Il New York Times non è un giornale che aspetta le notizie. O meglio, non aspetta che diventino un confezionato luogo comune che tutti i giornali stamperanno allo stesso modo. Si guarda intorno e decide. Durante la guerra nel Vietnam la sua decisione più drammatica è stata di pubblicare, rischiando l’accusa di tradimento, i «Vietnam Papers» che Daniel Ellsberg, un funzionario del Dipartimento della Difesa, aveva inviato a quel giornale perché rivelavano un progetto di allargamento della guerra e di invasione dei Paesi limitrofi. È stato il punto di rottura fra una parte del giornalismo americano e una parte della sua classe politica. Ma è stato anche l’evento che ha spinto il presidente Nixon ad accelerare la negoziazione di pace.
Negli anni Ottanta il New York Times ha preceduto sociologia e politica mettendo un grande titolo in prima pagina che, a quel tempo, sembrava inventato: «L’immigrazione cambia la nostra vita». Era il tempo in cui una vasta immigrazione clandestina, deliberatamente consentita perché abbatteva i costi del lavoro, sosteneva l’economia americana più di quanto chiunque, a destra o a sinistra, volesse ammettere. Era l’inizio di una serie di venti articoli che hanno cambiato la percezione americana sulla portata e le conseguenze del fenomeno. Soprattutto sull’uso calcolato del clandestino da espellere quando si esauriva la forza giovane del suo lavoro e quando credeva di aver meritato il premio di quel lavoro.
Forse si deve proprio a quella serie di articoli, scritti senza altre notizie, da cinque giornalisti che hanno lavorato per mesi, se molte espulsioni non sono più avvenute, se la antica tradizione americana di accettare gli immigrati ha prevalso, se oggi i capi delle polizie di quasi tutte le città dell’immenso confine americano verso il Messico sono ex clandestini fatti passare tanti anni fa da una catena bene organizzata di chiese e conventi cattolici.
A
lcune settimane fa (il 15 maggio) nel suo numero domenicale, tradizionalmente il più amato e il più letto dai cittadini di New York, il quotidiano americano è tornato all’improvviso alla sua tradizione di rivelazione anticipata di cose che stanno avvenendo ma non che sono ancora notizia, con una insolita apertura e un grande titolo che dice: «Classi in America, la linea d’ombra che continua a dividerci». Ne sono autori due giornalisti, Janny Scott e David Leonhardt, che sono ancora al lavoro, con un numero indefinito di puntate ancora in corso. La prima puntata avverte in modo sensazionale, in apertura di giornale che le classi sono tornate ad esistere e a segnare la vita americana. E che le linee di demarcazione e gli sbarramenti fra una classe e l’altra si sono induriti e diventano ogni giorno meno penetrabili.
Giornale e giornalisti si rendono conto di correre contro un senso vietato. Il primo divieto viene dall’esperienza. Gli Stati Uniti sono davvero il Paese meno immobile fra tutte le democrazie industriali del mondo. Il secondo divieto viene dalla percezione. Gli americani sono profondamente convinti della mobilità delle loro condizioni sociali. Parlano malvolentieri di classi e - almeno da giovani - vedono con persuasione un futuro migliore del passato e, per i figli, migliore di quello dei loro genitori.
Il terzo divieto è politico. C’è il rischio di accusa «socialista» (ma i neoconservatori non esiterebbero a dire «comunista») per chi vuole mettere in discussione il problema delle classi. Non si tratta più dello scontro fra pragmatismi (quello del lavoro, che misura le sue conquiste sul terreno in salita del confronto sindacale, e quello del capitale che ha potuto fino ad ora vendere con successo la sua immagine di continua espansione). Questa è la sfida di una ideologia, l’ideologia dei neoconservatori, che si distacca dalla tradizione americana perché non è interessata a tener conto dei fatti. Sostiene che l’America sta per diventare una società dei proprietari, sostiene che le pensioni sono tristi e che è meglio mettere le mani nell’immenso fondo pensioni americano (la Social Security) per distribuire un po’ di soldi a tutti, così tutti avranno un capitale da giocarsi (benché piccolissimo) e alla vecchiaia ciascuno dovrà provvedere con il suo successo personale (se lo avrà avuto) e con i suoi risparmi.
Insomma, la fine della più pragmatica delle Americhe, quella di Roosevelt, che aveva ben chiaro il dramma della vecchiaia e il fatto che la ricchezza si accumula solo in quantità molto grandi dove i rischi e le cadute inevitabili delle borse e degli affari si rimedia solo investendo altra ricchezza.
* * *
I punti di riferimento di Janny Scott e David Leonhardt partono dalla verifica di un grande sondaggio, dalla consultazione di una serie di esperti (senza tenere conto di «destra» e «sinistra», benché le possibili inclinazioni siano sempre annotate).
E da una collezione di storie personali, in modo da tenere conto del grande fenomeno della percezione, del come ciascuno vede se stesso, valuta il passato, prevede il suo futuro e lo confronta con l’immagine che aveva quando ha cominciato.
L’inchiesta non nega il «sogno americano», perché sarebbe come negare che l’Austria del Settecento ha avuto musicisti immediatamente compresi e ammirati come Mozart. E che, dunque, «qualunque Mozart avrebbe avuto la strada aperta al successo». Il paradosso della frase sta nel dire «qualunque Mozart» perché il genio è cosa rara. Questa è la spiegazione dei due giornalisti quando notano che vent’anni fa duecento dei quattrocento grandi ricchi della classifica Forbes erano ricchi per avere ereditato ricchezze. Oggi soltanto trentasette dei quattrocento sono ricchi di famiglia. Questo vuol dire che una grande caratteristica della vita americana è confermata: le classi non sono chiuse e non ci sono salotti riservati. Il problema, però, è quello dei «great achievers». Insieme alla fortuna occorre un così grande talento per accumulare in uno o due decenni la ricchezza che sposta qualcuno definitivamente da una classe all’altra, che il fenomeno diventa raro.
Diventa raro, spiegano i due autori dell’inchiesta, perché la chiusura non si verifica dall’alto verso il basso. Non ci sono rifiuti e non ci sono «salotti buoni». Ma viene dal basso verso l’alto. C’è una serie di ostacoli che spinge i giovani anche se molto dotati in un ingranaggio simile alla famosa scena di «Tempi moderni»: Chalie Chaplin arrampicato fra ruote dentate che rischiano di mangiarlo.
Il sogno americano dice che tutto dipende dal merito, ricordano i due giornalisti. Ma il merito dipende dalla scuola, la scuola dipende dalla città e dal quartiere, e la città e il quartiere dipendono dalla famiglia. Quanti libri ci sono in casa? Chi li legge? Di che cosa si parla? E se non si parla di niente? Se i coetanei sono impegnati in una vita di azzardo e di scorciatoie, orientati ad esse dalla solitudine e dalla mancanza di modelli? Conta uno studio, esaminato e citato dal giornale, della Federal Reserve Bank di Boston (la filiale di Boston della Banca Centrale americana). Meno famiglie si sono mosse di una minima percentuale del loro guadagno negli anni Ottanta che negli anni Settanta. E meno famiglie hanno cambiato livello (in meglio) sia pure minimamente, negli anni Novanta rispetto agli anni Ottanta.
Il «Bureau of Labor Statistics» (divisione del ministero del Lavoro americano) conferma e accentua: «Quasi nessun movimento verso l’alto negli ultimi anni Novanta».
E l’Università di California, Berkeley, pubblica uno studio le cui conclusioni sono queste: «Quello che i figli ottengono dai genitori - abitudini, pratiche di vita, abilità, esperienze, tratti di carattere, contatti sociali, denaro - fanno la vera differenza, persino per i più bravi». Il senso è questo: persino un «great achiever» (una persona giovane che ha tutto in sé per avere successo) può andare perduto se non ha almeno qualcuno dei «valori ereditari» che sono stati elencati. Per esempio, il ricevere dalla famiglia un po’ di agiatezza ne può generare molta, se la vita di un figlio si ambienta in una famiglia capace di generare contatti e di indicare un passaggio. Ma il fatto che la classe sociale superiore sia senza barriere non libera dalle barriere della classe sociale inferiore: se sei senza contatti e con la formazione scolastica sbagliata (o peggio nessuna vera formazione scolastica)resti bloccato dove sei. Molti di coloro che restano bloccati corrono il rischio di scivolare più in basso, ad ogni crisi non solo personale o dell’azienda in cui lavora, ma anche a seguito delle grandi crisi del mondo, che colpiscono sempre e subito i livelli più deboli.
Dice ai giornalisti del Times il Prof. Gary Solon della Università del Michigan: «Ti dicevano di non preoccuparti della nascita. Ti dicevano che nascere ricchi o nascere poveri non fa differenza se hai talento. Oggi nessun rispettabile studioso direbbe una cosa simile in America». Aggiunge il Prof. Levine: «Nascere ricco in America è una fortuna che ti offre i privilegi più alti al mondo. Nascere povero in America è molto peggio che nascere povero in Europa, in Canada, in Giappone».
Segue, nell’inchiesta di Scott e Leonhardt, una accurata verifica del peso che hanno avuto tecnologia e tassazione sulla divaricazione delle classi. La tecnologia, spiegano, ha tagliato una immensità di posti di lavoro, reso possibile una vasta area di operosità marginale in cui si riesce a sopravvivere o anche vivere decentemente (questo spiega la vasta occupazione americana). Ma non consente di progettare o prevedere alcun avanzamento e induce a immaginare per i figli strade drasticamente diverse. Queste strade restano riservate alle famiglie connesse con più alti livelli sociali.
L’esportazione del lavoro e il cosidetto «outsourcing» hanno eliminato interi settori di attività su cui si reggeva la stabilità e la percezione di sicurezza della classe media. Favoriva i consumi e i pagamenti rateali. Ma è drammatica anche la situazione comparata delle tasse fra i livelli più bassi e quelli più alti della scala sociale americana. Benché sembri paradossale, la tassazione dei meno agiati è progressivamente aumentata (ed è comunque scrupolosamente garantita da verifiche stringenti). Al contrario, a mano a mano che si va verso l’alto, la tassazione diminuisce in modo diretto (le decisioni di George Bush) ma anche e più drammaticamente attraverso svariate forme di esenzioni e di benefici, per fondi e investimenti attentamente assecondati da leggi che esimono, sospendono o tagliano i pagamenti dovuti.
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Le straordinarie pagine del New York Times, che cambiano ancora una volta la storia del giornalismo americano, mostrano che a un grande gruppo giornalistico non spetta solo il compito di informare su ciò che è accaduto, ma anche di rivelare un momento prima ciò che sta accadendo o sta per accadere. D’altra parte la grande inchiesta del New York Times sul ritorno delle classi in America, non è un fatto isolato nella cultura americana dell’era di Bush.
Per questo si discute così aspramente sul taglio delle tasse ai più ricchi, su una ridistribuzione rovesciata delle risorse non verso le persone più povere ma verso coloro che sono già titolari di benessere: Occorre ricordare che - a differenza del vecchio capitalismo - i beneficiati del taglio delle tasse non useranno la nuova ricchezza per investimenti che creano lavoro. O almeno non il lavoro che genera avanzamento e progresso individuale, e un salto di corsia da parte dei poveri. In mezzo, adesso, c’è la barriera della tecnologia, che chiede sempre meno lavoro umano e sempre meno lavoro che non sia già altamente specializzato.
In mezzo c’è la pratica sempre più diffusa dell’«outsourcing» che crea, fuori dalle aziende, nuovi centri di lavoro subordinato, destinati a restare per sempre lavoro subordinato. In mezzo c’è la esportazione del lavoro di massa in Paesi a costo del lavoro molto basso. Non potrà durare per sempre ma genera, intorno al capitale, per usare una espressione del Prof. Levine, una foresta bruciata di non lavoro intorno ai punti alti e ricchi del capitalismo. E fa sostare fuori dal lavoro produttivo una intera generazione giovane americana.
In mezzo c’è l’interpretazione religiosa dei fondamentalisti cristiani, grandi elettori di Bush, secondo cui la ricchezza premia la grazia, dunque la virtù, e istituisce un rapporto fra la quantità di ricchezza e il valore morale di una persona. È un punto di vista che aiuta e incoraggia un governo, ma anche i singoli, le associazioni, le famiglie, a disinteressarsi dei più poveri, a lasciarli dove stanno. Perché evidentemente i poveri non hanno i meriti morali che consentono a Dio (e a Bush) di elargire ricchezza.
furiocolombo@unita.it
5-fine
le puntate precedenti
sono state pubblicate
il 15-19-23-26 maggio
Il rapporto di Confindustria sulla situazione dell´economia italiana – denominato "Checkup competitività" – presenta una lunga serie di dati che attestano in modo inequivocabile come essa volga al peggio, sia rispetto al proprio stesso passato, sia nel confronto con le principali economie europee. Saremo pure il Paese con il maggior numero di auto e di cellulari per abitante, come ha sottolineato ieri il presidente del Consiglio per declamare ancora una volta quanto siamo benestanti.
Ma se i dati assemblati dal Centro studi di Confindustria non miglioreranno rapidamente nei prossimi anni, rischiamo anche di essere il paese con il maggior numero di imprese in via di fallimento, o ridotte ai margini dei circuiti produttivi internazionali. Nonchè di lavoratori poveri rinchiusi in un cerchio invalicabile di lavori precari, e di giovani senza più speranze.
Il rapporto non fa proposte per ovviare a tale rischio, ma esse sono implicite nei dati che contiene e nel modo in cui sono organizzati. Il quale ha il merito di non risparmiare nulla allo stato e alla politica, per ciò che attiene alle rispettive responsabilità nel causare il peggioramento strutturale della situazione economica; ma, a ben guardare, nemmeno alle imprese. Senza che le responsabilità dei primi possano essere separate nettamente da quelle delle seconde. E´ come tirare il filo di un certo colore in un gomitolo arruffato che di colori ne contiene diversi. Si veda la ridotta percentuale di popolazione in età 25-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario.
In Italia nel 2002 essa toccava solamente il 12%, poco più di metà della Germania, e appena un terzo rispetto alla Francia. Nel produrre tale deficit le responsabilità decennali dello stato e della politica sono indubbie. Ma appena si tira un po´ questo filo si scopre che anche le imprese non ne escono indenni. Tra i laureati, infatti, enfatizza il rapporto, sono troppo pochi rispetto agli altri paesi Ue i laureati in materie scientifiche e tecnologiche. Sta il fatto che i tipi di laurea vanno dove il mercato del lavoro offre occupazioni attraenti, e questo non è il caso di tali laureati. Si sa che ad essi l´industria e i servizi - lo provano le rilevazioni del consorzio inter-universitario Almalaurea - offrono anche dopo diversi anni di lavoro le retribuzioni più basse tra tutte le specializzazioni universitarie, insegnanti esclusi. Di conseguenza gli iscritti a tali tipi di laurea sono complessivamente in forte diminuzione da una quindicina di anni.
Continuando a tirare questo o quel filo si fanno altre scoperte, nel rapporto in parola. Ad esempio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 3% l´anno, riducendo la capacità competitiva delle imprese italiane. Ciò è dovuto in parte alla stagnazione della produttività del lavoro: appena lo 0,3% annuo, contro il 2,5 della Spagna e addirittura il 4,7 del Regno Unito. In parte al permanere di un rilevante cuneo fiscale, che fatta uguale a 100 la retribuzione netta spettante al lavoratore aggiunge un onere di ben 83 punti a carico delle imprese. Ridurre tale cuneo è certamente un compito dello Stato - anche se in paesi molto più competitivi dell´Italia come la Francia e la Germania esso è ancora più elevato. Ma lo stesso rapporto dice che le imprese italiane investono poco in ICT, in formazione manageriale e in organizzazione; esportano beni ad alto contenuto tecnologico in misura pari alla metà dei maggiori partners europei, appena il 12% contro il 23; cooperano in misura minima con le università. Un insieme di condizioni che non può che incidere negativamente sul livello di produttività del lavoro.
Tra altri fattori che incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane il rapporto colloca la burocrazia, l´eccesso di regolazione, le lunghe pratiche per aprire un´attività di impresa. Anche in questo caso il tentativo di tirare fili di uno stesso colore dall´aggrovigliato gomitolo della competitività non va a buon esito. Infatti è certo vero che le regole pongono vincoli all´attività economica, e lo stato deve in ciò limitarsi; però le imprese italiane non presentano un record autoregolativo particolarmente lusinghiero nei casi in cui le regole pubbliche sono state per lungo tempo minime, ad esempio in campo ambientale.
Diversamente dai nodi della mitologia, un simile groviglio di concause che hanno portato al declino della capacità industriale del nostro paese non si può tagliare. Conviene, faticosamente, cercare di districarlo. Ha impiegato anni per formarsi; ce ne vorranno altri per rimettere in ordine i diversi fili. Il rapporto di Confindustria aiuta a capire quali potrebbero essere a tal fine i ruoli complementari della politica e dello stato, e delle imprese.
ROMA - Il cordoglio è, c´è da giurarci, sincero. Il pensiero largamente condiviso. Ma esprimere il lutto per Giovanni Paolo II con manifesti di partito nel giorno delle elezioni potrebbe indurre effettivamente in un qualche sospetto. Di qui accuse incrociate (perché a Roma e in Calabria i manifesti li hanno affissi nottetempo Ds e Margherita, a Napoli ci ha pensato An), denunce e sgarbi vari. Morale: ieri è dovuto intervenire il Viminale, ordinando di rimuovere tutto o quanto meno coprire i simboli di partito sui manifesti per il Papa.
Se non ci fosse stata la battaglia dei manifesti, ieri, la prima giornata elettorale sarebbe corsa via senza storia. Affluenza nella media, opinione pubblica distratta da quanto sta accadendo in Vaticano, improvviso disinteresse generale dopo settimane di campagna all´ultimo sangue per quello che succederà dopo. Invece, come si diceva, la tregua spontaneamente scoppiata davanti al lutto è saltata a metà pomeriggio, ufficialmente.
Accade infatti che ieri mattina Roma si sia svegliata tappezzata di belle fotografie del Papa, ripreso di tre quarti, con la scritta "Un uomo buono". Firmato: Democratici di sinistra. La firma, in basso a destra, per la verità è piccola. Ma è innegabilmente lì. In un giorno di silenzio elettorale. E anche questo è innegabile.
La Margherita, a sua volta, ha avuto un pensiero assai simile, stampando manifesti con parole autografe di Giovanni Paolo II dedicate alla solidarietà («E´ lo spirito di solidarietà che deve crescere nel mondo, per vincere l´egoismo delle persone e delle nazioni»), che il Papa pronunciò il 4 novembre 2000, in occasione del Giubileo dei governanti e dei parlamentari. Un bel modo per ricordarlo pure questo, solo che qui il simbolo del partito è perfino più visibile, anzi decisamente vistoso.
I partiti del centrodestra - vuoi per un´interpretazione più rigida su come sia da intendersi il concetto di silenzio elettorale; vuoi, a esser proprio maliziosi, perché loro invece non ci avevano pensato - sono montati su tutte le furie, correndo rapidamente ai ripari. Prima hanno diffuso una nota congiunta delle segreterie nazionali di Forza Italia, An e Udc che esprime «riprovazione» per un´iniziativa che, si legge, «viola sia le normali leggi sulla propaganda, sia l´impegno d´onore tra maggioranza e opposizione per creare le condizioni di un rispettoso silenzio di fronte a questo evento straordinario». Poi si sono rivolti direttamente al ministro dell´Interno, chiedendogli di fare qualcosa.
Pisanu, constatato che la violazione per esserci c´era, ha subito provveduto a ordinare ai sindaci la rimozione dei manifesti. Ds e Margherita si giustificano, protestando il loro «rispettoso cordoglio», oltre al fatto che comunque a Roma sulle schede elettorali non figura il simbolo degli uni né quello degli altri (è vero: corrono tutti insieme sotto "Uniti nell´Ulivo"). «Sarebbe stato molto più corretto, autentico e rispettoso, attendere la fine delle operazioni elettorali per manifestare i propri sentimenti», protesta a sua volta il ministro Alemanno, comunque scontento. «Nessuno strumentalizzi l´immagine di un grande della storia», gli fa eco il forzista Tajani. Un assessore calabrese di An, Basile, ha presentato direttamente denuncia alla Digos di Vibo Valentia. «Almeno il Papa lasciatelo stare», tuona Storace, esprimendo tutto il suo «sdegno».
E lo sdegno sarebbe anche comprensibile se non fosse che a Napoli è stata proprio An ad avere lo stesso commosso pensiero per il Pontefice scomparso, coprendo i muri cittadini di foto di Giovanni Paolo II "firmate" con il simbolo biancazzurro del partito di Via della Scrofa. In questo caso è stato il centrosinistra a saltar su. Il verde Pecoraro Scanio ha annunciato immediatamente un esposto all´autorità giudiziaria: «Si tratta di una strumentalizzazione del Pontefice offensiva e illegale, oltre che di una speculazione elettorale di pessimo gusto», afferma; «affiggere manifesti di partito con l´immagine del Papa, dopo che la politica nazionale ha addirittura annullato i comizi in segno di rispetto nei suoi confronti, appare una scelta di estrema pochezza». Anche il sindaco Iervolino e il governatore uscente Bassolino non l´hanno presa affatto bene. «Sono veramente addolorato», ha dichiarato quest´ultimo. «Una speculazione illegale e di pessimo gusto», ha fatto presente, con maggiore veemenza, il sindaco.
Qui, a Napoli cioè, è An a sdrammatizzare, invitando tutti a «non fare polemiche fuori luogo». «Ognuno mette sui manifesti ciò che vuole e ha il diritto di salutare un uomo del genere», taglia corto il candidato della Cdl alla presidenza della Regione, Bocchino. Anche perché alla fine Alemanno è stato costretto a bacchettare pure lui: «La direzione nazionale di An non sapeva nulla di questi manifesti, rimuoveteli subito», ha ordinato in una brusca telefonata. A sera, Pecoraro Scanio fa a sua volta sapere di aver senz´altro apprezzato l´intervento di Pisanu. E se non fossero le ore che sono, si potrebbe addirittura dire che tutto è bene quel che finisce bene
A fine gennaio si è svolto il «Big Talk» sui «generatori di futuro» della Margherita. A febbraio, prima il terzo congresso dei Democratici di sinistra, poi il convegno costitutivo della Federazione dell’Ulivo. Nelle relazioni introduttive o conclusive di questi convegni sono stati indicati molti obiettivi. Ma non mi pare che si intraveda ancora un programma del centrosinistra. Tre domande, in particolare, rimangono senza risposta.
Prima domanda: visto che tra un mese si vota per le Regionali, quale ruolo il centrosinistra intende riconoscere alle Regioni? Queste sono ora in un limbo. La riforma costituzionale del 2001, voluta dal centrosinistra, aveva previsto il trasferimento di molte funzioni dallo Stato in periferia, ma con qualche eccesso e molte sbavature. Il centrodestra ha ibernato la riforma, promettendo ancor più ampi trasferimenti e qualche correzione degli eccessi e delle sbavature della precedente riforma. Nel frattempo, la conflittualità tra Stato e Regioni è aumentata a dismisura. Il centrosinistra intende ritornare alla riforma del 2001, attuandola? In caso positivo, è pronto a correggere gli errori allora commessi? O intende risolvere la conflittualità in altri modi?
Seconda domanda: il centrosinistra è contento di queste regole del gioco politico o attribuisce quella che uno dei suoi leader ha chiamato la «crisi della costituzione materiale» solo all’estremismo del centrodestra? Ritiene che il riconoscimento di uno statuto all’opposizione e l’esercizio moderato del potere bastino per uscire dalla crisi? L’esperienza ha dimostrato che sistema parlamentare e metodo maggioritario svuotano il Parlamento, perché una maggioranza fa le leggi che vuole, e rafforzano il governo, che finisce per dominare esecutivo e legislativo, e contrapporsi all’ordine giudiziario, l’unico che sfugga alla maggioranza. Dobbiamo essere contenti di questo risultato? Il centrosinistra ha proposte in proposito?
Terza domanda. La nostra società è sempre più fondata sull’anzianità. Non solo nel senso che gli anziani divengono sempre più numerosi. Ma anche nel senso che lo Stato del benessere favorisce i pensionati rispetto ai giovani senza lavoro. E nel senso che nel settore pubblico la regola dell’anzianità predomina su quella del merito. La formula costituzionale per la quale vanno favoriti i capaci e meritevoli è stata dimenticata. Il centrosinistra che cosa intende fare in proposito? Vuole assicurare uno spazio al merito o preferisce premiare l’anzianità (o, peggio, appartenenze politiche, legami familiari, vincoli tribali)? Le prossime Regionali possono essere una prova generale delle elezioni politiche del 2006. Allo stesso modo, la piattaforma politica, con la quale il centrosinistra si presenta, è un preannuncio del programma per le elezioni che si svolgeranno tra un anno. I buoni propositi manifestati nelle tre assise non rispondono alle domande che ho posto, e che ritengo importanti per la nostra società. Anzi, indulgono in atteggiamenti propagandistici e persino populistici. Basti solo l’esempio della proposta fatta nell’introduzione al congresso dei Democratici di sinistra: «Si assumano subito 5.000 giovani ricercatori per dare un segnale forte».
Proposta demagogica, perché non spiega dove possano trovarsi «subito» ben 5 mila ricercatori degni di questo nome. E perché non considera che cosa succederà, poi, ai giovani che vorranno diventare ricercatori, dopo l’infornata dei 5 mila
Il nostro dissenso con Sergio Romano è radicale. A proposito del rapimento di Giuliana Sgrena, sul Corsera di ieri ha scritto: «Credo che occorrerebbe fare il contrario di ciò che è stato fatto in Italia dopo il rapimento di Giuliana Sgrena. Le manifestazioni, le veglie, il coro delle dichiarazioni politiche, degli interventi personali del presidente della Repubblica e il commovente incontro del capo dello Stato con i genitori della giornalista hanno dimostrato ai rapitori che avevano scelto bene la loro vittima». A voler rispondere al modo di quel che in giornalismo si chiama corsivo, dovremmo scrivere: «Bravo Romano, tu solo sei il Machiavelli della situazione». Noi del manifesto non abbiamo avuto la dignità di trattenere la nostra preoccupazione per una compagna di lavoro rapita; le centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato il 19 febbraio a Roma erano utili idioti che facevano il gioco dei rapitori; il presidente della Repubblica un povero vecchio che, per senile emozione, abbracciava i genitori di Giuliana. Tutti poveri idioti salvo lui che con un machiavellismo da quattro soldi ha preteso di insegnarci la via giusta: far finta di niente. Un far finta di niente che nemmeno il defunto Stalin sarebbe riuscito a imporre al manifesto e agli italiani. E mi viene da aggiungere che «congelare il patrimonio della famiglia colpita», cioè quello dei genitori e di Pier Scolari, non sarebbe stata la misura che avrebbe fermato i sequestratori.
E' ovvio - non bisogna essere ambasciatori per capirlo - che quello di Giuliana Sgrena sia un sequestro politico e che con la politica occorre rispondere. E' certo che la manifestazione del 19 febbraio a Roma è stata vista con soddisfazione dai rapitori, ma anche con la coscienza di stare facendo qualcosa contro se stessi e contro l'Iraq, in nome del quale dicono di agire. E questo ancora dicono la mobilitazione degli imam e dei sacerdoti della chiesa cattolica. Sia pure nel caos che attualmente domina nell'Iraq (chi lo governa? E che potere ha l'ambasciata Usa forte delle truppe e di duemila agenti della Cia?) tutte le questioni, compreso il rapimento di Giuliana e Florence, hanno una portata politica, di una politica difficile da individuare e districare, ma assolutamente politica. Ed è proprio per questo - e non solo per il legame forte che ci unisce a Giuliana - che abbiamo fatto e faremo tutto il possibile per leggere politicamente i sequestri, soprattutto dei giornalisti (non c'è proprio nulla di corporativo, come malamente insinua Romano). I giornalisti sono l'informazione e nel caso di Giuliana una informazione schierata per la pace, per l'avvenire di un Iraq libero da occupazioni straniere, per una possibilità di pace nel medio oriente, che sembra prossimo a diventare la polveriera del nostro mondo.
Il rapimento di Giuliana, inviata del manifesto, e di Florence, inviata di Liberation (ieri abbiamo visto in video le immagini drammatiche del suo messaggio) non possono essere, nel contesto iracheno, affari di delinquenza privata: chiedono - come abbiamo fatto e continuiamo a tentare di fare - una risposta politica. E' difficile capire perché uno come Sergio Romano voglia ridurre il tutto a un affare privato.
Settantotto anni, staffetta partigiana nella Resistenza, deputato per sei legislature con la Dc Tina Anselmi è stata nel ´76 la prima donna ministro in Italia, al Lavoro. Poi ministro della Sanità e presidente della Commissione P2. Si deve a lei la legge sulle pari opportunità.
Onorevole Anselmi, ha visto le immagini delle donne irachene in fila ai seggi per votare?
«Come no, che emozione. Con quelle dita macchiate di viola. Tutto quello che noi chiamiamo il Terzo mondo ormai si appoggia sul coraggio e sulla forza delle donne. Anche dove i governi non le sostengono. Ad Ankara non molto tempo fa c´è stato un convegno: bisognava vederle, ascoltarle. Nessuno riuscirà più a fermarle».
Il tempo passa volando. Sessant´anni fa le donne non votavano, in Italia. Come andò, cosa ricorda?
«L´impegno di Togliatti e di De Gasperi per l´estensione del voto. Ricordo che fu Togliatti a prendere la parola. Disse: ?Se De Gasperi è d´accordo estendiamo il voto alle donne´».
E De Gasperi?
«Rispose: d´accordo. Non vi furono grandi contrasti. Era una esigenza culturalmente accettata. Pochissimi parlarono contro. Forse Giovanni Leone, ma potrei sbagliarmi. Ci fu chi nel Pci espresse la preoccupazione che le donne sarebbero poi diventate la maggioranza, ma erano battute di spirito... Cattive profezie, tra l´altro».
Lei andò a votare, nel ´46?
«Non potei votare: non avevo ancora l´età. Andai nel ´48, a Venezia. Nel mio collegio ne eleggemmo due».
Due donne nel suo collegio, nel ´48. E oggi, è soddisfatta di come vanno le cose?
«Per niente. Vedo un eccesso di fiducia femminile che mi spaventa. C´è nel paese un brutto clima. Si può sempre tornare indietro, le giovani devono tenerlo a mente. Oggi, per esempio, le elette sono tutte delegate».
In che senso delegate?
«Scelte dai partiti, messe nei collegi perché si pensa che prendano voti. Non vedo candidature che nascono da una loro forza autonoma. Non ci sono oggi sul terreno battaglie comuni fra donne. Non ci sono nemmeno le condizioni perché le donne abbiano davvero un ruolo di parità. E´ per questo che molte donne si arrendono, finiscono di nuovo per delegare gli uomini».
Una disparità oggettiva, dice.
«E´ così. La società è organizzata al maschile. Gli orari, le strutture sociali. Pensi agli asili, all´assistenza agli anziani. Tutto quello che lo stato toglie a chi non è autonomo ricade sulle donne. Le giovani devono stare attente a non farsi scippare con l´illusione della modernità, della flessibilità. I diritti non si scambiano al libero mercato».
Parliamo di noi. Parliamo dell’Unità. O meglio parliamo di come altri parlano dell’Unità. È un caso curioso, probabilmente unico, interessante per un regista. Dovrebbe mettere tutto il coro, anzi tutti i personaggi e tutte le voci da una parte sola. Sono coloro che decidono sul bene e sul male (di solito sul male) di questo giornale, guardandolo tutti dal punto di vista del potere. È un punto di vista comprensibilmente irritato, come ci dice il senatore Malan, vice capogruppo di Forza Italia. Malan attribuisce, riga per riga, il gesto sconsiderato del giovane Dal Bosco (quello del treppiedi), a un editoriale di questo giornale, e lo ha fatto, in occasione di una piccola coincidenza sfortunata. Proprio mentre lui vedeva il ragazzo mantovano come «il provocatore dal volto giallastro mandato avanti dalla stampa prezzolata» (Maxim Gorkij, “Tra la folla”, Sonzogno, 1932), il suo capo perdonava, rassicurava la madre, invitava a casa, usando con tempestività e bravura tutta la magnanimità mediatica (molta, come l’aggressività permalosa) di cui dispone. Malan comunque lo ha fatto, tornando a stabilire il nesso che non si era stabilito (non pubblicamente) neppure ai tempi di Gobetti e dei fratelli Rosselli. La cosa strana però non è Malan, il cui ruolo di pensatore in Senato difficilmente lascerà una traccia nella storia della Repubblica. La cosa strana è che nessuno - sulla stampa o nei talk show di un grande Paese europeo - vi presti attenzione. Ciò che sta accadendo all’Unità è una regressione alla teoria lombrosiana, applicata in questo caso allo scrivere. Si tracciano i parametri di ciò che è o non è accettabile dire. La tracciatura avviene nei luoghi di potere. Niente di strano, il potere prova sempre a farlo. Il caso è che la tracciatura viene osservata scrupolosamente da tutti. Ovvero la descrizione lombrosiana di Malan (l’articolo e l’attentatore si assomigliano, dunque l’attentatore è l’articolo) non fa scandalo né notizia. Ma questo non è che un aspetto del caso Unità. Provo a descrivere il fenomeno. Viene detto impunemente (nel senso che non provoca sorpresa né osservazioni critiche) e ripetutamente che in Italia c’è una gazzetta del male che agita le menti, fino a persuadere bravi cittadini di fatti mai accaduti, sconvolge i sentimenti, fino a fare odiare chi si dovrebbe amare. E smuove masse di persone a compiere gesti e comportamenti che non solo sono inammissibili ma sono anche immotivati. La gazzetta del male scuote da sola un Paese tranquillo e ben governato che, altrimenti (ovvero senza quel giornale) attraverserebbe uno dei migliori periodi della nostra vita pubblica. Avete letto un riassunto breve ma attendibile di tutto ciò che dichiarano (certi giorni, uno dopo l’altro, ciascuno rincarando la dose) coloro che scortano, affiancano e seguono Berlusconi nelle vicende politiche e personali. La loro condanna è gridata come si grida un allarme, proposta con un linguaggio di grave pericolo, irradiata da telegiornali pubblici e privati, agenzie giornalistiche, televideo, e dai giornali direttamente controllati dal gruppo Berlusconi (che è un vasto gruppo pubblico e privato dislocato più o meno al centro di tutto ciò che questo Paese fa, dice o produce). Dunque non si può dire che l’attenzione malevola, detta a voce autorevole e altissima contro il nostro giornale non faccia notizia. La notizia (in particolare la notizia politica) è una provocazione (come spiega Paolo Mieli nel primo editoriale dopo il suo ritorno alla direzione del “Corriere della Sera”, 24 dicembre) a cui si deve opporre assenso o dissenso. Cito Mieli: «I giornali hanno il dovere, sì il dovere, di prendere posizione senza reticenza, e chiamare i responsabili davanti al tribunale della opinione pubblica». Ora tutto ciò che si dice dell’Unità, in forma così autorevole (guardate i titoli e le funzioni politiche di chi ci insegue quotidianamente su per le scale dell’informazione politica) o è vero o non è vero. Se è vero, c’è uno scandalo nel giornalismo italiano che tollera ogni giorno la pubblicazione di notizie non solo false ma dirette a sollevare rivolta ed esaltare le menti. Se non è vero c’è uno scandalo nel sistema di potere italiano, che è libero di lanciare accuse gravissime contro un giornale di opposizione utilizzando tutti i canali di informazione, facendo in modo che le accuse - espresse il più delle volte con particolare pesantezza ed esplicito richiamo al delitto - raggiungano la più vasta udienza nazionale. E tutto ciò mentre - da parte dell’accusato - non è previsto alcun mezzo o strumento di risposta che non siano le copie di questo giornale.
Ma anche sulle copie, che per fortuna stanno di nuovo salendo, si riversa lo scandalo del potere se le accuse non sono vere. Infatti la potente diffusione multimediale di incriminazioni dell’Unità è anche un formidabile avvertimento a chi avesse intenzione di usare le pagine dell’Unità per la propria pubblicità. Si può fare pubblicità su un giornale che incarica (tramite i suoi velenosi articoli) il giovane comunista Dal Bosco (frequentatore, si fa notare, delle feste dell’Unità) di urtare e ferire con il cavalletto della sua macchina fotografica il collo del presidente del Consiglio? Dunque niente pubblicità. Ma senza pubblicità la sopravvivenza si fa difficile persino se aumentano le copie.
È importante tenere presente l’accurata precisione della operazione di potere. Come in certi sogni da incubo, è a senso unico. Un fiume di accuse discende tramite giornali, telegiornali, televideo, interviste, dichiarazioni, agenzie. Niente risale verso l’origine delle accuse. L’Unità viene tranquillamente citata come testata sotto gravissima accusa. Coloro che ricevono e pubblicano queste accuse, giornalisti - si deve pensare - sensibili all’ammonimento autorevole di Paolo Mieli - non sembrano interessati a chiedersi (verificando le nostre pagine) o a chiedere a noi intervistandoci - (magari per telefono) “Ma, è vero?”. Mai un Tg o una agenzia ha cercato riscontro o risposta ad accuse drammatiche come quella formulata mercoledì 4 gennaio dal vice presidente del gruppo Forza Italia al Senato, Malan, nella sua lunga dichiarazione alla Agenzia Ansa. Dato il livello dell’accusatore e la gravità delle cose dette, ci si immagina una drammatica verifica pubblica da parte dei mezzi di comunicazione. Ma non c’è e non ci sarà. L’affermazione del senatore Malan, per quanto pazzesca, può passare per vera. È autenticata da un notaio di nome silenzio. Esiste poi un alacre sottomondo che lavora intorno all’Unità, attratto dalla facilità del gioco d’accusa senza risposta. Ci sono due tecniche. Una è quella di chiedere a un personaggio di potere di commentare una affermazione dell’Unità, senza mai (mai, in questi tre anni) chiedere all’Unità di commentare ciò che ha detto il personaggio di potere a carico di questo giornale. Si fa nei migliori telegiornali e giornali radio, quasi ogni giorno. E c’è l’altro espediente: attendere - per dare un po’ di spazio all’Unità - che vi sia un problema interno. Il dubbio che vi sia (in questo giornale fantasma che non è mai ammesso a dire la sua quando viene pesantemente accusato e insultato) un contrasto tra direttori e proprietà, tra proprietà e redazione, o tra il giornale e i Ds (i cui gruppi parlamentari contribuiscono a sostenere l’Unità), fa improvvisamene accendere l’attenzione, la voglia di sapere, la disputa sui piccoli scoop di una cosa detta o di un nome lasciato cadere. Si formano necrologi e totonomine. Quanto al rispondere liberamente, con mezzi equivalenti, ad accuse e sentenze unilaterali del potere, non se ne parla neanche. In questo modo, una volta bloccate tutte le vie d’uscita, gli spiragli di critica e le possibilità di offrire una risposta almeno a una accusa su dieci, il sistema funziona in modo perfetto. Lui è buono. E la banda che continua ad attaccarlo prima o poi la metteremo a tacere. È un progetto che conta su una sottomissione compatta. Non resta che una domanda (e una speranza): continuerà ad essere compatta?
Più che una deregulation ambientale, rischia di diventare uno smantellamento programmatico, una demolizione totale della normativa sulla difesa dell’ambiente e della salute, come quelle che si dovrebbero fare per i cosiddetti ecomostri e invece non si fanno. Il decreto legislativo adottato dal governo – seppure con una delibera che viene definita preliminare - per "riformare" l’intera disciplina della materia non è soltanto una "forzatura istituzionale", come l’ha definito già il Wwf. E’ il tentativo di un colpo di mano contro un patrimonio che appartiene alla collettività e ancor più alle generazioni future; contro una cultura ambientalista che non è un’esclusiva dei verdi o della sinistra, né tantomeno del fronte ecologista italiano, bensì un’acquisizione di tutta l’Europa civile, delle società più evolute e moderne, per la semplice ragione che è il fondamento della nostra sopravvivenza.
Con questo Provvedimento Unico che equivale a un editto, a un proclama, a una legge di guerra, il centrodestra pretende di scavalcare contemporaneamente il Parlamento e la pubblica opinione, la comunità scientifica e quella culturale, per imporre d’autorità una "Magna Charta" delle norme ambientali che verosimilmente è destinata a diventare carta straccia, anche per effetto delle contestazioni che provengono in particolare dal ministero dell’Economia. In attesa che il centrosinistra vinca magari le elezioni e torni al governo, il decreto avrebbe gli effetti di un condono generalizzato e mascherato. Se proprio non vogliamo parlare di legittimazione dell’inquinamento, diciamo allora che contempla una licenza o addirittura un incentivo a inquinare.
Avranno pure molte colpe gli ambientalisti, per tanti eccessi ideologici e verbali, per una certa inclinazione congenita all’allarmismo e al catastrofismo. E anche sulle pagine di questo giornale, non abbiamo mancato perciò di criticarli. Ma loro, almeno, non fanno speculazioni immobiliari a danno dei piani regolatori, non commettono abusi edilizi, non compiono scempi urbanistici, non inquinano né l’aria né l’acqua, non distruggono la natura, non riciclano rifiuti tossici. Questa volta, comunque, hanno mille ragioni per dire che il provvedimento del governo – per com’è stato formulato - non è emendabile, respingendolo sia nel metodo sia nel merito.
Sul piano del metodo, la questione appare tanto paradossale quanto invereconda. Il Parlamento, o meglio la maggioranza di centrodestra, approva alla fine del 2004 una legge delega con cui assegna al governo la responsabilità di "riordinare" la normativa ambientale, affidando materialmente il compito a un Comitato di 24 "saggi" nominati dal ministro dell’Ambiente. Lo stesso ministro è tenuto a consultare le parti interessate, e cioè gli imprenditori, i sindacati, le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori, attraverso il Cespa (Consiglio economico sociale politico e ambientale). Ma, come in un classico vaudeville, il coordinatore di questo organismo - presieduto dal medesimo ministro - è il suo capo di gabinetto che coordina anche il comitato dei 24 esperti, di cui peraltro fa parte.
La delega in bianco stabilisce inoltre che il governo deve fare tutte queste consultazioni prima di "predisporre" (sinonimo di preordinare, preparare, approntare) i decreti legislativi sulle singole materie. Badate bene: decreti legislativi, al plurale, uno per ogni materia. E cioè, rifiuti, bonifiche, danno ambientale, procedura di "Via" (valutazione di impatto ambientale), "Vas" (valutazione ambientale strategica) e quant’altro. Ma a parte il fatto che i 24 "saggi" sono stati interpellati sporadicamente e alla fine si sono pronunciati per via telematica, fra le parti sociali è stata consultata soltanto la Confindustria, mentre le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori attendono ancora una convocazione del ministero.
Si arriva così all’approvazione "in via preliminare" del decreto legislativo, un testo unico di circa 700 pagine che contiene la summa ambientale del governo Berlusconi, su cui alla fine le competenti commissioni parlamentari dovranno esprimere un parere non vincolante. E se non faranno in tempo, pazienza: vale il principio del silenzio-assenso. Poi, eventualmente, il governo avrà 45 giorni per controdedurre e motivare, prima di ratificare il provvedimento e presentarsi alle elezioni con quest’altro obiettivo raggiunto (insieme a "meno tasse per tutti", "pensioni più alte per tutti", "una casa per tutti" eccetera eccetera).
Nel merito, con un gioco di prestigio che il Wwf chiama "artificio nominalistico", l’editto ambientale prevede di fatto l’eliminazione della categoria dei rifiuti, com’è definita e regolata dalle direttive europee (e infatti, su ricorso dell’associazione presieduta da Fulco Pratesi, la Commissione di Bruxelles aveva già aperto una procedura d’infrazione a carico dell’Italia). Adesso viene introdotta la possibilità di denominare gli scarti delle produzioni come "sottoprodotti" o come "materie prime seconde", a cui naturalmente non si applicherà più la normativa specifica: in questo modo, milioni di tonnellate di (ex) rifiuti non sarebbero più tali, dando via libera a un gigantesco smaltimento incontrollato senza che nessuno possa più verificare se e quali materiali saranno riutilizzati o smaltiti secondo le garanzie previste dalla disciplina precedente.
Quanto alla bonifica dei siti industriali, se il testo del decreto non verrà modificato, entrerà in vigore una nuova regola: chi inquina, non paga. E anzi, l’inquinatore non risponderà più del danno prodotto né degli altri reati connessi: sarà sufficiente aprire una trattativa con l’amministrazione pubblica per arrivare a una specie di "patteggiamento". Come se l’automobilista che passa con il rosso, investendo un pedone sulle strisce, riuscisse a eludere la multa e la pena facendo retromarcia d’accordo con il vigile. Ma il peggio è che il livello di rischio cancerogeno considerato tollerabile, senza essere neppure subordinato all’impossibilità di evitarlo, scende al rapporto di uno ogni centomila abitanti, mentre negli Stati Uniti è di uno ogni milione.
Per i casi pregressi che appartengono ormai alla storia nazionale delle lotte ambientaliste, come quelli di Porto Marghera, Riolo, Manfredonia o dell’Acna di Cengio, non sarà più individuabile con certezza il responsabile dell’obbligo di bonifica. Basterà un passaggio di proprietà – anche fittizio - delle aziende inquinatrici, per farlo decadere. Ecco perché gli ambientalisti parlano di un "condono mascherato", invocando una radicale correzione del provvedimento.
Resta poi da vedere come si comporterà il Parlamento e in particolare le commissioni che dovranno pronunciarsi sul testo definitivo. Con un soprassalto di responsabilità e magari di orgoglio, in teoria gli onorevoli deputati e senatori potrebbero anche decidere di revocare la delega al governo. Ma, dopo l’approvazione della devolution che attribuisce alle Regioni le competenze esclusive sulla salute, bisognerà aspettare soprattutto la risposta dei Governatori che finora non hanno partecipato ad alcuna consultazione.
Postilla
Quale legge o circolare hanno mai stabilito che i Presidenti delle regioni si chiamino Governatori?
A VOLTE una vignetta vale più d’un articolo di fondo. Ce n’era una di Giannelli sul "Corriere della Sera" di venerdì che fotografava una situazione all’indomani dell’approvazione alla Camera della legge elettorale proporzionale. Si vede un Prodi piccolissimo e rattristato che dice: brutta giornata quella di oggi, e un altissimo allampanato Fassino che lo rincuora: «Ma noi vinceremo le primarie».
La comicità sta nell’accostamento tra un voto parlamentare che spiana la strada alla rimonta del centrodestra e una competizione all’interno del centrosinistra il cui risultato è scontato e non cambia nulla. Ma il pregio di quella vignetta sta soprattutto nella doppia lettura della frase di Fassino, equiparabile al «noi suoneremo le nostre campane» in risposta all’arrogante «noi suoneremo le nostre trombe» lanciato contro la Repubblica di Firenze ai tempi delle invasioni francesi e spagnole.
Vincere le primarie è un obiettivo che, se raggiunto, può ricambiare con efficacia lo schiaffo ricevuto alla Camera e ridare slancio e iniziativa al centrosinistra? Io credo di sì, ma a certe condizioni. Occorre che nella giornata di oggi almeno un milione di elettori vadano a votare e occorre che Prodi riceva un consenso di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri competitori messi insieme. Abbia insomma un’investitura popolare chiara e netta che esprima unità e forza. Se questo è l’obiettivo sbaglia Prodi a contentarsi del 51 per cento dei voti in suo favore. Ci vuole molto di più per dare senso politico a un risultato numerico.
Al di là del valore dei singoli contendenti, oggi è in gioco la sorte dell’Unione, la volontà popolare al di sopra del politichese degli apparati, l’unità sostanziale del centrosinistra, il desiderio di battersi e di vincere in nome degli interessi del paese avviliti da una gestione dilettantesca, clientelare e per molti aspetti sordida della cosa pubblica. Sembrava prossima l’uscita da un tunnel che ha infiacchito le energie della società italiana, debilitato la sua fibra morale, le sue capacità innovative, i suoi sentimenti di giustizia, il suo bisogno di sicurezza. Ma nelle ultime settimane queste prospettive si sono indebolite, la contesa si è fatta più dura e incerta. In queste condizioni le primarie non sono più quel diversivo pleonastico che erano sembrate a molti, ma sono diventate un appuntamento fondamentale. Una pre-condizione che avrà un peso determinante su quanto avverrà dopo, da domani al voto di primavera. Perché oggi la democrazia italiana suona le sue campane e si vedrà se è un suono squillante e vincente o sordo e presago di sconfitta.
Nel frattempo, a render più significativo l’appuntamento elettorale di oggi, si è consumata la crisi di Marco Follini con le sue dimissioni da segretario dell’Udc, accompagnate da un discorso appassionato e dolente che certifica la sconfitta dell’unica ipotesi liberal-democratica esistente nella maggioranza berlusconiana. Leggetelo con attenzione quel discorso e leggete con attenzione le sdegnate risposte che gli sono arrivate dalla nomenklatura di quel partito.
«Voi avete venduto la vostra anima ad un mediocre progetto di potere» ha detto Follini «per questo io non posso più rappresentare questo partito che ormai non è che strumento passivo dei voleri di Berlusconi».
Ci si domanda come sia stato possibile che in un mese, un solo mese, la linea di Follini appoggiata da tutto il partito sia stata capovolta da quegli stessi uomini che l’avevano portata avanti con apparente compattezza per oltre un anno.
In realtà il gruppo dirigente dell’Udc e Pier Ferdinando Casini che ne è il padre-padrone si sono serviti di Follini per stipulare con Berlusconi un patto di potere, abbandonando per strada i contenuti di una politica che avrebbe potuto cambiare la fisionomia della Casa delle Libertà.
E’ risorto in questa occasione l’antico contrasto che divise per vent’anni all’interno della Democrazia cristiana Moro dal corpaccione centrista dei Bisaglia, dei Gava, dei Forlani. Moro voleva che il potere servisse a raggiungere obiettivi di avanzamento democratico della società; i suoi avversari volevano il potere per il potere. Puro esercizio conservativo da mantenere con tutti i mezzi.
In questo conflitto la Dc ha perso l’anima ed è alla fine uscita di scena. I tempi sono cambiati e tutto è diverso da allora ma al fondo la questione è ancora quella: se la politica si debba muovere in una dimensione etica oppure no. Questione perenne, in tutti i tempi e a tutte le latitudini.
In piccolo si è riprodotta tra Follini e Casini. Basta del resto leggere l’intervista rilasciata dal presidente della Camera proprio il giorno prima delle dimissioni del segretario dell’Udc: un testo gelido, piatto, tessuto di battute mediocri, privo di pensiero e di spessore morale.
Ci vedi l’ex portaborse di Arnaldo Forlani, miracolato a occupare la terza carica dello Stato e pronto a riallinearsi ai voleri del «boss» pur di rientrare nella nuova spartizione del potere futuro.
Follini ha commesso molti errori. Forse, se avesse agito con risolutezza un anno fa, l’esito della contesa sarebbe stato diverso. Ma gli va dato atto che quando ha visto l’annientamento delle sue convinzioni non ha ceduto alle lusinghe e se n’è andato dopo una denuncia durissima e senza equivoci. Lui la sua anima l’ha salvata; il suo partito no, ammesso che l’abbia mai avuta.
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Nel centrosinistra ci s’interroga ora su come riorganizzare il fronte della battaglia elettorale dopo lo scossone della nuova legge che entro novembre passerà anche al Senato.
Quella legge è stata tagliata su misura per favorire il centrodestra, limitare la sua sconfitta ma intanto rimetterlo in partita. Rivalutando i partiti e i loro apparati ha creato anche una difficoltà alla candidatura di Prodi, leader senza partito. In che modo si può risolvere questa difficoltà e attenuare la prima?
Ci sono due sole uscite per superare l’"impasse". Tornare almeno al Senato, ma meglio ancora anche alla Camera, alla lista unitaria dell’Ulivo che metta insieme tutti i partiti riformisti come risposta alla frammentazione incoraggiata dalla nuova legge. Una soluzione unitaria di questo genere verrebbe anche incontro a quella vasta massa di elettori desiderosi di votare per una coalizione di forze ma non disposta a identificarsi con un singolo partito. Nelle precedenti elezioni politiche e amministrative questi elettori hanno superato di oltre due milioni la somma dei voti raccolta dai partiti del centrosinistra: un patrimonio prezioso che rischierebbe di andare disperso se la coalizione non fosse neppure presente nelle schede elettorali.
Se poi le diffidenze e le resistenze di questo o quel partito impedissero la lista unitaria, a Prodi non resterà che promuovere una sua propria lista. Senza ledere le strutture organizzative dei partiti alleati. Si presenti ciascuno di essi con i propri simboli e Prodi si rivolga alla società civile così come hanno fatto i candidati sindaci e i candidati alle presidenze regionali. Una sorta di lista civica nazionale che integri il ventaglio dei partiti alleati e dia sbocco al voto di chi si sente di centrosinistra al di là degli steccati partitocratici.
Per perseguire sia la prima sia la seconda di queste soluzioni il risultato delle primarie è comunque fondamentale.
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Si dice: bisognerà pur parlare di programmi concreti e non più soltanto di strumenti per organizzare il consenso.
Certo, bisognerà parlarne. Quali provvedimenti prendere per rilanciare l’economia, risanare una finanza dilapidata, organizzare il nuovo mercato del lavoro e il nuovo stato sociale, rendere efficienti la giustizia, la scuola, la sanità. Affrontare il problema dell’immigrazione. Delineare una politica europea e occidentale di sviluppo e di pace.
Misurarsi con i nuovi problemi della bioetica. Tutelare la libertà religiosa nel quadro della laicità dello Stato e delle pubbliche istituzioni.
Ma non si parte da zero. Molti di questi problemi sono già stati esaminati e anche messi in atto con buon successo dai governi di centrosinistra tra il 1993 e il ‘99. Da allora ad oggi lo studio di queste questioni è stato approfondito e aggiornato. In realtà la domanda di programma ha già gran parte delle sue risposte a cominciare da maggiore equità nella tassazione del lavoro e del profitto rispetto alle rendite e ai cespiti improduttivi.
I programmi concreti li fanno i governi quando hanno in mano l’eredità ricevuta dal predecessore e le carte che documentano la situazione. Già sappiamo purtroppo che l’eredità dei cinque anni di berlusconismo sarà pessima.
Sappiamo anche che il requisito essenziale per ripartire è riposto nella fiducia dei mercati interni e internazionali, un bene immateriale senza il quale non c’è programma che vada a buon fine.
Ciò detto, la coalizione sfidante dovrà indicare entro gennaio i suoi obiettivi e le sue priorità. Quanto alla coalizione sfidata, essa non sta dicendo nulla che attenga al futuro. Nel presente sta solo avvelenando i pozzi, come ho già scritto domenica scorsa. Li sta avvelenando con una legge elettorale che renderà il sistema ingovernabile e con una legge finanziaria compilata, come ha detto Romano Prodi, da un governo in fuga: blocca le spese fino alla fine del 2006 e lascia in eredità agli anni successivi una molla pronta a scattare per recuperare il pregresso. Basta una cifra per denunciare l’inconsistenza di questa classe di governo: erano previste nel 2005 entrate da vendite di immobili per 8 mila miliardi; ne sono entrati fino ad ottobre 600. La differenza la trovate nell’azzeramento dell’avanzo primario e nell’aumento senza più freni del debito pubblico e del deficit.
Chiedete programmi all’opposizione? Stesse a me dirlo (per fortuna non ne ho alcun titolo) direi: facciamo il contrario di ciò che hanno fatto e basterà fare il contrario per far bene.
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L’obiettivo di Silvio Berlusconi se dovesse vincere le elezioni è ormai apertamente dichiarato: vuole andare al Quirinale. Per questo ha bisogno di fare approvare la legge "salva-Previti"; in realtà è una legge "salva-Berlusconi" senza la quale non potrebbe prendere il posto di Ciampi.
Per questo vuole anche abolire la "par condicio": l’obiettivo è quello di assordare gli italiani con un fuoco mediatico senza precedenti, per metà a costo zero per lui che è proprietario di metà delle emittenti nazionali, le quali dal canto loro (cioè dal canto suo) ci guadagneranno sugli spot degli altri competitori.
Tutto pur di vincere. Poi dal Quirinale e col suo partito aziendale in Parlamento i giochi continuerà a farli lui fino al 2013.
Ci pesate? Dove è stato Ciampi potremmo avere Berlusconi. Per altri sette anni. Io non ci dormo la notte.
E voi?
Quattro anni dopo, la sovrapposizione delle immagini di New Orleans a quelle di Manhattan non svela solo la materialità delle questioni di razza e di classe che minano la democrazia americana dall'interno mentre Bush pretende di esportarla con le armi all'estero; modifica altresì la percezione e il ricordo dell'11 settembre. Ci voleva un disastro naturale come Katrina per restituire anche al crollo delle Torri gemelle il suo significato quintessenziale, fin qui coperto dalla retorica dei muscoli e della Nazione di Bush e compagni: la rivelazione della vulnerabilità e della precarietà dell'America come di tutto il resto del pianeta, e degli americani come di tutti gli altri abitanti del pianeta. Significato umano, troppo umano per la logica politica del presidente piccolo piccolo di una grande potenza ferita a morte nella sicurezza di sé; presidente che peraltro non demorde neanche di fronte all'uragano, e ripropone la stessa logica per galvanizzare il popolo e rassicurarlo che sì, la Nazione ce la farà e vincerà ancora una volta contro la mala sorte. Ma si capisce che stavolta il suo appello non si traduce in consenso e non riesce far risalire la china di una leadership ormai compromessa. Non è solo il bilancio fallimentare della guerra all'Iraq, che a tutto è servita fuori che a sconfiggere il terrorismo come ormai la maggioranza degli americani sta realizzando. È che stavolta è impossibile fare con Katrina l'operazione di costruzione del Nemico e di rassicurazione dell'immaginario politico americano che già con Al-Qaeda era visibilmente improbabile, e che tuttavia venne fatta. La ricostruisce, in un lungo saggio sul quarto anniversario dell'11 settembre pubblicato dal New York Times Magazine (e parzialmente tradotto su Repubblica di ieri), Marc Danner, docente a Berkeley e autore di Torture and Truth: America, Abu Ghraib and the War on Terror. Danner ricorda come la struttura di Al-Qaeda, rete senza stato, senza territorio e senza esercito, sia irriducibile a quella di un nemico tradizionale da combattere con una guerra tradizionale, e come tuttavia Bush abbia riesumato l'immagine tradizionale del Nemico per ripristinare l'immaginario della Guerra fredda: «dopo un decennio confuso, il mondo era di nuovo spaccato in due, e per quanto l'attacco dell'11 settembre fosse stato disorientante, la `guerra al terrorismo' si configurava come una riedizione della Guerra fredda». Una retorica, continua Danner, che aveva il duplice pregio di suonare familiare sia al senso comune americano sia a una burocrazia nazionale che era stata costruita per la Guerra fredda e che, dopo l'89, era disorientata e priva di scopi.
Ma ciò che forzatamente è stato fatto con Al-Qaeda non è riproponibile oggi con Katrina. Di fronte alla tragedia di New Orleans e all'impotenza di un potere biopolitico che non ha saputo evitare ai medici il ricorso alle iniezioni di morfina sui malati terminali, non resta che prendere atto della vulnerabilità della Grande Potenza e dello stato in cui versa il suo patto sociale. «Questa tragedia ci impone di mettere sotto esame the soul of America» , l'anima dell'America, scrive sul Time Magazine Wynton Marsalis, direttore artistico del New York City's Jazz del Lincoln Centre, nato e cresciuto in una New Orleans di cui piange ora lo spirito multiculturale e la forma artistica. «La nostra democrazia è stata sfidata fin dall'inizio dalle manette della schiavitù», e la sfida si ripresenta oggi. Più difficile che all'inizio, perché quattro anni fa - torno a Danner - non è stato attaccato il potere americano, ma quel ch'è peggio «la sua aura» di invincibilità. E un potere senz'aura può incattivirsi, ma ineluttabilmente si indebolisce.
Sappiamo da Machiavelli in poi che la politica è diversa dalla morale. Secoli dopo si è stabilito che anche l'economia è diversa dalla morale. Ma la distinzione tra etica, politica ed economia distingue tra sfere di azione, tra campi di attività. In concreto, e a monte di queste differenziazioni, esiste la singola persona umana che non è trina ma soltanto una, e che può variamente essere una persona morale, amorale o immorale. E quando si dibatte la «questione morale» è di questo che si dibatte, è da qui che si deve partire.
Le persone morali sono tali in tutto: anche in politica e anche in economia. Le persone amorali non promuovono il bene ma nemmeno si dedicano al male, anche perché sono fermate, nel malfare, da freni interiorizzati. Invece le persone immorali ridono dei cretini che credono nei valori e non sono fermate da nulla (o soltanto dal pericolo di finire in prigione). Per i primi non è vero che il fine giustifica i mezzi. Per i secondi il fine può giustificare qualche mezzo scorretto, ma non tutti. Per le persone immorali il fine di fare soldi o di conquistare potere giustifica qualsiasi mezzo: non c'è scrupolo, non c'è «coscienza» che li fermi.
Mio padre era un industriale il cui stabilimento venne distrutto dal passaggio della guerra nel 1944. Lui si incaponì nel tentativo di ricostruirlo per non lasciare i suoi operai — circa 400, che conosceva uno per uno — sul lastrico. Quel tentativo non poteva riuscire e difatti fallì. È che mio padre era una persona perbene, e io lo rispetto per questo. Ma è di tutta evidenza che per i vari Ricucci, Gnutti e Fiorani mio padre era soltanto un fesso. E ai loro occhi lo sono sicuramente anche io, visto che anche io cerco di essere una persona perbene.
Tanto le persone perbene quanto le persone «permale» esistono sempre e ovunque. Ma la crisi dell'etica che contraddistingue il nostro tempo ne ha modificato le distribuzioni. I perbene diminuiscono, i «permali» crescono. Inoltre i perbene restano a terra, i «permali» salgono e comandano. Infine sta sempre più dilagando un intreccio perverso tra economia e politica. E la questione morale è la denunzia di questo andazzo. Ma perché scoppia ora? E perché la questione morale è più grave in Italia che altrove? Scoppia ora, rispondo, perché tardi è meglio che mai; e scoppia ora perché i neo-pescecani di assalto del capitalismo speculativo sono finalmente stati scoperchiati. Finora i vari Ricucci, Fiorani e Gnutti l'avevano fatta franca; ma ora sono indagati per insider trading, aggiottaggio, falso in bilancio, falso in prospetto, abuso di ufficio, e altro ancora. Aggiungi l'aggravante che su tutto questo andazzo aleggia l'ombra lunga e sempre sospetta di Berlusconi. Il cattivo esempio e il contagio vengono da lui. Come scrive Ilvo Diamanti su Repubblica, con il berlusconismo non c'è più «scandalo che riesca a scandalizzare», ed «è dilagato un profondo disincanto. La convinzione che tutto è lecito. Basta non farsi scoprire. L'evasione fiscale... il ricorso alle relazioni informali e amicali. In ogni campo, in ogni occasione. Il senso cinico ha avvolto e logorato il senso civico». Il che ci lascia con «un Paese soffocato dal sottobosco, con la città cinica retta dalla tribù dei più furbi». Non si potrebbe dire meglio. Il nostro è ormai un Paese sporco, molto sporco.
Sono un moralista? Sì, ma non perché faccio confusione tra etica e politica; lo sono in quanto sostengo che deve esistere una moralità politica e, alla stessa stregua, una moralità economica; e che in tutti i settori della vita associata devono esistere regole che le persone perbene rispettano. Appunto, le persone perbene.
MILANO — «Stamo a fa' i furbetti del quartierino». Stefano Ricucci, intercettato la sera del 22 luglio, conia questa espressione per esprimere a un collaboratore la sfiducia negli artifici suggeritigli dall'amministratore della Banca Popolare Italiana (ex Lodi), Gianpiero Fiorani, ai fini della scalata «concertata» all'Antonveneta. Ma da «furbetti del quartierino», per i pm, sembrano essersi comportati anche altri, persino nel santuario di Bankitalia: almeno secondo intercettazioni e verbali con i quali la Procura, nel sequestrare le azioni Antonveneta in mano al patto Fiorani-Gnutti-Ricucci-Coppola-Lonati, svela la preordinazione l'11 luglio, contro gli organi tecnici interni, del disco verde di Bankitalia a Fiorani.
«Doveva arrivare ieri», spiega Fiorani già la sera del 3 luglio a Gnutti, ma a rallentare tutto c'è «un infiltrato dentro lì, per il quale mi hanno tirato fuori una cosa assurda»: uno zelante ispettore di Bankitalia s'incaponisce a chiedere lumi su un'operazione del 2003. «Allora — Fiorani spiega a Gnutti —, per potermi confrontare ho chiamato il numero uno» (cioè Fazio), e «lui è chiaramente imbarazzatissimo». Fiorani riporta a Gnutti il colloquio con Fazio: «Io ho detto: "Senti un po', non possiamo mica scherzare con il fuoco... Posso capire le sue e le tue ragioni per il fatto di lasciare in giro un pezzo di carta firmato da questo qua, che è un funzionario tra l'altro nuovo, che dice apertamente che lui non è d'accordo, non è una bella cosa... Però, caro mio, qui a questo punto ognuno si prenda le proprie responsabilità». L'8 luglio gli uffici tecnici di Bankitalia protocollano il loro no all'autorizzazione a Bpi. Ma già alle 8 del mattino dopo, il capo della Vigilanza di Bankitalia, Francesco Frasca, chiama uno dei due ispettori che avevano firmato il no, Gianni Castaldi: «La puoi vedere questa questione della Popolare di Lodi?». Castaldi non arretra: «Senti, Francesco, il documento è stato firmato ed è definitivo. Quello è un documento che va in mano ai magistrati. Ognuno si firma quello che si sente di sottoscrivere». In Banca d'Italia scatta allora un'alternativa «politica» per aggirare il no «tecnico»: surrogarlo con consulenti esterni. «Come risulta dagli ispettori Castaldi e Clementi — riassumono i pm —, il 9 luglio Frasca scrive un accompagnamento della conclusione dell'istruttoria, evidenziando che i servizi di vigilanza competenti non avrebbero tenuto in debito conto il parere del prof. Fabio Merusi. Il Governatore, con atto scritto lo stesso giorno, concorda con la linea di Frasca e rimarca l'esigenza di richiedere ulteriori pareri a consulenti esterni (studio Gambino e Ferro Luzzi)». Ma saputo che lunedì 11 luglio «la lettera di autorizzazione di Bankitalia a Fiorani era stata elaborata al computer dal funzionario Stefano De Polis, appartenente a divisione incompetente rispetto alla Bpi», i pm lo convoca- no a razzo.
E così apprendono che «De Polis era stato preallertato dal martedì precedente, e sollecitato a rimanere a disposizione nel fine settimana». Aveva però potuto «operare solo a partire da lunedì 11 pomeriggio, quando i pareri dei consulenti esterni erano pervenuti in Bankitalia. A collezionarli era stato Frasca. De Polis ha descritto le modalità con cui ha eseguito il lavoro, precisando che aggiunte e soppressioni al testo sono dovute agli interventi dei professionisti esterni. Il copia-e-incolla è stato eseguito sul pc di Trevisan, previa trasmissione del documento e-mail». A mezzanotte dell'11 luglio, Fazio può telefonare a Fiorani: «Allora, ho appena messo la firma, eh».
Intercettazioni e verbali
IL «COLLEGA»
«Fiorani entrava in incognito»
Come fa Fiorani a entrare in continuazione in Banca d'Italia per incontrare Fazio senza dar troppo nell'occhio? In incognito, facendosi passare per un dipendente. Alle 18.43 del 5 luglio lo documenta un rapporto degli inquirenti. «Fiorani entra in Banca d'Italia senza presentarsi in portineria» . Prima, però, «chiama una dipendente perché avvisi il portiere, al quale poi passa materialmente il proprio cellulare, e lo mette in contatto con la sua interlocutrice» . E sul cellulare, intercettato, si sente la donna rassicurare il portiere: «Pronto... Il collega può entrare, lo stiamo aspettando» .
Del resto, qualche accortezza l'aveva suggerita lo stesso Governatore al banchiere della Bpi.
Fazio: «Allora, se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un'ora, un'ora e mezzo... diciamo... perché voglio verificare un insieme di cose» .
Fiorani: «Sì, sì, va bene» .
Fazio: «Allora... l'unica cosa... passa come al solito... dal dietro... dietro di là» .
«Va bene, sennò sono problemi» .
«Hai messo la firma? Ti bacerei»
E' passata da 12 minuti la mezzanotte dell'11 luglio, Fazio telefona a Fiorani il via libera all'Opa: Fazio: «Ti ho svegliato?».
Fiorani: «No, no, guarda sono qui a Milano ancora a parlare con i miei collaboratori».
Fazio: «Va beh, ho appena messo la firma, eh».
Fiorani: «Ah Tonino... io sono commosso, con la pelle d'oca, io ti ringrazio, io ti ringrazio... Guarda, ti darei un bacio in questo momento, sulla fronte ma non posso farlo... So quanto hai sofferto, prenderei l'aereo e verrei da te in questo momento se potessi».
Fazio: «Va anche detto a Gigi, che adesso avvertiamo, di non parlarne, per un po' di giorni deve stare lontano da qua».
Fiorani: «Esatto, ci siamo capiti, bravissimo... perché poi, ogni volta, era un messaggio per... Io non volevo che il nostro rapporto personale fosse tale da influenzarti in qualunque cosa, il rapporto era tuo, solo tuo... e di questo il Paese oltre a Gianpiero ti saranno per sempre grati, veramente».
«Siamo i furbetti del quartierino»
Il patto tra Fiorani, Gnutti, Ricucci? Confessato, ritengono i pm: da quest'ultimo. «L'esistenza del patto occulto è provata anche dalle ammissioni a posteriori dello stesso Ricucci, il quale nel corso di diverse recentissime telefonate dice che sarebbe stato molto meglio ammettere sin da subito l'esistenza del concerto» . Intercettato sabato sera, il 22 luglio, dopo il secondo stop della Consob, Ricucci lamenta la scelte di Fiorani e sostiene che «la lista a parte in assemblea non sarebbe stata a suo giudizio una buona trovata, era contrario» . Per sfiducia nell'efficacia di questi artifici: «La cosa de 'a lista, famo la lista propria, famo tutte ste c...
— è il suo colorito sfogo con un collaboratore — , che tanto non serve a un c..., tutta 'sta roba, a niente, a che serve?... le liste proprie... quelle... stamo a fa' i furbetti del quartierino» . Per i pm, la strategia dei concertisti «è stata quella di eludere le autorizzazioni di Banca d'Italia e fornire alla Consob e al mercato false informazioni» per «coprire operazioni che hanno interessato oltre il 50% di una banca quotata in Borsa» .
«Hai visto come l'ho venduta?»
Per rientrare nei parametri patrimoniali, Bpi dichiara l'1 luglio di aver ceduto a istituzioni finanziarie internazionali quote di minoranza di società controllate. Ma le intercettazioni tra Fiorani e Gnutti dimostrano che in almeno un caso «è stato occultato» che tra le controparti delle cessioni «figuravano Earchimede spa e GP Finanziaria spa, società riferibili a Gnutti». E non c'è solo Antonveneta ma anche Bnl negli incroci: «L'esistenza di accordi riservati in ordine ad entrambe le scalate bancarie risulta dall'intercettazione di una conference call il 15 luglio. Gnutti chiama anche Ricucci, Lonati, Moreschi e altri, manca solo Consorte. Parlano di Unipol» . Gnutti illustra una proposta legata all'Opa di Unipol, sembra contempli un paracadute, aggiunge che «farà circolare un pezzo di carta dove ribadirà questo» . A riunione finita, Gnutti e Fiorani si telefonano.
Gnutti: «Hai visto come l'ho venduta?» .
Fiorani: «Eeehh, sei stato bravissimo» .
«Visto quello come era convinto?» .
A cura di LUIGI FERRARELLA
Curzio Maltese Il signore degli spot
Se pensiamo che si tratta del maggiore strumento di formazione dell’opinione comune, regalarlo al profeta della Merce è un bel gesto. Da la Repubblica del 7 luglio 2005
NEL FINALE di partita il centrodestra ha deciso di non risparmiare nulla, soprattutto il senso del ridicolo. L´ultima trovata della maggioranza è proporre Giulio Malgara presidente della Rai. Il braccio destro pubblicitario di Berlusconi, l´inventore dell´Auditel. Uno così alla presidenza della tv pubblica rappresenta un ossimoro vivente, più o meno come il conte Dracula alla presidenza dell´Avis, Michael Jackson commissario per l´infanzia o Calderoli alle riforme istituzionali. Il centrosinistra, che ha diritto di veto, ha già detto che non se ne parla neppure. Un conto sono le tentazioni di inciucio. Altro è una resa incondizionata a un potere moribondo e pur sempre arrogante.
RIMANE il tentativo ingenuamente furbo e al solito sostenuto da un eccessivo ottimismo riguardo all´altrui dabbenaggine. A riprova di un declino della destra senza dignità ma anche senza intelligenza, disperato e buffo, all´insegna del "si salvi chi può". Ciascuno a modo suo. I centristi si defilano e lasciano il cerino a un Berlusconi da bruciare. Fini distribuisce gli ultimi posti, finché dura. La Lega recupera la logora bandiera della secessione, stavolta anche dall´Europa. E Berlusconi che altro può fare se non dare un altro giro di vite all´informazione, blindare la fortezza del monopolio televisivo? Nella speranza massima che gli italiani siano abbastanza rimbecilliti di televisione da non vedere più la realtà o in quella minima di limitare i danni, portando al voto qualche milione di casalinghe e pensionati teledipendenti. La clientela preferita di Malgara, appunto.
Ma che cosa potrebbe ancora fare per Berlusconi la Rai di Malgara che non abbiano già fatto le edizioni passate? In questi anni la tv pubblica ha costituito il vero instrumentum regni del Cavaliere, assai più di Mediaset. Il salotto amico di Bruno Vespa gli ha organizzato la campagna elettorale e la messinscena spettacolare del contratto con gli italiani. Telegiornali e programmi d´informazione, una volta epurati i Biagi e i Santoro, sono serviti a sostenere tutte le campagne governative. A cominciare dalla gigantesca montatura di Telekom Serbia che avrebbe dovuto servire a spazzar via l´intero gruppo dirigente del centrosinistra ed è naufragata grazie alle inchieste di D´Avanzo e Bonini su Repubblica. Per quattro anni la Rai ha censurato ogni notizia sgradita al governo e ignorato movimenti di massa come le marce pacifiste e i girotondi per dare uno spazio enorme alle favole sull´economia della maggioranza. Gli eventi culturali sono diventati una sfilata di vecchi nani e nuove ballerine al seguito della corte governativa. Berlusconi è infine apparso su tutti i canali con la frequenza del segnale orario. Si può serenamente concludere che il limone è stato spremuto fino all´ultima goccia. Il laboratorio italiano ha confermato che la televisione è uno strumento potentissimo, il luogo principe della lotta politica. Ma per fortuna non è o non sembra in grado di sostituirsi alla realtà.
Ora Malgara è uomo d´indubbia fantasia e di risorse insospettabili. La sua devozione al capo non è inferiore a quella di un Fede. Ma che cosa potrebbe escogitare? Forse sostituire la sigla del Tg1 con l´inno di Forza Italia, come certo avrà già pensato da tempo Clemente Mimun. Oppure produrre una fiction direttamente sulla vita e i miracoli di Berlusconi e famiglia, invece delle solite menate trasversali sui fascisti buoni e i partigiani cattivi, gli avvocati onesti e i magistrati pazzi e criminali. A quel punto però scatterebbe il rifiuto del pubblico, già ben allenato a cambiare canale ogni volta che compare un doppiopetto più un lifting. È insomma quasi un peccato non poter vedere all´opera la Rai di Malgara. Così come spiace non poter vedere un giorno uno staterello pedemontano, con la lira per moneta e Borghezio premier, e seguirne l´infallibile rovina. Utopie sospese fra il terribile e la comicità sublime, come il laboratorio di Frankenstein di certi film impressionisti, con la cartapesta che trema sotto i lampi.
La Rai di Malgara è destinata a rimanere soltanto il segnale di una malattia politica. L´incapacità di una destra anomala che si credeva immortale di venire a patti con la realtà del proprio declino, trasformarsi in una destra europea e guadagnarsi in questo modo un futuro oltre Berlusconi.
VENTIMILA tifosi italiani che sugli spalti dello stadio Ataturk di Istanbul tifavano per la loro squadra del cuore, alla fine del primo tempo cominciarono a preparare il viaggio di ritorno a casa. Alcuni abbandonarono addirittura il campo, sicuri ormai del risultato finale: il Milan conduceva la partita con un 3 a 0 che sembrava senza appello, la squadra del Liverpool era distrutta, senza gioco, senza idee, senza fiato, undici fantasmi con la sconfitta nelle gambe e nel cuore. Poi, dopo altri settantacinque minuti di gioco e cinque rigori dopo i tempi supplementari, è finita come è finita: il Liverpool ha rimontato e vinto, ha portato a casa la coppa della "Champions" e il Milan ammutolito e annientato ha preso la triste via del ritorno.
Penso che questa immagine sia stata presente alla mente di tutti i sostenitori dell´Ulivo e dell´Unione di centrosinistra quando lo scontro tra la Margherita e Prodi ha provocato un trauma altrettanto improvviso, una crisi di fiducia profonda accompagnata da rabbia e incredulità. Si potranno rimettere insieme i cocci di questo sfascio? Si potranno sanare le ferite, riannodare i fili spezzati, recuperare una credibilità così spensieratamente dissipata?
Per ora, da una parte e dall´altra, si cerca di gettare acqua per domare il fuoco e i più impegnati in quest´opera di pacificazione sono i Ds. Ma spegnere l´incendio non basta. Bisogna ricostruire ciò che le fiamme hanno distrutto, recuperare speranze, progetti, fiducia, reciproco rispetto. Soprattutto rispetto nei confronti degli elettori, della loro delusione, del loro desiderio di unità così incautamente frustrato dall´egoismo di partito.
I commenti dei giorni scorsi hanno equamente spartito i torti, gli errori e le ragioni tra le due parti contendenti. E certamente un contrasto così devastante non può essere addossato ad un solo protagonista. Resta tuttavia inevasa una domanda che è al centro dell´implosione provocata dall´assemblea della Margherita di nove giorni fa: perché è stato deciso di silurare la lista unitaria dell´Ulivo che avrebbe dovuto rappresentare la Federazione riformista nelle elezioni del 2006?
Le risposte date dal gruppo dirigente della Margherita sono note: vogliamo intercettare i voti moderati in uscita dal centrodestra; continuiamo a operare nel quadro della Federazione delle forze riformiste; riconfermiamo la nostra fiducia nella leadership di Romano Prodi; non vogliamo annegare la nostra identità cattolico-liberale in un partito unico dominato dai post-comunisti.
Infine, la scelta di presentarci con il simbolo Margherita nella scheda per il voto proporzionale riguarda soltanto il 25 per cento dei seggi della Camera dei deputati. Tutti i seggi del Senato e il 75 per cento di quelli della Camera sono in gara col sistema maggioritario rappresentato da un simbolo unitario, che è quello dell´Unione. La scelta di liste separate riguarda soltanto il 12,5 per cento del totale. Perché dunque fare un dramma per una decisione tecnica che non ha alcun significato politico? Perché strapparsi i capelli per così poco?
* * *
Queste le risposte di Rutelli, Marini, De Mita, Franceschini, confortati dal voto dell´80 per cento dei componenti dell´assemblea federale del loro partito.
Risposte, anzi motivazioni, fornite subito, prima ancora che l´assemblea votasse, e poi ribadite in dichiarazioni, interviste, conferenze-stampa con martellante ripetitività per nove giorni fino ad oggi.
Come non credere a tanta ossessiva insistenza? Ma – se permettete – come crederci? Quelle risposte infatti sono assai poco persuasive anche per chi desidererebbe esserne persuaso per tornare a sperare in una vittoria che sembrava a portata di mano ed è invece improvvisamente svanita, proprio come è accaduto mercoledì scorso allo stadio di Istanbul.
* * *
Cominciamo dall´ultima di quelle motivazioni, cioè l´influenza marginale della scelta di silurare il simbolo «Uniti nell´Ulivo»: essa si smentisce da sola.
Se si tratta d´una decisione così poco importante, perché non può essere modificata? Perché non si vuole neppure ridiscuterla con gli alleati e con la stessa minoranza dissidente della Margherita? Un´intransigenza così inflessibile nel difendere una scelta che si giudica priva di significato politico e di effetti rilevanti, fa nascere inevitabilmente il sospetto che si tratti di un pretesto che copra in realtà altre questioni. Un sospetto che non aiuta a recuperare la perduta credibilità, anzi peggiora la situazione.
Intercettare i voti moderati in uscita dal centrosinistra: questa sì, è una buona motivazione anche se le prove a supporto sono piuttosto scarse. Nelle ultime elezioni regionali la lista unitaria c´era in tutte le grandi regioni ed ha registrato ampio successo. Nelle regioni con liste distinte tutti partiti del centrosinistra hanno guadagnato voti (salvo Rifondazione). La Margherita ha avuto dovunque buoni risultati. Benissimo, ottima notizia per tutti.
I sondaggi fin qui effettuati da stimate agenzie e pubblicati nei giorni scorsi da tutti i giornali dicono che oltre il 40 per cento degli elettori della Margherita non approvano la decisione presa dall´assemblea di quel partito. Può darsi che tra un anno questo dissenso si sia riassorbito, ma può anche darsi di no. Se si votasse oggi, come si comporterebbero questi elettori delusi e arrabbiati? Si può legittimamente supporre che una parte di loro deciderebbe di non votare? In tal caso il danno sarebbe grave per la Margherita e per l´intera coalizione.
Non varrebbe la pena di approfondire la questione? L´altra motivazione riguarda il partito unico riformista.
La Margherita non lo vuole e nessuno può obbligarla a cambiare idea. Ma che c´entra la lista unica dell´Ulivo? Lì non c´è il simbolo della Margherita, ma neppure quello degli altri partiti, c´è soltanto l´Ulivo. Tutti hanno accettato di fare un passo indietro in nome dell´unità.
Tutti, tranne uno.
L´altro giorno ho incontrato casualmente Ciriaco De Mita e gli ho chiesto di chiarirmi alcune di queste mie perplessità. Mi ha risposto: io non sono contrario ad un contenitore unitario ma prima bisogna avere pensieri, programmi, volontà comuni, poi si arriva al contenitore.
L´inverso non si può fare.
Debbo dire: ha ragione. Almeno in teoria, l´inverso non si può fare. In pratica però si fa, eccome se si fa. Prendiamo il caso di De Mita, quando era più giovane e guidò il suo partito e anche un governo di centrosinistra.
Ebbene De Mita, proprio lui, non aveva né idee né progetti né volontà comuni con molti dei suoi compagni di allora. Non aveva certo nulla in comune con Salvo Lima, con Cirino Pomicino, con Franco Evangelisti, con Publio Fiori, con Forlani, con Bisaglia, con Rumor. Insomma non aveva nulla o ben poco in comune con il centrodestra della Dc. Era più grande la distanza tra lui e questa parte del suo partito che quella, tanto per dire tra lui e Ugo La Malfa.
Però lui in quel contenitore unitario ci stava, così come oggi sta con Rutelli che, fino a prova del contrario, è un post- radicale, un post-verde e non pare ancora che sia diventato democristiano. Allora, qual è il problema? Diteci qual è il vero problema e sarete creduti. Ma non vi nascondete dietro un dito perché un dito non è mai riuscito a nascondere la verità.
* * *
Certo, Prodi, ha commesso parecchi errori. Sono stati tutti impietosamente elencati in questi giorni: è andato avanti a strappi, non ha fatto crescere la Federazione riformista, si è occupato troppo della sinistra e troppo poco del centro, ha preferito decisioni solitarie sfuggendo a quelle collegiali.
Personalmente seguo poco queste cose. Può darsi che questi difetti li abbia. Diciamo: do per scontato che li abbia. Ma dovevate saperlo, voi della Margherita, visto che proprio lui è stato uno dei fondatori di quel partito.
Allora perché l´avete accettato, anzi voluto come candidato leader, fin da quando andò a guidare la Commissione di Bruxelles? E avete insistito sul suo nome in tutti i cinque anni successivi fino ad oggi? Adesso vi accorgete dei suoi difetti e vi sembrano così gravi da indurvi ad una decisione così traumatica e non condivisa da nessun altro dei vostri alleati. Voi però rispondete che Prodi è ancora e sempre il vostro leader. Ebbene, siamo franchi: la credibilità di questa affermazione è prossima allo zero e, purtroppo per tutti, si tratta d´una percezione oggettiva amplissimamente diffusa, dentro e fuori del centrosinistra.
* * *
Ieri D´Alema ha rilasciato un´intervista al nostro giornale. Le sue argomentazioni coincidono più o meno con le domande che anch´io mi sono permesso qui di formulare come cittadino elettore e quindi legittimamente interessato a questa tristissima e pasticciatissima vicenda.
D´Alema ha avuto il pregio di parlar chiaro, il che coi tempi che corrono è sempre più raro. Salvo su un punto: D´Alema confida che la Margherita cambi idea sulle decisioni di nove giorni fa. Ma non cambierà idea e questo D´Alema lo sa benissimo.
Una cosa è certa: se la situazione rimane al punto in cui attualmente si trova, saranno i Ds a dover decidere sul «che fare». Opporre il simbolo della quercia a quello della margherita? Sarebbe la soluzione più semplice ma avrebbe tra i vari effetti quello di escludere i partiti più piccoli dal proporzionale, magari compensandoli con collegi della quota maggioritaria. Ma Prodi?
Il leader dell´Unione non potrebbe far parte di una lista di partito e dovrebbe candidarsi soltanto nel collegio di Bologna sotto il simbolo dell´Unione. Ogni riferimento all´Ulivo scomparirebbe dalle schede del voto.
Oppure: tutti i partiti della Federazione riformista potrebbero aggiungere al loro simbolo un ramoscello d´ulivo (vegetale più, vegetale meno) e il nome di Prodi come riferimento.
Oppure ancora: i Ds non presentano il loro simbolo e vanno avanti con quello che Paolo Franchi ha battezzato «l´Ulivetto», cioè una federazione riformista senza la Margherita.
Come si vede le soluzioni tecnicamente ci sono, ma il pasticcio politico resta enorme. E rimane inevasa – lo ripeto – la domanda rivolta al gruppo dirigente della Margherita: perché l´avete provocato? Viene in mente la famosa storiella dello scorpione che, dovendo attraversare un ruscello, chiese alla tartaruga di portarlo dall´altra parte.
Stai tranquilla, le disse, non ti pungerò perché se lo facessi moriremmo tutti e due in mezzo al guado. La tartaruga si convinse e accettò di traghettarlo ma in mezzo al guado lo scorpione la punse.
Prima di morire della velenosa puntura la tartaruga chiese allo scorpione perché mai avesse fatto un gesto così inconsulto e la risposta fu: non volevo ma questa purtroppo è la mia natura.
Non voglio paragonare Rutelli, Marini, Franceschini e anche De Mita allo scorpione e il resto del centrosinistra alla ingenua tartaruga, Prodi compreso. Ma l´immagine che tutti abbiamo dinanzi agli occhi è questa. Oppure quella, equivalente, del Milan allo stadio Ataturk di Istanbul.
Dovrebbero tremare tutti al solo pensiero, mentre il Paese, in tutt´altri affanni affannato, guarda con la coda dell´occhio a questo deprimente spettacolo che interessa soltanto gli addetti all´infimo lavoro di un´infima politica politicante.
Una nuova fumata nera statunitense su Baghdad, dopo quella di Abu Ghraib. Nulla di fatto alla commissione mista incaricata di indagare sulla sparatoria che la notte del 4 marzo ha provocato la morte di Nicola Calipari e il ferimento mio e dell'agente del Sismi che era alla guida dell'auto su cui viaggiavamo. Sembra che i delegati statunitensi e i due osservatori italiani siano divisi sulle conclusioni. Nella migliore delle ipotesi, dunque, la commissione non è servita a nulla, nella peggiore rappresenta un notevole passo indietro. Infatti, dopo le indagini durate oltre un mese, è sparita dall'orizzonte persino l'ipotesi di un tragico errore che aveva indotto Bush a porgere le scuse a Berlusconi. Dopo le scuse arriva lo schiaffo a un presidente del consiglio già tramortito dalla crisi di governo. Riuscirà a reagire? Nonostante le testimonianze - su quella dell'agente del Sismi era basata la ricostruzione fatta in parlamento dal ministro degli esteri Gianfranco Fini - che coincidono sullo svolgimento dei fatti, gli americani sono tornati sulla difensiva: rispettate le regole d'ingaggio, prima gli avvertimenti, a debita distanza, e poi l'attacco. I fatti dicono il contrario: nessun avvertimento, il fascio di luce è arrivato contemporaneamente al fuoco delle mitragliatrici, tanto è vero che l'auto è stata colpita da destra (la pattuglia mobile era a una decina di metri dal ciglio della strada all'altezza della curva), uccidendo Nicola Calipari, e da dietro: basta vedere l'auto. Il parabrezza davanti è intatto, mentre i vetri laterali e quello dietro sono in frantumi. Non ultimo, il proiettile, l'unico fortunatamente, che mi ha colpito alla spalla è entrato da dietro, provocandomi un buco di quattro centimetri di diametro. Fatto non secondario: le testimoninanze - mia e dell'agente, persone così diverse per sensibilità ed esperienza - sostanzialmente coincidono.
I delegati della commissione invece di tenerne conto, continuano a insistere su una mia possibile conoscenza dell'agente prima dei fatti. Io non ho mai visto l'agente in faccia e non lo saprei riconoscere nemmeno se lo incontrassi, l'ho visto di spalle solo mentre guidava l'auto. Dopo l'attacco, quando è sceso era lontano da me sotto la minaccia dei fucili, io, ferita, ero sdraiata per terra. Evidentemente le mie due testimonianze rese alla commissione americana non sono servite a nulla; o sarò citata per falsa testimonianza? Una cosa è certa: il Pentangono deve garantire l'impunità ai suoi militari. E va oltre le affermazioni fatte a caldo, dell'errore, tanto da insinuare altri interrogativi più inquietanti. Un errore anche «tragico» viene sempre «perdonato» in Iraq, anche quando stermina famiglie intere di innocenti iracheni. In questo caso non vale, solo perché non si vuole influire sul morale delle truppe o perché c'è dell'altro? Peraltro va sgombrato il campo dalle mistificazioni di chi vuol far credere che Nicola Calipari agisse nella clandestinità e non avesse avvisato del nostro arrivo in aeroporto. L'ufficiale di collegamento era stato avvertito 20/25 minuti prima del nostro arrivo (ho assistito alle telefonate), probabilmente l'intelligence italiana non aveva avvertito gli americani dell'operazione che stava compiendo per il mio rilascio, ben sapendo che altrimenti sarebbe stata ostacolata. Ma la giurisdizione Usa in Iraq riguarda anche le operazioni di intelligence degli alleati? E poi cosa faceva l'elicottero Usa che volteggiava sopra la mia auto imbottita di tritolo mentre io aspettavo che mi venissero a liberare? Sorge il dubbio che i vertici americani a Baghdad fossero perfettamente a conoscenza di tutto quello che stava avvenendo.
Non abbiamo ancora il rapporto ufficiale della commissione americana ma temiamo che molti dei nostri quesiti resteranno senza risposta. Ma la delusione più grande sarebbe se le nostre autorià subissero l'affronto senza reagire. Tutte le parole spese per Calipari finirebbero in ipocrisia e - nonostente la medaglia d'oro assegnatagli da Ciampi - Nicola sarebbe stato per il nostro governo solo l'eroe di un giorno.
La vicenda del rinnovo dei contratti pubblici acquista, ora dopo ora, toni dai contorni grotteschi e inquietanti.
Come è noto i contratti di lavoro di tutti i settori del pubblico impiego, della scuola, sono scaduti da quindici mesi. Per medici, veterinari, dirigenti e ricercatori siamo a un ritardo di quasi quattro anni. Di fronte a questa situazione il governo prima ha rifiutato qualsiasi apertura di un tavolo.
E solo dopo tre scioperi generali ha accettato l'idea di aprire un confronto. Il sindacato si aspettava da parte del governo quel passo in avanti decisivo per arrivare alla stretta finale. Il sindacato, unitariamente, ha dato la propria disponibilità a provare a concludere rapidamente un rinnovo che non può aspettare ancora. Il governo, invece di dare continuità e concretezza al tavolo, invece di presentarsi con una proposta, apre la strada al caos con dichiarazioni di questo o di quel partito della maggioranza, di questo o di quel ministro che tra disponibilità apparenti e repentine marce indietro, lasciano trasparire divisioni profonde.
Il presidente del Consiglio ritorna addirittura a proporre quella cifra di aumento contenuta in Finanziaria (95 euro) che i sindacati hanno già bocciato e che altri esponenti del governo, invece, considerano superabile. Da tutto questo emergono alcune considerazioni che vanno fatte con la massima fermezza.
La prima. Il clima preelettorale gioca in maniera irresponsabile sulle condizioni, le aspettative, i diritti dei lavoratori pubblici. È evidente lo scopo elettoralistico delle dichiarazioni dei giorni scorsi, così come sono evidenti anche gli elementi di divisioni che hanno frenato fino ad oggi qualsiasi conclusione della vicenda.
La seconda. Tutto il governo deve sapere che per quanto riguarda il sindacato, la disponibilità a raggiungere un accordo si muove nell'ambito di un passo in avanti che il governo deve fare rispetto all'ultima proposta: se la proposta resta quella già fatta, non restano margini per concludere un accordo. Il sindacato ha dato la sua disponibilità a muoversi dalle sue posizioni iniziali nella fase di mediazione, ma queste - anche nella loro ragionevolezza - non possono che venire dopo un'analoga presa di posizione esplicita da parte del governo.
La terza. È evidente che si gioca una partita interna al governo molto pesante e molto delicata. Ma il risultato di queste divisioni, ad oggi, è quello di aver congelato qualsiasi prospettiva di rinnovo del contratto e condannato i lavoratori pubblici alla fase di incertezza in cui essi vivono.
Questa divisione nasconde sostanzialmente l'esistenza, allo stato maggioritaria, di scelte del governo, avallate dal presidente del Consiglio, tese a considerare il lavoro pubblico ed il rinnovo del contratto un costo, un intralcio alla politica di bilancio e all'azione dell'esecutivo. Il lavoro pubblico non è visto, in questa cultura, come un elemento sul quale costruire una politica di ammodernamento e di qualità del ruolo del lavoro pubblico e del funzionamento di tutti i servizi pubblici. Ma unicamente come un onere, un onere da sopportare, un onere da comprimere e un onere al quale non rispondere con risultati concreti.
Tutto questo rende la situazione francamente non accettabile e non condivisibile. Il rinnovo del contratto di lavoro è un diritto che i lavoratori italiani hanno conquistato e che intendono mantenere, anche sulla base degli accordi pattuiti all'inizio degli anni novanta. Non è vero che i lavoratori pubblici in questi anni, se si prende a riferimento un periodo di tempo significativo, hanno aumentato la loro quota di reddito rispetto alla crescita del Pil italiano, mentre è evidente che per ogni fase di attesa si comprimono i loro salari e le loro condizioni. Inoltre tutta la riforma della pubblica amministrazione, tutta l'azione di delegificazione, di contrattualizzazione del rapporto di lavoro è stata in questi anni - da parte delle scelte di questo governo - fortemente compromessa.
Questo balletto di dichiarazioni mostra chiaramente che il rinnovo del contratto diventa merce ed oggetto di un contenzioso esclusivamente politico. Non c'è più un ruolo dell'Aran, dell'Agenzia che per legge è deputata ad affrontare queste questioni, non c'è stato né c'è nessun coinvolgimento degli Enti locali e delle Regioni, indispensabili per sottoscrivere intese che riguardano il contratto della Sanità e degli Enti locali. Tutto questo rappresenta un visibile, inquietante passo indietro rispetto agli aspetti riformatori del decennio precedente.
Il governo lede un diritto dei lavoratori, non riconosce il valore del lavoro pubblico, dei servizi pubblici essenziali nella loro funzione fondamentale per i cittadini e - contemporaneamente - reintroduce un interesse di parte, di schieramento, di singola forza politica, nell'ambito delle scelte che riguardano i lavoratori pubblici. Altro che processi di riforma e di modernizzazione del Paese: si ritorna ai tempi bui della storia della nostra Repubblica, quando i contratti di lavoro venivano considerati, né più né meno, come elementi di scambio.
Abbiamo già detto - in occasione dell'ultimo sciopero generale - che o il governo cambiava registro e si comportava correttamente o si sarebbe aperta una fase di ulteriore confronto e di ulteriore scontro. Il governo non sembra aver capito la posizione molto seria e responsabile del sindacato confederale e sceglie - ancora una volta - una strada che porta allo scontro e all'utilizzo improprio delle posizioni di chi lavora in settori fondamentali delle funzioni e dei servizi pubblici.
L’Unità: ho trovato la soluzione
Sull'Unità del 12 marzo 2005 trovate questa bellissima lettera, che farà arrabbiare qualcuno e sorridere molti altri
Caro Furio, da tempo volevo inviarti due parole di solidarietà ma vedevo che ne ricevevi tante, tra cui moltissime molto autorevoli, che ho pensato non ve ne fosse bisogno. Inoltre ero molto impegnato in uno scambio di messaggi con un amico straniero, che conosce molto bene le cose italiane, ma non riusciva a capire perché tu lasciavi l'Unità. Gli ho pazientemente spiegato che, sì, tu hai risollevato questo giornale da una gravissima crisi, facendogli vendere molte copie, ma che un giornale si regge anche sulla pubblicità. Ora pare che tu sia giudicato eccessivamente severo nei confronti del nostro governo (il mio amico si è un poco stupito perché riteneva che sin dalla sua fondazione l'Unità fosse per vocazione e funzione specifica severa coi governi in carica) e che pertanto le grandi aziende, che avrebbero potuto darvi pubblicità, per timore di inimicarsi il governo, non ve la davano. Perciò tu venivi rimosso per rimuovere appunto questo ostacolo.
L?amico mi ha risposto dicendo che, a quanto aveva capito, tu saresti stato sostituito da Padellaro, noto per aver lavorato con te in piena condivisione d'intenti, e che pertanto l'Unità di Padellaro sarà (e tutti lo pensano) ugualmente severa. Pertanto, mi ha domandato, come si può immaginare che arriveranno carrettate di pubblicità da parte delle grandi aziende, e persino dalla Cirio, dalla Parmalat e da Vanna Marchi?
Gli ho risposto che certe volte i sacrifici umani hanno puro valore simbolico, che per esempio Salomé non ha chiesto la testa del Battista per mangiarla come fanno i cinesi con le teste di scimmia, e nemmeno per trarne un utile immediato, ma così, per avere una soddisfazione morale. L'amico ha detto che non vedeva un rapporto diretto tra soddisfazione morale e contropartita economica, e quindi non capiva perché te ne andavi e tra l'altro te ne andavi restando, come opinionista.
Gli ho spiegato che forse l'operazione veniva fatta in due tempi. Prima eliminano te e lasciano Padellaro, per non perdere di colpo tutti i lettori. Poi piano piano sostituiranno anche Padellaro e cercheranno qualcuno che faccia una Unità un pochino più comprensiva dei traumi che sta ingiustamente subendo il nostro presidente del consiglio. L'amico mi ha detto che, secondo lui, forse a quel punto sarebbe arrivata un poco di pubblicità, ma si sarebbe perduta la metà dei lettori, almeno, e quindi il gioco non valeva economicamente la candela.
A meno, ha suggerito, che scelgano un direttore assolutamente filogovernativo, per esempio Giuliano Ferrara. In quel caso l'Unità perderebbe egualmente tutti i suoi lettori ma guadagnerebbe quelli del Foglio. Gli ho fatto osservare che, in termini quantitativi, non si tratterebbe di un buon affare, anche perché non sembra che il Foglio riceva tonnellate di pubblicità.
Allora il mio amico ha suggerito una soluzione diabolica. Si fa dirigere l'Unità all'attuale direttore del Giornale. L'Unità perderebbe tutti i suoi lettori, ma guadagnerebbe tutti quelli del Giornale, pubblicità compresa. L'idea non mi è parsa economicamente suicida come la precedente, ma gli ho chiesto che fine avrebbe allora fatto il Giornale se tutti i suoi lettori passavano all'Unità. Lui ha astutamente suggerito che la direzione del Giornale venga affidata a te e a Padellaro. In tal caso il Giornale guadagnerebbe tutti i lettori dell'Unità e, siccome è proprietà del fratello di Berlusconi, convincerebbe in qualche modo le grandi aziende a dargli pubblicità.
La mia obiezione è stata che Berlusconi si sarebbe trovato a sostenere finanziariamente un giornale che lo avrebbe violentemente criticato ogni giorno. L'idea potrebbe piacere alla sinistra, ma a lui?
A quel punto l'amico mi ha risposto che in fondo anche il telegiornale della quinta rete e Striscia la notizia criticano talora il governo, ma la cosa è più sopportabile, perché tutti pensano che lo facciano col permesso di Berlusconi, e quindi le critiche vengono intese come una prova della sua apertura democratica. Può darsi che il mio amico abbia ragione. Inoltre penso che come direttore del Giornale guadagneresti più che come direttore dell'Unità. Quanto alla nostra sinistra, avere come giornale fondato da Gramsci un giornale berlusconiano, sarebbe accolto come esempio di riformismo illuminato. Insomma, pensaci un poco, non mi pare, al giorno d'oggi, una soluzione così assurda.
Il tuo Umberto Eco
Il problema non è soltanto la promulgazione delle leggi. Gli strali del presidente del Consiglio non si abbattono solo sul presidente della Repubblica, un Ulisse in balia delle sirene della sinistra. L’intero procedimento legislativo è ora sotto accusa. La sua lunghezza estenuante, mesi e mesi di emendamenti, votazioni, discussioni. Prima in una camera e poi nell’altra, in mezzo alle insidie dell’opposizione. E non basta: una volta che finalmente una legge sia approvata, occorre attuarla. Tra gli sgambetti, questa volta, dei ministeri e della burocrazia.
Non è la prima volta che l’attuale presidente del Consiglio esterna il suo fastidio per gli istituti della democrazia rappresentativa. Per le lungaggini delle procedure, che impediscono di realizzare in tempi brevi il programma politico di chi ha vinto le elezioni; che non «lasciano lavorare» chi è stato «unto» direttamente dal popolo.
Fastidio che si affianca a quello, che sfuma in ostilità, nei confronti degli organi di garanzia: magistratura, Corte costituzionale, Presidente della Repubblica.
Il nesso è evidente e, senza voler drammatizzare, preoccupante. Appare messa in dubbio, infatti, l'essenza stessa della democrazia costituzionale. Ovvero di quel regime di reggimento delle società umane secondo il quale il potere politico è esercitato dalle maggioranze che vincono le elezioni, ma attraverso procedure predefinite e in presenza di controlli che impediscano al potere legittimo della maggioranza di mutarsi in arbitrio. Neppure la legge, espressione per eccellenza dell'indirizzo politico, sfugge a questa regola: il procedimento legislativo è definito nelle sue linee fondamentali dalla Costituzione; anche la legge è sottoposta a controllo, politico del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, giurisdizionale della Corte costituzionale.
E non si tratta di una mera “teoria” della democrazia, che si può accogliere o rifiutare. Ma di una principio costituzionale, che informa tutto il nostro ordinamento. L'art. 1 della Costituzione, infatti, dopo aver affermato il carattere democratico della Repubblica, stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sovranità popolare, quindi; ma, al contempo, forme e limiti al suo esercizio: questa è l'essenza dello Stato democratico voluto dai Costituenti, sulla cui base ha da svolgersi la vita politica e la dialettica istituzionale.
La concezione della democrazia del presidente del Consiglio appare estranea a questa matrice, liberale e costituzionale. È invece un regime ove il popolo parla una sola volta, nel giorno delle elezioni, investendo con il suo voto un governo (o, per essere più precisi, un premier) che, per tutto il suo mandato, deve poter agire senza limiti di sorta allo scopo di realizzare il suo programma: senza dover seguire noiose ed inutili procedure, senza essere sottoposto a fastidiosi controlli.
In tal modo, però, non soltanto viene messo in discussione, sul piano ideale e teorico, il fondamento stesso del nostro ordinamento democratico. Viene anche aperta la strada allo scardinamento delle precise prescrizioni nelle quali il principio dell'art. 1 si traduce. Che sono contenute sia nella seconda parte della Costituzione, quella che disciplina i rapporti tra i poteri dello Stato e il procedimento legislativo, sia nei regolamenti parlamentari.
Per le norme regolamentari l'aggiramento o la violazione è agevole, anche se non per questo meno grave, in quanto il loro rispetto è rimesso alla correttezza istituzionale e, in ultima istanza, è affidato ai presidenti delle camere, espressione nella presente legislatura della maggioranza parlamentare.
Più difficile è invece evitare le norme costituzionali di organizzazione: queste, infatti, in base alla Costituzione ancor oggi vigente, hanno i loro garanti, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, così come disegnati dai Costituenti. Chi le ritenga soltanto un inutile impaccio non ha di fronte a sé che due vie (non necessariamente alternative): la delegittimazione dei garanti e la riforma costituzionale.
Entrambe si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Gli attacchi al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale si accompagnano a un progetto di riforma volto a indebolire il sistema delle garanzie previsto dalla nostra Costituzione. Proprio in questi giorni il Senato sta approvando (a colpi di maggioranza, naturalmente) un disegno di legge di revisione costituzionale finalizzato a modificare l'intera parte seconda della Costituzione, aumentando tra l'altro i poteri del premier in conseguenza dell'investitura diretta.
Non va negata l'esistenza, nelle moderne democrazie, di un problema di capacità, delle istituzioni, di fornire risposte efficienti alle domande di società sempre più complesse e globalizzate. Soprattutto laddove, come in Italia, esista una forma di governo parlamentare ancora caratterizzata da un multipartitismo estremo. In presenza di governi di coalizione, di maggioranze litigiose e artificiose, non si può ignorare la difficoltà di produrre, in tempi ragionevoli, decisioni politiche. Qualsiasi governo, in Italia, si è dovuto scontrare con questo tipo di ostacoli nella realizzazione del proprio programma, anche dopo la modifica del sistema elettorale, nel 1993 e la razionalizzazione dei lavori parlamentari, con le riforme dei regolamenti realizzate già a partire dalla fine degli anni '80.
Riconoscere l'esistenza di alcune disfunzioni nella nostra forma di governo, e pensare di superarle usando gli strumenti del diritto (anche, se necessario, attraverso la revisione di alcune regole procedurali) è però ben diverso dal mettere in discussione l'impianto della nostra democrazia. Magari per sostituirla con la rapida ed efficace decisione di uno solo. Le procedure parlamentari, e tra esse il procedimento legislativo, non costituiscono un quid pluris, che si possa sacrificare su un qualsiasi altare, sia quello dell'efficienza, sia quello della sovranità popolare. Le regole procedurali sono l'elemento portante della democrazia. Solo in tal modo è garantito che le decisioni siano adottate attraverso la discussione e la partecipazione di tutti i soggetti politici. E, anche se alla fine sarà approvata la proposta della maggioranza, ciò avverrà attraverso un confronto con le minoranze che consenta il miglioramento e la messa a punto del testo, in modo pubblico e trasparente.
Il tempo della democrazia richiede una certa dose di “lentezza”. Negare ciò, in nome sia dell'efficientismo spinto all'estremo, sia della “unzione” popolare, vuol dire mettere in dubbio le basi stesse del nostro ordinamento.
Quarant´anni fa l´America era impegnata in un´altra guerra in terre lontane. All´epoca, nel 1965, avevamo in Vietnam una quantità di truppe e di caduti pari ad oggi in Iraq.
All´inizio pensavamo di vincere. Pensavamo che l´abilità e il coraggio delle nostre truppe fossero sufficienti. Pensavamo che la vittoria sul campo avrebbe comportato la vittoria nella guerra e pace e democrazia per il popolo vietnamita.
In Vietnam perdemmo di vista gli obiettivi della nostra nazione. Abbandonammo la verità. Venimmo meno ai nostri ideali. Le parole dei nostri leader non furono più degne di fede. Nel nome di una causa sbagliata proseguimmo la guerra troppo a lungo. Non comprendemmo la realtà intorno a noi.
Non capimmo che la nostra stessa presenza ci stava creando nuovi nemici e faceva fallire gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere. Non possiamo permettere che la storia si ripeta in Iraq.
Bisogna correggere la rotta, subito. Dobbiamo farlo per i soldati americani che pagano con le loro vite. Dobbiamo farlo per il popolo americano: non possiamo permetterci di spendere le nostre risorse e il nostro prestigio nazionale continuando la guerra nel modo sbagliato. Dobbiamo farlo per il popolo iracheno che anela ad un paese che non sia un campo di battaglia permanente e ad un futuro libero dall´occupazione permanente.
Le elezioni in Iraq questo fine settimana sono l´occasione per stabilire un approccio nuovo e onesto. Serve un nuovo programma che ponga obiettivi equi e realistici di autogoverno in Iraq e studi insieme al governo iracheno scadenze precise per l´onorato rientro in patria delle nostre forze.
Il primo passo è porci di fronte ai nostri errori. Gli americani sono giustamente preoccupati sul motivo per cui i nostri 157.000 soldati si trovano in Iraq - su quando torneranno a casa - e sui motivi del fallimento della nostra politica.
Anche se l´amministrazione continua a negarlo non c´è dubbio che ha guidato male la nazione portandola ad impantanarsi in Iraq. Il presidente Bush è corso alle armi in base a rapporti di intelligence pretestuosi e alla tesi sconsiderata secondo cui l´Iraq rappresentava un´area critica nella guerra globale al terrorismo, che in qualche modo era più importante dare avvio ad una guerra in Iraq piuttosto che portare a termine quella in Afghanistan e catturare Osama bin Laden, e che il pericolo era tanto imminente da non poter concedere tempo agli ispettori Onu di completare la ricerca di armi di distruzione di massa.
Come in Vietnam, la verità è stata la prima vittima di questa guerra. Quasi 1.400 americani sono morti. Più di 10.000 sono rimasti feriti e decine di migliaia di uomini, donne e bambini iracheni sono stati uccisi. In Iraq le armi di distruzione di massa non c´erano, ci sono però oggi 157.000 americani.
Mai abbiamo avuto conferma più dolorosa e potente del detto che chi non trae insegnamento dalla storia è destinato a vederla ripetersi.
A dispetto del chiaro insegnamento impartito dalla storia il presidente resta ostinatamente aggrappato alla falsa speranza che il punto di svolta sia dietro l´angolo.
Ponendo fine al regime di Saddam Hussein si pensava di limitare la violenza e di portare in medio oriente un´irresistibile ondata di democrazia. Non è stato così. La cattura di Saddam Hussein doveva secondo le previsioni porre freno alla violenza. Non l´ha fatto. Si pensava che il passaggio di sovranità sarebbe stato la svolta. Non lo è stato. L´operazione militare a Fallujah doveva spezzare le reni agli insorti. Non lo ha fatto.(...)
Noi tutti ci auguriamo che le elezioni di domenica portino frutti positivi. Gli iracheni hanno il diritto di decidere sul proprio futuro. Ma l´elezione di domenica non è un toccasana per la violenza e l´instabilità. Se i sunniti e tutte le altre comunità non si convinceranno di avere un interesse nel risultato e un ruolo effettivo nella stesura della nuova costituzione irachena, le elezioni potrebbero aggravare l´alienazione, l´escalation della violenza e portare ad un maggior numero di morti - per noi e per gli iracheni.
Il responsabile della Cia a Baghdad ha recentemente avvisato che la situazione di sicurezza si sta deteriorando ed è probabilmente destinata a peggiorare con un´escalation di violenze e un intensificarsi degli scontri tra fazioni. Come può un presidente aver permesso tutto ciò?
La politica del presidente Bush sull´Iraq non è, come egli ha affermato in campagna elettorale lo scorso autunno, un "successo catastrofico", bensì un "fiasco catastrofico". Gli uomini e le donne appartenenti alle nostre forze armate prestano servizio onorevolmente e con grande coraggio in condizioni estreme, ma la loro presenza a scadenza indefinita sta fomentando il conflitto.(...)
La guerra ha fatto dell´Iraq una calamita per il terrorismo, cosa che prima non era. Il presidente Bush ha aperto un nuovo fronte non necessario nella guerra al terrorismo e per questo motivo stiamo perdendo terreno. Il consiglio nazionale di intelligence della Cia ha confermato questa valutazione nel rapporto emesso due settimane fa.
La rivolta ha in larga parte sviluppo locale. In base alle stime del nostro governo è estesa e sta allargando le fila. La sua forza è quadruplicata dal passaggio di sovranità di sei mesi fa - da 5.000 unità a metà del 2004 a 16.000 lo scorso ottobre, fino alle oltre 20.000 attuali. L´intelligence irachena stima che possa contare 30.000 combattenti e fino a 200.000 fiancheggiatori. È chiaro che non ne conosciamo le esatte dimensioni. Tutto ciò che possiamo dire è che la rivolta si sta estendendo e che diventa più agguerrita e flessibile. Usa bombe più grandi e più potenti. Gli attacchi sono più sofisticati.
Al di là dei partecipanti attivi la rivolta vanta il tacito sostegno di migliaia di iracheni qualunque che hanno un ruolo di favoreggiamento a rifiuto dell´occupazione americana. E´ alimentata dalla rabbia di un numero sempre maggiore di iracheni - non solo lealisti di Saddam - giunti alla conclusione che gli Usa o non sono in grado o non hanno la volontà di garantire una sicurezza di base, lavoro, acqua, elettricità e altri servizi.
L´antiamericanismo è costantemente in crescita. In tutto il paese sono diffusi cd che illustrano la rivolta e canti che inneggiano ai combattenti. Sono tornate in voga poesie scritte decenni fa durante l´occupazione britannica dopo la prima guerra mondiale.
Abbiamo le forze armate migliori del mondo, ma non possiamo contare in primo luogo sull´azione militare per porre fine ad una violenza di ispirazione politica. Non possiamo sconfiggere gli insorti militarmente se non affrontiamo con efficacia il contesto politico in cui la rivolta si sviluppa. I nostri militari e gli insorti lottano per conquistare la stessa cosa - i cuori e le menti della gente - e questa è una battaglia che non stiamo vincendo.
Il primo passo per affrontare questa crisi con saggezza è definire obiettivi sinceri e realistici.
Innanzitutto l´obiettivo della nostra presenza militare dovrebbe essere permettere l´istituzione di un governo iracheno legittimo, efficace, non di imporlo.
La costruzione di una democrazia funzionante non avviene dal giorno alla notte. Possiamo e dobbiamo progredire in tal senso, ma gli iracheni potrebbero impiegare molti anni a portare a termine l´impresa. Dobbiamo adeguare il nostro orizzonte temporale. Il processo non potrà avviarsi sul serio fino a che gli iracheni non saranno pienamente padroni di tale transizione. La nostra continua, opprimente presenza non fa che ritardare il processo.
Se vogliamo che l´Iraq sviluppi un governo democratico stabile l´America deve assistere, non controllare, il nuovo governo creato.
Se gli iracheni non avranno l´impressione che i loro leader non sono marionette, l´elezione non potrà rappresentare il punto di svolta auspicato dall´amministrazione.
Ai fini di rafforzare la propria legittimità agli occhi del popolo iracheno, il nuovo governo dovrebbe iniziare a disimpegnarsi politicamente dall´America e noi da loro.
La realtà è che l´amministrazione Bush sta continuando a tirare le fila in Iraq e gli iracheni ne sono consapevoli. Noi abbiamo scelto la data del passaggio di sovranità. Noi abbiamo appoggiato l´ex agente della Cia Iyad Allawi come leader del governo ad interim. Noi abbiamo scritto le norme amministrative e la costituzione ad interim che oggi governa l´Iraq. Noi abbiamo fissato la data delle elezioni e il presidente Bush ha insistito perché abbiano luogo, anche se molti iracheni miravano ad un rinvio.
È tempo di ammettere che abbiamo un´unica scelta. L´America deve restituire l´Iraq agli iracheni.
Dobbiamo lasciare che gli iracheni decidano da soli, ottengano autonomamente consenso e governino il loro paese.
Dobbiamo ripensare la regola del vasaio, "chi rompe paga e i cocci sono suoi". L´America non può essere per sempre il vasaio che modella il futuro dell´Iraq. Il presidente Bush ha mandato l´Iraq in pezzi ma se vogliamo che torni intero gli iracheni devono avere la sensazione che appartiene a loro, non a noi. (...)
Da parte sua, l´America deve accettare il fatto che gli sciiti costituiranno la maggioranza in qualunque governo emerga dal voto. Il sessanta per cento della popolazione in Iraq è sciita e una maggioranza sciita è il logico sbocco di un processo democratico in Iraq.
Gli sciiti però devono comprendere che la stabilità e la sicurezza in Iraq saranno raggiunte solo salvaguardando i diritti delle minoranze. Bisogna concedere l´opportunità di partecipare alla stesura della costituzione e al governo anche a chi non ha voluto partecipare alle elezioni o era impossibilitato o troppo spaventato per farlo.
Gli sciiti devono anche comprendere che il sostegno americano non viene garantito a tempo indeterminato e che il ruolo dell´America non è quello di difendere un governo iracheno che escluda o emargini importanti fasce della società irachena. E´ troppo pericoloso per le forze armate americane schierarsi in una guerra civile.
L´America deve adeguarsi alla realtà che non tutti gli ex baathisti verranno esclusi dalla vita politica irachena nel nuovo Iraq. Dopo la caduta della cortina di ferro in Unione sovietica e nell´europa dell´est molti ex comunisti continuarono a partecipare alla vita politica. L´attuale presidente polacco - strenuo alleato del presidente Bush in Iraq - era a suo tempo un membro attivo del partito comunista e fece parte del governo che impose la legge marziale in Polonia negli anni ?80. Se i comunisti possono cambiare così, non c´è ragione che non posa farlo un ex membro del partito baathista.
Se gli iracheni intendono negoziare con gli insorti e questi ultimi sono disposti a rinunciare alla violenza e a partecipare al processo politico, dovremmo permetterlo. Persuadere i rivoltosi sunniti ad usare le urne e non le pallottole, è nell´interesse anche degli Sciiti.
In secondo luogo affinché la democrazia metta radici, bisogna dare agli iracheni un chiaro segnale che l´America ha pronta una vera strategia di ritiro dal pese.
Gli iracheni non credono che l´America non ha intenzione di protrarre a lungo termine la propria presenza militare in Iraq. La nostra riluttanza a palesarlo ha alimentato il sospetto tra gli iracheni che le nostre motivazioni non siano schiette, che aspiriamo al loro petrolio e che non ce ne andremo mai. Fino a quando sembrerà che la nostra presenza sia destinata a protrarsi l´impegno americano a favore della democrazia nel loro paese sarà ai loro occhi poco convincente.
Passate le elezioni e avviato il processo di transizione democratica il presidente Bush dovrebbe immediatamente dichiarare l´intento di negoziare un calendario per il ritiro delle forze di combattimento americane con il nuovo governo iracheno.
Almeno 12.000 militari americani e forse più dovrebbero partire immediatamente, per dare un segnale forte circa le nostre intenzioni e allentare la sensazione di occupazione che pervade il paese.
L´obiettivo Americano dovrebbe essere quello di completare il ritiro militare il prima possibile nel corso del 2006.
Il presidente Bush non può evitare questo tema. La risoluzione del consiglio di sicurezza che autorizza la nostra presenza militare in Iraq può essere riesaminata in ogni momento su richiesta del governo iracheno e una revisione è prevista a giugno. L´autorizzazione Onu alla nostra presenza militare termina con l´elezione di un governo iracheno permanente al termine di quest´anno. Il mondo sarà nostro giudice. Dobbiamo avere un piano di ritiro in atto per quella scadenza. (...)
Discorso tenuto il 27 gennaio alla Johns Hopkins school of International Studies
(Traduzione di Emilia Benghi)
Per salvare la Resistenza
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil e Carlo Grezzi, presidente della Fondazione Di Vittorio lanciano un appello per ricordare, nel corso del 2005, il sessantesimo anniversario della Resistenza. Da l’Unità del 9 gennaio 2005
Il 25 aprile del 1945 il Comitato di Liberazione nazionale lanciava la parola d’ordine dell’insurrezione. Milano e le altre grandi città del Nord si liberavano dai tedeschi e dai nazisti mentre le truppe Alleate risalivano l’Italia. Il nostro paese riconquistava la libertà e la democrazia. Il ciclo di iniziative per il Sessantesimo anniversario della Liberazione, al quale stanno lavorando le Associazioni della Resistenza insieme a tante forze sindacali, politiche e culturali, così come la preparazione delle celebrazioni del 25 aprile, assumeranno un carattere di straordinarietà e rappresenteranno appuntamenti importanti per tutti noi.
Riteniamo che nei primi mesi del 2005, si possano realizzare tante occasioni per ricordare quei fatti e quei sacrifici, che costituiscano anche un momento di riflessione e di ricordo riproposto alla nostra memoria, sui contributi dati dal lavoro nelle diverse regioni del paese per ridare dignità all’Italia e riscattarla dalle tragedie nelle quali il fascismo la aveva precipitata.
Il contributo dato dai lavoratori alla Resistenza è stato immenso. Gli scioperi nelle grandi fabbriche del Nord del marzo del 1943, seguiti nella primavera successiva da un ciclo di lotte ancor più possente, hanno segnato una opposizione di massa ai fascisti ed ai nazisti, con un carattere partecipato, a viso aperto, forte solo della propria determinazione di poter affermare: io sciopero per difendere la mia condizione, contro la guerra, per i miei diritti. Una mobilitazione di massa che non ebbe eguali per ampiezza ed incisività nella Europa governata dai nazi-fascisti in quei drammatici anni. Quei fatti costituirono i presupposti per la crisi del 25 luglio del 1943, per l’avvio di quel grande fatto che sarebbe divenuta la Resistenza.
È dunque il lavoro che ha cambiato i termini del confronto in atto con l’intervento delle grandi lotte di operai ed impiegati in una Italia impegnata nella guerra. Il prezzo che il lavoro ha pagato è stato altissimo, oltre 12.000 lavoratori vennero deportati nei lager nazisti. È stato pagato da parte di coloro che furono accusati di aver organizzato gli scioperi, di aver collaborato con la Resistenza, di aver organizzato il boicottaggio delle produzioni, ma anche da parte di coloro che furono avviati al lavoro coatto in Germania in sostituzione della mano d’opera locale impegnata al fronte. Ne sono tornati vivi ben pochi. Tutto ciò ha segnato il carattere della nostra Costituzione che parla della Repubblica fondata sul lavoro.
Il lavoro è stato protagonista di un altro fatto rilevante, la difesa dei macchinari nella fase ultima della guerra, con l’impegno di operai e di tecnici per salvare aziende ed importanti infrastrutture dalle vendette dei nazisti in fuga.
Siamo impegnati a realizzare appuntamenti di celebrazione, di riflessione, di studio promosso con altre associazioni come direttamente da noi, così come siamo disponibili e lieti di collaborare con tutti coloro che riterranno utile operare con noi o coinvolgerci nelle loro iniziative. Riteniamo che si possa dare adeguato rilievo al carattere non esclusivamente industriale di tanti scioperi, della straordinaria partecipazione dei lavoratori dei comparti dei servizi a quelle lotte, a partire dagli scioperi dei lavoratori dei trasporti, della informazione e dell’energia, del credito, delle università che ebbero allora grande rilievo anche sulla stampa internazionale, mentre sono stati invece poco sottolineati dagli studi e dalle celebrazioni di questi ultimi decenni.
Avanziamo infine una riflessione e facciamo un appello. Le trasformazioni ed i radicali processi di deindustrializzazione che si sono susseguite in questi sessanta anni, ma che si sono accentuati in particolare nel corsi dell’ultimo ventennio, hanno provocato la dismissione o profondi cambiamenti dei luoghi di lavoro e del territorio che li ospitava, hanno così a volte disperso, quando non completamente cancellato le testimonianze ed il ricordo di quanto accadde in quei terribili anni.
Riteniamo si possa chiedere alla Amministrazioni Comunali ed a quelle Provinciali, di farsi con noi protagonisti di una vasta iniziativa tesa a ritrovare, a raccogliere tante lapidi, tanti cippi, testimoni di quella storia e di quella memoria. A riordinarli e trovare per essi una organica e prestigiosa collocazione in luoghi atti da individuarsi nelle nostre città. Genova ha già realizzato alcune iniziative in tal senso. A Milano è da poco all’opera un significativo gruppo di lavoro composto dalle Associazioni della Resistenza, dai sindacati, da Istituti culturali, per realizzare il monitoraggio, la raccolta, le proposte per la valorizzazione di quelle testimonianze marmoree.
La memoria della Resistenza e quella del lavoro sono da tempo al centro di pesanti attacchi da parte di molti che vogliono cancellare, distorcere, falsificare la storia del nostro paese e della sua democrazia. Abbiamo davanti a noi una stagione importante perché questa nostra storia, i suoi passaggi difficili, i suoi protagonisti, siano ricordati e celebrati degnamente.
Giovanardi e il sondaggio «scientifico» sulle donne
Sulla bizzarra affermazione di un ministro della Repubblica. Da il Corriere della sera del 20 novembre 2005
Il ministro Carlo Giovanardi ha amiche di famiglia che proprio non capisce: se parla di politica sbuffano. Lo ha detto lui, nella deliziosa intervista al Corriere dove, per spiegare il suo no alle quote rosa, ha sentenziato: «Alle donne del nostro Paese mica gliene frega niente della politica. Lo vedo quando sono a cena alle tavolate con gli amici. Loro, gli uomini, mi sollecitano a parlare di politica.
E loro, le donne, quando questo succede si annoiano a morte e cercano di parlare d'altro».
Va da sé che lui, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, scuote la testa. Che cosa c'è di più appassionante, davanti alle tagliatelle, che discutere su come il nuovo segretario dell'Udc Lorenzo Cesa sia frutto d'un processo di sintesi avviato per superare la contrapposizione tra Erminia Mazzoni e Mario Tassone? Di più inebriante, all'arrosto, che interrogarsi sui pensieri di Mauro Cutrufo o di Pino Pisicchio? Di più appagante, al dessert, che calcolare le alleanze per recuperare un posto nel cda di Sviluppo Italia cedendo un consigliere all'Efim e un assessorato a Pomezia? Di più eccitante, al limoncello, che pesare le sfumature delle virgole nei dintorni del centro per capire (giovanardese testuale) «quali spazi ci siano per un partito popolare europeo che ridisegni il polo moderato in maniera omogenea e lo renda un'alternativa credibile alla sinistra»? Macché, le donne sospirano: uffa! Conclusione: non sono adatte alla politica. Di più, il sondaggio scientifico del ministro, che ha spiegato di avvalersi per il suo esaustivo campione demoscopico, oltre che delle consorti dei commensali (finché, s'intende, non torneranno a mangiare col piatto in mano sugli sgabelli della cucina come le nonne d'una volta che lasciavano agli uomini i discorsi da uomini), anche della collaborazione della moglie e della figlia (d'accordo con lui), dice che «le quote rosa sono un'umiliazione». Perché «sono ghettizzanti», «creano delle riserve indiane» e sono del tutto inutili: le brave infatti, se ce ne fossero, emergerebbero lo stesso.
Le donne italiane dovrebbero congratularsi. La posizione di Carlo Giovanardi è infatti un importante passo avanti, nello sviluppo dei diritti politici femminili, rispetto per esempio a quella del presidente del Consiglio e ministro dell'Interno Giovanni Lanza che nel 1871, pur riconoscendo che «qualche fondamento può esservi nelle costumanze per negar loro il voto politico», si avventurò a proporre che le donne potessero «mandare il loro voto per iscritto» alle elezioni amministrative. Purché, per capirci, non si presentassero al seggio. Una posizione, dovete ammettere, assai retrograda rispetto alla successiva decisione della Camera (poi arenatasi fino al 1924) di accoglier la proposta di quel sinistrorso di Agostino Depretis e ammettere le mogli al voto amministrativo sia pure circoscritto al voto «con delega al marito».
A 155 anni dalla prima petizione alla Camera dei Lord per l'estensione del diritto di voto alle donne inglesi che avrebbero avuto accesso alle amministrative nel 1869, a 99 dall'elezione della prima parlamentare (una finlandese), a 87 dalla nomina della prima sottosegretaria (la polacca Irena Kosmowska), a 81 dal giuramento della prima ministra (la danese Nina Bang) e a 45 dall'insediamento della prima donna premier (la ceylonese Sirimavo Bandaranaike), l'apertura del ministro è quindi un messaggio di speranza per tutte le donne italiane: dopo aver lavato i piatti fatevi sotto, carine.
Nessuna preclusione culturale. Che nel nostro Paese abbiamo dovuto attendere 115 anni e 836 ministri maschi prima che una donna, Tina Anselmi, entrasse in un governo; che la sola Nilde Jotti abbia avuto un incarico esplorativo per formare un governo e solo per una sacrosanta bizzarria di Francesco Cossiga; che le donne ministro siano state nel dopoguerra 44 (il 2,8%) contro 1.553 maschi; che la proposta di Giuliano Amato di mandare al Quirinale una donna fosse stata accolta come «una bella provocazione» («Manco se io avessi proposto un coleottero!»); che il 93,6% dei sindaci, l'88,6% dei deputati, il 90% dei presidenti di Regione, il 94,6% dei prefetti siano uomini dipende solo dal fatto che alle donne italiane «non gliene frega niente della politica». Di «questa» politica. Fosse vero, sarebbe interessante sapere: e come mai, caro Giovanardi?
E la riforma costituzionale? Mentre la maggioranza procede come un treno sulla riforma elettorale, si avvicina la seconda lettura nell'aula della camera del nuovo testo della Carta fondamentale partorito dalla Casa della libertà, che non si limita a introdurre la devolution ma com'è noto modifica la forma di governo, conferisce una gran messe di poteri al premier e altera quelli del presidente della Repubblica e della corte costituzionale, cambia la composizione e la funzione delle due camere, derubrica il ruolo del parlamento, introduce due diverse corsie per la produzione legislativa. Domanda: in che rapporto stanno questa riforma e quella del sistema elettorale? Il tema è scivolato via dalle cronache del «golpe» neo-proporzionalista di questi giorni, ma c'è. E giustamente Paolo Franchi, editorialista del Corriere della sera, la pone al centro di un dibattito organizzato dal Salone del libro di Roma per discutere del volume dell'Astrid (Associazione per la ricerca sulla riforma delle istituzioni democratiche) Costituzione: una riforma sbagliata (Passigli), in cui ben 63 costituzionalisti illustrano incoerenze, trappole e perversioni di quel testo. Il quale per di più, osserva Franchi, fu stilato quando ancora imperava la religione del maggioritario. Come si concilia adesso con la svolta proporzionalista, o semi-proporzionalista, della maggioranza? Vero è che in punta di dottrina i sistemi elettorali non fanno parte delle Costituzioni e sono regolati da leggi ordinarie: «le leggi elettorali trasformano i voti in seggi, le Costituzioni disciplinano i poteri», spiega Giovanni Sartori. Ma è pur vero, sul piano politico, che l'intera e ormai annosissima vicenda della riforma della Costituzione, già avanzata da Craxi negli anni `80, ha preso quota nei `90, a destra e a sinistra e nei reiterati tentativi di dialogo fra destra e sinistra, sull'onda del passaggio dal proporzionale al maggioritario, e relativa retorica della fine della «Prima Repubblica», delle virtù del bipolarismo, di un passaggio di centralità e di poteri dai partiti e dal parlamento al governo. Che ne è di tutta questa costruzione se adesso quell'onda finisce e avanza il risucchio?
A ben guardare gli effetti infatti ci sono, nel senso di una ulteriore incoerenza e di una ulteriore pericolosità della riforma costituzionale. In primo luogo perché, come argomenta lo stesso Sartori, una influenza sul funzionamento della forma di governo le leggi elettorali ce l'hanno, e consiste nel tasso di frammentazione dei partiti (e conseguente instabilità delle coalizioni e dei governi) che inducono: e la nuova legge elettorale, spiega Franco Bassanini, «è buona per vincere ma non per governare», perché induce a coalizioni larghe ma disomogenee. E poi, aggiunge Bassanini, con i suoi premi di maggioranza differenziati per la camera e per il senato la nuova legge rende più facile la formazioni di due maggioranze diverse nei due rami del parlamento, e di conseguenza disordina ulteriormente il già confusissimo bicameralismo della riforma costituzionale. Infine, introducendo un proporzionalismo non puro ma corretto dal premio di maggioranza, lascia aperto il problema dell'adeguamento dei quorum di garanzia. In sintesi, a danno si aggiunge danno e a confusione altra confusione.
Il tutto dentro uno scenario politico tutt'altro che limpido. Perché il referendum abrogativo della riforma costituzionale che il centrosinistra imporrà, si terrà dopo le elezioni politiche. E non è affatto detto - ne ha scritto ieri sul manifesto Gaetano Azzariti - che i risultati delle elezioni e del referendum siano coerenti fra loro. Nemmeno è detto - anzi allo stato è escluso - che il centrosinistra troverà per il referendum quella compattezza di vedute che in materia di revisione costituzionale non ha mai avuto. Se è comune infatti la volontà di affossare la riforma berlusconiana, restano profondissime e insuperabili divisioni fra chi punta sulla difesa della Costituzione del `48, e chi punta su una riforma più coerente di quella berlusconiana, ripulita delle sue più evidenti nefandezze (il premierato assoluto, la devolution, lo svilimento del parlamento), ma comunque improntata alla centralità del governo, alla stabilità e a tutta la costellazione di parole d'ordine che avrebbe dovuto finalmente risplendere sulla «Seconda Repubblica». Ma se si scopre che siamo sempre nella Prima, quella costellazione è destinata con qualche probabilità a oscurarsi.
Ogni tanto si sente dire, in questi tempi, che il sindacato, in particolare la Cgil e le altre grandi confederazioni, si attesta su posizioni conservatrici. Insomma, il sindacato sarebbe o è conservatore. Se prendiamo questa osservazione, così essa viene formulata, come una critica polemica, essa, come ogni critica, può contenere qualcosa di vero ed è dunque giusto tenerne conto. Nemmeno la Cgil è infallibile né ha il monopolio della verità o la sicurezza di imbroccare sempre la giusta strada sociale e politica e può darsi che, nell’uno e nell’altro caso, essa abbia compiuto o compia degli errori, difenda situazioni o posizioni superate e così via.
Nulla come le critiche, anche degli avversari, aiuta a migliorare.
Ma la parola «conservatore» - e come dovrebbero in verità sapere i privilegiati che avversano il sindacato soprattutto per mantenere le loro posizioni di potere - ha anche dei significati positivi. Dipende che cosa si vuol conservare. Ci sono valori da conservare; anche tradizioni, retaggi culturali da conservare.
A essere sovversivo, rivoluzionario nel senso deteriore del termine, è oggi spesso il selvaggio anarco-liberismo ultrà, che vuole abolire non solo ogni senso di solidarietà e del legame fra gli uomini e dunque anche fra le generazioni, ma ogni senso dello Stato, del quale l’individuo non dovrebbe preoccuparsi, in quanto dovrebbe tendere soltanto al conseguimento egoistico e immediato di vantaggi personali, così come lo Stato non dovrebbe occuparsi di sanità, delle condizioni generali di tutti e così via. Basti pensare alla paurosa situazione in cui, in tanti paesi a capitalismo selvaggio, si trovano, per quel che riguarda il problema della sanità, le categorie meno abbienti. Uno di questi ultrà anarco-liberisti, Nozick, ha teorizzato addirittura non solo lo Stato minimo, bensì lo Stato ultraminimo, il quale non dovrebbe occuparsi nemmeno di sicurezza pubblica o di polizia (bensì soltanto della difesa militare e così via). Secondo questa visione, così come il cittadino che cade malato non dovrebbe e spesso purtroppo non può rivolgersi a un’assistenza sanitaria, bensì soltanto, se ha avuto la possibilità di stipularla, a un’assicurazione privata, anche chi è aggredito da un malvivente non dovrebbe più chiamare il 113, la polizia o i carabinieri, bensì, se ha avuto la possibilità di stipularla, un’assicurazione privata, che dovrebbe provvedere a difenderlo dalle aggressioni dei criminali. Così, soltanto i ricchi potrebbero avere il diritto di difendersi dal primo delinquente o rapinatore che mette loro le mani addosso.
È evidente che questa orrida visione - per fortuna sinora mai realizzata - non offende soltanto il senso di giustizia, ma anche la qualità della vita di tutti, perché è l’esistenza di un servizio pubblico di sicurezza per tutti che garantisce o almeno favorisce la possibilità per tutti, anche per i miliardari, di andare a spasso più tranquilli per le strade. Se il sindacato vuole «conservare» un certo tipo classico, tradizionale, di rapporto collettivo e solidale fra gli uomini, un senso di responsabilità generale, e gli antichi valori e principali morali, politici, sociali che stanno alla base di tutto questo, l’aggettivo «conservatore» è un grande complimento. Infatti, se noi oggi diamo uno sguardo alla politica italiana in particolare, ma forse non solo italiana, vediamo che è in genere la sinistra a essere «conservatrice» di tanti valori che ci sono stati tramandati dalle generazioni precedenti.
Anche di questo, a mio avviso, bisogna ringraziare il sindacato. Il quale, naturalmente, non è fatto di santi, eroi e navigatori, ma, come ogni altra istituzione umana, ha le sue pecche e le sue magagne, e dunque una ricorrenza celebrativa, se non vuole essere retorica, deve essere più un esame di coscienza dei propri difetti e dei propri errori, per poter procedere con minori difficoltà, che non una autoglorificazione, che sarebbe sempre sospetta.
Forse mi è più facile dire queste cose perché non sono iscritto alla Cgil... Ma un po’, e forse non solo un po’, di fierezza per ciò che il sindacato ha fatto in tutti questi anni, questa sì, credo, sia giustificato e giusto averla. Grazie.
IERI il segretario dei Ds, Piero Fassino, in un´ampia intervista a questo giornale, ha messo a fuoco con nitidezza il problema politico che il suo partito sta sperimentando: «Non passa giorno che non ci sia un Parisi, un Mastella, un Occhetto o un Bertinotti che ci attacca sperando di lucrare qualche voto». Iniziative irresponsabili, a suo giudizio, anzi autolesioniste, dal momento che colpiscono il maggiore partito dell´opposizione, «il ramo su cui sono seduti».
In quella sede, Fassino ha anche difeso con calore l´autonomia il ruolo sul mercato della Unipol, la compagnia assicurativa delle cooperative rosse. Si dà il caso però che nello stesso giorno il Corriere della Sera abbia pubblicato stralci delle intercettazioni effettuate nell´ambito dell´inchiesta Bpi-Antonveneta, che rivelano alcuni retroscena che fanno da sfondo alla scalata della Bnl e le intese tra finanzieri come Emilio Gnutti e banchieri come Gianpiero Fiorani con l´amministratore delegato della Unipol, Giovanni Consorte.
Va da sé che le intercettazioni sono un materiale grezzo, tutto da riscontrare con i fatti; ed è vero che per ora non emergono illeciti penali.
Nello stesso tempo non va dimenticato che le intercettazioni medesime vengono predisposte dai magistrati quando si sospetta la presenza di reati gravi. Ma ancor prima delle responsabilità legali dei protagonisti di questa vicenda economica e politica, non si può non rilevare che tutti costoro agiscono in un ambiente, in un sistema, in un contesto. Per tale motivo, alla luce delle intercettazioni, viene naturale porsi alcune domande, che in piena serenità vanno rivolte anche al segretario ds.
Fassino infatti ha tenuto a marcare la più netta distinzione fra la Quercia e l´Unipol: «i Ds sono un partito, l´Unipol un´azienda e ciascuno fa la sua strada». Eppure, a quanto si legge, le cose non stanno esattamente così.
Giovanni Consorte è infatti uno dei poli di una fitta diplomazia politica, che investe autorità istituzionali come la Banca d´Italia, alcuni importanti esponenti ds (compreso il segretario Fassino), nonché figure della Casa delle libertà e del governo come Giulio Tremonti.
Non è necessario essere inguaribilmente ingenui per trovare curioso che un uomo della sinistra come Consorte si rivolga al commercialista di Gnutti dicendo: «Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto». Certo, può darsi che Fassino ignorasse questi atteggiamenti tipici del realismo politico, chiamiamolo così, degli uomini di finanza, anche se il segretario ds ha specificato che la cooperazione non è «un residuo ottocentesco, alla Pelizza da Volpedo», e dunque qualche compromesso con la modernità l´avrà stipulato. Tuttavia riesce incongruo credere alla tesi che vedrebbe l´Unipol roccaforte solitaria dell´efficienza aziendale, esente da qualsiasi legame di tipo politico con i Ds, allorché Consorte raccoglie le preoccupazioni di Fassino sulle cene elettorali pro - berlusconiane di Gnutti, alleato segreto proprio dell´Unipol.
E logico che certe realtà economiche abbiano una simpatia naturale per certe realtà politiche, quando le radici sono comuni, e che questa simpatia possa dare luogo a rapporti speciali, improntati a un medesimo orientamento di fondo. Ma qui non si tratta del sostegno alle feste dell´Unità o di sconti ai soci e agli iscritti sul premio dell´assicurazione auto: qui siamo nel campo di un gioco di potere di portata ingente, in cui l´Unipol gioca a fianco di investitori spregiudicati (speculatori, li avrebbe definiti l´Unità di una volta), sapendo benissimo che il gioco è perlomeno grigiastro, disputato dentro regole stiracchiate, a fianco di homines novi come Stefano Ricucci, in un rapporto scarsamente decifrabile con l´arbitro-giocatore, ossia il governatore Antonio Fazio (una vocina proveniente dalla Unipol sussurra a un certo punto: «Se non ci fossimo stati noi, Fazio sarebbe stato perso»).
Allora, questa non sarà una questione morale. Fassino avrà buon gioco nel ricordare che al momento non sono state identificate fattispecie illegali.
Però non esistono soltanto le sentenze dei tribunali: ci sono giudizi che l´opinione pubblica formula in base a criteri diversi dalla legalità ma a essa complementari: accanto alla legalità c´è un principio morale; c´è una responsabilità politica; e infine c´è anche un criterio estetico. Ora, piacerebbe capire sotto quale categoria, di gusto o di responsabilità, dovrebbe essere compresa la rete di rapporti intessuti nel corso e nel contesto della scalata alla Bnl. Sotto questa luce, sarebbe anche interessante comprendere se le esitazioni prolungate della leadership diessina sugli immobiliaristi e sulla posizione del governatore Fazio fossero dettate da una preoccupazione di tenuta istituzionale, oppure dalla consapevolezza che le regole del gioco particolare in cui anche i Ds erano inseriti giustificavano un allentamento delle regole tout court.
Fassino è il ritratto di una dura moralità operaia, fordista, torinese, in cui il Pci sapeva stare all´interno delle leggi e in quella cornice praticare le lotte più dure. Ci si chiede: è ancora quello l´atteggiamento dei Ds? Oppure si è sviluppata qualche disponibilità in più, è proliferato qualche atteggiamento meno rigoroso? La spregiudicatezza in economia è stata pagata cara già una volta, allorché Palazzo Chigi, sotto Massimo D´Alema, si guadagnò la definizione di «unica merchant bank in cui non si parla inglese». Eppure allora, con la scalata della Telecom da parte di Colaninno e Gnutti, i "capitani coraggiosi", gli eversori di quelli che volevano «comandare con l´uno e mezzo per cento», poteva profilarsi un cambio di establishment, un rovesciamento delle posizioni dominanti favorito dal governo di centrosinistra in vista della creazione di una "nuova classe" di imprenditori più dinamici e legati alla generazione dei D´Alema e dei Bersani.
Ma oggi? Di quale disegno strutturale o modernizzatore sono portatori i Fiorani e i Ricucci, e dunque anche i Consorte, di quale idea di capitalismo sono gli interpreti? Non c´è un´idea di innovazione economica, non un disegno di ammodernamento dell´apparato industriale, non un´ipotesi sulla trasformazione che il paese dovrà affrontare nella specializzazione produttiva. Ma se c´è soltanto la prospettiva di lottizzare posizioni nel circuito della rendita, attraverso una pratica di accordi e alleanze trasversali, è questo che conviene a Fassino, al centrosinistra, a tutti coloro che hanno cara un´idea razionale del mercato? Nel momento in cui, come auspichiamo, il partito di Fassino si troverà ad avere ruoli di responsabilità in un futuro governo, è auspicabile che prevalga la concezione, sempre manifestata, di un capitalismo decente, in cui non abbiano spazio i rapporti preferenziali e in cui l´affinità politica non sia un patrimonio da giocare nelle relazioni economiche. Finora molte voci nel centrosinistra, quella di Fassino compresa, hanno sostenuto questi argomenti. Possiamo sperare che ai principi seguano i comportamenti, sempre?