuso ieri dal comando Usa). C’è da immaginare che gli anonimi membri del gruppo americano di lavoro (anonimi nel senso che, a parte il generale che ha presieduto, non è stato comunicato il nome, il rango, la funzione, il grado di esperienza dei partecipanti) non abbiano neppure richiesto la firma dei due auditori italiani. Il rifiuto di quella firma è qualcosa che riguarda gli italiani, o meglio, il governo, che cerca di marcare la distanza di ciò che è accaduto per non restarne travolto.
Al gruppo di lavoro americano quelle firme non servono, non mancano e non significano niente. Ciò che agli italiani è stato detto di attendere come il verdetto di una commissione paritetica di inchiesta è invece il comunicato interno di una autorità militare che approva se stessa.
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È bene ripetere: qui non è in gioco il rapporto, militare o diplomatico, fra l’Italia e gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non hanno mai promesso niente e dunque non hanno mancato o deluso nessuna promessa. È in gioco il rapporto fra l’Italia e l’Italia. Ovvero l’Italia e il suo governo. E - a nome dell’Italia - fra tutti coloro che si oppongono a Berlusconi e alla conduzione frivola e incosciente della politica estera e militare di Berlusconi.
Il caso Calipari, così come viene raccontato dagli americani, stride con la realtà, solo perché noi, in Italia, siamo prigionieri di una verità scrupolosamente e minuziosamente falsificata. Falsificata al punto da deviare l’intero flusso di comunicazioni, compreso quello che orienta (e che a volte ha diviso) il comportamento della opposizione sulla guerra in Iraq.
Coloro che - nel Parlamento italiano - si sono domandati a lungo se si dovesse o potesse rifiutare di inviare truppe in Iraq e hanno deciso, anche a sinistra, che “gli iracheni non possono essere lasciati soli” hanno saltato una domanda essenziale, su cui si è giocato il destino di Calipari e di decine di soldati italiani a Nassiriya: oltre al problema del sì o del no c'era il problema del “come” andare in Iraq. Su quel delicatissimo problema con abilità e fiumi di retorica il governo e le sue truppe parlamentari sono riusciti a deviare ed eliminare il dibattito. La domanda era: se si va, a quali condizioni, con quali diritti, a quale livello di partecipazione e di decisione?
In ogni trattato, per quanto potente sia la controparte, c'è un punto in cui si discute alla pari, altrimenti non è una alleanza ma uno stato di subordinazione. Ci sono mille ragioni per essere alleati con gli americani. Ma nessuna ragione di rinunciare ai diritti di un Paese sovrano, che ha un ruolo, un peso e, in questo caso, anche una funzione simbolica. Tutto ciò non ha contato nulla, per il frivolo Governo Berlusconi. S'intende che se un corpo di spedizione militare va a congiungersi con altre truppe che sono in guerra, intorno a quelle truppe si forma un'area di attività di servizi e di funzionariato che dovrà avere, presso l'alleato che si va a sostenere, autonomia, protezione e franchigia.
S'intende che se lo Stato sovrano A si unisce, in una rischiosa operazione di guerra, allo Stato sovrano B, porta fatalmente in quella vicenda bellica, anche le opinioni del suo Parlamento (opposizione inclusa) e della sua opinione pubblica.
Ora l'opinione pubblica italiana è fortemente in favore della liberazione degli ostaggi, anche quando ci sono costi e rischi.
Ciò può essere in contrasto con le decisioni dell'alleato al quale ci siamo uniti, ma dove è stato detto, scritto o deciso che l'Italia avrebbe abdicato alla sua volontà di governo, di Parlamento e di opinione pubblica per adottare tutti i punti di vista dell'alleato? Come può perdere diritti qualcuno che va volontariamente ad aiutare qualcun altro? Esempio: nel corso dell'ultima guerra mondiale, la piccola Francia del generale De Gaulle (la cui presenza accanto al gigante America aveva però un peso morale molto grande) aveva interesse ad apparire come prima autorità occupante nel Nord Africa appena liberato (Algeria, Tunisia) nonostante la sproporzionata presenza delle truppe americane e inglesi.
E dunque, appena cacciati i tedeschi, è stata la bandiera francese a sventolare sulla vittoria che certo francese non era. È avvenuto perché così richiedeva la buona politica del momento.
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Berlusconi invece è corso avanti a offrire soldati in cambio di niente e ha mentito due volte. Agli italiani ha detto che si trattava di una missione di pace (e ciò ha provocato più morti - o forse tutti i morti da Nassiriya a Baghdad - perché nessuna precauzione è stata presa per proteggere il contingente della presunta missione di pace).
Agli americani - che pure hanno una cultura politica fondata sul pragmatico rendersi conto delle necessità degli altri - è stato fatto capire che non vi era alcuna condizione, alcun diritto italiano da salvaguardare. E così abbiamo avuto, per la prima volta dal 1945, truppe italiane sotto comando inglese, a sua volta subordinato al comando americano, senza alcun organo di consultazione e di mediazione nè per le emergenze nè per i fatti di tutti i giorni.
Un esempio delle complicazioni di tutti i giorni ci viene dato da un resoconto pubblicato da la Repubblica del 29 aprile. Si tratta di una violenta battaglia di Nassiriya improvvisamente scoppiata alcune notti fa nella zona presidiata dagli italiani, ma condotta senza preavviso da truppe americane contro ribelli sciiti dell'Iman Al Sadr, che però non attaccano mai gli italiani da quando le nostre truppe si sono ritirate in postazioni fortificate lontane dai centri abitati. Di quella battaglia gli italiani non sono mai stati informati né prima né dopo (ma avrebbero potuto essere obiettivo di rivalsa e di vendetta da parte degli attaccati). Ciò avviene perché non esiste alcun trattato tra i due alleati che preveda informazioni del genere e non esiste alcun organo politico o militare in grado di accogliere una protesta o che abbia il dovere di offrire una ragione.
Ecco spiegato, nella sua immensa tristezza, nell'epilogo che resterà inconsolabile per la famiglia, gravissimo per il Sismi, e macchia indelebile per il governo italiano, (finché ci sarà questo governo italiano) il caso Calipari. Non c'era nessuno a cui comunicare la decisione italiana di salvare la Sgrena nel modo, al costo e col rischio richiesto dall'intera opinione pubblica italiana. Non c'era nessuno che avesse l'autorità di dirlo e nessuno che avesse il dovere di prenderne atto e di rendere sicura (per quanto è possibile in guerra, per quanto è possibile senza la finzione di una inesistente missione di pace) la strada della salvezza verso l'Italia.
Il governo delle pacche sulle spalle, dell'ottimismo incosciente, del Festival di Sanremo e della campagna elettorale senza fine, aveva altre cose da fare che stipulare un trattato che desse diritti e rispetto a soldati e funzionari della Repubblica italiana operanti in zona di guerra per decisione e su istruzioni di quel governo.
L’ITALIA azzurra non c’è più. Quella "Fantasyland" felice e spensierata del 2001, dove un "partito personale" dominava in 81 province su 100, s’è dissolta. Quell’appendice virtuale di Milano2, riprodotta su scala nazionale dalla Casa delle Libertà, esiste ormai solo nella mente del suo "inventore". Berlusconi ha perso anche queste elezioni regionali. Si partiva da 8 a 6 per il centrodestra. Dopo questa chiamata alle urne per 41 milioni d’italiani, secondo le proiezioni provvisorie della notte, finirà 11 a 2 per il centrosinistra. Si frantuma la geografia politica immaginata dal premier. Prodi consolida la sua leadership, la lista unitaria prende corpo, i Ds diventano il primo partito in molte aree del Paese.
L’opposizione strappa agli avversari il Piemonte al Nord, il Lazio al Centro e la Puglia al Sud. È molto più che una sconfitta. È una disfatta. Nel Polo, che resta maggioranza in Parlamento ma non nel Paese, finisce la "dittatura del premier". Quello che comincia non si sa ancora. Sicuramente un "tutti contro tutti", se non addirittura un "rompete le righe".
Le elezioni regionali sono un test locale per definizione. Ma qui c’è qualcosa di più. Dopo il trionfo del 2001, il Polo ha perso le amministrative del 2002, le provinciali del 2003, le europee e le comunali del 2004, le suppletive del 2005, e ora anche le regionali. In questa sequenza non c’è solo un "segnale", estemporaneo e congiunturale. C’è forse, soprattutto, un travaso di voti nel bacino (finora a compartimenti stagni) della rappresentanza bipolare. Lo dimostra l’affluenza alle urne, molto alta considerata anche la traumatica coincidenza del voto con la scomparsa di Giovanni Paolo II. E se è vero (come insegnano i sondaggisti) che non esiste un astensionismo di sinistra, ma solo una forte quota di elettori incerti o lontani dalla politica, questo vuol dire che tanta parte di questo elettorato "di mezzo", che in passato ha votato per il Polo, stavolta ha votato per l’Unione. Il tracollo del centrodestra è grave. Riapre al suo interno una verifica che in realtà non si era mai chiusa. Ne compromette in modo strutturale la già precaria stabilità. Per almeno quattro ragioni fondamentali.
1) La caduta del Piemonte sancisce il fallimento di un progetto strategico. Il blocco sociale più dinamico, quello della borghesia produttiva, dei professionisti e dei "padroncini", aveva affidato le chiavi d’Italia al "suo imprenditore", convinto che gli avrebbe aperto le porte dell’Eldorado economico. La vittoria della Bresso segna la fine di quel sogno. L’opposizione, conquistando la regione della Fiat e della media impresa, infila un cuneo decisivo nel "fronte del Nord", che Berlusconi aveva blindato insieme a Bossi. Per il Cavaliere e il Senatur sarà difficile governare un Paese complesso come l’Italia dalla "ridotta padana" del lombardo-veneto. Questo voto indebolisce anche quell’"asse del Nord", intorno al quale Berlusconi ha costruito i suoi successi e la sua provvista di seggi sicuri. Quasi sempre a spese degli altri due alleati, An e Udc, sempre poco visibili, sempre troppo acquiescenti.
2) La beffa del Lazio è ancora più cocente. E gravida di conseguenze. Qui entra in rotta il modello sociale rappresentato dall’anima più popolare e populista di An. L’autodafè di Storace è clamorosa. Probabilmente non basta a spiegarla il verminaio sudamericano esploso con la Mussolini: se anche si fosse raggiunto un accordo elettorale con la nipote del duce, la somma dei voti delle rispettive liste non sarebbe bastata a superare Marrazzo. In ogni caso, "Epurator" ha costruito la sua immagine sull’alterità: da Berlusconi, ma anche da Fini. Ha sempre contestato al suo leader la colpa di aver trasformato An in una "corrente" sbiadita di Forza Italia. Su questa posizione, ha dietro di sé una bella fetta di partito. È verosimile che ora chieda il conto al vicepremier, riversando su di lui la responsabilità di un’onta che non riguarda una persona, ma un partito e il suo posizionamento politico dentro la coalizione. Ed è altrettanto verosimile che Fini, privo di un suo vero delfino e assorbito com’è dalla Farnesina, abbia adesso una seria difficoltà a controllare An, fiaccata da un gregariato estenuante e lacerata com’è dalle correnti interne.
3) Il probabile successo di Vendola in Puglia è una pugnalata al cuore di un sedicente "moderatismo" che, evidentemente, Forza Italia e i centristi dell’Udc (i due partiti più forti al Sud) si sono illusi di rappresentare quasi "a prescindere". Dovrebbe aver vinto un rifondatore comunista e gay discreto ma dichiarato, che va a prendersi una delle regioni più "conservatrici" della Penisola. Al di là dei problemi che questa eventuale vittoria creerà nel centrosinistra sul piano dei rapporti di forza con Bertinotti, qui c’è l’indizio della crisi profonda di un falso modello di sviluppo, che il Cavaliere ha creduto di spacciare a colpi di grandi opere scritte sulla lavagna invece che realizzate sul territorio. Fitto è stato da sempre una pupilla dei suoi occhi, aperta sul prezioso serbatoio di voti del Mezzogiorno. Ora quella pupilla si chiude, e quel serbatoio si prosciuga. A Sud, per il Polo, resta solo la Sicilia.
4) Al fondo di tutto, c’è una nuova e inedita interpretazione del cosiddetto "fattore B". Così come quella di quattro anni fa fu in larga misura una vittoria personale, questa del 2005 è per ragioni uguali e contrarie una debacle personale. Perde la maggioranza, ma perde soprattutto lui, Berlusconi, che ha fondato le sue fortune politico-imprenditoriali sul mito dell’invincibilità. Il Cavaliere viene investito da un’onda lunga e crescente di malcontento popolare. La sanzione inevitabile dopo una fase stupefacente e ininterrotta di malgoverno politico.
Berlusconi perde sulla politica. Paga tutti gli errori commessi in questa avventurosa legislatura. Non lo premia una rovinosa riforma costituzionale, approvata prima di Pasqua solo per onorare un patto con la Lega, ma vissuta dagli italiani come una mannaia che si abbatte sull’unità del Paese. Non lo premia la grancassa degli sconti fiscali, suonata ossessivamente per un anno, e poi maledetta dai contribuenti che si sono ritrovati una manciata di spiccioli nella busta paga di gennaio. Il Cavaliere ha cercato più volte di sminuire la portata generale di queste elezioni. Ma negli ultimi dieci giorni si è presentato ben due volte nel salotto tv di Vespa, "terza Camera" un po’ corriva di questa sguaiata Seconda Repubblica. Ha occupato per una mattinata intera i microfoni di Radio anch’io. E se il mondo non si fosse fermato per la morte del Papa, avrebbe concluso tra bandiere e paillettes la campagna elettorale di Storace. Non proprio la condotta di chi vuole restare "fuori dalla mischia". Semmai la percezione, drammaticamente tardiva, di un consenso che gli stava e gli sta gradualmente sfuggendo di mano.
Berlusconi perde anche sui numeri. Dopo il 2001 avevamo creduto alla metamorfosi di Forza Italia, trasformata in un vero partito di massa. Ci eravamo sbagliati. Il crollo dei consensi che si registra dai primi dati sui voti di lista dimostra che quello del premier è rimasto ciò che era: un partito di plastica. Per questo, ora, anche tra gli azzurri si profila qualche notte dei lunghi coltelli, che non potrà non avere ripercussioni sul governo. Il Cavaliere aveva affermato che alla fine avrebbe contato non il numero di regioni che cambiavano segno, ma il numero di elettori che avrebbero votato per i due schieramenti. Il premier incassa una batosta anche su questo. Nelle regionali del 2000 il Polo ottenne 14 milioni 170 mila voti, contro i 12 milioni 453 mila del centrosinistra. Cinque anni dopo la maggioranza perde oltre 2 milioni di voti, che passano quasi interamente all’opposizione. La Cdl precipita dal 50,8% a poco più del 44%. L’Unione decolla dal 44,6% a oltre il 52%.
Dopo questo sisma elettorale, si entra in una "terra incognita". Un anno di livorosa resa dei conti a destra. Fini e Follini dovranno dimostrare, se ne hanno la forza e la voglia, che "un altro centrodestra è possibile". Ma sarà difficile che ci riescano. Il Cavaliere è un animale ferito, e ora anche braccato. Azzarderà colpi di coda pericolosi e imprevedibili. Ci aspettano dodici mesi di campagna elettorale permanente. Tra due settimane i ballottaggi, poi il referendum sulla fecondazione, poi le politiche nella prossima primavera. Ma queste regionali confermano che il Grande Seduttore non incanta più. Chiedere che si dimetta, compiendo lo stesso gesto di "disarmo unilaterale" che compì D’Alema nel 2005, non sarebbe sbagliato. Sarebbe inutile. Non lo farà mai. È geneticamente inadatto ad assumere quel minimo senso di responsabilità che si addice a qualunque uomo di Stato. In quasi quattro anni ha rinunciato a tradurre in un vero progetto politico una folgorante intuizione personale. Continuerà a governare l’Italia usando la vecchia legge di Truman: se non li puoi convincere, confondili. Ma dopo queste regionali, forse, gli italiani hanno scoperto il trucco.
Il lutto e lo spot
Ogni giorno si rivela: non ha maschera. Chissà se gli italiani finiranno per capire. Da la Repubblica del 15 marzo 2005
Silvio Berlusconi ha scelto la sede a lui più consona per dire la cosa a lui più conveniente. Un politico statista sarebbe andato in Parlamento per annunciare che a settembre inizierà il ritiro del contingente italiano dall´Iraq: dunque un annuncio importante, che segna uno scarto netto dalla linea fin qui seguita dal governo e ancora recentemente ribadita dal ministro degli Esteri Fini, da fare in una sede istituzionale, tanto più opportunamente nel giorno in cui si discuteva e votava il rifinanziamento della missione italiana in Mesopotamia.
Ma un politico mediatico, per il quale l´ascolto conta più delle forme e la propaganda delle istituzioni, sceglie la televisione, dove il messaggio arriva diritto al cuore e alle menti cui è diretto, senza la mediazione dei giornali come accade ai discorsi e ai dibattiti in Parlamento: dunque, un annuncio elettorale, a due settimane e mezzo dalle Regionali, in una sede impropria, e per giunta nel giorno in cui muore a Nassiriya il 28mo italiano in Iraq, il sergente Salvatore Marracino. Una disgrazia, durante un´esercitazione, ma destinata certamente ad alimentare l´inquietudine degli italiani sulla presenza delle nostre truppe (quantificata domenica su questo giornale da Ilvo Diamanti) dopo la tragica fine di Nicola Calipari. Sulla quale, tra l´altro, il presidente del Consiglio ha tentato, ancora una volta in modo improprio per la sede e per le parole usate, una minimizzazione intollerabile in pendenza di un´inchiesta congiunta con gli americani. Ha parlato di una "raffica sbagliata": una derubricazione di una tragedia in cui ha perso la vita un valoroso servitore dello Stato autoattribuita, a titolo giustificatorio, al "cittadino Berlusconi con il suo buonsenso".
Ma il cittadino Berlusconi è anche il premier Berlusconi e dovrebbe sapere che lo sdoppiamento di personalità non è ammesso in politica, ancora meno in quella i nternazionale.
Difatti, le maggiori agenzie di stampa hanno preso in parola il presidente del Consiglio e non il cittadino quando hanno "strillato" l´inizio del ritiro per settembre: «Italy to start withdrawing troops from Iraq in September» (l´Italia inizierà il ritiro delle truppe in settembre) è stato il flash urgente della Reuters, cui ha fatto eco la France Presse con un bulletin sulla «rèduction des troupes». E così la propaganda è diventata un boomerang.
Perché la Casa Bianca, che Berlusconi pensava di compiacere giustificando la "raffica" che ha ucciso Calipari con "un clima di paura tra le truppe, decine di soldati amputati alle mani e alle braccia", ha dovuto richiamare l´alleato all´ordine. L´obiettivo, prima di pensare al ritorno a casa delle truppe "con onore", è l´addestramento delle forze di sicurezza irachene perché siano in grado di garantire la stabilità del Paese. Lo ha detto il portavoce di Bush a precisa domanda sulle dichiarazioni di Berlusconi.
Del resto quelli erano i patti, come ha più volte ripetuto Fini: dovrà essere il governo iracheno a proporci di andar via quando la sicurezza dell´Iraq sarà sufficientemente garantita in modo autonomo dalle autorità locali. Almeno sul piano delle forma, affinché venga rispettata la sovranità degli organismi istituzionali dopo le elezioni di gennaio e dopo quelle che si terranno a fine anno. Perché sul piano della sostanza il ritiro italiano dovrà comunque essere concordato con gli americani, visto che il governo non ha mai voluto ridefinire la nostra missione, tantomeno proporre di porla sotto egida Onu.
Nessuno può negare all´Italia il diritto di ritirarsi unilateralmente, come ha fatto la Spagna: è un diritto insito nel concetto stesso di coalition of willing, la coalizione di chi ci vuole stare. Ma sarebbe per Berlusconi, oltre che uno scarto pesante da una linea politica di solidarietà ad oltranza all´America, uno schiaffo per l´amico Bush. Difficile che il premier voglia - e possa, come dimostra la reazione della Casa Bianca - permetterselo. E, allora, perché lo ha detto? Perché serviva, nel giorno di un altro lutto, uno spot forte per puntellare un prodotto, quello della missione in Iraq, in netto calo di audience perfino, come ha scritto Diamanti, tra gli elettori di centrodestra. L´obiettivo è fin troppo scoperto: capitalizzare voti per le Regionali dei primi di aprile, e magari, calcolando bene i tempi di un inizio di ritiro a settembre per concluderlo nei primi mesi del 2006, per ricapitalizzare in vista delle Politiche. Un wishful thinking, un desiderio scambiato per realtà, direbbero gli americani. Ma non dimentichiamo che fu a «Porta a Porta» che Berlusconi firmò il famoso contratto con gli italiani.
Le ragioni che hanno portato Furio Colombo a lasciare il suo attuale incarico sono uno scandalo europeo. O dovrebbero diventarlo, se qualcuno in Italia volesse davvero sollevarlo, questo scandalo di economia politica monopolistica e statuale, incrociata, pervasiva. Dunque, una grandissima pressione politica che dura da quattro anni, riassunta nel dossier presentato dal capo del governo contro il quotidiano l’Unità, si tramuta nel cambio (per quanto interno alla vecchia direzione) del direttore, che fa un giornale da cui scappano gli inserzionisti di pubblicità, controllata e distribuita dalle aziende di proprietà del presidente del Consiglio. Il cerchio si chiude: dossier minaccioso e falso contro il giornale, crisi delle entrate pubblicitarie, cambio di direzione, perché la linea di Furio Colombo è «criminale» (il giornalista Facci, che pare uscito dal Grande Fratello) e «omicida» (il felicissimo Ferrara). Un ricatto riuscito. Lo sapete il perché di tanto odio verso un democratico illuminato come Colombo? Perché, direbbe forse Pasolini, ha rotto lo schema dell'omologazione della classe dirigente, di cui fanno parte anche i giornalisti borghesi. Ha deluso, ha tradito: non ha fatto un giornalismo di potere, ma di opposizione. Questo è un paese controriformista, e un fratacchione come Ferrara lo dimostra ogni sera, alle otto e mezzo, quando accende i suoi roghetti e la sua ruota della tortura si muove, al ritmo delle sillabe che colano dalla barbiccia. Forse, descriverli, come avrebbe fatto Balzac, questo li farebbe incazzare davvero. Con tutto il rispetto e la stima per Antonio Padellaro, che del resto è stato il più stretto collaboratore di Colombo, queste dimissioni non sono un buon segnale. Perché le ragioni di queste dimissioni sono proprio le stesse che da quattro anni ci impegnano a lottare su questo foglio, anche noi «esterni», collaboratori per passione politica e culturale. Noi «eretici». C’è un signore che si è preso tutto, non solo, ma si vuole prendere anche il nostro, e manda in giro vari garzoni di bottega (direbbe il Kurtz di Marlon Brando), per esigere il riscatto. Così, chi è scrittore in proprio, deve sentir offendere i grandi scrittori (nel nome dileggiato di Tabucchi, «pensatore di riferimento» di Colombo), da parte di uno qualsiasi, un giornalistucolo impomatato di gel, che pare pronto per la discoteca. E chi è questo pensatore di riferimento di Ferrara, che si permette di svillaneggiare un signor direttore come Colombo, un uomo di cultura e di letteratura, e anche un lettore così sensibile di poesia? Ma loro cosa sanno della poesia?
Non l’hanno capito che l’Unità è stato un giornale di poesia civile, in questi anni? Che ha riscaldato i nostri sentimenti e le nostre passioni, per troppo tempo sopiti dal tran tran politicistico? Che ha raccolto la sintesi dell’opposizione parlamentare e di movimento, dando ragioni e analisi a questi sentimenti. E sono tre, cari accusatori di crimini inesistenti! Il primo: la memoria antifascista. Il secondo: la difesa costituzionale della libertà di parola e della divisione dei poteri: «Proteggete le nostre verità», come scrisse Franco Fortini. Il terzo: l’unità della cultura e dell’arte, contro l’omologazione berlusconiana. Che migliaia di lettori abbiano potuto leggere le opinioni di moltissimi scrittori, artisti, testimoni della vita culturale di sinistra, non è una cosa da poco.
i tempi della prima guerra in Afghanistan, ottobre 2001, ho sentito parole poetiche, dette al telefono, con un tono amabile che mai potranno avere gli sgherri giornalistici che oggi lo accusano, un tono che è l’anima della persona, una specie di flauto che, arrivando dalla cornetta, pareva ancora più lontano e antico; pareva, volendo essere poetici fino in fondo, il tono del movimento degli anni sessanta, arrivato fino a noi: «Allora furono proprio l’arte e la canzone, Bob Dylan e Joan Baez, la poesia di Ginzberg e dei beat, ad aprire la strada all’opposizione politica contro la guerra nel Vietnam. Vogliamo articoli, ma anche poesia». Ecco l’ultima: Giuliana Sgrena, libera da catena...
Le rotative de l’Unità suonano anche con Padellaro la stessa musica, quella di un grande giornale europeo d’opposizione e di pace, contro un potere così pervasivo, tanto da voler plasmare a piacimento anche il proprio avversario politico: «È la stampa, bellezza!». È l’Unità.
Non sarà carismatico come i grandi padri del partito e neppure brillante e sarcastico come D´Alema o nazional kennedyano come Veltroni, non scatena passioni e rancori. Ma Piero Fassino ha una qualità rara nel serraglio della politica italiana, popolato di narcisi e megalomani. E´ uno che vuol essere giudicato per i fatti e non sulla base delle intenzioni. I fatti sono che ha ereditato un partito allo sbando, diviso, a rischio d´estinzione, sconfitto dalla destra e pure sbeffeggiato in piazza dalla sinistra, e in tre anni l´ha condotto all´unità e al massimo dei consensi. Era giusto che si godesse ieri il plebiscito e la sua festa, che poi è stata una festa alla Fassino, molto sobria, stile pausa aziendale con brindisi nei bicchieri di carta. Da oggi ricomincia la sfida, con la consapevolezza che se fallisce la seconda metà del progetto, l´approdo al grande partito riformista, tutto sarà stato inutile.
La sfida di Fassino è creare dai resti dell´Ulivo una grande forza riformista del 35-40 per cento, sul genere delle social democrazie europee, se la parola non offende Rutelli. Come si vede, non è un´idea nuovissima, anzi.
Ci hanno provato in molti e hanno tutti clamorosamente fallito, dai tempi di Amendola fino alla Cosa 2 di D´Alema. Non è detto che vi riesca proprio Fassino, mettendo insieme Rutelli e Boselli e le mille anime del centrosinistra. Nessuno però è arrivato così vicino al successo.
Se n´è accorto perfino Berlusconi che non a caso rispolvera i vecchi arnesi della propaganda anti comunista qui e ora, con toni da ´48 ancora più fanatici di quelli usati nella discesa in campo. Nel timore che nell´opinione pubblica italiana finisca per consolidarsi un´immagine davvero nuova del centrosinistra che farebbe di colpo invecchiare la retorica del berlusconismo. Già le immagini a confronto delle due assemblee, quella dei Ds e l´altra di Forza Italia, parlavano da sole. Da una parte, un congresso bene o male vitale, con un platea di delegati che rispecchiano il paese reale, discorsi calati nella realtà e proiettati al futuro. Dall´altra una nomenclatura di potere raccolta ad applaudire a comando il solito discorso decennale di Berlusconi, con tanto di barzellette da capoufficio e continui richiami all´attualissima minaccia di Stalin.
Ora se Fassino riesce a portare a termine il suo progetto, se arriva a consegnare per il 2006 alla guida di Prodi una forza unitaria e solidamente ancorata al riformismo europeo, il ritratto di Dorian Gray del premier è destinato a rivelarsi in tutta la sua decrepitezza, con tutti i lifting e i trapianti di questo mondo.
La domanda è: perché Fassino dovrebbe avere successo dove hanno fallito gli altri? Forse perché gli altri, quelli più brillanti e carismatici, partivano dalle idee, dalle formule, e l´ostinato funzionario Fassino ricomincia ogni volta dai fatti. Nella fluviale relazione di ieri non ha perso troppo tempo sulla Fed, la Gad eccetera. Per qualche politologo sarà magari un segno di prudenza. L´impressione è invece che Fassino lasci volentieri il formulario agli alleati e punti sul concreto. Piuttosto che una definizione teorica del riformismo, il segretario diessino ha cercato di declinare la sua idea di riformismo con una sterminata serie di esempi d´attualità, dalle elezioni in Iraq alla riforma del welfare, dal fisco alla scuola. Una specie di manuale pratico del riformismo al posto di un saggio teorico. E´ un metodo un po´ noioso, da piemontese pignolo.
Di certo un Giuliano Amato, un D´Alema e Romano Prodi oggi saranno capaci di altri voli. Ma è il metodo Fassino, logico, lineare, efficace. Soprattutto, è quello di cui oggi si sente bisogno. Per troppi anni la politica italiana ha vissuto di leader carismatici e visionari, fabbricanti di sogni, magari folli come la Padania o puerili come il nuovo boom economico di Berlusconi. Di questo gli italiani avevano voglia, per non vedere l´incombente declino, i troppi treni già passati e persi. Il risultato concreto è che il declino è arrivato davvero e alla luce del presente i sogni di un decennio somigliano sempre di più al delirio di un paese malato. Dopo anni di chiacchiere sulla rinascita della Padania, ponti sullo Stretto, riprese folgoranti, si è miseramente riscoperto che è un´avventura prendere il treno da Milano a Mestre, un´impresa mettersi in macchina sulla Salerno-Reggio Calabria, un azzardo comprare azioni in borsa e un miracolo salvare il posto di lavoro. Il congresso Ds proclama che il tempo delle illusioni è finito. Se fosse vero per la maggioranza degli italiani, questa sarebbe più di una riforma, sarebbe una vera rivoluzione.
L´inaugurazione dell´anno giudiziario con toga, tocco e corteo lento e pomposo può anche apparire una liturgia parruccona. Per gran parte lo è, non c´è dubbio. Impone soprattutto educata ipocrisia e ossequio istituzionale, mai affermazioni univoche o riflessioni esplicite fino all´asprezza. Non è inutile guardar dentro quel rito, però, perché parla della condizione del Paese. Ci dice della salute delle istituzioni; delle minacce a un ordinato vivere comune; della sicurezza della comunità. Ci racconta della fiducia o della sfiducia dei cittadini nello Stato.
Non fa la cosa giusta Berlusconi che posa a insonne "uomo del fare e del decidere" quando, seduto in prima fila accanto al presidente della Repubblica, finge di sonnecchiare, annoiato, spazientito, infastidito da quella che - vuole che tutti sappiano - egli considera una gran perdita di tempo. Non fa la cosa giusta perché per fare e decidere, bisogna conoscere e capire, e quel che il procuratore generale della Cassazione andava dicendo - sì, con i toni istituzionali e monotoni consigliati dall´occasione - lo interpella come capo del governo e come leader della maggioranza che governa il Paese. L´alto magistrato diceva al presidente del Consiglio che il processo civile e penale - gli strumenti essenziali per accertare responsabilità, risarcire le vittime, punire i colpevoli: regolare quindi i conflitti - sono ferri inservibili. Gli diceva che senza processo non ci può essere giustizia e senza giustizia non ci può essere la fiducia del cittadino nello Stato. E che cos´è lo Stato se non ha la fiducia del cittadino? Che ne è del cittadino senza uno Stato?
È questo l´appello che la Suprema Corte di Cassazione ha voluto consegnare alla Politica nell´anno 2005. Se si vuole, gli inviti a rispettare l´autonomia e l´indipendenza della magistratura o le invocazioni a innovare con «riforme condivise» o a rispettare le sentenze, pure fiorite sulle labbra del procuratore generale, sono atti dovuti, necessari in tempi in cui la Politica appare (è) determinata a deformare la "separatezza" dell´ordine giudiziario anche a costo di violare "palesemente" la Costituzione. Non è in questo nodo, comunque, il grido d´allarme dei giudici della Cassazione in toga d´ermellino. Lo si ascolterà magari più nitido, quel grido, nei distretti giudiziari sabato prossimo, quando le toghe nere parteciperanno alla cerimonia con la Costituzione bene in vista, in segno di protesta.
Il procuratore generale della Cassazione non può protestare. Può solo accennare o segnalare. Al più, cautamente esortare. Francesco Favara ha affrontato questo impegno con una chiarezza che soltanto al ministro Castelli poteva sfuggire: le nuove regole della prescrizione in discussione oggi al Senato e già approvate dalla Camera (le chiamano "Salva Previti"), saranno il certificato di morte del processo penale. «Si è voluto estendere oltre ogni ragionevole misura - ha detto Favara - le fattispecie criminose e le garanzie processuali senza tener conto del progressivo allungamento del processo». Un processo irragionevolmente dilatato nei tempi e labirintico nelle procedure è uno strumento che non potrà essere mai "giusto". È un arnese che fa presto a diventare inconcludente e crudele. Perché, ha spiegato il magistrato, «quando non è "fulminato" dalla prescrizione (e c´è il rischio che ciò accada anche più di frequente), produce o una pena che può apparire come una tardiva vendetta dello Stato nei confronti di una persona ormai mutata negli anni, oppure una assoluzione che non ripaga dei danni economici ed esistenziali sofferti in conseguenza del processo».
Non sarebbe onesto attribuire a questo governo la crisi del processo. Sono decenni che il processo italiano è in crisi di efficienza, di risultati e di credibilità, ordigno perverso e maligno che sanziona prima dell´accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. È un fatto, però, che la stagione berlusconiana passerà alla storia del diritto per una legislazione sgrammaticata e "privata" che, con l´intento di togliere dai guai un pugno di amici del Capo, ha pericolosamente trascinato in uno stato terminale il processo spingendo il pendolo lontano dall´accertamento della responsabilità fino all´estrema e opposta direzione delle garanzie dell´imputato. Il processo si è trasformato così soltanto in un´ipotesi perché «esiste un limite oltre il quale il garantismo non è più virtù, ma vizio nichilistico», insegna Franco Cordero. Un processo al quale ci si può agevolmente sottrarre è un processo non solo crudele, ma per di più diseguale perché danna i poveri cristi e avvantaggia chi ha risorse e avvocati sapienti. Come allora avere fiducia nella giustizia? Favara non si è fermato su questo limite. Ha esplorato anche le cause «esterne», quelle che non nascono dentro, o nei dintorni, della macchina giudiziaria, della sua organizzazione, dei suoi protagonisti. Ha offerto a Berlusconi una considerazione che avrebbe dovuto scuoterlo dallo stato di uggiosa catalessi. Perché se, come sostiene il procuratore generale, «l´ipercriminalizzazione è un errore di prospettiva», la responsabilità di quelle «politiche criminali che reprimono senza prevenire» è affare di chi progetta le politiche pubbliche, di chi ha forza parlamentare per realizzarle attraverso le leggi.
Da questo punto di vista, nulla di nuovo sotto il sole nonostante i rumorosi tamburi della propaganda. Il governo Berlusconi si muove nel solco di un passato dove la politica sociale è ridotta progressivamente a politica criminale e questa, come è naturale, a politica giudiziaria. Dunque ad affare per pubblici ministeri e giudici. Oggi come ieri, la povertà delle strategie sociali, economiche, politiche, culturali ha spinto chi governa a investire soltanto nella risorsa penale. Ogni conflitto o fenomeno - immigrazione, tossicodipendenze, libertà di cura, violenza giovanile, crisi della famiglia, per dirne qualcuno - è stato consegnato al lavoro della magistratura, nonostante il fallimento di questo controllo che ha unicamente la prigione nel suo orizzonte. Chiedeva il procuratore generale: diteci meglio, più opportunamente, con più misura, e nella consapevolezza dei limiti dell´intervento penale, perché punire, come punire, chi e che cosa punire. E sottointendeva che i giudici non possono diventare la coscienza morale e il guardiano della vita sociale, politica ed economica del Paese. Avrebbe dovuto essere musica per il presidente del Consiglio. Purtroppo dormiva o faceva finta di farlo. In fondo, prima di febbraio il Senato salverà Previti, no? E allora perché preoccuparsi?
Più che una deregulation ambientale, rischia di diventare uno smantellamento programmatico, una demolizione totale della normativa sulla difesa dell’ambiente e della salute, come quelle che si dovrebbero fare per i cosiddetti ecomostri e invece non si fanno. Il decreto legislativo adottato dal governo – seppure con una delibera che viene definita preliminare - per "riformare" l’intera disciplina della materia non è soltanto una "forzatura istituzionale", come l’ha definito già il Wwf. E’ il tentativo di un colpo di mano contro un patrimonio che appartiene alla collettività e ancor più alle generazioni future; contro una cultura ambientalista che non è un’esclusiva dei verdi o della sinistra, né tantomeno del fronte ecologista italiano, bensì un’acquisizione di tutta l’Europa civile, delle società più evolute e moderne, per la semplice ragione che è il fondamento della nostra sopravvivenza.
Con questo Provvedimento Unico che equivale a un editto, a un proclama, a una legge di guerra, il centrodestra pretende di scavalcare contemporaneamente il Parlamento e la pubblica opinione, la comunità scientifica e quella culturale, per imporre d’autorità una "Magna Charta" delle norme ambientali che verosimilmente è destinata a diventare carta straccia, anche per effetto delle contestazioni che provengono in particolare dal ministero dell’Economia. In attesa che il centrosinistra vinca magari le elezioni e torni al governo, il decreto avrebbe gli effetti di un condono generalizzato e mascherato. Se proprio non vogliamo parlare di legittimazione dell’inquinamento, diciamo allora che contempla una licenza o addirittura un incentivo a inquinare.
Avranno pure molte colpe gli ambientalisti, per tanti eccessi ideologici e verbali, per una certa inclinazione congenita all’allarmismo e al catastrofismo. E anche sulle pagine di questo giornale, non abbiamo mancato perciò di criticarli. Ma loro, almeno, non fanno speculazioni immobiliari a danno dei piani regolatori, non commettono abusi edilizi, non compiono scempi urbanistici, non inquinano né l’aria né l’acqua, non distruggono la natura, non riciclano rifiuti tossici. Questa volta, comunque, hanno mille ragioni per dire che il provvedimento del governo – per com’è stato formulato - non è emendabile, respingendolo sia nel metodo sia nel merito.
Sul piano del metodo, la questione appare tanto paradossale quanto invereconda. Il Parlamento, o meglio la maggioranza di centrodestra, approva alla fine del 2004 una legge delega con cui assegna al governo la responsabilità di "riordinare" la normativa ambientale, affidando materialmente il compito a un Comitato di 24 "saggi" nominati dal ministro dell’Ambiente. Lo stesso ministro è tenuto a consultare le parti interessate, e cioè gli imprenditori, i sindacati, le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori, attraverso il Cespa (Consiglio economico sociale politico e ambientale). Ma, come in un classico vaudeville, il coordinatore di questo organismo - presieduto dal medesimo ministro - è il suo capo di gabinetto che coordina anche il comitato dei 24 esperti, di cui peraltro fa parte.
La delega in bianco stabilisce inoltre che il governo deve fare tutte queste consultazioni prima di "predisporre" (sinonimo di preordinare, preparare, approntare) i decreti legislativi sulle singole materie. Badate bene: decreti legislativi, al plurale, uno per ogni materia. E cioè, rifiuti, bonifiche, danno ambientale, procedura di "Via" (valutazione di impatto ambientale), "Vas" (valutazione ambientale strategica) e quant’altro. Ma a parte il fatto che i 24 "saggi" sono stati interpellati sporadicamente e alla fine si sono pronunciati per via telematica, fra le parti sociali è stata consultata soltanto la Confindustria, mentre le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori attendono ancora una convocazione del ministero.
Si arriva così all’approvazione "in via preliminare" del decreto legislativo, un testo unico di circa 700 pagine che contiene la summa ambientale del governo Berlusconi, su cui alla fine le competenti commissioni parlamentari dovranno esprimere un parere non vincolante. E se non faranno in tempo, pazienza: vale il principio del silenzio-assenso. Poi, eventualmente, il governo avrà 45 giorni per controdedurre e motivare, prima di ratificare il provvedimento e presentarsi alle elezioni con quest’altro obiettivo raggiunto (insieme a "meno tasse per tutti", "pensioni più alte per tutti", "una casa per tutti" eccetera eccetera).
Nel merito, con un gioco di prestigio che il Wwf chiama "artificio nominalistico", l’editto ambientale prevede di fatto l’eliminazione della categoria dei rifiuti, com’è definita e regolata dalle direttive europee (e infatti, su ricorso dell’associazione presieduta da Fulco Pratesi, la Commissione di Bruxelles aveva già aperto una procedura d’infrazione a carico dell’Italia). Adesso viene introdotta la possibilità di denominare gli scarti delle produzioni come "sottoprodotti" o come "materie prime seconde", a cui naturalmente non si applicherà più la normativa specifica: in questo modo, milioni di tonnellate di (ex) rifiuti non sarebbero più tali, dando via libera a un gigantesco smaltimento incontrollato senza che nessuno possa più verificare se e quali materiali saranno riutilizzati o smaltiti secondo le garanzie previste dalla disciplina precedente.
Quanto alla bonifica dei siti industriali, se il testo del decreto non verrà modificato, entrerà in vigore una nuova regola: chi inquina, non paga. E anzi, l’inquinatore non risponderà più del danno prodotto né degli altri reati connessi: sarà sufficiente aprire una trattativa con l’amministrazione pubblica per arrivare a una specie di "patteggiamento". Come se l’automobilista che passa con il rosso, investendo un pedone sulle strisce, riuscisse a eludere la multa e la pena facendo retromarcia d’accordo con il vigile. Ma il peggio è che il livello di rischio cancerogeno considerato tollerabile, senza essere neppure subordinato all’impossibilità di evitarlo, scende al rapporto di uno ogni centomila abitanti, mentre negli Stati Uniti è di uno ogni milione.
Per i casi pregressi che appartengono ormai alla storia nazionale delle lotte ambientaliste, come quelli di Porto Marghera, Riolo, Manfredonia o dell’Acna di Cengio, non sarà più individuabile con certezza il responsabile dell’obbligo di bonifica. Basterà un passaggio di proprietà – anche fittizio - delle aziende inquinatrici, per farlo decadere. Ecco perché gli ambientalisti parlano di un "condono mascherato", invocando una radicale correzione del provvedimento.
Resta poi da vedere come si comporterà il Parlamento e in particolare le commissioni che dovranno pronunciarsi sul testo definitivo. Con un soprassalto di responsabilità e magari di orgoglio, in teoria gli onorevoli deputati e senatori potrebbero anche decidere di revocare la delega al governo. Ma, dopo l’approvazione della devolution che attribuisce alle Regioni le competenze esclusive sulla salute, bisognerà aspettare soprattutto la risposta dei Governatori che finora non hanno partecipato ad alcuna consultazione.
Postilla
Quale legge o circolare hanno mai stabilito che i Presidenti delle regioni si chiamino Governatori?
Il successo delle primarie mi ha dato clamorosamente torto ed è d'obbligo riconoscerlo. Ero persuasa che la disaffezione alla politica potesse venir corretta soltanto attraverso una grande e appassionata partecipazione programmatica. Non è così. La partecipazione è ormai intesa principalmente come elettorale, ma ha il suo peso ed è stato un errore non incoraggiarla. Queste primarie volevano dimostrare la insopportabilità di Berlusconi e questo hanno dimostrato, e la primazia di Prodi malgrado il calcio dell'asino che gli aveva dato Rutelli, l'occhio rivolto a un post 2006 cui non credo abbia rinunciato. Prodi ha avuto la sua legittimazione da quella parte della popolazione che domenica è uscita di casa, pur sapendo di non decidere in ultima istanza. E' anche una dimostrazione che la leadership del personaggio, vera radice del maggioritario, ha ormai in Italia il suo fascino. Anche nella sinistra come provato dall'affermazione di Bertinotti e dalla sparizione delle liste minori - eccezion fatta per le clientele di Mastella, che si sono rivelate soltanto di disturbo. Dovranno riflettervi, credo, coloro che presumono di rappresentare i movimenti, che hanno ragione di non manifestarsi ancora direttamente sul piano istituzionale. Detto questo mantengo - forse perché appartengo a un'altra generazione politica - una riserva. La scelta di una persona cui si dà una grande delega - nel nostro caso un esponente dell'opinione democratica di centro cui si vuole assicurare una piena «governabilità» - dimostra come si sia spento il bisogno di quella partecipazione diretta che aveva caratterizzato il 1968 e gli inizi della prima repubblica sulla cui ispirazione originaria non condivido la condanna dei più. Di conseguenza la persona prevale di gran lunga sul mandato, se pur indiretto, di quel che dovrà fare.
E' un prodotto dei vincoli di coalizione. E a essa ci si affida. Non ha infatti ragione Scalfari quando afferma nell'editoriale di domenica scorsa che un programma del centrosinistra ormai esiste: sull'orientamento della politica estera, che non è soltanto il ritiro delle truppe dall'Iraq; sulla priorità del lavoro rispetto all'impresa e alla sua competitività; del welfare rispetto all'assistenza ai poveri; del pubblico sul privato, a favore della sussidiarietà intesa come intervento dello stato soltanto laddove il privato non arriva, e per converso la illiceità dell'intervento legislativo sulla autodeterminazione della donna e in genere sul terreno della sessualità, non c'è ancora nessuna chiarezza. E forse non ci poteva essere. Ma resto convinta che sarebbe stato più serio presentare assieme alle candidature, una discussione esplicita sulle linee di quella che non potrà che essere una mediazione. Il voto popolare ha detto soltanto no a Berlusconi e basta con leggi ad personam. Prodi stesso ha ripetuto che il programma si dà dopo e che ha avuto un'intesa a quattr'occhi con Bertinotti - a quattr'occhi su quel che riguarda il destino dei singoli e del paese? Lo stesso Bertinotti ha affermato domenica che il programma lo fa chi ha vinto riservandosi, questo suppongo certo, di contestare le scelte che considererà insostenibili. Ne viene anche il sostegno a un premierato forte, che può essere incompatibile con la divisione dei poteri. Sono gli eletti che decidono e non sono eletti sulla base degli impegni che prendono. E' un mutamento del senso di partecipazione che era stato del Novecento e fortemente accentuato dagli ormai abominati anni Sessanta e Settanta. Si partecipa al voto e su quel che avverrà dopo si agirà per lobbies, pulite e collettive invece che sporche e private, delle quali anche i movimenti non saranno che una parte.
Detto questo, come non essere contenti che sia andata così? Lo sarei stata se avesse vinto il modesto Kerry contro un fascista come Bush, le conseguenze per il mondo sarebbero state diverse, limitando se non bloccando la minaccia americana di sopraffazione e di guerra, l'idea ridicola di esportazione della democrazia con le armi, e la vergogna del neoconservatorismo che affascina molte menti della nostra penisola. E' quel che bisogna sperare per le elezioni del 2006, cui queste primarie hanno dato forza. Non molto di più ma neanche di meno, constatazione cui sembra ormai doversi rassegnare.
AI TEMPI della dinastia Giulio-Claudia la Suburra era un quartiere e una strada, a poche centinaia di metri dalla Casa imperiale. Cominciava dalle pendici dell’Esquilino e finiva a poca distanza dalla spianata del Foro. Sotto scorreva la cloaca massima che sbucava nel Tevere davanti all’Isola Tiberina, all’altezza dei templi di Vesta e della Fortuna Virile.
Era un quartiere popolare e malfamato, ma non mancavano case patrizie e di liberti arricchiti, circondate da taverne, bordelli, bische, fondachi, abitati da lenoni, prostitute, commercianti, ladri, tagliagole e anche da qualche persona perbene.
Così era il cuore della Roma di allora. Sullo sfondo a est Vespasiano costruì il Colosseo, a sud si vedeva l’Arco di Tito, a ovest il Tempio di Nettuno e la Rocca Capitolina sovrastante la Rupe Tarpea.
Da allora la parola Suburra acquistò anche un significato traslato, denominò un degrado sociale e morale, coesistente con la forza e la dignità dell’imperium. La "Via sacra" sulla quale passavano le legioni vittoriose e i loro comandanti, correva in perpendicolare rispetto alla Suburra.
Questo quadro geopolitico è quanto mai d’attualità. In un certo senso lo è sempre stato, non solo a Roma e non solo in Italia, ma in tutti quei luoghi del mondo dove vi sia intensa lotta per l’accaparramento della ricchezza e per la conquista del potere. Cioè dovunque.
Talvolta è la ricchezza a creare il potere, talaltra è il potere a creare ricchezza; si tratta infatti di due elementi fortemente interattivi. Ogni paese ha la sua Suburra, il che non è affatto consolatorio. È semplicemente un dato di fatto.
Gli uomini di Stato (di tanto in tanto ne nasce qualcuno) stabiliscono regole adatte a bonificare le suburre e inducono con l’esempio a comportamenti meno degradati. La morale serve a questo: a immaginare e praticare il bene comune superando gli appetiti primordiali.
Se la storia non fosse punteggiata anche da queste fasi positive, sarebbe solo un susseguirsi di sopraffazioni, intrighi, delitti. Cesserebbe di essere storia.
La vera fine della storia è la Suburra permanente. Nei tempi e nei luoghi in cui la permanenza della Suburra si è protratta, quei paesi sono infatti usciti dalla storia. Non sempre sono riusciti a rientrarvi.
Domenica scorsa ho scritto un articolo intitolato "Alla ricerca della morale perduta" dove, con riferimento ad attualissime vicende, distinguevo tra il sentimento morale che fa tutt’uno con l’identità della persona e le morali parziali che emergono a modello degli interessi, delle passioni, degli appetiti.
Mi ha fatto piacere trovare analoghi concetti negli articoli di Ilvo Diamanti e di Berselli su Repubblica, di Giovanni Sartori e di Lucia Annunziata sul Corriere della Sera e sulla Stampa di ieri.
Questa convergenza di convinzioni costituisce un fatto positivo. Un segnale confortante. Di fronte alla Suburra dilagante i maggiori quotidiani italiani hanno opposto, senza bisogno di alcun "concerto" tra loro, una salda linea di resistenza. Forse la sola che, ispirandosi al sentimento morale, stia cercando di preservare due beni pubblici di fondamentale importanza: la libertà d’informazione e l’oggettività dei banchieri nell’erogazione del credito.
Tutte le volte che si è tentato di distruggere lo Stato di diritto, l’offensiva è sempre cominciata dalla libertà d’informazione e dall’oggettività nell’erogazione del credito.
Per impedire che questi tentativi riescano nei loro perversi intenti non c’è che opporvisi mobilitando l’opinione pubblica. I giornali che ne sono la voce mostrano d’aver compreso quale sia il loro ruolo. Così accadde anche ai tempi della P2, che coltivava analoghi progetti contro lo Stato di diritto da realizzare con la consueta tecnica della conquista del potere bancario, il bavaglio alla libertà di stampa, l’asservimento delle istituzioni di garanzia a cominciare dalla magistratura.
Il disegno della P2 fu alla fine sconfitto. Così mi auguro accada anche oggi nonostante i molti e molto trasversali errori che vediamo commettere a destra e a sinistra.
* * *
Dal formicaio dell’attuale Suburra sono emersi alcuni personaggi confinanti con l’imperium poiché forniti di poteri decisionali o a essi contigui.
Indichiamoli questi emergenti: Gianpiero Fiorani, amministratore delegato della Banca popolare italiana (ex Lodi), Emilio Gnutti finanziere e brasseur d’affaires, Stefano Ricucci e i suoi compagni "immobiliaristi", Francesco Gaetano Caltagirone costruttore edile, editore del Messaggero e del Mattino di Napoli.
Con la sola eccezione di Caltagirone, tutti gli altri sono inquisiti dalla Procura di Milano che ha da tempo disposto l’intercettazione dei loro telefoni affidandola alla Guardia di Finanza in veste di polizia giudiziaria. I reati dei quali sono accusati vanno dall’aggiotaggio al falso in bilancio al depistaggio delle autorità di controllo. Il tutto con riferimento all’Opa sulla banca padovana Antonveneta.
La Consob, nei suoi poteri di tutela del mercato e della trasparenza delle operazioni, ha sospeso l’Opa e la Banca d’Italia ha confermato (assai tardivamente) la decisione della Consob. Il gip di Milano ha disposto il sequestro del 40% delle azioni Antonveneta rastrellate da Fiorani e dai suoi alleati, delle plusvalenze realizzate e ha sospeso per due mesi Fiorani, Gnutti e Ricucci da ogni attività amministrativa.
Nel frattempo sono diventate di dominio pubblico le intercettazioni telefoniche effettuate. I giornali ne hanno dato ampia (e spesso confusa) notizia. L’impressione che se ne ricava è appunto quella d’un gruppo animato soltanto da appetiti, vanità, manie di grandezza, disprezzo d’ogni regola, volpi e faine da pollaio, servilismo verso i potenti accompagnato da abbondante disprezzo. Insomma la Suburra è la cloaca che scorre sotto la superficie con i suoi miasmi e il suo liquame.
Non sappiamo se i reati dei quali sono accusati saranno provati in giudizio, ma dal punto di vista morale essi sono già condannati. La pubblica opinione è più rapida; talvolta la rapidità va a detrimento del vero e del giusto, ma in quest’occasione a me non pare ci possano essere equivoci e fraintendimenti. I contesti di quelle conversazioni, i progetti che se ne ricavano, i metodi adottati, sono quelli del malaffare. Non emergono finalità d’altro genere che non siano quelle di soddisfare l’appropriazione di ricchezza che produca ricchezza, per se stessi e unicamente per se stessi.
Mi ha colpito, tra i tanti spunti di quelle registrazioni, la furbata (meglio sarebbe chiamarla mascalzonata) di Fiorani che finanzia una sessantina di clienti della sua banca affinché comprino azioni Antonveneta e poi le rivendano entro un certo termine alla banca stessa, guadagnandoci sopra; il tutto per andare avanti sotto mentite spoglie nel rastrellamento pre-Opa (autorizzato dal governatore Fazio contro il parere dei suoi stessi ispettori). Del resto analoghe pratiche Fiorani le aveva svolte in favore di Ricucci e dei suoi compagni.
Mi ha colpito altresì l’entità dei fondi che alcune banche italiane hanno messo a disposizione di Ricucci fin dal 2004: in totale i prestiti a buonissimi tassi ammontano a 934 milioni, pari a 1.850 miliardi di vecchie lire. Da aggiungerci 350 milioni di euro provenienti dalla Deutsche Bank.
Garanzie? In gran parte i titoli dell’Antonveneta rastrellati, dell’Rcs, della Bnl comprati con quegli stessi prestiti e messi a garanzia delle banche creditrici. In gergo tecnico si chiama leverage by out ed è praticato, anche se con le doverose cautele, ma mai per Opa, che una volta conclusa vede la caduta del titolo e quindi dei margini di garanzia. Ma soprattutto mai per scalare la casa editrice di un giornale.
Dov’è in tutto questo il peccato (mortale) di Fazio?
La vigilanza della Banca d’Italia aveva il compito di ispezionare la consistenza patrimoniale della Popolare Italiana e confrontarla con il patrimonio dell’Antonveneta, le cui dimensioni superano largamente quelle della "Lodi".
Gli ispettori dopo attento esame arrivarono alla conclusione che la "Lodi" non fosse in regola e che quindi l’operazione non potesse essere intrapresa.
Il governatore viceversa firmò. Sembra la manzoniana Monaca di Monza: «La sciagurata rispose».
Non è la pretesa difesa dell’italianità delle banche che lo condanna, ma il mancato rispetto dei parametri patrimoniali e la partigianeria con la quale impedì alla Abn-Amro di comprare azioni Antonveneta mentre lo consentì alla "Lodi" la quale se ne servì nei modi che abbiamo già visto. Questi peccati sono ampiamente sufficienti a squalificare il governatore agli occhi di tutta Europa. E con lui purtroppo la credibilità del paese.
* * *
Resta da parlare della scalata alla Banca Nazionale del Lavoro da parte dell’Unipol e di Giovanni Consorte che l’amministra; nonché delle frenetiche telefonate dello stesso con mezzo mondo politico (di sinistra e di destra) e con i protagonisti delle scalate parallele su Antonveneta e Rcs (più ipotetici progetti di scalate a Mediobanca, Fiat, Capitalia da parte dello stesso branco lodigiano-bresciano - romano).
Qui i problemi sono tre: le modalità dell’Opa su Bnl lanciata da Unipol per contrastare la Banca di Bilbao, l’ipotesi di un patto segreto che vede Consorte in combutta con Fiorani-Gnutti-Ricucci e quindi unifica strategicamente le tre scalate (tutte ormai sotto l’occhio della procura di Milano e di quella di Roma per quanto riguarda la Bnl), i rapporti che emergono dalle telefonate numerose e frequenti tra lo stesso Consorte e numerosi esponenti dei Ds, tra i quali Fassino, Bersani e il tesoriere di quel partito Ugo Sposetti.
Sul primo problema c’è da notare che anche Unipol, come la Popolare italiana (ex Lodi) non sembra disporre delle risorse necessarie per acquisire il controllo della Bnl. Di più: in questo caso emerge anche la circostanza che, essendo la dimensione patrimoniale di Bnl notevolmente superiore a quella di Unipol, la sua acquisizione cambierebbe le finalità di compagnia assicurativa di Unipol prevista come prevalente nelle sue attività nello statuto sociale e quindi darebbe agli azionisti dissenzienti il diritto di recesso, con ulteriore e notevole aggravio delle finanze di Unipol.
C’è una motivazione valida per portare avanti un’operazione così onerosa? Secondo il presidente della Lega delle cooperative sì, c’è una finalità d’interesse generale: far nascere una nuova nervatura del capitalismo italiano; accanto a quello familiare e a quello manageriale, un capitalismo cooperativo o comunitario che dir si voglia.
Non sto a discutere se sia una motivazione valida. A occhio mi pare alquanto utopistica. Comunque c’è ed è sempre meglio che niente.
Ma se questo è il fine bisogna pur dire che i mezzi adottati stravolgono quel fine in modo devastante. Se per costruire un capitalismo comunitario il manager incaricato di realizzarlo si trasforma in un elemosinante di appoggi politici a destra come a sinistra e di appoggi finanziari, tattici e strategici, con il gruppo Fiorani-Gnutti-Ricucci, al punto di scambiare con essi finanziamenti, promesse per il futuro, finti disimpegni, acquisti di azioni compensati con laute plusvalenze; se questi sono gli strumenti adoperati da Consorte, Dio ci scampi da un capitalismo cooperativo di tale fatta.
Infine i rapporti con i politici. Nessuno si stupisce che Tremonti e altri esponenti di centrodestra possono aver dato appoggio all’intraprendente Consorte. Diverso è il problema a sinistra.
Che Fassino, D’Alema, Bersani, abbiano più volte dichiarato la loro simpatia politica verso le Coop non può suscitare alcuno scandalo: i legami della sinistra con le Coop (e quindi anche con Unipol) hanno caratteristiche storiche ben note e sempre ribadite. E nessuno, neppure i più feroci avversari, mette in dubbio l’onestà privata delle persone sopra indicate.
Neppure stupisce che i dirigenti di partito abbiano colloqui orientativi con imprenditori, fa parte dei loro diritti e vorrei dire del loro dovere d’essere informati su quanto avviene nell’economia del paese.
Il tema del resto è stato lucidamente esposto dallo stesso Fassino nell’intervista a Repubblica di pochi giorni fa: l’impresa ha i suoi diritti e piena autonomia di farli valere nel rispetto della legge; alla politica spetta dettare le regole; alla magistratura (ma anche alla politica) controllare che siano rispettate.
Perfetto. Ciò significa che i politici debbono astenersi da appoggi e interventi di qualsiasi tipo quando un’impresa (specie se amica) si cimenta sul mercato in concorrenza con un’altra.
Di qui l’inevitabile sconcerto per le molte, troppe, telefonate intercorse nei giorni caldi dell’operazione Bnl tra Consorte, Fassino, Sposetti e compagni. Che cosa c’era di così urgente da comunicarsi? Di che cosa parlavano? Di vacanze, di maltempo, o di che cosa? Il magistrato, in ossequio alla legge, ha secretato quei colloqui. Né potrebbe rivelarli, neppure se l’interessato lo chiedesse rinunciando all’immunità. Ma Piero Fassino può dire di che cosa si trattò in quelle frequenti conversazioni. Secondo me può e deve dirlo. E dovrebbe anche dire se i legami emersi tra Consorte e le altre cordate scalatrici non suscitino nel suo animo franca e onesta riprovazione. Questo ci aspettiamo da un uomo onesto, che crede nelle sue idee e nell’etica che le anima.
Le mezze parole a questo punto non bastano.
* * *
Mi resta ancora un punto da affrontare e cioè il cosiddetto scandalo delle intercettazioni. Pera e Casini ne hanno fatto una questione preminente per quanto riguarda i membri del Parlamento. È in corso a questo proposito una discussione con il Tribunale di Milano della quale attendiamo con interesse il risultato.
Le intercettazioni si svolgono con una procedura prevista dalla legge. Si vuole cambiare la legge? Certamente si può.
Vedremo come. Ma allo stato dei fatti una legge c’è e si tratta di controllare se sia stata rispettata oppure no.
Ricordo a chi si scandalizza per il fatto stesso che vi siano intercettazioni che in Usa non solo la magistratura ma perfino la Sec (cioè la Consob americana) può disporre intercettazioni per accertare e perseguire reati contro il diritto societario, l’insider trading, l’aggiotaggio, il falso in bilancio. Lo sapeva onorevole Casini? Lo sapeva onorevole senatore Pera?
Comunque, vediamola questa legge di riforma e ne discuteremo. Ma le intercettazioni sono comunque un contenitore; poi c’è il contenuto, cioè le conversazioni registrate. Si vorrebbe conoscere che cosa ne pensino i presidenti Pera e Casini dei contenuti che stavano in quei contenitori. Finora sono stati avarissimi di giudizi sui contenuti quanto loquacissimi sui contenitori. C´è dunque una lacuna. Volete per favore colmarla?
Colpo di scena, signore e signori, in questa grande storia italiana, anzi europea, di soldi, banche e potere che Diario vi sta raccontando da otto settimane: lunedì 25 luglio la procura di Milano ha ordinato il sequestro d’urgenza del 40 per cento delle azioni Antonveneta in mano agli scalatori (il Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e altri sette suoi amiconi, tra cui il finanziere bresciano Chicco Gnutti e gli immobiliaristi romani Stefano Ricucci e Danilo Coppola).
I due ragazzi terribili della procura, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, hanno messo nero su bianco che «occorre prevenire ulteriori condotte criminose» e dunque hanno ordinato il sequestro senza neppure aspettare un provvedimento del giudice delle indagini preliminari. Anche perché per mercoledì 27 era prevista, in seconda convocazione, l’assemblea degli azionisti di Antonveneta e bisognava impedire che le quote rastrellate contro ogni regola da Fiorani e compagni fossero usate contro quei poveri illusi degli olandesi di Abn Amro che avevano fatto una regolare opa su Antonveneta credendo che in questo Paese le regole valessero per tutti.
Ma c’è un colpo di scena nel colpo di scena: nel decreto di sequestro delle azioni, ci sono alcuni edificanti esempi di colloqui telefonici tra Fiorani e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Che a parlare con il banchiere di Lodi sia il governatore in persona è una bomba. Anche perché Fazio, secondo quanto risulta dalla sua stessa voce, non esita a chiamare nella notte l’amico Fiorani per annunciargli: «Ho appena messo la firma». Sono le 00.12 del 12 luglio e il governatore gli comunica che ha stracciato le conclusioni negative degli ispettori della Banca d’Italia e ha dato il suo via libera alla Popolare di Lodi che si lancia ufficialmente all’attacco di Antonveneta, dopo aver però già rastrellato in maniera occulta consistenti pacchetti di azioni. «Tonino, io sono commosso», risponde Fiorani a Fazio, «io ti ringrazio... ti ringrazio... ho la pelle d’oca... io, guarda Tonino, ti darei un bacio sulla fronte, ma non posso farlo... so quanto hai sofferto... prenderei l’aereo e verrei da te in questo momento se potessi!».
Che il rapporto tra i due fosse stretto era noto, ma ora è dimostrato in diretta dai loro salamelecchi telefonici. Il 5 luglio, quando Abn Amro, povera ingenua, chiede una proroga alla scadenza della sua opa, Fazio dice a Fiorani: «Allora se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un’ora, un’ora e mezza, ché... diciamo... voglio verificare un insieme di cose... L’unica cosa: passa come al solito, dal dietro... dietro di là». E Fiorani: «Sì, va bene... sennò sono problemi...».
Giornalismo kamikaze. Intermezzo comico. Il giorno del colpo di scena, esilarante editoriale sulla prima pagina del Giornale: «E se qualcuno fosse stato in pensiero, ora può stare tranquillo. Sulla storia delle banche siamo arrivati anche alle intercettazioni, naturalmente fatte filtrare ad arte fuori dai palazzi di giustizia». E ancora: «Lunedì ‘escono le intercettazioni’, cioè qualcuno decide che in quel giorno è il momento ‘giusto’ per farle uscire». E di nuovo, ossessivamente: «Ci dovrebbero spiegare che bisogno c’era di fare uscire le intercettazioni...». Effettivamente le intercettazioni «sono uscite» martedì 26 luglio. Ma su un solo, unico quotidiano: il Giornale, per la firma di Gianluigi Nuzzi. Un caso di scoop suicida, di giornalismo kamikaze.
In più, l’editoriale del Giornale s’interroga: «Tra tutte le intercettazioni, fior da fiore, hanno beccato proprio quelle con il governatore della Banca d’Italia». Ma pensa un po’: quegli indiscreti dei magistrati hanno prestato attenzione alle telefonate di Fiorani ad Antonio Fazio, invece di quelle del banchiere al bar o alla zia.
Che poi siano finite proprio e solo sul Giornale, malgrado la procura avesse blindato le indagini per non farle trapelare (e con successo, a parte il Giornale), secondo i bene informati vuol dire che è scattata la «smagliatura Tremonti»: l’ex ministro delle Finanze, grande nemico di Fazio, ha ancora amici ai vertici della Guardia di finanza, che sta facendo le indagini per la procura di Milano, e ha amici anche al Giornale.
La novità (con buona pace del Giornale) è l’entrata del governatore sulla scena giudiziaria. Che nella vicenda delle scalate Fazio fosse fazioso e non arbitro imparziale era già noto e anche Diario l’aveva variamente, nelle settimane scorse, cercato di documentare. Questa storia, del resto, è piena di cose già scritte di cui nessuno vuole però prendere atto (scalatori mascherati, scalate a rischio crac, immobiliaristi dai soldi dubbi, regole dribblate, amnesie della sinistra, scambi di cortesie destra-sinistra...). Il fatto è che ora ci sono le prove in presa diretta dell’incredibile «concerto» tra Fiorani e Fazio.
Possibili conseguenze. Uno: il governatore vedrà presto il suo nome inserito tra gli indagati per reati finanziari, insieme a Fiorani, Ricucci e gli altri’ Due: si dimetterà? In un Paese normale la risposta alla seconda domanda sarebbe sì, invece la Banca d’Italia ha subito emesso una nota in cui sostiene che tutto va bene e che le autorizzazioni concesse a Fiorani erano atti dovuti.
Del resto, chi mai chiederà seriamente le dimissioni del governatore? Neppure il centrosinistra, preoccupato che poi il nuovo numero uno della Banca d’Italia nasca sotto l’ombrello del governo Berlusconi. I Ds, in più, di Fazio hanno bisogno, per portare a compimento nei prossimi mesi la scalata della «rossa» Unipol su Bnl.
Rischio crac. Anche nei giorni precedenti il gran colpo di scena, ne sono successe di cose.
20 luglio, intervista di Massimo Mucchetti a Romano Prodi sul Corriere («I politici pensino alle regole, non agli affari», «Fazio non agisce da arbitro ma da parte in gioco», «Il capitalismo si ammala se le leggi rendono convenienti la speculazione e non la produzione e l’innovazione»).
21 luglio, intervista di Alberto Statera a Massimo D’Alema su Repubblica (con una conferma: «Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista»; e un aggiustamento di tiro: sulla scalata al «Corriere è giusto chiedere maggiore chiarezza»).
22 luglio, fallimento delle offerte pubbliche degli olandesi di Abn Amro su Antonveneta e dei baschi del Banco di Bilbao su Bnl. 23 luglio, scoperta che l’intervento dell’azionista romano Stefano Ricucci all’assemblea Antonveneta - potenza della Padania - era stato scritto a mano a Lodi, negli uffici di Fiorani: che «concerto» di idee!
Del resto, Fiorani è un banchiere creativo, che oltre a far comprare azioni sottobanco agli amici e ai misteriosi fondi gestiti alle Cayman da Luigi Enrico Colnago (sempre con soldi generosamente erogati dalla sua banca), ha saputo anche inventarsi un modo geniale per finanziare la sua pericolosa scalata al potere: realizza cessioni di quote di società controllate che in realtà sono onerosissimi prestiti mascherati.
Un esempio lo ha raccontato Mario Gerevini sul Corriere. Fiorani ha «venduto» a Deutsche Bank il 10 per cento della Cassa di Bolzano, realizzando ben 183,4 milioni di euro. Bravo, no? Peccato che una quota identica, il 10 per cento della stessa banca bolzanina (anzi, un 10 per cento più prezioso, perché permetteva di arrivare al 58 per cento, cioè al controllo assoluto), fosse stata venduta esattamente un anno fa alla Bayerische Landsbank a soli 79,2 milioni.
Dunque, Fiorani è un mago capace di valorizzare del 120 per cento in un anno una sua partecipazione. Ma questo lo crede solo Fazio. Chi guarda le carte, più prosaicamente, è portato a pensare che Fiorani parcheggi pacchetti di azioni presso banche e finanziarie (Deutsche Bank, Dresdner, Earchimede di Chicco Gnutti) allettate da sostanziose commissioni. Con questo sistema porta a casa circa un miliardo di euro, da buttare nella scalata Antonveneta. Domani, dopo aver conquistato la banca di Padova, si dovrà riprendere le sue partecipazioni, che aveva venduto ma con l’elastico (un elastico che in finanza si chiama opzione call).
C’è un’incognita. Se non la conquista, l’Antonveneta, che cosa succederà di Fiorani? Dove troverà i soldi per ricomprare tutte le sue vendite con l’elastico? Queste sono operazioni a rischio crac. Oh, non ci venite a dire che siamo uccelli del malaugurio, quando ripetiamo che le società alle Cayman di Fiorani ricordano tanto le consociate andine dell’Ambrosiano di Roberto Calvi e che la nuova sigla della banca di Fiorani (Bpi, Banca popolare italiana) è la stessa di Sindona (Bpi, Banca privata italiana)...
Bicamerale della finanza. Come passerà le vacanze il governatore Fazio? Chissà. Ma non sembra che debba preoccuparsi troppo. Sembra blindato, a destra e a sinistra. E qui si apre l’altro capitolo, quello sull’altra scalata: Unipol alla conquista di Bnl, dopo il fallimento del Banco di Bilbao. Fazio ha già fatto capire che permetterà la conquista. Così ha portato dalla sua parte quella larga parte della dirigenza Ds (D’Alema e Fassino in testa) che tifa per Unipol e per dare una banca al mondo delle cooperative. Aspirazione legittima, anche se un po’ rischiosa dal punto di vista finanziario per la compagnia guidata da Giovanni Consorte e per le coop che l’hanno seguito.
Meno legittimo è che la politica tifi per uno schieramento finanziario e, in forza di ciò, abbassi il livello critico. Accettando Fiorani (e anche Ricucci, che in fondo «non c’ha la rogna») perché sia data via libera a Consorte. Sì, questa grande storia italiana, anzi europea, di banche e scalate e potere è fatta di vicende diverse (Antonveneta, Bnl, Rcs, Mediobanca...), ma ha una sua sostanziale unitarietà, una rete unica, anche se articolata, di protagonisti e comprimari, banchieri, finanzieri e politici, stretti attorno al governatore Fazio, che si crede il nuovo Cuccia.
Per questo rischia di diventare una «Bicamerale della finanza» fatta di scambi e concessioni reciproche. Un grande accordo sotterraneo per ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. Sembra averlo intuito Prodi, quando si mostra preoccupato che si stia aprendo una nuova stagione di commistioni tra politica e affari.
Ancora una volta, sono dovuti intervenire i magistrati per svelare i giochi sporchi. E qualcuno ha già cominciato a lamentarsi dell’invadenza dei giudici. Peccato che, prima di loro, nessuno di chi poteva parlare lo abbia fatto: né Bankitalia, né la politica. Tutti impegnati a tifare e tramare, invece che a regolare.
(Diario, 29 luglio 2005)
Le puntate precedenti del , e qui un articolo di Scalfari sull'argomento
[traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]
Introduzione
Una serie di esplosioni ha squarciato il centro di Londra, uccidendo almeno 33 persone e ferendone altre centinaia.
In quello che sembra essere stato un attacco terroristico coordinato, si sono verificate esplosioni su tre convogli della metropolitana e un autobus, verso il termine dell’ora di punta mattutina.
Il sistema di trasporti pubblici della capitale è stato bloccato, mentre entrava in vigore lo stato di massima emergenza. Tutti gli ospedali si sono riempiti entro metà della mattinata.
La prima esplosione si è verificata su un treno della metropolitana che aveva appena lasciato l’affollata stazione di Liverpool Street.
Altri scoppi hanno colpito un convoglio che dalla fermata di Russell Square si dirigeva verso King’s Cross, e un altro alla stazione di Edgware Road.
L’ultima esplosione è avvenuta su un autobus a due piani.
Liverpool Street
08:51
I servizi di emergenza vengono allertati la prima volta dopo un’esplosione su un treno a 100 metri di distanza dalla stazione di Liverpool Street.
La London Underground più tardi conferma che lo scoppio è avvenuto su un treno della linea Circle che viaggiava da Aldgate verso Liverpool Street.
Un passeggero, Simon Tonkyn, parla di un “enorme botto e un sacco di fumo”. Aggiunge: “Un gruppo di noi ha preso gli estintori, e siamo riusciti a sfondare la porta della carrozza”.
Un altro, Terry O’Shea, racconta che i passeggeri sono stati guidati lungo i binari oltre il punto in cui si era verificata l’esplosione. “Riuscivamo a vedere che il tetto era stato strappato via, e c’erano corpi sulla linea”.
I passeggeri sono stati evacuati dalla stazione di Liverpool Street da polizia e personale della metropolitana. L’ansia è aumentata quando i telefonini hanno smesso di funzionare, lasciando le persone senza contatti con parenti e amici.
La polizia di Londra più tardi conferma che nell’esplosione hanno perso la vita sette persone. Un medico a Aldgate valuta che almeno 90 persone siano rimaste ferite.
Russell Square – King’s Cross
08:56
Un’altra esplosione si verifica sulla linea Piccadilly, su un treno che viaggia fra Russell Square e King’s Cross.
Il giornalista BBC Jacqui Head, che era sul treno, parla di “un grosso botto” e aggiunge: “C’è stato immediatamente fumo dappertutto, faceva molto caldo e tutti sono stati presi dal panico. La gente ha cominciato a gridare e piangere”.
Un altro passeggero, Chris Fry, afferma che – dopo 30 minuti – le persone sono riuscite a sfondare i finestrini e a uscire dalla carrozza, iniziando a camminare sui lati del treno. Due ore più tardi, la polizia afferma che è ancora in corso un’operazione di recupero per evacuare alcuni passeggeri ancora imprigionati sottoterra.
Si confermano ventuno persone morte.
Anna Pacey, infermiera impegnata nei soccorsi a Russell Square, dice che le prime persone uscite erano “feriti in grado di camminare”, ma di aver visto più tardi altri con ferite più gravi: ustioni, fratture, e alcuni che avevano perso degli arti.
Edgware Road
09:17
Il terzo scoppio è stato su un treno della linea Circle, che stava uscendo dalla stazione di Edgware Road verso Paddington.
Dopo l’esplosione i passeggeri iniziano a uscire dalla stazione, molti coperti di sangue ed evidentemente sconvolti. Alcuni infermieri scendono all’interno, facendo temere che ci siano ancora persone ferite intrappolate sottoterra sulle linee Hammersmith e City.
Una passeggera racconta alla BBC che c’è stato un enorme scoppio mentre due treni passavano in galleria appena fuori dalla stazione di Edgware Road. “Tutte le luci si sono spente, e c’era un sacco di fumo”.
Più tardi emerge che l’esplosione sul treno ha sfondato la parete sino ad un altro treno su una pensilina adiacente.
la polizia conferma che ci sono cinque persone morte. Chi è in grado di camminare viene assistito in un albergo vicino. I servizi di emergenza vengono definiti “tesi al massimo”.
Tavistock Square/ Upper Woburn Place
09:47
Un’esplosione squarcia un autobus double-decker davanti alla British Medical Association. Il tetto è strappato via, e vengono danneggiate anche le auto vicine.
Un testimone oculare descrive l’autobus come fatto a pezzi: un “carnaio”, nonostante non si conoscano ancora dettagli sulle vittime.
”È stata una grossa esplosione, c’erano carte e mezzo autobus in aria” afferma un altro testimone. La polizia non esclude la possibilità che si tratti dell’opera di un attentatore suicida.
Una portavoce dell’autorità dei Trasporti di Londra afferma che l’autobus era il numero 30, in viaggio da Hackney al Marble Arch. Stava seguendo una prevista deviazione rispetto al percorso normale.
Scene di caos hanno dominato la zona per tutta la mattinata, mentre i feriti emergevano dalla stazione della metropolitana dopo un’esplosione verso King’s Cross. L’interra zona attorno a Russell Square è stata isolata dalla polizia.
Nota: il servizio originale e links al sito della BBC (f.b.)
Il New York Times non è un giornale che aspetta le notizie. O meglio, non aspetta che diventino un confezionato luogo comune che tutti i giornali stamperanno allo stesso modo. Si guarda intorno e decide. Durante la guerra nel Vietnam la sua decisione più drammatica è stata di pubblicare, rischiando l’accusa di tradimento, i «Vietnam Papers» che Daniel Ellsberg, un funzionario del Dipartimento della Difesa, aveva inviato a quel giornale perché rivelavano un progetto di allargamento della guerra e di invasione dei Paesi limitrofi. È stato il punto di rottura fra una parte del giornalismo americano e una parte della sua classe politica. Ma è stato anche l’evento che ha spinto il presidente Nixon ad accelerare la negoziazione di pace.
Negli anni Ottanta il New York Times ha preceduto sociologia e politica mettendo un grande titolo in prima pagina che, a quel tempo, sembrava inventato: «L’immigrazione cambia la nostra vita». Era il tempo in cui una vasta immigrazione clandestina, deliberatamente consentita perché abbatteva i costi del lavoro, sosteneva l’economia americana più di quanto chiunque, a destra o a sinistra, volesse ammettere. Era l’inizio di una serie di venti articoli che hanno cambiato la percezione americana sulla portata e le conseguenze del fenomeno. Soprattutto sull’uso calcolato del clandestino da espellere quando si esauriva la forza giovane del suo lavoro e quando credeva di aver meritato il premio di quel lavoro.
Forse si deve proprio a quella serie di articoli, scritti senza altre notizie, da cinque giornalisti che hanno lavorato per mesi, se molte espulsioni non sono più avvenute, se la antica tradizione americana di accettare gli immigrati ha prevalso, se oggi i capi delle polizie di quasi tutte le città dell’immenso confine americano verso il Messico sono ex clandestini fatti passare tanti anni fa da una catena bene organizzata di chiese e conventi cattolici.
A
lcune settimane fa (il 15 maggio) nel suo numero domenicale, tradizionalmente il più amato e il più letto dai cittadini di New York, il quotidiano americano è tornato all’improvviso alla sua tradizione di rivelazione anticipata di cose che stanno avvenendo ma non che sono ancora notizia, con una insolita apertura e un grande titolo che dice: «Classi in America, la linea d’ombra che continua a dividerci». Ne sono autori due giornalisti, Janny Scott e David Leonhardt, che sono ancora al lavoro, con un numero indefinito di puntate ancora in corso. La prima puntata avverte in modo sensazionale, in apertura di giornale che le classi sono tornate ad esistere e a segnare la vita americana. E che le linee di demarcazione e gli sbarramenti fra una classe e l’altra si sono induriti e diventano ogni giorno meno penetrabili.
Giornale e giornalisti si rendono conto di correre contro un senso vietato. Il primo divieto viene dall’esperienza. Gli Stati Uniti sono davvero il Paese meno immobile fra tutte le democrazie industriali del mondo. Il secondo divieto viene dalla percezione. Gli americani sono profondamente convinti della mobilità delle loro condizioni sociali. Parlano malvolentieri di classi e - almeno da giovani - vedono con persuasione un futuro migliore del passato e, per i figli, migliore di quello dei loro genitori.
Il terzo divieto è politico. C’è il rischio di accusa «socialista» (ma i neoconservatori non esiterebbero a dire «comunista») per chi vuole mettere in discussione il problema delle classi. Non si tratta più dello scontro fra pragmatismi (quello del lavoro, che misura le sue conquiste sul terreno in salita del confronto sindacale, e quello del capitale che ha potuto fino ad ora vendere con successo la sua immagine di continua espansione). Questa è la sfida di una ideologia, l’ideologia dei neoconservatori, che si distacca dalla tradizione americana perché non è interessata a tener conto dei fatti. Sostiene che l’America sta per diventare una società dei proprietari, sostiene che le pensioni sono tristi e che è meglio mettere le mani nell’immenso fondo pensioni americano (la Social Security) per distribuire un po’ di soldi a tutti, così tutti avranno un capitale da giocarsi (benché piccolissimo) e alla vecchiaia ciascuno dovrà provvedere con il suo successo personale (se lo avrà avuto) e con i suoi risparmi.
Insomma, la fine della più pragmatica delle Americhe, quella di Roosevelt, che aveva ben chiaro il dramma della vecchiaia e il fatto che la ricchezza si accumula solo in quantità molto grandi dove i rischi e le cadute inevitabili delle borse e degli affari si rimedia solo investendo altra ricchezza.
* * *
I punti di riferimento di Janny Scott e David Leonhardt partono dalla verifica di un grande sondaggio, dalla consultazione di una serie di esperti (senza tenere conto di «destra» e «sinistra», benché le possibili inclinazioni siano sempre annotate).
E da una collezione di storie personali, in modo da tenere conto del grande fenomeno della percezione, del come ciascuno vede se stesso, valuta il passato, prevede il suo futuro e lo confronta con l’immagine che aveva quando ha cominciato.
L’inchiesta non nega il «sogno americano», perché sarebbe come negare che l’Austria del Settecento ha avuto musicisti immediatamente compresi e ammirati come Mozart. E che, dunque, «qualunque Mozart avrebbe avuto la strada aperta al successo». Il paradosso della frase sta nel dire «qualunque Mozart» perché il genio è cosa rara. Questa è la spiegazione dei due giornalisti quando notano che vent’anni fa duecento dei quattrocento grandi ricchi della classifica Forbes erano ricchi per avere ereditato ricchezze. Oggi soltanto trentasette dei quattrocento sono ricchi di famiglia. Questo vuol dire che una grande caratteristica della vita americana è confermata: le classi non sono chiuse e non ci sono salotti riservati. Il problema, però, è quello dei «great achievers». Insieme alla fortuna occorre un così grande talento per accumulare in uno o due decenni la ricchezza che sposta qualcuno definitivamente da una classe all’altra, che il fenomeno diventa raro.
Diventa raro, spiegano i due autori dell’inchiesta, perché la chiusura non si verifica dall’alto verso il basso. Non ci sono rifiuti e non ci sono «salotti buoni». Ma viene dal basso verso l’alto. C’è una serie di ostacoli che spinge i giovani anche se molto dotati in un ingranaggio simile alla famosa scena di «Tempi moderni»: Chalie Chaplin arrampicato fra ruote dentate che rischiano di mangiarlo.
Il sogno americano dice che tutto dipende dal merito, ricordano i due giornalisti. Ma il merito dipende dalla scuola, la scuola dipende dalla città e dal quartiere, e la città e il quartiere dipendono dalla famiglia. Quanti libri ci sono in casa? Chi li legge? Di che cosa si parla? E se non si parla di niente? Se i coetanei sono impegnati in una vita di azzardo e di scorciatoie, orientati ad esse dalla solitudine e dalla mancanza di modelli? Conta uno studio, esaminato e citato dal giornale, della Federal Reserve Bank di Boston (la filiale di Boston della Banca Centrale americana). Meno famiglie si sono mosse di una minima percentuale del loro guadagno negli anni Ottanta che negli anni Settanta. E meno famiglie hanno cambiato livello (in meglio) sia pure minimamente, negli anni Novanta rispetto agli anni Ottanta.
Il «Bureau of Labor Statistics» (divisione del ministero del Lavoro americano) conferma e accentua: «Quasi nessun movimento verso l’alto negli ultimi anni Novanta».
E l’Università di California, Berkeley, pubblica uno studio le cui conclusioni sono queste: «Quello che i figli ottengono dai genitori - abitudini, pratiche di vita, abilità, esperienze, tratti di carattere, contatti sociali, denaro - fanno la vera differenza, persino per i più bravi». Il senso è questo: persino un «great achiever» (una persona giovane che ha tutto in sé per avere successo) può andare perduto se non ha almeno qualcuno dei «valori ereditari» che sono stati elencati. Per esempio, il ricevere dalla famiglia un po’ di agiatezza ne può generare molta, se la vita di un figlio si ambienta in una famiglia capace di generare contatti e di indicare un passaggio. Ma il fatto che la classe sociale superiore sia senza barriere non libera dalle barriere della classe sociale inferiore: se sei senza contatti e con la formazione scolastica sbagliata (o peggio nessuna vera formazione scolastica)resti bloccato dove sei. Molti di coloro che restano bloccati corrono il rischio di scivolare più in basso, ad ogni crisi non solo personale o dell’azienda in cui lavora, ma anche a seguito delle grandi crisi del mondo, che colpiscono sempre e subito i livelli più deboli.
Dice ai giornalisti del Times il Prof. Gary Solon della Università del Michigan: «Ti dicevano di non preoccuparti della nascita. Ti dicevano che nascere ricchi o nascere poveri non fa differenza se hai talento. Oggi nessun rispettabile studioso direbbe una cosa simile in America». Aggiunge il Prof. Levine: «Nascere ricco in America è una fortuna che ti offre i privilegi più alti al mondo. Nascere povero in America è molto peggio che nascere povero in Europa, in Canada, in Giappone».
Segue, nell’inchiesta di Scott e Leonhardt, una accurata verifica del peso che hanno avuto tecnologia e tassazione sulla divaricazione delle classi. La tecnologia, spiegano, ha tagliato una immensità di posti di lavoro, reso possibile una vasta area di operosità marginale in cui si riesce a sopravvivere o anche vivere decentemente (questo spiega la vasta occupazione americana). Ma non consente di progettare o prevedere alcun avanzamento e induce a immaginare per i figli strade drasticamente diverse. Queste strade restano riservate alle famiglie connesse con più alti livelli sociali.
L’esportazione del lavoro e il cosidetto «outsourcing» hanno eliminato interi settori di attività su cui si reggeva la stabilità e la percezione di sicurezza della classe media. Favoriva i consumi e i pagamenti rateali. Ma è drammatica anche la situazione comparata delle tasse fra i livelli più bassi e quelli più alti della scala sociale americana. Benché sembri paradossale, la tassazione dei meno agiati è progressivamente aumentata (ed è comunque scrupolosamente garantita da verifiche stringenti). Al contrario, a mano a mano che si va verso l’alto, la tassazione diminuisce in modo diretto (le decisioni di George Bush) ma anche e più drammaticamente attraverso svariate forme di esenzioni e di benefici, per fondi e investimenti attentamente assecondati da leggi che esimono, sospendono o tagliano i pagamenti dovuti.
***
Le straordinarie pagine del New York Times, che cambiano ancora una volta la storia del giornalismo americano, mostrano che a un grande gruppo giornalistico non spetta solo il compito di informare su ciò che è accaduto, ma anche di rivelare un momento prima ciò che sta accadendo o sta per accadere. D’altra parte la grande inchiesta del New York Times sul ritorno delle classi in America, non è un fatto isolato nella cultura americana dell’era di Bush.
Per questo si discute così aspramente sul taglio delle tasse ai più ricchi, su una ridistribuzione rovesciata delle risorse non verso le persone più povere ma verso coloro che sono già titolari di benessere: Occorre ricordare che - a differenza del vecchio capitalismo - i beneficiati del taglio delle tasse non useranno la nuova ricchezza per investimenti che creano lavoro. O almeno non il lavoro che genera avanzamento e progresso individuale, e un salto di corsia da parte dei poveri. In mezzo, adesso, c’è la barriera della tecnologia, che chiede sempre meno lavoro umano e sempre meno lavoro che non sia già altamente specializzato.
In mezzo c’è la pratica sempre più diffusa dell’«outsourcing» che crea, fuori dalle aziende, nuovi centri di lavoro subordinato, destinati a restare per sempre lavoro subordinato. In mezzo c’è la esportazione del lavoro di massa in Paesi a costo del lavoro molto basso. Non potrà durare per sempre ma genera, intorno al capitale, per usare una espressione del Prof. Levine, una foresta bruciata di non lavoro intorno ai punti alti e ricchi del capitalismo. E fa sostare fuori dal lavoro produttivo una intera generazione giovane americana.
In mezzo c’è l’interpretazione religiosa dei fondamentalisti cristiani, grandi elettori di Bush, secondo cui la ricchezza premia la grazia, dunque la virtù, e istituisce un rapporto fra la quantità di ricchezza e il valore morale di una persona. È un punto di vista che aiuta e incoraggia un governo, ma anche i singoli, le associazioni, le famiglie, a disinteressarsi dei più poveri, a lasciarli dove stanno. Perché evidentemente i poveri non hanno i meriti morali che consentono a Dio (e a Bush) di elargire ricchezza.
furiocolombo@unita.it
5-fine
le puntate precedenti
sono state pubblicate
il 15-19-23-26 maggio
Il rapporto di Confindustria sulla situazione dell´economia italiana – denominato "Checkup competitività" – presenta una lunga serie di dati che attestano in modo inequivocabile come essa volga al peggio, sia rispetto al proprio stesso passato, sia nel confronto con le principali economie europee. Saremo pure il Paese con il maggior numero di auto e di cellulari per abitante, come ha sottolineato ieri il presidente del Consiglio per declamare ancora una volta quanto siamo benestanti.
Ma se i dati assemblati dal Centro studi di Confindustria non miglioreranno rapidamente nei prossimi anni, rischiamo anche di essere il paese con il maggior numero di imprese in via di fallimento, o ridotte ai margini dei circuiti produttivi internazionali. Nonchè di lavoratori poveri rinchiusi in un cerchio invalicabile di lavori precari, e di giovani senza più speranze.
Il rapporto non fa proposte per ovviare a tale rischio, ma esse sono implicite nei dati che contiene e nel modo in cui sono organizzati. Il quale ha il merito di non risparmiare nulla allo stato e alla politica, per ciò che attiene alle rispettive responsabilità nel causare il peggioramento strutturale della situazione economica; ma, a ben guardare, nemmeno alle imprese. Senza che le responsabilità dei primi possano essere separate nettamente da quelle delle seconde. E´ come tirare il filo di un certo colore in un gomitolo arruffato che di colori ne contiene diversi. Si veda la ridotta percentuale di popolazione in età 25-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario.
In Italia nel 2002 essa toccava solamente il 12%, poco più di metà della Germania, e appena un terzo rispetto alla Francia. Nel produrre tale deficit le responsabilità decennali dello stato e della politica sono indubbie. Ma appena si tira un po´ questo filo si scopre che anche le imprese non ne escono indenni. Tra i laureati, infatti, enfatizza il rapporto, sono troppo pochi rispetto agli altri paesi Ue i laureati in materie scientifiche e tecnologiche. Sta il fatto che i tipi di laurea vanno dove il mercato del lavoro offre occupazioni attraenti, e questo non è il caso di tali laureati. Si sa che ad essi l´industria e i servizi - lo provano le rilevazioni del consorzio inter-universitario Almalaurea - offrono anche dopo diversi anni di lavoro le retribuzioni più basse tra tutte le specializzazioni universitarie, insegnanti esclusi. Di conseguenza gli iscritti a tali tipi di laurea sono complessivamente in forte diminuzione da una quindicina di anni.
Continuando a tirare questo o quel filo si fanno altre scoperte, nel rapporto in parola. Ad esempio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 3% l´anno, riducendo la capacità competitiva delle imprese italiane. Ciò è dovuto in parte alla stagnazione della produttività del lavoro: appena lo 0,3% annuo, contro il 2,5 della Spagna e addirittura il 4,7 del Regno Unito. In parte al permanere di un rilevante cuneo fiscale, che fatta uguale a 100 la retribuzione netta spettante al lavoratore aggiunge un onere di ben 83 punti a carico delle imprese. Ridurre tale cuneo è certamente un compito dello Stato - anche se in paesi molto più competitivi dell´Italia come la Francia e la Germania esso è ancora più elevato. Ma lo stesso rapporto dice che le imprese italiane investono poco in ICT, in formazione manageriale e in organizzazione; esportano beni ad alto contenuto tecnologico in misura pari alla metà dei maggiori partners europei, appena il 12% contro il 23; cooperano in misura minima con le università. Un insieme di condizioni che non può che incidere negativamente sul livello di produttività del lavoro.
Tra altri fattori che incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane il rapporto colloca la burocrazia, l´eccesso di regolazione, le lunghe pratiche per aprire un´attività di impresa. Anche in questo caso il tentativo di tirare fili di uno stesso colore dall´aggrovigliato gomitolo della competitività non va a buon esito. Infatti è certo vero che le regole pongono vincoli all´attività economica, e lo stato deve in ciò limitarsi; però le imprese italiane non presentano un record autoregolativo particolarmente lusinghiero nei casi in cui le regole pubbliche sono state per lungo tempo minime, ad esempio in campo ambientale.
Diversamente dai nodi della mitologia, un simile groviglio di concause che hanno portato al declino della capacità industriale del nostro paese non si può tagliare. Conviene, faticosamente, cercare di districarlo. Ha impiegato anni per formarsi; ce ne vorranno altri per rimettere in ordine i diversi fili. Il rapporto di Confindustria aiuta a capire quali potrebbero essere a tal fine i ruoli complementari della politica e dello stato, e delle imprese.
ROMA - Il cordoglio è, c´è da giurarci, sincero. Il pensiero largamente condiviso. Ma esprimere il lutto per Giovanni Paolo II con manifesti di partito nel giorno delle elezioni potrebbe indurre effettivamente in un qualche sospetto. Di qui accuse incrociate (perché a Roma e in Calabria i manifesti li hanno affissi nottetempo Ds e Margherita, a Napoli ci ha pensato An), denunce e sgarbi vari. Morale: ieri è dovuto intervenire il Viminale, ordinando di rimuovere tutto o quanto meno coprire i simboli di partito sui manifesti per il Papa.
Se non ci fosse stata la battaglia dei manifesti, ieri, la prima giornata elettorale sarebbe corsa via senza storia. Affluenza nella media, opinione pubblica distratta da quanto sta accadendo in Vaticano, improvviso disinteresse generale dopo settimane di campagna all´ultimo sangue per quello che succederà dopo. Invece, come si diceva, la tregua spontaneamente scoppiata davanti al lutto è saltata a metà pomeriggio, ufficialmente.
Accade infatti che ieri mattina Roma si sia svegliata tappezzata di belle fotografie del Papa, ripreso di tre quarti, con la scritta "Un uomo buono". Firmato: Democratici di sinistra. La firma, in basso a destra, per la verità è piccola. Ma è innegabilmente lì. In un giorno di silenzio elettorale. E anche questo è innegabile.
La Margherita, a sua volta, ha avuto un pensiero assai simile, stampando manifesti con parole autografe di Giovanni Paolo II dedicate alla solidarietà («E´ lo spirito di solidarietà che deve crescere nel mondo, per vincere l´egoismo delle persone e delle nazioni»), che il Papa pronunciò il 4 novembre 2000, in occasione del Giubileo dei governanti e dei parlamentari. Un bel modo per ricordarlo pure questo, solo che qui il simbolo del partito è perfino più visibile, anzi decisamente vistoso.
I partiti del centrodestra - vuoi per un´interpretazione più rigida su come sia da intendersi il concetto di silenzio elettorale; vuoi, a esser proprio maliziosi, perché loro invece non ci avevano pensato - sono montati su tutte le furie, correndo rapidamente ai ripari. Prima hanno diffuso una nota congiunta delle segreterie nazionali di Forza Italia, An e Udc che esprime «riprovazione» per un´iniziativa che, si legge, «viola sia le normali leggi sulla propaganda, sia l´impegno d´onore tra maggioranza e opposizione per creare le condizioni di un rispettoso silenzio di fronte a questo evento straordinario». Poi si sono rivolti direttamente al ministro dell´Interno, chiedendogli di fare qualcosa.
Pisanu, constatato che la violazione per esserci c´era, ha subito provveduto a ordinare ai sindaci la rimozione dei manifesti. Ds e Margherita si giustificano, protestando il loro «rispettoso cordoglio», oltre al fatto che comunque a Roma sulle schede elettorali non figura il simbolo degli uni né quello degli altri (è vero: corrono tutti insieme sotto "Uniti nell´Ulivo"). «Sarebbe stato molto più corretto, autentico e rispettoso, attendere la fine delle operazioni elettorali per manifestare i propri sentimenti», protesta a sua volta il ministro Alemanno, comunque scontento. «Nessuno strumentalizzi l´immagine di un grande della storia», gli fa eco il forzista Tajani. Un assessore calabrese di An, Basile, ha presentato direttamente denuncia alla Digos di Vibo Valentia. «Almeno il Papa lasciatelo stare», tuona Storace, esprimendo tutto il suo «sdegno».
E lo sdegno sarebbe anche comprensibile se non fosse che a Napoli è stata proprio An ad avere lo stesso commosso pensiero per il Pontefice scomparso, coprendo i muri cittadini di foto di Giovanni Paolo II "firmate" con il simbolo biancazzurro del partito di Via della Scrofa. In questo caso è stato il centrosinistra a saltar su. Il verde Pecoraro Scanio ha annunciato immediatamente un esposto all´autorità giudiziaria: «Si tratta di una strumentalizzazione del Pontefice offensiva e illegale, oltre che di una speculazione elettorale di pessimo gusto», afferma; «affiggere manifesti di partito con l´immagine del Papa, dopo che la politica nazionale ha addirittura annullato i comizi in segno di rispetto nei suoi confronti, appare una scelta di estrema pochezza». Anche il sindaco Iervolino e il governatore uscente Bassolino non l´hanno presa affatto bene. «Sono veramente addolorato», ha dichiarato quest´ultimo. «Una speculazione illegale e di pessimo gusto», ha fatto presente, con maggiore veemenza, il sindaco.
Qui, a Napoli cioè, è An a sdrammatizzare, invitando tutti a «non fare polemiche fuori luogo». «Ognuno mette sui manifesti ciò che vuole e ha il diritto di salutare un uomo del genere», taglia corto il candidato della Cdl alla presidenza della Regione, Bocchino. Anche perché alla fine Alemanno è stato costretto a bacchettare pure lui: «La direzione nazionale di An non sapeva nulla di questi manifesti, rimuoveteli subito», ha ordinato in una brusca telefonata. A sera, Pecoraro Scanio fa a sua volta sapere di aver senz´altro apprezzato l´intervento di Pisanu. E se non fossero le ore che sono, si potrebbe addirittura dire che tutto è bene quel che finisce bene
A fine gennaio si è svolto il «Big Talk» sui «generatori di futuro» della Margherita. A febbraio, prima il terzo congresso dei Democratici di sinistra, poi il convegno costitutivo della Federazione dell’Ulivo. Nelle relazioni introduttive o conclusive di questi convegni sono stati indicati molti obiettivi. Ma non mi pare che si intraveda ancora un programma del centrosinistra. Tre domande, in particolare, rimangono senza risposta.
Prima domanda: visto che tra un mese si vota per le Regionali, quale ruolo il centrosinistra intende riconoscere alle Regioni? Queste sono ora in un limbo. La riforma costituzionale del 2001, voluta dal centrosinistra, aveva previsto il trasferimento di molte funzioni dallo Stato in periferia, ma con qualche eccesso e molte sbavature. Il centrodestra ha ibernato la riforma, promettendo ancor più ampi trasferimenti e qualche correzione degli eccessi e delle sbavature della precedente riforma. Nel frattempo, la conflittualità tra Stato e Regioni è aumentata a dismisura. Il centrosinistra intende ritornare alla riforma del 2001, attuandola? In caso positivo, è pronto a correggere gli errori allora commessi? O intende risolvere la conflittualità in altri modi?
Seconda domanda: il centrosinistra è contento di queste regole del gioco politico o attribuisce quella che uno dei suoi leader ha chiamato la «crisi della costituzione materiale» solo all’estremismo del centrodestra? Ritiene che il riconoscimento di uno statuto all’opposizione e l’esercizio moderato del potere bastino per uscire dalla crisi? L’esperienza ha dimostrato che sistema parlamentare e metodo maggioritario svuotano il Parlamento, perché una maggioranza fa le leggi che vuole, e rafforzano il governo, che finisce per dominare esecutivo e legislativo, e contrapporsi all’ordine giudiziario, l’unico che sfugga alla maggioranza. Dobbiamo essere contenti di questo risultato? Il centrosinistra ha proposte in proposito?
Terza domanda. La nostra società è sempre più fondata sull’anzianità. Non solo nel senso che gli anziani divengono sempre più numerosi. Ma anche nel senso che lo Stato del benessere favorisce i pensionati rispetto ai giovani senza lavoro. E nel senso che nel settore pubblico la regola dell’anzianità predomina su quella del merito. La formula costituzionale per la quale vanno favoriti i capaci e meritevoli è stata dimenticata. Il centrosinistra che cosa intende fare in proposito? Vuole assicurare uno spazio al merito o preferisce premiare l’anzianità (o, peggio, appartenenze politiche, legami familiari, vincoli tribali)? Le prossime Regionali possono essere una prova generale delle elezioni politiche del 2006. Allo stesso modo, la piattaforma politica, con la quale il centrosinistra si presenta, è un preannuncio del programma per le elezioni che si svolgeranno tra un anno. I buoni propositi manifestati nelle tre assise non rispondono alle domande che ho posto, e che ritengo importanti per la nostra società. Anzi, indulgono in atteggiamenti propagandistici e persino populistici. Basti solo l’esempio della proposta fatta nell’introduzione al congresso dei Democratici di sinistra: «Si assumano subito 5.000 giovani ricercatori per dare un segnale forte».
Proposta demagogica, perché non spiega dove possano trovarsi «subito» ben 5 mila ricercatori degni di questo nome. E perché non considera che cosa succederà, poi, ai giovani che vorranno diventare ricercatori, dopo l’infornata dei 5 mila
Il nostro dissenso con Sergio Romano è radicale. A proposito del rapimento di Giuliana Sgrena, sul Corsera di ieri ha scritto: «Credo che occorrerebbe fare il contrario di ciò che è stato fatto in Italia dopo il rapimento di Giuliana Sgrena. Le manifestazioni, le veglie, il coro delle dichiarazioni politiche, degli interventi personali del presidente della Repubblica e il commovente incontro del capo dello Stato con i genitori della giornalista hanno dimostrato ai rapitori che avevano scelto bene la loro vittima». A voler rispondere al modo di quel che in giornalismo si chiama corsivo, dovremmo scrivere: «Bravo Romano, tu solo sei il Machiavelli della situazione». Noi del manifesto non abbiamo avuto la dignità di trattenere la nostra preoccupazione per una compagna di lavoro rapita; le centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato il 19 febbraio a Roma erano utili idioti che facevano il gioco dei rapitori; il presidente della Repubblica un povero vecchio che, per senile emozione, abbracciava i genitori di Giuliana. Tutti poveri idioti salvo lui che con un machiavellismo da quattro soldi ha preteso di insegnarci la via giusta: far finta di niente. Un far finta di niente che nemmeno il defunto Stalin sarebbe riuscito a imporre al manifesto e agli italiani. E mi viene da aggiungere che «congelare il patrimonio della famiglia colpita», cioè quello dei genitori e di Pier Scolari, non sarebbe stata la misura che avrebbe fermato i sequestratori.
E' ovvio - non bisogna essere ambasciatori per capirlo - che quello di Giuliana Sgrena sia un sequestro politico e che con la politica occorre rispondere. E' certo che la manifestazione del 19 febbraio a Roma è stata vista con soddisfazione dai rapitori, ma anche con la coscienza di stare facendo qualcosa contro se stessi e contro l'Iraq, in nome del quale dicono di agire. E questo ancora dicono la mobilitazione degli imam e dei sacerdoti della chiesa cattolica. Sia pure nel caos che attualmente domina nell'Iraq (chi lo governa? E che potere ha l'ambasciata Usa forte delle truppe e di duemila agenti della Cia?) tutte le questioni, compreso il rapimento di Giuliana e Florence, hanno una portata politica, di una politica difficile da individuare e districare, ma assolutamente politica. Ed è proprio per questo - e non solo per il legame forte che ci unisce a Giuliana - che abbiamo fatto e faremo tutto il possibile per leggere politicamente i sequestri, soprattutto dei giornalisti (non c'è proprio nulla di corporativo, come malamente insinua Romano). I giornalisti sono l'informazione e nel caso di Giuliana una informazione schierata per la pace, per l'avvenire di un Iraq libero da occupazioni straniere, per una possibilità di pace nel medio oriente, che sembra prossimo a diventare la polveriera del nostro mondo.
Il rapimento di Giuliana, inviata del manifesto, e di Florence, inviata di Liberation (ieri abbiamo visto in video le immagini drammatiche del suo messaggio) non possono essere, nel contesto iracheno, affari di delinquenza privata: chiedono - come abbiamo fatto e continuiamo a tentare di fare - una risposta politica. E' difficile capire perché uno come Sergio Romano voglia ridurre il tutto a un affare privato.
Settantotto anni, staffetta partigiana nella Resistenza, deputato per sei legislature con la Dc Tina Anselmi è stata nel ´76 la prima donna ministro in Italia, al Lavoro. Poi ministro della Sanità e presidente della Commissione P2. Si deve a lei la legge sulle pari opportunità.
Onorevole Anselmi, ha visto le immagini delle donne irachene in fila ai seggi per votare?
«Come no, che emozione. Con quelle dita macchiate di viola. Tutto quello che noi chiamiamo il Terzo mondo ormai si appoggia sul coraggio e sulla forza delle donne. Anche dove i governi non le sostengono. Ad Ankara non molto tempo fa c´è stato un convegno: bisognava vederle, ascoltarle. Nessuno riuscirà più a fermarle».
Il tempo passa volando. Sessant´anni fa le donne non votavano, in Italia. Come andò, cosa ricorda?
«L´impegno di Togliatti e di De Gasperi per l´estensione del voto. Ricordo che fu Togliatti a prendere la parola. Disse: ?Se De Gasperi è d´accordo estendiamo il voto alle donne´».
E De Gasperi?
«Rispose: d´accordo. Non vi furono grandi contrasti. Era una esigenza culturalmente accettata. Pochissimi parlarono contro. Forse Giovanni Leone, ma potrei sbagliarmi. Ci fu chi nel Pci espresse la preoccupazione che le donne sarebbero poi diventate la maggioranza, ma erano battute di spirito... Cattive profezie, tra l´altro».
Lei andò a votare, nel ´46?
«Non potei votare: non avevo ancora l´età. Andai nel ´48, a Venezia. Nel mio collegio ne eleggemmo due».
Due donne nel suo collegio, nel ´48. E oggi, è soddisfatta di come vanno le cose?
«Per niente. Vedo un eccesso di fiducia femminile che mi spaventa. C´è nel paese un brutto clima. Si può sempre tornare indietro, le giovani devono tenerlo a mente. Oggi, per esempio, le elette sono tutte delegate».
In che senso delegate?
«Scelte dai partiti, messe nei collegi perché si pensa che prendano voti. Non vedo candidature che nascono da una loro forza autonoma. Non ci sono oggi sul terreno battaglie comuni fra donne. Non ci sono nemmeno le condizioni perché le donne abbiano davvero un ruolo di parità. E´ per questo che molte donne si arrendono, finiscono di nuovo per delegare gli uomini».
Una disparità oggettiva, dice.
«E´ così. La società è organizzata al maschile. Gli orari, le strutture sociali. Pensi agli asili, all´assistenza agli anziani. Tutto quello che lo stato toglie a chi non è autonomo ricade sulle donne. Le giovani devono stare attente a non farsi scippare con l´illusione della modernità, della flessibilità. I diritti non si scambiano al libero mercato».
Parliamo di noi. Parliamo dell’Unità. O meglio parliamo di come altri parlano dell’Unità. È un caso curioso, probabilmente unico, interessante per un regista. Dovrebbe mettere tutto il coro, anzi tutti i personaggi e tutte le voci da una parte sola. Sono coloro che decidono sul bene e sul male (di solito sul male) di questo giornale, guardandolo tutti dal punto di vista del potere. È un punto di vista comprensibilmente irritato, come ci dice il senatore Malan, vice capogruppo di Forza Italia. Malan attribuisce, riga per riga, il gesto sconsiderato del giovane Dal Bosco (quello del treppiedi), a un editoriale di questo giornale, e lo ha fatto, in occasione di una piccola coincidenza sfortunata. Proprio mentre lui vedeva il ragazzo mantovano come «il provocatore dal volto giallastro mandato avanti dalla stampa prezzolata» (Maxim Gorkij, “Tra la folla”, Sonzogno, 1932), il suo capo perdonava, rassicurava la madre, invitava a casa, usando con tempestività e bravura tutta la magnanimità mediatica (molta, come l’aggressività permalosa) di cui dispone. Malan comunque lo ha fatto, tornando a stabilire il nesso che non si era stabilito (non pubblicamente) neppure ai tempi di Gobetti e dei fratelli Rosselli. La cosa strana però non è Malan, il cui ruolo di pensatore in Senato difficilmente lascerà una traccia nella storia della Repubblica. La cosa strana è che nessuno - sulla stampa o nei talk show di un grande Paese europeo - vi presti attenzione. Ciò che sta accadendo all’Unità è una regressione alla teoria lombrosiana, applicata in questo caso allo scrivere. Si tracciano i parametri di ciò che è o non è accettabile dire. La tracciatura avviene nei luoghi di potere. Niente di strano, il potere prova sempre a farlo. Il caso è che la tracciatura viene osservata scrupolosamente da tutti. Ovvero la descrizione lombrosiana di Malan (l’articolo e l’attentatore si assomigliano, dunque l’attentatore è l’articolo) non fa scandalo né notizia. Ma questo non è che un aspetto del caso Unità. Provo a descrivere il fenomeno. Viene detto impunemente (nel senso che non provoca sorpresa né osservazioni critiche) e ripetutamente che in Italia c’è una gazzetta del male che agita le menti, fino a persuadere bravi cittadini di fatti mai accaduti, sconvolge i sentimenti, fino a fare odiare chi si dovrebbe amare. E smuove masse di persone a compiere gesti e comportamenti che non solo sono inammissibili ma sono anche immotivati. La gazzetta del male scuote da sola un Paese tranquillo e ben governato che, altrimenti (ovvero senza quel giornale) attraverserebbe uno dei migliori periodi della nostra vita pubblica. Avete letto un riassunto breve ma attendibile di tutto ciò che dichiarano (certi giorni, uno dopo l’altro, ciascuno rincarando la dose) coloro che scortano, affiancano e seguono Berlusconi nelle vicende politiche e personali. La loro condanna è gridata come si grida un allarme, proposta con un linguaggio di grave pericolo, irradiata da telegiornali pubblici e privati, agenzie giornalistiche, televideo, e dai giornali direttamente controllati dal gruppo Berlusconi (che è un vasto gruppo pubblico e privato dislocato più o meno al centro di tutto ciò che questo Paese fa, dice o produce). Dunque non si può dire che l’attenzione malevola, detta a voce autorevole e altissima contro il nostro giornale non faccia notizia. La notizia (in particolare la notizia politica) è una provocazione (come spiega Paolo Mieli nel primo editoriale dopo il suo ritorno alla direzione del “Corriere della Sera”, 24 dicembre) a cui si deve opporre assenso o dissenso. Cito Mieli: «I giornali hanno il dovere, sì il dovere, di prendere posizione senza reticenza, e chiamare i responsabili davanti al tribunale della opinione pubblica». Ora tutto ciò che si dice dell’Unità, in forma così autorevole (guardate i titoli e le funzioni politiche di chi ci insegue quotidianamente su per le scale dell’informazione politica) o è vero o non è vero. Se è vero, c’è uno scandalo nel giornalismo italiano che tollera ogni giorno la pubblicazione di notizie non solo false ma dirette a sollevare rivolta ed esaltare le menti. Se non è vero c’è uno scandalo nel sistema di potere italiano, che è libero di lanciare accuse gravissime contro un giornale di opposizione utilizzando tutti i canali di informazione, facendo in modo che le accuse - espresse il più delle volte con particolare pesantezza ed esplicito richiamo al delitto - raggiungano la più vasta udienza nazionale. E tutto ciò mentre - da parte dell’accusato - non è previsto alcun mezzo o strumento di risposta che non siano le copie di questo giornale.
Ma anche sulle copie, che per fortuna stanno di nuovo salendo, si riversa lo scandalo del potere se le accuse non sono vere. Infatti la potente diffusione multimediale di incriminazioni dell’Unità è anche un formidabile avvertimento a chi avesse intenzione di usare le pagine dell’Unità per la propria pubblicità. Si può fare pubblicità su un giornale che incarica (tramite i suoi velenosi articoli) il giovane comunista Dal Bosco (frequentatore, si fa notare, delle feste dell’Unità) di urtare e ferire con il cavalletto della sua macchina fotografica il collo del presidente del Consiglio? Dunque niente pubblicità. Ma senza pubblicità la sopravvivenza si fa difficile persino se aumentano le copie.
È importante tenere presente l’accurata precisione della operazione di potere. Come in certi sogni da incubo, è a senso unico. Un fiume di accuse discende tramite giornali, telegiornali, televideo, interviste, dichiarazioni, agenzie. Niente risale verso l’origine delle accuse. L’Unità viene tranquillamente citata come testata sotto gravissima accusa. Coloro che ricevono e pubblicano queste accuse, giornalisti - si deve pensare - sensibili all’ammonimento autorevole di Paolo Mieli - non sembrano interessati a chiedersi (verificando le nostre pagine) o a chiedere a noi intervistandoci - (magari per telefono) “Ma, è vero?”. Mai un Tg o una agenzia ha cercato riscontro o risposta ad accuse drammatiche come quella formulata mercoledì 4 gennaio dal vice presidente del gruppo Forza Italia al Senato, Malan, nella sua lunga dichiarazione alla Agenzia Ansa. Dato il livello dell’accusatore e la gravità delle cose dette, ci si immagina una drammatica verifica pubblica da parte dei mezzi di comunicazione. Ma non c’è e non ci sarà. L’affermazione del senatore Malan, per quanto pazzesca, può passare per vera. È autenticata da un notaio di nome silenzio. Esiste poi un alacre sottomondo che lavora intorno all’Unità, attratto dalla facilità del gioco d’accusa senza risposta. Ci sono due tecniche. Una è quella di chiedere a un personaggio di potere di commentare una affermazione dell’Unità, senza mai (mai, in questi tre anni) chiedere all’Unità di commentare ciò che ha detto il personaggio di potere a carico di questo giornale. Si fa nei migliori telegiornali e giornali radio, quasi ogni giorno. E c’è l’altro espediente: attendere - per dare un po’ di spazio all’Unità - che vi sia un problema interno. Il dubbio che vi sia (in questo giornale fantasma che non è mai ammesso a dire la sua quando viene pesantemente accusato e insultato) un contrasto tra direttori e proprietà, tra proprietà e redazione, o tra il giornale e i Ds (i cui gruppi parlamentari contribuiscono a sostenere l’Unità), fa improvvisamene accendere l’attenzione, la voglia di sapere, la disputa sui piccoli scoop di una cosa detta o di un nome lasciato cadere. Si formano necrologi e totonomine. Quanto al rispondere liberamente, con mezzi equivalenti, ad accuse e sentenze unilaterali del potere, non se ne parla neanche. In questo modo, una volta bloccate tutte le vie d’uscita, gli spiragli di critica e le possibilità di offrire una risposta almeno a una accusa su dieci, il sistema funziona in modo perfetto. Lui è buono. E la banda che continua ad attaccarlo prima o poi la metteremo a tacere. È un progetto che conta su una sottomissione compatta. Non resta che una domanda (e una speranza): continuerà ad essere compatta?
Giovanardi e il sondaggio «scientifico» sulle donne
Sulla bizzarra affermazione di un ministro della Repubblica. Da il Corriere della sera del 20 novembre 2005
Il ministro Carlo Giovanardi ha amiche di famiglia che proprio non capisce: se parla di politica sbuffano. Lo ha detto lui, nella deliziosa intervista al Corriere dove, per spiegare il suo no alle quote rosa, ha sentenziato: «Alle donne del nostro Paese mica gliene frega niente della politica. Lo vedo quando sono a cena alle tavolate con gli amici. Loro, gli uomini, mi sollecitano a parlare di politica.
E loro, le donne, quando questo succede si annoiano a morte e cercano di parlare d'altro».
Va da sé che lui, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, scuote la testa. Che cosa c'è di più appassionante, davanti alle tagliatelle, che discutere su come il nuovo segretario dell'Udc Lorenzo Cesa sia frutto d'un processo di sintesi avviato per superare la contrapposizione tra Erminia Mazzoni e Mario Tassone? Di più inebriante, all'arrosto, che interrogarsi sui pensieri di Mauro Cutrufo o di Pino Pisicchio? Di più appagante, al dessert, che calcolare le alleanze per recuperare un posto nel cda di Sviluppo Italia cedendo un consigliere all'Efim e un assessorato a Pomezia? Di più eccitante, al limoncello, che pesare le sfumature delle virgole nei dintorni del centro per capire (giovanardese testuale) «quali spazi ci siano per un partito popolare europeo che ridisegni il polo moderato in maniera omogenea e lo renda un'alternativa credibile alla sinistra»? Macché, le donne sospirano: uffa! Conclusione: non sono adatte alla politica. Di più, il sondaggio scientifico del ministro, che ha spiegato di avvalersi per il suo esaustivo campione demoscopico, oltre che delle consorti dei commensali (finché, s'intende, non torneranno a mangiare col piatto in mano sugli sgabelli della cucina come le nonne d'una volta che lasciavano agli uomini i discorsi da uomini), anche della collaborazione della moglie e della figlia (d'accordo con lui), dice che «le quote rosa sono un'umiliazione». Perché «sono ghettizzanti», «creano delle riserve indiane» e sono del tutto inutili: le brave infatti, se ce ne fossero, emergerebbero lo stesso.
Le donne italiane dovrebbero congratularsi. La posizione di Carlo Giovanardi è infatti un importante passo avanti, nello sviluppo dei diritti politici femminili, rispetto per esempio a quella del presidente del Consiglio e ministro dell'Interno Giovanni Lanza che nel 1871, pur riconoscendo che «qualche fondamento può esservi nelle costumanze per negar loro il voto politico», si avventurò a proporre che le donne potessero «mandare il loro voto per iscritto» alle elezioni amministrative. Purché, per capirci, non si presentassero al seggio. Una posizione, dovete ammettere, assai retrograda rispetto alla successiva decisione della Camera (poi arenatasi fino al 1924) di accoglier la proposta di quel sinistrorso di Agostino Depretis e ammettere le mogli al voto amministrativo sia pure circoscritto al voto «con delega al marito».
A 155 anni dalla prima petizione alla Camera dei Lord per l'estensione del diritto di voto alle donne inglesi che avrebbero avuto accesso alle amministrative nel 1869, a 99 dall'elezione della prima parlamentare (una finlandese), a 87 dalla nomina della prima sottosegretaria (la polacca Irena Kosmowska), a 81 dal giuramento della prima ministra (la danese Nina Bang) e a 45 dall'insediamento della prima donna premier (la ceylonese Sirimavo Bandaranaike), l'apertura del ministro è quindi un messaggio di speranza per tutte le donne italiane: dopo aver lavato i piatti fatevi sotto, carine.
Nessuna preclusione culturale. Che nel nostro Paese abbiamo dovuto attendere 115 anni e 836 ministri maschi prima che una donna, Tina Anselmi, entrasse in un governo; che la sola Nilde Jotti abbia avuto un incarico esplorativo per formare un governo e solo per una sacrosanta bizzarria di Francesco Cossiga; che le donne ministro siano state nel dopoguerra 44 (il 2,8%) contro 1.553 maschi; che la proposta di Giuliano Amato di mandare al Quirinale una donna fosse stata accolta come «una bella provocazione» («Manco se io avessi proposto un coleottero!»); che il 93,6% dei sindaci, l'88,6% dei deputati, il 90% dei presidenti di Regione, il 94,6% dei prefetti siano uomini dipende solo dal fatto che alle donne italiane «non gliene frega niente della politica». Di «questa» politica. Fosse vero, sarebbe interessante sapere: e come mai, caro Giovanardi?
A VOLTE una vignetta vale più d’un articolo di fondo. Ce n’era una di Giannelli sul "Corriere della Sera" di venerdì che fotografava una situazione all’indomani dell’approvazione alla Camera della legge elettorale proporzionale. Si vede un Prodi piccolissimo e rattristato che dice: brutta giornata quella di oggi, e un altissimo allampanato Fassino che lo rincuora: «Ma noi vinceremo le primarie».
La comicità sta nell’accostamento tra un voto parlamentare che spiana la strada alla rimonta del centrodestra e una competizione all’interno del centrosinistra il cui risultato è scontato e non cambia nulla. Ma il pregio di quella vignetta sta soprattutto nella doppia lettura della frase di Fassino, equiparabile al «noi suoneremo le nostre campane» in risposta all’arrogante «noi suoneremo le nostre trombe» lanciato contro la Repubblica di Firenze ai tempi delle invasioni francesi e spagnole.
Vincere le primarie è un obiettivo che, se raggiunto, può ricambiare con efficacia lo schiaffo ricevuto alla Camera e ridare slancio e iniziativa al centrosinistra? Io credo di sì, ma a certe condizioni. Occorre che nella giornata di oggi almeno un milione di elettori vadano a votare e occorre che Prodi riceva un consenso di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri competitori messi insieme. Abbia insomma un’investitura popolare chiara e netta che esprima unità e forza. Se questo è l’obiettivo sbaglia Prodi a contentarsi del 51 per cento dei voti in suo favore. Ci vuole molto di più per dare senso politico a un risultato numerico.
Al di là del valore dei singoli contendenti, oggi è in gioco la sorte dell’Unione, la volontà popolare al di sopra del politichese degli apparati, l’unità sostanziale del centrosinistra, il desiderio di battersi e di vincere in nome degli interessi del paese avviliti da una gestione dilettantesca, clientelare e per molti aspetti sordida della cosa pubblica. Sembrava prossima l’uscita da un tunnel che ha infiacchito le energie della società italiana, debilitato la sua fibra morale, le sue capacità innovative, i suoi sentimenti di giustizia, il suo bisogno di sicurezza. Ma nelle ultime settimane queste prospettive si sono indebolite, la contesa si è fatta più dura e incerta. In queste condizioni le primarie non sono più quel diversivo pleonastico che erano sembrate a molti, ma sono diventate un appuntamento fondamentale. Una pre-condizione che avrà un peso determinante su quanto avverrà dopo, da domani al voto di primavera. Perché oggi la democrazia italiana suona le sue campane e si vedrà se è un suono squillante e vincente o sordo e presago di sconfitta.
Nel frattempo, a render più significativo l’appuntamento elettorale di oggi, si è consumata la crisi di Marco Follini con le sue dimissioni da segretario dell’Udc, accompagnate da un discorso appassionato e dolente che certifica la sconfitta dell’unica ipotesi liberal-democratica esistente nella maggioranza berlusconiana. Leggetelo con attenzione quel discorso e leggete con attenzione le sdegnate risposte che gli sono arrivate dalla nomenklatura di quel partito.
«Voi avete venduto la vostra anima ad un mediocre progetto di potere» ha detto Follini «per questo io non posso più rappresentare questo partito che ormai non è che strumento passivo dei voleri di Berlusconi».
Ci si domanda come sia stato possibile che in un mese, un solo mese, la linea di Follini appoggiata da tutto il partito sia stata capovolta da quegli stessi uomini che l’avevano portata avanti con apparente compattezza per oltre un anno.
In realtà il gruppo dirigente dell’Udc e Pier Ferdinando Casini che ne è il padre-padrone si sono serviti di Follini per stipulare con Berlusconi un patto di potere, abbandonando per strada i contenuti di una politica che avrebbe potuto cambiare la fisionomia della Casa delle Libertà.
E’ risorto in questa occasione l’antico contrasto che divise per vent’anni all’interno della Democrazia cristiana Moro dal corpaccione centrista dei Bisaglia, dei Gava, dei Forlani. Moro voleva che il potere servisse a raggiungere obiettivi di avanzamento democratico della società; i suoi avversari volevano il potere per il potere. Puro esercizio conservativo da mantenere con tutti i mezzi.
In questo conflitto la Dc ha perso l’anima ed è alla fine uscita di scena. I tempi sono cambiati e tutto è diverso da allora ma al fondo la questione è ancora quella: se la politica si debba muovere in una dimensione etica oppure no. Questione perenne, in tutti i tempi e a tutte le latitudini.
In piccolo si è riprodotta tra Follini e Casini. Basta del resto leggere l’intervista rilasciata dal presidente della Camera proprio il giorno prima delle dimissioni del segretario dell’Udc: un testo gelido, piatto, tessuto di battute mediocri, privo di pensiero e di spessore morale.
Ci vedi l’ex portaborse di Arnaldo Forlani, miracolato a occupare la terza carica dello Stato e pronto a riallinearsi ai voleri del «boss» pur di rientrare nella nuova spartizione del potere futuro.
Follini ha commesso molti errori. Forse, se avesse agito con risolutezza un anno fa, l’esito della contesa sarebbe stato diverso. Ma gli va dato atto che quando ha visto l’annientamento delle sue convinzioni non ha ceduto alle lusinghe e se n’è andato dopo una denuncia durissima e senza equivoci. Lui la sua anima l’ha salvata; il suo partito no, ammesso che l’abbia mai avuta.
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Nel centrosinistra ci s’interroga ora su come riorganizzare il fronte della battaglia elettorale dopo lo scossone della nuova legge che entro novembre passerà anche al Senato.
Quella legge è stata tagliata su misura per favorire il centrodestra, limitare la sua sconfitta ma intanto rimetterlo in partita. Rivalutando i partiti e i loro apparati ha creato anche una difficoltà alla candidatura di Prodi, leader senza partito. In che modo si può risolvere questa difficoltà e attenuare la prima?
Ci sono due sole uscite per superare l’"impasse". Tornare almeno al Senato, ma meglio ancora anche alla Camera, alla lista unitaria dell’Ulivo che metta insieme tutti i partiti riformisti come risposta alla frammentazione incoraggiata dalla nuova legge. Una soluzione unitaria di questo genere verrebbe anche incontro a quella vasta massa di elettori desiderosi di votare per una coalizione di forze ma non disposta a identificarsi con un singolo partito. Nelle precedenti elezioni politiche e amministrative questi elettori hanno superato di oltre due milioni la somma dei voti raccolta dai partiti del centrosinistra: un patrimonio prezioso che rischierebbe di andare disperso se la coalizione non fosse neppure presente nelle schede elettorali.
Se poi le diffidenze e le resistenze di questo o quel partito impedissero la lista unitaria, a Prodi non resterà che promuovere una sua propria lista. Senza ledere le strutture organizzative dei partiti alleati. Si presenti ciascuno di essi con i propri simboli e Prodi si rivolga alla società civile così come hanno fatto i candidati sindaci e i candidati alle presidenze regionali. Una sorta di lista civica nazionale che integri il ventaglio dei partiti alleati e dia sbocco al voto di chi si sente di centrosinistra al di là degli steccati partitocratici.
Per perseguire sia la prima sia la seconda di queste soluzioni il risultato delle primarie è comunque fondamentale.
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Si dice: bisognerà pur parlare di programmi concreti e non più soltanto di strumenti per organizzare il consenso.
Certo, bisognerà parlarne. Quali provvedimenti prendere per rilanciare l’economia, risanare una finanza dilapidata, organizzare il nuovo mercato del lavoro e il nuovo stato sociale, rendere efficienti la giustizia, la scuola, la sanità. Affrontare il problema dell’immigrazione. Delineare una politica europea e occidentale di sviluppo e di pace.
Misurarsi con i nuovi problemi della bioetica. Tutelare la libertà religiosa nel quadro della laicità dello Stato e delle pubbliche istituzioni.
Ma non si parte da zero. Molti di questi problemi sono già stati esaminati e anche messi in atto con buon successo dai governi di centrosinistra tra il 1993 e il ‘99. Da allora ad oggi lo studio di queste questioni è stato approfondito e aggiornato. In realtà la domanda di programma ha già gran parte delle sue risposte a cominciare da maggiore equità nella tassazione del lavoro e del profitto rispetto alle rendite e ai cespiti improduttivi.
I programmi concreti li fanno i governi quando hanno in mano l’eredità ricevuta dal predecessore e le carte che documentano la situazione. Già sappiamo purtroppo che l’eredità dei cinque anni di berlusconismo sarà pessima.
Sappiamo anche che il requisito essenziale per ripartire è riposto nella fiducia dei mercati interni e internazionali, un bene immateriale senza il quale non c’è programma che vada a buon fine.
Ciò detto, la coalizione sfidante dovrà indicare entro gennaio i suoi obiettivi e le sue priorità. Quanto alla coalizione sfidata, essa non sta dicendo nulla che attenga al futuro. Nel presente sta solo avvelenando i pozzi, come ho già scritto domenica scorsa. Li sta avvelenando con una legge elettorale che renderà il sistema ingovernabile e con una legge finanziaria compilata, come ha detto Romano Prodi, da un governo in fuga: blocca le spese fino alla fine del 2006 e lascia in eredità agli anni successivi una molla pronta a scattare per recuperare il pregresso. Basta una cifra per denunciare l’inconsistenza di questa classe di governo: erano previste nel 2005 entrate da vendite di immobili per 8 mila miliardi; ne sono entrati fino ad ottobre 600. La differenza la trovate nell’azzeramento dell’avanzo primario e nell’aumento senza più freni del debito pubblico e del deficit.
Chiedete programmi all’opposizione? Stesse a me dirlo (per fortuna non ne ho alcun titolo) direi: facciamo il contrario di ciò che hanno fatto e basterà fare il contrario per far bene.
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L’obiettivo di Silvio Berlusconi se dovesse vincere le elezioni è ormai apertamente dichiarato: vuole andare al Quirinale. Per questo ha bisogno di fare approvare la legge "salva-Previti"; in realtà è una legge "salva-Berlusconi" senza la quale non potrebbe prendere il posto di Ciampi.
Per questo vuole anche abolire la "par condicio": l’obiettivo è quello di assordare gli italiani con un fuoco mediatico senza precedenti, per metà a costo zero per lui che è proprietario di metà delle emittenti nazionali, le quali dal canto loro (cioè dal canto suo) ci guadagneranno sugli spot degli altri competitori.
Tutto pur di vincere. Poi dal Quirinale e col suo partito aziendale in Parlamento i giochi continuerà a farli lui fino al 2013.
Ci pesate? Dove è stato Ciampi potremmo avere Berlusconi. Per altri sette anni. Io non ci dormo la notte.
E voi?
Quattro anni dopo, la sovrapposizione delle immagini di New Orleans a quelle di Manhattan non svela solo la materialità delle questioni di razza e di classe che minano la democrazia americana dall'interno mentre Bush pretende di esportarla con le armi all'estero; modifica altresì la percezione e il ricordo dell'11 settembre. Ci voleva un disastro naturale come Katrina per restituire anche al crollo delle Torri gemelle il suo significato quintessenziale, fin qui coperto dalla retorica dei muscoli e della Nazione di Bush e compagni: la rivelazione della vulnerabilità e della precarietà dell'America come di tutto il resto del pianeta, e degli americani come di tutti gli altri abitanti del pianeta. Significato umano, troppo umano per la logica politica del presidente piccolo piccolo di una grande potenza ferita a morte nella sicurezza di sé; presidente che peraltro non demorde neanche di fronte all'uragano, e ripropone la stessa logica per galvanizzare il popolo e rassicurarlo che sì, la Nazione ce la farà e vincerà ancora una volta contro la mala sorte. Ma si capisce che stavolta il suo appello non si traduce in consenso e non riesce far risalire la china di una leadership ormai compromessa. Non è solo il bilancio fallimentare della guerra all'Iraq, che a tutto è servita fuori che a sconfiggere il terrorismo come ormai la maggioranza degli americani sta realizzando. È che stavolta è impossibile fare con Katrina l'operazione di costruzione del Nemico e di rassicurazione dell'immaginario politico americano che già con Al-Qaeda era visibilmente improbabile, e che tuttavia venne fatta. La ricostruisce, in un lungo saggio sul quarto anniversario dell'11 settembre pubblicato dal New York Times Magazine (e parzialmente tradotto su Repubblica di ieri), Marc Danner, docente a Berkeley e autore di Torture and Truth: America, Abu Ghraib and the War on Terror. Danner ricorda come la struttura di Al-Qaeda, rete senza stato, senza territorio e senza esercito, sia irriducibile a quella di un nemico tradizionale da combattere con una guerra tradizionale, e come tuttavia Bush abbia riesumato l'immagine tradizionale del Nemico per ripristinare l'immaginario della Guerra fredda: «dopo un decennio confuso, il mondo era di nuovo spaccato in due, e per quanto l'attacco dell'11 settembre fosse stato disorientante, la `guerra al terrorismo' si configurava come una riedizione della Guerra fredda». Una retorica, continua Danner, che aveva il duplice pregio di suonare familiare sia al senso comune americano sia a una burocrazia nazionale che era stata costruita per la Guerra fredda e che, dopo l'89, era disorientata e priva di scopi.
Ma ciò che forzatamente è stato fatto con Al-Qaeda non è riproponibile oggi con Katrina. Di fronte alla tragedia di New Orleans e all'impotenza di un potere biopolitico che non ha saputo evitare ai medici il ricorso alle iniezioni di morfina sui malati terminali, non resta che prendere atto della vulnerabilità della Grande Potenza e dello stato in cui versa il suo patto sociale. «Questa tragedia ci impone di mettere sotto esame the soul of America» , l'anima dell'America, scrive sul Time Magazine Wynton Marsalis, direttore artistico del New York City's Jazz del Lincoln Centre, nato e cresciuto in una New Orleans di cui piange ora lo spirito multiculturale e la forma artistica. «La nostra democrazia è stata sfidata fin dall'inizio dalle manette della schiavitù», e la sfida si ripresenta oggi. Più difficile che all'inizio, perché quattro anni fa - torno a Danner - non è stato attaccato il potere americano, ma quel ch'è peggio «la sua aura» di invincibilità. E un potere senz'aura può incattivirsi, ma ineluttabilmente si indebolisce.
Sappiamo da Machiavelli in poi che la politica è diversa dalla morale. Secoli dopo si è stabilito che anche l'economia è diversa dalla morale. Ma la distinzione tra etica, politica ed economia distingue tra sfere di azione, tra campi di attività. In concreto, e a monte di queste differenziazioni, esiste la singola persona umana che non è trina ma soltanto una, e che può variamente essere una persona morale, amorale o immorale. E quando si dibatte la «questione morale» è di questo che si dibatte, è da qui che si deve partire.
Le persone morali sono tali in tutto: anche in politica e anche in economia. Le persone amorali non promuovono il bene ma nemmeno si dedicano al male, anche perché sono fermate, nel malfare, da freni interiorizzati. Invece le persone immorali ridono dei cretini che credono nei valori e non sono fermate da nulla (o soltanto dal pericolo di finire in prigione). Per i primi non è vero che il fine giustifica i mezzi. Per i secondi il fine può giustificare qualche mezzo scorretto, ma non tutti. Per le persone immorali il fine di fare soldi o di conquistare potere giustifica qualsiasi mezzo: non c'è scrupolo, non c'è «coscienza» che li fermi.
Mio padre era un industriale il cui stabilimento venne distrutto dal passaggio della guerra nel 1944. Lui si incaponì nel tentativo di ricostruirlo per non lasciare i suoi operai — circa 400, che conosceva uno per uno — sul lastrico. Quel tentativo non poteva riuscire e difatti fallì. È che mio padre era una persona perbene, e io lo rispetto per questo. Ma è di tutta evidenza che per i vari Ricucci, Gnutti e Fiorani mio padre era soltanto un fesso. E ai loro occhi lo sono sicuramente anche io, visto che anche io cerco di essere una persona perbene.
Tanto le persone perbene quanto le persone «permale» esistono sempre e ovunque. Ma la crisi dell'etica che contraddistingue il nostro tempo ne ha modificato le distribuzioni. I perbene diminuiscono, i «permali» crescono. Inoltre i perbene restano a terra, i «permali» salgono e comandano. Infine sta sempre più dilagando un intreccio perverso tra economia e politica. E la questione morale è la denunzia di questo andazzo. Ma perché scoppia ora? E perché la questione morale è più grave in Italia che altrove? Scoppia ora, rispondo, perché tardi è meglio che mai; e scoppia ora perché i neo-pescecani di assalto del capitalismo speculativo sono finalmente stati scoperchiati. Finora i vari Ricucci, Fiorani e Gnutti l'avevano fatta franca; ma ora sono indagati per insider trading, aggiottaggio, falso in bilancio, falso in prospetto, abuso di ufficio, e altro ancora. Aggiungi l'aggravante che su tutto questo andazzo aleggia l'ombra lunga e sempre sospetta di Berlusconi. Il cattivo esempio e il contagio vengono da lui. Come scrive Ilvo Diamanti su Repubblica, con il berlusconismo non c'è più «scandalo che riesca a scandalizzare», ed «è dilagato un profondo disincanto. La convinzione che tutto è lecito. Basta non farsi scoprire. L'evasione fiscale... il ricorso alle relazioni informali e amicali. In ogni campo, in ogni occasione. Il senso cinico ha avvolto e logorato il senso civico». Il che ci lascia con «un Paese soffocato dal sottobosco, con la città cinica retta dalla tribù dei più furbi». Non si potrebbe dire meglio. Il nostro è ormai un Paese sporco, molto sporco.
Sono un moralista? Sì, ma non perché faccio confusione tra etica e politica; lo sono in quanto sostengo che deve esistere una moralità politica e, alla stessa stregua, una moralità economica; e che in tutti i settori della vita associata devono esistere regole che le persone perbene rispettano. Appunto, le persone perbene.
MILANO — «Stamo a fa' i furbetti del quartierino». Stefano Ricucci, intercettato la sera del 22 luglio, conia questa espressione per esprimere a un collaboratore la sfiducia negli artifici suggeritigli dall'amministratore della Banca Popolare Italiana (ex Lodi), Gianpiero Fiorani, ai fini della scalata «concertata» all'Antonveneta. Ma da «furbetti del quartierino», per i pm, sembrano essersi comportati anche altri, persino nel santuario di Bankitalia: almeno secondo intercettazioni e verbali con i quali la Procura, nel sequestrare le azioni Antonveneta in mano al patto Fiorani-Gnutti-Ricucci-Coppola-Lonati, svela la preordinazione l'11 luglio, contro gli organi tecnici interni, del disco verde di Bankitalia a Fiorani.
«Doveva arrivare ieri», spiega Fiorani già la sera del 3 luglio a Gnutti, ma a rallentare tutto c'è «un infiltrato dentro lì, per il quale mi hanno tirato fuori una cosa assurda»: uno zelante ispettore di Bankitalia s'incaponisce a chiedere lumi su un'operazione del 2003. «Allora — Fiorani spiega a Gnutti —, per potermi confrontare ho chiamato il numero uno» (cioè Fazio), e «lui è chiaramente imbarazzatissimo». Fiorani riporta a Gnutti il colloquio con Fazio: «Io ho detto: "Senti un po', non possiamo mica scherzare con il fuoco... Posso capire le sue e le tue ragioni per il fatto di lasciare in giro un pezzo di carta firmato da questo qua, che è un funzionario tra l'altro nuovo, che dice apertamente che lui non è d'accordo, non è una bella cosa... Però, caro mio, qui a questo punto ognuno si prenda le proprie responsabilità». L'8 luglio gli uffici tecnici di Bankitalia protocollano il loro no all'autorizzazione a Bpi. Ma già alle 8 del mattino dopo, il capo della Vigilanza di Bankitalia, Francesco Frasca, chiama uno dei due ispettori che avevano firmato il no, Gianni Castaldi: «La puoi vedere questa questione della Popolare di Lodi?». Castaldi non arretra: «Senti, Francesco, il documento è stato firmato ed è definitivo. Quello è un documento che va in mano ai magistrati. Ognuno si firma quello che si sente di sottoscrivere». In Banca d'Italia scatta allora un'alternativa «politica» per aggirare il no «tecnico»: surrogarlo con consulenti esterni. «Come risulta dagli ispettori Castaldi e Clementi — riassumono i pm —, il 9 luglio Frasca scrive un accompagnamento della conclusione dell'istruttoria, evidenziando che i servizi di vigilanza competenti non avrebbero tenuto in debito conto il parere del prof. Fabio Merusi. Il Governatore, con atto scritto lo stesso giorno, concorda con la linea di Frasca e rimarca l'esigenza di richiedere ulteriori pareri a consulenti esterni (studio Gambino e Ferro Luzzi)». Ma saputo che lunedì 11 luglio «la lettera di autorizzazione di Bankitalia a Fiorani era stata elaborata al computer dal funzionario Stefano De Polis, appartenente a divisione incompetente rispetto alla Bpi», i pm lo convoca- no a razzo.
E così apprendono che «De Polis era stato preallertato dal martedì precedente, e sollecitato a rimanere a disposizione nel fine settimana». Aveva però potuto «operare solo a partire da lunedì 11 pomeriggio, quando i pareri dei consulenti esterni erano pervenuti in Bankitalia. A collezionarli era stato Frasca. De Polis ha descritto le modalità con cui ha eseguito il lavoro, precisando che aggiunte e soppressioni al testo sono dovute agli interventi dei professionisti esterni. Il copia-e-incolla è stato eseguito sul pc di Trevisan, previa trasmissione del documento e-mail». A mezzanotte dell'11 luglio, Fazio può telefonare a Fiorani: «Allora, ho appena messo la firma, eh».
Intercettazioni e verbali
IL «COLLEGA»
«Fiorani entrava in incognito»
Come fa Fiorani a entrare in continuazione in Banca d'Italia per incontrare Fazio senza dar troppo nell'occhio? In incognito, facendosi passare per un dipendente. Alle 18.43 del 5 luglio lo documenta un rapporto degli inquirenti. «Fiorani entra in Banca d'Italia senza presentarsi in portineria» . Prima, però, «chiama una dipendente perché avvisi il portiere, al quale poi passa materialmente il proprio cellulare, e lo mette in contatto con la sua interlocutrice» . E sul cellulare, intercettato, si sente la donna rassicurare il portiere: «Pronto... Il collega può entrare, lo stiamo aspettando» .
Del resto, qualche accortezza l'aveva suggerita lo stesso Governatore al banchiere della Bpi.
Fazio: «Allora, se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un'ora, un'ora e mezzo... diciamo... perché voglio verificare un insieme di cose» .
Fiorani: «Sì, sì, va bene» .
Fazio: «Allora... l'unica cosa... passa come al solito... dal dietro... dietro di là» .
«Va bene, sennò sono problemi» .
«Hai messo la firma? Ti bacerei»
E' passata da 12 minuti la mezzanotte dell'11 luglio, Fazio telefona a Fiorani il via libera all'Opa: Fazio: «Ti ho svegliato?».
Fiorani: «No, no, guarda sono qui a Milano ancora a parlare con i miei collaboratori».
Fazio: «Va beh, ho appena messo la firma, eh».
Fiorani: «Ah Tonino... io sono commosso, con la pelle d'oca, io ti ringrazio, io ti ringrazio... Guarda, ti darei un bacio in questo momento, sulla fronte ma non posso farlo... So quanto hai sofferto, prenderei l'aereo e verrei da te in questo momento se potessi».
Fazio: «Va anche detto a Gigi, che adesso avvertiamo, di non parlarne, per un po' di giorni deve stare lontano da qua».
Fiorani: «Esatto, ci siamo capiti, bravissimo... perché poi, ogni volta, era un messaggio per... Io non volevo che il nostro rapporto personale fosse tale da influenzarti in qualunque cosa, il rapporto era tuo, solo tuo... e di questo il Paese oltre a Gianpiero ti saranno per sempre grati, veramente».
«Siamo i furbetti del quartierino»
Il patto tra Fiorani, Gnutti, Ricucci? Confessato, ritengono i pm: da quest'ultimo. «L'esistenza del patto occulto è provata anche dalle ammissioni a posteriori dello stesso Ricucci, il quale nel corso di diverse recentissime telefonate dice che sarebbe stato molto meglio ammettere sin da subito l'esistenza del concerto» . Intercettato sabato sera, il 22 luglio, dopo il secondo stop della Consob, Ricucci lamenta la scelte di Fiorani e sostiene che «la lista a parte in assemblea non sarebbe stata a suo giudizio una buona trovata, era contrario» . Per sfiducia nell'efficacia di questi artifici: «La cosa de 'a lista, famo la lista propria, famo tutte ste c...
— è il suo colorito sfogo con un collaboratore — , che tanto non serve a un c..., tutta 'sta roba, a niente, a che serve?... le liste proprie... quelle... stamo a fa' i furbetti del quartierino» . Per i pm, la strategia dei concertisti «è stata quella di eludere le autorizzazioni di Banca d'Italia e fornire alla Consob e al mercato false informazioni» per «coprire operazioni che hanno interessato oltre il 50% di una banca quotata in Borsa» .
«Hai visto come l'ho venduta?»
Per rientrare nei parametri patrimoniali, Bpi dichiara l'1 luglio di aver ceduto a istituzioni finanziarie internazionali quote di minoranza di società controllate. Ma le intercettazioni tra Fiorani e Gnutti dimostrano che in almeno un caso «è stato occultato» che tra le controparti delle cessioni «figuravano Earchimede spa e GP Finanziaria spa, società riferibili a Gnutti». E non c'è solo Antonveneta ma anche Bnl negli incroci: «L'esistenza di accordi riservati in ordine ad entrambe le scalate bancarie risulta dall'intercettazione di una conference call il 15 luglio. Gnutti chiama anche Ricucci, Lonati, Moreschi e altri, manca solo Consorte. Parlano di Unipol» . Gnutti illustra una proposta legata all'Opa di Unipol, sembra contempli un paracadute, aggiunge che «farà circolare un pezzo di carta dove ribadirà questo» . A riunione finita, Gnutti e Fiorani si telefonano.
Gnutti: «Hai visto come l'ho venduta?» .
Fiorani: «Eeehh, sei stato bravissimo» .
«Visto quello come era convinto?» .
A cura di LUIGI FERRARELLA
Curzio Maltese Il signore degli spot
Se pensiamo che si tratta del maggiore strumento di formazione dell’opinione comune, regalarlo al profeta della Merce è un bel gesto. Da la Repubblica del 7 luglio 2005
NEL FINALE di partita il centrodestra ha deciso di non risparmiare nulla, soprattutto il senso del ridicolo. L´ultima trovata della maggioranza è proporre Giulio Malgara presidente della Rai. Il braccio destro pubblicitario di Berlusconi, l´inventore dell´Auditel. Uno così alla presidenza della tv pubblica rappresenta un ossimoro vivente, più o meno come il conte Dracula alla presidenza dell´Avis, Michael Jackson commissario per l´infanzia o Calderoli alle riforme istituzionali. Il centrosinistra, che ha diritto di veto, ha già detto che non se ne parla neppure. Un conto sono le tentazioni di inciucio. Altro è una resa incondizionata a un potere moribondo e pur sempre arrogante.
RIMANE il tentativo ingenuamente furbo e al solito sostenuto da un eccessivo ottimismo riguardo all´altrui dabbenaggine. A riprova di un declino della destra senza dignità ma anche senza intelligenza, disperato e buffo, all´insegna del "si salvi chi può". Ciascuno a modo suo. I centristi si defilano e lasciano il cerino a un Berlusconi da bruciare. Fini distribuisce gli ultimi posti, finché dura. La Lega recupera la logora bandiera della secessione, stavolta anche dall´Europa. E Berlusconi che altro può fare se non dare un altro giro di vite all´informazione, blindare la fortezza del monopolio televisivo? Nella speranza massima che gli italiani siano abbastanza rimbecilliti di televisione da non vedere più la realtà o in quella minima di limitare i danni, portando al voto qualche milione di casalinghe e pensionati teledipendenti. La clientela preferita di Malgara, appunto.
Ma che cosa potrebbe ancora fare per Berlusconi la Rai di Malgara che non abbiano già fatto le edizioni passate? In questi anni la tv pubblica ha costituito il vero instrumentum regni del Cavaliere, assai più di Mediaset. Il salotto amico di Bruno Vespa gli ha organizzato la campagna elettorale e la messinscena spettacolare del contratto con gli italiani. Telegiornali e programmi d´informazione, una volta epurati i Biagi e i Santoro, sono serviti a sostenere tutte le campagne governative. A cominciare dalla gigantesca montatura di Telekom Serbia che avrebbe dovuto servire a spazzar via l´intero gruppo dirigente del centrosinistra ed è naufragata grazie alle inchieste di D´Avanzo e Bonini su Repubblica. Per quattro anni la Rai ha censurato ogni notizia sgradita al governo e ignorato movimenti di massa come le marce pacifiste e i girotondi per dare uno spazio enorme alle favole sull´economia della maggioranza. Gli eventi culturali sono diventati una sfilata di vecchi nani e nuove ballerine al seguito della corte governativa. Berlusconi è infine apparso su tutti i canali con la frequenza del segnale orario. Si può serenamente concludere che il limone è stato spremuto fino all´ultima goccia. Il laboratorio italiano ha confermato che la televisione è uno strumento potentissimo, il luogo principe della lotta politica. Ma per fortuna non è o non sembra in grado di sostituirsi alla realtà.
Ora Malgara è uomo d´indubbia fantasia e di risorse insospettabili. La sua devozione al capo non è inferiore a quella di un Fede. Ma che cosa potrebbe escogitare? Forse sostituire la sigla del Tg1 con l´inno di Forza Italia, come certo avrà già pensato da tempo Clemente Mimun. Oppure produrre una fiction direttamente sulla vita e i miracoli di Berlusconi e famiglia, invece delle solite menate trasversali sui fascisti buoni e i partigiani cattivi, gli avvocati onesti e i magistrati pazzi e criminali. A quel punto però scatterebbe il rifiuto del pubblico, già ben allenato a cambiare canale ogni volta che compare un doppiopetto più un lifting. È insomma quasi un peccato non poter vedere all´opera la Rai di Malgara. Così come spiace non poter vedere un giorno uno staterello pedemontano, con la lira per moneta e Borghezio premier, e seguirne l´infallibile rovina. Utopie sospese fra il terribile e la comicità sublime, come il laboratorio di Frankenstein di certi film impressionisti, con la cartapesta che trema sotto i lampi.
La Rai di Malgara è destinata a rimanere soltanto il segnale di una malattia politica. L´incapacità di una destra anomala che si credeva immortale di venire a patti con la realtà del proprio declino, trasformarsi in una destra europea e guadagnarsi in questo modo un futuro oltre Berlusconi.