Titolo originale: Met chief warns more could be shot – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’ufficiale di più alto grado della polizia britannica continua a difendere la nuova linea “spara per uccidere” decisa per affrontare i sospetti attentatori suicidi, nonostante la morte di un innocente da parte di poliziotti armati la scorsa settimana.
Sir Ian Blair, il commissario di Scotland Yard, si è rammaricato con la famiglia di Jean Charles de Menezes, il ventisettenne brasiliano morto dopo che la polizia gli aveva sparato in testa a bruciapelo cinque proiettili su un treno della metropolitana a Stockwell, a sud di Londra, venerdì.
Ma ha ammesso che altre persone potrebbero perdere la vita per mano dei tiratori della polizia, nell’ escalation della lotta al terrorismo. Discutendo apertamente per la prima volta il cambio di tattica della polizia, Sir Ian ha difeso la linea “sparare per uccidere, per proteggere” sostenendo che è necessario sparare in testa ai sospetti se si teme che possano azionare detonatori sul corpo.
”La Metropolitan Police si prende piena responsabilità a questo proposito” dice. “Alla famiglia posso solo esprimere il mio più profondo dispiacere. Dobbiamo riconoscere che le persone devono prendere decisioni estremamente rapide in situazioni di minaccia mortale. Non serve sparare al corpo, perché è il punto dove è più probabile ci sia una bomba. Non serve sparare in qualunque altro punto, se cadono e possono farla detonare. L’unico modo di affrontare la questione è sparare alla testa”.
La casa ad appartamenti di Tulse Hill, nel sud di Londra, dove abitava De Menezes, era sotto sorveglianza dopo la scoperta dell’indirizzo in uno degli zaini contenenti le quattro bombe non esplose nella capitale giovedì scorso.
Era stato pedinato per diversi chilometri da poliziotti in borghese travestiti. Secondo un testimone oculare, era scappato dopo l’intimazione dei poliziotti armati alla stazione della metropolitana, con successivo inseguimento e sparatoria sul treno. La famiglia De Menezes ha definito la polizia “stupida e incompetente”, insistendo che non c’era ragione di sospettarlo.
Alex Pereira, il cugino, dice: “Era al 100% un buon ragazzo che non aveva mai fatto niente di male, e non aveva motivo di scappare. Quello che la polizia ha dimostrato è di essere incapace e stupida”.
Oggi sarà avviata un’inchiesta penale sulla sparatoria. La Independent Police Complaints Commission incaricherà investigatori indipendenti di verificare se i funzionari debbano essere sottoposti a provvedimento penale o disciplinare.
Non è comunque chiaro se questa tattica spara-per-uccidere, in codice Operazione Kratos, sia stata autorizzata da un ufficiale superiore.
La sparatoria ha aumentato la già enorme tensione della polizia metropolitana, che come ha ammesso Sir Ian è di fronte alla maggior sfida della sua storia nella caccia ai quattro uomini responsabili del tentativo di attentati della scorsa settimana, e alla loro rete di sostegno. Ci sono attualmente tre persone arrestate, ma non si sa se qualcuno di essi appartenga al gruppo degli attentatori.
A Little Wormwood Scrubs, nel nord-ovest di Londra, il gruppo artificieri ha provocato esplosioni controllate su un pacco trovato nascosto nei cespugli. Si ritiene ci possa essere stata una quinta bomba collegata che non è esplosa giovedì scorso.
Intanto, Charles Clarke e Jack Straw, ministri degli interni e degli esteri, sostengono Sir Ian. Clarke, che ha rinviato le vacanze per partecipare a un vertice antiterrorismo presieduto del primo ministro, ha dichiarato: “È assolutamente una tragedia il signor De Menezes e la sua famiglia, a cui comunico il mio più profondo rammarico”.
Straw, che dovrà rispondere alle difficili domande di Celso Amorim, il ministro degli esteri brasiliano, ha detto: “Dobbiamo essere sicuri che si agisca entro regole certe. Ma, tragicamente, dobbiamo anche assicurarci che la polizia abbia piena discrezionalità per affrontare quelle che potrebbero essere azioni di terrorismo suicida in corso”.
Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Sembra un remake di Vogliamo i colonnelli di Monicelli, e si sa che i rifacimenti - in genere - sono peggiori degli originali. Ma Gaetano Saya non è il protagonista di un film malriuscito, semmai l'interprete di una storia italiana in cui farsa e tragedia hanno confini incerti. Una storia in cui riappaiono - come spettri un po' sbiaditi - tracce di patrie vicende di un'era che fu ma che non passa mai. Il neofascismo stragista, i «boia chi molla» di Ciccio Franco, la massoneria della Loggia P2 di Licio Gelli, la Gladio di Cossiga, i servizi deviati del generale Santovito: tutto rivendicato palesemente in un sito internet dall'uomo che, creando un fantomatico Dipartimento di studi strategici antiterrorismo, si presenta come sodale del presidente americano, perché «il male sceso tra noi trova in uomini come George Bush in America e Gaetano Saya in Italia un baluardo inespugnabile. Uomini timorati di Dio, uomini duri e puri che illuminati per volontà Divina, sono scesi nella valle oscura della morte per difendere la Fede Giudeo Cristiana e l'Occidente. Il bene che questi uomini rappresentano sconfiggerà l'Anticristo». Chissà che ne penserà l'inconsapevole Bush. Se questi sono i toni, sembra proprio una farsa. Ma il guaio è che nessuno sa cosa in realtà abbia fatto - soprattutto cosa avrebbe potuto fare - quel fantomatico Dssa, una sigla che, non fosse stato per l'inchiesta in corso, sarebbe passata inosservata, uno dei tanti «organismi» nati - spesso a puro scopo di lucro - sull'onda dell'emergenza antiterrorismo, spesso sulle ceneri dei loro omologhi dell'era della guerra fredda. Ed è proprio qui che la farsa dell'uomo in uniforme massonica incrocia la tragedia dei nostri tempi, di una paura biblica in salsa italiana che trasformando il terrorismo in un grande affare, millantando contatti internazionali e cercando appalti militari globali, genera piccoli mostri e la pericolosa parodia di una servizio parallelo che adesca poliziotti, recluta adepti, pedina sospetti, distribuisce informazioni difficilmente verificabili. E il pericolo non sta tanto in un improbabile quadro eversivo per le istituzioni della Repubblica, quanto in una reale pratica di guerra che non cercando più alcuna legittimità internazionale si avvale di qualunque strumento, persino di combattenti privati. Non è una minaccia per le forme della democrazia, lo è per la sua sostanza.
A preoccupare non sono tanto le azioni di Saya e dei pari suoi, quanto la deflagrazione della grande guerra epocale del bene contro il male in tanti affari privati: legittimati dall'imperativo di difendere l'Occidente minacciato e dalla violazione del diritto internazionale tanti piccoli Saya in tutto il mondo possono sentirsi autorizzati a fare qualunque cosa, a considerarsi giustizieri divini, a moltiplicare Guantanamo e Abu Ghraib. Anche nelle farse più ridicole si fa presto a passare dalla vigilanza sull'«obiettivo» all'eliminazione dello stesso. Magari facendoci pure i soldi sopra.
Al di là della portata reale di ciò che ha fatto o avrebbe potuto fare il cosidetto «servizio parallelo» di Saya, il Dssa è il sintomo di una malattia, dello svaporare di regole e limiti, della perdita di relazione tra intendimenti e fatti. Lo sfondo che permette all'ambasciatore americano Sembler di affermare che il sequestro dell'Imam di Milano a opera della Cia dimostra il «rispetto pieno e totale» della sovranità nazionale italiana. Difficile stabilire, anche in questo caso, il confine tra farsa e tragedia.
L'immagine è ripresa dal sito www.amnistia,net. L'analogia tra i simboli della Desta Nazionale (la formazione di Saya e Sindoca) e la CIA era stata rilevata da un articolo del 7 novembredella rivista Enquètes difficiles, dedicato a "un nuovo partito italiano che si ispira alla CIA"
Un'occasione mancata: questo è la nuova costituzione europea. Avrebbe potuto rappresentare un momento in cui cittadini fossero finalmente coinvolti nella nascita della loro nuova nazione, come, nel bene e nel male, lo furono quelli che dettero vita agli stati nazionali, e invece la vicenda è restata nelle mani di una ristretta cerchia di burocrati. Il risultato è che l'Unione europea che ci viene prospettata appare anche più priva di una propria, comune identità. Perché la cultura che ispira il Trattato, i principi cui si riferisce e dunque gli orientamenti politici che stabilisce, cancellano proprio il dato di cui la costruzione europea aveva più bisogno: rinsaldare una specifica comune identità in cui tutti, dalla Svezia alla Grecia, dalla Polonia al Portogallo, potessero ritrovarsi. Assumendo in pieno, e anzi costituzionalizzando le politiche liberiste (primato del mercato e della competitività, marginalizzazione del ruolo dello stato e quindi della politica, privatizzazioni) il Trattato propone un modello che banalizza l'Europa, la allinea a una generica cultura occidentale, di cui certo è parte, ma che di per sé non è un dato sufficiente a giustificare una specifica aggregazione istituzionale. A che pro costruire questa entità statuale, infatti, se essa deve diventare nulla più che un'area geografica, un segmento di mercato globale, privo di una propria identità, e dunque di un'anima, incapace di produrre quanto è essenziale ai fini della coesione sociale e politica?
Negli anni `50 dar vita a un mercato comune fra i paesi europei era un bel progetto. Oggi, nell'era della globalizzazione, non ha più senso. O la Ue è in grado di essere qualcosa di più, oppure non è interessante. E infatti non interessa. Grecia e Svezia, Polonia e Portogallo sono paesi diversissimi. Ogni paese europeo ha una propria lingua e una propria diversificata storia nazionale, perché la storia europea è storia delle sue nazioni. Una cosa sola è simile (e diversa dagli Usa) a nord come a sud: il movimento operaio - nelle sue diverse componenti socialista, comunista, cristiana - e il tipo di società che ha contribuito a forgiare.
Questa particolare connotazione, il fatto che il nostro movimento operaio non sia mai stato, come altrove, mero soggetto economico, incaricato di contrattare il prezzo della forza lavoro, ma anche portatore di valori e artefice di quello che chiamiamo lo stato sociale, si fonda sulla particolarità che lo sviluppo capitalistico ha avuto in Europa. Scriveva Marx, nei Grundrisse, che qui tale sviluppo si è prodotto in presenza, e intrecciandosi, con forme/entità socio-culturali che lo precedevano ma erano ancora vitali, mentre cioè sopravvivevano classi e istituzioni - il mondo rurale, la Chiesa, l'aristocrazia - che, pur prendendo parte allo sviluppo capitalistico, ne hanno segnato il sistema egemonico. Nel male - producendo rigurgiti reazionari - ma anche nel bene: preservando una distanza critica rispetto alla crescente pressione in direzione di una riduzione di ogni dimensione umana alle priorità dell'economia, della produzione, della concorrenza mercantile.
E' questa cultura altra, in qualche modo disinteressata, questa vena critica rispetto alla modernità (come sempre anche ambigua), che - sebbene pesantemente minacciata si è tutt'ora conservata - ha marcato l'identità europea fino al senso comune. In ogni paese europeo - per fare un esempio che è esperienza di massa - si mangiano cibi diversissimi, ma in tutti c'è un analogo gusto per la diversità, in tutti i pasti non sono solo nutrizione ma occasione sociale, e attorno al cibo si scandiscono gli eventi della vita familiare e collettiva. E' per questo che, nonostante tutto, la mcdonaldizzazione stenta ad affermarsi, sebbene produrre cento formaggi diversi anziché una sola pasta di «cauchut» sia assolutamente antieconomico. La totale riduzione a merce degli alimenti, insomma, non è stata possibile. Così come della forza lavoro. Sicché qui il sindacato, a nord come a sud, non è solo strumento di rivendicazione, ma protagonista della democrazia moderna, portatore di valori non mercantili che incidono sul modo di essere delle istituzioni. (Quando mi domandano quali siano i segni distintivi dell'identità europea, rispondo con una battua: la gastronomia e il movimento operaio).
Di questa cultura comune resistentissima nella Costituzione europea non restano che vuote parole, nessuna traccia di sostanza. Ma se questa connotazione viene non solo sbiadita ma addirittura cancellata, di comune e specifico non resta più niente. La cosiddetta european way, di cui pure ancora ai tempi di Delors si era tanto parlato, viene sepolta: questo non è un fatto improvviso prodotto dal trattato, bensì il risultato di un processo che si è sviluppato nel corso di questi anni nella sostanziale disattenzione della sinistra. La questione dei servizi pubblici, per esempio, una delle strutture più significative del modello europeo, è stata in questi anni oggetto del più aspro contenzioso fra i numi tutelari della libera concorrenza sul mercato interno e chi ha continuato ad avere a cuore questo pezzo di storia europea.
L'ultimo scandalo è la proposta direttiva Bolkenstein, ma già nel Trattato di Amsterdam, 1997, sebbene si fosse allora riusciti a fare includere un riferimento al ruolo dei servizi pubblici, la dizione risultò così oscura da rendere difficile escludere la preminenza delle regole del mercato, e dunque l'obbligo di tagliare ogni sovvenzione. A Nizza, nel 2000, all'art.36 della Carta sui diritti fondamentali si parla di ruolo dei servizi di pubblico interesse, ma senza farne seguire alcuna pratica conseguenza. I successivi papers presentati in merito dalla Commissione hanno ulteriormente accresciuto la confusione, cercando di contentare chi non voleva fossero eliminati lasciando ai paesi membri il potere di decidere in alcuni casi. Mai tuttavia, nonostante insistenti proposte dell'europarlamento (fra queste la Risoluzione Herzog) è stata imboccata la strada della creazione di servizi pubblici a livello europeo: un'ipotesi che avrebbe anche eliminato ogni pretesto fondato sul rischio di alterare la concorrenza sul mercato interno.
Serve, questa Unione europea più compatta e competitiva - si dice - per contenere le pretese imperiali americane. Questo è anzi l'argomento principe di chi dice che, pur turandosi il naso, occorre votare sì al Trattato. Ma se questa Europa diventa così simile agli Stati Uniti in versione imperiale, come possiamo pensare che possa garantirsi, rispetto ad essi, una reale autonomia? Non solo: per costruire un mondo più multipolare altre sono oggi le vie. Innanzitutto quella di stabilire - rinunciando all'ossessione atlantista - un rapporto più stretto con i processi che si sono innescati, sia pure fra mille ostacoli e contraddizioni, dall'Asia all'America latina. Solo rimettendo in discussione il modello d'Europa che ci viene proposto, insomma, potrebbe esser possibile contribuire a costruire un mondo multipolare.
ROMA - Lo «spirito della Resistenza vive nel testo della Costituzione repubblicana». Carlo Azeglio Ciampi sfoglia il gran libro della storia patria, seguendo il «filo unico» che lega Risorgimento, lotta di liberazione, resurrezione dell´Italia. E celebra il sessantesimo anniversario del 25 aprile travolgendo incertezze e revisionismi di questi anni di pensiero debole al potere. Lo fa all´insegna d´un ricordo che «non vuole alimentare divisioni» ma insegnarci la concordia, l´amore per la patria e per la Costituzione: «fondamento delle nostre libertà». Vale a dire la sintesi che «ha consentito la rinascita morale e materiale della nostra patria, le grandi trasformazioni istituzionali e sociali, la creazione d´un sistema di equilibri tra i poteri che ha garantito e garantisce la libertà di tutti».
Piano dunque coi tentativi di scasso, con le riforme troppo radicali sembra quasi dire il capo dello Stato (chiamato a difendere la Costituzione esistente). Attenzione, dice davanti a decine di migliaia di milanesi in piazza che l´osannano come difensore della Suprema Carta (di fianco a lui siede l´ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, uno degli ultimi costituenti): «Non dimentichiamo mai che la Costituzione è la base della convivenza civile dell´intera nazione». Violentarne lo spirito è far violenza all´identità nazionale.
Una difesa, quella di Carlo Azeglio Ciampi nella giornata che ricorda la liberazione dal fascismo (alla quale diede un «contributo determinante il popolo italiano») e lo stato nascente della nostra democrazia, dei valori assoluti alla base del patto sociale che da sessant´anni governa la convivenza fra italiani. Valori che uniscono: una decina di volte ha invocato l´unità, forse pensando ai leghisti assenti. Rendendo «gloria a coloro che salvarono l´onore del popolo italiano» con la riconquista della «libertà per tutti, anche per coloro che li avevano combattuti». Vale a dire i fascisti, trascinati dentro la democrazia dal sangue degli antifascisti. La memoria dei «sacrifici e delle lotte della Resistenza è fondamento della nostra passione per la libertà», dice ancora. Poi li elenca con puntiglio, quei sacrifici. Quasi scadendo le parole una a una. La Resistenza dei militari smarriti dopo l´8 settembre, i civili che si unirono a loro nella difesa delle città, le centinaia di migliaia di militari deportati che non vollero servire il fascismo, la Resistenza popolare spontanea. Ricordando «soprattutto i protagonisti della Resistenza armata, che nacque come scelta di popolo e poi dilagò», né i soldati alleati venuti da tutti i continenti per liberare «gli europei dalla feroce tirannide nazifascista».
Mattinata al Quirinale, per una memoria istituzionale e molto formale. Pomeriggio a Milano (il primo "comizio" in piazza di Ciampi: un trionfo, sedici applausi), per un ricordo più popolare. Al Colle ci sono i presidenti delle Camere, per la prima volta Berlusconi e il presidente della Corte costituzionale. Il presidente può giù misurare l´entusiasmo che circonda la sua persona nell´applauso, continuo, generoso degli invitati in tribuna durante la rassegna dei picchetti militari. In contrasto con i fischi e i flebili applausi riservati al Cavaliere all´uscita dal Quirinale. Ci sono Pera e Casini («la Resistenza è un patrimonio di tutti i cittadini, fattore fondante della nostra identità nazionale», concorderà il presidente della Camera), c´è il presidente della Corte costituzionale Capotosti. E ministri, Martino e Pisanu. Il titolare della Difesa, berlusconiano, quasi a smarcarsi con garbo dalla posizione di Ciampi, dice che «con le dovute distinzioni e senza interessati oblii, la verità e la pietà bastano da sole a pacificare definitivamente la nazione, se prevale la buona volontà».
Le Costituzioni sono fatte di materia, di pasta specialissima. Negli ultimi tempi questa materia è andata corrompendosi. Il problema ora, se non vogliamo il peggio, è, prima d’ogni altra cosa, restaurarla.
Invece di ricominciare immediatamente ad azzuffarsi sulle cose fatte e a rinfacciarsi colpe, cedimenti, opportunismi e contraddizioni: cose improduttive e meschine che interessano una cerchia sempre più limitata di persone, sarebbe forse bene, come si dice pedestremente, fare un passo indietro e cercare di cogliere con uno sguardo d’insieme quel che è appena accaduto. Vediamo, da una parte, una destra che, osteggiando la costituzione "vecchia", se ne fa una sua, "nuova"; dall’altra, una sinistra che, unica cosa chiara, osteggia la costituzione della destra. Per il resto, c’è chi, nella sconfitta, invoca la necessità di un proprio e diverso progetto, chi scrive nuove "bozze" e chi recupera proposte d’altri tempi, senza che si riesca nemmeno a capire, innanzitutto, qual è l’atteggiamento verso la costituzione che abbiamo, quella che viene dalla Liberazione e dall’Assemblea Costituente del 1947. C’è da stupirsi che, contro questi geniali capitani, cresca il risentimento?
Indipendentemente dall’essere di destra o di sinistra e indipendentemente dal giudizio che si dia dell’opera compiuta dal Parlamento e quindi anche nel caso che, per assurdo, la si giudichi in sé e per sé un capolavoro costituzionale; indipendentemente da tutto ciò, chiunque, con questo sguardo d’insieme, non può mancare di vedere la catastrofe costituzionale che ci sta innanzi. La materia speciale di cui sono fatte le costituzioni è l’adesione a qualcosa da costruire in comune. Azione costituente è precisamente cercare i contenuti di questa adesione e metterli per iscritto. C’è stata invece la ricerca consapevole del risultato contrario: la sconfitta dell’avversario, con un colpo di maggioranza assestato con forza costituzionale. Qui non c’è la materia; questa non è costituzione, ma lotta costituzionale.
Una Costituzione imposta così si fa bella della parola, ma si fa beffe della sostanza. Essa, invece che costituzione, dovrebbe dirsi atto di governo che si riveste di forma, e quindi di forza, costituzionale. Se volessimo trovare degli antecedenti, potremmo pensare al documento del 1653 di Oliver Cromwell, denominato propriamente non costituzione ma Instrument of government. Si trattava di organizzare un potere per realizzare la rivoluzione puritana. I documenti di questo tipo sono atti di forza del governo che vogliono essere, per così dire, massimamente forzuti o atti, per così dire, di governissimo.
Si annunciano così altri scontri, non appena (prima o poi) i rapporti di forza saranno cambiati. Come abbiamo ora una costituzione della destra, avremo – secondo la legge universale delle azioni e delle reazioni politiche che Benjamin Constant ha studiato rispetto al succedersi dei colpi costituzionali in Francia, dopo la Rivoluzione – una costituzione della sinistra? Si pensa di procedere così? Non c’è costituzione se la sua base di consenso non trascende le divisioni della politica comune, non trascende cioè, innanzitutto, la divisione maggioranza-opposizione. Una costituzione del governo non è una costituzione perché non ne ha la legittimità necessaria. Questa mancanza iniziale si rifletterà sugli atti che saranno compiuti in futuro, sulla sua base. Invece che pacificare, alimenterà il conflitto. Un bel risultato «costituzionale», non c’è che dire.
Il testo appena approvato dal Senato si è presentato così: Disegno di legge costituzionale presentato dal presidente del Consiglio dei ministri (Berlusconi), dal Vice presidente (Fini), dal ministro per le Riforme istituzionali e la Devoluzione (Bossi), e dal ministro per le Politiche comunitarie (Buttiglione), di concerto col ministro dell’Interno (Pisanu), e col ministro per gli Affari regionali (La Loggia). Un piccolo aspetto di forma? No: un’aberrazione di sostanza. Questa intestazione sarebbe naturale per una legge ordinaria, con la quale il governo, nel rispetto del quadro costituzionale, attua il suo programma; non lo è per una costituzione. L’iter parlamentare è stato conseguente. Il Senato ha votato sotto minaccia di crisi di governo (e di scioglimento anticipato) perché un ministro aveva posto una specie di questione di fiducia (vietata dall’art. 32 del testo ora approvato) e il presidente del Consiglio e gli altri l’avevano accettata, con riguardo addirittura ai tempi dell’approvazione. I senatori della maggioranza hanno assicurato presenza e voto come richiesto e, ancora una volta, si sono arresi al ricatto. Bisognerebbe avere assistito ai lavori dell’aula, per comprendere che cosa può significare prevaricazione del governo sulla sua maggioranza, insolenza della maggioranza sull’opposizione e generale umiliazione del Parlamento. Gli storici delle istituzioni ricorderanno forse solo due persone che, sottraendosi alla logica sbagliata dello scontro tra schieramenti, hanno salvato la dignità costituzionale del Senato: il senatore Andreotti e il senatore Fisichella.
Naturalmente, ciò che precede vuol solo essere una precisazione concettuale ai fini della comprensione. Chi ha agito così, sapeva certo che cosa stava facendo in quel momento e sarebbe ridicolo fargli la morale in nome di un concetto (anche se – aggiungo – i concetti e i loro nomi esigono rispetto). Hanno ragione quanti dicono che non si è trattato di improvvisazione o leggerezza. Si tratta invece di una concezione e di un programma. Anche senza arrivare a rievocare torvi precedenti, come l’identificazione del "politico" con la contraddizione radicale amico-nemico, è chiaro che qui, alla fine, si è manifestata l’insofferenza, più volte onestamente dichiarata, verso la mediazione, i compromessi, i controlli: verso quelli che, in una parola, sono detti impacci e sono invece gli equilibri della democrazia. Sotto quest’aspetto, la presente vicenda costituzionale è un segno di stanchezza democratica ed è una primizia che prefigura un futuro politico: un futuro delineato dai poteri davvero assoluti del premier e dai rapporti di dominazione che egli potrà intrattenere con un Parlamento che, a differenza di oggi, sarà nelle sue mani non solo de facto, ma anche de iure. Per chi li ha a disposizione, si tratta degli articoli 14 e 16 (formazione delle leggi), 27 (scioglimento della Camera dei deputati) e 94 (governo in Parlamento).
Si è detto e si dirà: ma anche la maggioranza di centro-sinistra, alla fine della scorsa legislatura, si è approvata da sola la "sua" riforma della Costituzione, la riforma concernente il nuovo assetto delle regioni e delle autonomie locali. Si tenga comunque conto delle differenze. Innanzitutto, non si è trattato di contraddire la costituzione precedente ma di sviluppare diversamente e ulteriormente principi preesistenti (la tutela delle autonomie, nel rispetto dell’unità della Repubblica, conformemente all’art. 5 della Costituzione). In secondo luogo, l’allora opposizione di centro-destra dissentiva non perché non volesse quelle modifiche, ma perché voleva andare oltre. Voleva di più, rispetto a ciò che era già qualcosa. Infine, le modifiche di allora sono quasi nulla rispetto alle attuali, quanto a rilevanza e incertezza per l’avvenire. Invocare questo precedente per giustificare il presente è dunque una forzatura. Come ha scritto Galli della Loggia, c’è pur sempre una gerarchia negli errori e, in ogni caso, se errore fu quello, non si vede perché lo si sia voluto ripetere, aggravato. In effetti, fu un errore, determinato anche da ingenui calcoli politici di breve periodo (chiudere la legislatura con un risultato di spicco; tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega [!], ecc.), che ha causato poi notevoli problemi pratici di attuazione delle nuove norme, anche in quel caso approvate in fretta e furia. Onde, fatte le debite proporzioni, quest’accusa di aver smarrito, anzi di aver corrotto, la materia costituzionale si estende a quella che era la maggioranza di allora ed è l’opposizione di ora. Del resto, essa si rese conto dello strappo che si veniva compiendo, del deficit di legittimità che insidiava la riforma appena approvata. Fu la stessa maggioranza a chiedere il referendum sul nuovo testo, per trarre da lì quello che in Parlamento era mancato. E così fu compiuto un altro strappo: il referendum da oppositivo (cioè da strumento della minoranza) qual è fu trasformato in confermativo-plebiscitario (cioè in strumento della maggioranza) quale non deve essere. L’effetto plebiscitario non vi fu, data l’ostica materia e la bassa partecipazione popolare al voto; ma il precedente pericoloso fu posto e oggi c’è chi, nell’interesse della maggioranza attuale, pensa di ripeterlo.
Si tratta ora di fare opera di restauro, in previsione del referendum. Per questo è inutile, anzi perfino controproducente continuare con toni via via più accentuati, man mano che si avvicinerà la data del referendum, il confronto tra le parti politiche che stanno in Parlamento. Più si continua così, più si prosegue nella distruzione della speciale materia di cui sono fatte le costituzioni e più si rafforza l’impressione tra i cittadini che, in fondo, non si tratti che di una delle tante controversie che dividono maggioranza e opposizione. In materia costituzionale, occorre per l’appunto non dividere e approfondire le divisioni, ma unire. Il monopolio della discussione e del confronto detenuto dai soggetti politici avvelenerebbe ulteriormente il clima e non prometterebbe niente di nuovo. Pochi sono ormai quelli che, da una parte e dall’altra, sono disposti a vedere nelle parole dei propri avversari politici qualcosa di più che non la difesa interessata delle proprie posizioni di potere. C’è certamente dell’ingiustizia in ciò, ma purtroppo sembra essere così e, se è così, viene per l’appunto a mancare la materia della costituzione.
Questo è invece il momento in cui la vita politica ha bisogno di un aiuto, di un supplemento di responsabilità che non può che essere dato dalla società non direttamente implicata politicamente. Il referendum, sempre, è questo. In particolare lo è il referendum costituzionale. Occorre che i cittadini che ne hanno la possibilità, come singoli e come organizzazioni sociali, le associazioni culturali d’ogni tipo, i mezzi di comunicazione, nei mesi che ci separano dal voto, avvertano che questo è il momento del loro impegno. Occorre trovare parole nuove, discorsi diversi da quelli uditi mille volte e sempre meno ascoltati; occorre far comprendere che la posta in gioco non è il successo o la sconfitta di questa o quella parte politica ma il modo d’essere del nostro vivere insieme. L’obbiettivo prioritario non è ottenere la bocciatura o l’assoluzione di questa riforma della Costituzione. E’ la ricostruzione di un tessuto costituzionale, cioè della materia stessa di cui la Costituzione è fatta. Il giudizio sulla riforma è secondario e, presumibilmente, verrà da sé.
È destinato a cambiare il corso della politica italiana l’allarme lanciato da Romano Prodi sul rischio di una «moderna e pericolosissima dittatura della maggioranza e del suo premier». Diretta conseguenza, ha detto il leader dell’Unione, della riforma della Costituzione imposta dalla Casa delle libertà, «che crea un rischio grave e imminente per la nostra convivenza democratica e contro cui il centrosinistra si batterà in ogni modo». Cambia la politica che abbiamo conosciuto fino a ieri, perché fino a ieri nessun capo dell’opposizione si era espresso in termini tanto drammatici nei confronti di questo «assalto alle istituzioni più preziose del paese, a partire da quella più amata, la Presidenza della Repubblica». Unanime sul documento Prodi cambia anche la qualità dell’opposizione. Accresce la propria forza d’urto contro lo stravolgimento della carta fondamentale dei diritti e dei doveri avendo essa compreso che dalla dissoluzione dell’unità nazionale, dalla limitazione delle istituzioni di garanzia, dalla fine del pluralismo dell’informazione radiotelevisiva è il ruolo dell’opposizione stessa ad essere mortificato e compresso.
Ma è dalla reazione rabbiosa e insultante della maggioranza che meglio si capisce quanto Prodi abbia colto nel segno. Lo stanno accusando di tutto, perfino di essere un «tupamaro» (Vito), di alimentare la «violenza» (Volontè) mentre l’equilibrato Follini gli mette addosso il «passamontagna» alludendo forse alle Br. Che simili farneticazioni giungano proprio dai cosiddetti moderati del Polo la dice lunga sulla vera natura degli Harry Potter del centro, tutti casa (delle libertà) e chiesa
Pettinati e infiocchettati quando si tratta di indossare la maschera dei berluscones saggi e per bene. Sempre disposti, su ordine del capo, a votare tutte le leggi Previti di questo mondo, a digerire, per opportunismo, qualsiasi negazione delle regole democratiche venga loro propinata.
La denuncia di Prodi serve poi a demistificare, una volta per tutte, la leggenda metropolitana dell’intesa obbligatoria tra i poli. Accordo che in un qualunque sistema bipolare, quindi di fisiologica contrapposizione, diventa possibile, e auspicabile, davanti a questioni vitali per la difesa dello Stato, come per esempio la lotta al terrorismo o le grandi scelte di politica internazionale. Su tutto il resto, fermo restando che la dialettica anche aspra tra maggioranza e opposizione rimane la via maestra di una democrazia sana, il compromesso può starci. Purché sia veramente compromesso, e cioé accordo raggiunto con reciproche concessioni, e non cedimento di una parte alla tracotanza dell’altra parte.
Prendiamo il ruolo dell’Italia nella vicenda irachena. Prendiamo l’ultimo drammatico segmento di questa storia che coincide con l’uccisione di Nicola Calipari e la liberazione di Giuliana Sgrena. Poche ore dopo la sparatoria sulla strada per l’aeroporto di Baghdad, l’«Unità» ha riconosciuto l’impegno profuso dal governo italiano per arrivare al rilascio della giornalista del «manifesto». L’atteggiamento tenuto dal presidente del Consiglio subito dopo quei tragici accadimenti, con l’immediata convocazione a palazzo Chigi dell’ambasciatore americano, ci ha fatto scrivere che, almeno per una volta, Berlusconi si era comportato da statista. Il clima di condivisione ha fatto sì che il successivo dibattito parlamentare fosse improntato al riconoscimento reciproco: avere agito tutti con senso di responsabilità. Subito, il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi propone «una strategia concordata sul futuro dell’Iraq, a prescindere dal giudizio iniziale sulla guerra». Aggiunge che la prima occasione può essere il voto sul rifinanziamento della missione italiana, lunedì prossimo alla Camera. Davvero una bella «strategia concordata» quella proposta da Bondi: il centrosinistra vota a favore (o si astiene) sulla missione italiana in Iraq e, in cambio, rinuncia a porre la questione della guerra sbagliata (magari affermando che si è trattato di una guerra giusta visto che ha portato il paese alle elezioni anche se era stata dichiarata per trovare le armi di distruzione di massa). Già che ci si trova l’opposizione potrebbe fare qualcosa di più. Ammettere finalmente che quella dei nostri soldati è una missione di pace in un paese in guerra (è una bugia, un controsenso ma è servito ad aggirare la Costituzione vigente che ripudia la guerra come mezzo di offesa o di risoluzione della controversie internazionali). Oppure, un’opposizione, realmente costruttiva e concorde, potrebbe smettere di domandarsi cosa ci stanno a fare i soldati italiani in Iraq, trincerati da mesi nel deserto di Nassiryia. E se, infine, volesse dare un segno veramente tangibile del nuovo spirito bipartisan l’opposizione potrebbe partecipare al massacro di Giuliana Sgrena, sostenere (come fanno gli esponenti e i giornali della maggioranza) che è lei (e non la guerra sbagliata) la vera causa dell’uccisione di Nicola Calipari.
Certo che il governo Berlusconi si sgancerà dalla guerra sbagliata. Ma lo farà a tempo debito, magari alla vigilia delle prossime elezioni politiche quando vorrà andare all’incasso completo dell’operazione per poter dire agli italiani: vedete come siamo stati bravi, fedeli all’alleanza con gli Usa e, nello stesso tempo, premurosi con i nostri ragazzi? Mentre l’opposizione, se non si sarà piegata, se non avrà chiesto scusa, sarà indicata come antiamericana, antipatriottica, comunista. Proprio come sta accadendo a Romano Prodi, paragonato a un terrorista soltanto perché pretende
Siamo dunque al punto in cui il Capo dello Stato, che rappresenta tutte le istituzioni della Repubblica, deve intervenire pubblicamente per difendere il suo ruolo, i suoi poteri di garanzia, la sua indipendenza e la correttezza del suo operato da uno sfondamento del Capo del governo. Carlo Azeglio Ciampi ha dovuto reagire - con "sorpresa", dice la nota del Quirinale - per tutelare non tanto se stesso quanto l´istituto della Presidenza della Repubblica, attaccato nella sua simbologia repubblicana di indipendenza e nella sua funzione suprema di garanzia da Silvio Berlusconi: convinto che sul giudizio del Capo dello Stato prima della promulgazione delle leggi pesino "le sirene della sinistra".
Com´è evidente si tratta di una accusa gravissima, lanciata in forma plateale e gratuita, senza giustificazioni o prove, e non da un esponente politico di secondo piano ma direttamente dal Presidente del Consiglio, che ha la responsabilità di reggere l´esecutivo, indirizzare la politica nazionale e guidare la maggioranza parlamentare, rispondendo così al consenso ottenuto dai cittadini nelle elezioni. Ora, dopo tre anni di legislatura, Silvio Berlusconi indirizza questo consenso e quel potere politico contro il Presidente della Repubblica, sollevando il sospetto che possa essere soggettivamente un arbitro di parte, dunque scorretto e ingiusto, e istituzionalmente ancor peggio: un Capo dello Stato senza autonomia, soggetto a pressioni, incapace di difendere e garantire l´indipendenza propria della sua funzione.
Siamo ad una vera e propria crisi istituzionale che contrappone i due vertici della nostra vita pubblica, e poco conta la correzione tardiva di Palazzo Chigi. Dalla collaborazione repubblicana eravamo passati da tempo ad una inedita coabitazione fredda, con il Capo dello Stato che aveva di fatto rinunciato alla cooperazione attiva della sua moral suasion per l´impermeabilità di una cultura politica ? esecutivo e maggioranza ? chiusa in sé, convinta di essere autosufficiente, insofferente perciò ad ogni regola, ogni concerto, ogni controllo.
Oggi si va oltre, nel territorio delicatissimo e inesplorato di un Quirinale attaccato nei comizi di propaganda di un Premier in difficoltà. Ogni spirito istituzionale è bruciato dalla mossa di Berlusconi, ogni senso dello Stato, qualsiasi spazio civico o almeno di responsabilità civile. O meglio, tutto questo è travolto e trasformato in qualcosa che non è un´incultura, ma la forza primitiva e durevole di un sentimento, com´è nei fondamenti di ogni populismo.
È quel sentimento berlusconiano di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di "alienità" che lo fa abitare il vertice della Repubblica come un altrove, sentendosene insieme dominatore ed estraneo, occupante più che rappresentante, possessore esclusivo ma straniero, con tutti i diritti della leadership ma mai nessun dovere. È una concezione che già altre volte ho definito tecnicamente rivoluzionaria, perché vive le elezioni come un´ordalia, il consenso dei cittadini come un´unzione perenne, la conquista del governo come una presa del potere. Non solo dunque ogni ipotesi di sconfitta elettorale alla fine del mandato e ogni prospettiva di cambio di maggioranza vengono vissute come un´usurpazione a un diritto esclusivo ed eterno, dunque una sorta di atto sacrilego contro un concetto metapolitico ed extraistituzionale, perché sacro: il destino unito di Berlusconi e dell´Italia. Ma anche nel corso di una normale, fisiologica legislatura repubblicana, ogni controllo e ogni vincolo costituzionale di garanzia, di equilibrio, di salvaguardia e di contrappeso - gli istituti su cui si reggono gli Stati democratici in tutto il mondo civile - viene visto come un limite ingiusto e improprio al libero dispiegarsi del carisma berlusconiano, capace di resuscitare ed esaltare l´Italia se solo le istituzioni si lasciassero ardere dal sacro fuoco del Cavaliere e dal suo spirito politico trasformato in opera sapiente e provvidenziale.
Di fronte a tutto ciò, come può un istituto "tecnico" come la promulgazione che di per sé non ha alcun valore politico, non apparire come un impaccio? È evidente a tutti che dopo la "sanzione regia" dello Statuto Albertino, la promulgazione è una dichiarazione formale della massima carica istituzionale che la legge è regolarmente approvata e dunque vale l´ordine "a chiunque spetti di osservarla e farla osservare". Ma è anche chiaro che la Costituzione prevede per il Capo dello Stato il potere di rinvio della legge alle Camere, con rilievi motivati. Dunque quel passaggio delle leggi al Quirinale è anche un passaggio di garanzia: e Ciampi ha dovuto ricordare che ogni rinvio al Parlamento di una legge è sempre stato motivato "dettagliatamente, convintamente e debitamente", senza dare ascolto a suggerimenti d´ogni tipo.
"Convintamente", cioè nella personale, autonoma responsabilità del Capo dello Stato. "Debitamente", e cioè come espressione di un dovere del dubbio, ben più che di un diritto.
Ma è persino umiliante dover difendere istituti fondamentali e neutri dello Stato di diritto dall´antistatualità aliena di un Premier che guida le istituzioni sentendosene nemico, con l´impaziente spirito guerriero di chi vorrebbe cortocircuitare i meccanismi di controllo e di garanzia perché tutto - Costituzione, istituzioni, politica e Paese -potessero aderire alla sua biografia trasfigurando insieme nella mitologia berlusconiana, infine salvati e redenti. Come in ogni populismo, c´è molto di primitivo ma molto anche di moderno in questa trasfigurazione eroica della politica. E faccio notare che questa retorica vera e non falsa, perché l´ego di Berlusconi non la recita, ma la vive e la indossa come la sua vera natura, è a modo suo capace di parlare al Paese, perché lo sollecita perennemente, lo nutre di promesse mentre giustifica il loro tradimento con colpe altrui, spettacolarizza la politica semplificandola, mentre la deforma in conflitto, si regge su concetti primordiali ma emotivi ed evocativi, indica ogni volta un sogno prigioniero ad un Paese sfibrato, ma anche destrutturato in alcuni fondamentali principi civici. È insomma quella "televisione a colori" che l´improvvido vero alfiere degli interessi berlusconiani al governo, il ministro Gasparri, ha evocato contro il "bianco e nero" dello spirito repubblicano di Ciampi.
Soprattutto, è una sostanza retorica che affiora nei momenti della crisi, prima della probabile sconfitta elettorale del Cavaliere. Che reagisce ancora una volta con il più classico paradigma populista, costruendo nel Capo dello Stato un vero e proprio capro espiatorio della propria incapacità di governare, sperando - come dicono gli studiosi del "sacrificio" - di deviare così i suoi drammi intestini sulla vittima designata, bruciando in quel rogo le sue colpe e le colpe del sistema tutto, condannato perché si oppone ad un destino.
Se è così, siamo agli inizi di una fase delicata e pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo una sconfitta alle regionali il Cavaliere si accorgesse di precipitare verso la sconfitta alle politiche? Nella concezione tecnicamente rivoluzionaria che Berlusconi ha della politica, questo non è contemplato, non è permesso, semplicemente non è possibile. Avverto: l´agonia politica del berlusconismo sarà terribile.
Bisogna ricucire l’Italia come una tovaglia strappata. Bisogna rimettere in sesto questo Paese che si è rotto, lo si può vedere ogni giorno nei fatti piccoli e grandi. Per riuscirci sarà necessario tenere i nervi saldi, usare la pazienza e, soprattutto, riconquistare la passione persa per strada, tra delusioni, sconfitte, errori, scelte suicide e sì, stramberie, strampalerie.
E personalismi, fiere della vanità, che interessano soltanto qualche migliaio di persone tra piazza Colonna, Montecitorio, palazzo Madama, i ministeri sparsi nel centro storico di Roma e i simboli corrispondenti della politica nelle regioni e nelle province. Quelli che, in buona parte, scorrono le rassegne stampa e nient’altro e se gli chiedi qual è l’ultimo libro letto ti guardano allarmati come un perdigiorno. Qualcuno di loro, non pochi, non sa che la vita è anche altrove, persino fuori dai palazzi incantati.
Capiscano gli uomini della dirigenza del centrosinistra quanto le discussioni di queste settimane, le primarie, le candidature, le lotte di fazione che fanno certamente parte dell’essenza stessa della politica, appaiono repellenti alla gran parte dei cittadini, sia quelli iscritti ai partiti sia quelli che non lo sono, sempre dimenticati, ma che rappresentano il fulcro della grande alleanza democratica. I quali, nonostante si rendano ben conto della gravità della situazione di un paese alla ventura, sono tentati dal non volerne più sapere, presi da una crisi di rigetto. Terrorizzati dai giochi dell’egemonia, dalle dichiarazioni che sembrano fatte dagli uffici propaganda dell’avversario, dalle resistenze di chi non vuol perdere il ruolo e la famosa visibilità. Sperano che sia sul finire questo tragicomico regime berlusconiano, ma non vogliono sentirsi soli nella speranza.
I segni alterni della caduta non sono pochi, a cominciare dalle tornate elettorali vinte dal centrosinistra, dal 2001 in avanti. Ininfluenti, affermano i consiglieri del premier, per la non elevata partecipazione al voto. Ma a stare a casa sono soprattuto gli elettori delusi della Cdl che devono avere capito com’erano ingannevoli le promesse del loro Cavaliere.
Gli elettori del centrosinistra credono profondamente nell’unità, l’hanno dimostrato in queste «ininfluenti» elezioni politiche e amministrative. Ma vogliono sapere che cosa faranno in futuro gli uomini e le donne da loro eletti alle regionali e poi alle politiche. Desiderano conoscere il programma che non è un’astrazione, ma è il piano, il conto politico ed economico che riguarda ideali e interessi comuni. Quali sono le proposte? Quelle sì devono essere discusse: i grandi temi e le questioni della vita quotidiana, l’economia, la borsa della spesa, il risparmio, la giustizia, la scuola, la salute, il lavoro, la sicurezza, il destino dei figli.
Come si comporterà la maggioranza vincente di centrosinistra? In che modo rimedierà ai guasti di governanti incapaci, del tutto subalterni a un premier attento soltanto alla tutela dei propri beni e di quelli degli amici e a risparmiare loro e se stesso dalle sanzioni della giustizia? Che cosa faranno della legge sul conflitto di interesse che, così com’è stata fatta, non serve a nulla, che cosa faranno della legge sull’ordinamento giudiziario respinta da Ciampi al Parlamento, con un magro destino, che cosa faranno della legge sulla Rai e delle altre leggi sulla scuola, sull’università, sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sui condoni, sull’organizzazione dei beni culturali? Come agiranno a proposito della rovinosa riforma di 34 articoli della seconda parte della Costituzione che forse l’anno venturo sarà andata in porto?
C’è il rischio che non vogliano toccare nulla o quasi per non turbare gli elettori del centro che non possono essere lasciati alla controparte? Ma i dubbi camminano, quegli uomini di idee moderate hanno forse compreso che quel modo di legiferare li danneggia, come danneggia l’immagine dell’Italia nel mondo. Se ha fiducia in se stessa, una sinistra pulita può fare con maggiore autorità quell’opera di convincimento che non riuscirà a cincischiati personaggi usi a tutte le bandiere.
Le persone di buona volontà comprendono, sono umiliate, qualsiasi idea politica abbiano. Il senso dello Stato sembra relativo, di questi tempi, altro che richiamarsi alla Destra storica. Il premier è arrivato in ritardo alla Camera e non ha votato la Costituzione europea - tre mesi dopo la firma in Campidoglio, non il giorno dopo come aveva promesso - ed era assente al funerale del maresciallo Cola morto in Iraq nella missione di pace che uccide e che viola ogni giorno di più l’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. La forma, in casi come questi, è sostanza. Gravosa sostanza. Come è sostanza la caduta non soltanto di stile che mette in un cantone la funzione istituzionale delle più alte cariche dello Stato. Il presidente della Camera che esprime con una telefonata la sua solidarietà al senatore Dell’Utri imputato a Palermo per concorso in associazione mafiosa (condannato a nove anni) e ci tiene a farlo sapere con un comunicato mentre la Corte si è appena ritirata in camera di consiglio e che l’altro giorno definisce «incredibile» la sentenza del giudice di Milano, il gup Clementina Forleo che ha giudicato la cellula islamica e l’ha assolta. Mentre il presidente del Senato parla della legge sulla procreazione assistita e sentenzia che «l’embrione non è una muffa». Le istituzioni di garanzia vengono così a perdere neutralità e autorevolezza. Quel che fanno e dicono i ministri del centrodestra, poi, fa capire qual è il livello della politica governativa. Il ministro Castelli non fa quasi più notizia. Deve credersi il presidente della vera Corte suprema e giudica le sentenze anche nel merito. Ha trasformato i suoi ispettori ministeriali in pony express e li ha inviati subito a Milano per avviare un’inchiesta sulla dottoressa Forleo.
I disastri sono davanti a tutti. Dai treni che tardano, deragliano, si fermano per ore nella pianura gelata o sotto i monti, alla camorra dei quartieri allo sbalordimento di chi ha avuto la busta paga immiserita. Le detrazioni riguardano una persona su quattro. Chi guadagna di più risparmia di più, chi guadagna di meno non risparmia niente. Il 75 per cento dei pensionati non gode di alcun vantaggio.
C’è nell’aria una sorta di impazzimento. Si sa di una tassa sui cellulari. No, niente tassa sui cellulari. Il ministro Sirchia dichiara guerra alla pancia. 102 centimetri per gli uomini, 88 centimetri per le donne, massimo consentito. Arriverà nelle case una cintura. No, non è vero niente. Pancia libera. Sempre il ministro della Salute promette di diminuire il prezzo del latte in polvere. Un chilo, marca Humana, costa in farmacia 34 euro e 10 centesimi. Il calo del prezzo promesso è minimo. Su Internet, invece, quattro pacchi da 900 grammi l’uno costano 35 euro e 95 centesimo in tutto. In Germania il latte della stessa marca costa due terzi in meno.
Secondo il modello del Bush vincente occorre recuperare i valori, la famiglia, la fede. La Chiesa gongola. I cardinali che abitano in Vaticano, nei palazzi di via di Porta Angelica, guardano i programmi scollacciati e volgari di Mediaset e della Rai e non fanno obiezioni. Chissà poi come s’indignano, in privato. Il Corriere fa uno scoop metafisico. Ha potuto esaminare in anteprima un dossier sulla Madonna di Civitavecchia che piange. Il quotidiano da «Le prove del miracolo».
Poi le notizie più serie. Le pubblica Il Sole 24 Ore (17 gennaio): in sei grandi città italiane, secondo un’indagine del giornale, lo Stato taglia, gli enti locali tolgono, chi ci rimette è il cittadino. E poi, secondo un sondaggio pubblicato sempre dal Sole (25 gennaio), gli italiani - il sondaggio è di Globe-Scan/Eurisko - sono tra i più pessimisti sull’andamento dell’economia mondiale nostrana. Vedono più nero soltanto i sudcoreani e i libanesi.
Resta il gioco del lotto con il numero 53 che da 178 estrazioni non esce sulla dispettosa ruota di Venezia, a tener su la speranza. Ma gira già una leggenda metropolitana. Il governo ha fatto sparire la pallina del 53 per sanare un po’ le sue finanze marcite.
DICONO che la politica non interessi più nessuno, ma non è vero. Il politichese non interessa, anzi è rifiutato da tutti, ma la politica, i problemi cruciali del paese, i suoi interessi e il suo destino, ci riguardano, eccome.
Interessa il potere d´acquisto delle famiglie, la sorte delle imprese, il lavoro e i suoi contratti, le tasse. Ma anche il rispetto dei diritti, l´obbligo dei doveri, la scuola, l´efficienza dei servizi pubblici, la sicurezza, la rapidità e l´equità della giustizia. Interessa l´indipendenza delle istituzioni.
Il personaggio più amato dagli italiani è Carlo Azeglio Ciampi.
Qualcuno si chiede il perché dell´affetto quasi unanime che lo circonda, e la risposta è semplice ed univoca: perché ha dimostrato e continua a dimostrare ogni giorno la sua indipendenza da qualsiasi altro potere o interesse, per quanto forti possano essere. Ciampi garantisce gli italiani. Sulla carta i suoi poteri sono deboli, in certi settori addirittura debolissimi; ma nella realtà sono potenti perché Ciampi è la voce autentica della pubblica opinione; non di una parte di essa, ma della grande corrente della pubblica opinione, quella che vorrebbe un paese moderno, un sistema efficace, una politica nazionale ed europea, una classe dirigente integerrima, una libertà di ampio respiro e una solidarietà fraterna e sociale.
Ciampi è l´immagine più esemplare di un moderato estremista. Vorrebbe niente meno che la Costituzione fosse rispettata nella lettera e nello spirito. Ecco, il suo estremismo è questo e quando vede che la Costituzione viene elusa, scavalcata e talvolta addirittura irrisa, allora scende in campo in nome del popolo e il popolo si riconosce in lui.
Spesso avviene che i furbi applaudano alle sue iniziative per meglio sabotarle e talvolta ci riescono. Ma non si illudano: sono vittorie col fiato corto. Ciampi non è soltanto il presidente della Repubblica ma è, soprattutto, l´educatore d´una nazione, il padre che indica la retta via senza piegarsi né a lusinghe né a minacce.
Tra le tante disavventure che ci angustiano da anni, questa è stata la tavola di salvezza più solida che da cinque anni e mezzo è il solo punto di riferimento comune di un paese per altri versi discorde e privo di bussola.
Dicono che Berlusconi sia un improvvisatore, capace soltanto di tutelare i propri interessi personali ma sprovvisto di una visione di governo e della capacità di attuarla; ma anche questo non è vero. Berlusconi sa benissimo che cosa vuole e persegue i suoi obiettivi con tenacia.
Sicuramente è vero che il primo di tali obiettivi sia stato e continui ad essere il suo personale interesse di imprenditore impresario alle prese con il mercato e con la legalità da lui lungamente e pervicacemente violata. Ma è sbagliato pensare che non abbia una sua coerente concezione della governance e una capacità notevole di realizzarla.
La sua concezione consiste nella consapevole demolizione del sistema democratico-liberale e dello stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri e sulle istituzioni di garanzia che ne sono il più alto presidio.
Forte d´una maggioranza parlamentare clonata e passivamente obbediente, sta abbattendo uno dopo l´altro i pilastri che da mezzo secolo hanno tenuto in piedi la struttura costituzionale del paese e gli ideali che la ispirano.
Ha dalla sua alcuni vizi di antico retaggio italiano che ha rivitalizzato con una sapiente miscela di populismo volutamente sguaiato. Si è messo ai margini dell´Europa agganciando le sue fortune a quelle di Bush: una scelta che ha ridotto la nostra politica estera ad un ruolo di satellite privo di qualunque reale influenza e ruolo internazionale e di qualunque positivo ritorno in termini strategici ed economici.
La sua concezione della governance coincide con l´autocrazia. Non l´ha ancora realizzata appieno, la magistratura resiste, i sindacati resistono, l´opposizione parlamentare resiste e Ciampi soprattutto resiste.
Resiste ciò che ancora rimane di libera stampa. Ma l´autocrazia sta emergendo rapidamente dalla sistematica distruzione dello stato di diritto e delle garanzie che ne costituiscono l´essenza.
Siamo ora arrivati alla fase decisiva di questo scontro tra democrazia e autocrazia. Di qui l´asprezza dei toni e la necessità di una strategia che non si limiti alla pura e semplice resistenza. Di qui i problemi e il destino del centrosinistra. Di qui infine il ruolo di Romano Prodi e il significato della sua battaglia politica.
* * *
Negli ultimi giorni quello che era sembrato un conflitto soprattutto personale tra Prodi e Rutelli ha rivelato meglio la sua vera natura. Che non coinvolge soltanto Rutelli e non coinvolge soltanto una parte della Margherita, ma attraversa trasversalmente tutto il centrosinistra.
Esso è infatti pienamente concorde nell´opporsi al tentativo berlusconiano di instaurare l´autocrazia ma è profondamente diviso nella costruzione di una strategia innovativa e alternativa, d´una piattaforma capace di compattare la lunga alleanza dei partiti d´opposizione e attirare la vasta parte del corpo elettorale incerta e disincantata dal modello autocratico che la destra ripropone con ormai esplicita chiarezza dopo gli iniziali infingimenti liberistici.
Esso infine, il centrosinistra, è diviso nel misurare il vero livello della sfida, che non riguarda soltanto problemi domestici ma si gioca su un livello europeo e internazionale perché le tendenze autocratiche affiorano su un ampio scacchiere, sollecitate da una globalizzazione priva di contrappesi istituzionali e politici.
È del tutto evidente che una sfida di questa natura e di così alto livello richiede d´essere affrontata da forze robuste e coese, sorretta da opinioni pubbliche partecipanti e consapevoli. Uno schieramento frammentato in otto o nove sigle di partiti, il più forte dei quali rappresenta un quinto dei voti espressi e il più piccolo supera di poco l´uno per cento ed è tuttavia indispensabile disponendo per conseguenza di un suo diritto di veto sui programmi, le scelte di fondo, le candidature e la selezione della classe dirigente; uno schieramento siffatto è del tutto inadatto ad assumere sulle sue spalle un compito così arduo che deve articolarsi in un programma istituzionale, politico, sociale, economico, inquadrato in una coerente visione del nostro ruolo nel quadro della comunità internazionale.
Il disegno federatore di Prodi risponde alle esigenze della situazione e ne è la sola risposta valida; ma presuppone appunto che la federazione da lui auspicata non sia una scatola vuota ma un soggetto politico al quale i partiti partecipano conferendo larga parte dei loro poteri attuali, del resto non spendibili nella frammentazione esistente e di fronte alla compattezza autocratica dell´avversario.
Il negoziato per arrivare alla soluzione auspicabile si prospetta graduale ma non può esser spinto troppo lontano nel tempo. Le elezioni regionali di aprile rappresentano una tappa non risolutiva ma comunque essenziale dell´intero percorso, sicché tutto dovrà esser chiarito entro i primi giorni di febbraio.
Il congresso dei Ds, che appunto avrà luogo in quei giorni, è dunque un momento decisivo di questo percorso, difficile quanto indispensabile.
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La sinistra riformista e il suo leader, Piero Fassino, ha svolto in questa fase accidentata un compito importante.
Si è assunta ampie responsabilità cercando di mantenere stabile un´alleanza scossa da molte sortite e da improvvide impennate, da gelosie e rivalità, da inutili iniziative volte a guadagnare effimere visibilità. Ancora in queste ore il segretario diessino è impegnato a risolvere la questione delle liste regionali, questione forse minore ma indubbiamente propedeutica al più vasto disegno politico dell´unità operativa.
Tuttavia l´appuntamento decisivo per il più forte partito dell´opposizione sarà il congresso. Sembrava fino a poco tempo fa un appuntamento più rituale che di scelte politiche: la mozione del segretario (e lui medesimo come riconfermato leader del partito) ha ottenuto nelle votazioni di base l´80 per cento dei consensi. Sembrava dunque che il congresso non dovesse far altro che celebrare una salda unità e adempiere all´elezione degli organi dirigenti.
Invece non sarà più così o non dovrebbe più esser così se il maggior partito dell´opposizione vuole essere all´altezza delle sfide da affrontare e della vittoria da conseguire. Molte e qualificate voci hanno già auspicato nelle scorse settimane che questo salto di qualità avvenga, a cominciare da Alfredo Reichlin e da Giorgio Ruffolo, da Giorgio Napolitano e da Giuliano Amato. Aggiungo ad esse anche la mia, da cittadino interessato a un confronto politico e ideale che, quali ne siano le sorti, arricchirà la democrazia italiana e le darà spessore morale e culturale.
Il maggior partito della sinistra credo sia ben consapevole che il suo 20 per cento di rappresentanza è troppo e allo stesso tempo troppo poco. Troppo per rifugiarsi nell´irresponsabilità di un partito minore. Troppo poco per rivendicare un´egemonia sugli altri membri dell´alleanza.
Incombe dunque al suo gruppo dirigente di annunciare la sua disponibilità di conferire alla federazione guidata da Prodi i poteri necessari a renderla un soggetto politico impedendo che altro non sia che una sorta di circolo bocciofilo per anziani. Disponibilità e anzi richiesta netta agli altri consorti di procedere su quella strada aprendo finalmente un cantiere programmatico all´insegna di tre principi essenziali che sono poi da duecento anni quelli della democrazia, del socialismo e del cattolicesimo democratico: libertà, eguaglianza, solidarietà.
Il cantiere programmatico dovrà declinare quei principi in termini moderni e appropriati a correggere e rilanciare la globalizzazione, ma quello è l´orizzonte ideale e la piattaforma etico-politica che non potrà esser tradita se il duro confronto con l´avversario debba avere serie prospettive di successo.
Post scriptum. L´amabile vicepresidente del Consiglio, Marco Follini, in un´intervista del 4 gennaio al Corriere della Sera difende a spada tratta le nomine di Guazzaloca e di Pilati a membri dell´antitrust (nominati da Pera e Casini). "Il budino si giudica dopo averlo mangiato", ha sentenziato Follini. Cioè tra cinque anni. Ne hanno di tempo i due nominati per arrecare danni al paese, per totale incompetenza l´uno, per evidente conflitto di interessi l´altro.
Nello stesso giorno su Repubblica il redivivo Giulio Tremonti, interrogato sul medesimo argomento, invece di rispondere alle domande sulla qualità dei due nominati, si è lanciato in un ampio ragionamento dal quale emerge che la legislazione contro i trust e i monopoli è radicalmente sbagliata e, ovunque esista, andrebbe abolita o fortemente mitigata perché... la Cina è vicina.
Lascio ai lettori di giudicare questo genere di risposte nonché i criteri con i quali i presidenti delle Camere hanno fatto uso dei poteri loro conferiti dalla legge per designare i componenti della principale autorità di garanzia, titolare anche del potere di vigilanza e di sanzione sui conflitti d´interesse del presidente del Consiglio.
Titolo originale: New Berlusconi Investigation Is Called Politicking – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
ROMA, 29 dicembre – I magistrati hanno avviato un’altra indagine che riguarda il Primo Ministro Silvio Berlusconi, che potrebbe aver ordinato il pagamento di almeno 600.000 dollari nel 1997 a un avvocato britannico perché mentisse a suo favore in due processi.
I fatti su cui si indaga, riferiti dal quotidiano Il Corriere della Sera giovedì, sono stati decisamente negati sia dal portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, che dal suo avvocato, Niccolò Ghedini. Hanno liquidato l’indagine come una manovra politica in vista delle elezioni generali italiane di aprile.
”È cominciata al campagna elettorale” ha detto Bonaiuti in una dichiarazione, accusando il Corriere della Sera e i magistrati di Milano di lavorare insieme per impedire la rielezione di Berlusconi.
Per anni, Berlusconi ha schivato una serie di processi, attraverso un’abile strategia legale e, sostengono i suoi critici, costruendosi leggi pensate per evitargli il carcere. Nonostante questo, le nuove indagini mostrano che i magistrati, da lui accusati di essere simpatizzanti dell’opposizione di centrosinistra, non hanno rinunciato. Crea anche un’ulteriore difficoltà per Berlusconi, l’uomo più ricco del paese, che cerca un secondo, con i sondaggi che lo mostrano alle di Romano Prodi, già primo ministro.
In un articolo di prima pagina sulle nuove indagini il Corriere della Sera, quotidiano più venduto in Italia, ha riportato che Berlusconi e l’avvocato inglese David Mills, sono stati “invitati” a comparire davanti ai magistrati di Milano il 3 dicembre, per discutere i nuovi elementi.
Secondo la legge italiana, non esiste l’obbligo di presentarsi, e nessuno di loro l’ha fatto, secondo il giornale. Ghedini, avvocato di Berlusconi e membro del Parlamento eletto per il partito di Berlusconi, Forza Italia, ha dichiarato che le idagini sono “nelle fasi preliminari e non è emerso niente che interessi la difesa”.
Il Corriere ha comunque riportato che la convocazione di testimoni come Berlusconi e Mills indica come le indagini si stiano avvicinando alla fine. Ha detto che i magistrati potrebbero decidere entro il prossimo mese se richiedere a un giudice di istruire un eventuale processo.
Mills è sposato con Tessa Jowell, ministro britannico per la Cultura, Comunicazione e Sport.
Il Corriere sostiene che i magistrati indagano sull’autorizzazione a versare “non meno di” 600.000 dollari a Mills dal manager, ora deceduto, della Fininvest, l’enorme holding di Berlusconi, nel 1997, per testimoniare a favore in due occasioni. Una nel novembre 1997, in un processo per corruzione dove Berlusconi era accusato di aver corrotto funzionari del fisco; l’altro nel gennaio 1998, in un procedimento dove lo si accusava di un piano per inoltrare 12 milioni di dollari al partito dell’ex primo Ministro Bettino Craxi.
Berlusconi fun condannato in entrambi i casi nel gennaio 1998, anche se poi assolto in appello nel 2001 nel primo, e escluso nel secondo per scadenza dei termini di proscrizione.
ROMA - Berlusconi «ha usato un problema drammatico in modo sconcertante e avvilente facendone strumento di propaganda», ma detto questo l’emergenza abitativa c’è davvero. E il nodo - al di là delle polemiche - va affrontato. Il giorno dopo i feroci botta e risposta fra maggioranza e opposizione sulla promessa fatta dal premier di voler dare una casa a tutti gli italiani, Pierluigi Bersani, responsabile per il programma dei Ds, fa un passo avanti e racconta quello che l’Ulivo pensa di fare per risolvere la questione.
Il caso c’è, lei dice, allora il premier ha visto giusto?
«Certo, al di là del modo in cui è stata usata l’emergenza abitativa, va detto che i suoi sondaggisti hanno individuato un tema tragico, per gravità e ampiezza. Resta ora da capire come mai, in tutti questi anni, il governo non abbia fatto niente per affrontarlo. Tutto sommato, invece che lanciarsi sulla propaganda, avrebbe ancora tempo a disposizione per intervenire. Invece l’unica misura finora approvata è stata il dimezzamento del Fondo per gli affitti».
Ma adesso il centro-destra sta elaborando un piano. E voi?
«Noi al piano ci stiamo lavorando da tempo perché girando l’Italia molti sindaci ci avevano avvertito di come il caro-affitti abbia sconvolto il mercato con l’irruenza di uno Tsunami e di come ora, a chiedere sostegno, siano anche le classi medie. Gli insegnanti per esempio. Il problema della casa sta al cento del dramma di una generazione intera, quella del baby-boom, che solo ora si sta affacciando sul mercato e che spesso non ha i soldi per acquistare un immobile, né la stabilità lavorativa per ottenere un mutuo. Dar loro un bonus-bebè, pensando di convincerli con questo a metter su famiglia, non serve. Bisogna appunto fornire case ».
E cosa proporrete allora nel piano dell’Ulivo?
«Pensiamo ad interventi che non si limitino alle pur necessarie misure di sostegno all’affitto. Usate male, senza controlli e verifiche, potrebbero incoraggiare l’aumento dei prezzi. L’idea è quella di agire anche con investimenti a favore di piani di edilizia residenziale destinata ad affitto concordato».
Una nuova colata di cemento?
«No, non sarà necessaria, gli investimenti saranno collegati a processi di riqualificazione urbana. C’è un patrimonio abitativo oggi assolutamente inutilizzabile che se ristrutturato darebbe una bella svolta al problema».
E come finanziare il piano?
«Ci deve essere un contributo pubblico - Stato, regioni, enti locali - da rafforzare grazie a partnership con il privato. Su questo aspetto, per esempio, si possono concentrare anche i contributi del 36 per cento ora volti alla ristrutturazione degli immobili. Poi certo si possono attivare anche meccanismi di agevolazione fiscale volti a favore l’affitto concordato, ma sarà l’opera di riqualificazione stessa ad innescare una nuova spirale di investimenti».
Il ministro Alemanno prevede che il costo dell’operazione si aggiri sul miliardo di euro. E’ d’accordo?
«Credo che ne servano di più».
Secondo il molto autorevole esponente dei DS sono “necessarie misure di sostegno all’affitto”, sebbene integrate da altre iniziative (ma “rafforzate da partnership con il privato”). Non si rende conto che sostenere l’affitto (e auspicare partnership con la proprietà immobiliare) serve a rafforzare quel perverso, e certo non liberista, mercato della casa il cui trionfo è la causa maggiore del disastro di oggi.
Ben diversa impostazione e prospettiva seppe dare il ministro democristiano Fiorentino Sullo quando, nel lontano 1962, inventò i “piani per l’edilizia economica e popolare”, i famosi PEEP. Quei piani il cui obiettivo era appunto fare ciò che il mercato non è in grado di fare: costruire (oggi lo si dovrebbe fare mediante operazioni di ristrutturazione urbanistica) quartieri su area pubblica, nei quali, eliminando la taglia della rendita immobiliare, in attuazione di piani regolatori generali comunali che inquadrassero l’assetto di ogni quartiere nell’assetto complessivo della città e del suo territorio, venissero realizzati quartieri in cui residenze, servizi, verde fossero compresenti e integrati, nel rispetto di standard quantitativi adeguati, la mescolanza sociale fosse garantita da una gestione pubblica costante e avveduta.
Qualche giornalista intelligente e libero, approfittando della riemersione (grazie agli eventi francesi) del problema della residenza di chi non vive nelle ville, cercherà di indagare su quali sono stati i frutti che quella impostazione ha dato là dove (negli anni 60 e 70) è stata praticata con determinata volontà politica e cultura tecnica, e sulle ragioni per cui essa (a partire dagli anni 80) è stata abbandonata e tradita per restituire oggi il bastone del comando al mercato immobiliare, alle sue leggi, ai suoi padroni via via più potenti? Praticamente senza più opposizione.
Una prima pietra, almeno teorica, Silvio Berlusconi la porrà: quella per il Ponte sullo Stretto, i cui lavori, sempre che tutto vada liscio, cominceranno nel 2006. La Impregilo, capofila di una delle cordate superstiti, si è infatti aggiudicata ieri, come general contractor, il maxi-appalto. Ora dovrà procedere alla progettazione definitiva. La prima obiezione è di natura finanziaria: i 4,6 miliardi di euro posti a base della gara si riferiscono ai costi di due anni fa, a tempi di cantiere che sono lievitati da sei a dodici anni (teoricamente il primo veicolo passerà sul Ponte nel 2018). Alcuni costi aggiuntivi, rispetto al primo progetto, sono stati imposti dal CIPE con ben 35 prescrizioni per limitare l'impatto ambientale e che, secondo gli ambientalisti, comporteranno rincari fra 1,5 e 3 miliardi di euro. Altri costi, altri rincari non mancheranno, in corso d'opera.
E però, ieri, le agenzie hanno battuto la stupefacente dichiarazione del presidente della Infrastrutture SpA, Raffaele Monorchio (ex ragioniere generale dello Stato, uno che di conti se ne intende) il quale ha affermato: «Al punto in cui siamo, dico che è impossibile non fare il Ponte. Lo Stato pagherebbe, a causa delle penali, cifre equivalenti alla costruzione del Ponte stesso». Come dire, questa maxi-opera «bisogna farla», anche se è una sorta di “boiata pazzesca”, da ogni punto di vista. Una dichiarazione sbalorditiva e, nella sostanza, “terroristica”.
Vediamoli questi punti di vista. Il Ponte sullo Stretto si cala su due sponde insidiate dal più alto rischio sismico. Il terremoto (con tsunami) del 1907 fu della magnitudo Richter 7,1 e su di essa è stata tarata la sicurezza del grande manufatto, ma in varie parti del mondo vi sono stati di recente sismi di magnitudo 8,9. Inoltre, secondo il Wwf Italia, si sono prese in considerazione scosse di 30 secondi, mentre quella dell'Irpinia, per esempio, fu di 80 secondi.
Nell'aprile scorso il rappresentante del Consorzio capeggiato dall'austriaca Strabag si è ritirato dalla gara affermando: «Il rischio legale, geologico e tecnico-finanziario è troppo alto». Era evidente anche l'allusione agli inquinamenti malavitosi nei lavori della maxi-opera, di cui si è già avvertita qualche ombra. La pioggia di subappalti non potrà non favorirli.
Il Ponte viene calato dall'alto, con opere di allacciamento imponenti che vanno ad impattare direttamente su zone o altamente abitate oppure di alto pregio ambientale e paesistico, fra due regioni le cui reti viarie e ferroviarie non potrebbero essere più asfittiche e invecchiate. Le autostrade siciliane sono quelle che sono, molto modeste, e i convogli merci viaggiano, per lo più, su ferrovie a binario unico e non elettrificate: velocità commerciale sui 24 Km orari. Del resto, rileva Legambiente, per andare da Palermo a Siracusa si impiegano quasi 6 ore di treno e fra Trapani e Siracusa le ore diventano 9 e mezzo. Non va meglio sul versante calabrese. Qui l'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, ai ritmi attuali, sarà completato, secondo la Cgil, fra ventisette anni almeno. Mentre l'Alta Velocità ferroviaria Battipaglia-Reggio Calabria presenta costi insostenibili (oltre 20 miliardi di euro), tali da renderla impensabile.
Quali sono allora le previsioni di traffico sul Ponte? In ogni caso modeste. Nell'ipotesi bassa, 10.000 veicoli al giorno, nell'ipotesi alta 18.000. Non il giorno dopo la sua inaugurazione, bensì nel 2032. Ora, se si tiene conto che la potenzialità del Ponte sullo Stretto è invece di 100.000 veicoli al giorno, si può dire che essa sarà sfruttata, nella migliore delle previsioni, al 18 per cento (previsioni del DICOTER, organismo tecnico del Ministero delle Infrastrutture, si badi bene). Difatti, per non sbagliare, alle Ferrovie dello Stato è stato imposto un canone annuo di 100 milioni di euro, che tanto somiglia ad una tassa a favore del Ponte. Sarà una domanda banale: i 4,4 miliardi, che poi diventano, come minimo, 6 e poi non sappiamo quanti ancora, non era meglio investirli nei porti siciliani e calabresi, nella rete viaria e ferroviaria e così via? Ma, allora, che senso ha parlare oggi di tariffe per i camion, le auto e le moto uguali a quelle odierne dei traghetti in servizio? Se il traffico oscillerà, nel 2032, tra il 10 e il 18 per cento della potenzialità del Ponte, quali dovranno mai essere le sue tariffe reali per rendere remunerativa la gestione complessiva? O non dovrà intervenire lo Stato? Sarebbe, a quel punto, una beffa clamorosa. E, allora, non era meglio migliorare strade, ferrovie, porti e i traghetti?
Fra l'altro, infiltrazioni mafiose a parte (sempre pericolosissime), il gigantesco cantiere assicurerà, si promette, l'occupazione nell'intero anno di 40.000 unità (vedremo con quali contratti). Alla fine dell'opera, non rimarrà quasi nulla, mentre gli attuali traghetti occupano oltre 1.200 addetti, in modo stabile ovviamente.
Il traffico camionistico sta inoltre flettendo. Il trasporto su gomma, tipicamente italiano, sembra avere un futuro per niente radioso. Al contrario della combinazione treno-nave-treno, con navi-portacontainers e treni bloccati tuttomerci. Di recente uno stesso carico ha viaggiato, in parallelo, da Palermo a Livorno in autostrada e per nave, arrivando prima per mare e con i conducenti sereni e riposati. Questo è il futuro ormai prossimo e a questo il Ponte o non dà risposta oppure ne dà una già decisamente vecchia, in controtendenza rispetto agli sviluppi europei, e costosissima. Nel Nord Europa la politica dei traghetti veloci sta battendo quella dei ponti. Purtroppo, ha ragione Gaetano Benedetto, segretario generale aggiunto del Wwf, quando afferma che con questa aggiudicazione dell'appalto si è posta una grave ipoteca sui conti pubblici e lo si è fatto non in base ad una analisi costi/benefici, bensì in base ad un mediocre calcolo politico, di tipo elettoralistico. Si potrà, con un governo diverso, rivedere a fondo la questione? Non sarà facile. Ma bisognerà provarci, al di là del troppo facile “terrorismo” sulle penali da pagare.
Cosa deve intendersi per "terrorista"? Di primo acchito, tutti concordiamo che gli autori dell’orrendo attacco dell’11 settembre 2001 a New York e Washington e delle devastazioni del 7 luglio a Londra erano terroristi. Ma altri casi meno netti fanno sorgere dubbi. Gli iracheni che all’inizio del mese hanno fatto saltare a nord di Bagdad un camion pieno di marines possono essere definiti terroristi? E i due arabi che il giudice Clementina Forleo aveva scarcerato definendoli "combattenti" o "guerriglieri", dovevano essere invece qualificati come terroristi, come ritiene invece il procuratore Spataro nel suo appello? È giusto condannare come terrorista, come fecero i giudici statunitensi, Timothy McVeigh, che nel 1995 fece saltare in aria un edificio governativo ad Oklahoma City, ammazzando 168 persone per vendicare l’uccisione da parte dell’Fbi dei membri di una setta religiosa a Waco, nel Texas? Avevano ragione Kofi Annan e Ariel Sharon, quando hanno definito terrorista il militare israeliano che il 5 agosto scorso ha aperto il fuoco contro alcuni civili in un villaggio druso alla periferia di Haifa, uccidendone 4, per protestare contro il piano Sharon per il ritiro da Gaza? E si può condividere la qualifica di terroristi data dal ministro Roberto Calderoli a quelli che lanciano sassi dai cavalcavia? Insomma: esiste una definizione accettabile di "terrorista" e "terrorismo", o è vero, come è stato detto, che i giuristi "annaspano" nel buio?
In realtà da tempo esiste in tutta la comunità internazionale un accordo di fondo sulla definizione. Questa però non è stata tradotta in norme giuridiche rigorose perché i Paesi arabi da anni insistono su una eccezione: a loro giudizio i "combattenti per la libertà" (sudafricani che lottavano contro l’apartheid, palestinesi che si battono contro Israele nei territori occupati, ecc.) non possono essere considerati in alcun caso terroristi, neanche quando le loro azioni violente colpiscono direttamente civili, perché la loro lotta è legittimata dal fine che perseguono (liberazione di un popolo). Ancora nel 1998 e nel 1999 Convenzioni internazionali della Lega araba e della Conferenza islamica prevedevano espressamente quell’eccezione. Persistendo il disaccordo tra paesi arabi e tutti gli altri Stati sull’eccezione, mancava anche un’intesa generale sulla regola. Per fortuna negli ultimi tempi la Lega Araba, pur mantenendo ferme le sue posizioni ideologiche e di principio sulla legittimità delle lotte di liberazione nazionale, ha ammesso che azioni violente contro civili, anche se intraprese da "combattenti della libertà", costituiscono atti di terrorismo. Rimangono riluttanze della Conferenza islamica, guidata da Stati più radicali. La Conferenza, soprattutto per ragioni ideologiche, blocca i lavori delle Nazioni Unite su una Convenzione generale sul terrorismo: pur ammettendo che violenze contro civili, ad esempio nei territori palestinesi occupati, possano essere qualificati come crimini di guerra, non vuole definirli atti di terrorismo. Ma se non è zuppa è pan bagnato: le norme internazionali sui conflitti armati vietano anche, e criminalizzano, "atti o minacce di violenza il cui scopo primario sia quello di diffondere il terrore nella popolazione civile". Insomma, esistono i crimini di guerra di terrorismo.
Oggi si è dunque faticosamente arrivati ad un consenso sostanziale e quasi unanime sul terrorismo, come è dimostrato dalle leggi di numerosissimi Stati (ultima quella italiana, contenuta nel pacchetto Giuseppe Pisanu) e da tanti trattati e risoluzioni internazionali. Qual è la definizione su cui si è d’accordo? Eccola. È terrorista chiunque 1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persona, ecc.) contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica (che ad esempio partecipano ad una funzione religiosa); 2) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale (ad esempio, una multinazionale); questa coartazione può avvenire diffondendo il terrore nella popolazione civile (si pensi agli attentati di Londra del 7 luglio) o con altre azioni (ad esempio, facendo saltare, o minacciando di far saltare, il ministero della Difesa, la banca nazionale, o un’ambasciata straniera; o sequestrando il capo del governo o anche di una multinazionale, se questa ad esempio non dà armi a guerriglieri); 3) per una motivazione politica o ideologica (quindi non per fini di lucro o per impulsi personali di vendetta o altro).
Rivediamo ora, alla luce di questa definizione, i vari esempi che ho dato all’inizio, per stabilire quale rientra e quale no nella categoria di "terrorista". Gli iracheni che hanno fanno saltare in aria un camion pieno di marines non hanno compiuto un atto terroristico, perché hanno colpito militari impegnati in azioni belliche; tuttavia, poiché agivano senza portare apertamente le armi, ossia non come legittimi combattenti, sono comunque colpevoli di un crimine di guerra, e possono quindi essere debitamente puniti.
Gli arabi scarcerati dal giudice Forleo potrebbero essere definiti "combattenti" o terroristi, a seconda delle circostanze di fatto: la Forleo ha ritenuto che quelle circostanze erano tali da farli considerare combattenti, mentre Armando Spataro ha concluso in senso contrario. Ma la distinzione giuridica in sé, delineata dalla Forleo, tra terroristi e coloro che partecipano ad azioni belliche rispettando sia le norme del diritto umanitario sui legittimi combattenti sia quelle sulla tutela dei civili, è corretta. Invece, l’azione di McVeigh non costituiva un crimine di terrorismo, perché mancava la motivazione politica o ideologica: era semplicemente una strage, come quella del militare israeliano. In entrambi i casi si trattava della vendetta o della protesta di un folle. Anche i forsennati che lanciano pietre dai cavalcavia non sono terroristi, perché non vogliono coartare l’azione delle autorità, e non hanno alcuna motivazione politica o ideologica. Sono colpevoli di omicidio volontario o di strage.
Queste distinzioni non sono oziose. Non solo in Italia, ma anche altrove gli strumenti investigativi a disposizione delle forze dell’ordine, così come le pene, cambiano a seconda della definizione dell’azione criminosa. Sarà perciò utile usare le "etichette" giuridiche con avvedutezza, non a sproposito, come fanno taluni qui da noi.
Postilla
Inquietanti le definizioni raccontate, senza batter ciglio, da quel serio giurista che è Antonio Cassese. Secondo la definizione che egli riporta sarebbero infatti considerati terroristi i partigiani della guerra di liberazione nazionale che contribuì a sconfiggere il nazifascismo in Italia, le analoghe azioni del maquis in Francia, della Resistenza in tanti altri paesi europei occupati dai nazifascisti, i combattenti del FLN in Algeria (ricordate il bellissimo film di Gillo Pontecorvo?). Sarebbero invece assolti gli autori degli atti di “guerra dichiarata” che portano allo sterminio di migliaia di civili. E’ proprio vero che sganciare la forma del diritto dalla sua sostanza, e la legge dalla storia, può portare a conseguenze aberranti
Avventurieri all'assalto
A differenza di altri, noi crediamo a ciò che ha detto Silvio Berlusconi quando ha assicurato di non avere alcuna parte nella scalata alla Rcs. Ci crediamo, vogliamo crederci, perché ci sembra ovvio che in un Paese serio si creda alla parola del presidente del Consiglio, almeno fino a prova contraria: e tale non ci pare neppure il fatto, per altro inoppugnabile, che troppe volte, in altre occasioni, le sue parole hanno reso un pessimo servizio alla verità.
Ma il punto non è tanto quello dell'effettiva attendibilità del presidente del Consiglio nel caso specifico: è il dubbio massiccio e permanente che su faccende importanti come queste grava da anni e anni su ogni sua parola e azione, rendendone la figura costantemente ambigua e non credibile agli occhi di una parte vastissima dell'opinione pubblica interna e della maggioranza degli osservatori internazionali. Un sospetto, una diffidenza costanti aleggiano intorno al presidente del Consiglio italiano ogni qualvolta si tratti di soldi, di aziende, di affari e di tutto ciò che abbia a che fare con queste cose, sia direttamente che indirettamente, sia nella sfera pubblica che in quella privata.
Berlusconi dirà sicuramente che ciò accade perché contro di lui esiste un pregiudizio instancabilmente e maliziosamente alimentato dalla sinistra per screditarlo e demonizzarlo. Ma non è così: o meglio, il tentativo di demonizzarlo c'è, ma il tentativo non ne spiega il successo. In realtà, sospetti e diffidenze, nonché il successo della demonizzazione ora detta, si spiegano con quella cosa che Berlusconi conosce benissimo e che si chiama conflitto d'interessi. È il conflitto d'interessi — a dispetto di ogni promessa mai sciolto, ma sempre furbescamente aggirato — che gli ha fin qui impedito di incarnare qualunque immagine istituzionale vera; è quel nodo che lo rende un candidato dato per perdente alle prossime elezioni perché perdente è il bilancio dell'azione del suo governo, di continuo condizionata da quel conflitto, che si trattasse della televisione, della magistratura, del calcio, della legislazione societaria, delle banche o di che altro. È il conflitto d'interessi che dal 2001 rappresenta la palla al piede per il ruolo politico del capo della destra, tra l'altro sottoponendone la maggioranza a continue, sfibranti, tensioni.
È altresì questa situazione che oggettivamente alimenta non solo le voci circa sue presunte mosse improprie (come sarebbe quella di una scalata a una casa editrice) quanto quel clima più generale fatto di progetti avventurosi, di protagonisti improbabili e di rilassatezza dei controlli e delle regole che da tempo si respira nel Paese. Non è una nuova tangentopoli, certo. Ma è qualcosa che alla fine produce un intreccio tra politica e affari egualmente, o forse anche più, patologico, dal momento che sulla scia dell'esempio fornito dal presidente del Consiglio, per politica oggi si deve intendere quasi esclusivamente la rete di relazioni, il circuito di influenze, i disegni di potere, le leve economico-finanziario-giornalistiche facenti capo non già a partiti e correnti ma a singole individualità impegnate in un accrescimento di potere anch'esso, alla fine, esclusivamente personale. Talvolta avventurieri. Non c'è più un sistema politico corrotto, si direbbe, non c'è più una corruzione sistemica, insomma: ora è piuttosto il tempo dei disegni spregiudicati di pochi capi solitari.
In poco meno di quattro anni siamo passati dal «siamo senza parole» di fronte alle torri gemelle che crollavano alla limatura delle parole di fronte alla tube che salta. La Bbc non parla di terroristi kamikaze ma di bombers, e li distingue dai criminali irlandesi e dai militanti palestinesi. Giovanni Sartori, sul Corsera di domenica, ha contestato questo codice della tv britannica, che più che di understatement gli sa di manipolazione: inganna i telespettatori, sostiene, e eliminando il nome occulta la cosa, cioè la cruda realtà del terrorismo. Ma lo stesso Sartori conclude ammettendo che qualche problema, sulla parola «terrorismo», c'è: «sulla definizione del termine i giuristi ancora annaspano», e anche se di massima il termine indica l'intenzione di seminare terrore senza limiti di mezzi e di bersaglio, resta la difficoltà di distinguere con diverse parole diversi tipi di terrorismo: suicida e non, locale e globale, resistente, partigiano e via dicendo. Non sono sottigliezze e non riguardano solo il terrorismo. La verità è che, da quando ci sentimmo tutti senza parole, le parole sono diventate tutte controverse e differenziali, come i fatti a cui si riferiscono: un terrorismo diverso da quello che prima chiamavamo terrorismo, una guerra diversa da quella che prima chiamavamo guerra, una democrazia diversa da quella che prima chiamavamo democrazia. Le stesse parole di prima per una realtà che non è quella di prima: un lessico politico usurato per un mutamento che si stenta a interpretare, o si tenta di imbrigliare in parole e categorie note. Altro esempio: c'è in giro un gran parlare di equilibrio fra sicurezza e libertà, e di quanta libertà siamo disposti a sacrificare alla sicurezza. Ma quale sicurezza, e quale, o quali, libertà? C'è un significato evidente per tutti del richiamo alla sicurezza che riguarda le vite; ma quando giro pagina e dalla cronaca delle stragi di Londra o di Sharm el Sheik passo alla cronaca dell'Italia ordinaria e leggo che ogni famiglia spende in media 700 euro all'anno per blindare casa, l'evidenza del termine sicurezza sfuma. Di libertà credo che siamo disposti a sacrificarne pochissima e giustamente, ma anche qui bisognerebbe intendersi: vedere la libertà ridotta a chance, consumo e strafottenza dell'individuo proprietario non era granché nemmeno prima che ce la insidiassero i kamikaze, e quanto ad altre e più nobili connotazioni del termine, anch'esse scarseggiavano già da prima nelle nostre democrazie apatiche, spoliticizzate e largamente abitate dalla servitù volontaria di laboétieiana memoria. Ma chissà perché l'individualismo e il relativismo sono da attaccare, per i nostri neocon, quando c'è di mezzo il referendum sulla procreazione assistita e tornano a essere valori assoluti da difendere quando c'è di mezzo il fondamentalismo islamico.
Come tutte le guerre, anche questa guerra civile globale è anche una guerra di parole. Ma con le parole della tradizione politica occidentale non c'è più tempo di giocare: nella conta quotidiana dei morti il gioco linguistico trova il suo tragico limite. La scoperta - tardiva, data la già lampante impronta degli attentati dell'11 settembre - della formazione occidentale, e in specie europea, di molti kamikaze islamici ha suonato la sveglia per molte analisi troppo sicure di sé: quelle che si figurano uno scontro fra civiltà distinte e demarcate, ma anche quelle, di segno opposto, che credono di spiegare tutto con la spirale guerra-terrorismo. Gli immigrati di terza generazione nelle metropoli europee più sedotti da Allah e dalla jihad che dall'integrazione e dalla democrazia non sono degli alieni ma degli specchi, che ci rimandano la crisi dell'universalismo, della libertà, dell'uguaglianza e di tutte le altre parole d'ordine della modernità politica e dell'individuo politico moderno di cui noi occidentali siamo gli artefici. Prima le passiamo criticamente al setaccio, prima riacquisteranno un senso in primo luogo per noi stessi.
Il Tar Lazio ha respinto i ricorsi del Civ (consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inpdap) e dei consigli di amministrazione degli enti (Inail-Inpdap-Inps) che si sono visti requisire le sedi degli uffici dal governo, conferite al Fip, fondo immobili pubblici appositamente costituito. La prossima tappa di questa partita sulla finanza creativa sarà il Consiglio di Stato.
La “questione immorale” è una miscela esplosiva fatta di svendita del patrimonio pubblico, senza regole e senza certezze, di rendita parassitaria che comprime tutti i settori produttivi del Paese, di azzeramento della legalità, di difesa degli interessi di chi governa, di tolleranza all'assalto alla ricchezza e ai beni del paese, di collusioni negli affari e nella politica con le organizzazioni mafiose. D’altronde, gli incensurati di questi tempi non se la passano bene. Chi delinque o l’ha fatto prima, ha le porte aperte e gode dell'apprezzamento o quanto meno della comprensione di parti significative delle classi dirigenti, nella accezione più estesa.
Il Paese è in vendita. Si vende tutto: case di abitazione, sedi degli enti, e forse domani del governo e del parlamento, caserme e forti, scali e stazioni ferroviarie, terreni del demanio, spiagge. Ma nel turbinio di operazioni illusionistiche di finanza creativa, quelle che riguardano lo Stato sono fittizie e virtuali, mentre quelle che riguardano i privati sono vere e remunerative. Lo Stato ha creato società e le ha chiuse; ha comprato beni che erano suoi e li ha venduti a se stesso. Come qualsiasi faccendiere d'assalto che opera nei paradisi fiscali, ha creato un sistema di finanza pubblica sanzionata da tutti gli organismi internazionali. Tremonti, principe della finanza creativa, per la quale ha un'attrazione erotica, ha presentato il piano di svendita come «la più grande operazione di cartolarizzazione di uno stato sovrano e la più grande emissione di Abs (asset- backed securities) mai realizzata in Europa». Così è nato «Lo Stivale di carta», titolo di un libro, autori i giornalisti Giuseppina Paterniti e Angelo Fodde (Editori Riuniti), ben documentato. A proposito delle cartolarizzazioni versione Berlusconi-Tremonti prendiamo le vicende di Scip 1 e Scip 2, le società inventate e incaricate di condurre in porto le vendite del patrimonio pubblico. La Scip 1 nasce il 23 Novembre 2001, subito dopo l’annuncio di Tremonti in diretta tv sul presunto buco lasciato dal centro sinistra. Nell’atto di nascita è scritto che la società ha come oggetto esclusivo «la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici». Il capitale sociale della srl, che in quanto tale non è soggetta a controlli, è di 10.000 euro, una inezia, anche se la società deve vendere e gestire 27500 unità residenziali e 262 immobili non residenziali. Il meccanismo è noto: la società anticipa al governo una parte del denaro previsto che si fa dare dalle banche le quali guadagnano interessi e commissioni o ricava dai titoli, bond, messi sul mercato sperando che i cittadini li comprino. Nel 2002, nasce la Scip 2, anche perché le cose non hanno funzionato bene e con la rapidità prevista per fare fronte ai buchi di bilancio. L’operazione di vendita programmata è davvero imponente: 62500 immobili tra case, uffici, negozi, terreni dello Stato e di tutti gli enti (Enpals, Inail, Inps, Inpdap, Ipost, Ipsema), valore complessivo 9639 di euro.
Lo Stato vende se stesso. Ma non tutto è chiaro e trasparente. La composizione del capitale sociale della Scip è al 50% di due fondazioni olandesi (Stichting Thesaurus e Stichting Palatium) con sede ad Amsterdam, le quali partecipano al capitale con la somma di 5000 euro. Amministratore unico delle due fondazioni olandesi è un “trust fund” di Amsterdam che ha creato le due fondazioni 18 giorni prima che la Scip nascesse e cioè il 5 Novembre del 2001 («Lo Stivale di carta»). I due autori del libro raccontano di essere andati alla ricerca della sede della Scip ma non hanno trovato nemmeno una targa. Sul palazzo campeggiava la targa di Kpmg, nota società finanziaria multinazionale che amministra il programma di cartolarizzazione, funge da consulente e, naturalmente, viene pagata. L'amministratore delegato della Scip è un certo Burrows Gordon, cittadino inglese, nominato per tre mandati. Solo che quando un gruppo di inquilini che vogliono comprare gli appartamenti dove abitano, vuole chiarimenti, in perfetto stile anglosassone, risponde di rivolgersi direttamente al ministero dell’Economia. Il perché di queste scelte per una operazione di vendita del patrimonio pubblico del nostro Paese, nessuno lo sa. Nemmeno il Parlamento che dovrebbe essere informato dal ministro ogni sei mesi e che invece rimane all'oscuro di tutto. Ma una cosa è certa. Mentre gli immobiliaristi sono riusciti a comprare un pezzo del Paese con il 35% di sconto sui prezzi iniziali, lo Stato ha incassato di meno, le spese per commissioni di collocamento dei titoli, consulenze legali, pagamento degli amministratori ecc sono state di 744 mila euro e quelle necessarie per concludere il contratto con alcune banche estere a copertura del rischio di tasso sono state di 2'5 milioni di euro. Il patrimonio del bel paese, nel solo primo anno di vita della Scip, ha arricchito un sacco di persone che abitano altrove.
Quanto alla vertenza in corso con gli Enti, decisa con la sentenza del Tar Lazio, le imposizioni sembrano una rapina. Infatti, Inail, Inps, Inpdap sono costretti a vendere le sedi, a riaffittarle con un enorme esborso di denaro e come se non bastasse rimangono responsabili della gestione e della manutenzione delle stesse. Cose mai viste nemmeno nel peggiore dei regimi.
La vendita del patrimonio dei beni culturali e degli ospedali al prossimo articolo. Vedremo come anche la famiglia Bush si è data da fare.
DICO subito, per la chiarezza che debbo ai nostri lettori, che il caso Rutelli-Margherita sarà uno dei punti di questa mia predica domenicale (così la definiscono molti miei amici e moltissimi dei miei critici). Uno dei punti ma non il solo e comunque inserito in un contesto che finora è stato trascurato.
Alcuni grandi giornali europei, il Financial Times, l´Economist, hanno definito il nostro paese come il grande ammalato d´Europa e Ezio Mauro ha molto opportunamente fatto nostra quella definizione. La quale si fonda sull´insufficienza della nostra economia reale (che datano da molti anni) e della nostra economia finanziaria (che era stata provvidamente risanata negli anni tra il 1992 e il 2000 e che è stata di nuovo e ancor più profondamente dilapidata nei quattro anni del fantasismo berlusconiano.
Ma il dissesto economico-finanziario è solo uno degli aspetti del malanno italiano. Esso va collocato all´interno di un quadro e di una cornice che danno il tono all´insieme e interagiscono con l´insieme, ne rappresentano la causa prima e al tempo stesso l´effetto più rilevante.
La disgregazione: questo è l´elemento di fondo della crisi italiana. Una disgregazione presente in tutti gli aspetti della vita pubblica, politici, culturali, economici, sociali. Una disgregazione da 8 settembre, contrastata soltanto da poche forze e da pochissime personalità, come avvenne appunto nell´Italia del dopo 8 settembre.
La disgregazione d´un corpo sociale è una malattia di lenta incubazione, che lavora sottotraccia, corrompe e divora i tessuti, alla fine esplode e si manifesta con tutta la sua virulenza. Noi speriamo che ora, di fronte a quella virulenza, gli anticorpi e le difese immunitarie si mettano al lavoro. Noi speriamo che ne abbiano ancora il modo e il tempo, non sembri inutile retorica se ricordo, come del resto ho fatto altre volte, che se c´è un uomo che in questi anni disgregati e disgreganti ha fatto il possibile e l´impossibile per contrapporre coesione e cura del bene comune, quest´uomo è stato Carlo Azeglio Ciampi, che ha iniziato l´altro giorno l´ultimo anno del suo settennato. Non può dunque che esser lui il nostro punto di riferimento.
Non è un punto di riferimento neutrale né tanto meno banale. Operare per la coesione del bene comune in un mondo dominato dall´egoismo, dalla visibilità propria a danno di quella altrui, dall´amor proprio contro l´amore per gli altri, non è neutrale né banale. È, al contrario, l´essenza della laicità responsabile e del cristianesimo testimoniato dal Vangelo. Purtroppo sia l´una che l´altro sono stati abbandonati da gran parte dei loro sedicenti seguaci in una società che si sfascia come una zattera fragile in mezzo a un mare tempestoso.
In questo contesto si colloca il caso Rutelli- Margherita: il rischio è compromettere il cambiamento nella guida del Paese
Il dissesto economico è solo uno degli aspetti del malanno italiano: l´elemento di fondo è la disgregazione di tutta la vita pubblica
Uno degli esempi più recenti e più visibili della disgregazione nazionale si è visto all´opera nelle elezioni al comune di Catania. Se è vero che il linguaggio è la manifestazione di una persona e del suo pensiero, si fa fatica a comprendere il fatto che il 52 per cento dei catanesi si sia riconosciuto nel riconfermato sindaco di quella città. Il linguaggio di quel medico prestato alla politica è scurrile, i suoi lazzi sono quelli delle taverne, ma non è questo l´aspetto più disgregante. Per vincere la sfida quel sindaco rivendica la sua abilità ad aver ottenuto una massa di risorse destinate alla Sicilia e concentrate nel capoluogo occidentale dell´isola con la benevola complicità del ministro di un ministero che ha per nome la "coesione del territorio". Denominazione quanto mai fantasiosa ma comunque stringente, tradita dal fatto d´aver funzionato come una pompa idrovora per irrorare una campagna elettorale altrimenti rischiosa e forse perdente.
Il centrodestra ha vinto a Catania? Neppure questo è interamente vero.
A Catania hanno vinto i sicilianisti di Lombardo con il 20 per cento dei consensi, riducendo Forza Italia dal 26 al 14 per cento, l´Udc dal 9 al 4, Alleanza nazionale dall´8,7 al 7,8. Se a questo si aggiunge che il voto di An è stato in gran parte ottenuto dal co-sindaco Musumeci, anch´egli in aperto distacco dal suo partito, si deve concludere cifre alla mano che le liste locali hanno ottenuto un quinto dei voti espressi e il 50 per cento della maggioranza su cui si regge lo Scapagnini riconfermato.
Non ci sarebbe nulla di preoccupante nella vittoria di liste locali se non fosse che i loro leader hanno dato alla vittoria un significato politico che va molto al di là di Catania. Quelle liste rappresentano infatti il nucleo germinale di una Lega sicilianista che dovrà propagarsi in tutta l´isola e comportarsi politicamente secondo il modello della Lega padana, condizionando l´azione del governo nazionale così come la Lega padana ha fatto in questi quattro anni.
Gli esponenti della Lega padana dal canto loro non sono stati affatto allarmati da questa possibile contrapposizione, anzi se ne sono dimostrati entusiasti. Il ministro delle Riforme, Calderoli, ha già in programma un viaggio in Sicilia per meglio erudire i nuovi compagni di strada. Come togliere il potere a Roma-ladrona, agendo a tenaglia dal Nord e dal Sud: questo è il programma, che si materializzerà in un "arraffa-arraffa" delle risorse disponibili. Ma quali risorse? Quelle esistenti non bastano a soddisfare gli appetiti perché qui non si parla di piani di sviluppo coerenti che abbiano il Mezzogiorno come tema di politica nazionale, bensì di regalie che rafforzino ed estendano clientele e centri di potere locali.
L´alleanza tra clientele di questa natura non può avvenire che con l´obiettivo di rompere le compatibilità economiche e finanziarie del sistema Italia e portarle fuori dai confini dell´Unione europea. Se le Leghe locali, al Nord e al Sud, dovessero essere il modello vincente, la nuova sovrastruttura politica e istituzionale del Paese, la sottostante struttura sarebbe fondata su clientele e "bande cammellate" politicamente nomadi, tallonate e infiltrabili da poteri extra-statuali storicamente presenti in forza in quelle società. La localizzazione della politica denuncia una tragica debolezza dei partiti nazionali e delle istituzioni centrali e locali.
Disgrega un tessuto, non lo articola; consegna i cittadini al dominio delle classi dirigenti locali; moltiplica le leggi e differenzia gli ordinamenti, gli statuti, i servizi pubblici, le retribuzioni e i diritti dei lavoratori.
Le nuove Leghe saranno federate al partito nazionale berlusconiano. Infatti Berlusconi non è affatto preoccupato da queste prospettive. Sarà pur sempre lui il punto di riferimento centrale, il protettore del sistema delle clientele. Leggete sul Giornale di venerdì scorso l´intervista del neoministro Miccichè. Lì è tutto spiegato con una chiarezza che fa paura: l´Italia delle Leghe, alias delle clientele, federate col potere centrale. Per questo ci vuole un partito unico, perché le Leghe non possono convivere con più partiti. Il sistema non è né moderno né postmoderno, ma semplicemente e regressivamente feudale. Un re e uno stuolo di vassalli e di valvassori; i titolari dei feudi sono padroni in casa propria, il re ne riceve l´omaggio e la fedeltà, l´ospitalità nei castelli, l´investitura a regnare e assume in contropartita l´impegno di difendere le prerogative feudali e il sistema che le legittima.
Lo slogan di partenza (ricordate?) fu "meno Stato, più mercato"; lo slogan di arrivo è diventato "niente Stato, niente mercato".
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Un altro esempio, altrettanto recente e altrettanto significativo, di disgregazione emerge dalle vicende dello scontro attorno ad alcuni istituti bancari. Due istituti di credito europei, valendosi delle regole di mercato vigenti in Europa, hanno tentato di acquisire il controllo di banche italiane.
La Banca d´Italia ha cercato di ostacolarle opponendo ogni specie di difficoltà e incoraggiando cordate italiane di difesa.
La qualità, la trasparenza, la solvibilità di tali cordate è estremamente dubbia, al punto che gran parte di coloro che vi partecipano si trovano in questo momento sotto istruttoria giudiziaria per reati che vanno dalla truffa all´insider trading, all´aggiotaggio, alla turbativa di mercato.
Anche qui si acconcia la definizione di "bande cammellate": gruppi di interesse finanziari e palazzinari all´assalto del sistema bancario, banche d´avventura che finanziano i propri azionisti prendendone a riporto i titoli. Sono gli stessi ovunque e gli stessi che ora cingono d´assedio il Corriere della Sera, che già fu vittima appena vent´anni fa del padronaggio della P2.
Non siamo anche qui in presenza d´una disgregazione di forze che nulla ha a che fare con l´emergere di energie nuove e propulsive, bensì con il peggiore affarismo pronto a legarsi con chiunque gli apra varchi e gli offra legittimazione? Asservendo, se gli riuscirà, uno strumento di comunicazione prezioso per poter manipolare i fatti, gli interessi, le immagini, e infine la verità?
Abbiamo purtroppo numerose esperienze di fatti del genere, ma qui la disgregazione del sistema creditizio avviene su un corpo fragile e in un contesto dove gli organi di controllo e le autorità di garanzia periclitano ogni giorno di più. All´erta sentinella! Ma le sentinelle sono ormai poche e molto assonnate.
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Purtroppo è questo il contesto nel quale si pone il caso Rutelli-Margherita. Appassiona il ceto politico, sconcerta gli elettori del centrosinistra, rischia, eccome, di capovolgere la tendenza che sembrava aver guadagnato terreno ad un cambiamento politico alla guida del Paese.
Il racconto e il commento a quanto è accaduto tre giorni fa all´interno del partito di Rutelli, di Marini, di De Mita, sono già stati scritti su questo giornale e ad essi mi resta ben poco da aggiungere né voglio addentrarmi nella ricerca delle intenzioni dei protagonisti. Posso soltanto ordinare i fatti, la loro sequenza, il segno oggettivo che ne deriva, magari a dispetto delle imperscrutabili intenzioni di chi lo ha promosso.
1. L´80 per cento della Margherita ha "sovranamente" deciso che alle prossime elezioni politiche (tra un anno) quel partito presenterà una sua lista con il suo proprio simbolo per la quota proporzionale prevista dalla legge elettorale.
2. La conseguenza tecnica di questa decisione sarà la scomparsa dalle schede elettorali del simbolo dell´Ulivo, del quale nessuna altra lista potrà avvalersi essendo quel simbolo di proprietà comune dei suoi fondatori tra i quali c´è la stessa Margherita. Altri potrebbero usarlo ma soltanto se la Margherita gliene desse il permesso: ipotesi che possiamo escludere con certezza.
3. Rutelli, Marini, De Mita e i loro sodali hanno confermato la loro fiducia nella Federazione dei partiti riformisti, già fondata e già munita di organi e regole, nella leadership di Romano Prodi, nella coalizione dell´Unione che va da Mastella a Bertinotti.
4. La Margherita si autonomizza elettoralmente per intercettare i voti moderati in uscita dalla Casa delle libertà. Si autonomizza altresì perché la lista unitaria della Federazione, voluta da Prodi, segnerebbe una subordinazione del partito Margherita ai Ds, dati i rapporti di forza esistenti.
5. Rutelli, Marini, De Mita, hanno lanciato contro i medesimi Ds accuse di slealtà e di complessi egemonici di natura leninista, con un´asprezza di linguaggio del tutto inusuale tra forze alleate.
6. De Mita ha anche proposto nel suo intervento che il partito si schieri per l´astensione dal voto nel prossimo referendum sulla procreazione assistita, zittendo pubblicamente e ruvidamente una donna partecipante all´assemblea perché – «in quanto donna» – non aveva la capacità di discutere su questioni serie e gravi.
7. Prodi, commentando da lontano le decisioni della Margherita, le ha definite «un suicidio». Non ha però precisato chi si è suicidato o chi è stato suicidato. Ha anche aggiunto che non è disponibile a guidare «un governicchio» composto da partiti rissosi e preoccupati principalmente di accrescere la propria visibilità a danno dell´intera alleanza.
8. In seguito a queste decisioni non si capisce dove potranno collocarsi i partiti minori (socialisti, Udeur, Verdi, Comunisti italiani, Di Pietro) i quali rischiano di non raggiungere la soglia minima prevista dalla legge elettorale, con la conseguenza di scomparire e di rendere inutili i voti da loro raccolti, con grave perdita per tutta l´Unione.
9. I Ds finora hanno emesso un comunicato di "preoccupazione" e aspettano il rientro in Italia di Prodi.
10. Rifondazione comunista, anche in seguito a questi fatti, sembra aver accresciuto la propria immagine di sinistra radicale, scatenando nella città-vetrina di Bologna un´offensiva contro il sindaco Cofferati, reo di "riformismo legalitario" anziché "riformismo movimentista".
Tutta la sequenza che ho qui sintetizzato senza discostarmi dai fatti oggettivi e non contestabili, si iscrive a mio avviso nel quadro della disgregazione. Tutto ciò che era stato con estrema fatica aggregato, soprattutto a opera di Piero Fassino, è stato ora disgregato. Non solo dalle decisioni prese ma ancor più dall´asprezza delle invettive e dalla rivendicazione d´una sovranità di partito che fa a pugni con l´esistenza d´una Federazione creata proprio per limitare la sovranità dei singoli partiti all´insegna di un disegno comune.
Se la Federazione doveva essere l´anima del riformismo e la lista "Uniti per l´Ulivo" il suo corpo visibile; se il corpo è stato ormai seppellito; è difficile capire dove possa esser finita l´animula tremula vagula. Oppure sia il corpo sia l´anima sono ora trasmigrati nella Margherita e in essa soltanto? O sono stati relegati in un limbo dove resteranno in perpetuo?
Queste sono le mie modeste domande di cittadino elettore (non so più per chi). Del cittadino elettore c´è qualcuno che si occupi? La sua rabbia e la sua frustrazione dopo questi deplorevoli accadimenti interessa a qualcuno? Rutelli, con bella eloquenza, ha detto che per tre anni ha mangiato pane e cicoria. È già stata una chance, visto che usciva da una sconfitta elettorale dopo la quale di solito i leader si ritirano dalla gara. Comunque non è certo il solo ad aver mangiato pane e cicoria. La vittoria alle regionali ha molti padri. Politici e anche non politici. Rutelli è certamente uno di loro. Forse anche Marini. Forse anche De Mita. Sicuramente non loro soltanto.
Prodi no? Ha mangiato pane e cioccolata? A me non sembra.
Quanto a me – se interessa – sono a dieta per ragioni terapeutiche. Non di salute ma di igiene mentale. E mi ci trovo benissimo e in ottima anche se piccola compagnia.
ALL'INIZIO sembrava un rebus. Non si capiva perché Follini volesse ritirarsi dal governo insieme a tutti i suoi ministri e sottosegretari. Non si capiva, al di là delle oscure motivazioni ufficiali, quale fosse il vero obiettivo di questa manovra da Prima Repubblica: un nuovo programma? Un nuovo governo dove la Lega contasse di meno e i centristi di più? Il logoramento a fuoco lento di Berlusconi? Le elezioni politiche immediate? E non si capiva perché mai Fini, che per primo aveva preso iniziative “revisionistiche” dopo la batosta elettorale delle regionali, da un certo momento in poi avesse lasciato Follini in mezzo al guado restando indifferente alle peripezie del suo alleato.
Poi il rebus assunse l'aspetto di un'operetta. Trascinato dall'empito vendicatorio di Storace e dal desiderio antico del camerata Alemanno di soppiantarlo nella guida del partito, Fini preannunciò anche lui il ritiro di se stesso e dei ministri dal governo se....
Quel “se” conteneva le stesse ingiunzioni elencate da Follini: nuovo governo, nuovo programma, sospensione della “devolution”, estromissione di Calderoli da ministro delle Riforme, nuova politica economica concentrata su imprese, famiglie e Mezzogiorno, fine della catastrofica strategia di riduzione dell'Irpef.
Nella tenaglia Fini-Follini Berlusconi tentò di giocare d'anticipo: si presentò da Ciampi per dimettersi ma strada facendo cambiò idea: non si dimise affatto, uscì da quell'incontro facendo marameo ai suoi (ex) alleati sfidandoli a negargli la fiducia, forte del conforto di Bossi. Ma poi, dopo averci dormito sopra e temendo il peggio, si pentì del voltafaccia della mattina e ritornò all'idea di accettare la crisi formale. La grandissima e inutile buffonata della crisi formale, come disse in Senato preannunciando le dimissioni che infatti dette mezz'ora dopo.
Un'operetta - dicevo - di cattiva musica suonata e cantata da attori scadenti. Passarono altre ventiquattr'ore e arrivò il giovedì.
La mattina di quel giorno il “premier” dimissionario ottenne da Ciampi il reincarico per formare il nuovo governo. Studia il programma secondo le linee richieste dagli (ex) alleati. Studia la struttura del nuovo ministero. Si mormora di novità importanti, di new entry clamorose. Venerdì sera finalmente il presidente del Consiglio è pronto per l'incontro con il capo dello Stato nella Sala della vetrata. Con in tasca la lista del suo terzo ministero.
A questo punto l'operetta diventa una comica. Ciampi lo accoglie con un impercettibile sorriso (o almeno così racconterà poi il Berlusconi furioso) e gli chiede subito se tra i nuovi ministri ci sia anche l'ex governatore del Lazio, Francesco Storace, battuto pochi giorni prima dal signor “Mi manda Raitre”. Affermativo, risponde il “premier”: alla Sanità.
Hai riflettuto bene sulle ripercussioni di questa nomina? Quali ripercussioni? chiede Berlusconi che comincia a fiutare puzza di bruciato. E Ciampi lo informa d'aver ricevuto pochi minuti prima una telefonata autorevole che lo avverte del profondo malcontento dentro Alleanza nazionale per una nomina così indigesta alla maggioranza del partito. “Almeno metà dei parlamentari di An non darà la fiducia al governo” prevede l'autorevole informatore del presidente della Repubblica. Ma chi è? sbotta Berlusconi.
Maurizio Gasparri, risponde Ciampi, e insiste: “Riflettici, consultati, non avere fretta”.
Ora la comica si fa serrata. Berlusconi ritorna nel suo ufficio e convoca Fini. Lo informa di quanto ha saputo.
Fini trasecola. Convoca Gasparri. Lo ricopre di contumelie e poi lo butta fuori dall'ufficio. Torna da Berlusconi e gli propone di cancellare il nome di Gasparri dalla lista dei ministri. Cercano insieme chi possa prenderne il posto.
Provano con La Russa. Mi piacerebbe, risponde il D'Artagnan dei poveri, ma non posso fare uno sgarbo a Maurizio. Allora Landolfi. Il quale accetta.
Tutto a posto? Non ancora. Berlusconi si sente ora più forte di fronte alla figuraccia del ministro degli Esteri.
Gli comunica d'aver deciso l'ingresso di Tremonti come vicepresidente del Consiglio al posto di Follini che per propria scelta resta fuori dal ministero.
Fini oppone una timida resistenza ma capisce che ormai la sua forza negoziale è ridotta a zero, con un partito diviso e disfatto.
Il “premier” taglia corto. Sabato mattina al tocco ritorna al Quirinale. Le “new entry” oltre a Tremonti sono quelle di Giorgio La Malfa e del socialista Caldoro, riesumato dalle catacombe del centrosinistra Prima Repubblica. E Micciché, per il quale viene inventato un ministero chiamato “Sviluppo e coesione territoriale”. Fantastico.
Spara il cannone dal Gianicolo. L'ufficio stampa dell'Udc diffonde un comunicato per annunciare che il partito valuterà in Parlamento se il programma e la struttura del governo meriteranno la fiducia oppure no. Il ministro leghista Maroni, dal canto suo, dichiara che con il ritorno di Tremonti nel governo la Lega passa da tre ministri a tre e mezzo. Altro che liquidazione dell'asse nordista.
La comica per ora termina qui. Martedì alla Camera si vota la fiducia.
Oppure no?
* * *
Questo Paese si merita pagliacciate di questo infimo livello in un momento in cui incertezza e preoccupazione per il futuro sono al loro massimo e problemi gravi incombono non solo su di noi ma sull'Europa e sul mondo intero? Sarebbe diplomatico rispondere no, il Paese non merita uno spettacolo così avvilente. Ma la verità non è questa. La verità, per sgradita che sia, è che ogni paese ha la classe dirigente che si merita. La maggioranza degli italiani credette nel maggio del 2001 alle cervellotiche e miracolistiche ricette di un Dulcamara da strapazzo e affidò il potere a lui e ad una banda di dilettanti.
Dilettanti per imperizia a guidare lo Stato, ma fior di professionisti nel calcolare, difendere e amministrare i propri interessi usando a tal fine le pubbliche istituzioni.
Questa accolita discende direttamente da Tangentopoli, è costola e figlia di Tangentopoli. Le sue radici sono cresciute in quell'humus e hanno tratto alimento da quel concime. I frutti si vedono: un disastro morale, un collasso economico, un mucchio di rovine politiche e istituzionali.
Questo governo bis è nato col forcipe e ne mostra tutti i segni e le malformazioni. Sarà seppellito dalle risse interne e dalla disistima internazionale. Arrecherà all'Italia danni ulteriori e ulteriore disdoro.
Per rilanciare l'economia dovrebbe chiedere sacrifici severi ai ceti più abbienti e snidare il “sommerso” con pugno di ferro. Ma chi parla più del “sommerso”?
Ricordate? Doveva essere uno dei grandi temi del nuovo miracolo. L'Italia ha un vantaggio sui concorrenti: un quarto della sua economia sfugge ai controlli, alle regole sindacali, al fisco. E' come avere una piccola Cina in casa. E' il nostro tesoro nascosto e la riserva per quando finalmente emergerà.
C'era soltanto follia e predisposizione al malaffare in questo ragionamento. La Cina non ha un'economia sommersa; alla luce del sole le sue aziende operano con costi bassissimi nei settori produttivi di scarso valore aggiunto, ma con costi di mercato nelle tecnologie avanzate e avanzatissime.
Noi siamo inesistenti nei settori avanzati. Tra poco lo saremo anche nella grande industria matura. Ma nelle produzioni tradizionali con basso valore aggiunto neppure il nostro sommerso regge alla concorrenza asiatica. Nel frattempo, negli ultimi quattro anni la nostra economia che lavora in nero è passata da un quarto ad un terzo del totale. Si può andare avanti così? Consumi fermi, investimenti fermi, esportazioni in discesa.
Il cavallo non beve. Lo credo: è un cavallo moribondo. Ci vorrebbe un'alimentazione forzosa.
Secondo i calcoli più attendibili le dimensioni della manovra destinata a rimettere il sistema in moto ad un ritmo accettabile ammontano a 35 miliardi di euro, 47 miliardi di dollari, 70 mila miliardi di vecchie lire.
Chi glieli darà a Siniscalco? Dove pensa di prenderli? Bisognerebbe tassare severamente i patrimoni, quelli immobiliari e quelli mobiliari. Infatti hanno già cominciato a farlo alla chetichella, sperando che la gente non se accorga. Ma ben presto la gente se ne accorgerà.
Una manovra da 35 miliardi di euro l'Italia non se la può permettere dopo quattro anni di dissipazioni mascherate a colpi di condoni.
Siniscalco pensa infatti ad una manovra dimezzata, da 18 miliardi di euro.
Ma anche questa non sarà indolore e probabilmente servirà a ben poco. Non potrà essere totalmente espansiva con un debito pubblico al 106 per cento del Pil. Diciamo che sarà espansiva per 6 miliardi e restrittiva per 12. Con un saldo netto deflazionistico e tassi sul debito in aumento.
No, non è un bel periodo quello che ci aspetta. Meglio sarebbe stato chiudere subito la partita, prima che degradi in una rissa tra piccoli uomini sulla pelle del Paese.
Richiedeva coraggio e dedizione allo Stato e ai cittadini.
Ma uomini di questa fatta non si trovano più da un pezzo nella destra italiana che perciò è destinata ad andare a fondo. La speranza è che non ci si porti dietro.
MOLTE esternazioni si sono lette e ascoltate dopo il voto del Senato sulla riforma costituzionale. Da destra, da sinistra, dal centro nelle sue varie declinazioni. Bossi ha pianto di gioia. Prodi ha chiamato il Paese alle armi (politiche). Fini e soprattutto Follini hanno votato turandosi il naso. Tutti gli altri compari inneggiano.
Ma l’esternazione più significante è quella venuta dal nostro "premier": «Non capisco perché Prodi si lamenta. Se fosse sicuro di vincere le elezioni del 2006 dovrebbe rallegrarsi perché io gli ho preparato un premierato fortissimo. Se se ne lamenta è segno che è sicuro di perdere».
Sembra una barzelletta, invece non lo è. E’ la quintessenza del pensiero berlusconiano. Anzi dell’antropologia berlusconiana. L’uomo berlusconiano è uno che naviga a vista e punta sui risultati immediati. Produrre valore, subito. Mungere la vacca, subito. Far passare una legge, subito, per decreto o con maxi-emendamento blindato dalla fiducia. Trovare i soldi che mancano all’erario, subito, con condoni e prestiti finanziari contratti il 30 dicembre e rimborsati il 2 gennaio. Si chiama finanza creativa e serve ad imbellettare il bilancio per tre giorni su 365.
L’uomo berlusconiano privilegia gli effetti di annuncio.
L’annuncio infatti produce effetti immediati. Purtroppo durano poco se non sono corroborati dai fatti successivi.
E’ un guaio, ma si può scongiurare lanciando un secondo annuncio e poi un terzo, un quarto, un quinto, all’infinito. Un annuncio sorregge il precedente e prepara il successivo. Un castello di carte tenuto insieme con lo scotch, dentro il quale c’è il vuoto. Sta in piedi fino a quando i destinatari scoprono quel niente che c’è dentro.
Allora e soltanto allora la gente smette di credere agli annunci e all’euforia subentra il disincanto.
Così è stato per la riduzione delle imposte, per i cantieri non-aperti, per i reati non diminuiti, per i militari in Iraq non ritirati e tantomeno ritirabili, per la ripresa economica sempre annunciata e mai cominciata.
Il nocciolo della riforma costituzionale è, come ha detto Prodi, la dittatura della maggioranza e quella del "premier". Quindi, se Prodi spera di vincere le elezioni sarà lui il dittatore. E non è contento? Che cosa c’è di meglio che avere poteri dittatoriali? Che un galantuomo democratico si rifiuti di prenderne possesso e di usarli a sua discrezione è un paradosso inconcepibile e incomprensibile per l’uomo berlusconiano. Per il democratico berlusconiano, per il liberale berlusconiano.
Per il liberista berlusconiano. È la bulimia del potere. Il fascino del monopolio. Tutto il resto sono chiacchiere, demagogia, populismo. Fuffa.
* * *
Dittatura della maggioranza è ben detto. Sappiamo che ne parlava anche Tocqueville come di un "monstrum" devastante di ogni sistema basato sull’equilibrio e sulla separazione dei poteri. In sostanza, l’opposto di uno Stato di diritto.
Su questo punto Rousseau diventò la bestia nera di tutto il liberalismo e il costituzionalismo successivi.
Personalmente credo che il pensiero di Rousseau sia stato molto frainteso, ma questo non c’entra con il nostro discorso. Sta di fatto che la dittatura della maggioranza è l’anticamera del regime totalitario. Serve ad abbassare tutti gli altri poteri e ridurli ad uno. L’esempio più eloquente di questo tipo di regime fu la Convenzione del 1792 in Francia, che accentrò nell’assemblea il potere legislativo. Esecutivo e financo giudiziario. Erano tempi di rivoluzione ma non per questo meno nefasti per la libertà.
Tuttavia - per tornare ai casi nostri - il nocciolo della riforma berlusconiana contrattata con Bossi in contropartita con la devoluzione, sta nella dittatura del "premier" sulla sua maggioranza. Questo è il cuore della questione e ciò che rende inaccettabile l’impianto complessivo della riforma.
La maggioranza parlamentare, in realtà, non conta nulla perché è soltanto la protesi del "premier" eletto a suffragio diretto dal corpo elettorale nello stesso momento in cui si votano i membri della Camera.
Non è la maggioranza uscita dalle urne ad avere in mano il "premier" uscito anche lui da quelle stesse urne, ma è per l’appunto il "premier" ad avere in mano la maggioranza. Perché può scioglierla quando vuole, rimandarla a casa quando vuole, promuovere una nuova votazione quando vuole.
Questo premier dispone di mezzi finanziari propri imponenti e di mezzi di comunicazione altrettanto imponenti. Dispone quindi di un potere esorbitante che non è solo quello, pur abnorme, scritto nella riforma costituzionale, ma suo proprio; un potere privato che dispone di strumenti persuasivi di ogni genere, capaci di contrarre alleanze, comprare o ripartire favori, corrompere corpi e anime, manipolare il consenso. Insomma instaurare e blindare quello che Umberto Eco ha definito un regime populista-mediatico, già in fase di avanzata costruzione.
La riforma approvata dalle Camere, in prima lettura rappresenta il tocco finale di quella costruzione. Quando sarà stata approvata anche in seconda lettura e confermata dal referendum previsto dalla Costituzione, il regime sarà pienamente operante.
Giulio Andreotti, che ha votato contro la riforma, ha ricordato con l’aria svagata che assume tutte le volte che vuole dire cose importanti, che la riforma votata dal Senato il 23 marzo coincide con la data in cui, nel 1919, fu fondato a Milano in piazza San Sepolcro il «Fascio di combattimento».
E’ una coincidenza casuale ma degna di attenzione. Non perché il 23 marzo del 2005 si siano messe le premesse della rinascita del fascismo. Chi pensa questo commette una sciocchezza. Ma è vero che il 23 marzo del 2005 si è fatto un decisivo passo avanti nella costruzione di un regime populista-mediatico imperniato su Silvio Berlusconi e blindato dal patrimonio privato e dalle proprietà televisive di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, leader di Forza Italia e della Casa delle libertà nonché concessionario dello Stato per le frequenze televisive via etere e dell’accesso privilegiato al digitale terrestre sulla base della legge Gasparri, titolare del potere di nomina del presidente della Rai e del potere di nomina del presidente dell’Autorità delle comunicazioni.
Tutto questo è in gran parte già avvenuto sotto gli occhi plaudenti o distratti della maggioranza degli italiani. Disse Indro Montanelli pochi giorni prima delle elezioni del 2001: lasciamolo governare, così gli italiani sperimenteranno sulla loro pelle chi è Berlusconi e ne usciranno vaccinati per sempre.
Più o meno le stesse parole (se l’accostamento non è offensivo) disse la brava Iva Zanicchi, vecchia cantante della Rai e neofita della causa berlusconiana. Indro aveva calcolato male il rischio (la Zanicchi invece, dal suo punto di vista, l’aveva calcolato meglio di lui). Non aveva messo in conto, Indro, gli strumenti potentemente persuasivi in tutti i sensi e in tutte le direzioni del regime populista-mediatico. Che rende dunque incerto l’esito delle elezioni 2006 e anche delle regionali di domenica prossima.
Domenica prossima si disputa una competizione della massima importanza per il futuro del paese. Non ancora decisiva. Se il centrosinistra vincerà, avrà migliori chance per vincere nel 2006; se non vincerà il percorso successivo sarà tutto in salita perché il potere populista - mediatico non perdona. E’ uno schiacciasassi da incubo. E per vincere non basta la Calabria o l’Abruzzo. Ci vuole altro e di più.
* * *
La posta in gioco è molto più alta delle volte precedenti.
Non voglio dire che sia l’ultima "manche" perché per fortuna la storia non finisce; ma certo se il centrosinistra dovesse perdere, dei suoi partiti, dei suoi gruppi dirigenti e anche d’una buona parte dei suoi elettori rimarrebbero ben poche tracce. Qualche sparuto manipolo di ostinati, privi di peso reale.
Un fastidio in meno per il regime populista-mediatico.
L’eventuale resistenza della Chiesa? E perché mai? Dopo Wojtyla ci sarà forse un po’ di sessuofobia in meno, ma non scommetterei un soldo sugli eminentissimi Sodano, Ratzinger, Ruini come difensori dei diritti civili e della democrazia. Del resto non è compito loro anche se, quando gli conviene, se ne arrogano indebitamente la competenza.
Ancor meno farei conto sugli alleati del titolare della ditta. Bossi ha già ottenuto il marchesato padano e se lo terrà ben stretto. Fini e Follini? C’è posto per tutti, se hanno abbozzato finora è segno che sono di stomaco forte.
Potrebbero ancora votare "no" alla legge in seconda lettura ma do quest’ipotesi a uno contro un milione. Il massimo che faranno sarà di concedere benignamente ai propri elettori la libertà di coscienza nel voto sul referendum confermativo quando si farà, sempre che si faccia.
Tutto questo se il centrodestra dovesse vincere nelle elezioni del 2006. Ma se dovesse invece perdere?
Ebbene, scomparirà e loro lo sanno. Se le tracce di un centrosinistra sconfitto saranno molto labili, quelle della Casa delle libertà non esisteranno più fin dal giorno stesso della perdita del potere perché il potere è l’unico cemento che li tiene insieme. Ci ricorderemo ancora di Bondi, Cicchitto, Schifani, Vito, Galan, Marzano, Tremonti, Urbani, Onofrio e compagni?
Berlusconi sì, ce lo ricorderemo per un pezzo. A lui del resto non mancherà né il pane né il companatico che sono già al sicuro e nessuno certo glieli porterà via. Ma la perdita del potere, del monopolio assoluto, del "ghe pensi mi" ovunque e comunque, quello sì gli brucerà disperatamente.
Attenti perciò. I dodici mesi che ci stanno dinanzi saranno durissimi.
Tutti i mezzi saranno impiegati, nessun colpo basso sarà escluso, nessun errore sarà perdonato. La regola confacente all’antropologia dei "berluscones" - lo sappiamo - è quella di bastonare il cane finché affoghi. Chi li contrasta cerchi di non imitarli. In fondo si viene scelti anche per la buona educazione che si dimostra. Almeno oggi è ancora così. Ci si batte anche perché sia così anche domani, non è vero?
Forse il regime non c´era, forse la dittatura ci sarà. La frecciata di Prodi contro la riforma costituzionale di Berlusconi, «che sta creando le premesse per una moderna e pericolosissima dittatura di maggioranza, anzi del premier», ha riaperto un delicatissimo contenzioso lessicale sul berlusconismo e su tutti gli insidiosi abissi di tirannia che sono sempre sul punto di inghiottire la democrazia italiana. Perché proprio Prodi era stato uno dei più freddi, quando i girotondini sganciarono sul centro-destra l´arma fine-di-mondo, l´accusa di aver dato vita a «un regime» (il secondo, dopo quello fascista).
Né il Professore, né D´Alema, né Rutelli hanno mai approvato quella mossa. Non perché non fossero allarmati dall´occupazione berlusconiana della televisione, ma perché hanno sempre visto in quel vocabolo rovente un punto di non ritorno, un segnale d´allarme da lanciare solo davanti alle fiamme, non al primo filo di fumo. «La parola regime - disse una volta D´Alema - non è parola da politologo. Il regime ricorda il fascismo e io penso che le parole non si devono sprecare perché hanno un suono e quando poi si è costretti a usarle non suonano più. E´ di un certo estremismo usare le parole per sentire come suonano». Prodi approvava, da Bruxelles, Amato ironizzava sulle parole di Nanni Moretti, bandiera internazionale dei girotondini, e Rutelli dissentiva pubblicamente dal radicalismo di Paolo Flores d´Arcais: «La definizione mi pare impropria».
Oggi, però, sono proprio loro a scagliare contro Berlusconi queste tre parole - «dittatura della maggioranza» - che hanno un suono assai simile a quello del vocabolo «regime». Il primo, come sempre, è stato Amato, addirittura un anno fa (era il 20 gennaio 2004), commentando il premierato sfornato dai «saggi» del centro-destra: «Vogliono la dittatura della maggioranza», sentenziò. Esattamente la stessa formula adottata adesso, prima da Rutelli e poi da Prodi.
In realtà, tra il «regime» dei girotondini e la «dittatura» degli ulivisti c´è una certa differenza. Le due parole ci ricordano entrambe il fascismo, ma «dittatura della maggioranza» è una citazione di Alexis de Tocqueville - il padre della democrazia liberale - che non ce l´aveva con i tiranni e i despoti e tantomeno con Mussolini e Hitler che dovevano ancora nascere, ma con chi - nel nome della democrazia - voleva schiacciare le minoranze a colpi di maggioranza. «Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte - scriveva Tocqueville ne "La democrazia in America" - poco m´importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».
Siamo solo all´inizio. Ma se Prodi, D´Alema, Rutelli e Amato si trovassero un giorno a corto di argomenti, possono sempre citare una fiammeggiante filippica che sembra scritta ieri sera: «Attenti alla deriva autoritaria! Le regole non possono essere cambiate in corsa con i numeri della maggioranza che se ne avvantaggia, penalizzando l´opposizione. Non è democratico chi pensa di poter fare a colpi di maggioranza, in Parlamento, ciò che è favorevole a lui e sfavorevole all´opposizione: questo si chiama dittatura della maggioranza!». Così parlava, il 17 marzo 2000, Silvio Berlusconi: quando all´opposizione c´era lui.
Non staremo qui, ancora una volta, a discutere se durante il recentissimo viaggio di George Bush da Bruxelles a Bratislava sia stato il presidente degli Stati Uniti d´America a venire incontro alle posizioni dei suoi interlocutori o piuttosto questi ultimi a rettificare le proprie muovendosi verso di lui.
Questo tema, che meglio potrebbe definirsi con la semplicistica questione del «chi ha vinto e chi ha perso», è stato già ampiamente trattato da tutti i media internazionali e si è ben presto rivelato un classico double face: nessuno ha rinunciato alle proprie tesi di partenza sulla guerra irachena, ma tutti hanno convenuto che la vita continua anche di fronte ai fatti compiuti. Anzi, soprattutto di fronte ai fatti compiuti.
D´altra parte Bush con tutto il suo corteggio di diplomatici e di politologi ha ripetutamente sottolineato che il suo secondo mandato non sarà eguale al primo e che se il primo fu caratterizzato dalla teoria della guerra preventiva e dell´unilateralismo, il secondo lo sarà da quella della diplomazia preventiva e multilaterale. Quindi, per sua stessa ammissione ripetutamente propagandata, se c´è qualcuno che si è spostato è proprio il presidente degli Stati Uniti.
Egli ha vigorosamente chiesto ai suoi alleati europei (quelli della vecchia Europa che gli si erano ostinatamente contrapposti sia sul dossier iracheno sia su quello mediorientale) d´impegnarsi insieme su obiettivi che la vecchia Europa ha condiviso e sui quali lavora da almeno sei mesi. Per l´Iraq l´addestramento dei corpi di sicurezza e dei quadri dell´amministrazione civile allo scopo di rendere al più presto quel paese capace di autogovernarsi.
Per il Medio Oriente una più marcata presenza dell´Occidente nella composizione del conflitto Israele-Palestina e nella nascita d´uno Stato palestinese indipendente e territorialmente contiguo. Ciò che la vecchia Europa (ma anche Tony Blair) aveva fin qui rimproverato all´amministrazione Bush non era un eccesso di presenza ma al contrario una disperante assenza dal conflitto mediorientale. Ora che la presenza americana si è finalmente fatta visibile la vecchia Europa (ed anche Blair) non può che prenderne atto con piena soddisfazione.
Infine sul dossier iraniano il terzetto Gran Bretagna-Francia-Germania sta da mesi negoziando con Teheran affinché rinunci all´armamento nucleare. Bush ha chiesto che questi negoziati proseguano aggiungendo a mo´ di monito che ogni altra opzione resta possibile come ultima istanza.
La volontà di arrestare la proliferazione delle armi atomiche essendo un interesse comune di tutto l´Occidente, anche sul dossier iraniano la convergenza era dunque già in atto da tempo.
In conclusione: le concrete richieste degli Usa alla vecchia Europa avevano già avuto risposte positive molto prima del secondo mandato e del viaggio presidenziale in Europa. Da questo punto di vista dunque il poco arrosto era già stato mangiato e digerito. Ma era mancato il fumo mediatico. Il viaggio di Bush è servito a questo: il fumo è venuto dopo e non prima dell´arrosto.
Il presidente francese, a chi gli domandava se fosse soddisfatto del meeting con Bush a Bruxelles, ha risposto: «Certamente sì, ma ora si tratta di verificare se alle sue parole seguiranno i fatti». Posto che sui tre dossier iracheno, mediorientale, iraniano, le convergenze erano già avvenute, a che cosa esattamente si riferisce Chirac? Quale è il terreno sul quale i fatti debbono ancora esser verificati?
È chiaro quale sia il terreno della verifica. «D´ora in poi - ha detto Condoleezza Rice - decideremo insieme». E Bush: «Niente e nessuno potranno dividere l´alleanza degli Usa con l´Europa». Questa è dunque la questione da verificare passando dalle parole ai fatti. Decidere insieme entro il quadro di un´inseparabile alleanza non si concilia infatti con la democrazia imperiale che l´amministrazione Bush sta costruendo e teorizzando fin dall´inizio del suo primo mandato. Questo è dunque il tema che ancora non è stato chiarito, questo è il punto di possibile dissenso che può perfino rimettere in discussione le convergenze già da tempo raggiunte: l´evoluzione dell´America verso la democrazia imperiale.
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La diffusione nel mondo intero della libertà e della democrazia è un auspicio che non può che vedere uniti insieme gli Stati Uniti d´America e l´Unione europea poiché si tratta di auspicare un ecumene che condivida i valori sui quali è basato il concetto stesso di Occidente. Valori fondativi. Valori comuni. Comuni non soltanto agli uomini occidentali ma a tutti gli uomini, ovunque nati e ovunque residenti.
Ricordate il discorso di Benedetto Croce sull´indistruttibile forza della libertà? La libertà scava dovunque il suo percorso, nei terreni più favorevoli come in quelli più accidentati e impervi. Incontra ostacoli dovunque, viene spesso soffocata, negata, manipolata, ma infine rispunta quando meno te lo aspetti e vince e si impone. Non è un processo agevole e spesso il terreno che aveva conquistato le viene di nuovo sottratto perfino nei luoghi dove sembrava aver messo solidissime radici. Ma di nuovo riprende la sua marcia e la sua lotta e questa è la storia. La storia della libertà.
Ma una cosa è l´auspicio e l´incoraggiamento culturale, un´altra cosa è la missione e la crociata che è lo sbocco inevitabile di ogni missione. La missione costituisce l´orgogliosa ideologia di un popolo eletto e prescelto per adempierla. La missione chiama un Dio come testimone e guida. La missione è la premessa di una vocazione imperiale. La vocazione imperiale segna la sconfitta della libertà. Anche questa è la storia: la storia degli imperi che ricacciano indietro la libertà e della libertà che sgretola gli imperi.
Spesso accade che la vittoria di uno di questi due elementi dialettici si volga improvvisamente a beneficio del suo opposto: è ciò che in linguaggio accademico si chiama «eterogenesi dei fini». La storia fa questi scherzi che costituiscono la sua meravigliosa imprevedibilità.
Nell´Europa moderna l´esempio più eloquente fu quello di Napoleone. Portò sulla punta delle baionette della sua Grande Armata i principi della libertà, della modernità, dell´abbattimento delle feudalità, dell´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Sulla base di questi principi, oltre che sulla forza del suo esercito, trovò l´alleanza dei popoli e vinse «dall´Alpi alle Piramidi, dal Manzanares al Reno».
Ma poco dopo quegli stessi popoli, quei poeti, quei filosofi, quei musicisti che si erano innamorati della libertà evocata dal tricolore imperiale, la rivolsero contro di lui. Contro il classicismo napoleonico nacque e dilagò in tutta Europa il romanticismo. Nacquero, sull´esempio della Francia ma contro di lei, le nazionalità. Nacque la Germania, prima come mito e poi come realtà politica, economica e militare. Nacque la Russia come elemento nuovo della geopolitica europea.
Gli imperi in certe occasioni della storia possono accelerare il corso della libertà, ma la libertà smantella gli imperi. Tanto più quando opera in contesti storici, sociali, religiosi completamente diversi da quelli della potenza imperiale che se ne è fatta portatrice.
E così non ci sarà da stupirsi se un Iraq oggi ancora sotto tutela americana, non appena potrà essere restituito agli iracheni non riveli un nazionalismo allergico a ogni presenza sia pure indiretta del suo liberatore. Tanto meno ci sarà da stupirsi se regimi dittatoriali o teocratici come l´Egitto e l´Arabia Saudita, oggi alleati dell´America, una volta affidati a forme sia pure improprie di democrazia non divengano ancor più nazionalisti, ancor più teocratici e sostanzialmente antiamericani di quanto oggi non siano. I primi esperimenti della democrazia imperiale americana non sono incoraggianti. Se d´ora in avanti le due sponde dell´Atlantico diventeranno più vicine e decideranno veramente insieme, sarà questo il vero tema del confronto. Ne potrà nascere un gran bene oppure l´approfondirsi di un dissenso che per ora è entrato in una fase di tregua e di autocosmesi, in attesa di verifica.
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Del resto la prima prova si è vista nell´incontro di Bratislava tra Bush e Putin e in quello di Magonza tra Bush e Schroeder. Quest´ultimo, come già Chirac a Bruxelles, ha insistito nella decisione di togliere l´embargo sulle armi alla Cina.
È più facile mettersi d´accordo sull´Iraq che sulla politica verso Pechino. Quanto a Putin, l´autocrate di Mosca si è addirittura permesso di impartire al presidente americano una pubblica lezione sul significato della parola democrazia quando essa venga applicata non già sulle sponde dell´Hudson ma su quelle della Moscova.
Putin ha già fatto la (per lui) sgradevolissima esperienza dell´Ucraina e della Georgia e sa che sul tavolo ovale della Casa Bianca sono già aperti i dossier della Bielorussia, della Moldavia, della Romania, dell´Azerbaigian, del Kirgizistan. Regimi orribili, regimi corrotti, la cui destabilizzazione tuttavia moltiplicherebbe per cento l´effetto Cecenia con quanto ne può conseguire a Mosca.
Più oltre verso l´Oriente estremo, spunta l´ombra lunghissima della Cina. In tempi di globalizzazione i processi sono molto veloci e ciò che prima richiedeva secoli oggi implica pochi decenni. Ma la Cina possiede fin d´ora un´arma formidabile per condizionare la forza della democrazia imperiale americana. La Cina, dopo il Giappone, è il più grande creditore del Tesoro Usa. Insieme alla Corea possiede mille miliardi di dollari in Buoni del Tesoro americano e non fa che accumularne. Basterebbe che decidesse di investire in euro i nuovi surplus per determinare un ciclone planetario nell´economia, nel commercio e nel tenore di vita del mondo ricco e quindi degli Usa e dell´Europa.
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Ha detto in una bella intervista pubblicata su questo giornale Mikhail Sergevic Gorbaciov che la storia del mondo sarebbe stata molto diversa se l´America di Reagan lo avesse aiutato a riformare anzi a rifondare il comunismo anziché puntare su Eltsin e sul suo liberismo fasullo e mafioso. Sappiamo bene che la storia non si fa con i se. Ma certo la politica non tollera il vuoto. Abbattuta la seconda potenza mondiale, la vocazione al pensiero unico, alla missione salvifica e all´impero si è materializzata rapidamente. Il terrorismo globale è esploso. I nazionalismi si acuiranno e si moltiplicheranno. E forse, per la solita eterogenesi dei fini, anche l´Europa capirà più rapidamente che per dialogare e se possibile decidere insieme all´America i 25 nani di Bruxelles debbono delegare gran parte della loro sovranità politica all´Unione, ai suoi valori di cittadinanza, ai suoi interessi, alla sua moneta.
La democrazia imperiale ha bisogno di essere ben temperata e l´Europa può molto aiutare in questa direzione.
La ricreazione è finita», ha detto Silvio Berlusconi due giorni fa. Parlava di giustizia. Era infuriato con la gup di Milano, Clementina Forleo, per l´assoluzione dei tre islamici. Ma usare quella sentenza in modo strumentale gli torna utile. E infatti l´ira del premier ha prodotto un primo, tangibile risultato. La riforma dell´ordinamento giudiziario, all´esame del Senato dopo la bocciatura del presidente della Repubblica, sarà rivista dal Parlamento solo sui quattro punti indicati nel messaggio di rinvio. Così ha deciso l´aula di Palazzo Madama, in ossequio ai dettami del premier. Perché, appunto, «la ricreazione è finita», come ha detto il Cavaliere. Il ministro Castelli ha detto di peggio. In un´intervista a Libero, è tornato a esternare contro il Colle: «Basta con il fuoco di sbarramento» eretto dalle istituzioni, i giudici godono di «sponde» ad alto livello perché «un po´ tutti temono la magistratura». Parole oblique, come sempre. Ma pesanti, più di sempre.
Carlo Azeglio Ciampi, dopo la bocciatura della legge Castelli per «manifesta incostituzionalità», non ha più parlato di giustizia. Nel discorso di auguri di fine anno alle alte cariche dello Stato, il 21 dicembre, ha dedicato al tema un cenno breve, ma comunque molto significativo: «Ho chiesto alle Camere una nuova deliberazione, con riferimento ad alcuni importanti profili di costituzionalità...». Il presidente sta aspettando questa «nuova deliberazione». E come sempre, mentre le Camere deliberano, lui tace. Ma intanto il capo dello Stato osserva e riflette.
Quello che vede non lo tranquillizza affatto. Il blitz del governo su Vigna, prorogato a colpi di «decreti ad personam» alla Procura antimafia, gli ha reso evidenti le intenzioni invasive e punitive della Casa delle Libertà in campo giudiziario. Già la lettura «minimalista» del messaggio con il quale aveva rinviato il testo alle Camere, adottata dal Guardasigilli e dagli esperti di giustizia del Polo, non lo aveva rassicurato. Quella lettura «minimalista» precipita adesso in una scelta politica molto precisa: il Parlamento esaminerà solo i quattro rilievi citati dal Colle, ma non potrà riesaminare il provvedimento nel suo complesso. È un approccio che preoccupa. Una riforma «sistemica», come lo stesso Ciampi ha definito quella della giustizia, non è un «meccanismo elementare», dal quale è possibile rimuovere qualche sassolino che blocca l´ingranaggio, per poi rimetterlo tranquillamente in moto. Una riforma sistemica è invece un «organismo complesso», dal quale non si può disinvoltamente amputare una parte, senza pregiudicare la funzionalità del tutto. Qualunque correzione, ad esempio alla norma sulle prerogative del Csm, non sarà neutrale. Avrà riflessi sul resto della riforma. Avrà riflessi sulla seconda parte della Costituzione, perché dall´autogoverno della magistratura dipende il bilanciamento dei poteri. Avrà riflessi sulla prima parte della Costituzione, perché dall´esercizio indipendente della giurisdizione deriva la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e il rispetto del principio di uguaglianza. La «chiusura pregiudiziale» ad un riesame generale della riforma, imposta dalla maggioranza al Senato, oltre che una «palese scorrettezza» rispetto alle indicazioni contenute nel messaggio alle Camere, è già di per sé un «pessimo segnale» per il Colle. Vuol dire che il centrodestra, obbedendo al diktat del premier, si accinge a modifiche marginali, se non addirittura di facciata, a un provvedimento-chiave per i futuri equilibri istituzionali del Paese.
Per questo al Quirinale si riflette. Che cosa può fare Ciampi, se davvero il centrodestra riapproverà la riforma senza correzioni sostanziali che ne rimettano in discussione tutto l´impianto, ma con pochi ritocchi formali che lasciano inalterato lo squilibrio dei poteri a vantaggio del politico e a danno del giudiziario? È una questione delicatissima. In teoria non si presterebbe ad equivoci. L´articolo 74 della Costituzione è chiarissimo: il presidente della Repubblica può rifiutarsi di promulgare una legge e chiedere una nuova deliberazione, ma «se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata». In pratica, viste le premesse con cui il Polo si accinge alla nuova deliberazione, il Quirinale potrebbe anche adottare, a sua volta, una scelta clamorosa.
Le ipotesi prese in considerazione, per ora in via del tutto accademica, sono due. La prima è quella più dirompente sul piano istituzionale. Il Polo riapprova la stessa riforma, modificata solo in parte e in modo solo formale. Il presidente ne constata la persistente, «palese incostituzionalità», e si rifiuta nuovamente di promulgarla. In dottrina, da Paolo Barile fino ad arrivare a Antonio Baldassarre (che l´ha indicata nei giorni scorsi in un´intervista al Sole 24 Ore) questa possibilità non è affatto esclusa. Si configura come «rifiuto assoluto di promulgare», che il presidente della Repubblica può opporre per non incorrere nel reato di «attentato alla Costituzione». L´ha spiegato qualche giorno fa Leopoldo Elia, presidente emerito della Consulta, ai magistrati dell´Anm. Se il Polo tirasse la corda fino alle estreme conseguenze, il capo dello Stato si troverebbe di fronte a un «conflitto di doveri». Da una parte il dovere di promulgare, sancito dall´articolo 74. Ma dall´altra parte il dovere di difendere i «principi supremi» della Costituzione, sancito dall´articolo 87. Questo conflitto, eccezionale e mai verificatosi nella storia repubblicana, può risolversi in due modi: «O con il nuovo rifiuto di promulgazione della legge ? aggiunge Elia ? o sollevando conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta nei confronti del Parlamento».
La gravità di questo scenario è evidente. Ma il fatto stesso che se ne discuta, e che nella cerchia dei consiglieri del Colle l´ipotesi del «conflitto di doveri» venga considerata «elegante sul piano dottrinario», basta già a dimostrare quali torsioni giuridiche e quanti strappi istituzionali il berlusconismo abbia già prodotto nel sistema. È un´ipotesi di scuola. È un´ipotesi estrema. Ma come ripetono diversi costituzionalisti ascoltati al Quirinale, da Gaetano Silvestri a Andrea Manzella, viviamo una fase politica talmente convulsa e conflittuale, che le ipotesi di scuola rischiano di diventare reali, e quelle estreme rischiano di diventare normali. Ma è uno scenario che nessuno si augura. Ciampi per primo. Per questo, se davvero il Polo optasse per una riconferma della legge Castelli senza apprezzabili modifiche, si considera anche una seconda ipotesi, indicata tra gli altri da Massimo Luciani. Meno traumatica sul piano istituzionale, ma altrettanto devastante sul piano politico. Il presidente potrebbe firmare il nuovo testo, come gli impone la Costituzione, ma potrebbe inviare alle Camere un nuovo messaggio sulla giustizia. Segnalando le non sanate antinomie della riforma. Mettendo in mora le forze politiche che l´hanno imposta alle Camere. Rinviando di fatto la palla a un successivo esame di legittimità costituzionale della Consulta. Sarebbe uno scenario comunque grave. Sancirebbe il definitivo corto-circuito istituzionale tra Quirinale, Palazzo Chigi e Parlamento. Ma purtroppo, in questo momento così teso e difficile, nulla si può escludere a priori.
Berlusconi e la sua maggioranza, a partire proprio dai temi della giustizia, sembrano perseguire una strategia che, passo dopo passo, diventa sempre più esplicita. Sembrano disposti ad andare a un «redde rationem» con il Colle, che serva e ridisegnare, nei fatti, l´assetto dei poteri repubblicani. Il Cavaliere, più o meno consapevolmente, si muove in una logica che vede un «partito degli eletti» contrapposto a un «partito delle istituzioni». Da una parte c´è l´asse governo-Parlamento. Dall´altra parte c´è l´asse Quirinale-Corte Costituzionale. Di qua i partiti, rappresentativi della volontà del popolo. Di là gli organi di garanzia, non eletti e del tutto autoreferenziali. I destini del «modello italiano», in attesa di una riforma costituzionale condivisa che non arriverà mai, dipendono tutti dall´esito di questa contesa. Dalla riscrittura dell´ordinamento giudiziario (legge Castelli) alla questione dei poteri di grazia (caso Sofri) Berlusconi e la sua maggioranza forzano il sistema fino al punto di rottura. Ma non si assumono fino in fondo la responsabilità di rompere. La rimettono nelle mani del capo dello Stato. Per questo Ciampi, che proprio due giorni fa ha ricevuto sul Colle il presidente della Consulta Valerio Onida, si muove con cautela politica e prudenza istituzionale. Ma capisce anche che il finale di questa partita dipenderà molto dalla sua capacità di tenuta. Capisce anche che, di qui alla fine del suo settennato, gli resta poco più di un anno (al netto del semestre bianco, che di fatto assegna al presidente della Repubblica un ruolo poco più che notarile). Sarà un anno lungo e tormentato. Ma Ciampi l´ha ripetuto più d´una volta: «Non faccio sconti. A nessuno».
Fassino, ripensaci: guarda le prove di questi crimini
di Piero Sansonetti
Leggete l'articolo di Sabina Morandi, che pubblichiamo qui sopra e a pagina 2, e provate a restare calmi. Come si fa? Questi hanno raso al suolo Fallujah e arrostito la sua popolazione, e in quegli stessi giorni i loro capi, dalle Tv di tutto il mondo, tuonavano sulla democrazia da esportare, sui valori dell'Occidente, sul cristianesimo, sulla libertà, sui diritti dei bambini e delle donne, sulla legalità internazionale, sul Burqa, sull'arretratezza dell'Islam. Va bene il cinismo della politica, ma c'è un limite oltre il quale il cinismo diventa ributtante, e l'indignazione supera gli schieramenti, i punti di vista, le divisioni tra destra e sinistra. Possibile che i capi politici degli Stati Uniti, a cominciare dal presidente, non sapessero quale operazione militare si stesse svolgendo a Fallujah? Non sapessero che gli Stati Uniti stavano usando le armi chimiche - illegali, illegalissime - contro la popolazione civile, bambini, donne, persone inermi e indifese, esattamente come le aveva usate Saddam, atrocemente, contro i curdi?
Il documentario che la televisione italiana manda in onda stamattina, di nascosto, poco dopo l'alba, non lascia spazio a nessun dubbio. L'esercito degli Stati Uniti, a Fallujah, si è macchiato di gravissimi crimini di guerra e ha usato, senza parsimonia, le armi di distruzione di massa. Capite il paradosso? Gli americani hanno spiegato al mondo che andavano in Iraq per smantellare le armi proibite di Saddam - armi feroci, illegali, inumane - ma invece quelle armi Saddam non le possedeva (e gli americani sapevano che non le possedeva) e le possedevano invece gli americani, che le hanno portate in Iraq e le hanno usate per sterminare gli iracheni di Fallujah.
I crimini di guerra perpetrati dall'esercito degli Stati Uniti ci rimandano indietro di anni e anni. Ai momenti peggiori del Vietnam, alla famosa strage di May Lay (1968) alla seconda guerra mondiale, alle atrocità dei tedeschi, a Hiroshima. Saranno giudicati da qualche tribunale internazionale? No, gli Stati uniti non riconoscono tribunali internazionali.
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Questi documenti agghiaccianti arrivano in Italia negli stessi giorni nei quali, inopinatamente, una parte del centrosinistra, e precisamente il segretario dei Ds Piero Fassino, torna a mettere in discussione la linea del ritiro immediato delle truppe italiane dall'Iraq. Fassino lo ha fatto con una intervista alla Stampa nella quale ha assunto una posizione appena un po' più filoamericana di quella dell'ultimo Berlusconi (quello che sostiene che lui è stato sempre contrario alla guerra....). Ha detto che il ritiro delle truppe italiane sarà possibile solo se concordato con le autorità britanniche e statunitensi.
Io spero che Fassino stamattina si svegli presto e possa vedere la televisione alle sette e mezzo (terza rete). La certezza che le truppe di occupazione americane hanno commesso gravissimi crimini di guerra, la certezza che si sono macchiate degli stessi delitti dei quali hanno accusato Saddam, la sfrontatezza con la quale hanno tentato di coprire tutto ciò, rendendo inaccessibile Fallujah ai giornalisti, persino ai giornalisti amici, tutto questo servirà a un ripensamento? Voglio dire: in che modo, con la costituzione italiana alla mano, si può ritenere legittima la partecipazione del nostro esercito a una forza di occupazione militare di un paese straniero, sotto il controllo americano, e cioè degli ufficiali responsabili di atroci crimini?
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Abbiamo discusso in redazione se pubblicare alcune delle immagini terrificanti che dimostrano il massacro compiuto dagli americani. Abbiamo deciso di pubblicare una sola fotografia (mettendo altro materiale sul sito di Liberazione online) per un motivo semplice: gli americani continuano a negare di avere usato gli ordigni al fosforo bianco, mentre queste foto dimostrano il contrario: si vedono i corpi di alcune vittime, squagliati dal fosforo, senza che i loro indumenti siano neppure bruciati, perché questa è la caratteristica del fosforo: annientare la vita e non le cose.
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Complimenti alla Rai che ha prodotto un pezzo straordinario di vero giornalismo. Ma al tempo stesso viva protesta nei confronti della Rai per la decisione di mandare questo documento in onda in modo quasi clandestino. E' chiaro che ci sono state pressioni politiche fortissime, e anche comprensibili; però ci sono delle volte che di fronte al gran lavoro dei nostri giornalisti la politica deve passare in seconda linea.
Evviva! Vince l'Italia! Impregilo ha trionfato nella gara internazionale del general contractor per il Ponte sullo stretto di Messina. Ed era una gara vera, aperta a tutti, con l'espressione general contractor a mostrare la buona volontà dei proponenti di essere veramente cosmopoliti, gente globale. Ma nessun costruttore straniero ha gareggiato: paura, evidentemente. Nel testa a testa con l'unico concorrente, Astaldi, Impregilo ha avuto la meglio, ma nessuno del ramo aveva dubbi che sarebbe finita così. Impregilo ha molto bisogno di contratti e anche quello, soprattutto cartaceo, relativo al progetto per il Ponte, fa comodo. Da qui il maxi ribasso del 16% operato sul prezzo base di tutta l'opera, mentre Astaldi, con il suo ribassetto del 2% mostrava di non avere una vera intenzione di vincere. Non tutti sono interessati alle gatte da pelare. Quanto poi alla costruzione vera e propria, si tratta di un altro paio di maniche. Per ora verrà apprestato un ulteriore progetto, detto definitivo, poi si vedrà. La previsione generale è che abborracciato un progettone, si darà luogo a un paio di pose di prime pietre, con la gradita partecipazione del presidente Silvio Berlusconi. Le immancabili malelingue mettono in relazione la campagna con le prime pietre, come se queste ultime ne facessero parte integrante.
A elezioni concluse, si vedrà. Le solite malelingue di prima insinuano che sarà difficile strappare in anticipo all'Unione un chiaro impegno a non farne niente. A dire con precisione: né un uomo né un soldo per quell'opera sbagliata, per quell'inutile e pericoloso monumento che è il Ponte sullo stretto di Messina. Probabilmente c'è qualcuno, che pensandosi furbo, ragiona così: i voti di quelli contro li abbiamo già; ora si tratta di agganciare qualcuno di quelli a favore. Ma non è così che si vincono le elezioni; e sarebbe comunque una vittoria senza onore.
Soldi per il Ponte, come si capirà nella finanziaria, non ce ne sono. La società del Ponte è tutta pubblica, tutta del Tesoro, tutta di Tremonti. (Fintecna + Rete ferroviaria + Anas). Dovrebbe anticipare tutto l'importo, aumenti compresi, nel deserto creditizio formato dalle banche che rifuggono dall'impresa di finanziamento del Ponte, considerandola sballata. E poi aspettare un tempo indefinito - cinquant'anni? - perché i quattrini anticipati ritornino. E' un Ponte fatto così.
«Al punto in cui siamo - dice Andrea Monorchio, con un senso dello stato che gli fa onore - è impossibile non fare il Ponte. Lo stato pagherebbe a causa delle penali cifre equivalenti alla costruzione del Ponte». Monorchio, che dello stato era un tempo ragioniere generale è ora il presidente di Infrastrutture spa, una delle società pubbliche coinvolte nel finanziamento delle grandi opere. Noi non crediamo che questo sia vero, non crediamo che lo stato debba pagare penali enormi per dei pezzi di carta. Ma se anche fosse, la dignità vale di più dei miliardi di euro. In ogni caso, basterebbe una dichiarazione ferma, da fare subito di fronte a tutti, senza equivoci: «Nessun ponte sul mare tra Scilla e Cariddi».