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Dieci anni fa un mio amico iniziò una storia con una giovane cinese cresciuta nella periferia londinese. Ambedue erano molto innamorati. Lui però era sposato con due figli piccoli.Lei accennava a un matrimonio combinato dalla sua famiglia. Convinto che l'amore avrebbe avuto la meglio, il mio amico abbandonò la moglie. Per sei mesi vissero insieme felici. Poi, quando l'uomo scelto dai genitori della ragazza arrivò da Hong Kong, lei se ne andò per sposarlo. Quello che sconvolse il mio amico fu che lei non soffriva per il sacrificio del loro amore. «Sembra un'altra persona», mi disse.

Si dice che il modo migliore di produrre il bilinguismo è di far sì che un bambino parli sempre e solo una lingua a casa e un'altra fuori. Così cresce sotto due incanti diversi, due visioni del mondo nettamente separate. Ognuno di noi sa quanto è facile, specialmente durante l'adolescenza, essere una cosa per i nostri genitori, un'altra per gli amici. Ma quelli che passano costantemente da una cultura a un'altra sono quasi costretti a costruirsi due personalità. A noi mostrano quella costruita tra di noi, nella nostra lingua, in linea con la nostra visione, ma non possiamo concepire come essi siano nella loro altra cultura d'origine. Tutto questo è una ricchezza, finché i due mondi non entrano in collisione.

Supponiamo che in ogni famiglia la personalità dei figli si formi anche in rapporto a quelle che sono le preoccupazioni maggiori dei genitori, degli zii, dei nonni. Una famiglia che a tavola ogni giorno descrive il mondo in termini del bene e del male costringerà i figli a occupare una posizione tra queste due polarità. La famiglia dei fratelli Karamazov di Dostoevskij è l'esempio più famoso, forse fin troppo schematico. Un figlio è apertamente dissoluto, uno è santo, e uno si arrovella, terribilmente diviso tra l'una e l'altra posizione. Tutti è tre sono simili, però, in quanto non riescono a pensare alla vita se non in questi termini.

Non è difficile immaginare che per la famiglia musulmana che si trasferisce in Occidente una delle preoccupazioni dominanti sarà come e quanto adattarsi a una società laica e liberale, come e quanto mantenere le tradizioni, la «purezza» della cultura d'origine. I figli si costruiranno un' identità anche in rapporto a queste due polarità. Si vedono situazioni simili anche in un romanzo come «Il giardino dei Finzi Contini», dove l'io narrante, ebreo, in contrasto con un padre che vuole integrarsi con la società italiana, fascismo compreso, viene fortemente attratto verso un'altra famiglia ebrea che vuole isolarsi totalmente.

Uno dei terroristi che si è fatto esplodere a Londra il 7 luglio era figlio di un pachistano che ha fatto di tutto per integrarsi nel mondo inglese, padrone addirittura di un Fish n' Chip Shop. Più inglese di così, non si può. Il figlio adolescente a un certo punto assume una posizione in contrasto col padre, comincia a studiare intensamente il Corano. Hanif Kureishi aveva previsto un rapporto simile tra padre e figlio nel suo romanzo «The Black Album». Ma non aveva previsto che, durante l'inevitabile viaggio in Pakistan per riscoprire le proprie radici, il giovane sarebbe venuto in contatto con quelli per cui il rifiuto dell'Occidente è anche la molla del terrorismo.

Tornato trasformato in Inghilterra, in conflitto in casa con l'Islam liberale del padre, fuori casa il giovane mantiene lo stesso la sua altra personalità tutta inglese, la personalità costruita accanto a persone che non pensano al mondo in termini di una scelta tra Occidente o Islam. Così non dobbiamo meravigliarci se pochi mesi prima di commettere un' atrocità si trova a godersi un'uscita in rafting facendosi fotografare vicino a una bionda inglese con i capelli sciolti che tiene il timone e comanda — cosa scandalosa — tutti i maschi nel gommone. Non c'è niente di strano in tutto ciò, anche se si può immaginare che l'esplosione del 7 luglio avrà messo fine a tante tensioni e contraddizioni.

Che fare? Come con il global warming, il surriscaldamento del pianeta, scopriamo il problema dopo che il danno è fatto. Ci saranno migliaia di persone cresciute in questa dinamica che possono essere vulnerabili rispetto a chi, cresciuto in tutt'altra realtà, vuole manovrarle.

«Se volessi arrivare dove vuole andare Lei — amano rispondere gli irlandesi a chi gli chiede delle direzioni — non partirei da dove Lei è adesso». La strada semplice non c'è. Se c'è una via possibile, però, passerà senz'altro attraverso una lunga riflessione sulla vita dei giovani immigrati nei nostri Paesi. Ci sarà anche bisogno, forse, di rivedere il significato della parola identità.

SOLO dieci giorni dopo il naufragio del referendum contro una legge ideologica e integralista sulla fecondazione assistita, è Carlo Azeglio Ciampi a offrire una scialuppa di salvataggio all´Italia laica uscita umiliata da quel non-voto, dettato da un´oggettiva difficoltà di comprensione di molti, e da una fuga pilatesca dalla ragione e dalle responsabilità di alcuni. Con poche parole, pronunciate davanti al Papa in visita al Quirinale, il presidente della Repubblica ha ristabilito una gerarchia funzionale tra i valori costituzionali e i principi religiosi. Ha rimarcato il confine tra lo «Stato civile» (nel quale tutti si possono riconoscere, in nome del pluralismo delle fedi e delle convinzioni) e lo «Stato etico» (al quale tutti devono aderire, in nome di un pensiero unico imposto dall´alto). «Con orgoglio – ha detto – affermo come presidente e come cittadino la laicità della Repubblica italiana... L´articolo 7 della Costituzione italiana recita: "Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani"...».

«La necessaria distinzione tra il credo religioso di ciascuno e la vita della comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica – ha proseguito Ciampi – ha consolidato nei decenni una profonda concordia tra Stato e Chiesa... La delimitazione dei rispettivi ambiti rafforza la capacità delle autorità della Repubblica e delle autorità religiose di svolgere appieno le rispettive missioni...». Meglio di così non si poteva dire. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Sarebbero affermazioni scontate in qualunque altra democrazia del mondo. Ma in questo Paese, evidentemente, non lo sono mai abbastanza. E come accadde a Oscar Luigi Scalfaro nel lontano 1998 (quando, in un´altra visita di un Pontefice sul Colle, disse a Papa Wojtyla che «la laicità dello Stato è presupposto di libertà ed eguaglianza per ogni fede religiosa...» e «nella nostra diretta responsabilità è la scelta politica e l´amministrare la cosa pubblica... ») queste parole potevano arrivare solo da Ciampi. Il praticante che va a messa tutte le domeniche, ma che il 13 giugno è andato a votare alle 8 e 30 insieme alla moglie. Proprio mentre su di lui, sui partiti e sulle istituzioni, sui cattolici adulti e su quelli adolescenti, sugli astensionisti sistematici e sugli apatici anti-politici, pendevano l´appello di Ruini e la fatwa degli atei-devoti, dei teocon alle vongole, dei "cristianisti" di casa nostra. Tutti mobilitati, questi ultimi, a trasformare un confronto civico su una legge dello Stato in uno scontro di civiltà sulla vita e sulla morte. In un conflitto simbolico, titanico e quasi definitivo, tra l´elité sbandata e autoreferenziale dei miscredenti del "politicamente corretto" e la massa spaurita ma ansiosa di ritrovare, tra le braccia aperte di Madre Chiesa, la "risposta forte" che manca. Non solo al bisogno di fede, ma anche al deficit di politica.

Ciampi fa piazza pulita di questa nuova forma di manichiesmo, che ha sfruttato mediaticamente Wojtyla e che oggi strumentalizza politicamente Ratzinger. Spazza via questa malintesa idea di un "neo-illuminismo" occidentale, accidioso e agnostico, che usa tutto quello che trova, da Galileo e Barsanufio, da Bertrand Russell a Jurgen Habermas, per snocciolare i suoi anatemi da moderna Ecclesiaste: ogni laico è un relativista, ogni relativista è un ateo, ogni ateo è un disperato. Senza morale, senza cultura, senza ideali. «Un pozzo che guarda il cielo», per dirla con le parole di fine Anni 20 di Fernando Pessoa. «Un ghetto di soggettività», per dirla con le parole dell´agosto 2004 (ancora una volta strumentalizzate) dell´ex prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede.

Ciampi ridà voce a quell´Italia che dice «non ci sto». A quell´Italia che rifiuta l´inesorabile logica, binaria e apocalittica, dei nuovi Torquemada folgorati sulla via di Damasco. Che respinge insieme gli scontri di civiltà e le guerre di religione. Ridà voce a quell´Italia che non contesta alla Chiesa il diritto di fare la sua parte, con orgoglio e a viso aperto. E anche di condurre le sue «battaglie di rievangelizzazione», con gli strumenti che ha e con gli argomenti che vuole. Ma a quella Chiesa, e ai troppi politicanti che per pavido cinismo o per opportunistica convenienza ne hanno mutuato i messaggi, ricorda che anche la laicità (e non il laicismo) è un valore statuale da difendere, perché è il caposaldo della democrazia e l´antidoto contro tutti gli integralismi. Perché è esattamente quel valore che permette al Pontefice di professare sul campo (possibilmente senza invaderlo) i suoi richiami: il primato della vita, la coppia fondata sul matrimonio e sui figli, la scuola privata. È esattamente quel valore che consente alla Conferenza episcopale la libera scelta di "svilirsi", giocando sul territorio in competizione e su un piano di pari dignità con tutte le altre componenti della società civile: istituzioni, partiti, sindacati, agenzie culturali, confessioni religiose.

Allo Stato compete l´onere della decisione politica. Se è il caso, e là dove è possibile, anche sulla base di quel «bene comune dei cittadini» e di quella «condivisione dei valori fondamentali» che il capo dello Stato ha voluto rammentare a Benedetto XVI: «Il rispetto della dignità e dei diritti di ogni essere umano, la famiglia, la solidarietà, la pace». È un modo, anche questo, per riscattare quanti hanno vissuto con disagio la disfatta sulla procreazione. Quando è sembrato che, nella lotta impari tra il sacro e il profano, tra il drammatico «sulla vita non si vota» e il pragmatico «decide la scienza», si stessero confrontando il valore vero (strenuamente gridato dagli strani "cristiani rinati" sotto le insegne vaticane) e un valore zero (timidamente balbettato dai flaccidi laici riuniti sotto le insegne referendarie). Ed è un modo, anche, per fissare qualche serio paletto in vista delle discussioni future, in Parlamento e fuori. Sulla stessa fecondazione, dove non sarà inutile tentare di rivendicare ancora una volta i diritti delle coppie sterili, anche rispetto agli embrioni. E poi, se serve, anche sull´aborto, dove non è mai inutile riaffermare il diritto alla salute della donna, anche rispetto al feto.

La laicità non è morta, con il 13 giugno. Lo Stato costituzionale è la casa di tutti, non una cattedrale per pochi. La sinistra lo sa, perché quello Stato ha concorso a costruirlo. E come ci ricorda Norberto Bobbio, anche in tempi di identità confuse e rimescolate, ha frecce al suo arco, da lanciare nel cielo dei valori che ora sembra abusivamente occupato dalla destra neo-clericale: giustizia, solidarietà, uguaglianza. I diritti non sono la sterile vetrina del formalismo giuridico kelseniano, sulla quale l´Occidente moderno rispecchia il suo vuoto interiore. Ma sono la frontiera sulla quale ogni giorno, attraverso un bilanciamento faticoso ma fruttuoso, si difendono allo stesso tempo la libertà e la democrazia, e si tutelano allo stesso modo le maggioranze e le minoranze. Insieme alla Chiesa, se si può. Ma senza la sua benedizione, se si deve.

Sede di potere

Un commento su una questione che non è solo di costume. A proposito della “apertura” di Villa Certosa, da il manifesto del 19 maggio 2005

Non è bello che la maggior parte dei giornali scrivano da anni Palazzo Grazioli e Villa Certosa, tutto maiuscolo, lasciando intendere a chi non ci fa caso che siano sedi istituzionali o pressappoco. Non si capisce se per pigrizia o per compiacenza più o meno consapevole verso Berlusconi, si continui nei tg a ripetere la frase convenzionale «il premier ha ricevuto questo e quello a Palazzo Grazioli»; al posto di quella meno elegante «Berlusconi ha convocato a casa sua un vertice di maggioranza ecc». E' servita anche quest'ambiguità a Berlusconi. Il messaggio come nelle accorte pubblicità scorre e arriva: qualcuno potrà pensare che si fa così, che è una fortuna avere un presidente molto ricco che mette a disposizione le sue case per le attività di governo. Per altri, si provi a chiedere in giro, quel palazzo è di proprietà dello Stato, un po' come la residenza di Blair a Downing Street. Ma almeno ora che il berlusconismo è in crisi sarebbe opportuno lasciare a Berlusconi tutta la regia di questa farsa. Non è irrilevante che si dica chiaro che a casa sua - non a palazzo Grazioli: a casa sua - si prendono le decisioni che a Palazzo Chigi e in parlamento si ratificano. Se si dà un'occhiata al rapporto tra architettura e potere si vede che è stato a lungo gestito senza un preciso confine tra edifici di proprietà privata e sedi istituzionali, spesso coincidenti. Il principe aveva poca convenienza a fare qualcosa fuori dalle mura domestiche. Il suo palazzo era splendido, a prova di sorprese. Oltre alle stanze private vi erano ambienti destinati alle cerimonie e agli appuntamenti solenni. Ma è noto che spesso in privati o intimi incontri (un banchetto o una notte d'amore) capitava di decidere il futuro dei sudditi. Serviva al principe dare l'idea che tutto fosse sotto la sua supervisione che era continuamente rafforzata. (Cosimo dei Medici, realizza gli Uffizi come estensione del vecchio palazzo per trasferirvi il suo studio e le magistrature che così potrà controllare più agevolmente).

Per le moderne forme di governo, è stato obbligatorio abbandonare queste pratiche e dotarsi di sedi istituzionali. Non solo per ragioni connesse ad un nuovo ordine simbolico, protocollare ma per ammettere un agevole accesso alle informazioni da parte del pubblico, senza rinunciare alle riunioni riservate, sempre sottaciute.

Berlusconi ripristinando antiche consuetudini ostenta le sue case come i motori di ogni iniziativa, dando corpo alla sua idea di riforma in senso presidenzialista in tanti modi confusi e provocatori. Una condotta che ha superato ogni misura ed è arrivata al punto di ottenere la secretazione sulla sua residenza nel mare di Sardegna. Costringendo i magistrati sardi a chiamare in causa la Corte Costituzionale che nei prossimi giorni dovrà decidere sulla legittimità di questa forzatura che mira a impedire alla Procura ogni indagine su lavori che hanno poco a che fare, come sanno tutti, con le ragioni della sicurezza delle istituzioni.

Dal giudizio è lecito attendersi un po' di chiarezza. C'è ragionevole ottimismo, perché si pensa che la Corte non convaliderà l'idea balzana che la casa di vacanza di un privato cittadino, temporaneamente capo del governo, si possa trasformare senza renderne conto alle autorità di una Regione autonoma. Forse per questo Berlusconi, per una volta pessimista, ha finalmente deciso di ammettere l'accesso degli inquirenti a casa sua rinunciando al segreto.

Scalfaro: sessanta anni fa, cadeva un onnipotente...

Vincenzo Vasile

Oscar Luigi Scalfaro è uno di quelli che ancora riescono a collegare il presente al passato. Da l’Unità del 23 aprile 2005

ROMA Non è solo un impagabile siparietto. Sono la passione civile e l'arguzia di un padre Costituente che irrompono nel rito delle consultazioni («non inutili», dirà alla fine Ciampi in tono di sobria, implicita risposta a Berlusconi). Il protagonista dell'ultima giornata di rassegna di pareri sulla crisi al Quirinale che qualche ora dopo si concluderà con l'incarico per un governo Berlusconi balneare, è l'ex-inquilino di questo palazzo-simbolo, Oscar Luigi Scalfaro, cui tocca di essere l'ultimo a chiudersi per un'ora insieme a Ciampi nello studio della Vetrata. A conclusione Scalfaro, esce dalla porta presidiata da due corazzieri immobili e impettiti, e fa rapidamente i tre passi che lo separano dalla Loggia dov'è provvisoriamente installata la sala stampa, riconosce i "quirinalisti" di lungo corso, scruta i volti dei più giovani, poi sistema i due microfoni flessibili vicini alla bocca.

Piglio spigliato

Inizia in tono colloquiale: «Vi rivolgo un saluto, rivedo una serie di amici, ma anche qualche volto nuovo, perché è giusto che ci sia un'alternanza». Il piglio è persino spigliato e, si direbbe, giovanile; la «forma» di Scalfaro salta agli occhi dopo la breve apparizione, un'ora prima, di Francesco Cossiga, reduce da una pesante operazione. Scalfaro prosegue parlando del prossimo 25 Aprile, che cadrà all'indomani dell'insediamento di un balneare governo Berlusconi III, destinato a rapido e convulso tramonto: «È la grande ricorrenza dei 60 anni della libertà e quindi della caduta della dittatura, con un uomo che era onnipotente». E non c'è chi non colga il parallelo tra gli onnipotenti di diversa risma cui allude il presidente, che fu assediato sul Colle in un'Italia in bilico, nella fase più rampante e aggressiva dell'escalation berlusconiana. L'altro effimero «onnipotente» di cui si parla ebbe, aggiunge, una «caduta definitiva». La simmetria storica tra diverse vicende non si ferma qui: «Questo è quel che ci impegna in questo momento, soprattutto nel riflesso della riforma costituzionale», ricorda Scalfaro. E conclude abbandonando il registro ironico con un «augurio», soprattutto all'Italia: «...all'Italia che ne ha davvero bisogno». Saluta e se ne va.

Riflessi condizionati

Ovviamente si scatenano le polemiche. Un po' perché quel delirio di onnipotenza che accomuna diversi «regimi» assume in questa fase tra l'altro una connotazione jettatoria. Un po' perché il 25 Aprile fa scattare una specie di riflesso condizionato della maggioranza appena rappattumata, specie dopo la dissociazione di An e Lega dalla manifestazione di Milano. Un po' perché proprio Berlusconi, dopo avere finora disertato ogni anno il Quirinale (dove Ciampi anche stavolta radunerà in una solenne cerimonia rappresentane di comuni martiri, militari e partigiani), ha concesso contro voglia, invece, stavolta di fare atto di distratta presenza. Fatto sta che alle sferzanti frasi di Scalfaro rispondono - diciamo così - alcuni esponenti delle seconde e terze file, Fabrizio Cicchitto l'accusa retrospettivamente di «faziosità» durante la passata presidenza; Alfredo Biondi di vilipendio al premier e riferimenti storici poco appropriati; persino Daniela Santanché da un salotto lo minaccia: «Non passerà alla storia».

Il riferimento velenoso

Dal passato remoto emerge una vecchia storia, rivangata da un esponente di As, Antonio Serena. «Dovrebbe portare i fiori alla tomba dei fucilati di Novara». Si tratta di un riferimento velenoso al brevissimo periodo in cui Scalfaro, giovanissimo, fu pubblico ministero davanti alla Corte d'Assise straordinaria di Novara, e chiese la condanna a morte per un repubblichino, Salvatore Zurlo, autore di omicidi, rapine e rastrellamenti di partigiani. Si sentì «mandato allo sbaraglio» - disse una volta, intervistato da Marzio Breda per il Corriere della sera - «dagli eterni colleghi di Ponzio Pilato, i colleghi anziani che mi buttarono sulle spalle quel peso... Passai giorni e notti a studiare il caso per vedere se i fatti mi offrivano qualche scappatoia. Niente, i fatti erano lì, precisi, implacabili». Arrivato il giorno del dibattimento, Scalfaro affermò che su quei fatti poggiava la richiesta della pena capitale, ma continuò dichiarando la sua opposizione ad essa. Aggiunse anche non avendo trovato una strada giuridica per evitarla, si appellava alla Corte perché non venisse applicata. In seguito al suo discorso, il condannato ebbe salva la vita, più tardi tornò in libertà - beneficiando anche di diverse amnistie - e poté in seguito ringraziarlo.

GD’Avanzo L’ingenua illusione

Anche il bravo giornalista de la Repubblica (25 marzo 2005) è tra quei moltissimi che pensano che con Berlusconi e la sua truppa occorre aprire uno scontro serio, e non una serie di scaramucce da corridoio

ANCORA oggi c’è chi pensa che della riforma della Costituzione, alla fine, non se ne farà nulla. Il referendum la cancellerà, si dice con avventatezza. Nel mondo politico, della cultura e dell’informazione, per non parlare dell’opinione pubblica, c’è chi è - ancora oggi - fiducioso che "il limite" non sarà oltrepassato. L’ingenua illusione può provocare disastri imponenti se non si affronta con realismo quel che è accaduto al Senato con l’approvazione della "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" (primo firmatario Silvio Berlusconi). Ha vinto una cultura politica che crede sia la forza il reale fondamento della convivenza umana. L’idea è antica.

Fu di Machiavelli, è stata aggiornata nel ventesimo secolo da Max Weber e Carl Schmitt. Nella sua naiveté Berlusconi ne è, nel mondo occidentale, l’interprete più nitido. Egli si riconosce un’eccezionale autorità personale che può illuminare soltanto chi ha, per la politica, una vocazione. Vive per essa e non di essa (come, al contrario, quei "funzionari di partito" che gli sono avversari). Egli vuole esercitare il potere per realizzare, a vantaggio della comunità, la propria capacità di dare valori, significato e indirizzo alla vita secondo una "concezione del mondo" maturata con successo «in azienda» e in ogni altra "impresa" affrontata. È naturale, è coerente - a pensarci - che questa volontà e questo potere carismatico abbiano voluto consolidarsi in una Costituzione. Nell’humus istituzionale di un sistema democratico pluralista e pluripartitico, Berlusconi è a disagio. Incontra ostacoli, lungaggini, barriere, balances che gli fanno venire (ammette) «l’orticaria». Burocrazie, partiti, governo, Parlamento, organi di garanzia, magistrature, calcoli elettorali, lo condizionano, lo appesantiscono. Avviliscono i suoi poteri a "mediazione dei conflitti". Li riducono soltanto alla snervante direzione dell’agenda di governo.

Se questo è vero, pare un errore pensare che la nuova Costituzione sia il frutto di una congiuntura politica che ha voluto (dovuto) concedere a ognuno dei partiti di governo una bandierina da sventolare in questa, e nella prossima, campagna elettorale. Berlusconi ha bisogno di questa Costituzione per "cambiare passo", dopo la prima stagione legislativa. Si prepara ad esercitare più concretamente la forza che rimane, nella sua cultura politica naif ma quanto consapevole, lo strumento essenziale per l’organizzazione della società e l’esercizio del potere politico.

È quel che annuncia la "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" che frantuma il sistema costituzionale come sistema di equilibri e di reciproche garanzie. Semplificato e irrigidito, il sistema "riformato" concentra e personalizza il potere politico. Nasce un vertice monocratico del potere, eletto plebiscitariamente. È dotato di strumenti che gli consentono di governare senza mediazione e di controllare la maggioranza condizionando con voti bloccati la volontà parlamentare perché dispone liberamente della "vita" della legislatura. Come ha avuto modo di dire già due anni fa il presidente (ora emerito) della Corte Costituzionale Valerio Onida, questo scenario "non significa democrazia più immediata, ma meno democrazia". Il passo successivo non è difficile immaginarlo perché in controluce già affiora di tanto in tanto. Le categorie del "politico" che quel vertice monocratico e cesarista maneggerà saranno "il bene" e "il male", "l’amico" e "il nemico", "l’uguale" e "il diverso"…

Conviene, come sollecita Mario P irani, "svegliarsi", rimboccarsi le maniche, riflettere, cercare di capire, al di là dello sconcerto e dell’indignazione. Nessuno deve pensare che sia facile, capire. Ancora ieri, era complicato venire a capo di quanti articoli della Carta siano stati riscritti dal Polo. Per Michele Ainis ne sono stati "modificati 52 e aggiunti altri 3 di sana pianta". Per Andrea Manzella ne sono stati "cambiati 53". Per Sergio Bartole, presidente dell’Associazione costituzionalisti italiani, "la Costituzione cambia in ben 48 articoli". Altre riviste (come Questione Giustizia 1/2005) sostengono che il testo "sostituisce o modifica 49 degli 80 articoli della seconda parte della Costituzione".

52, 55, 53, 48 o 49? Si tratta della Carta costituzionale. Non è irrilevante che neppure addetti eccellenti sappiano concordemente dirci quanti sono gli articoli riscritti o aggiunti. Questa incertezza non è muta. Sono contraddizioni che ci svelano quanto debole e affrettato sia stato il dibattito culturale e politico intorno a una faccenda decisiva per il futuro della democrazia italiana. Forse è utile chiedersi perché questo è accaduto e azzardare anche una risposta.

Il falso mito delle riforme costituzionali, come una malattia, ha contagiato l’intero quadro politico. Tutti. Laici e cattolici. Destra, centro e sinistra. Il contagio, si può dire, dura da vent’anni e ha un suo primo epilogo con il referendum sul sistema proporzionale. Quel giorno, la nostra democrazia cambia pelle. Da "democrazia organizzata", come spiega Mario Dogliani, (organizzata perché fondata sulla mediazione dei partiti) si trasforma in "democrazia individualistica" (perché fondata sul rapporto immediato tra singolo e rappresentanti). In questo slittamento la Costituzione, approvata il 22 dicembre del 1947, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, sembra deprezzarsi, svalutarsi. Appare "invecchiata". Ma le Costituzioni, se vitali, non invecchiano. La più antica delle Costituzioni scritte, quella degli Stati Uniti d’America, nacque il 17 settembre del 1787; fu integrata con i dieci emendamenti del Bill of rights (carta dei diritti) l’anno dopo (1788) e da allora, in 217 anni, dei 10.000 emendamenti proposti ne sono stati approvati soltanto 17 (l’ultimo nel 1992).

La nostra Costituzione, messa sotto pressione, ha dovuto mostrare in questi anni tutta la vitalità dei suoi verdissimi 57 anni. Se non ci si lascia acceccare dal falso mito, lo si può constatare a occhio nudo. E’ stata accusata di indebolire il sistema decisionale del governo troppo esposto agli umori del Parlamento. Al contrario è il Parlamento a vivere un’infelice crisi di ruolo mentre le pratiche in uso - i tempi garantiti della discussione in aula; l’ampio uso della questione di fiducia; i maxiemendamenti governativi… - offrono all’esecutivo un vigoroso potere decisionale. È stato detto che la Carta impedirebbe la stabilità e la continuità dei governi. In realtà, da quando il Parlamento è stato eletto, prevalentemente con il maggioritario (dal 1994), sono stati in carica sei governi, ma si sono succedute al governo quattro maggioranze di cui tre scaturite dal voto. È stato detto che la Costituzione offre al "potere partitocratico" il modo di allungare le mani sulle istituzioni. È sempre più evidente che il ruolo di mediazione dei partiti tra istanze sociali e istituzioni è quasi del tutto venuto meno. Si dice che è colpa della Costituzione se abbiamo un sistema politico così frammentato. Un sistema politico, però, non è il frutto delle regole del sistema costituzionale, ma delle regole del sistema elettorale (che nulla hanno a che fare con la Carta).

Si può dire allora che - da quando il "mito" delle riforme costituzionali è diventato invasivo e vincente - il sistema politico in tutti i suoi segmenti ha preteso di ottenere, come sostiene Onida, "attraverso le regole costituzionali, la coesione interna delle coalizioni politiche" che è appunto il lavoro, la quotidiana "fatica" dell’azione politica. Quel che la politica non è riuscita a conservare o proteggere o innovare, lo ha chiesto alla rigidità della Costituzione. È il passo laterale che ha sfigurato l’idea della Costituzione. Da motore della politica è diventata cornice. Da tabernacolo di valori e di programmi per realizzarli si è trasformata in strumento tecnico per dare robustezza al potere politico. Non si può negare che in questa interpretazione svalutativa della Carta è rimasta intrappolata anche l’opposizione di oggi (il governo di ieri). Le preoccupazioni che il centrosinistra propone in queste ore possono esserne una conferma. L’allarme maggiore sembra riguardare "i diritti", come se la Costituzione si rinchiudesse soltanto nel rapporto tra i singoli e i diritti costituzionali. Sembra quasi che la Carta debba essere affare di Corti Costituzionali, di giudici, di garanzie e non anche l’impegno comune che custodisce un modello di società condiviso, la rappresentazione di un fine e di un futuro collettivo. È proprio vero che bisogna «svegliarsi». Quel che attende il Paese con il referendum è un confronto tra culture politiche. Della cultura "cesaristica" di Berlusconi si sa e si è detto, ma quella che ha ispirato la Costituzione del 1947 dov’è? È ancora viva? Se è viva, perché tace, perché non si mostra?

«Venerdì e sabato erano giorni di novità. Di sabato avevo fatto il video, di sabato avevo scritto la lettera. Così venerdì aspettavo che dicessero qualcosa, anche perché lui, il carceriere che si mostrava più disponibile, sembrava allegro. E l'altro a un certo punto era uscito. 'Vabbè, mi sono detta, per chiedere aspetto `». E' il racconto di Giuliana Sgrena, il giorno della grande paura e della gioia che dura mezz'ora, fino alle raffiche che ammazzano il suo liberatore, Nicola Calipari, il poliziotto che dirigeva le Operazioni internazionali del Sismi. La nostra inviata è ancora all'ospedale militare del Celio, aspetta di essere operata e ha male alla spalla ma sta meglio, anche gli ematomi sul volto stando andando via. Ci accoglie seduta, con lei c'è Pier. Giuliana sapeva già dei contatti in corso, sabato 19 febbraio aveva scritto di suo pugno la lettera ai familiari, la prova che il Sismi cercava. E per due volte l'avevano fatta parlare al telefono, sabato 25 e ancora lunedì 28: una cassetta è finita alla Croce rossa italiana, l'altra chissà. Domenica 27 le avevano detto che sarebbe stata liberata e il giorno è arrivato di venerdì, un mese esatto dopo il rapimento alla moschea Al Nahrein di Baghdad. Era venerdì anche il 4 febbraio.

«Quando l'iracheno mi ha portato il pranzo gli ho chiesto: `Sei felice perché resto o perché me ne vado?'. 'So che te ne andrai ma non so quando, chiedi all'altro...'. E poi: `Te ne andrai domani, Inshallah, se Dio vuole'. `Giorno più giorno meno', così ho pensato. E invece dopo qualche ora, non so quante, sono entrati tutti e due. Ero a letto come al solito - ricorda Giuliana - e ho notato che non portavano il consueto camicione lungo, si erano quasi vestiti eleganti, camicia e pantaloni. Ho provato a scherzare: `Che è? Un matrimonio?'. E loro: `Complimenti, te ne vai a Roma, la tua roba dov'è?'. Avevano fretta. Mi chiedevano: `Sei pronta? Sei sicura?'. Volevano prepararmi: `Guarda che sarà una cosa difficile... Abbiamo promesso alla tua famiglia - perché loro parlavano sempre della famiglia - di rimandarti a casa sana e salva, ma se qualcosa va storto ci ammazzano tutti'. Sapevo già che era il momento più delicato. `Se ci fermano, sia gli americani che la polizia irachena, non fare segni, non dire che sei un'occidentale».

Sull'auto dei rapitori

«Mi sono messa la felpina nera con la zip, che nel primo video sembrava verde. Jeans neri e sopra il mio vecchio cappottino molto anonimo, che in un paese arabo va sempre bene. Mi hanno ridato la mia roba - dice ancora Giuliana - ma non tutto. C'erano gli accrediti, i documenti e i soldi, quasi tutti. Erano mille dollari e ne ho riavuti ottocento, hanno voluto fare il gesto... Non mi hanno restituito tutti i blocchetti, né i telefoni, né la macchina fotografica digitale. Prima di uscire dalla casa mi hanno fatto mettere un'imbottitura sotto gli occhiali da sole, non se fosse giorno o già notte».

«Mi hanno fattoo salire in macchina, sono saliti anche loro due e, pur non vedendo, mi sono accorta che alla guida c'era un altro. Hanno parlato al cellulare, forse altri ci precedevano o ci seguivano. Non lo so. Abbiamo girato un po' ma non molto, una ventina di minuti. Finalmente siamo arrivati, non so dove perché ero bendata, e ci siamo fermati. Mi hanno detto `aspetta' e sono rimasta lì, con una fifa pazzesca. Sempre nella stessa macchina. Ero lì da sola con il terrore. Ho capito che era un punto di passaggio, c'erano automobili che si fermavano. `Sarà questa?', pensavo. A un certo punto ho sentito da fuori voci concitate. No, non è durata più di mezz'ora, ero agitata ma non è durata di più». C'è stato un ritardo di due ore nella consegna ma Giuliana esclude di aver passato così tanto tempo ad aspettare. «Sentivo sirene della polizia e soprattutto un elicottero americano sopra di me. Mi sono ricordata di Mogadiscio, quando ho intervistato Osman Atto che era ricercato: sopra di noi c'era un elicottero americano. `Se va bene, mi sono detta, non mi beccano neanche stavolta'».

«Sono Nicola, sei libera, vieni»

«Quando è tornato, uno dei miei carcerieri mi ha detto: `Dieci minuti'. `E ora che faccio?', ho pensato. Così ho cominciato a contare, 'quando arrivo a sessanta sarà un minuto'. Per arrivare a seicento ci avrò senz'altro messo meno di dieci minuti. E intanto mi domandavo: 'Chissà chi verrà?'. Sapevo che sarei potuta finire in mano ad un altro gruppo. Finché non è arrivato Nicola, che ha aperto la portiera di destra mentre io ero seduta dall'altra parte: `Sono un amico di Pier e di Gabriele, sei salva, libera, vieni con me'. Gli occhiali non li tolgo, non ci penso nemmeno. `Abbandonati a me', dice Nicola. La loro macchina doveva essere lì, la raggiungiamo subito. `Mi siedo vicino a te', dice Nicola. Alla guida c'è il suo collega, il posto accanto è vuoto. Ho ancora le bende, solo dopo qualche minuto Nicola dice: `Puoi toglierle'».

«La prima cosa che vedo? Una strada periferica di Baghdad, però non sto a fissarla: se quando mi hanno rapita cercavo di fissare ogni dettaglio, in quel momento di gioia guardavo lui, non mi interessava guardare fuori. E poi Nicola mi ha travolto di parole, ha fatto un sacco di nomi di amici: `Mi hanno detto di non tornare senza Giuliana'. Allora ho capito di essere libera, mi sembrava di essere rinata». A bordo non c'era nessun altro, il quarto uomo Giuliana non l'ha visto. «Non posso escludere che ci fosse un'altra auto, una staffetta, ma non ho avuto questa sensazione».

Le telefonate dall'auto

«Quando mi sono tolta le bende l'autista ha telefonato, secondo me a Baghdad: `Siamo in tre, stiamo arrivando'. Ho intuito che qualcuno ci aspettava in aeroporto, forse un loro collega, ma nessuno me l'ha detto, neanche dopo, l'ho solo intuito. Nel frattempo Calipari mi ha detto: `Ora chiamiamo Roma'. Ma non trovava i suoi occhiali, non riusciva a chiamare. Ha buttato un telefono sul sedile davanti perché non funzionava. Con l'altro telefono è riuscito a chiamare il capo del Sismi a Roma e me l'ha passato, non so cosa gli ho detto: 'Grazie', senz'altro ho detto `grazie'. 'Ti richiamo', gli ha detto poi Nicola. Non so se ha detto `ti richiamo quando siamo in salvo', non ricordo, ma certo non era una situazione di sicurezza assoluta. Lo stesso anche dopo, quando l'autista ha detto `da qui sono 700 metri all'aeroporto' e subito sono arrivati gli spari. In una situazione normale avrebbe detto: 'Siamo quasi arrivati'».

«Non ho visto il faro dei soldati»

«Non ho visto posti di blocco. Certo io parlavo, guardavo Nicola, ero euforica, però mi sarei accorta se ci avessero fermato, perché avrei avuto paura. Calipari e il suo collega hanno acceso la luce interna: forse per poter telefonare, forse proprio per motivi di sicurezza, perché la prima cosa è farsi vedere in faccia. Il viaggio sarà durato venti minuti o mezz'ora, non di più. Ricordo un sottopassaggio, però non ho seguito la strada: di sicuro non era la strada principale, sarebbe stato da pazzi, ma una strada alternativa fuori dalle zone abitate. Comunque siamo arrivati su questa strada, tutta allagata, la macchina ha sbandato e ho detto: 'Ma guarda tu se ora andiamo a sbattere'. Poi quella frase, `ancora settecento metri', e subito i colpi».

«C'è una curva a destra, le raffiche sono arrivate mentre la macchina girava, sempre dal lato destro dove era seduto Nicola. Non ho visto nessun fascio di luce, ho solo sentito le raffiche». Il maggiore che guidava l'auto invece l'ha visto, ma i colpi, ha spiegato, sono arrivati contemporaneamente, in violazione di tutte le procedure, subito sull'abitacolo e non al motore. «Non so - dice Giuliana - se fosse un'arma sola o di più, era buio. So che i colpi hanno investito subito l'auto, nessuno ha sparato in aria, l'ufficiale al volante ha gridato: `Ci stanno attaccando' e mi pare abbia cercato di telefonare, però ce l'ha fatta solo dopo, da fuori. E' uscito gridando: `Siamo italiani'. Nicola invece non ha detto più niente, si è buttato addosso a me che intanto cercavo di scivolare più giù che potevo, tra i due sedili. Mi ha salvata».

«Sono ancora viva, Nicola è morto»

«L'autista era sceso, mi sembrava impossibile che gli americani ci attaccassero. Sono rimasta in macchina, con un fanale hanno illuminato la zona e allora ho visto un mezzo blindato a una decina di metri dalla strada, sulla destra. E' la dinamica del fatto che fa pensare a un agguato, voi cosa avreste pensato? Faccio in tempo a sentire l'ufficiale, che era sceso e da lì telefonava, credo a Roma, mi è sembrato che si fidasse più di chiamare Roma che non Baghdad: `Nicola è morto, lei è lontana ma ha gli occhi aperti...'».

«Sento Nicola sopra di me, cerco di spostarlo e non ci riesco. In quel momento si avvicinano i soldati, sette otto. Aprono la porta sul lato destro, capiscono che Nicola è morto e lo tirano su. Mi sembrano interdetti, forse a uno sfugge un'imprecazione, poi chiama: `C'è un morto'. Allora vengono dalla mia parte, a sinistra. Aprono. Ma sono bloccata, incastrata. Vicino a me, sul sedile, sento un mucchio di proiettili: ci saranno state anche le schegge dei vetri dei finestrini ma a me sembravano proiettili. E quelle che ho nella spalla non sono schegge di vetro».

Con gli americani all'ospedale

«'Sono ancora viva', ho pensato. Sentivo la ferita alla spalla ma non ero morta. I soldati mi hanno tirata fuori, sono rimasta sdraiata per terra mentre uno di loro mi tagliava i vestiti. Pensavano fossi messa peggio. Un altro ha provato a mettermi una flebo, ecco il risultato», e mostra una tumefazione sul polso. «Non so cosa sia successo all'autista, io sono rimasta con i soldati, mi hanno portato all'ospedale sul blindato. Erano americani, giovani. Americani e non d'origine latinoamericana. Non respiravo più, il polmone si stava stringendo, chiedevo continuamente acqua. Lì per lì mi hanno solo chiesto il nome e la nazionalità, più tardi in un'orecchio uno mi ha chiesto: `Ma tu sei la giornalista che avevano rapito?'. Non sapevo che dire, poi ho detto sì. `Mica mi potrà ammazzare qui dentro', ho pensato».

«Nel frattempo, su mia richiesta, era arrivato l'ambasciatore De Martino. L'ambasciatore ha chiamato Gianni Letta e me l'ha passato. Poi mi hanno fatto l'anestesia totale per togliere il proiettile. Quando mi sono svegliata ho chiesto della collana che avevo, la collana della resistenza apparsa nel video. Gli americani non l'hanno più trovata».

È stato un incontro difficile, atteso da giorni e non per questo meno carico di tensione. E di grande emozione. L’argomento all’ordine del giorno fissato dal direttore Furio Colombo e dal condirettore Antonio Padellaro era uno soltanto: il cambio di direzione dell’Unità. Dopo due mesi di indiscrezioni e trattative alla fine è arrivata una decisione della società editrice: sarà Antonio Padellaro il nuovo direttore dell’Unità e firmerà il suo primo numero il 15 marzo prossimo, mentre Furio Colombo sarà l’editorialista del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Perché? «Questa è l’unica domanda a cui non posso dare una risposta perché non mi è stato spiegato - ha detto Furio Colombo -. Ancora oggi non so esattamente per quale motivo era necessario cambiare il direttore di questo quotidiano. Ma a conclusione di un periodo di grande incertezza, posso dire che questo è un buon risultato». Colombo ricorda la vicenda del «totonomi» sul suo successore, i silenzi a domande che per ora non trovano risposte e poi ammette: «Non dico, come fanno i politici , che sono sereno. Non sono sereno, anzi sono anche un po’ incavolato, ma detto questo aggiungo che questa è una decisione razionale, ragionevole, giusta perché sarà Antonio a condurre questo giornale. E la sua direzione era una condizione che avevo posto per poter continuare ad avere un rapporto con l’Unità».

Il suo discorso l’ha iniziato ricordando un altro incontro, quello che ha preceduto la riapertura del giornale fondato da Antonio Gramsci e miseramente affondato dai debiti. Dopo quattro anni ci sono una redazione più che raddoppiata e 66mila copie (i dati Audipress parlano di 409mila lettori quotidiani).«Un risultato che è stato possibile raggiungere grazie ad ognuno di noi, al lavoro di questa redazione e di questa direzione». Furio Colombo è emozionato. La redazione anche. Quello che doveva essere un «ciclo naturale con i suoi tempi ha avuto una brusca accelerazione». Federica Fantozzi gli chiede: «Perché hai accettato di fare l’editorialista per l’Unità?». «Avrei potuto per uno scatto d’orgoglio dire “lascio e vado via”, ma - risponde - ho pensato ai lettori, al rapporto speciale che si è creato in questi anni, alle centinaia di lettere che ho ricevuto in questo periodo e allora lo scatto d’orgoglio l’ho avuto decidendo di restare qui». Antonio Padellaro sottolinea: «La prima condizione che ho posto è stata: o resta Furio o ce ne andiamo insieme. La seconda è stata quella di poter continuare il nostro lavoro con il massimo dell’autonomia e la terza di non avere interferenze sulle scelte che spettano, come prevede il contratto, ad un direttore». Antonio Padellaro, prendendo la parola ringrazia anzitutto la Nie, (Nuova iniziativa editoriale) per la nomina: «So - ha detto - che sul mio nome c’è stato il pieno accordo del consiglio di amministrazione». Poi dice: «Spero di non avere soltanto il nome in comune con il fondatore di questo giornale». Sorrisi e tensione spezzata. Aggiunge: «Adesso dobbiamo pensare alla cosa che più ci sta a cuore: il giornale. Basta chiedersi cosa sarà di noi, quale nuova indiscrezione arriverà sul nostro futuro. Dobbiamo pensare a lavorare a un giornale che avrà una sua continuità con il passato ma saprà anche rinnovarsi e offrire novità al lettore, il nostro vero e unico proprietario». Arriverà un nuovo piano giornalistico, annuncia Padellaro, ma l’Unità continuerà ad essere alimentata dallo stesso spirito con cui è nata 4 anni fa, perché «l’Unità di Furio Colombo per noi è un patrimonio». Aggiunge anche: «E pazienza se già da domani alcuni giornali ne diranno di tutti i colori». Ha ragione: Polito e il Riformista sono già al lavoro.

Soddisfazione per l’esito di questa vicenda è stata espressa dal Cdr, che, nei giorni scorsi, in una lettera aperta alla Nie aveva sostenuto che «troncare il rapporto con l’attuale direzione giornalistica sarebbe un errore gravissimo». Enrico Fierro ha ricordato anche le «inaudite pressioni al Cdr dal 22 dicembre ad oggi». Umberto Di Giovannangeli precisa che questo risultato è arrivato anche grazie allo scatto di orgoglio della redazione che ha «difeso con le unghie e con i denti la propria autonomia». Il primo ringraziamento dal mondo della politica a Furio Colombo e l’augurio di buon lavoro a Antonio Padellaro arriva da Antonio Di Pietro: «A titolo personale, e a nome del partito faccio gli auguri di buon lavoro al nuovo direttore Antonio Padellaro, che saprà raccogliere con onore l’eredità di Colombo e, come ha dimostrato in questi anni, proseguire con spirito di servizio per la professione la battaglia per una informazione ed un giornalismo migliori». «Chiunque abbia a cuore le sorti della libertà dell'informazione non può che ringraziare Furio Colombo per quanto ha fatto e per quanto continuerà a fare a tutela delle libertà individuali e collettive»: scrivono Federico Orlando e Giuseppe Giulietti, rispettivamente presidente e portavoce dell'associazione Articolo 21. «Non abbiamo dubbio alcuno che Antonio Padellaro e l'intera redazione proseguiranno questo comune cammino».

Prima del cda di lunedì le redazioni de l'Unità di Roma, Milano, Firenze e Bologna si erano riunite e avevano discusso e votato quasi all'unanimità una Lettera aperta ai soci della Nie

L´INDIGNAZIONE non serve a capire. Può infiammare l´opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell´attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell´Iraq. La decisione del giudice milanese risponde a due questioni ancora aperte, dopo l´11 settembre, dopo la creazione di norme antiterrorismo più adeguate a fronteggiare una minaccia che, rispetto al passato, è non convenzionale e caotica.

Quali sono i comportamenti e le attività che ci permettono di dire che un uomo faccia parte di un´associazione terroristica? È sufficiente che raccolga del denaro o falsifichi un passaporto per poter dire quell´uomo un terrorista? E ancora: che cos´è il terrorismo? È terrorismo quello che insanguina l´Iraq? La decisione di Milano propone una risposta. Parziale. Discutibile. Da discutere comunque, e non da liquidare, soprattutto nel giorno dell´addio a Simone Cola, con lo sdegno di Fini o con il furore demagogico di un Calderoli dallo stomaco debole.

Fossimo negli Stati Uniti, quei dubbi sarebbero fuffa. Come si sa, gli Stati Uniti, obiettivo primo dell´offensiva terroristica, hanno tagliato con la spada il nodo dei problemi regredendo a uno stadio pre-giuridico il concetto di pericolo. Non è più prioritario dimostrare l´inevitabilità e la concretezza del pericolo. È sufficiente che ci sia un sospetto di pericolosità per trasformare chiunque in enemy combatant. Nemico combattente. La formula soffoca il processo full and fair e quel che lo costituisce: presunzione d´innocenza, diritto al contraddittorio e al silenzio. La vera finalità delle procedure americane non è accertare i fatti e definire le responsabilità, in realtà.

fatti non hanno più alcun rilievo o importanza. Il nemico combattente è una "risorsa", è uno "strumento informativo" utile a colmare il vuoto di "intelligenza" dei governi. «In tutta la storia della penalità moderna ? sostengono gli addetti ? nessun processo ha avuto meno garanzie». Ma gli americani si considerano "in guerra" e "di guerra" è la loro interpretazione della "legalità" tutta giocata nella logica dei rapporti amico-nemico.

Non siamo però negli Stati Uniti. Siamo in Italia. Anche il nostro Paese, consapevole di dover svolgere la sua parte nella guerra globale al terrorismo, ha adeguato ritoccandole alcune regole per favorire l´iniziativa poliziesco-giudiziaria contro le "cellule" di Al Qaeda impegnate in Italia ? come in una retrovia ? nel reclutamento, nel finanziamento, nel proselitismo e nella propaganda ideologica. Per dare più spazio e profondità alle indagini e ai processi è nato l´ambiguo reato di "associazione terroristica internazionale" (articolo 270 bis) che ancora cerca una giurisprudenza condivisa. Le interpretazione che finora ne sono state date sono divergenti. È utile qualche esempio. Il giudice delle indagini preliminari di Milano, Renato Bricchetti, il 16 settembre 2003, ha assolto dall´accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarqawi con queste parole: "La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l´incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (?) Né la prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell´attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi". Per contestare, dunque, l´associazione terroristica internazionale non è sufficiente documentare che un passaporto è falso e lo ha falsificato l´imputato. Bisogna provare che l´imputato lo ha falsificato nella consapevolezza che sarebbe stato utilizzato dall´organizzazione del terrore. Questa interpretazione è stata capovolta due mesi dopo, da un altro giudice. 25 novembre 2003. Guido Salvini ha disposto la cattura di alcuni presunti "kamikaze" di Al Ansar argomentando così: "Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all´estero".

Siamo all´oggi. Il supporto logistico offerto dallo sceicco Abderrazac ad Ansar al Islam è terrorismo? Clementina Forleo, giudice delle indagini preliminari accetta l´interpretazione più "colpevolista", per dir così, di Salvini. Il giudice non ha dubbi che falsificare un passaporto, proteggere l´immigrazione clandestina dei combattenti, favorire il viaggio di un combattente verso i luoghi del conflitto definisca la partecipazione degli imputati alla lotta armata di quel gruppo. "Gli imputati ? scrive Clementina Forleo ? avevano come precipuo scopo il finanziamento e, più in generale, il sostegno di strutture di addestramento paramilitare in Medioriente presumibilmente nel nord dell´Iraq". Si chiede, però, il giudice: la battaglia che combatte Ansar al Islam è terrorismo o guerriglia? Che cos´è il terrorismo? Ora si può cadere dalle nuvole, in buona o cattiva fede, ma il problema c´è, è solido, ha molte contraddittorie interpretazioni. Prima dell´11 settembre la definizione universalmente accettata di terrorismo era stata messa insieme dall´Fbi e recitava: "Terrorismo è l´uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile e ogni loro segmento, nel perseguimento di obiettivi politici o sociali".

Con l´attacco alle Torri, questa definizione è apparsa un arnese senza significato. È stata riscritta per creare le premesse alle azioni di contrasto. Oggi la definizione americana più attuale è: "Il terrorismo impiega l´uso calcolato della violenza e della minaccia di violenza per conseguire obiettivi generalmente politici, religiosi e ideologici attraverso l´induzione della paura, l´intimidazione o la coercizione".

Si può stringere in questo confine quel che accade in Iraq? Evidentemente no, si è risposto il giudice di Milano. Che dovendo definire il fatto per decidere delle responsabilità ? insomma per fare il suo mestiere ? ha guardato in alto alla definizione di terrorismo offerta dalla convenzione delle Nazioni Unite. C´è chi può dire che è stata una mossa avventata? L´Onu scava un discrimine tra il terrorismo e la guerriglia a partire dalla violenza e la morte indiscriminata della popolazione civile. "Le attività violente di guerriglia in contesti bellici ? conclude infatti il giudice ? sono diverse da quelle di tipo terroristico, dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l´umanità". Se si combatte non contro civili inermi ? come a New Yok l´11 settembre ? ma contro truppe armate, eserciti, addirittura coalizione di eserciti e soprattutto con armi infinitamente meno potenti e distruttive, appare al giudice che quella lotta non può definirsi terrorismo, ma guerriglia.

Si può credere che non tocchi a un giudice definire la qualità o il significato di quel che accade in Iraq, ma gli si deve concedere che lo ha fatto per fare il suo lavoro appellandosi alle convenzioni internazionali. Quasi una scelta obbligata. A chi doveva appellarsi, altrimenti? Al dibattito politico? Alla nozione attuale di "legalità" del Patriot Act? Può non piacere, ma non servono anatemi e scomuniche. Occorre buon senso, testa fredda, disponibilità al dialogo per affrontare quel che accadrà in Iraq e saperlo guardare, valutare, comprendere. L´ipocrisia della "missione di pace" ha fatto il suo tempo. Come prima delle ragionevoli parole di un giudice, ci ricorda il destino di Simone Cola.

Sta montando una nuova mussolineide, con l’avallo del Cavaliere che, dopo una dittatura fascista “bonaria”, ce ne segnala una senza “disegno criminoso”: non bastano i 28.000 anni di carcere e di confino irrogati dai Tribunali Speciali, gli assassinii mirati ed eccellenti, le decine di migliaia di perseguitati e di esuli, l’estinzione di ogni libertà, i morti della guerra, ecc. Dopo i reiterati saluti romani del calciatore Paolo Di Canio (difeso o giustificato da tanti giornalisti sportivi, anche della Rai) davanti ad una curva di tifosi con simboli celtici e altri armamentari, punibili ai sensi di una legge che vieta l’apologia del fascismo, ci si mette la nipote Alessandra in cerca di nuova/vecchia notorietà politica. E tira di mezzo Bruno Vespa nei panni di un possibile “zio”.

Intanto, Predappio, paese natale del duce, rischia di diventare un supermercato per i nostalgici del ventennio: ricordi, gagliardetti, divise, immagini del duce, manganelli, cartoline con Benito in mille pose, shampoo “Menefrego” e altre lugubri scemenze. Che tali sarebbero se la “bonaria” dittatura fascista (Pansa ci perdoni) non avesse seminato di lutti l’Italia e se i pellegrinaggi cimiteriali predappiesi non finissero con cori, grida, saluti romani, slogan deliranti. Di recente, la rubrica delle lettere del “Corriere della Sera” ha ospitato una certa polemica in materia, conclusa dalla rassicurazione offerta dalla signora Anna Teodorani (dell’omonima famiglia del federale Vanni Teodorani Fabbri forse): quel supermercato della nostalgia mussoliniana dà lavoro a non poche famiglie e ciò basti. Valore dominante: se il commercio va, tutto va, il resto non conta.

In anni ormai lontani il locale Comune, governato dalle sinistre fin dal ’46, era stato ben più restrittivo in proposito e con esso la Prefettura. Fra l’altro, di Predappio è pure la famiglia degli Zoli, cattolici popolari e antifascisti, il cui esponente più in vista, il presidente del Consiglio, Adone, è sepolto con grande sobrietà nello stesso cimitero di San Cassiano. Fu lui a rendere la salma alla vedova Rachele verso la quale il paese mantenne un rispetto esemplare. Soltanto quando le venne l’idea di aprire un ristorante alla Rocca della Caminate, volò qualche sassata contro i vetri e la Rachele ebbe il buon senso di chiudere l’impresa.

La Rocca torna ora d’attualità per l’ennesimo progetto di riuso, promosso stavolta dall’Amministrazione Provinciale. La casa natale del duce è stata anni fa opportunamente riscattata dal Comune, restaurata ed adibita a mostre periodiche di storia e di costume. Per la Rocca – “liberata” dai partigiani e dalle truppe alleate il 28 ottobre 1944 (ricorrenza fatidica) con l’attiva partecipazione dell’ufficiale Giorgio Spini, lo storiografo fiorentino – la Provincia avanza una ipotesi che ha destato critiche assai forti fra gli intellettuali forlivesi. Vi dovrebbe infatti trovare spazio un Museo dell’Idea di Romagna, tutto virtuale, dove rivivrebbero i personaggi più famosi di questa area storica, da Artusi a Pascoli, a Fellini, passando naturalmente per Mussolini ma pure per Secondo Casadei. Il kitsch sembra garantito. Posso immaginare l’orrore che ne proverebbe, se potesse, il nostro povero amico Federico Fellini (e tanti altri con lui). Lo dico da romagnolo che ama la Romagna: se questa nostra area storica, distinta certamente dall’Emilia con cui peraltro è integrata da secoli, ha un nemico è il romagnolismo. Cioè un localismo enfatico, banale, folklorico che mette insieme la struggente poesia pascoliana con “Romagna mia”, che mescola Amarcord con la “valorizzazione dei prodotti tipici”. La quale è infatti il punto forte del progetto da poco presentato: vini e formaggi tipici, piade e piadine, grigliate e arrosti misti, ecc. ecc.

La forza della Romagna è invece il rigore praticato nell’affrontare la propria storia. Con musei, come quello (ma quando sarà ordinato in modo degno?), di Pergoli e Spallicci a Forlì, forse la più grande raccolta etnografica d’Italia, o come il recentissimo Museo della Marineria di Cesenatico. Con Fondazioni e Società di studi, con Biblioteche secolari attorno alle quali – si pensi soltanto alla Classense di Ravenna o alla Malatestiana di Cesena – è ruotata la cultura locale (e nazionale) . La stessa gastronomia ha avuto specialisti e storici del livello di Pellegrino Artusi e di Piero Camporesi troppo presto scomparso.

Anche per la Rocca delle Caminate – la cui foresteria e il cui parco sono ben gestiti dagli scout dell’Agesci – pareva fattibile a breve uno splendido e rigoroso (insisto) progetto: riportare in Romagna le straordinarie collezioni naturalistiche di Pietro Zangheri, specialista noto in tutto il mondo (gli telefonavano da Berkeley per avere notizie sullo stato di salute delle pinete ravennati). Scomparso nel 1983, finì per lasciare tutto alla città di Verona non trovando risposte affidabili in loco. Il ritorno di quei 150 mila reperti sarebbe possibile e si sposerebbe magnificamente con la dolce collina della Rocca e con la cultura dell’ambiente che già l’Agesci vi coltiva. Una soluzione alta, educativa, ricca di futuro e di pubblico potenziale, giovanile. Non la solita “valorizzazione” che, fra una bevuta e un rutto, magari ammicca al mercatino mussoliniano giù a valle, ormai al di là della decenza e della legalità. Lo studio preliminare parla un linguaggio ambiguo e sottolinea, ad esempio, come la Rocca venne donata nel 1927 “al capo del governo Benito Mussolini in seguito ad una sottoscrizione che ha raccolto ben 70.000 adesioni” e che essa “pare destinata a riassumere il destino fascista dell’intera area forlivese”, ecc. “Se questo è il risveglio della Rocca delle Caminate, molto meglio l’oblio”, ha commentato Carlo Giunchi, uno degli intellettuali protestari. Nei sotterranei della Rocca delle Caminate venne ucciso il partigiano Antonio Carini (Orsi). A Predappio è trascorso invano l’80° anniversario della morte, avvenuta nel ‘25 a seguito delle ripetute percosse squadriste, dell’ultimo sindaco prefascista, il socialista Ciro Farneti. Intanto il supermercato della nostalgia prospera e monta una grottesca mussolineide. Di Canio assicura che ci riproverà, Alessandra Mussolini pure, Bruno Vespa si limita, per ora, a parlare di Resistenza, di guerra civile e del suo ultimo libro, mentre fa la pasta con Antonella Clerici su Raiuno. Servizio pubblico, tv di qualità.

LezioniBolognesi

La legalità, quale, a quali condizioni va difesa: un altro contributo alla discussione di un tema difficile. Da l’Unità del 7 novembre 2005

C’è un tale polverone, mediatico e di bombe, attorno a Bologna, che rintracciare i fili di un ragionamento si è fatto molto difficile. Ma Bologna e il suo sindaco sono così importanti, per il centrosinistra e per tutto il Paese, che non arrendersi ai polveroni è urgente e necessario: senza lasciarsi invischiare dai «cui prodest?», ma anche senza alzare i toni di una riflessione che può affermare le proprie ragioni solo pacatamente. E magari sollevando lo sguardo un po’ sopra le beghe quotidiane per tentare di rivolgerlo alla politica, nella sua accezione più ampia. Nessuno, in nessuna sinistra, pensa o sostiene che l’illegalità sia un valore in sé, e dunque le affermazioni sull’obbligo di applicare le leggi trovano una indiscussa concordia.

Ma molti hanno in testa l’idea che compito della politica - cioè di tutti e di ciascuno - sia forzare l’esistente e le sue leggi in una direzione di progresso. Ricordano, per esempio, che sono stati necessari decenni di scioperi «illegali» perché lo sciopero diventasse un diritto. Per esempio, è grazie a quattro scapestrati radicali, che cominciando a praticare aborti medicalmente assistiti e sicuri si posero al di fuori delle norme allora vigenti, che l’interruzione volontaria della gravidanza ha trovato accoglienza in una legge dello Stato, la 194. Per esempio, è grazie al gesto semplice ed eversivo di una donna che si mise a sedere in una zona dell’autobus che le era interdetta, che il movimento dei neri d’America ebbe impulso, e provocò modificazioni anche legislative dell’assetto esistente. E, dando spazio ai ricordi e alle storie, si potrebbe parlare di occupazione delle terre, di rifiuto delle cartoline-precetto, di una miriade di episodi che hanno mutato le leggi e il costume. Quando ancora non esistevano i «disobbedienti», abbiamo chiamato tutto questo «disobbedienza civile»: e l’aggettivo faceva largamente aggio sul sostantivo, definendo una qualità e un valore. E se è vero che oggi tutto è più confuso, anche il linguaggio, e che molte parole d’ordine di un tempo non funzionano più, bisognerà pur fare uno sforzo per non fermarsi al primo e più piatto significato della parola «legalità».

Una dozzina d’anni fa (sembra un secolo), nacque un Coordinamento delle città per la lotta all’esclusione sociale, che aveva come primo obiettivo lo scambio di esperienze innovative in un settore che stava crescendo in progressione geometrica, e stava diventando esplosivo. Quel Coordinamento fu poi incongruamente accantonato dai governi di centrosinistra, ma forse sarebbe utile tornare ad individuare uno strumento analogo di informazione e conoscenza: perché ancora un esempio il problema oggi scottante a Bologna delle convenzioni fra Enti locali e centri sociali, cioè gruppi informali che rifiutano di assumere una qualsiasi personalità giuridica, fu oggetto di un percorso lunghissimo e difficile già ai tempi della giunta Rutelli, risolto infine con una famosa «delibbera» che ancora oggi, credo, potrebbe fornire indicazioni utili per analoghi problemi. Anche, eventualmente, per evitare scontri e manganellate sulla soglia delle sedi comunali.

Insomma nessun disaccordo sul bisogno di legalità, ma avendo ben chiaro che i percorsi di applicazione delle leggi possono essere diversi. In una metropoli come Roma, che pure ha problemi di sicurezza non certo inferiori a quelli di Bologna, sono stati fatti sgomberi e sono state bonificate baraccopoli senza che cronisti fotografi e teleoperatori trovassero materia di arrembaggio: perché il percorso faticoso e articolato che ha portato a quelle iniziative le ha poste in un ambito di normalità, di condivisione, di consenso. E a proposito di consenso: se è indubbio che, per governare, la politica ne ha bisogno, credo debba essere altrettanto indubbio che non possa essere il consenso l’unità di misura delle scelte. Altrimenti

- per dire - la Democrazia Cristiana dei tempi d’oro non ne avrebbe sbagliata una, e ogni dittatore populista avrebbe diritto al proprio altare. Si può ottenere consenso vellicando gli istinti più oscuri e consolidati dell’elettorato, o si può costruirlo rischiando ogni giorno, costruendo il futuro, immaginando il nuovo, forzando l’opinione pubblica verso obiettivi più alti, di maggior respiro, e per questo sempre scomodi.

Quanto più la situazione complessiva peggiora, tanto più appare chiaro che al centrosinistra, come ad ogni coalizione di progresso, spetta necessariamente il compito degli obiettivi più alti, di maggior respiro, scomodi, diversi: senza di che, si dà spazio inevitabilmente al qualunquismo di chi dice «destra o sinistra, non c’è differenza». È uno spazio ancora inopinatamente ampio, pur in presenza degli errori macroscopici, della diversità davvero antropologica di chi ci governa: sta a tutti noi, e anche al sindaco di Bologna, fare in modo che non cresca ancora

L'aria che tirava ieri pomeriggio alla «veglia per la democrazia» indetta da Arturo Parisi contro la riforma elettorale proporzionalista di Berlusconi & co. è la migliore risposta alla domanda che imperava l'altro ieri sulle prime pagine sia della Repubblica (Ilvo Diamanti) che del Corriere della Sera (Angelo Panebianco) sul clima di archiviazione degli anni Novanta che fa da sfondo al ritorno al proporzionale. Lo sparuto e immalinconito manipolo di eroi del maggioritario (Mario Segni, Achille Occhetto, Willer Bordon, Giovanna Melandri, e con loro Romano Prodi) riunitosi in piazza Montecitorio per vegliare sulla «rivoluzione tradita» del `93 in nulla somigliava alle masse speranzose che dodici anni fa seppellirono il proporzionale con un voto referendario dell'87,1%, illudendosi con ciò di seppellire tutta la cosiddetta Prima Repubblica e di dare la nascita alla cosiddetta Seconda. Solo che a nulla vale prendersela con il colpo di mano di Berlusconi, come fanno i leader del centrosinistra, o con il desiderio di archiviazione del passato decennio «di grandi attese e grandi speranze», come fa Diamanti. Quante delle sue false promesse ha mantenuto la «rivoluzione del maggioritario», peraltro già bocciata dall'elettorato nell'altro referendum, quello del `99, che avrebbe dovuto completarla abolendo la quota proporzionale? Nessuna. Lo stesso Panebianco, che pure annovera fra le «luci» del decennio maggioritario il primato del governo sul parlamento, deve elencare fra le «ombre» la mancata riforma costituzionale che avrebbe dovuto adeguare il sistema delle garanzie alla logica maggioritaria, e la mancata compattazione delle due coalizioni al loro interno, che ha fatto sì che il maggioritario convivesse con una esasperata frammentazione dei partiti. E Diamanti, che nel bipolarismo, nel federalismo e nella personalizzazione tutt'ora vede i tre cambiamenti virtuosi che avrebbero potuto e dovuto portare alla democrazia dell'alternanza, al rinnovamento della classe politica e dei partiti, a un buon rapporto fra istituzioni e società, deve d'altra parte constatare che se per un verso questo passaggio si è incarnato nell'elezione diretta dei sindaci e dei governatori, per l'altro ha avuto la sua apoteosi nella discesa in campo dell'«uomo nuovo» Silvio Berlusconi e del Polo da lui creato e assemblato. Segno evidente che non era tutto oro ciò che luccicava nelle aspettative verso la rivoluzione del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo e della personalizzazione.

Così come oggi non è solo di resurrezione del vecchio che si nutre il ritorno al proporzionale (cosiddetto, perché non si torna affatto al proporzionale di un tempo e la nuova legge riesce a sommare svariati inconvenienti del proporzionale e del maggioritario). Il fatto è che il vecchio non ha mai smesso di scorrere nelle vene del nuovo, malgrado la retorica del nuovo che nei primi anni Novanta imperversava. Quando Diamanti lamenta che oggi ci si illude di superare i problemi dell'ultimo decennio senza affrontarli ma semplicemente rimuovendoli e mettendoli in parentesi ha ragione; a patto di aggiungere che anche con la «rivoluzione» del `93 ci si illuse di seppellire i guai della «Prima Repubblica», e in specie degli anni Ottanta, senza affrontarli e con una insana rimozione. Su una cosa invece concordo con lui: che questo modo di procedere ci lascia ancora una volta in sospeso, a mezz'aria, impigliati in un processo che più che una transizione è un avvitamento. Di rimozione in rimozione sta andando a finire proprio così, con un volo nella nebbia «mentre la terra sotto di noi non si vede più perché non esiste più». Con altre parole si chiama «declino italiano», ma non entra mai, neppure per sbaglio, nelle esauste dispute sulle regole del sistema politico.

SAREBBE un grave errore e un’insopportabile manifestazione di faziosità prendere occasione dal disastro della Louisiana per dare sfogo a sentimenti antiamericani o anche a critiche settarie all’imprevidenza e alla disorganizzazione dell’amministrazione di George W. Bush.

I devoti dell’infallibilità del presidente, più rumorosi in Italia che in qualunque altro paese d’Europa, tuonano da sei giorni contro quest’inesistente fiammata antiamericana della quale non v’è traccia alcuna.

Tuonano contro un bersaglio che non c’è, ma quel cannoneggiamento ha tuttavia un senso: serve ad impedire una riflessione pacata su alcuni problemi di fondo che interessano non solo l’America, ma anche l’Europa e tutto il grande universo mentale che chiamiamo Occidente, cultura e politica liberal-democratica, solidarietà, eguaglianza degli individui e delle comunità di fronte alla legge, di fronte al mercato, di fronte al potere ovunque collocato e gestito.

Serve anche, quel cannoneggiamento preventivo apparentemente privo di bersaglio, a "tentar di" evitare una domanda-chiave che domina dal 1989 il panorama internazionale e cioè la compatibilità di un Impero con il mondo del XXI secolo, con lo stato di diritto, con la globalità della tecnologia, con la convivenza sempre più difficile tra la ricchezza e la povertà.

Eppure quella domanda si è posta e si ripropone con una forza pari all’uragano Katrina che ha seminato morte e rovine su tutta la costa americana che si affaccia sul golfo del Messico.

Questa catastrofe naturale, oltre a scoperchiare migliaia di case, ha messo sotto gli occhi dell’America e del mondo intero una realtà sociale di disuguaglianza estrema, di degrado estremo, di rabbia e frustrazione diffuse tra le moltitudini di colore degli Stati americani del sud e dei ghetti urbani del nord e dell’ovest. Ha messo in evidenza la fragilità profonda del paese-guida dell’Occidente e dei valori che vuole esportare e dei quali si ritiene depositario ma che risultano vistosamente traditi e assenti in casa propria ad un secolo e mezzo di distanza dalla guerra di secessione.

Gli Stati Uniti d’America sono un grande e generoso paese verso il quale l’Europa ha debiti inestinguibili come altrettanto inestinguibili sono i debiti dell’America verso di noi. Sono, al tempo stesso, la più grande potenza economica, tecnologica e militare del mondo, almeno per ora e sicuramente per i prossimi cinquant’anni. L’impero americano, la "pax" americana, sono una comprensibile tentazione. Comprensibile quanto rovinosa.

Almeno metà del popolo americano ne è perfettamente consapevole, ma il terrorismo internazionale con la sua criminale strategia l’ha resa impotente.

Il terrorismo internazionale ha temuto che George W. Bush perdesse il potere, non ottenesse il suo secondo mandato. Il terrorismo internazionale vuole che l’America sia sedotta dal fantasma dell’Impero, dedichi ad esso tutta la sua attenzione, la sua strategia, le sue risorse, contrapponga il dio cristiano al dio dell’Islam, arruoli un esercito di colore contro promesse di cittadinanza e di benefici giudiziari. Questo vuole il terrorismo internazionale, per poter diffondere l’antiamericanismo in tutto il mondo povero, per sollevare le periferie povere del mondo contro il privilegio della ricchezza e del potere.

L’uragano Katrina non è certo colpa di Bush, ma mette a nudo una realtà che conoscevamo sui libri e nei film ma non avevamo ancora mai visto in queste dimensioni con gli occhi impietosi della televisione.

L’America salvò Berlino dal blocco sovietico attraverso il più gigantesco ponte aereo che in quarantott’ore e poi per alcuni mesi tenne in vita centinaia di migliaia di persone altrimenti isolate dal resto del mondo.

L’America ha trasportato in poche settimane un’armata di centinaia di migliaia di soldati in Arabia per la prima guerra del Golfo. Altrettanto ha fatto undici anni dopo per l’invasione dell’Iraq. L’America nel 1969 portò la sua bandiera sulla luna.

Ma sei giorni dopo la catastrofe di Katrina non è ancora riuscita a seppellire i morti di New Orleans, a domare i saccheggi, a sgombrare decine di migliaia di persone abbandonate in un’immensa palude, a far arrivare viveri e medicinali. Ancora ieri il sindaco della città imprecava, piangeva, implorava e bestemmiava di fronte alle telecamere denunciando il caos e l’abbandono. Metà della polizia urbana scomparsa, dileguata, liquefatta, niente autobus, niente soccorsi. «Requisite gli autobus, mandatemi la Guardia Nazionale, se non l’avete mandatemi i caschi blu della fottuta Onu, mobilitate tutti gli elicotteri. Siamo sott’acqua da sei giorni, quanto ancora dobbiamo aspettare?».

È un’invenzione dei giornali antiamericani? Delle tv antiamericane? Del New York Times, del Los Angeles Time, del Washington Post, di tutta la stampa americana convertita improvvisamente al partito antiamericano? Oppure il dio degli eserciti assiste solo i combattenti ma non i volontari della Protezione civile?

* * *

La verità è che gli imperi non sono compatibili con la democrazia.

Deformano la democrazia. Ne concedono il simulacro soltanto a chi faccia atto di sottomissione all’impero e debbono mantenere quel simulacro ponendovi a guardia eserciti permanenti e necessariamente mercenari.

Considerando barbari i popoli che vivono fuori dai confini dell’impero e quelli che, dentro quei confini, non accettano i mores e non pagano il tributo dovuto al centro dell’impero. La storia è piena di esempi e non se ne conoscono eccezioni, da Cesare a Napoleone, passando per Filippo di Spagna, per la Compagnia delle Indie, per le colonie inglesi, olandesi, portoghesi, francesi, belghe, tedesche. Per l’impero ottomano. Per la dominazione russa sulle terre del Caucaso e dell’Asia centrale. Per l’impero asburgico.

Roma non fa eccezione: dalla dinastia Giulio-Claudia fino agli Antonini la guerra ai confini e la repressione dentro i confini fu una costante che accompagnò l’espansione. Poi cominciò il declino. Erano tollerantissimi con gli altri culti, ma non con chi rifiutava il culto alla divinità dell’imperatore. La democrazia negli imperi, quelli antichi ma anche quelli moderni, è stata un lusso riservato ai cittadini di serie A. La libertà privata è stata ampia dentro i confini, ma quella politica è stata di fatto azzerata. Azzerato l’autogoverno. Imbrigliata l’opposizione.

Bisogna dunque maneggiare con estrema cautela il concetto e la pratica dell’impero. Bisogna esser consapevoli che la disparità delle ricchezze inocula virus terribili, tra i quali predomina quello del fanatismo. Dal fanatismo al terrorismo il passo è brevissimo. Il nazionalismo militarista è sempre servito a esportare fuori dai confini i problemi che all’interno non si sapevano o non si volevano risolvere. Il nazionalismo militarista applicato su scala imperiale moltiplica all’ennesima potenza la gravità e l’insolubilità di quei problemi.

Tutto ciò detto, oggi bisognerebbe che il mondo benestante desse una mano alla benestante America per aiutarla a ricostruire New Orleans. Perfino Fidel Castro si è quotato malgrado l’embargo che pesa su Cuba. Siamo tutti louisiani, non è vero?

Ma risolvere il problema delle terribili diseguaglianze della società americana e soprattutto afro-americana non può essere certo compito dell’Europa. Gli amici dell’America possono soltanto segnalarne la gravità.

L’America vive in tutti i sensi con l’Africa in casa. Ma non sembra che questa situazione rappresenti una priorità per la classe dirigente americana.

Questa trascuranza, essa sì, preoccupa fortemente i veri amici dell’America.

LA LETTERA di Carlo De Benedetti pubblicata ieri in questa stessa pagina e indirizzata direttamente a Repubblica, ai suoi lettori e a chi lavora alla sua fattura, contiene una notizia importante. Importante non soltanto per noi ma per tutto il mondo dell´informazione e addirittura per una certa concezione del capitalismo italiano e dell´etica che dovrebbe motivarne i comportamenti.

La notizia è il rifiuto di De Benedetti, dopo una prima accettazione della quale egli stesso ha raccontato il contesto, ad accettare la presenza di Silvio Berlusconi in una sua importante iniziativa economica. La compresenza di due ormai storici avversari, che avevano ed hanno visioni del tutto diverse sul bene comune, i modi e i comportamenti adeguati a realizzarlo e gestirlo, poteva suscitare fraintendimenti, strumentalizzazioni interessate ed anche legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale.

Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l´ampiezza di tale disagio, forte della sua buona fede e del legame ideale che ha sempre intrattenuto con chi l´ha diretto e chi lo dirige. C´è nella sua lettera di ieri un passaggio in cui ricorda il nostro primo incontro di quasi quarant´anni fa. Lo ricordo benissimo anch´io. Eravamo giovani allora e coltivavamo speranze e illusioni. Le illusioni sono cadute alla dura prova dell´esperienza, ma le speranze e le convinzioni sussistono ancora e le vicende che abbiamo attraversato ne confermano la validità.

Caro Carlo, caro amico nostro, la lettera che ci hai inviato ti rende piena giustizia e rafforza in noi affetti e fiducia, sicché non ci sarebbe null´altro da aggiungere se non fosse, come ho già scritto all´inizio, che questa vicenda e la sua conclusione sono esemplari ben al di là dell´episodio specifico. Ed è su questo che mi sembra opportuno ragionare.Si torna a parlare di questione morale. Ne parlano i giornali, ne parlano gli uomini politici, gli uomini d´affari, gli scrittori e naturalmente i moralisti.

Quest´intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali. Sono altresì convinto che l´eccessivo e frequente parlarne crei notevole confusione di concetti e serva a stiracchiare ideali e principi per metterli al servizio di interessi e di egoismi particolari.

Tenterò dunque di fare un po´ di chiarezza rispetto a me stesso e chi ha la bontà di leggere queste mie osservazioni. E comincerò citando un brano d´un mio libro ("Alla ricerca della morale perduta") pubblicato dall´editore Rizzoli nell´ottobre del 1995, che a dieci anni di distanza mi sembra più che mai attuale.

"C´è in tutto lo svolgimento del Novecento e in particolare negli ultimi vent´anni del secolo che ci ha portato sul bordo del terzo millennio, un rigoglioso fiorire di morali che si affermano a detrimento della morale. La morale è sprofondata nell´amore di sé, ma poiché ciascuno vive in relazione con gli altri, con alcuni dei quali fa gruppo per contrastare altri gruppi e imporsi su di loro, ecco che dal profondo egoismo dell´amore di sé è riemersa una morale diciamo così corporativa, una morale deontologica, identificata con le ‘regole dell´arte´. Ciascuno dovrà fare meglio che può ciò che ha scelto di fare, gestire con efficienza la funzione cui è stato chiamato, vivere fino in fondo la vocazione che porta dentro di sé. La sua morale è questa né può essere un´altra. Così la morale dell´artista è identificata con l´opera sua alla cui riuscita tutto può, anzi deve, essere sacrificato e la stessa cosa vale per l´uomo d´affari la cui morale è la buona riuscita degli affari che ha per le mani, e così per il capo di un´impresa la cui morale non ha altra sede che l´impresa stessa e così per il capo e per il militante d´un partito, di un setta, di una corporazione. Ma poiché una persona non realizza se stessa in un solo segmento del proprio vivere, salvo che un´ossessiva nevrosi non lo divori, ecco che le diverse morali si affiancano e convivono tranquillamente tra loro: si indossa la morale impietosa del businessman al mattino, cercando di rovinare il concorrente, e quella filantropica alla sera, nelle riunioni delle parrocchie e del circolo degli scout portando aiuto all´orfano e alla vedova. Le morali si affiancano senza sovrapporsi. Guai se si sovrapponessero; si aprirebbero contraddizioni devastanti e bisognerebbe scegliere tra la morale del mattino e quella della sera. Viceversa convivono: l´uomo e la donna contemporanei somigliano ad un´arancia composta di tanti spicchi, sono animati da varie passioni e da diversi interessi ciascuno dei quali sviluppa una morale. Tante passioni, tanti interessi, tante morali. Come definireste una società di morali conviventi che hanno scacciato il sentimento morale in quanto tale, in quanto impulso a superare il se stesso e occuparsi degli altri? Come la definireste se non una società amorale?".

* * *

Perdonerete questa lunga citazione, che ha tuttavia il pregio di chiarire il contesto sociale e il quadro morale, anzi amorale, entro il quale viviamo.

Nel 2005 questo quadro è diventato ancor più disperante di quanto non fosse dieci anni addietro e le sue linee di tendenza ancor più preoccupanti.

La conferma di quanto dico sta nei fatti recenti e recentissimi che si svolgono sotto i nostri occhi e di fronte ai quali non sai se stupirti, indignarti, resistere o ritirarti sopraffatto dal disgusto. Soprattutto bisogna capire. Individuare le cause. Immaginare i rimedi.

Raccogliere onesti consensi per invertire la tendenza e, pur riconoscendo l´autonomia delle morali, unificarle nel sentimento morale radicato nell´identità della persona e del comune sentire.

La questione morale fu a suo tempo il punto di forza di Enrico Berlinguer durante la tormentata stagione di distacco del Pci dall´alleanza organica con il totalitarismo sovietico. Berlinguer la riassumeva nell´occupazione delle istituzioni effettuata dai partiti della maggioranza.

Chiedeva un passo indietro a tutte le forze politiche e il ritorno alla Costituzione che la prassi aveva in larga misura stravolto a vantaggio degli apparati e delle "arciconfraternite" degli interessi costituiti. Apparve una battaglia moralistica, ma era anche un grido d´allarme contro la manipolazione della democrazia partitocratica che preludeva alla fase di Tangentopoli e alla supplenza della magistratura, con le luci e le ombre che comportò.

Purtroppo, passata quella fase, l´occupazione delle istituzioni è ripresa con rinnovato e impudente vigore, reso ancor più nefasto dal conflitto di interessi in capo al leader politico che ha inquinato il tessuto democratico ben più a fondo di quanto non fosse mai accaduto prima.

Ma quel che è più grave (come ha documentato in un suo recente lavoro Guido Rossi) sta nel fatto che il conflitto d´interessi non è più solo la malapianta estirpabile dal libero mercato; è diventato il connotato principale del capitalismo globale, industriale e soprattutto finanziario, sconvolgendo tutti i rapporti tra le varie categorie di operatori attraverso una rete inestricabile di partecipazioni incrociate tra imprese, banche, consulenti, professionisti, agenzie di rating, agenzie di certificazione dei bilanci, organi societari di controllo, Autorità delegate al controllo esterno e, infine, pubbliche amministrazioni e governi.

Le morali deontologiche che avrebbero almeno dovuto avere il pregio di distinguere i ruoli delle varie parti in causa e preservarne l´efficienza, hanno finito per esser l´alibi a comportamenti illeciti nella totale assenza di un sentimento morale unificante.

Se si pensa che quando il fondatore dell´economia di mercato, Adam Smith, scrisse il suo testo fondamentale sulla "Ricchezza delle nazioni", l´economia politica era considerata una branca della filosofia morale e lo stesso Smith insegnava quella disciplina ed era considerato prima di tutto un filosofo e poi, in seconda battuta, un economista; quando si misurano i mutamenti sopravvenuti da allora, si avrà il senso e la dimensione delle trasformazioni, degli avanzamenti, ma anche delle degenerazioni intervenute nel rapporto tra liberalismo, democrazia e capitalismo.

Su questo rapporto è forse arrivato il momento di una seria e urgente riflessione da parte di tutti gli attori in campo, politici, imprenditori, economisti, giuristi, intellettuali.

* * *

Quanto sta accadendo intorno alla Banca d´Italia in occasione delle scalate alle banche, fornisce la prova delle degenerazioni che sono penetrate nelle midolla del sistema. Ho letto con atterrito sbalordimento i testi delle telefonate intercettate dalla Guardia di finanza tra i protagonisti di quelle scalate, alcuni banchieri e il governatore della Banca centrale. L´assenza d´ogni limite morale e d´ogni regola è devastante. Ma lo è anche l´incertezza dei ministri, la connivenza di alcuni banchieri, la protervia della maggioranza parlamentare, la timidità di gran parte dell´opposizione.

Alte cariche istituzionali hanno cercato di deviare l´opinione pubblica enfatizzando la pretesa fuga di notizie concernente le intercettazioni telefoniche, ignorando volutamente che esse costituivano la documentazione indispensabile degli atti giudiziari disposti dalle Procure e dal Gip e come tali trasmesse in cancelleria a disposizione delle parti e dei loro difensori e non secretate né secretabili.

Questi comportamenti dei presidenti delle Camere, essi sì, andrebbero censurati perché configurano concretamente conflitti di competenza tra poteri dello Stato.

Ho letto con interesse l´intervento di D´Alema sul Sole24Ore.

Tra molte considerazioni che condivido ce ne sono alcune che mi lasciano perplesso. Una in particolare. D´Alema si preoccupa dell´ipotesi che, in caso di presa di controllo di banche italiane da parte di banche straniere (anche se europee) il "cervello decisionale" delle nostre aziende di credito trasmigrerebbe all´estero con le relative conseguenze sulla politica creditizia nazionale.

La preoccupazione di D´Alema ha una sua motivazione cui non basta opporre la semplice trasparenza del mercato. Ma non spetta certo al governatore della Banca centrale darsene carico. Il governatore ha il solo obbligo di controllare la correttezza della procedura delle Opa e delle possibili scalate bancarie nonché i ratios delle banche coinvolte nelle operazioni. Le considerazioni strategiche sulla politica del credito spettano invece al governo e in particolare al ministro del Tesoro, pur sempre nel rispetto delle direttive europee vigenti in materia.

Il governatore deve assicurare piena parità tra gli operatori. Se questo non è avvenuto e se l´immagine dell´arbitro ne esce gravemente inquinata, egli deve trarne le conseguenze, se non le trae spetta al governo supplire a quella lacuna.

Quanto alle altre parti in causa, scalatori di dubbiosissimo conio, la Consob e la magistratura ordinaria hanno già intrapreso inchieste e adottato provvedimenti. Si dovrà andare fino in fondo poiché il credito è un bene pubblico e come tale interessa tutti i cittadini e le istituzioni che li rappresentano.

* * *

Anche la libertà di stampa è un bene pubblico, costituzionalmente garantito.

Pertanto eventuali scalate alle società editrici di giornali debbono avvenire con piena trasparenza degli attori e delle loro fonti di finanziamento.

Dalle – preziose – intercettazioni telefoniche risulta una rete di conversazioni che coinvolgono personaggi d´ogni genere e qualità. Per quanto riguarda la scalata tuttora in corso al Corriere della Sera quelle conversazioni mettono in causa addirittura il presidente del Consiglio. Credo non vi sia bisogno di segnalarne la gravità e la necessità che si proceda all´accertamento dei fatti senza remore di sorta.

Alcuni colleghi di altri giornali e commentatori di varia natura sono intervenuti sul supposto "patto" De Benedetti-Berlusconi e sui possibili effetti che avrebbero potuto derivarne sull´autonomia del nostro gruppo editoriale e in particolare di Repubblica. Se la loro preoccupazione era quella di contribuire alla difesa della nostra autonomia – che peraltro non è mai stata in discussione – a essi ha già risposto con grande chiarezza Ezio Mauro nel suo articolo del 3 agosto. La lettera di Carlo De Benedetti ha posto comunque la parola fine a ogni onesta preoccupazione in proposito. (Delle preoccupazioni non oneste non voglio parlare perché gettano solo disdoro sui loro autori).

Anche noi, per quanto è in nostro potere, cerchiamo di contribuire all´autonomia giornalistica del Corriere della Sera che, esso sì, è esposto al rischio di invasioni da dentro e da fuori dell´assetto proprietario esistente. Così facemmo anche ai tempi in cui l´invasione del Corriere avvenne e la P2 si insediò nelle alte stanze di via Solferino. In quello scontro Repubblica fu al fianco della redazione del Corriere e contro l´assalto che la P2 e i suoi prestanome editoriali avevano sferrato impadronendosi del giornale.

Purtroppo la libertà di stampa è un bene a rischio. Su di essa non ci si può addormentare. Ed è un bene che, come ho già detto, riguarda tutti.

Per questa ragione mi piace qui rinnovare a conclusione di queste mie note i sentimenti di affezione a Carlo De Benedetti, di considerazione della lettera che ci ha indirizzato e della decisione che ha preso e che ci rende più fiduciosi e più forti.

Post Scriptum. Arriva quando ho appena finito di scrivere questo mio articolo la lettera diretta al nostro direttore del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. I lettori giudicheranno direttamente il contenuto delle sue affermazioni ma un punto merita forse una puntuale risposta e riguarda la nomina del direttore generale della Rai effettuata l´altro ieri. In questa nomina e nella designazione del nuovo direttore generale il presidente del Consiglio è direttamente intervenuto come risulta da tutte le cronache, mentre proprio a causa del conflitto d´interessi avrebbe dovuto rigorosamente astenersi da ogni partecipazione a questo importante atto amministrativo.

Resta in tal modo confermato che il presidente del Consiglio dispone della televisione pubblica quanto se non di più di quella che gli appartiene per diritto proprietario. Mi sembra più che sufficiente per giudicare tutto il resto delle sue affermazioni.

A parte le ovvie, sacrosante e scontate reazioni di orrore per le stragi terroriste, pietà per le loro vittime e paura di far parte domani di queste ultime — rischio cui è esposto chiunque, indipendentemente dalle sue scelte politiche e dai suoi sentimenti caritatevoli o astiosi nei riguardi del prossimo — i devastanti attentati di queste settimane e di questi giorni costringono a prender atto che, fra le sconvolgenti trasformazioni che hanno mutato e mutano la nostra realtà, c'è anche la trasformazione della guerra, come avevano genialmente intuito e analizzato già anni fa, ben prima dell'11 settembre, i due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui. Il terrorismo non è più un episodio isolato, eclatante ma presto sommerso dal corso delle cose; è una guerra e una guerra che non riguarda soltanto roventi situazioni e conflitti locali, come in passato, ma il mondo intero. Non si tratta più di piccoli gruppi che, con mezzi e azioni anomale rispetto alle consuete modalità belliche, colpiscono un avversario e nemmeno di singoli nuclei sovversivi che colpiscono le istituzioni nella speranza di rovesciare l'ordine sociale vigente o di favorire losche manovre politiche, come è avvenuto in anni non lontani in Italia.

Ora si tratta di una guerra, simile o opposta a quella tradizionale: un'organizzazione clandestina attacca rovinosamente New York, cosa che non riuscì e non poteva riuscire all'aviazione del Terzo Reich; bombarda con le sue bombe Londra, come la Luftwaffe di Hitler.

Dinanzi a una guerra — a parte il dolore per i morti e la paura di morire — si possono fare varie considerazioni. La si può inquadrare — e si deve farlo, se ci si propone di discuterne obiettivamente e al di sopra dei propri timori e interessi — nel complesso della storia, collocando la violenza che ci colpisce nella totalità degli eventi che l'hanno preceduta e generata: è quello che ha fatto — con particolare coraggio, dato il momento tragico e il suo ruolo politico — il sindaco di Londra, collega di partito di Blair, ricordando le violenze compiute in passato dall'Occidente e osservando che ognuno combatte con le armi che ha a disposizione, carri armati e aeroplani o bombe. Si può anche ricordare che Begin aveva compiuto sanguinose azioni terroriste e più tardi, in circostanze e funzioni diverse, ricevette il Premio Nobel per la pace, quasi a significare che è la vittoria o la sconfitta a decidere se il terrorismo ha ragione o torto.

Queste osservazioni del Lord Major londinese sono giuste e servono a ricordare, doverosamente e opportunamente, che, accanto alle vittime barbaramente uccise come quelle di questi giorni e giustamente piante da tutto il mondo, ce ne sono state e ce ne sono tante, tantissime altre massacrate altrettanto barbaramente senza che il mondo e la coscienza del mondo ne avessero e ne abbiano rimorso e nemmeno consapevolezza.

Tali considerazioni tuttavia servono a poco dinanzi al fatto che pure chi le fa si trova esposto al rischio di saltare in aria su una bomba messa nella metropolitana; in questo momento, nella piccola Trieste che non attira l'attenzione del mondo, sono probabilmente più al riparo di chi deve attraversare Londra per guadagnarsi il pane, ma, dati i numerosi viaggi cui mi porta il mio lavoro, non sarebbe statisticamente impossibile che toccasse pure a me. Dopo tutto, è stato un caso che mi trovassi a Londra tre mesi e non tre settimane fa.

Dunque, quali siano o possano essere le origini, le motivazioni, le cause, la realtà da cui nasce il terrorismo, debellarlo significa proteggere pure me, i miei amici, tutti. Ma come può essere sconfitto? Certamente occorre rimuovere tutte le cause, e in primo luogo i nostri errori e le nostre colpe, che possono creare situazioni in cui il terrorismo attecchisce più facilmente, ma, a parte questo doveroso disegno del futuro, è necessario stroncare la sua realtà presente, la sua furia che è autonoma e prescinde ormai da ogni genesi storico-politico-sociale. Ma come vincere questa guerra? Sembra talora che l'Occidente si affidi a una visione e a una tattica bellica invecchiate, sorpassate da quella trasformazione globale e capillare della guerra analizzata dai due strateghi cinesi.

L'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, se si proponeva di estirpare il terrorismo, è stata una risposta tecnicamente invecchiata a una situazione nuova; il terrorismo infatti è aumentato e in Iraq le vittime quotidiane sono così numerose da non destare più emozione, come denunciava giovedì Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, forse anche perché si tende a sorvolare su di esse in quanto dimostrano il fallimento dell'impresa. La disastrosa invasione sovietica dell'Afghanistan, che è stata condannata moralmente anziché essere bollata in primo luogo per la sua stupidità, non ha insegnato proprio nulla.

L'altro giorno, chiacchierando a tavola, uno dei miei figli mi faceva osservare come, sino a pochi anni fa, il divario tra il potere e i piccoli gruppi ribelli fosse andato, con lo sviluppo della tecnologia, sempre crescendo, mentre oggi è proprio il progresso tecnologico che permette a un'organizzazione segreta di sfidare la più grande potenza del mondo e di disporre di armi non troppo dissimili, così come nell'età della pietra sia il capo tribù sia l'ultimo ribelle disponevano della clava. Pure chiudere le frontiere o espellere non già, giustamente, individui di accertata pericolosità, bensì indiscriminatamente persone provenienti da zone vagamente accostabili al terrorismo, è non solo ingiusto, ma inefficace e contrasta quella circolazione e quella globalizzazione che sono, in bene e in male, la nostra realtà e che è patetico illudersi di bloccare. Come ha scritto Sergio Romano sul Corriere, si combatte il terrorismo mantenendo fede alla normalità quotidiana, non lasciandosi intimidire, continuando a creare quella vita d'ogni giorno ch'esso vuole distruggere, viaggiando in metropolitana nonostante le bombe, anche perché non è la morte la disgrazia peggiore («morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna», dice un proverbio delle mie parti) bensì una vita tarpata, bloccata.

A una situazione nuova occorre rispondere, per non perdere, con metodi nuovi. Un profano pensa istintivamente che in primo luogo un'efficace rete di infiltrati potrebbe permettere di stroncare il terrorismo sul nascere, ma è ridicolo che un profano dica la sua su queste cose. La reazione inglese, nella sua calma e compostezza, è esemplare, e rappresenta forse una delle risposte migliori. I terroristi hanno assassinato tante persone, ma se la loro strage non incide minimamente sull'atteggiamento degli inglesi, questa è già una loro sconfitta. L'Inghilterra ha vinto la Seconda guerra mondiale anche perché Churchill, mentre Londra veniva selvaggiamente bombardata, si preoccupava ostentatamente della salute di alcune bertucce dello zoo di Gibilterra.

Nell'immagine lo skyline di New York dopo gli attentati alle Torri Gemelle (Jim Graham/Saba)

La sintonia tra il premier Silvio Berlusconi e il segretario deiDs Piero Fassino non è fatto abituale. Ancora di più se l'oggetto è ilmondo della finanza. Ma ieri a trovare d'accordo, almeno apparentemente, i due leader è stato uno degli argomenti più chiacchierati e discussi del momento: gli immobiliaristi. Mentre il premier difendeva le scalate, anche quelle all'Rcs, Fassino intervistato da Sky Tg24 diceva di «non conoscerli» ma di trovare «incomprensibile» la «puzza sotto il naso» che circonda chi costruisce palazzi. Il riferimento è chiaro ed è alle mosse degli immobiliaristi, formula con cui negli ultimi tempi si fa riferimento soprattutto a Danilo Coppola, Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto. «Bisogna solo capire se un imprenditore fa bene o meno il suo mestiere» ha aggiunto Fassino. Ma il tema è più ampio. Perché le voci che vogliono un legame tra i Ds e la nuova generazione di immobiliaristi — tra gli altri il settimanale Diario aveva dedicato la copertina al «Compagno Ricucci» — sono state tali da spingere qualche giorno fa il presidente dei Ds Massimo D'Alema a scendere in campo direttamente per smentirle. «Ricucci? Mai visto» aveva detto D'Alema. Che aveva aggiunto di ritenere la stessa sinistra italiana la possibile fonte della voce.

Così Fassino ha concluso definendo «inaccettabile» la campagna fatta «su D'Alema e anche intorno al mio partito» , a proposito di rapporti con ambienti finanziari «che non ci sono» .

C’è una sola parola appropriata per decifrare la situazione dell’economia italiana dopo le cifre fornite quattro giorni fa dall’Istituto di statistica: sfascio. Non ci trastulliamo con termini più o meno tecnici, recessione, stagnazione, «stagflation» e altri consimili. La parola giusta è sfascio. Gli ingranaggi sono fermi, il motore è spento, il treno è immobile su un binario abbandonato.

Si discute quanto di questo sfascio sia dovuto a crisi congiunturale e quanto a crisi strutturale; quanto al ciclo fiacco di Eurolandia e quanto al dilettantismo nostrano.

Discussione oziosa. Nelle crisi profonde che colpiscono un organismo c’è di tutto un po’. Nel caso nostro il «nanismo» delle aziende italiane è antico, la scarsità del capitale di rischio è antica, la mediocrità della ricerca e dell’innovazione è stata una costante dell’industria italiana. Eppure questi handicap non ci hanno impedito di trasformarci in meno di vent’anni da Paese prevalentemente contadino in paese industriale e successivamente post-industriale e terziario.

Non ci hanno impedito di raggiungere un livello di reddito europeo, di accumulare risparmio, di creare nuova e maggiore ricchezza, di entrare a far parte dei sette Paesi più ricchi del mondo, di crescere a ritmi sostenuti, di occupare una posizione cospicua nel commercio internazionale.

Non ci hanno impedito una buona vita, buone vacanze, casa e seconda casa di proprietà, più di un’auto per famiglia, più di una televisione, più di un telefonino. E tante altre cose che fanno il benessere così come ora si concepisce.

Che cos’è dunque che a un certo momento si è inceppato? Perché il giocattolo si è rotto?

Su questo giornale abbiamo raccontato molte volte questa lacrimevole storia di un Paese di furbi che segavano il tronco su cui stavano seduti e sarebbe noioso raccontarla di nuovo. Basti ricordare che il meccanismo si è inceppato quando abbiamo cominciato ad accumulare un debito pubblico dissennato scaricando sulle future generazioni il peso della dissennatezza.

Scaricando gli errori, le camorre, il costo delle disuguaglianze sui figli e sui nipoti.

Ebbene, la cambiale è arrivata al pagamento. I figli e i nipoti siamo noi, visto che quest’andazzo cominciò nei primi anni Ottanta. Dunque venticinque anni fa, giusto il tempo di passaggio di una generazione.

***

La crisi ebbe tuttavia un momento di ristoro e di inversione di marcia dopo aver raggiunto quello che allora fu considerato l’acme dello sfascio economico strutturale.

Ricordate? Fu nel 1992, governo Amato, la lira al tracollo, una fuga di capitali paurosa, crollo delle esportazioni, riserve valutarie prossime allo zero, sfiducia profonda dei mercati.

La reazione fu una cura da cavallo, iniziata dallo stesso Amato, proseguita da Ciampi chiamato a succedergli e portata avanti da Prodi con Ciampi al Tesoro. (Deve far riflettere che allo stesso posto dove sedettero Andreatta e Ciampi si siano poi accomodati Tremonti e Siniscalco).

In quel periodo il debito scese dal 130 al 106 del Pil, i tassi di interesse e l’inflazione tornarono a livelli europei, il bilancio registrò un avanzo delle partite correnti del 5 per cento. La politica dei redditi fu concertata dal governo con le parti sociali. La lira si fuse con altre undici monete dando vita all’euro.

Adesso Berlusconi e Tremonti fantasticano di dare una spallata (parole loro) alla Commissione di Bruxelles e attribuiscono all’euro i guai provocati dalla loro insipienza. Dimenticano di dire dove sarebbe oggi la nostra economia già così disastrata se al posto dell’euro ci fosse stata ancora la lira. Dove sarebbero arrivati l’inflazione e i tassi di interesse. Dove si collocherebbe il tasso di cambio tra la lira e il dollaro, la lira e la sterlina, la lira e l’euro, perché la moneta europea sarebbe nata lo stesso anche senza di noi e la lira varrebbe più o meno ciò che vale la moneta libica o quella argentina o quella messicana. E’ semplicemente vergognoso che queste verità siano nascoste da un’ondata di demagogia messa in piedi da «nani e ballerine».

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Dopo la nascita dell’euro gli italiani, o meglio una lieve maggioranza di elettori, preferirono tirare il fiato.

L’inversione di rotta gestita da Amato-Ciampi-Prodi verso la ricostruzione della finanza e dell’economia aveva comportato sacrifici, il risanamento aveva imposto ritmi serrati, una pausa era dunque fisiologica. Ma pesavano ancora sul paese i mali antichi, la debolezza congenita del capitalismo italiano, la scarsa innovazione, il burocratese.

Una pausa, sì, ma senza allentare la vigilanza, avviando la modernizzazione senza promettere la cuccagna; liberalizzando i settori protetti, tutelando energicamente la libera concorrenza contro l’insidia del monopolio specie nei settori della pubblica utilità, tagliando le rendite a favore dei profitti e dei salari, accorciando la catena commerciale, proseguendo la riforma del mercato del lavoro già iniziata da Prodi e D’Alema con buoni frutti, sempre nel quadro della concertazione sociale e di una politica dei redditi equa e responsabile.

Ebbene, le cose non sono andate così. Sappiamo come sono andate perché è storia di questi quattro anni. La congiuntura internazionale ha rallentato il passo. Poi il passo è tornato normale in Usa ma non in Europa. Poi ha ripreso a tirare il Giappone. Infine hanno cominciato a emergere la Cina e l’India. Si sono confrontate e si confrontano strutture economiche con costi elevati con strutture con costi bassissimi, industrie innovative con industrie «convenzionali».

In questa nuova e più difficile temperie il sistema Italia è rapidamente precipitato nelle posizioni di coda, i mali antichi sono riemersi con virulenza, altri se ne sono aggiunti. La pace sociale è stata volutamente spezzata. Si è perseguita una politica economica classista e una finanza cosiddetta creativa ma che meglio si sarebbe dovuta definire imbrogliona.

Risultato: lo sfascio, l’isolamento dall’Europa, la bugia sistematica e il nascondimento dei dati reali. E ora che si fa?

* * *

Il governo ha buttato dalla finestra 12 miliardi di euro l’anno scorso per diminuire le aliquote dell’Irpef (soprattutto sui redditi sopra i 40 mila euro).

Voleva buttarne via altrettanti per beneficiare i redditi massimi diminuendo l’aliquota dal 43 al 39 per cento.

Adesso ci ha ripensato (per fortuna). Il «premier» quei 12 miliardi li vorrebbe destinare all’abbattimento dell’Irap che grava sull’ammontare dei salari pagati dalle aziende.

L’idea sarebbe buona ma purtroppo i soldi non ci sono. Non ci sono neppure per diminuire l’Irap di soli 4 miliardi, mentre pare ci siano, ma non si sa dove stiano, per rimpiazzare gli 11 miliardi per le «una tantum» che vanno in scadenza alla fine dell’anno. Siniscalco dovrebbe spiegare e speriamo lo faccia presto.

Lo sforamento dei parametri di Maastricht è, allo stato attuale, del 4 per cento. E’ previsto che salga al 4,6 per fine anno a legislazione vigente, ma non è spesato il contratto del pubblico impiego oltre i 90 euro, non c’è un soldo per gli ammortizzatori sociali, la Cassa integrazione è già fuori misura, confiscata in gran parte dalla crisi della Fiat; le Ferrovie denunciano esuberi per altri 10 mila dipendenti. Centomila sono i posti a rischio della grande industria (quel che ne resta). I consumi sono al punto più basso degli ultimi quindici anni. Gli investimenti languono. Le esportazioni sono in rosso.

Occorre la «scossa» per ripartire, questo dice l’emergenza: una scossa forte per ripartire subito.

La scossa, diciamolo con onesta franchezza, non può venire dagli investimenti: se il cavallo non beve, le imprese non investiranno, quale che siano gli sconti fiscali. Il cavallo sono i consumi, la domanda interna. Ci vuole dunque un provvedimento di rapido impiego che sostenga i consumi e questo è il solo modo per rimettere la macchina in moto.

Gli sconti sull’Irap puntano sugli investimenti e non entreranno in funzione (anche se decretati subito) che a metà del 2006. Troppo tardi per risollevare una situazione agonica.

Un altro provvedimento sarebbe più appropriato e di quasi immediata utilizzazione: la dimensione del cuneo fiscale, la fiscalizzazione cioè di una parte dei contributi sociali attualmente a carico delle imprese e dei lavoratori.

Agire sul cuneo fiscale è molto più appropriato che agire soltanto sull’Irap. Avvicina il costo del lavoro al salario netto che va in busta paga.

Lo sgravio potrebbe andare per metà a vantaggio delle imprese e per metà a vantaggio dei salari. Uno sconto di 3 miliardi all’Irap ed altri 3 alla fiscalizzazione contributiva: ecco 6 miliardi ben spesi. Con effetti immediati per la metà e con effetti sulle aspettative per l’altra metà che diventerebbe operante nel 2006. La copertura, per la metà immediatamente necessaria, potrebbe essere trovata dall’aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie.

***

Ma il provvedimento più efficace per restaurare la fiducia riguarda la politica: licenziare questo governo, il suo manovratore e lo stuolo dei suoi ministri-dilettanti.

Prima sarà meglio sarà. Ogni settimana è persa. Questo ormai l’hanno capito tutti. Sarebbe bene che si passasse dalle parole al fatto. Questa maggioranza non esiste più.

Perciò seppellitela prima che la sua decomposizione ammorbi l’aria con i suoi mefitici vapori.

P. S. Nel giorno del sesto anniversario del suo settennato presidenziale desidero inviare gli auguri e la più sentita riconoscenza al nostro presidente Carlo Azeglio Ciampi.

Confido d’interpretare un sentimento comune e molto diffuso nel dire che la sua presenza al vertice dello Stato è per tutti gli italiani uno dei pochi elementi di fiducia e di speranza in un futuro migliore

Almeno per qualche giorno, almeno in Italia, almeno a Roma, lo strabismo è d'obbligo. Morto un papa se ne fa un altro, morto un governo pure, o forse no. Chiesa e Stato, religione e laicità, autorità e potere. Di là e di qua dal Tevere. Strana contingenza, stesso tempo, scenari abissalmente diversi. Di là dal Tevere, dopo il ciclone Wojtyla, tutto è in ballo, dal rapporto fra fede e scienza al sacerdozio femminile, ma la forma è intatta: come durante i funerali di Giovanni Paolo II, la diretta tv restituisce geometrie e liturgie precise e cadenzate, i giochi per la successione coperti dal silenzio stampa cui sono stati piegati i 115 cardinali riuniti nella Cappella Sistina in rappresentanza del mondo. Di qua dal Tevere, alla fine del ciclone Berlusconi, c'è in ballo molto meno, un cambio di governo e forse di campo politico, ma la forma è sfatta: fra scena e retroscena, fra un conato di decisionismo del Cavaliere e un conato di autonomia di Follini, le cronache restituiscono un'incertezza istituzionale ormai scontata e interiorizzata, come se le procedure costituzionali fossero pura ritualità non vincolante per una prassi impazzita. Di là dal Tevere, finita la preghera inizia il conclave erga omnes; di qua, finito il vertice di maggioranza si aspetta che il presidente del consiglio salga finalmente al Quirinale, nel vocio di Bossi che annuncia tempesta, Buttiglione che vede sereno e Follini che patteggia insidie e ministri. Berlusconi ha passato il weekend a fare gli scongiuri contro il ritorno alla prima Repubblica, scambiando come al solito la sua fede populista per il passaggio alla seconda, che sul piano delle regole non c'è mai stato. Il berlusconismo sembra morto nelle urne regionali, ma non lo è e non smetteremo di farci i conti, sul piano delle regole, dei contenuti e della comunicazione politica: perde ai punti ma non è al tappeto, e finirà ingloriosamente, lasciando strascichi di ogni tipo, malgrado le invocazioni romantiche dell'elefantino sul Foglio al «doppio onirico» di Berlusconi perché lo faccia finire in gloria giocandosi il tutto per tutto nell'ultimo sogno e nell'ultima battaglia. Sommersa dai debiti, l'Italia non sogna più, e non è neanche detto che sia un bene come sarebbe cambiare sogno: al centrosinistra toccherà la gestione del disincanto senza né doppi onirici né doppi sogni (quelli esplosivi, a «occhi completamente aperti», alla Schnitzler riscritto da Kubrick).

Il sogno s'è spostato oltretevere. Lì i fedeli attendono il nuovo papa con un carico di aspettative che la politica laica non conosce più. Lo vogliono: paterno, aperto, comprensivo, ecumenico. I giornali, manifesto compreso, pubblicano la lista dei desideri: dev'essere simpatico come dice il cardinale Schoenborn, mediatico ma non troppo, riformista all'interno della Chiesa, deve continuare il dialogo con le altre religioni, avere a cuore i bambini asiatici oggetto di commercio sessuale, essere sensibile ai problemi dell'ambiente, diventare il paladino dei diritti umani, contrastare le guerre. Poco meno che un programma politico planetario. Molto proiettivo, molto virtuale. Ma al di qua delle proiezioni le poste in gioco, per l'immediato futuro della Chiesa, sono chiare: rapporto fra fede e scienza, permessi e divieti per la ricerca sulle cellule staminali e per la procreazione assistita, preti sposati per combattere la crisi delle vocazioni, sacerdozio femminile per scuotere il sessismo cattolico, meno proibizionismo sulla contraccezione, dialogo effettivo e non di facciata con le altre religioni, rilancio di collegialità in una Chiesa anch'essa troppo tentata, con Wojtyla, dal binomio populismo-leaderismo. Il catalogo è questo. Qualcuno da questa parte del Tevere, a destra e a sinistra, è in grado di stilarne uno altrettanto dettagliato per il governo che verrà?

È impossibile nascondersi la gravità di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei loro rapporti. Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato-Regioni, già oggi ben oltre il limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo - presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera politica - e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale realizza - per giunta non subito ma, tanto per accrescere la confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo - sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto.

Del resto è solo per il ricatto continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese.

Perché di questo si tratta: la riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non più garantiti da una tutela pubblica affidabile.

Di fronte a questa prospettiva inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una Costituzione e una patria.

Se dovessimo dar retta a Ricardo per regolare l’ economia italiana e quella mondiale, come propongono alcuni economisti e le maggiori organizzazioni internazionali, non dovremmo esitare un istante: constatato che i cinesi ormai producono merci nel settore del tessile e abbigliamento a un costo assai più basso dell’ Italia, questa dovrebbe uscire di corsa da tale settore, e cercare di occupare i lavoratori che così perdono il posto nella produzione di merci che alla Cina convenga comprare. In questo modo sia l’ Italia che la Cina ne trarrebbero vantaggio. Mentre cercare di fermare alla dogana di Gioia Tauro, o di Genova, le merci cinesi nuocerebbe ad ambedue le economie.

Ricardo aveva forse ragione quando suggeriva - nel 1817 - ai portoghesi di comprare panno in Inghilterra, dove lo producevano a minor prezzo, ed agli inglesi di acquistare vino in Portogallo invece che farselo in casa. Purtroppo, trasferita ai giorni nostri, e applicata alle relazioni commerciali Italia-Cina, la sua teoria dei "costi comparati" presenta vari inconvenienti. Il costo del lavoro in Cina è 20-25 volte inferiore a quello italiano. Nelle manifatture delle principali zone industriali il salario medio cinese è di circa 1.200 euro l’ anno, e gli orari molto lunghi; quello italiano si aggira sui 1.200 euro al mese, guadagnato con orari più umani. Inoltre i prelievi obbligatori per l’ assistenza e la previdenza raddoppiano il costo del lavoro in Italia, mentre poco aggiungono in Cina, dove il comunismo capitalista ha soppresso quel che esisteva del vecchio stato sociale, e si è ben guardato dallo svilupparne uno nuovo. Dal che deriva la disuguaglianza indicata. Quanto basta per dire, tra l’ altro, che i cinesi non stanno affatto facendo del dumping, che significa vendere in massa prodotti sottocosto; vendono a prezzi bassi perché i loro costi sono bassissimi.

Di fronte a simili disparità, forse nemmeno Ricardo avrebbe consigliato ai portoghesi di fabbricare vino e comprare panno, e agli inglesi di fare il contrario. Né il problema si chiude con le disuguaglianze salariali. Va infatti notato che anche se volessimo procedere con lo scenario socialmente intollerabile di qualche centinaio di migliaia di lavoratori disoccupati per mesi o per anni, in attesa di essere gradualmente rioccupati in settori più produttivi, in realtà noi non sappiamo più quali prodotti di massa potrebbero oggi interessare alla Cina. I prodotti di massa se li fabbricano sul posto, pure quelli con contenuti tecnologici elevati. In altre parole il trasferimento di grandi quantità di manodopera dal tessile ad altri settori, oltre ad essere impraticabile, sposterebbe soltanto il problema un po’ più a lato, o a un tempo un poco più lontano.

Allora, dazi italiani sulle merci cinesi? Prima di soffermarsi su questa domanda, bisognerebbe formulare altre risposte. Cominciando dal notare che alle migliaia di imprese europee e americane operanti in Cina i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro delle zone industriali, che diventano pessime nelle zone franche di lavorazione ed esportazione dove lavorano per loro trenta milioni di persone, in fondo vanno benissimo. Infatti permettono di fare grandi profitti. E vanno bene anche a noi come consumatori, perché senza il lavoro di giovani donne pagato due dollari al giorno, nelle zone franche, noi non avremmo il piacere di comprarci, ad esempio, un PC superdotato per meno di mille euro. Bisognerebbe quindi chiedere alle imprese in questione se non sarebbero disposte a pagare salari un po’ più elevati nelle tante fabbriche cinesi che a loro, in una forma o nell’ altra, fanno capo, come sussidiarie o fornitrici; e magari a permettere addirittura l’ ingresso nelle fabbriche di rappresentanze sindacali. Mentre ciascuno di noi, come consumatore, potrebbe magari ragionare sul fatto che se si pagassero un po’ di più i prodotti che attraverso molte vie vengono dalla Cina, favorendo l’ aumento dei salari in quella parte del globo, si difenderebbero meglio i posti di lavoro da questa parte del medesimo.

Nel caso che le imprese europee fossero disposte a concedere qualcosa in merito ai salari che pagano e alle condizioni di lavoro che offrono in Cina, l’ Italia, o meglio la Ue, sarebbero in una posizione migliore per discutere con i cinesi dei tanti aspetti dei rapporti commerciali che non si esauriscono nel rapporto prezzo/qualità delle merci. Oggi si parla molto di investitori socialmente responsabili, quelli che acquistano azioni di un’ impresa soltanto se essa soddisfa determinati parametri sotto il profilo economico, sociale e ambientale. Sembra difficile negare che i paesi Ue, non in ordine sparso ma con un disegno collettivo, peserebbero di più nella regolazione del commercio mondiale se cominciassero ad agire come partners commerciali socialmente responsabili. Capaci di chiedere alla Cina - o all’ India, o ad altri - il rispetto di diritti umani, sociali, sindacali nell’ industria dei loro paesi. E capaci di chiederlo in modo non ipocrita perché le loro imprese per prime si sono adoperate a rispettare quei diritti non solo in patria, ma anche nelle zone dell’ Asia sud-orientale da cui importano fiumi di materie prime, semilavorati, componenti e prodotti finiti.

E i dazi sui tessili, e perché no sulle mele o i giocattoli provenienti dalla Cina? Per avanzare una simile proposta bisogna veramente non avere alcuna idea di come è organizzata oggi la produzione nel mondo di qualsiasi manufatto, tramite infinite catene transnazionali di creazione del valore. Le merci che, colpite da pesanti oneri doganali, non sbarcherebbero più a Gioia Tauro o a Genova, arriverebbero da Tarvisio o dal Sempione. Senza pagare dazio, perché porterebbero un’ etichetta europea o magari americana. Al confronto, per quanto al momento possa apparire utopistica, è molto più concreta l’ idea di discutere con i cinesi, a livello Ue, di salari, diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro. Senza però pretendere di chiedere a loro di introdurre quei mutamenti che tante imprese europee operanti in Cina finora si sono ben guardate dall’ attuare.

L´amnistia ad personam

Un paradosso che illustra la follia della situazione nella quale il potere dei malandrini ha gettato lo Stato. Da la Repubblica del 24 febbraio 2005

Se la soluzione fosse un´altra, a portata di mano e tagliente come l´ascia che trancia di netto il nodo troppo stretto? Se la soluzione fosse una legge d´un solo articolo che reciti: «Con la presente legge si estinguono i reati, quali che siano, commessi dal signor Cesare Previti e dai suoi complici. Entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e si applica ai fatti commessi anteriormente a tale data e ai procedimenti e ai processi pendenti alla medesima data». Sì, un provvedimento legislativo di carattere dichiaratamente personale con cui lo Stato rinuncia all´applicazione della pena nei confronti di un solo uomo, l´avvocato Cesare Previti

Un´amnistia ad personam che salva uno e protegge tutti; invece, di leggi ad personam che, per rispettare il carattere generale e astratto proprio delle leggi, mettono in pericolo tutti per salvare uno solo.

É un paradosso? Sì, lo è. Ma, in fondo, che cosa significa paradoxon se non «oltre l´opinione comune»? L´opinione comune è spesso sbagliata e i paradossi sono quasi sempre delle elementari verità che il tempo nasconde. Si potrebbe dire che quel tempo - il tempo di risolvere finalmente questa assurdità - sembra giunto. Se, dimenticando l´articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge»), ragionassimo in modo concreto e pragmatico; se azzittissimo le tirate sui principi e sulla poliarchia del potere; se tenessimo conto di un responsabile equilibrio costi/benefici, non c´è dubbio che sarebbe questa strada - l´amnistia ad personam - la migliore, la meno pericolosa per gli italiani e la meno tragica per l´equilibrio costituzionale che regge la Repubblica.

Osservate che cosa ci può accadere se ci facessimo imprigionare dalla Costituzione e dalla ostinata petulanza di un capo dello Stato che pretende di proteggere la Carta dagli assalti all´arma bianca. Accadrebbe questo. Il Parlamento, subalterno al governo e al suo Capo, approva una legge che schiere di avvocati e pattuglie di penalprocessualisti hanno definito «criminogena». Non scoraggia il delitto, lo istiga. Approvata la legge (che gli ipocriti chiamano Cirielli-Vitali e non "Salva Previti!") usurai, ladri, pirati della strada, lenoni, corrotti, contrabbandieri legati a mafie e camorre, millantatori, bancarottieri - per dire di qualche categoria di lestofanti beneficiati dal provvedimento - avrebbero la rassicurante garanzia che, beccati con le mani nel sacco, lo Stato non si concede il tempo necessario per processarli. O, per dirla al contrario, concede a loro - ai lestofanti - il tempo di farla franca attraverso l´uscio largo della prescrizione del reato. La prescrizione è il tempo oltre il quale viene meno l´interesse dello Stato ad accertare il reato e a infliggere la pena. É prederminato per legge e la Cirielli-Vitali-Previti questo fa. Definisce il tempo della prescrizione. Lo dimezza. Quel reato che era cancellato (perché prescritto) in quindici anni ora lo si butta via in sette anni e mezzo. Tutti i reati che oggi si puniscono con la pena massima di otto anni sono destinati così ad essere prescritti con le accorte mosse dell´imputato. Buon per lui. Ma per noi? Se non si è usuraio, ladro, pirata della strada, lenone, corrotto eccetera eccetera non c´è nulla di che essere soddisfatti. Si annunciano soltanto pericoli e frustrazioni (se vittime di quei reati). Non basta. Se malauguratamente un reato lo si è già commesso e si è in galera, si può dire addio a ogni speranza di vedere osservato il carattere rieducativo e non punitivo della legge (articolo 27 della Costituzione). La legge che libera Previti condanna quei dannati - recidivi in semilibertà, agli arresti domiciliari, già ammessi al lavoro esterno - a un carcere organizzato come discarica sociale di sconfitti che non meritano un´altra opportunità, che non la meriteranno mai più. É il perverso risultato della manovra che, avvitata intorno al destino di un uomo solo (l´avvocato Previti), deve rendere liberi i delinquenti del futuro e schiacciare senza alternative i deliquenti del passato, qual che sia oggi lo stato della loro «rieducazione».

Ora bisogna sapere che la maggioranza approverà questa legge in Senato entro il 18 marzo (quel giorno il Parlamento chiude in attesa delle elezioni regionali). E il dado sarà tratto. Il gioco comincia e annuncia altre distruzioni questa volta non della nostra sicurezza collettiva, ma dell´equilibrio delle istituzioni che regola la vita collettiva.

Dopo la Cirielli-Vitali-Previti verrà la riforma dell´ordinamento giudiziario che, corretta dalle quattro incostituzionalità rilevate da Ciampi, dovrà restituirci la magistratura di cinquant´anni fa, impiegatizia, burocratizzata, conformista, soprattutto obbediente al potere politico. Questa legge è stata presentata dal governo e dall´imperito ministro della Giustizia come «epocale». Ma, se «epocale», perché ha lasciato il passo alla «Salva Previti!»? É già pronta, è già stata corretta, Ciampi può soltanto approvarla, dice il Guardasigilli. E allora perché non approvarla rapidamente visto che, per la propaganda manipolatoria, risolve tutti i problemi e la lentezza della giustizia italiana? Risolti i problemi della macchinosità della giustizia, si potrebbe forse anche "vendere" meglio i tempi dimezzati della prescrizione e, dunque, non è ragionevole licenziare prima la riforma dell´ordinamento e poi la Cirielli?

Sono domande ragionevoli che non tengono conto della ratio delle riforme. Quella ratio non la si rintraccia nell´organizzazione della giustizia che è disgraziata, nell´ordinamento giudiziario che si può correggere, nelle contorte procedure del processo penale e civile, nell´ipercriminalizzazione, ma nel destino di Cesare Previti. Come liberarlo dal buco nero in cui le scorciatoie professionali lo hanno cacciato? È il nodo: il processo a Previti (sono due, sono in appello, in primo grado è stato condannato a 15 anni di reclusione). Se si tiene ferma la convinzione che quel che conta per il governo (e il suo Capo) è sollevare Previti dalla minaccia del carcere, questa storia istituzionale la si può raccontare in un altro modo e ha il profumo della minaccia o del ricatto, fate voi.

Il governo, di diritto e di rovescio, sopra e sotto il banco, sta dicendo alla magistratura italiana: vedete, signori in toga, ho la forza per proteggere Previti dalle vostre sentenze. Costi quel che costi, sono disposto a farlo, anche al prezzo di rendere l´Italia l´Eldorado dei farabutti. Posso fare di peggio e di più. Posso deformare lo stesso ordine giudiziario piegando la Costituzione. Voi giudici, eravate soggetti soltanto alla legge e l´intera magistratura autonoma e indipendente: bene, diventerete dipendenti dal giudizio del governo. Non volete affrontare queste forche caudine, sapete che cosa fare? Quel che c´è da fare è assolvere Previti in appello o annichilire i processi di primo grado in un modo o in un altro, «tanto il cavillo lo si trova sempre?». Tra il minaccioso oggi e l´approvazione definitiva della "Cirielli" e della riforma «epocale» c´è questa opportunità: distruggere come fossero castelli di carte i processi a Previti. É questo, al di là di ogni tentativo, l´unico terreno di "mediazione" possibile. Perché mettere a repentaglio l´intero sistema giudiziario e, dei magistrati, il lavoro di ieri e le carriere di domani per l´ostinazione di considerare un obbligo che tutti i cittadini siano uguali dinanzi alla legge?

Costi/benefici, si diceva. Dunque. Nella colonna dei costi c´è la deformazione della Costituzione; la subalternità di un potere di controllo all´esecutivo; una giustizia a doppia faccia: crudele con i deboli e generosa con i forti; un magistrato di ridotta imparzialità sia che accusi sia che giudichi. O, nulla di tutto questo, ma una magistratura umiliata, nel caso in cui i giudici cedano alle pressioni. Nella colonna dei benefici c´è soltanto che Cesare Previti è stato giudicato (e condannato) come uguale tra uguali. Vale la pena? In assenza di un Parlamento capace di ritrovare le ragioni del suo ruolo di contrappeso al potere dell´esecutivo, nel deserto di un Palazzo vuoto di spiriti liberi, il paradosso si riaffaccia. Amnistia ad personam per Previti. E´ la migliore delle peggiori soluzioni che vengono proposte.

Che la vittoria in Puglia di Nichi Vendola sia un segnale ottimo è certo. Che abbia dato una scossa più che salutare ai gelidi e perdenti bilancini elettorali dei vertici del centronistra pure. Altrettanto certo è che la decisione di Fausto Bertinotti di candidarsi alle cosiddette primarie nazionali del centrosinistra abbia dato un’altrettanto salutare scossa ai minuetti di riassetto della coalizione e delle sigle del centrosinistra, e che pertanto essa vada mantenuta ferma. Non è altrettanto certo però che da queste premesse - politiche - consegua che le primarie siano la chiave di volta per un radioso futuro - istituzionale - della democrazia italiana e di una rappresentanza com- promessa dalla crisi terminale dei partiti.

Allo stato attuale, com’è evidente, esse sono piuttosto il paravento di conflitti poco trasparenti, anche se decifrabilissimi, fra i leader del centrosinistra, fra diverse concezioni della (e diversi gradi di convinzione sulla) leadership di coalizione fin qui assegnata a Romano Prodi, fra diverse visioni strategiche della cosiddetta Fed riformista e del peso specifico che al suo interno dovrebbero avere Margherita e Ds. E in questa irritante opacità è difficile dividere con un taglio netto torti e ragioni. Bertinotti ha ragione a non recedere dalla sua decisione e ad affidarle un meritato guadagno di peso politico nella coalizione; ma ha torto a coprire questo ragionevole calcolo con una irragionevole mitizzazione delle primarie come decisiva cartina di tornasole del grado di democrazia del paese. I Ds hanno torto a volere delle finte primarie a candidato unico, cioè un’iniezione di sostegno popolare a un candidato deciso dai vertici e senza alternative; ma hanno ragione a temere che delle primarie in cui tutti i leader di partito si candidano tranne un leader Ds, e i Ds figurano solo come grandi elettori di un leader di coalizione della Margherita, finirebbero con lo stritolare quel che resta del loro partito (e, in un solo colpo, con l’assegnare alla Margherita, Prodi o Rutelli, la leadership politica della Fed oltre che quella della coalizione e del governo). Romano Prodi ha ragione a voler essere rincuorato dal consenso popolare; ma ha torto a voler risolvere il suo storico handicap di leader senza partito con una iniezione di plebiscitarismo che lascerebbe comunque un’impronta sulla vicenda futura del centrosinistra e del paese.

E qui siamo al punto. Al di là - ammesso che ci sia un al di là - di questi incastri tattici e di queste tattiche di potere (nessuno si meravigli, come fa Adriano Sofri su Repubblica di ieri, che non ci sono candidate donne: in queste condizioni va da sé), come si prefigurano, sul piano istituzionale, queste primarie all’italiana? E perché dovrebbero essere un sicuro rimedio ai mali della partitocrazia, della crisi della rappresentanza e della democrazia - come su queste colonne ha sostenuto pochi giorni fa Paolo Flores d’Arcais?

Intendiamoci. Può darsi che la degenerazione partitocratica in Italia sia arrivata a un punto tale da rendere obsolete le obiezioni di principio che molti fautori della democrazia dei partiti portano a questo strumento proprio di una democrazia senza partiti come quella americana (le ha illustrate limpidamente, qualche settimana fa, sempre su queste colonne Enrico Melchionda). Mettiamo pure che la crisi dei partiti sia arrivata in Italia a un punto di non ritorno; e che delle consultazioni dal basso aiuterebbero a sbloccare la deriva di autoreferenzialità in cui il ceto politico è caduto. Ma se così fosse, lo strumento delle primarie andrebbe quantomeno approntato e regolato in modo plausibile e convincente, senza le solite, improvvisate e confuse imitazioni di modelli altrui in cui la fantasia istituzionale italiana eccelle. Esempio, già portato alla discussione da Walter Veltroni: si possono importare le primarie americane, che servono a scegliere fra più candidati dello stesso partito in un sistema bipartitico, nella situazione italiana, dove servirebbero a scegliere fra i leader dei diversi partiti in un sistema a due coalizioni? Non si può. Come non si può non vedere la differenza fra le primarie pugliesi, che si sono svolte per decidere fra due possibili candidati sulla base di una platea di volontari, e quelle calabresi, dove la platea era convocata su base rappresentativa.

Quale platea voterebbe alle primarie nazionali? Si può sostenere che una platea convocata dall’alto su base rappresentativa sarebbe troppo controllata dai partiti. Ma si può anche sostenere che una platea di volontari sarebbe priva di qualunque potere legittimante. In tanta confusione solo due elementi sono relativamente chiari. Il primo è l’iniezione di plebiscitarismo che da uno strumento così indefinito di investitura popolare inevitabilmente verrebbe al sistema italiano, che poco ne ha bisogno dopo anni di berlusconismo. Il secondo è la deriva di deregulation istituzionale, se non di de-costituzionalizzazione, in cui questa innovazione andrebbe a collocarsi, assieme ad altre in corso di sperimentazione (giova ricordare che alle prossime regionali si voterà con sistemi diversi da regione a regione, sulla base dei nuovi statuti). Deriva sulla quale converrebbe mettere il freno piuttosto che l’acceleratore. Sostenere che le primarie non vanno più fatte equivarrebbe, a questo punto, a mettere il tappo su un’istanza di partecipazione e sabotaggio dal basso dei giochi di vertice che non può e non deve essere frustrata. Ma sostenere che possano essere fatte come capita, o come risultante dei giochi e dei rapporti di forza all’interno del centrosinistra, sarebbe devastante per la già devastata democrazia italiana. Il minimo che si possa fare è regolarle in maniera non politicamente conveniente, ma istituzionalmente plausibile. Il massimo, sarebbe di azzerare almeno formalmente tutte - tutte - le candidature e ripresentarle da capo, sulla base di qualche idea riconoscibile.

"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".

Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?

"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".

Ma che cosa ha scatenato il caos?

"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".

Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?

"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".

Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?

"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".

E allora come rispondere a tanta violenza?

"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".

Quindi?

"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".

Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?

"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".

Come andrà a finire?

"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".

Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?

"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".

Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?

"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è «Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza».

C'è un punto di debolezza nelle posizioni dei fautori del bipolarismo, che in questi giorni sono insorti a gran voce - in nome dell'opportunità dell'alternanza fra due Poli nel governo del paese -, contro l'ipotesi del «terzo polo» o del «nuovo centro», rilanciata con forza da Mario Monti. La debolezza sta nel cattivo, anzi nel pessimo funzionamento del bipolarismo all'italiana: frutto di una raffazzonata legge maggioritaria, che ha compresso il tradizionale pluralismo del sistema politico italiano, ma ha prodotto due schieramenti che per la loro scarsa omogeneità e incoerenza non paiono in grado di svolgere, con incisività ed efficacia, né il ruolo di maggioranza né quello di opposizione. Qui, infatti, sta l'interrogativo fondamentale che si presenta quando si pensa che siamo ormai a meno di un anno dalle nuove elezioni politiche. Dove stanno, nell'attuale situazione di preoccupante crisi della democrazia e di grave declino economico e sociale, le condizioni per sperare che l'Italia possa avere un governo capace di affrontare positivamente questi problemi con chiarezza di idee e con reale capacità operativa?

Che nulla si possa attendere al riguardo dal centro-destra è sin troppo palese. Lo dimostra non solo il disastroso bilancio di questi anni: ma soprattutto il fatto che questo disastro non è casuale, ma è il frutto - oltre che di pochezza politica e culturale - della congenita subordinazione di questo schieramento da un lato ai ricatti dell'estremismo plebeo e sciovinista della Lega, dall'altro alle pressioni degli interessi particolaristici e privatistici di Berlusconi e del suo gruppo. Ma anche la coalizione di centro-sinistra, al di là dell'obiettivo, certamente importante, di porre fine al governo di Berlusconi, non sembra in grado di prospettare con coerenza e con la necessaria unità convincenti obiettivi politici e programmatici di un suo futuro governo. «Non siamo pronti»: con queste parole Alessandro Robecchi riassumeva in modo incisivo questa situazione sulla prima pagina del manifesto di domenica scorsa.

Naturalmente è molto difficile e anzi quasi impossibile dire se possa esservi qualche altra soluzione. Certamente non lo sarebbe una confusa e improvvisata operazione trasformistica che travolgendo i due Poli porti al governo, come qualcuno ha ipotizzato, le forze di centro dei due schieramenti. Ancora più confusa e pressoché impraticabile appare l'ipotesi avanzata da alcuni commentatori (per esempio Ernesto Galli della Loggia), ossia l'ipotesi di una sorta di parallelismo fra due centri, che dovrebbe realizzarsi assicurando che nelle elezioni prevalgano (ma come farlo?) le forze più centrali dell'una e dell'altra coalizione. Per carità di patria non richiamo neppure un'altra eventualità, quella data ricerca di un'intesa fra i due Poli in nome di una comune visione degli interessi nazionali: quell'intesa che già fu tentata nella precedente legislatura, con esito peraltro fallimentare, attraverso la Commissione bicamerale.

In definitiva la strada più realistica sembra restare quella che tutti coloro che chiedono all'Unione di centro-sinistra qualcosa di più che la pur importante vittoria elettorale su Berlusconi, facciano pressione perché i partiti dell'Unione - anziché gingillarsi nel gioco inutile e pericoloso delle primarie o insistere in diatribe interne che servono solamente ad alimentare ambizioni e rivalità - si decidano finalmente a utilizzare con serietà i mesi che ancora restano per ricercare un'intesa su una piattaforma politica e programmatica che entri davvero nel merito dei problemi: che sappia cioè coordinare efficacemente la necessaria azione di risanamento della finanza e dei conti pubblici con le scelte fondamentali per ridare forza agli istituti e alla partecipazione democratica, per riconquistare e consolidare i diritti dei lavoratori, per promuovere un'occupazione seria e qualificata, e per un rilancio efficiente e qualificante dello Stato sociale.Si può ancora sperare che accada qualcosa di simile? O ci si deve invece rassegnare all'idea che un governo di centro-sinistra sia destinato ad essere solo il classico «governo di lacrime e sangue», chiamato a far pagare al paese e soprattutto al lavoro dipendente i sacrifici e i prezzi del necessario risanamento, per cedere subito dopo il passo a un nuovo governo di centro-destra?

Se così fosse, non ci sarebbe davvero da sorprendersi se qualcuno mostra di preferire un'ipotesi alla Mario Monti. Ossia che, una volta eliminato Berlusconi, si possa presto arrivare - con le opportune modifiche elettorali magari favorite da un travaso di voti tra un polo e l'altro - al governo di uno schieramento moderato di centro che si assume l'onere del risanamento e che sia sufficientemente moderato per mediare tra i differenti interessi. Sarebbe, in sostanza, l'operazione neocentrista di cui tanto si parla. Alla quale, però, non si risponde efficacemente difendendo a ogni costo una sbagliata legge maggioritaria, oppure con un ulteriore spostamento verso il centro, come vorrebbe Rutelli. Che i moderati facciano i moderati è del tutto naturale. Ma, per un buon funzionamento della democrazia, occorre che si ricostituisca una robusta forza di sinistra che, dal governo o dall'opposizione, si impegni nella difesa dei diritti del lavoro, delle conquiste in campo sociale, degli istituti di democrazia.

Non si tratta di rimpiangere il passato. Ma anche dal passato c'è qualcosa da imparare. Non è vero, infatti, ciò che ha scritto sul manifesto Valentino Parlato: ossia che «il vecchio Pci, dall'opposizione, aveva governato meglio e di più di quanto i Ds non abbiano fatto da Palazzo Chigi»?

E'una favola quella dei due capitalismi e «non si può fare di ogni erba un fascio», sostiene Massimo D'Alema. In parte è vero: il capitalista è una bestia immorale che pensa unicamente al profitto, spesso in modo truffaldino. Però il presidente D'Alema ha la memoria un po' corta: non ricorda le battaglie condotte nel suo partito - quando aveva un nome migliore dell'attuale - da Claudio Napoleoni, per esempio, per un «patto dei produttori» dove tra i produttori non c'era certo spazio per la speculazione finanziaria. L'intervista del Presidente Ds al Sole-24 Ore è un inno al capitalismo e una rinuncia definitiva a ogni ipotesi di elementi di socialismo. Un'intervista furba, intelligente, spregiudicata, con molto buon senso, ma soprattutto elettorale: i Ds sono pronti a caricarsi il capitalismo italiano sulle spalle regalandogli nuovi margini di libertà, ma con un maggior rispetto delle regole.

Non si può accusare il centro sinistra di non essersi opposto ai vari condoni varati da Tremonti. Però vale la pena ripartire da quei condoni (tombali e anonimi) per cercare di spiegare l'emergere di nuove ricchezze. Fra tutti questi capitalisti emergenti ci sono sicuramente persone per bene. Però gli improvvisi arricchimenti fanno nascere più di un dubbio perché si entra in un'area opaca quella nella quale «si fanno soldi con i soldi», come diceva il protagonista di «8 settimane e mezzo». Per dirla in termini di analisi marxiana: al circuito «merce-denaro-merce» si sostituisce quello «denaro-merce-denaro». E tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fese distributiva; con la seconda c'è il trionfo della solo speculazione, dell'arricchimento individuale.

I capitalisti italiani (produttori di merci) negli ultimi 30 anni sono saltati come birilli: dall'illuminato Olivetti, al patron Borghi (quello della mitica Ignis) abbiamo visto sparire generazioni di industriali che avevano creato ricchezza. Problemi generazionali non sono mancati, ma, molto spesso, la crisi è arrivata dalla finanza (da un sistema bancario incapace di affiancare le imprese italiane) nella quale esplodevano i casi di Sindona e Calvi. Un sistema nel quale la P2 arrivò a controllare subdolamente il Corriere della sera strappato dalle mani del fragile Rizzoli. Questo spiega l'enorme attenzione che da settimane circonda il tentativo di scalata di Stefano Ricucci alla RcS. Possibile che D'Alema non lo capisca e si concentri piuttosto sulla fragilità degli imprenditori che controllano con un Patto la Rcs?

Il sistema bancario italiano oggi - forse - è abbastanza sano: ci sono banchieri che fanno molto bene il loro mestiere e spesso supportano egregiamente (magari anche per difendere i loro interessi come nel caso Fiat) l'attività produttiva. Però il marcio c'è ancora. Gli spregiudicati finanziamenti per favorire scalate e Opa ne sono la dimostrazione. Insomma, i capitalisti non sono tutti uguali: forse perché siamo un po' romantici seguitiamo a preferire il padrone che apre fabbriche, da lavoro e produce merci (ce ne sono molti e D'Alema farebbe bene a valorizzarli) a chi produce «denaro a mezzo di denaro», parafrasando Sraffa.

Il movimento cooperativo ha acquisito tanti meriti: ha creato lavoro e modernità dovendo resistere agli attacchi che con l'ultimo governo si sono intensificati. E' vero: come dice D'Alema l'Unipol è una spa quotata in borsa e quindi i suoi criteri di gestione sono quelli del capitalismo puro. Occorre ricordare, però, che Unipol è diventata grande grazie alla fede di centinaia di migliaia di assicurati che preferivano questa assicurazione ad altre grazie a una identificazione solo ideologica. Di più: la spa Unipol è controllata dal sistema cooperativo e sinceramente i 2,5 miliardi di euro di aumento di capitale finalizzati all'acquisto di Bnl forse potevano essere spesi meglio. Insomma, D'Alema stia attento: a giocare con la grande finanza (Cuccia) e con i «capitani coraggiosi» c'è il rischio di scottarsi e di perdere di vista i valori fondamentali che si vogliono rappresentare.

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