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Una nuova fumata nera statunitense su Baghdad, dopo quella di Abu Ghraib. Nulla di fatto alla commissione mista incaricata di indagare sulla sparatoria che la notte del 4 marzo ha provocato la morte di Nicola Calipari e il ferimento mio e dell'agente del Sismi che era alla guida dell'auto su cui viaggiavamo. Sembra che i delegati statunitensi e i due osservatori italiani siano divisi sulle conclusioni. Nella migliore delle ipotesi, dunque, la commissione non è servita a nulla, nella peggiore rappresenta un notevole passo indietro. Infatti, dopo le indagini durate oltre un mese, è sparita dall'orizzonte persino l'ipotesi di un tragico errore che aveva indotto Bush a porgere le scuse a Berlusconi. Dopo le scuse arriva lo schiaffo a un presidente del consiglio già tramortito dalla crisi di governo. Riuscirà a reagire? Nonostante le testimonianze - su quella dell'agente del Sismi era basata la ricostruzione fatta in parlamento dal ministro degli esteri Gianfranco Fini - che coincidono sullo svolgimento dei fatti, gli americani sono tornati sulla difensiva: rispettate le regole d'ingaggio, prima gli avvertimenti, a debita distanza, e poi l'attacco. I fatti dicono il contrario: nessun avvertimento, il fascio di luce è arrivato contemporaneamente al fuoco delle mitragliatrici, tanto è vero che l'auto è stata colpita da destra (la pattuglia mobile era a una decina di metri dal ciglio della strada all'altezza della curva), uccidendo Nicola Calipari, e da dietro: basta vedere l'auto. Il parabrezza davanti è intatto, mentre i vetri laterali e quello dietro sono in frantumi. Non ultimo, il proiettile, l'unico fortunatamente, che mi ha colpito alla spalla è entrato da dietro, provocandomi un buco di quattro centimetri di diametro. Fatto non secondario: le testimoninanze - mia e dell'agente, persone così diverse per sensibilità ed esperienza - sostanzialmente coincidono.

I delegati della commissione invece di tenerne conto, continuano a insistere su una mia possibile conoscenza dell'agente prima dei fatti. Io non ho mai visto l'agente in faccia e non lo saprei riconoscere nemmeno se lo incontrassi, l'ho visto di spalle solo mentre guidava l'auto. Dopo l'attacco, quando è sceso era lontano da me sotto la minaccia dei fucili, io, ferita, ero sdraiata per terra. Evidentemente le mie due testimonianze rese alla commissione americana non sono servite a nulla; o sarò citata per falsa testimonianza? Una cosa è certa: il Pentangono deve garantire l'impunità ai suoi militari. E va oltre le affermazioni fatte a caldo, dell'errore, tanto da insinuare altri interrogativi più inquietanti. Un errore anche «tragico» viene sempre «perdonato» in Iraq, anche quando stermina famiglie intere di innocenti iracheni. In questo caso non vale, solo perché non si vuole influire sul morale delle truppe o perché c'è dell'altro? Peraltro va sgombrato il campo dalle mistificazioni di chi vuol far credere che Nicola Calipari agisse nella clandestinità e non avesse avvisato del nostro arrivo in aeroporto. L'ufficiale di collegamento era stato avvertito 20/25 minuti prima del nostro arrivo (ho assistito alle telefonate), probabilmente l'intelligence italiana non aveva avvertito gli americani dell'operazione che stava compiendo per il mio rilascio, ben sapendo che altrimenti sarebbe stata ostacolata. Ma la giurisdizione Usa in Iraq riguarda anche le operazioni di intelligence degli alleati? E poi cosa faceva l'elicottero Usa che volteggiava sopra la mia auto imbottita di tritolo mentre io aspettavo che mi venissero a liberare? Sorge il dubbio che i vertici americani a Baghdad fossero perfettamente a conoscenza di tutto quello che stava avvenendo.

Non abbiamo ancora il rapporto ufficiale della commissione americana ma temiamo che molti dei nostri quesiti resteranno senza risposta. Ma la delusione più grande sarebbe se le nostre autorià subissero l'affronto senza reagire. Tutte le parole spese per Calipari finirebbero in ipocrisia e - nonostente la medaglia d'oro assegnatagli da Ciampi - Nicola sarebbe stato per il nostro governo solo l'eroe di un giorno.

La vicenda del rinnovo dei contratti pubblici acquista, ora dopo ora, toni dai contorni grotteschi e inquietanti.

Come è noto i contratti di lavoro di tutti i settori del pubblico impiego, della scuola, sono scaduti da quindici mesi. Per medici, veterinari, dirigenti e ricercatori siamo a un ritardo di quasi quattro anni. Di fronte a questa situazione il governo prima ha rifiutato qualsiasi apertura di un tavolo.

E solo dopo tre scioperi generali ha accettato l'idea di aprire un confronto. Il sindacato si aspettava da parte del governo quel passo in avanti decisivo per arrivare alla stretta finale. Il sindacato, unitariamente, ha dato la propria disponibilità a provare a concludere rapidamente un rinnovo che non può aspettare ancora. Il governo, invece di dare continuità e concretezza al tavolo, invece di presentarsi con una proposta, apre la strada al caos con dichiarazioni di questo o di quel partito della maggioranza, di questo o di quel ministro che tra disponibilità apparenti e repentine marce indietro, lasciano trasparire divisioni profonde.

Il presidente del Consiglio ritorna addirittura a proporre quella cifra di aumento contenuta in Finanziaria (95 euro) che i sindacati hanno già bocciato e che altri esponenti del governo, invece, considerano superabile. Da tutto questo emergono alcune considerazioni che vanno fatte con la massima fermezza.

La prima. Il clima preelettorale gioca in maniera irresponsabile sulle condizioni, le aspettative, i diritti dei lavoratori pubblici. È evidente lo scopo elettoralistico delle dichiarazioni dei giorni scorsi, così come sono evidenti anche gli elementi di divisioni che hanno frenato fino ad oggi qualsiasi conclusione della vicenda.

La seconda. Tutto il governo deve sapere che per quanto riguarda il sindacato, la disponibilità a raggiungere un accordo si muove nell'ambito di un passo in avanti che il governo deve fare rispetto all'ultima proposta: se la proposta resta quella già fatta, non restano margini per concludere un accordo. Il sindacato ha dato la sua disponibilità a muoversi dalle sue posizioni iniziali nella fase di mediazione, ma queste - anche nella loro ragionevolezza - non possono che venire dopo un'analoga presa di posizione esplicita da parte del governo.

La terza. È evidente che si gioca una partita interna al governo molto pesante e molto delicata. Ma il risultato di queste divisioni, ad oggi, è quello di aver congelato qualsiasi prospettiva di rinnovo del contratto e condannato i lavoratori pubblici alla fase di incertezza in cui essi vivono.

Questa divisione nasconde sostanzialmente l'esistenza, allo stato maggioritaria, di scelte del governo, avallate dal presidente del Consiglio, tese a considerare il lavoro pubblico ed il rinnovo del contratto un costo, un intralcio alla politica di bilancio e all'azione dell'esecutivo. Il lavoro pubblico non è visto, in questa cultura, come un elemento sul quale costruire una politica di ammodernamento e di qualità del ruolo del lavoro pubblico e del funzionamento di tutti i servizi pubblici. Ma unicamente come un onere, un onere da sopportare, un onere da comprimere e un onere al quale non rispondere con risultati concreti.

Tutto questo rende la situazione francamente non accettabile e non condivisibile. Il rinnovo del contratto di lavoro è un diritto che i lavoratori italiani hanno conquistato e che intendono mantenere, anche sulla base degli accordi pattuiti all'inizio degli anni novanta. Non è vero che i lavoratori pubblici in questi anni, se si prende a riferimento un periodo di tempo significativo, hanno aumentato la loro quota di reddito rispetto alla crescita del Pil italiano, mentre è evidente che per ogni fase di attesa si comprimono i loro salari e le loro condizioni. Inoltre tutta la riforma della pubblica amministrazione, tutta l'azione di delegificazione, di contrattualizzazione del rapporto di lavoro è stata in questi anni - da parte delle scelte di questo governo - fortemente compromessa.

Questo balletto di dichiarazioni mostra chiaramente che il rinnovo del contratto diventa merce ed oggetto di un contenzioso esclusivamente politico. Non c'è più un ruolo dell'Aran, dell'Agenzia che per legge è deputata ad affrontare queste questioni, non c'è stato né c'è nessun coinvolgimento degli Enti locali e delle Regioni, indispensabili per sottoscrivere intese che riguardano il contratto della Sanità e degli Enti locali. Tutto questo rappresenta un visibile, inquietante passo indietro rispetto agli aspetti riformatori del decennio precedente.

Il governo lede un diritto dei lavoratori, non riconosce il valore del lavoro pubblico, dei servizi pubblici essenziali nella loro funzione fondamentale per i cittadini e - contemporaneamente - reintroduce un interesse di parte, di schieramento, di singola forza politica, nell'ambito delle scelte che riguardano i lavoratori pubblici. Altro che processi di riforma e di modernizzazione del Paese: si ritorna ai tempi bui della storia della nostra Repubblica, quando i contratti di lavoro venivano considerati, né più né meno, come elementi di scambio.

Abbiamo già detto - in occasione dell'ultimo sciopero generale - che o il governo cambiava registro e si comportava correttamente o si sarebbe aperta una fase di ulteriore confronto e di ulteriore scontro. Il governo non sembra aver capito la posizione molto seria e responsabile del sindacato confederale e sceglie - ancora una volta - una strada che porta allo scontro e all'utilizzo improprio delle posizioni di chi lavora in settori fondamentali delle funzioni e dei servizi pubblici.

L’Unità: ho trovato la soluzione

Sull'Unità del 12 marzo 2005 trovate questa bellissima lettera, che farà arrabbiare qualcuno e sorridere molti altri

Caro Furio, da tempo volevo inviarti due parole di solidarietà ma vedevo che ne ricevevi tante, tra cui moltissime molto autorevoli, che ho pensato non ve ne fosse bisogno. Inoltre ero molto impegnato in uno scambio di messaggi con un amico straniero, che conosce molto bene le cose italiane, ma non riusciva a capire perché tu lasciavi l'Unità. Gli ho pazientemente spiegato che, sì, tu hai risollevato questo giornale da una gravissima crisi, facendogli vendere molte copie, ma che un giornale si regge anche sulla pubblicità. Ora pare che tu sia giudicato eccessivamente severo nei confronti del nostro governo (il mio amico si è un poco stupito perché riteneva che sin dalla sua fondazione l'Unità fosse per vocazione e funzione specifica severa coi governi in carica) e che pertanto le grandi aziende, che avrebbero potuto darvi pubblicità, per timore di inimicarsi il governo, non ve la davano. Perciò tu venivi rimosso per rimuovere appunto questo ostacolo.

L?amico mi ha risposto dicendo che, a quanto aveva capito, tu saresti stato sostituito da Padellaro, noto per aver lavorato con te in piena condivisione d'intenti, e che pertanto l'Unità di Padellaro sarà (e tutti lo pensano) ugualmente severa. Pertanto, mi ha domandato, come si può immaginare che arriveranno carrettate di pubblicità da parte delle grandi aziende, e persino dalla Cirio, dalla Parmalat e da Vanna Marchi?

Gli ho risposto che certe volte i sacrifici umani hanno puro valore simbolico, che per esempio Salomé non ha chiesto la testa del Battista per mangiarla come fanno i cinesi con le teste di scimmia, e nemmeno per trarne un utile immediato, ma così, per avere una soddisfazione morale. L'amico ha detto che non vedeva un rapporto diretto tra soddisfazione morale e contropartita economica, e quindi non capiva perché te ne andavi e tra l'altro te ne andavi restando, come opinionista.

Gli ho spiegato che forse l'operazione veniva fatta in due tempi. Prima eliminano te e lasciano Padellaro, per non perdere di colpo tutti i lettori. Poi piano piano sostituiranno anche Padellaro e cercheranno qualcuno che faccia una Unità un pochino più comprensiva dei traumi che sta ingiustamente subendo il nostro presidente del consiglio. L'amico mi ha detto che, secondo lui, forse a quel punto sarebbe arrivata un poco di pubblicità, ma si sarebbe perduta la metà dei lettori, almeno, e quindi il gioco non valeva economicamente la candela.

A meno, ha suggerito, che scelgano un direttore assolutamente filogovernativo, per esempio Giuliano Ferrara. In quel caso l'Unità perderebbe egualmente tutti i suoi lettori ma guadagnerebbe quelli del Foglio. Gli ho fatto osservare che, in termini quantitativi, non si tratterebbe di un buon affare, anche perché non sembra che il Foglio riceva tonnellate di pubblicità.

Allora il mio amico ha suggerito una soluzione diabolica. Si fa dirigere l'Unità all'attuale direttore del Giornale. L'Unità perderebbe tutti i suoi lettori, ma guadagnerebbe tutti quelli del Giornale, pubblicità compresa. L'idea non mi è parsa economicamente suicida come la precedente, ma gli ho chiesto che fine avrebbe allora fatto il Giornale se tutti i suoi lettori passavano all'Unità. Lui ha astutamente suggerito che la direzione del Giornale venga affidata a te e a Padellaro. In tal caso il Giornale guadagnerebbe tutti i lettori dell'Unità e, siccome è proprietà del fratello di Berlusconi, convincerebbe in qualche modo le grandi aziende a dargli pubblicità.

La mia obiezione è stata che Berlusconi si sarebbe trovato a sostenere finanziariamente un giornale che lo avrebbe violentemente criticato ogni giorno. L'idea potrebbe piacere alla sinistra, ma a lui?

A quel punto l'amico mi ha risposto che in fondo anche il telegiornale della quinta rete e Striscia la notizia criticano talora il governo, ma la cosa è più sopportabile, perché tutti pensano che lo facciano col permesso di Berlusconi, e quindi le critiche vengono intese come una prova della sua apertura democratica. Può darsi che il mio amico abbia ragione. Inoltre penso che come direttore del Giornale guadagneresti più che come direttore dell'Unità. Quanto alla nostra sinistra, avere come giornale fondato da Gramsci un giornale berlusconiano, sarebbe accolto come esempio di riformismo illuminato. Insomma, pensaci un poco, non mi pare, al giorno d'oggi, una soluzione così assurda.

Il tuo Umberto Eco

Il problema non è soltanto la promulgazione delle leggi. Gli strali del presidente del Consiglio non si abbattono solo sul presidente della Repubblica, un Ulisse in balia delle sirene della sinistra. L’intero procedimento legislativo è ora sotto accusa. La sua lunghezza estenuante, mesi e mesi di emendamenti, votazioni, discussioni. Prima in una camera e poi nell’altra, in mezzo alle insidie dell’opposizione. E non basta: una volta che finalmente una legge sia approvata, occorre attuarla. Tra gli sgambetti, questa volta, dei ministeri e della burocrazia.

Non è la prima volta che l’attuale presidente del Consiglio esterna il suo fastidio per gli istituti della democrazia rappresentativa. Per le lungaggini delle procedure, che impediscono di realizzare in tempi brevi il programma politico di chi ha vinto le elezioni; che non «lasciano lavorare» chi è stato «unto» direttamente dal popolo.

Fastidio che si affianca a quello, che sfuma in ostilità, nei confronti degli organi di garanzia: magistratura, Corte costituzionale, Presidente della Repubblica.

Il nesso è evidente e, senza voler drammatizzare, preoccupante. Appare messa in dubbio, infatti, l'essenza stessa della democrazia costituzionale. Ovvero di quel regime di reggimento delle società umane secondo il quale il potere politico è esercitato dalle maggioranze che vincono le elezioni, ma attraverso procedure predefinite e in presenza di controlli che impediscano al potere legittimo della maggioranza di mutarsi in arbitrio. Neppure la legge, espressione per eccellenza dell'indirizzo politico, sfugge a questa regola: il procedimento legislativo è definito nelle sue linee fondamentali dalla Costituzione; anche la legge è sottoposta a controllo, politico del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, giurisdizionale della Corte costituzionale.

E non si tratta di una mera “teoria” della democrazia, che si può accogliere o rifiutare. Ma di una principio costituzionale, che informa tutto il nostro ordinamento. L'art. 1 della Costituzione, infatti, dopo aver affermato il carattere democratico della Repubblica, stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sovranità popolare, quindi; ma, al contempo, forme e limiti al suo esercizio: questa è l'essenza dello Stato democratico voluto dai Costituenti, sulla cui base ha da svolgersi la vita politica e la dialettica istituzionale.

La concezione della democrazia del presidente del Consiglio appare estranea a questa matrice, liberale e costituzionale. È invece un regime ove il popolo parla una sola volta, nel giorno delle elezioni, investendo con il suo voto un governo (o, per essere più precisi, un premier) che, per tutto il suo mandato, deve poter agire senza limiti di sorta allo scopo di realizzare il suo programma: senza dover seguire noiose ed inutili procedure, senza essere sottoposto a fastidiosi controlli.

In tal modo, però, non soltanto viene messo in discussione, sul piano ideale e teorico, il fondamento stesso del nostro ordinamento democratico. Viene anche aperta la strada allo scardinamento delle precise prescrizioni nelle quali il principio dell'art. 1 si traduce. Che sono contenute sia nella seconda parte della Costituzione, quella che disciplina i rapporti tra i poteri dello Stato e il procedimento legislativo, sia nei regolamenti parlamentari.

Per le norme regolamentari l'aggiramento o la violazione è agevole, anche se non per questo meno grave, in quanto il loro rispetto è rimesso alla correttezza istituzionale e, in ultima istanza, è affidato ai presidenti delle camere, espressione nella presente legislatura della maggioranza parlamentare.

Più difficile è invece evitare le norme costituzionali di organizzazione: queste, infatti, in base alla Costituzione ancor oggi vigente, hanno i loro garanti, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, così come disegnati dai Costituenti. Chi le ritenga soltanto un inutile impaccio non ha di fronte a sé che due vie (non necessariamente alternative): la delegittimazione dei garanti e la riforma costituzionale.

Entrambe si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Gli attacchi al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale si accompagnano a un progetto di riforma volto a indebolire il sistema delle garanzie previsto dalla nostra Costituzione. Proprio in questi giorni il Senato sta approvando (a colpi di maggioranza, naturalmente) un disegno di legge di revisione costituzionale finalizzato a modificare l'intera parte seconda della Costituzione, aumentando tra l'altro i poteri del premier in conseguenza dell'investitura diretta.

Non va negata l'esistenza, nelle moderne democrazie, di un problema di capacità, delle istituzioni, di fornire risposte efficienti alle domande di società sempre più complesse e globalizzate. Soprattutto laddove, come in Italia, esista una forma di governo parlamentare ancora caratterizzata da un multipartitismo estremo. In presenza di governi di coalizione, di maggioranze litigiose e artificiose, non si può ignorare la difficoltà di produrre, in tempi ragionevoli, decisioni politiche. Qualsiasi governo, in Italia, si è dovuto scontrare con questo tipo di ostacoli nella realizzazione del proprio programma, anche dopo la modifica del sistema elettorale, nel 1993 e la razionalizzazione dei lavori parlamentari, con le riforme dei regolamenti realizzate già a partire dalla fine degli anni '80.

Riconoscere l'esistenza di alcune disfunzioni nella nostra forma di governo, e pensare di superarle usando gli strumenti del diritto (anche, se necessario, attraverso la revisione di alcune regole procedurali) è però ben diverso dal mettere in discussione l'impianto della nostra democrazia. Magari per sostituirla con la rapida ed efficace decisione di uno solo. Le procedure parlamentari, e tra esse il procedimento legislativo, non costituiscono un quid pluris, che si possa sacrificare su un qualsiasi altare, sia quello dell'efficienza, sia quello della sovranità popolare. Le regole procedurali sono l'elemento portante della democrazia. Solo in tal modo è garantito che le decisioni siano adottate attraverso la discussione e la partecipazione di tutti i soggetti politici. E, anche se alla fine sarà approvata la proposta della maggioranza, ciò avverrà attraverso un confronto con le minoranze che consenta il miglioramento e la messa a punto del testo, in modo pubblico e trasparente.

Il tempo della democrazia richiede una certa dose di “lentezza”. Negare ciò, in nome sia dell'efficientismo spinto all'estremo, sia della “unzione” popolare, vuol dire mettere in dubbio le basi stesse del nostro ordinamento.

Quarant´anni fa l´America era impegnata in un´altra guerra in terre lontane. All´epoca, nel 1965, avevamo in Vietnam una quantità di truppe e di caduti pari ad oggi in Iraq.

All´inizio pensavamo di vincere. Pensavamo che l´abilità e il coraggio delle nostre truppe fossero sufficienti. Pensavamo che la vittoria sul campo avrebbe comportato la vittoria nella guerra e pace e democrazia per il popolo vietnamita.

In Vietnam perdemmo di vista gli obiettivi della nostra nazione. Abbandonammo la verità. Venimmo meno ai nostri ideali. Le parole dei nostri leader non furono più degne di fede. Nel nome di una causa sbagliata proseguimmo la guerra troppo a lungo. Non comprendemmo la realtà intorno a noi.

Non capimmo che la nostra stessa presenza ci stava creando nuovi nemici e faceva fallire gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere. Non possiamo permettere che la storia si ripeta in Iraq.

Bisogna correggere la rotta, subito. Dobbiamo farlo per i soldati americani che pagano con le loro vite. Dobbiamo farlo per il popolo americano: non possiamo permetterci di spendere le nostre risorse e il nostro prestigio nazionale continuando la guerra nel modo sbagliato. Dobbiamo farlo per il popolo iracheno che anela ad un paese che non sia un campo di battaglia permanente e ad un futuro libero dall´occupazione permanente.

Le elezioni in Iraq questo fine settimana sono l´occasione per stabilire un approccio nuovo e onesto. Serve un nuovo programma che ponga obiettivi equi e realistici di autogoverno in Iraq e studi insieme al governo iracheno scadenze precise per l´onorato rientro in patria delle nostre forze.

Il primo passo è porci di fronte ai nostri errori. Gli americani sono giustamente preoccupati sul motivo per cui i nostri 157.000 soldati si trovano in Iraq - su quando torneranno a casa - e sui motivi del fallimento della nostra politica.

Anche se l´amministrazione continua a negarlo non c´è dubbio che ha guidato male la nazione portandola ad impantanarsi in Iraq. Il presidente Bush è corso alle armi in base a rapporti di intelligence pretestuosi e alla tesi sconsiderata secondo cui l´Iraq rappresentava un´area critica nella guerra globale al terrorismo, che in qualche modo era più importante dare avvio ad una guerra in Iraq piuttosto che portare a termine quella in Afghanistan e catturare Osama bin Laden, e che il pericolo era tanto imminente da non poter concedere tempo agli ispettori Onu di completare la ricerca di armi di distruzione di massa.

Come in Vietnam, la verità è stata la prima vittima di questa guerra. Quasi 1.400 americani sono morti. Più di 10.000 sono rimasti feriti e decine di migliaia di uomini, donne e bambini iracheni sono stati uccisi. In Iraq le armi di distruzione di massa non c´erano, ci sono però oggi 157.000 americani.

Mai abbiamo avuto conferma più dolorosa e potente del detto che chi non trae insegnamento dalla storia è destinato a vederla ripetersi.

A dispetto del chiaro insegnamento impartito dalla storia il presidente resta ostinatamente aggrappato alla falsa speranza che il punto di svolta sia dietro l´angolo.

Ponendo fine al regime di Saddam Hussein si pensava di limitare la violenza e di portare in medio oriente un´irresistibile ondata di democrazia. Non è stato così. La cattura di Saddam Hussein doveva secondo le previsioni porre freno alla violenza. Non l´ha fatto. Si pensava che il passaggio di sovranità sarebbe stato la svolta. Non lo è stato. L´operazione militare a Fallujah doveva spezzare le reni agli insorti. Non lo ha fatto.(...)

Noi tutti ci auguriamo che le elezioni di domenica portino frutti positivi. Gli iracheni hanno il diritto di decidere sul proprio futuro. Ma l´elezione di domenica non è un toccasana per la violenza e l´instabilità. Se i sunniti e tutte le altre comunità non si convinceranno di avere un interesse nel risultato e un ruolo effettivo nella stesura della nuova costituzione irachena, le elezioni potrebbero aggravare l´alienazione, l´escalation della violenza e portare ad un maggior numero di morti - per noi e per gli iracheni.

Il responsabile della Cia a Baghdad ha recentemente avvisato che la situazione di sicurezza si sta deteriorando ed è probabilmente destinata a peggiorare con un´escalation di violenze e un intensificarsi degli scontri tra fazioni. Come può un presidente aver permesso tutto ciò?

La politica del presidente Bush sull´Iraq non è, come egli ha affermato in campagna elettorale lo scorso autunno, un "successo catastrofico", bensì un "fiasco catastrofico". Gli uomini e le donne appartenenti alle nostre forze armate prestano servizio onorevolmente e con grande coraggio in condizioni estreme, ma la loro presenza a scadenza indefinita sta fomentando il conflitto.(...)

La guerra ha fatto dell´Iraq una calamita per il terrorismo, cosa che prima non era. Il presidente Bush ha aperto un nuovo fronte non necessario nella guerra al terrorismo e per questo motivo stiamo perdendo terreno. Il consiglio nazionale di intelligence della Cia ha confermato questa valutazione nel rapporto emesso due settimane fa.

La rivolta ha in larga parte sviluppo locale. In base alle stime del nostro governo è estesa e sta allargando le fila. La sua forza è quadruplicata dal passaggio di sovranità di sei mesi fa - da 5.000 unità a metà del 2004 a 16.000 lo scorso ottobre, fino alle oltre 20.000 attuali. L´intelligence irachena stima che possa contare 30.000 combattenti e fino a 200.000 fiancheggiatori. È chiaro che non ne conosciamo le esatte dimensioni. Tutto ciò che possiamo dire è che la rivolta si sta estendendo e che diventa più agguerrita e flessibile. Usa bombe più grandi e più potenti. Gli attacchi sono più sofisticati.

Al di là dei partecipanti attivi la rivolta vanta il tacito sostegno di migliaia di iracheni qualunque che hanno un ruolo di favoreggiamento a rifiuto dell´occupazione americana. E´ alimentata dalla rabbia di un numero sempre maggiore di iracheni - non solo lealisti di Saddam - giunti alla conclusione che gli Usa o non sono in grado o non hanno la volontà di garantire una sicurezza di base, lavoro, acqua, elettricità e altri servizi.

L´antiamericanismo è costantemente in crescita. In tutto il paese sono diffusi cd che illustrano la rivolta e canti che inneggiano ai combattenti. Sono tornate in voga poesie scritte decenni fa durante l´occupazione britannica dopo la prima guerra mondiale.

Abbiamo le forze armate migliori del mondo, ma non possiamo contare in primo luogo sull´azione militare per porre fine ad una violenza di ispirazione politica. Non possiamo sconfiggere gli insorti militarmente se non affrontiamo con efficacia il contesto politico in cui la rivolta si sviluppa. I nostri militari e gli insorti lottano per conquistare la stessa cosa - i cuori e le menti della gente - e questa è una battaglia che non stiamo vincendo.

Il primo passo per affrontare questa crisi con saggezza è definire obiettivi sinceri e realistici.

Innanzitutto l´obiettivo della nostra presenza militare dovrebbe essere permettere l´istituzione di un governo iracheno legittimo, efficace, non di imporlo.

La costruzione di una democrazia funzionante non avviene dal giorno alla notte. Possiamo e dobbiamo progredire in tal senso, ma gli iracheni potrebbero impiegare molti anni a portare a termine l´impresa. Dobbiamo adeguare il nostro orizzonte temporale. Il processo non potrà avviarsi sul serio fino a che gli iracheni non saranno pienamente padroni di tale transizione. La nostra continua, opprimente presenza non fa che ritardare il processo.

Se vogliamo che l´Iraq sviluppi un governo democratico stabile l´America deve assistere, non controllare, il nuovo governo creato.

Se gli iracheni non avranno l´impressione che i loro leader non sono marionette, l´elezione non potrà rappresentare il punto di svolta auspicato dall´amministrazione.

Ai fini di rafforzare la propria legittimità agli occhi del popolo iracheno, il nuovo governo dovrebbe iniziare a disimpegnarsi politicamente dall´America e noi da loro.

La realtà è che l´amministrazione Bush sta continuando a tirare le fila in Iraq e gli iracheni ne sono consapevoli. Noi abbiamo scelto la data del passaggio di sovranità. Noi abbiamo appoggiato l´ex agente della Cia Iyad Allawi come leader del governo ad interim. Noi abbiamo scritto le norme amministrative e la costituzione ad interim che oggi governa l´Iraq. Noi abbiamo fissato la data delle elezioni e il presidente Bush ha insistito perché abbiano luogo, anche se molti iracheni miravano ad un rinvio.

È tempo di ammettere che abbiamo un´unica scelta. L´America deve restituire l´Iraq agli iracheni.

Dobbiamo lasciare che gli iracheni decidano da soli, ottengano autonomamente consenso e governino il loro paese.

Dobbiamo ripensare la regola del vasaio, "chi rompe paga e i cocci sono suoi". L´America non può essere per sempre il vasaio che modella il futuro dell´Iraq. Il presidente Bush ha mandato l´Iraq in pezzi ma se vogliamo che torni intero gli iracheni devono avere la sensazione che appartiene a loro, non a noi. (...)

Da parte sua, l´America deve accettare il fatto che gli sciiti costituiranno la maggioranza in qualunque governo emerga dal voto. Il sessanta per cento della popolazione in Iraq è sciita e una maggioranza sciita è il logico sbocco di un processo democratico in Iraq.

Gli sciiti però devono comprendere che la stabilità e la sicurezza in Iraq saranno raggiunte solo salvaguardando i diritti delle minoranze. Bisogna concedere l´opportunità di partecipare alla stesura della costituzione e al governo anche a chi non ha voluto partecipare alle elezioni o era impossibilitato o troppo spaventato per farlo.

Gli sciiti devono anche comprendere che il sostegno americano non viene garantito a tempo indeterminato e che il ruolo dell´America non è quello di difendere un governo iracheno che escluda o emargini importanti fasce della società irachena. E´ troppo pericoloso per le forze armate americane schierarsi in una guerra civile.

L´America deve adeguarsi alla realtà che non tutti gli ex baathisti verranno esclusi dalla vita politica irachena nel nuovo Iraq. Dopo la caduta della cortina di ferro in Unione sovietica e nell´europa dell´est molti ex comunisti continuarono a partecipare alla vita politica. L´attuale presidente polacco - strenuo alleato del presidente Bush in Iraq - era a suo tempo un membro attivo del partito comunista e fece parte del governo che impose la legge marziale in Polonia negli anni ?80. Se i comunisti possono cambiare così, non c´è ragione che non posa farlo un ex membro del partito baathista.

Se gli iracheni intendono negoziare con gli insorti e questi ultimi sono disposti a rinunciare alla violenza e a partecipare al processo politico, dovremmo permetterlo. Persuadere i rivoltosi sunniti ad usare le urne e non le pallottole, è nell´interesse anche degli Sciiti.

In secondo luogo affinché la democrazia metta radici, bisogna dare agli iracheni un chiaro segnale che l´America ha pronta una vera strategia di ritiro dal pese.

Gli iracheni non credono che l´America non ha intenzione di protrarre a lungo termine la propria presenza militare in Iraq. La nostra riluttanza a palesarlo ha alimentato il sospetto tra gli iracheni che le nostre motivazioni non siano schiette, che aspiriamo al loro petrolio e che non ce ne andremo mai. Fino a quando sembrerà che la nostra presenza sia destinata a protrarsi l´impegno americano a favore della democrazia nel loro paese sarà ai loro occhi poco convincente.

Passate le elezioni e avviato il processo di transizione democratica il presidente Bush dovrebbe immediatamente dichiarare l´intento di negoziare un calendario per il ritiro delle forze di combattimento americane con il nuovo governo iracheno.

Almeno 12.000 militari americani e forse più dovrebbero partire immediatamente, per dare un segnale forte circa le nostre intenzioni e allentare la sensazione di occupazione che pervade il paese.

L´obiettivo Americano dovrebbe essere quello di completare il ritiro militare il prima possibile nel corso del 2006.

Il presidente Bush non può evitare questo tema. La risoluzione del consiglio di sicurezza che autorizza la nostra presenza militare in Iraq può essere riesaminata in ogni momento su richiesta del governo iracheno e una revisione è prevista a giugno. L´autorizzazione Onu alla nostra presenza militare termina con l´elezione di un governo iracheno permanente al termine di quest´anno. Il mondo sarà nostro giudice. Dobbiamo avere un piano di ritiro in atto per quella scadenza. (...)

Discorso tenuto il 27 gennaio alla Johns Hopkins school of International Studies

(Traduzione di Emilia Benghi)

Per salvare la Resistenza

Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil e Carlo Grezzi, presidente della Fondazione Di Vittorio lanciano un appello per ricordare, nel corso del 2005, il sessantesimo anniversario della Resistenza. Da l’Unità del 9 gennaio 2005

Il 25 aprile del 1945 il Comitato di Liberazione nazionale lanciava la parola d’ordine dell’insurrezione. Milano e le altre grandi città del Nord si liberavano dai tedeschi e dai nazisti mentre le truppe Alleate risalivano l’Italia. Il nostro paese riconquistava la libertà e la democrazia. Il ciclo di iniziative per il Sessantesimo anniversario della Liberazione, al quale stanno lavorando le Associazioni della Resistenza insieme a tante forze sindacali, politiche e culturali, così come la preparazione delle celebrazioni del 25 aprile, assumeranno un carattere di straordinarietà e rappresenteranno appuntamenti importanti per tutti noi.

Riteniamo che nei primi mesi del 2005, si possano realizzare tante occasioni per ricordare quei fatti e quei sacrifici, che costituiscano anche un momento di riflessione e di ricordo riproposto alla nostra memoria, sui contributi dati dal lavoro nelle diverse regioni del paese per ridare dignità all’Italia e riscattarla dalle tragedie nelle quali il fascismo la aveva precipitata.

Il contributo dato dai lavoratori alla Resistenza è stato immenso. Gli scioperi nelle grandi fabbriche del Nord del marzo del 1943, seguiti nella primavera successiva da un ciclo di lotte ancor più possente, hanno segnato una opposizione di massa ai fascisti ed ai nazisti, con un carattere partecipato, a viso aperto, forte solo della propria determinazione di poter affermare: io sciopero per difendere la mia condizione, contro la guerra, per i miei diritti. Una mobilitazione di massa che non ebbe eguali per ampiezza ed incisività nella Europa governata dai nazi-fascisti in quei drammatici anni. Quei fatti costituirono i presupposti per la crisi del 25 luglio del 1943, per l’avvio di quel grande fatto che sarebbe divenuta la Resistenza.

È dunque il lavoro che ha cambiato i termini del confronto in atto con l’intervento delle grandi lotte di operai ed impiegati in una Italia impegnata nella guerra. Il prezzo che il lavoro ha pagato è stato altissimo, oltre 12.000 lavoratori vennero deportati nei lager nazisti. È stato pagato da parte di coloro che furono accusati di aver organizzato gli scioperi, di aver collaborato con la Resistenza, di aver organizzato il boicottaggio delle produzioni, ma anche da parte di coloro che furono avviati al lavoro coatto in Germania in sostituzione della mano d’opera locale impegnata al fronte. Ne sono tornati vivi ben pochi. Tutto ciò ha segnato il carattere della nostra Costituzione che parla della Repubblica fondata sul lavoro.

Il lavoro è stato protagonista di un altro fatto rilevante, la difesa dei macchinari nella fase ultima della guerra, con l’impegno di operai e di tecnici per salvare aziende ed importanti infrastrutture dalle vendette dei nazisti in fuga.

Siamo impegnati a realizzare appuntamenti di celebrazione, di riflessione, di studio promosso con altre associazioni come direttamente da noi, così come siamo disponibili e lieti di collaborare con tutti coloro che riterranno utile operare con noi o coinvolgerci nelle loro iniziative. Riteniamo che si possa dare adeguato rilievo al carattere non esclusivamente industriale di tanti scioperi, della straordinaria partecipazione dei lavoratori dei comparti dei servizi a quelle lotte, a partire dagli scioperi dei lavoratori dei trasporti, della informazione e dell’energia, del credito, delle università che ebbero allora grande rilievo anche sulla stampa internazionale, mentre sono stati invece poco sottolineati dagli studi e dalle celebrazioni di questi ultimi decenni.

Avanziamo infine una riflessione e facciamo un appello. Le trasformazioni ed i radicali processi di deindustrializzazione che si sono susseguite in questi sessanta anni, ma che si sono accentuati in particolare nel corsi dell’ultimo ventennio, hanno provocato la dismissione o profondi cambiamenti dei luoghi di lavoro e del territorio che li ospitava, hanno così a volte disperso, quando non completamente cancellato le testimonianze ed il ricordo di quanto accadde in quei terribili anni.

Riteniamo si possa chiedere alla Amministrazioni Comunali ed a quelle Provinciali, di farsi con noi protagonisti di una vasta iniziativa tesa a ritrovare, a raccogliere tante lapidi, tanti cippi, testimoni di quella storia e di quella memoria. A riordinarli e trovare per essi una organica e prestigiosa collocazione in luoghi atti da individuarsi nelle nostre città. Genova ha già realizzato alcune iniziative in tal senso. A Milano è da poco all’opera un significativo gruppo di lavoro composto dalle Associazioni della Resistenza, dai sindacati, da Istituti culturali, per realizzare il monitoraggio, la raccolta, le proposte per la valorizzazione di quelle testimonianze marmoree.

La memoria della Resistenza e quella del lavoro sono da tempo al centro di pesanti attacchi da parte di molti che vogliono cancellare, distorcere, falsificare la storia del nostro paese e della sua democrazia. Abbiamo davanti a noi una stagione importante perché questa nostra storia, i suoi passaggi difficili, i suoi protagonisti, siano ricordati e celebrati degnamente.

Titolo originale:At home in Italy, but still apart – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

SASSUOLO – Da qualunque punto di vista, la famiglia Qasim è fatta da cittadini modello, il tipo di persone che si vorrebbe avere come vicini di casa.

Zahi Qasim, un uomo serio in maglione a V e pantaloni sportivi, è capo reparto in un’azienda meccanica, rispettato lavoratore. Sua moglie Khalwa Ghannam è insegnante, parla correntemente tre lingue. Osama, 12 anni, lo conoscono tutti: è il primo della classe. L’esuberante Ali, un anno, adora sgattonare sulle piastrelle lisce del pavimento in soggiorno – decorate di proverbi del Corano – all’inseguimento del pallone sotto i tavoli.

Quando siamo andati a trovarli in questa città industriale del nord appena fuori da Modena, i Qasim si sono esageratamente scusati di non poterci offrire il pranzo, dato che stavano osservando il Ramadan.

Ma in Italia i Qasim, originari della Palestina, non sono cittadini, anche se hanno trascorso metà della vita a lavorare duro qui, costruendo una famiglia. La legge restrittiva sulla cittadinanza italiana consente solo dopo dieci anni di residenza agli immigrati di chiedere la cittadinanza, ed è piena di clausole difficili da rispettare. I bambini, entrambi nati in Italia, ne avranno diritto solo all’età di 18 anni. “Ci piacerebbe molto essere italiani” dice la signora Ghannam, 37 anni, incinta di sei mesi, vestita con un hajib marrone.

La loro vita, anche se sicura dal punto di vista finanziario, è piena di piccoli odiosi promemoria del fatto che loro non sono del tutto accettati in un paese che chiamano casa da vent’anni.

Dopo le bombe di Londra quest’estate, Qasim, 42 anni, è stato interrogato dalla polizia, che ha anche perquisito la casa. Crede che il suo cellulare sia sotto controllo. Quando sono venuti degli amici da Trono per la cena di Ramandan, la polizia è passata a chiedere chi fossero, rimproverando ai Qasim di non averli denunciati. I loro sforzi di acquistare un edificio per una Scuola Domenicale musulmana sono stati bloccati per due anni dai politici locali con la scusa della carenza di parcheggi disponibili. Le chiese a Sassuolo non hanno parcheggi, nota.

”Certo che mi infastidisce, è perché siamo musulmani, non lo farebbero a un europeo” racconta. “Diciamo ai nostri bambini che devono impegnarsi a fondo, essere i migliori in Italia, che con l’odio non si va da nessuna parte. Questa non è la nostra città, e hanno il diritto di controllarci, se vogliono”.

I leaders europei sono stati costretti a una scomoda introspezione nelle scorse due settimane, con automobili e edifici che bruciavano in Francia, incendiati da musulmani immigrati di seconda e terza generazione, che non hanno mai sentito l’Europa come una casa che dava loro il benvenuto. Se sta accadendo in Francia, dove la maggior parte dei musulmani sono almeno cittadini, potrebbe accadere in Italia, o Germania, o Inghilterra: in una qualunque delle altre numerose nazioni europee che hanno vaste underclass islamiche.

”Se non inteveniamo seriamente con programmi sociali e realizzazione di case, potremmo presto avere parecchie Parigi, qui” ha avvisato Romano Prodi, ex presidente dell’Unione Europea ora leader dell’opposizione italiana.

Anche se è stata una particolare miscela di alienazione, disoccupazione e rabbia ad accendere le periferie di Parigi, le politiche governative e l’atteggiamento sociale di molti paesi europei cospira per isolare, anziché integrare, gli immigrati in genere – e quelli musulmani in particolare – anche se vivono in Europa da anni.

Molti musulmani dicono di sentirsi particolarmente vulnerabili dopo le bombe di Londra, coi governi europei che intensificano la vigilanza sulle loro comunità per snidare terroristi che potrebbero nascondersi all’interno. Un sospetto degli attentati di luglio è stato scoperto in Italia settimane più tardi.

A Sassuolo, città industriale del nord di 40.000 abitanti, nota per le sue fabbriche di piastrelle, non ci sono stati incendi o violenze. Ma certo ci sono state alcune simboliche scintille e una buona dose di tensione da quando i musulmani – di solito arrivati da poco in Italia – hanno cominciato a riversarsi qui, da dieci anni.

Quest’estate, ci sono state infuriate proteste da parte di immigrati e gruppi sindacali di sinistra, dopo che il comune aveva sgombrato gli occupanti di un grosso edificio verde ad appartamenti, chiamato Casa San Pietro, quasi tutti musulmani immigrati dal Marocco.

”C’erano degli spacciatori, luce e bagni non funzionavano, stava cadendo a pezzi” dice il sindaco Graziano Pattuzzi, spiegando la sue decisione. “I cittadini sostengono che c’erano armi in quell’edificio, e la polizia si rifiutava di rispondere alle chiamate lì, per paura di essere aggredita con pietre e bottiglie. La situazione era insostenibile”.

Un altro motivo, spiega il sindaco, era di porre fine alla ghettizzazione dei nuovi immigranti e promuovere l’integrazione, sottolineando come gli esperti sostengano che i distretti debbano contenere un massimo del 4% di immigrati. Concentrazioni più elevate isolano solo gli immigrati dagli italiani e viceversa, sostiene.

Circa il 9% della popolazione di Sassuolo non è italiana, e il 68% di questi stranieri è musulmano. Alcuni edifici ad appartamenti sono diventati quasi completamente marocchini, dice il sindaco.

I leaders della protesta riconoscono che il quartiere attorno alla Casa San Pietro era interessato da piccoli crimini, ma sostengono che non avessero nulla a che spartire con gli abitanti, in maggioranza lavoratori e in parte proprietari degli appartamenti.

In realtà, sostengono, l’amministrazione di Sassuolo ha favorito il crearsi di un clima di razzismo, o almeno ha fatto poco per contrastarlo.

”Siamo al punto che quando aprono un call center o un ristorante pachistano, nasce subito un gruppo di residenti per protestare contro” dice Paolo Brini, leader sindacale che ha aiutato a organizzare gli immigrati.

Al momento un gruppo di cittadini del quartiere Rometta sta tentando di bloccare la costruzione di un complesso residenziale perché probabilmente attirerà immigrati, racconta Brini, aggiungendo, “È una bomba sociale a orologeria”.

A differenza della Francia e Gran Bretagna, dove gli immigrati musulmani hanno iniziato ad arrivare dalle ex colonie molti decenni fa, in Italia il fenomeno è relativamente nuovo. A Sassuolo, sono cominciati ad arrivare uomini soli 15 anni fa, seguiti poi dalle famiglie negli ultimi 7-10 anni. Oggi in alcuni quartieri, circa la metà dei bambini delle scuole sono di famiglie immigrate, dice Pattuzzi.

È stato uno scomodo adattamento. Ghannam racconta che suo figlio ha sopportato le prese in giro per il suo nome, Osama, specialmente dopo l’11 settembre. D’altra parte, gli insegnanti sono stati comprensivi quando l’alunno era assente per le feste musulmane, e uno si è anche informato su come individuare la direzione della Mecca, in modo che Osama potesse pregare durante una gita scolastica.

Quando i Qasim sono entrati nel loro appartamento, al terzo piano sopra un fruttivendolo, i vicini italiani erano freddi e ostili. Ma col tempo è migliorata, raccontano.

Qasim dice di non partecipare alle proteste per la Casa San Pietro, di credere che i musulmani dovrebbero mischiarsi un po’ di più coi locali, non importa quanto sia difficile.

Molte famiglie italiane si lamentano di questi arrivi, riconosce il sindaco, facendo l’equazione fra musulmani e piccola criminalità. Di fatto uno dei motivi per cui la Casa San Pietro si è trasformata in un ghetto, racconta, è che c’erano molti padroni di casa italiani che si rifiutavano di affittare a musulmani.

”Ci sono modi di arrivare all’inclusione o integrazione, quando si tratta di lavoro, culture, istruzione, vita cittadina” dice.

E molti esperti dicono che Sassuolo non è una potenziale scintilla da incendio, come le periferie parigine, dato che il lavoro è ancora piuttosto abbondante e c’è bisogno di manodopera “straniera” in questi centri industriali.

”Non voglio fare l’ottimista che tiene un occhio chiuso, ma una delle differenze importanti è la forte disoccupazione, che qui non è un problema” dice Antonio Oriente, preside di una scuola superiore di Sassuolo.

In effetti, Qasim racconta che è sempre stato trattato con rispetto al lavoro, gli è anche stato dato un posto dove pregare cinque volte al giorno, per esempio. Su posto di lavoro, racconta, si sente “come se fossi un italiano”.

Ma col declino economico dell’Italia, Brini dice che le fabbriche presto licenzieranno 500 lavoratori, il che potrebbe rappresentare la scintilla. La società italiana non è stata aperta, ha offerto banalità sulla fratellanza e poco altro.

”Non abbiamo mai pensato agli immigrati come a persone che sarebbero state qui a vivere per il futuro” dice Renzo Guolo, sociologo e islamista all’università di Padova, aggiungendo, “Semplicemente non sappiamo come costruire una società di diversi gruppi etnici”.

Un primo passo importante, lui e altri sostengono, sarebbe quello di consentire un accesso più facile alla cittadinanza. “Come possiamo aspettarci che seguano la legge, se non diamo loro qualcosa che li faccia sentire parte della nazione?” si chiede Guolo.

l’Italia è uno dei pochei paesi in Europa dove la nascita non conferisce cittadinanza. E nonostante gli immigrati possano fare richiesta dopo dieci anni di comprovata residenza legale, lo stato non ha l’obbligo di rispondere the state entro tempi determinati, e la pratica spesso si allunga, dicono gli esperti.

Ma se Qasim non è italiano, è difficile capire cosa sia, dato che non ha nessun altro posto che consideri casa sua. La famiglia mantiene una casa a Ramallah e ci torna per le vacanze estive, ma Osama non lega più coi ragazzi della sua età, che racconta in maggioranza lavorano a tempo parziale. Qasim, che ha abitato in Italia durante le due intifada, non si sente sicuro in Palestina. Quando Osama parla arabo coi suoi genitori, è spruzzato di italiano.

”Non perderò mai le mie radici, ma dobbiamo vivere come italiani perché è il nostro paese, adesso” dice Qasim, che, anche se devoto, ha rinunciato ad alcune delle più ortodosse rigidità dell’Islam: quelle che considera di carattere culturale ma non essenziali per la pratica religiosa.

Per esempio, uomini e donne si mescolano e lavorano fianco a fianco nella Associazione Islamica che Qasim dirige, anche se in Medio Oriente sarebbero separati. Poi, anche se gli piacerebbe che sua figlia indossasse abiti musulmani – come la moglie – dice che lascerebbe scegliere la ragazza. “Ci sono aspetti dell’Islam che funzionano in Palestina, ma non qui”, dice.

Molti musulmani in Italia, come i Qasim, hanno seguito con attenzione le rivolte francesi su Al Jazeera, la TV araba via cavo. Ezzedin Fatnassi, 41 anni, Imam originario della Tunisia in una moschea di un’altra città industriale del nord, Bassano Del Grappa, si oppone alla violenza, ma dice che “una volta iniziata, bisogna capirne le ragioni”. È rimasto scioccato quando casa sua è stata perquisita dopo le bombe di Londra.

Anche Qasim, crede che arresti e coprifuoco abbiano solo aggravato la situazione in Francia. “È sbagliato usare la polizia” dice. “Quando si parla con le persone, li si fa sentire parte della grande società. Se li si fa sentire emarginati, si ribelleranno”.

È una lezione che molte nazioni europee stanno imparando con fatica. Le due moschee di Sassuolo, riferimento per duemila fedeli, sono strutture improvvisate di legno in vecchi spazi industriali, sempre in lotta per la sopravvivenza.

Dopo due anni di rinvii, Qasim è riuscito ad aprire il suo Centro Islamico – che comprende una sala di preghiera e una scuola domenicale- ma invita i membri a parcheggiare lontano, per non provocare le autorità. L’imam scelto, uno yemenita già schedato per un visto dalle autorità italiane, è stato di nuovo interrogato dalla polizia locale.

Quando parla con suo figlio Osama, dopo vent’anni in Italia, Qasim ripete ancora il mantra dell’immigrato: ignora le offese, lavora più dei tuoi compagni di classe. “E comunque, gli dico, i palestinesi sono abituat ad essere controllati: pensa solo come sarebbe a Ramallah”.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)

E la riforma costituzionale? Mentre la maggioranza procede come un treno sulla riforma elettorale, si avvicina la seconda lettura nell'aula della camera del nuovo testo della Carta fondamentale partorito dalla Casa della libertà, che non si limita a introdurre la devolution ma com'è noto modifica la forma di governo, conferisce una gran messe di poteri al premier e altera quelli del presidente della Repubblica e della corte costituzionale, cambia la composizione e la funzione delle due camere, derubrica il ruolo del parlamento, introduce due diverse corsie per la produzione legislativa. Domanda: in che rapporto stanno questa riforma e quella del sistema elettorale? Il tema è scivolato via dalle cronache del «golpe» neo-proporzionalista di questi giorni, ma c'è. E giustamente Paolo Franchi, editorialista del Corriere della sera, la pone al centro di un dibattito organizzato dal Salone del libro di Roma per discutere del volume dell'Astrid (Associazione per la ricerca sulla riforma delle istituzioni democratiche) Costituzione: una riforma sbagliata (Passigli), in cui ben 63 costituzionalisti illustrano incoerenze, trappole e perversioni di quel testo. Il quale per di più, osserva Franchi, fu stilato quando ancora imperava la religione del maggioritario. Come si concilia adesso con la svolta proporzionalista, o semi-proporzionalista, della maggioranza? Vero è che in punta di dottrina i sistemi elettorali non fanno parte delle Costituzioni e sono regolati da leggi ordinarie: «le leggi elettorali trasformano i voti in seggi, le Costituzioni disciplinano i poteri», spiega Giovanni Sartori. Ma è pur vero, sul piano politico, che l'intera e ormai annosissima vicenda della riforma della Costituzione, già avanzata da Craxi negli anni `80, ha preso quota nei `90, a destra e a sinistra e nei reiterati tentativi di dialogo fra destra e sinistra, sull'onda del passaggio dal proporzionale al maggioritario, e relativa retorica della fine della «Prima Repubblica», delle virtù del bipolarismo, di un passaggio di centralità e di poteri dai partiti e dal parlamento al governo. Che ne è di tutta questa costruzione se adesso quell'onda finisce e avanza il risucchio?

A ben guardare gli effetti infatti ci sono, nel senso di una ulteriore incoerenza e di una ulteriore pericolosità della riforma costituzionale. In primo luogo perché, come argomenta lo stesso Sartori, una influenza sul funzionamento della forma di governo le leggi elettorali ce l'hanno, e consiste nel tasso di frammentazione dei partiti (e conseguente instabilità delle coalizioni e dei governi) che inducono: e la nuova legge elettorale, spiega Franco Bassanini, «è buona per vincere ma non per governare», perché induce a coalizioni larghe ma disomogenee. E poi, aggiunge Bassanini, con i suoi premi di maggioranza differenziati per la camera e per il senato la nuova legge rende più facile la formazioni di due maggioranze diverse nei due rami del parlamento, e di conseguenza disordina ulteriormente il già confusissimo bicameralismo della riforma costituzionale. Infine, introducendo un proporzionalismo non puro ma corretto dal premio di maggioranza, lascia aperto il problema dell'adeguamento dei quorum di garanzia. In sintesi, a danno si aggiunge danno e a confusione altra confusione.

Il tutto dentro uno scenario politico tutt'altro che limpido. Perché il referendum abrogativo della riforma costituzionale che il centrosinistra imporrà, si terrà dopo le elezioni politiche. E non è affatto detto - ne ha scritto ieri sul manifesto Gaetano Azzariti - che i risultati delle elezioni e del referendum siano coerenti fra loro. Nemmeno è detto - anzi allo stato è escluso - che il centrosinistra troverà per il referendum quella compattezza di vedute che in materia di revisione costituzionale non ha mai avuto. Se è comune infatti la volontà di affossare la riforma berlusconiana, restano profondissime e insuperabili divisioni fra chi punta sulla difesa della Costituzione del `48, e chi punta su una riforma più coerente di quella berlusconiana, ripulita delle sue più evidenti nefandezze (il premierato assoluto, la devolution, lo svilimento del parlamento), ma comunque improntata alla centralità del governo, alla stabilità e a tutta la costellazione di parole d'ordine che avrebbe dovuto finalmente risplendere sulla «Seconda Repubblica». Ma se si scopre che siamo sempre nella Prima, quella costellazione è destinata con qualche probabilità a oscurarsi.

Ogni tanto si sente dire, in questi tempi, che il sindacato, in particolare la Cgil e le altre grandi confederazioni, si attesta su posizioni conservatrici. Insomma, il sindacato sarebbe o è conservatore. Se prendiamo questa osservazione, così essa viene formulata, come una critica polemica, essa, come ogni critica, può contenere qualcosa di vero ed è dunque giusto tenerne conto. Nemmeno la Cgil è infallibile né ha il monopolio della verità o la sicurezza di imbroccare sempre la giusta strada sociale e politica e può darsi che, nell’uno e nell’altro caso, essa abbia compiuto o compia degli errori, difenda situazioni o posizioni superate e così via.

Nulla come le critiche, anche degli avversari, aiuta a migliorare.

Ma la parola «conservatore» - e come dovrebbero in verità sapere i privilegiati che avversano il sindacato soprattutto per mantenere le loro posizioni di potere - ha anche dei significati positivi. Dipende che cosa si vuol conservare. Ci sono valori da conservare; anche tradizioni, retaggi culturali da conservare.

A essere sovversivo, rivoluzionario nel senso deteriore del termine, è oggi spesso il selvaggio anarco-liberismo ultrà, che vuole abolire non solo ogni senso di solidarietà e del legame fra gli uomini e dunque anche fra le generazioni, ma ogni senso dello Stato, del quale l’individuo non dovrebbe preoccuparsi, in quanto dovrebbe tendere soltanto al conseguimento egoistico e immediato di vantaggi personali, così come lo Stato non dovrebbe occuparsi di sanità, delle condizioni generali di tutti e così via. Basti pensare alla paurosa situazione in cui, in tanti paesi a capitalismo selvaggio, si trovano, per quel che riguarda il problema della sanità, le categorie meno abbienti. Uno di questi ultrà anarco-liberisti, Nozick, ha teorizzato addirittura non solo lo Stato minimo, bensì lo Stato ultraminimo, il quale non dovrebbe occuparsi nemmeno di sicurezza pubblica o di polizia (bensì soltanto della difesa militare e così via). Secondo questa visione, così come il cittadino che cade malato non dovrebbe e spesso purtroppo non può rivolgersi a un’assistenza sanitaria, bensì soltanto, se ha avuto la possibilità di stipularla, a un’assicurazione privata, anche chi è aggredito da un malvivente non dovrebbe più chiamare il 113, la polizia o i carabinieri, bensì, se ha avuto la possibilità di stipularla, un’assicurazione privata, che dovrebbe provvedere a difenderlo dalle aggressioni dei criminali. Così, soltanto i ricchi potrebbero avere il diritto di difendersi dal primo delinquente o rapinatore che mette loro le mani addosso.

È evidente che questa orrida visione - per fortuna sinora mai realizzata - non offende soltanto il senso di giustizia, ma anche la qualità della vita di tutti, perché è l’esistenza di un servizio pubblico di sicurezza per tutti che garantisce o almeno favorisce la possibilità per tutti, anche per i miliardari, di andare a spasso più tranquilli per le strade. Se il sindacato vuole «conservare» un certo tipo classico, tradizionale, di rapporto collettivo e solidale fra gli uomini, un senso di responsabilità generale, e gli antichi valori e principali morali, politici, sociali che stanno alla base di tutto questo, l’aggettivo «conservatore» è un grande complimento. Infatti, se noi oggi diamo uno sguardo alla politica italiana in particolare, ma forse non solo italiana, vediamo che è in genere la sinistra a essere «conservatrice» di tanti valori che ci sono stati tramandati dalle generazioni precedenti.

Anche di questo, a mio avviso, bisogna ringraziare il sindacato. Il quale, naturalmente, non è fatto di santi, eroi e navigatori, ma, come ogni altra istituzione umana, ha le sue pecche e le sue magagne, e dunque una ricorrenza celebrativa, se non vuole essere retorica, deve essere più un esame di coscienza dei propri difetti e dei propri errori, per poter procedere con minori difficoltà, che non una autoglorificazione, che sarebbe sempre sospetta.

Forse mi è più facile dire queste cose perché non sono iscritto alla Cgil... Ma un po’, e forse non solo un po’, di fierezza per ciò che il sindacato ha fatto in tutti questi anni, questa sì, credo, sia giustificato e giusto averla. Grazie.

IERI il segretario dei Ds, Piero Fassino, in un´ampia intervista a questo giornale, ha messo a fuoco con nitidezza il problema politico che il suo partito sta sperimentando: «Non passa giorno che non ci sia un Parisi, un Mastella, un Occhetto o un Bertinotti che ci attacca sperando di lucrare qualche voto». Iniziative irresponsabili, a suo giudizio, anzi autolesioniste, dal momento che colpiscono il maggiore partito dell´opposizione, «il ramo su cui sono seduti».

In quella sede, Fassino ha anche difeso con calore l´autonomia il ruolo sul mercato della Unipol, la compagnia assicurativa delle cooperative rosse. Si dà il caso però che nello stesso giorno il Corriere della Sera abbia pubblicato stralci delle intercettazioni effettuate nell´ambito dell´inchiesta Bpi-Antonveneta, che rivelano alcuni retroscena che fanno da sfondo alla scalata della Bnl e le intese tra finanzieri come Emilio Gnutti e banchieri come Gianpiero Fiorani con l´amministratore delegato della Unipol, Giovanni Consorte.

Va da sé che le intercettazioni sono un materiale grezzo, tutto da riscontrare con i fatti; ed è vero che per ora non emergono illeciti penali.

Nello stesso tempo non va dimenticato che le intercettazioni medesime vengono predisposte dai magistrati quando si sospetta la presenza di reati gravi. Ma ancor prima delle responsabilità legali dei protagonisti di questa vicenda economica e politica, non si può non rilevare che tutti costoro agiscono in un ambiente, in un sistema, in un contesto. Per tale motivo, alla luce delle intercettazioni, viene naturale porsi alcune domande, che in piena serenità vanno rivolte anche al segretario ds.

Fassino infatti ha tenuto a marcare la più netta distinzione fra la Quercia e l´Unipol: «i Ds sono un partito, l´Unipol un´azienda e ciascuno fa la sua strada». Eppure, a quanto si legge, le cose non stanno esattamente così.

Giovanni Consorte è infatti uno dei poli di una fitta diplomazia politica, che investe autorità istituzionali come la Banca d´Italia, alcuni importanti esponenti ds (compreso il segretario Fassino), nonché figure della Casa delle libertà e del governo come Giulio Tremonti.

Non è necessario essere inguaribilmente ingenui per trovare curioso che un uomo della sinistra come Consorte si rivolga al commercialista di Gnutti dicendo: «Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto». Certo, può darsi che Fassino ignorasse questi atteggiamenti tipici del realismo politico, chiamiamolo così, degli uomini di finanza, anche se il segretario ds ha specificato che la cooperazione non è «un residuo ottocentesco, alla Pelizza da Volpedo», e dunque qualche compromesso con la modernità l´avrà stipulato. Tuttavia riesce incongruo credere alla tesi che vedrebbe l´Unipol roccaforte solitaria dell´efficienza aziendale, esente da qualsiasi legame di tipo politico con i Ds, allorché Consorte raccoglie le preoccupazioni di Fassino sulle cene elettorali pro - berlusconiane di Gnutti, alleato segreto proprio dell´Unipol.

E logico che certe realtà economiche abbiano una simpatia naturale per certe realtà politiche, quando le radici sono comuni, e che questa simpatia possa dare luogo a rapporti speciali, improntati a un medesimo orientamento di fondo. Ma qui non si tratta del sostegno alle feste dell´Unità o di sconti ai soci e agli iscritti sul premio dell´assicurazione auto: qui siamo nel campo di un gioco di potere di portata ingente, in cui l´Unipol gioca a fianco di investitori spregiudicati (speculatori, li avrebbe definiti l´Unità di una volta), sapendo benissimo che il gioco è perlomeno grigiastro, disputato dentro regole stiracchiate, a fianco di homines novi come Stefano Ricucci, in un rapporto scarsamente decifrabile con l´arbitro-giocatore, ossia il governatore Antonio Fazio (una vocina proveniente dalla Unipol sussurra a un certo punto: «Se non ci fossimo stati noi, Fazio sarebbe stato perso»).

Allora, questa non sarà una questione morale. Fassino avrà buon gioco nel ricordare che al momento non sono state identificate fattispecie illegali.

Però non esistono soltanto le sentenze dei tribunali: ci sono giudizi che l´opinione pubblica formula in base a criteri diversi dalla legalità ma a essa complementari: accanto alla legalità c´è un principio morale; c´è una responsabilità politica; e infine c´è anche un criterio estetico. Ora, piacerebbe capire sotto quale categoria, di gusto o di responsabilità, dovrebbe essere compresa la rete di rapporti intessuti nel corso e nel contesto della scalata alla Bnl. Sotto questa luce, sarebbe anche interessante comprendere se le esitazioni prolungate della leadership diessina sugli immobiliaristi e sulla posizione del governatore Fazio fossero dettate da una preoccupazione di tenuta istituzionale, oppure dalla consapevolezza che le regole del gioco particolare in cui anche i Ds erano inseriti giustificavano un allentamento delle regole tout court.

Fassino è il ritratto di una dura moralità operaia, fordista, torinese, in cui il Pci sapeva stare all´interno delle leggi e in quella cornice praticare le lotte più dure. Ci si chiede: è ancora quello l´atteggiamento dei Ds? Oppure si è sviluppata qualche disponibilità in più, è proliferato qualche atteggiamento meno rigoroso? La spregiudicatezza in economia è stata pagata cara già una volta, allorché Palazzo Chigi, sotto Massimo D´Alema, si guadagnò la definizione di «unica merchant bank in cui non si parla inglese». Eppure allora, con la scalata della Telecom da parte di Colaninno e Gnutti, i "capitani coraggiosi", gli eversori di quelli che volevano «comandare con l´uno e mezzo per cento», poteva profilarsi un cambio di establishment, un rovesciamento delle posizioni dominanti favorito dal governo di centrosinistra in vista della creazione di una "nuova classe" di imprenditori più dinamici e legati alla generazione dei D´Alema e dei Bersani.

Ma oggi? Di quale disegno strutturale o modernizzatore sono portatori i Fiorani e i Ricucci, e dunque anche i Consorte, di quale idea di capitalismo sono gli interpreti? Non c´è un´idea di innovazione economica, non un disegno di ammodernamento dell´apparato industriale, non un´ipotesi sulla trasformazione che il paese dovrà affrontare nella specializzazione produttiva. Ma se c´è soltanto la prospettiva di lottizzare posizioni nel circuito della rendita, attraverso una pratica di accordi e alleanze trasversali, è questo che conviene a Fassino, al centrosinistra, a tutti coloro che hanno cara un´idea razionale del mercato? Nel momento in cui, come auspichiamo, il partito di Fassino si troverà ad avere ruoli di responsabilità in un futuro governo, è auspicabile che prevalga la concezione, sempre manifestata, di un capitalismo decente, in cui non abbiano spazio i rapporti preferenziali e in cui l´affinità politica non sia un patrimonio da giocare nelle relazioni economiche. Finora molte voci nel centrosinistra, quella di Fassino compresa, hanno sostenuto questi argomenti. Possiamo sperare che ai principi seguano i comportamenti, sempre?

Titolo originale: Met chief warns more could be shot – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

L’ufficiale di più alto grado della polizia britannica continua a difendere la nuova linea “spara per uccidere” decisa per affrontare i sospetti attentatori suicidi, nonostante la morte di un innocente da parte di poliziotti armati la scorsa settimana.

Sir Ian Blair, il commissario di Scotland Yard, si è rammaricato con la famiglia di Jean Charles de Menezes, il ventisettenne brasiliano morto dopo che la polizia gli aveva sparato in testa a bruciapelo cinque proiettili su un treno della metropolitana a Stockwell, a sud di Londra, venerdì.

Ma ha ammesso che altre persone potrebbero perdere la vita per mano dei tiratori della polizia, nell’ escalation della lotta al terrorismo. Discutendo apertamente per la prima volta il cambio di tattica della polizia, Sir Ian ha difeso la linea “sparare per uccidere, per proteggere” sostenendo che è necessario sparare in testa ai sospetti se si teme che possano azionare detonatori sul corpo.

”La Metropolitan Police si prende piena responsabilità a questo proposito” dice. “Alla famiglia posso solo esprimere il mio più profondo dispiacere. Dobbiamo riconoscere che le persone devono prendere decisioni estremamente rapide in situazioni di minaccia mortale. Non serve sparare al corpo, perché è il punto dove è più probabile ci sia una bomba. Non serve sparare in qualunque altro punto, se cadono e possono farla detonare. L’unico modo di affrontare la questione è sparare alla testa”.

La casa ad appartamenti di Tulse Hill, nel sud di Londra, dove abitava De Menezes, era sotto sorveglianza dopo la scoperta dell’indirizzo in uno degli zaini contenenti le quattro bombe non esplose nella capitale giovedì scorso.

Era stato pedinato per diversi chilometri da poliziotti in borghese travestiti. Secondo un testimone oculare, era scappato dopo l’intimazione dei poliziotti armati alla stazione della metropolitana, con successivo inseguimento e sparatoria sul treno. La famiglia De Menezes ha definito la polizia “stupida e incompetente”, insistendo che non c’era ragione di sospettarlo.

Alex Pereira, il cugino, dice: “Era al 100% un buon ragazzo che non aveva mai fatto niente di male, e non aveva motivo di scappare. Quello che la polizia ha dimostrato è di essere incapace e stupida”.

Oggi sarà avviata un’inchiesta penale sulla sparatoria. La Independent Police Complaints Commission incaricherà investigatori indipendenti di verificare se i funzionari debbano essere sottoposti a provvedimento penale o disciplinare.

Non è comunque chiaro se questa tattica spara-per-uccidere, in codice Operazione Kratos, sia stata autorizzata da un ufficiale superiore.

La sparatoria ha aumentato la già enorme tensione della polizia metropolitana, che come ha ammesso Sir Ian è di fronte alla maggior sfida della sua storia nella caccia ai quattro uomini responsabili del tentativo di attentati della scorsa settimana, e alla loro rete di sostegno. Ci sono attualmente tre persone arrestate, ma non si sa se qualcuno di essi appartenga al gruppo degli attentatori.

A Little Wormwood Scrubs, nel nord-ovest di Londra, il gruppo artificieri ha provocato esplosioni controllate su un pacco trovato nascosto nei cespugli. Si ritiene ci possa essere stata una quinta bomba collegata che non è esplosa giovedì scorso.

Intanto, Charles Clarke e Jack Straw, ministri degli interni e degli esteri, sostengono Sir Ian. Clarke, che ha rinviato le vacanze per partecipare a un vertice antiterrorismo presieduto del primo ministro, ha dichiarato: “È assolutamente una tragedia il signor De Menezes e la sua famiglia, a cui comunico il mio più profondo rammarico”.

Straw, che dovrà rispondere alle difficili domande di Celso Amorim, il ministro degli esteri brasiliano, ha detto: “Dobbiamo essere sicuri che si agisca entro regole certe. Ma, tragicamente, dobbiamo anche assicurarci che la polizia abbia piena discrezionalità per affrontare quelle che potrebbero essere azioni di terrorismo suicida in corso”.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Sembra un remake di Vogliamo i colonnelli di Monicelli, e si sa che i rifacimenti - in genere - sono peggiori degli originali. Ma Gaetano Saya non è il protagonista di un film malriuscito, semmai l'interprete di una storia italiana in cui farsa e tragedia hanno confini incerti. Una storia in cui riappaiono - come spettri un po' sbiaditi - tracce di patrie vicende di un'era che fu ma che non passa mai. Il neofascismo stragista, i «boia chi molla» di Ciccio Franco, la massoneria della Loggia P2 di Licio Gelli, la Gladio di Cossiga, i servizi deviati del generale Santovito: tutto rivendicato palesemente in un sito internet dall'uomo che, creando un fantomatico Dipartimento di studi strategici antiterrorismo, si presenta come sodale del presidente americano, perché «il male sceso tra noi trova in uomini come George Bush in America e Gaetano Saya in Italia un baluardo inespugnabile. Uomini timorati di Dio, uomini duri e puri che illuminati per volontà Divina, sono scesi nella valle oscura della morte per difendere la Fede Giudeo Cristiana e l'Occidente. Il bene che questi uomini rappresentano sconfiggerà l'Anticristo». Chissà che ne penserà l'inconsapevole Bush. Se questi sono i toni, sembra proprio una farsa. Ma il guaio è che nessuno sa cosa in realtà abbia fatto - soprattutto cosa avrebbe potuto fare - quel fantomatico Dssa, una sigla che, non fosse stato per l'inchiesta in corso, sarebbe passata inosservata, uno dei tanti «organismi» nati - spesso a puro scopo di lucro - sull'onda dell'emergenza antiterrorismo, spesso sulle ceneri dei loro omologhi dell'era della guerra fredda. Ed è proprio qui che la farsa dell'uomo in uniforme massonica incrocia la tragedia dei nostri tempi, di una paura biblica in salsa italiana che trasformando il terrorismo in un grande affare, millantando contatti internazionali e cercando appalti militari globali, genera piccoli mostri e la pericolosa parodia di una servizio parallelo che adesca poliziotti, recluta adepti, pedina sospetti, distribuisce informazioni difficilmente verificabili. E il pericolo non sta tanto in un improbabile quadro eversivo per le istituzioni della Repubblica, quanto in una reale pratica di guerra che non cercando più alcuna legittimità internazionale si avvale di qualunque strumento, persino di combattenti privati. Non è una minaccia per le forme della democrazia, lo è per la sua sostanza.

A preoccupare non sono tanto le azioni di Saya e dei pari suoi, quanto la deflagrazione della grande guerra epocale del bene contro il male in tanti affari privati: legittimati dall'imperativo di difendere l'Occidente minacciato e dalla violazione del diritto internazionale tanti piccoli Saya in tutto il mondo possono sentirsi autorizzati a fare qualunque cosa, a considerarsi giustizieri divini, a moltiplicare Guantanamo e Abu Ghraib. Anche nelle farse più ridicole si fa presto a passare dalla vigilanza sull'«obiettivo» all'eliminazione dello stesso. Magari facendoci pure i soldi sopra.

Al di là della portata reale di ciò che ha fatto o avrebbe potuto fare il cosidetto «servizio parallelo» di Saya, il Dssa è il sintomo di una malattia, dello svaporare di regole e limiti, della perdita di relazione tra intendimenti e fatti. Lo sfondo che permette all'ambasciatore americano Sembler di affermare che il sequestro dell'Imam di Milano a opera della Cia dimostra il «rispetto pieno e totale» della sovranità nazionale italiana. Difficile stabilire, anche in questo caso, il confine tra farsa e tragedia.

L'immagine è ripresa dal sito www.amnistia,net. L'analogia tra i simboli della Desta Nazionale (la formazione di Saya e Sindoca) e la CIA era stata rilevata da un articolo del 7 novembredella rivista Enquètes difficiles, dedicato a "un nuovo partito italiano che si ispira alla CIA"

Un'occasione mancata: questo è la nuova costituzione europea. Avrebbe potuto rappresentare un momento in cui cittadini fossero finalmente coinvolti nella nascita della loro nuova nazione, come, nel bene e nel male, lo furono quelli che dettero vita agli stati nazionali, e invece la vicenda è restata nelle mani di una ristretta cerchia di burocrati. Il risultato è che l'Unione europea che ci viene prospettata appare anche più priva di una propria, comune identità. Perché la cultura che ispira il Trattato, i principi cui si riferisce e dunque gli orientamenti politici che stabilisce, cancellano proprio il dato di cui la costruzione europea aveva più bisogno: rinsaldare una specifica comune identità in cui tutti, dalla Svezia alla Grecia, dalla Polonia al Portogallo, potessero ritrovarsi. Assumendo in pieno, e anzi costituzionalizzando le politiche liberiste (primato del mercato e della competitività, marginalizzazione del ruolo dello stato e quindi della politica, privatizzazioni) il Trattato propone un modello che banalizza l'Europa, la allinea a una generica cultura occidentale, di cui certo è parte, ma che di per sé non è un dato sufficiente a giustificare una specifica aggregazione istituzionale. A che pro costruire questa entità statuale, infatti, se essa deve diventare nulla più che un'area geografica, un segmento di mercato globale, privo di una propria identità, e dunque di un'anima, incapace di produrre quanto è essenziale ai fini della coesione sociale e politica?

Negli anni `50 dar vita a un mercato comune fra i paesi europei era un bel progetto. Oggi, nell'era della globalizzazione, non ha più senso. O la Ue è in grado di essere qualcosa di più, oppure non è interessante. E infatti non interessa. Grecia e Svezia, Polonia e Portogallo sono paesi diversissimi. Ogni paese europeo ha una propria lingua e una propria diversificata storia nazionale, perché la storia europea è storia delle sue nazioni. Una cosa sola è simile (e diversa dagli Usa) a nord come a sud: il movimento operaio - nelle sue diverse componenti socialista, comunista, cristiana - e il tipo di società che ha contribuito a forgiare.

Questa particolare connotazione, il fatto che il nostro movimento operaio non sia mai stato, come altrove, mero soggetto economico, incaricato di contrattare il prezzo della forza lavoro, ma anche portatore di valori e artefice di quello che chiamiamo lo stato sociale, si fonda sulla particolarità che lo sviluppo capitalistico ha avuto in Europa. Scriveva Marx, nei Grundrisse, che qui tale sviluppo si è prodotto in presenza, e intrecciandosi, con forme/entità socio-culturali che lo precedevano ma erano ancora vitali, mentre cioè sopravvivevano classi e istituzioni - il mondo rurale, la Chiesa, l'aristocrazia - che, pur prendendo parte allo sviluppo capitalistico, ne hanno segnato il sistema egemonico. Nel male - producendo rigurgiti reazionari - ma anche nel bene: preservando una distanza critica rispetto alla crescente pressione in direzione di una riduzione di ogni dimensione umana alle priorità dell'economia, della produzione, della concorrenza mercantile.

E' questa cultura altra, in qualche modo disinteressata, questa vena critica rispetto alla modernità (come sempre anche ambigua), che - sebbene pesantemente minacciata si è tutt'ora conservata - ha marcato l'identità europea fino al senso comune. In ogni paese europeo - per fare un esempio che è esperienza di massa - si mangiano cibi diversissimi, ma in tutti c'è un analogo gusto per la diversità, in tutti i pasti non sono solo nutrizione ma occasione sociale, e attorno al cibo si scandiscono gli eventi della vita familiare e collettiva. E' per questo che, nonostante tutto, la mcdonaldizzazione stenta ad affermarsi, sebbene produrre cento formaggi diversi anziché una sola pasta di «cauchut» sia assolutamente antieconomico. La totale riduzione a merce degli alimenti, insomma, non è stata possibile. Così come della forza lavoro. Sicché qui il sindacato, a nord come a sud, non è solo strumento di rivendicazione, ma protagonista della democrazia moderna, portatore di valori non mercantili che incidono sul modo di essere delle istituzioni. (Quando mi domandano quali siano i segni distintivi dell'identità europea, rispondo con una battua: la gastronomia e il movimento operaio).

Di questa cultura comune resistentissima nella Costituzione europea non restano che vuote parole, nessuna traccia di sostanza. Ma se questa connotazione viene non solo sbiadita ma addirittura cancellata, di comune e specifico non resta più niente. La cosiddetta european way, di cui pure ancora ai tempi di Delors si era tanto parlato, viene sepolta: questo non è un fatto improvviso prodotto dal trattato, bensì il risultato di un processo che si è sviluppato nel corso di questi anni nella sostanziale disattenzione della sinistra. La questione dei servizi pubblici, per esempio, una delle strutture più significative del modello europeo, è stata in questi anni oggetto del più aspro contenzioso fra i numi tutelari della libera concorrenza sul mercato interno e chi ha continuato ad avere a cuore questo pezzo di storia europea.

L'ultimo scandalo è la proposta direttiva Bolkenstein, ma già nel Trattato di Amsterdam, 1997, sebbene si fosse allora riusciti a fare includere un riferimento al ruolo dei servizi pubblici, la dizione risultò così oscura da rendere difficile escludere la preminenza delle regole del mercato, e dunque l'obbligo di tagliare ogni sovvenzione. A Nizza, nel 2000, all'art.36 della Carta sui diritti fondamentali si parla di ruolo dei servizi di pubblico interesse, ma senza farne seguire alcuna pratica conseguenza. I successivi papers presentati in merito dalla Commissione hanno ulteriormente accresciuto la confusione, cercando di contentare chi non voleva fossero eliminati lasciando ai paesi membri il potere di decidere in alcuni casi. Mai tuttavia, nonostante insistenti proposte dell'europarlamento (fra queste la Risoluzione Herzog) è stata imboccata la strada della creazione di servizi pubblici a livello europeo: un'ipotesi che avrebbe anche eliminato ogni pretesto fondato sul rischio di alterare la concorrenza sul mercato interno.

Serve, questa Unione europea più compatta e competitiva - si dice - per contenere le pretese imperiali americane. Questo è anzi l'argomento principe di chi dice che, pur turandosi il naso, occorre votare sì al Trattato. Ma se questa Europa diventa così simile agli Stati Uniti in versione imperiale, come possiamo pensare che possa garantirsi, rispetto ad essi, una reale autonomia? Non solo: per costruire un mondo più multipolare altre sono oggi le vie. Innanzitutto quella di stabilire - rinunciando all'ossessione atlantista - un rapporto più stretto con i processi che si sono innescati, sia pure fra mille ostacoli e contraddizioni, dall'Asia all'America latina. Solo rimettendo in discussione il modello d'Europa che ci viene proposto, insomma, potrebbe esser possibile contribuire a costruire un mondo multipolare.

ROMA - Lo «spirito della Resistenza vive nel testo della Costituzione repubblicana». Carlo Azeglio Ciampi sfoglia il gran libro della storia patria, seguendo il «filo unico» che lega Risorgimento, lotta di liberazione, resurrezione dell´Italia. E celebra il sessantesimo anniversario del 25 aprile travolgendo incertezze e revisionismi di questi anni di pensiero debole al potere. Lo fa all´insegna d´un ricordo che «non vuole alimentare divisioni» ma insegnarci la concordia, l´amore per la patria e per la Costituzione: «fondamento delle nostre libertà». Vale a dire la sintesi che «ha consentito la rinascita morale e materiale della nostra patria, le grandi trasformazioni istituzionali e sociali, la creazione d´un sistema di equilibri tra i poteri che ha garantito e garantisce la libertà di tutti».

Piano dunque coi tentativi di scasso, con le riforme troppo radicali sembra quasi dire il capo dello Stato (chiamato a difendere la Costituzione esistente). Attenzione, dice davanti a decine di migliaia di milanesi in piazza che l´osannano come difensore della Suprema Carta (di fianco a lui siede l´ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, uno degli ultimi costituenti): «Non dimentichiamo mai che la Costituzione è la base della convivenza civile dell´intera nazione». Violentarne lo spirito è far violenza all´identità nazionale.

Una difesa, quella di Carlo Azeglio Ciampi nella giornata che ricorda la liberazione dal fascismo (alla quale diede un «contributo determinante il popolo italiano») e lo stato nascente della nostra democrazia, dei valori assoluti alla base del patto sociale che da sessant´anni governa la convivenza fra italiani. Valori che uniscono: una decina di volte ha invocato l´unità, forse pensando ai leghisti assenti. Rendendo «gloria a coloro che salvarono l´onore del popolo italiano» con la riconquista della «libertà per tutti, anche per coloro che li avevano combattuti». Vale a dire i fascisti, trascinati dentro la democrazia dal sangue degli antifascisti. La memoria dei «sacrifici e delle lotte della Resistenza è fondamento della nostra passione per la libertà», dice ancora. Poi li elenca con puntiglio, quei sacrifici. Quasi scadendo le parole una a una. La Resistenza dei militari smarriti dopo l´8 settembre, i civili che si unirono a loro nella difesa delle città, le centinaia di migliaia di militari deportati che non vollero servire il fascismo, la Resistenza popolare spontanea. Ricordando «soprattutto i protagonisti della Resistenza armata, che nacque come scelta di popolo e poi dilagò», né i soldati alleati venuti da tutti i continenti per liberare «gli europei dalla feroce tirannide nazifascista».

Mattinata al Quirinale, per una memoria istituzionale e molto formale. Pomeriggio a Milano (il primo "comizio" in piazza di Ciampi: un trionfo, sedici applausi), per un ricordo più popolare. Al Colle ci sono i presidenti delle Camere, per la prima volta Berlusconi e il presidente della Corte costituzionale. Il presidente può giù misurare l´entusiasmo che circonda la sua persona nell´applauso, continuo, generoso degli invitati in tribuna durante la rassegna dei picchetti militari. In contrasto con i fischi e i flebili applausi riservati al Cavaliere all´uscita dal Quirinale. Ci sono Pera e Casini («la Resistenza è un patrimonio di tutti i cittadini, fattore fondante della nostra identità nazionale», concorderà il presidente della Camera), c´è il presidente della Corte costituzionale Capotosti. E ministri, Martino e Pisanu. Il titolare della Difesa, berlusconiano, quasi a smarcarsi con garbo dalla posizione di Ciampi, dice che «con le dovute distinzioni e senza interessati oblii, la verità e la pietà bastano da sole a pacificare definitivamente la nazione, se prevale la buona volontà».

Le Costituzioni sono fatte di materia, di pasta specialissima. Negli ultimi tempi questa materia è andata corrompendosi. Il problema ora, se non vogliamo il peggio, è, prima d’ogni altra cosa, restaurarla.

Invece di ricominciare immediatamente ad azzuffarsi sulle cose fatte e a rinfacciarsi colpe, cedimenti, opportunismi e contraddizioni: cose improduttive e meschine che interessano una cerchia sempre più limitata di persone, sarebbe forse bene, come si dice pedestremente, fare un passo indietro e cercare di cogliere con uno sguardo d’insieme quel che è appena accaduto. Vediamo, da una parte, una destra che, osteggiando la costituzione "vecchia", se ne fa una sua, "nuova"; dall’altra, una sinistra che, unica cosa chiara, osteggia la costituzione della destra. Per il resto, c’è chi, nella sconfitta, invoca la necessità di un proprio e diverso progetto, chi scrive nuove "bozze" e chi recupera proposte d’altri tempi, senza che si riesca nemmeno a capire, innanzitutto, qual è l’atteggiamento verso la costituzione che abbiamo, quella che viene dalla Liberazione e dall’Assemblea Costituente del 1947. C’è da stupirsi che, contro questi geniali capitani, cresca il risentimento?

Indipendentemente dall’essere di destra o di sinistra e indipendentemente dal giudizio che si dia dell’opera compiuta dal Parlamento e quindi anche nel caso che, per assurdo, la si giudichi in sé e per sé un capolavoro costituzionale; indipendentemente da tutto ciò, chiunque, con questo sguardo d’insieme, non può mancare di vedere la catastrofe costituzionale che ci sta innanzi. La materia speciale di cui sono fatte le costituzioni è l’adesione a qualcosa da costruire in comune. Azione costituente è precisamente cercare i contenuti di questa adesione e metterli per iscritto. C’è stata invece la ricerca consapevole del risultato contrario: la sconfitta dell’avversario, con un colpo di maggioranza assestato con forza costituzionale. Qui non c’è la materia; questa non è costituzione, ma lotta costituzionale.

Una Costituzione imposta così si fa bella della parola, ma si fa beffe della sostanza. Essa, invece che costituzione, dovrebbe dirsi atto di governo che si riveste di forma, e quindi di forza, costituzionale. Se volessimo trovare degli antecedenti, potremmo pensare al documento del 1653 di Oliver Cromwell, denominato propriamente non costituzione ma Instrument of government. Si trattava di organizzare un potere per realizzare la rivoluzione puritana. I documenti di questo tipo sono atti di forza del governo che vogliono essere, per così dire, massimamente forzuti o atti, per così dire, di governissimo.

Si annunciano così altri scontri, non appena (prima o poi) i rapporti di forza saranno cambiati. Come abbiamo ora una costituzione della destra, avremo – secondo la legge universale delle azioni e delle reazioni politiche che Benjamin Constant ha studiato rispetto al succedersi dei colpi costituzionali in Francia, dopo la Rivoluzione – una costituzione della sinistra? Si pensa di procedere così? Non c’è costituzione se la sua base di consenso non trascende le divisioni della politica comune, non trascende cioè, innanzitutto, la divisione maggioranza-opposizione. Una costituzione del governo non è una costituzione perché non ne ha la legittimità necessaria. Questa mancanza iniziale si rifletterà sugli atti che saranno compiuti in futuro, sulla sua base. Invece che pacificare, alimenterà il conflitto. Un bel risultato «costituzionale», non c’è che dire.

Il testo appena approvato dal Senato si è presentato così: Disegno di legge costituzionale presentato dal presidente del Consiglio dei ministri (Berlusconi), dal Vice presidente (Fini), dal ministro per le Riforme istituzionali e la Devoluzione (Bossi), e dal ministro per le Politiche comunitarie (Buttiglione), di concerto col ministro dell’Interno (Pisanu), e col ministro per gli Affari regionali (La Loggia). Un piccolo aspetto di forma? No: un’aberrazione di sostanza. Questa intestazione sarebbe naturale per una legge ordinaria, con la quale il governo, nel rispetto del quadro costituzionale, attua il suo programma; non lo è per una costituzione. L’iter parlamentare è stato conseguente. Il Senato ha votato sotto minaccia di crisi di governo (e di scioglimento anticipato) perché un ministro aveva posto una specie di questione di fiducia (vietata dall’art. 32 del testo ora approvato) e il presidente del Consiglio e gli altri l’avevano accettata, con riguardo addirittura ai tempi dell’approvazione. I senatori della maggioranza hanno assicurato presenza e voto come richiesto e, ancora una volta, si sono arresi al ricatto. Bisognerebbe avere assistito ai lavori dell’aula, per comprendere che cosa può significare prevaricazione del governo sulla sua maggioranza, insolenza della maggioranza sull’opposizione e generale umiliazione del Parlamento. Gli storici delle istituzioni ricorderanno forse solo due persone che, sottraendosi alla logica sbagliata dello scontro tra schieramenti, hanno salvato la dignità costituzionale del Senato: il senatore Andreotti e il senatore Fisichella.

Naturalmente, ciò che precede vuol solo essere una precisazione concettuale ai fini della comprensione. Chi ha agito così, sapeva certo che cosa stava facendo in quel momento e sarebbe ridicolo fargli la morale in nome di un concetto (anche se – aggiungo – i concetti e i loro nomi esigono rispetto). Hanno ragione quanti dicono che non si è trattato di improvvisazione o leggerezza. Si tratta invece di una concezione e di un programma. Anche senza arrivare a rievocare torvi precedenti, come l’identificazione del "politico" con la contraddizione radicale amico-nemico, è chiaro che qui, alla fine, si è manifestata l’insofferenza, più volte onestamente dichiarata, verso la mediazione, i compromessi, i controlli: verso quelli che, in una parola, sono detti impacci e sono invece gli equilibri della democrazia. Sotto quest’aspetto, la presente vicenda costituzionale è un segno di stanchezza democratica ed è una primizia che prefigura un futuro politico: un futuro delineato dai poteri davvero assoluti del premier e dai rapporti di dominazione che egli potrà intrattenere con un Parlamento che, a differenza di oggi, sarà nelle sue mani non solo de facto, ma anche de iure. Per chi li ha a disposizione, si tratta degli articoli 14 e 16 (formazione delle leggi), 27 (scioglimento della Camera dei deputati) e 94 (governo in Parlamento).

Si è detto e si dirà: ma anche la maggioranza di centro-sinistra, alla fine della scorsa legislatura, si è approvata da sola la "sua" riforma della Costituzione, la riforma concernente il nuovo assetto delle regioni e delle autonomie locali. Si tenga comunque conto delle differenze. Innanzitutto, non si è trattato di contraddire la costituzione precedente ma di sviluppare diversamente e ulteriormente principi preesistenti (la tutela delle autonomie, nel rispetto dell’unità della Repubblica, conformemente all’art. 5 della Costituzione). In secondo luogo, l’allora opposizione di centro-destra dissentiva non perché non volesse quelle modifiche, ma perché voleva andare oltre. Voleva di più, rispetto a ciò che era già qualcosa. Infine, le modifiche di allora sono quasi nulla rispetto alle attuali, quanto a rilevanza e incertezza per l’avvenire. Invocare questo precedente per giustificare il presente è dunque una forzatura. Come ha scritto Galli della Loggia, c’è pur sempre una gerarchia negli errori e, in ogni caso, se errore fu quello, non si vede perché lo si sia voluto ripetere, aggravato. In effetti, fu un errore, determinato anche da ingenui calcoli politici di breve periodo (chiudere la legislatura con un risultato di spicco; tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega [!], ecc.), che ha causato poi notevoli problemi pratici di attuazione delle nuove norme, anche in quel caso approvate in fretta e furia. Onde, fatte le debite proporzioni, quest’accusa di aver smarrito, anzi di aver corrotto, la materia costituzionale si estende a quella che era la maggioranza di allora ed è l’opposizione di ora. Del resto, essa si rese conto dello strappo che si veniva compiendo, del deficit di legittimità che insidiava la riforma appena approvata. Fu la stessa maggioranza a chiedere il referendum sul nuovo testo, per trarre da lì quello che in Parlamento era mancato. E così fu compiuto un altro strappo: il referendum da oppositivo (cioè da strumento della minoranza) qual è fu trasformato in confermativo-plebiscitario (cioè in strumento della maggioranza) quale non deve essere. L’effetto plebiscitario non vi fu, data l’ostica materia e la bassa partecipazione popolare al voto; ma il precedente pericoloso fu posto e oggi c’è chi, nell’interesse della maggioranza attuale, pensa di ripeterlo.

Si tratta ora di fare opera di restauro, in previsione del referendum. Per questo è inutile, anzi perfino controproducente continuare con toni via via più accentuati, man mano che si avvicinerà la data del referendum, il confronto tra le parti politiche che stanno in Parlamento. Più si continua così, più si prosegue nella distruzione della speciale materia di cui sono fatte le costituzioni e più si rafforza l’impressione tra i cittadini che, in fondo, non si tratti che di una delle tante controversie che dividono maggioranza e opposizione. In materia costituzionale, occorre per l’appunto non dividere e approfondire le divisioni, ma unire. Il monopolio della discussione e del confronto detenuto dai soggetti politici avvelenerebbe ulteriormente il clima e non prometterebbe niente di nuovo. Pochi sono ormai quelli che, da una parte e dall’altra, sono disposti a vedere nelle parole dei propri avversari politici qualcosa di più che non la difesa interessata delle proprie posizioni di potere. C’è certamente dell’ingiustizia in ciò, ma purtroppo sembra essere così e, se è così, viene per l’appunto a mancare la materia della costituzione.

Questo è invece il momento in cui la vita politica ha bisogno di un aiuto, di un supplemento di responsabilità che non può che essere dato dalla società non direttamente implicata politicamente. Il referendum, sempre, è questo. In particolare lo è il referendum costituzionale. Occorre che i cittadini che ne hanno la possibilità, come singoli e come organizzazioni sociali, le associazioni culturali d’ogni tipo, i mezzi di comunicazione, nei mesi che ci separano dal voto, avvertano che questo è il momento del loro impegno. Occorre trovare parole nuove, discorsi diversi da quelli uditi mille volte e sempre meno ascoltati; occorre far comprendere che la posta in gioco non è il successo o la sconfitta di questa o quella parte politica ma il modo d’essere del nostro vivere insieme. L’obbiettivo prioritario non è ottenere la bocciatura o l’assoluzione di questa riforma della Costituzione. E’ la ricostruzione di un tessuto costituzionale, cioè della materia stessa di cui la Costituzione è fatta. Il giudizio sulla riforma è secondario e, presumibilmente, verrà da sé.

È destinato a cambiare il corso della politica italiana l’allarme lanciato da Romano Prodi sul rischio di una «moderna e pericolosissima dittatura della maggioranza e del suo premier». Diretta conseguenza, ha detto il leader dell’Unione, della riforma della Costituzione imposta dalla Casa delle libertà, «che crea un rischio grave e imminente per la nostra convivenza democratica e contro cui il centrosinistra si batterà in ogni modo». Cambia la politica che abbiamo conosciuto fino a ieri, perché fino a ieri nessun capo dell’opposizione si era espresso in termini tanto drammatici nei confronti di questo «assalto alle istituzioni più preziose del paese, a partire da quella più amata, la Presidenza della Repubblica». Unanime sul documento Prodi cambia anche la qualità dell’opposizione. Accresce la propria forza d’urto contro lo stravolgimento della carta fondamentale dei diritti e dei doveri avendo essa compreso che dalla dissoluzione dell’unità nazionale, dalla limitazione delle istituzioni di garanzia, dalla fine del pluralismo dell’informazione radiotelevisiva è il ruolo dell’opposizione stessa ad essere mortificato e compresso.

Ma è dalla reazione rabbiosa e insultante della maggioranza che meglio si capisce quanto Prodi abbia colto nel segno. Lo stanno accusando di tutto, perfino di essere un «tupamaro» (Vito), di alimentare la «violenza» (Volontè) mentre l’equilibrato Follini gli mette addosso il «passamontagna» alludendo forse alle Br. Che simili farneticazioni giungano proprio dai cosiddetti moderati del Polo la dice lunga sulla vera natura degli Harry Potter del centro, tutti casa (delle libertà) e chiesa

Pettinati e infiocchettati quando si tratta di indossare la maschera dei berluscones saggi e per bene. Sempre disposti, su ordine del capo, a votare tutte le leggi Previti di questo mondo, a digerire, per opportunismo, qualsiasi negazione delle regole democratiche venga loro propinata.

La denuncia di Prodi serve poi a demistificare, una volta per tutte, la leggenda metropolitana dell’intesa obbligatoria tra i poli. Accordo che in un qualunque sistema bipolare, quindi di fisiologica contrapposizione, diventa possibile, e auspicabile, davanti a questioni vitali per la difesa dello Stato, come per esempio la lotta al terrorismo o le grandi scelte di politica internazionale. Su tutto il resto, fermo restando che la dialettica anche aspra tra maggioranza e opposizione rimane la via maestra di una democrazia sana, il compromesso può starci. Purché sia veramente compromesso, e cioé accordo raggiunto con reciproche concessioni, e non cedimento di una parte alla tracotanza dell’altra parte.

Prendiamo il ruolo dell’Italia nella vicenda irachena. Prendiamo l’ultimo drammatico segmento di questa storia che coincide con l’uccisione di Nicola Calipari e la liberazione di Giuliana Sgrena. Poche ore dopo la sparatoria sulla strada per l’aeroporto di Baghdad, l’«Unità» ha riconosciuto l’impegno profuso dal governo italiano per arrivare al rilascio della giornalista del «manifesto». L’atteggiamento tenuto dal presidente del Consiglio subito dopo quei tragici accadimenti, con l’immediata convocazione a palazzo Chigi dell’ambasciatore americano, ci ha fatto scrivere che, almeno per una volta, Berlusconi si era comportato da statista. Il clima di condivisione ha fatto sì che il successivo dibattito parlamentare fosse improntato al riconoscimento reciproco: avere agito tutti con senso di responsabilità. Subito, il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi propone «una strategia concordata sul futuro dell’Iraq, a prescindere dal giudizio iniziale sulla guerra». Aggiunge che la prima occasione può essere il voto sul rifinanziamento della missione italiana, lunedì prossimo alla Camera. Davvero una bella «strategia concordata» quella proposta da Bondi: il centrosinistra vota a favore (o si astiene) sulla missione italiana in Iraq e, in cambio, rinuncia a porre la questione della guerra sbagliata (magari affermando che si è trattato di una guerra giusta visto che ha portato il paese alle elezioni anche se era stata dichiarata per trovare le armi di distruzione di massa). Già che ci si trova l’opposizione potrebbe fare qualcosa di più. Ammettere finalmente che quella dei nostri soldati è una missione di pace in un paese in guerra (è una bugia, un controsenso ma è servito ad aggirare la Costituzione vigente che ripudia la guerra come mezzo di offesa o di risoluzione della controversie internazionali). Oppure, un’opposizione, realmente costruttiva e concorde, potrebbe smettere di domandarsi cosa ci stanno a fare i soldati italiani in Iraq, trincerati da mesi nel deserto di Nassiryia. E se, infine, volesse dare un segno veramente tangibile del nuovo spirito bipartisan l’opposizione potrebbe partecipare al massacro di Giuliana Sgrena, sostenere (come fanno gli esponenti e i giornali della maggioranza) che è lei (e non la guerra sbagliata) la vera causa dell’uccisione di Nicola Calipari.

Certo che il governo Berlusconi si sgancerà dalla guerra sbagliata. Ma lo farà a tempo debito, magari alla vigilia delle prossime elezioni politiche quando vorrà andare all’incasso completo dell’operazione per poter dire agli italiani: vedete come siamo stati bravi, fedeli all’alleanza con gli Usa e, nello stesso tempo, premurosi con i nostri ragazzi? Mentre l’opposizione, se non si sarà piegata, se non avrà chiesto scusa, sarà indicata come antiamericana, antipatriottica, comunista. Proprio come sta accadendo a Romano Prodi, paragonato a un terrorista soltanto perché pretende

Siamo dunque al punto in cui il Capo dello Stato, che rappresenta tutte le istituzioni della Repubblica, deve intervenire pubblicamente per difendere il suo ruolo, i suoi poteri di garanzia, la sua indipendenza e la correttezza del suo operato da uno sfondamento del Capo del governo. Carlo Azeglio Ciampi ha dovuto reagire - con "sorpresa", dice la nota del Quirinale - per tutelare non tanto se stesso quanto l´istituto della Presidenza della Repubblica, attaccato nella sua simbologia repubblicana di indipendenza e nella sua funzione suprema di garanzia da Silvio Berlusconi: convinto che sul giudizio del Capo dello Stato prima della promulgazione delle leggi pesino "le sirene della sinistra".

Com´è evidente si tratta di una accusa gravissima, lanciata in forma plateale e gratuita, senza giustificazioni o prove, e non da un esponente politico di secondo piano ma direttamente dal Presidente del Consiglio, che ha la responsabilità di reggere l´esecutivo, indirizzare la politica nazionale e guidare la maggioranza parlamentare, rispondendo così al consenso ottenuto dai cittadini nelle elezioni. Ora, dopo tre anni di legislatura, Silvio Berlusconi indirizza questo consenso e quel potere politico contro il Presidente della Repubblica, sollevando il sospetto che possa essere soggettivamente un arbitro di parte, dunque scorretto e ingiusto, e istituzionalmente ancor peggio: un Capo dello Stato senza autonomia, soggetto a pressioni, incapace di difendere e garantire l´indipendenza propria della sua funzione.

Siamo ad una vera e propria crisi istituzionale che contrappone i due vertici della nostra vita pubblica, e poco conta la correzione tardiva di Palazzo Chigi. Dalla collaborazione repubblicana eravamo passati da tempo ad una inedita coabitazione fredda, con il Capo dello Stato che aveva di fatto rinunciato alla cooperazione attiva della sua moral suasion per l´impermeabilità di una cultura politica ? esecutivo e maggioranza ? chiusa in sé, convinta di essere autosufficiente, insofferente perciò ad ogni regola, ogni concerto, ogni controllo.

Oggi si va oltre, nel territorio delicatissimo e inesplorato di un Quirinale attaccato nei comizi di propaganda di un Premier in difficoltà. Ogni spirito istituzionale è bruciato dalla mossa di Berlusconi, ogni senso dello Stato, qualsiasi spazio civico o almeno di responsabilità civile. O meglio, tutto questo è travolto e trasformato in qualcosa che non è un´incultura, ma la forza primitiva e durevole di un sentimento, com´è nei fondamenti di ogni populismo.

È quel sentimento berlusconiano di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di "alienità" che lo fa abitare il vertice della Repubblica come un altrove, sentendosene insieme dominatore ed estraneo, occupante più che rappresentante, possessore esclusivo ma straniero, con tutti i diritti della leadership ma mai nessun dovere. È una concezione che già altre volte ho definito tecnicamente rivoluzionaria, perché vive le elezioni come un´ordalia, il consenso dei cittadini come un´unzione perenne, la conquista del governo come una presa del potere. Non solo dunque ogni ipotesi di sconfitta elettorale alla fine del mandato e ogni prospettiva di cambio di maggioranza vengono vissute come un´usurpazione a un diritto esclusivo ed eterno, dunque una sorta di atto sacrilego contro un concetto metapolitico ed extraistituzionale, perché sacro: il destino unito di Berlusconi e dell´Italia. Ma anche nel corso di una normale, fisiologica legislatura repubblicana, ogni controllo e ogni vincolo costituzionale di garanzia, di equilibrio, di salvaguardia e di contrappeso - gli istituti su cui si reggono gli Stati democratici in tutto il mondo civile - viene visto come un limite ingiusto e improprio al libero dispiegarsi del carisma berlusconiano, capace di resuscitare ed esaltare l´Italia se solo le istituzioni si lasciassero ardere dal sacro fuoco del Cavaliere e dal suo spirito politico trasformato in opera sapiente e provvidenziale.

Di fronte a tutto ciò, come può un istituto "tecnico" come la promulgazione che di per sé non ha alcun valore politico, non apparire come un impaccio? È evidente a tutti che dopo la "sanzione regia" dello Statuto Albertino, la promulgazione è una dichiarazione formale della massima carica istituzionale che la legge è regolarmente approvata e dunque vale l´ordine "a chiunque spetti di osservarla e farla osservare". Ma è anche chiaro che la Costituzione prevede per il Capo dello Stato il potere di rinvio della legge alle Camere, con rilievi motivati. Dunque quel passaggio delle leggi al Quirinale è anche un passaggio di garanzia: e Ciampi ha dovuto ricordare che ogni rinvio al Parlamento di una legge è sempre stato motivato "dettagliatamente, convintamente e debitamente", senza dare ascolto a suggerimenti d´ogni tipo.

"Convintamente", cioè nella personale, autonoma responsabilità del Capo dello Stato. "Debitamente", e cioè come espressione di un dovere del dubbio, ben più che di un diritto.

Ma è persino umiliante dover difendere istituti fondamentali e neutri dello Stato di diritto dall´antistatualità aliena di un Premier che guida le istituzioni sentendosene nemico, con l´impaziente spirito guerriero di chi vorrebbe cortocircuitare i meccanismi di controllo e di garanzia perché tutto - Costituzione, istituzioni, politica e Paese -potessero aderire alla sua biografia trasfigurando insieme nella mitologia berlusconiana, infine salvati e redenti. Come in ogni populismo, c´è molto di primitivo ma molto anche di moderno in questa trasfigurazione eroica della politica. E faccio notare che questa retorica vera e non falsa, perché l´ego di Berlusconi non la recita, ma la vive e la indossa come la sua vera natura, è a modo suo capace di parlare al Paese, perché lo sollecita perennemente, lo nutre di promesse mentre giustifica il loro tradimento con colpe altrui, spettacolarizza la politica semplificandola, mentre la deforma in conflitto, si regge su concetti primordiali ma emotivi ed evocativi, indica ogni volta un sogno prigioniero ad un Paese sfibrato, ma anche destrutturato in alcuni fondamentali principi civici. È insomma quella "televisione a colori" che l´improvvido vero alfiere degli interessi berlusconiani al governo, il ministro Gasparri, ha evocato contro il "bianco e nero" dello spirito repubblicano di Ciampi.

Soprattutto, è una sostanza retorica che affiora nei momenti della crisi, prima della probabile sconfitta elettorale del Cavaliere. Che reagisce ancora una volta con il più classico paradigma populista, costruendo nel Capo dello Stato un vero e proprio capro espiatorio della propria incapacità di governare, sperando - come dicono gli studiosi del "sacrificio" - di deviare così i suoi drammi intestini sulla vittima designata, bruciando in quel rogo le sue colpe e le colpe del sistema tutto, condannato perché si oppone ad un destino.

Se è così, siamo agli inizi di una fase delicata e pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo una sconfitta alle regionali il Cavaliere si accorgesse di precipitare verso la sconfitta alle politiche? Nella concezione tecnicamente rivoluzionaria che Berlusconi ha della politica, questo non è contemplato, non è permesso, semplicemente non è possibile. Avverto: l´agonia politica del berlusconismo sarà terribile.

Bisogna ricucire l’Italia come una tovaglia strappata. Bisogna rimettere in sesto questo Paese che si è rotto, lo si può vedere ogni giorno nei fatti piccoli e grandi. Per riuscirci sarà necessario tenere i nervi saldi, usare la pazienza e, soprattutto, riconquistare la passione persa per strada, tra delusioni, sconfitte, errori, scelte suicide e sì, stramberie, strampalerie.

E personalismi, fiere della vanità, che interessano soltanto qualche migliaio di persone tra piazza Colonna, Montecitorio, palazzo Madama, i ministeri sparsi nel centro storico di Roma e i simboli corrispondenti della politica nelle regioni e nelle province. Quelli che, in buona parte, scorrono le rassegne stampa e nient’altro e se gli chiedi qual è l’ultimo libro letto ti guardano allarmati come un perdigiorno. Qualcuno di loro, non pochi, non sa che la vita è anche altrove, persino fuori dai palazzi incantati.

Capiscano gli uomini della dirigenza del centrosinistra quanto le discussioni di queste settimane, le primarie, le candidature, le lotte di fazione che fanno certamente parte dell’essenza stessa della politica, appaiono repellenti alla gran parte dei cittadini, sia quelli iscritti ai partiti sia quelli che non lo sono, sempre dimenticati, ma che rappresentano il fulcro della grande alleanza democratica. I quali, nonostante si rendano ben conto della gravità della situazione di un paese alla ventura, sono tentati dal non volerne più sapere, presi da una crisi di rigetto. Terrorizzati dai giochi dell’egemonia, dalle dichiarazioni che sembrano fatte dagli uffici propaganda dell’avversario, dalle resistenze di chi non vuol perdere il ruolo e la famosa visibilità. Sperano che sia sul finire questo tragicomico regime berlusconiano, ma non vogliono sentirsi soli nella speranza.

I segni alterni della caduta non sono pochi, a cominciare dalle tornate elettorali vinte dal centrosinistra, dal 2001 in avanti. Ininfluenti, affermano i consiglieri del premier, per la non elevata partecipazione al voto. Ma a stare a casa sono soprattuto gli elettori delusi della Cdl che devono avere capito com’erano ingannevoli le promesse del loro Cavaliere.

Gli elettori del centrosinistra credono profondamente nell’unità, l’hanno dimostrato in queste «ininfluenti» elezioni politiche e amministrative. Ma vogliono sapere che cosa faranno in futuro gli uomini e le donne da loro eletti alle regionali e poi alle politiche. Desiderano conoscere il programma che non è un’astrazione, ma è il piano, il conto politico ed economico che riguarda ideali e interessi comuni. Quali sono le proposte? Quelle sì devono essere discusse: i grandi temi e le questioni della vita quotidiana, l’economia, la borsa della spesa, il risparmio, la giustizia, la scuola, la salute, il lavoro, la sicurezza, il destino dei figli.

Come si comporterà la maggioranza vincente di centrosinistra? In che modo rimedierà ai guasti di governanti incapaci, del tutto subalterni a un premier attento soltanto alla tutela dei propri beni e di quelli degli amici e a risparmiare loro e se stesso dalle sanzioni della giustizia? Che cosa faranno della legge sul conflitto di interesse che, così com’è stata fatta, non serve a nulla, che cosa faranno della legge sull’ordinamento giudiziario respinta da Ciampi al Parlamento, con un magro destino, che cosa faranno della legge sulla Rai e delle altre leggi sulla scuola, sull’università, sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sui condoni, sull’organizzazione dei beni culturali? Come agiranno a proposito della rovinosa riforma di 34 articoli della seconda parte della Costituzione che forse l’anno venturo sarà andata in porto?

C’è il rischio che non vogliano toccare nulla o quasi per non turbare gli elettori del centro che non possono essere lasciati alla controparte? Ma i dubbi camminano, quegli uomini di idee moderate hanno forse compreso che quel modo di legiferare li danneggia, come danneggia l’immagine dell’Italia nel mondo. Se ha fiducia in se stessa, una sinistra pulita può fare con maggiore autorità quell’opera di convincimento che non riuscirà a cincischiati personaggi usi a tutte le bandiere.

Le persone di buona volontà comprendono, sono umiliate, qualsiasi idea politica abbiano. Il senso dello Stato sembra relativo, di questi tempi, altro che richiamarsi alla Destra storica. Il premier è arrivato in ritardo alla Camera e non ha votato la Costituzione europea - tre mesi dopo la firma in Campidoglio, non il giorno dopo come aveva promesso - ed era assente al funerale del maresciallo Cola morto in Iraq nella missione di pace che uccide e che viola ogni giorno di più l’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. La forma, in casi come questi, è sostanza. Gravosa sostanza. Come è sostanza la caduta non soltanto di stile che mette in un cantone la funzione istituzionale delle più alte cariche dello Stato. Il presidente della Camera che esprime con una telefonata la sua solidarietà al senatore Dell’Utri imputato a Palermo per concorso in associazione mafiosa (condannato a nove anni) e ci tiene a farlo sapere con un comunicato mentre la Corte si è appena ritirata in camera di consiglio e che l’altro giorno definisce «incredibile» la sentenza del giudice di Milano, il gup Clementina Forleo che ha giudicato la cellula islamica e l’ha assolta. Mentre il presidente del Senato parla della legge sulla procreazione assistita e sentenzia che «l’embrione non è una muffa». Le istituzioni di garanzia vengono così a perdere neutralità e autorevolezza. Quel che fanno e dicono i ministri del centrodestra, poi, fa capire qual è il livello della politica governativa. Il ministro Castelli non fa quasi più notizia. Deve credersi il presidente della vera Corte suprema e giudica le sentenze anche nel merito. Ha trasformato i suoi ispettori ministeriali in pony express e li ha inviati subito a Milano per avviare un’inchiesta sulla dottoressa Forleo.

I disastri sono davanti a tutti. Dai treni che tardano, deragliano, si fermano per ore nella pianura gelata o sotto i monti, alla camorra dei quartieri allo sbalordimento di chi ha avuto la busta paga immiserita. Le detrazioni riguardano una persona su quattro. Chi guadagna di più risparmia di più, chi guadagna di meno non risparmia niente. Il 75 per cento dei pensionati non gode di alcun vantaggio.

C’è nell’aria una sorta di impazzimento. Si sa di una tassa sui cellulari. No, niente tassa sui cellulari. Il ministro Sirchia dichiara guerra alla pancia. 102 centimetri per gli uomini, 88 centimetri per le donne, massimo consentito. Arriverà nelle case una cintura. No, non è vero niente. Pancia libera. Sempre il ministro della Salute promette di diminuire il prezzo del latte in polvere. Un chilo, marca Humana, costa in farmacia 34 euro e 10 centesimi. Il calo del prezzo promesso è minimo. Su Internet, invece, quattro pacchi da 900 grammi l’uno costano 35 euro e 95 centesimo in tutto. In Germania il latte della stessa marca costa due terzi in meno.

Secondo il modello del Bush vincente occorre recuperare i valori, la famiglia, la fede. La Chiesa gongola. I cardinali che abitano in Vaticano, nei palazzi di via di Porta Angelica, guardano i programmi scollacciati e volgari di Mediaset e della Rai e non fanno obiezioni. Chissà poi come s’indignano, in privato. Il Corriere fa uno scoop metafisico. Ha potuto esaminare in anteprima un dossier sulla Madonna di Civitavecchia che piange. Il quotidiano da «Le prove del miracolo».

Poi le notizie più serie. Le pubblica Il Sole 24 Ore (17 gennaio): in sei grandi città italiane, secondo un’indagine del giornale, lo Stato taglia, gli enti locali tolgono, chi ci rimette è il cittadino. E poi, secondo un sondaggio pubblicato sempre dal Sole (25 gennaio), gli italiani - il sondaggio è di Globe-Scan/Eurisko - sono tra i più pessimisti sull’andamento dell’economia mondiale nostrana. Vedono più nero soltanto i sudcoreani e i libanesi.

Resta il gioco del lotto con il numero 53 che da 178 estrazioni non esce sulla dispettosa ruota di Venezia, a tener su la speranza. Ma gira già una leggenda metropolitana. Il governo ha fatto sparire la pallina del 53 per sanare un po’ le sue finanze marcite.

DICONO che la politica non interessi più nessuno, ma non è vero. Il politichese non interessa, anzi è rifiutato da tutti, ma la politica, i problemi cruciali del paese, i suoi interessi e il suo destino, ci riguardano, eccome.

Interessa il potere d´acquisto delle famiglie, la sorte delle imprese, il lavoro e i suoi contratti, le tasse. Ma anche il rispetto dei diritti, l´obbligo dei doveri, la scuola, l´efficienza dei servizi pubblici, la sicurezza, la rapidità e l´equità della giustizia. Interessa l´indipendenza delle istituzioni.

Il personaggio più amato dagli italiani è Carlo Azeglio Ciampi.

Qualcuno si chiede il perché dell´affetto quasi unanime che lo circonda, e la risposta è semplice ed univoca: perché ha dimostrato e continua a dimostrare ogni giorno la sua indipendenza da qualsiasi altro potere o interesse, per quanto forti possano essere. Ciampi garantisce gli italiani. Sulla carta i suoi poteri sono deboli, in certi settori addirittura debolissimi; ma nella realtà sono potenti perché Ciampi è la voce autentica della pubblica opinione; non di una parte di essa, ma della grande corrente della pubblica opinione, quella che vorrebbe un paese moderno, un sistema efficace, una politica nazionale ed europea, una classe dirigente integerrima, una libertà di ampio respiro e una solidarietà fraterna e sociale.

Ciampi è l´immagine più esemplare di un moderato estremista. Vorrebbe niente meno che la Costituzione fosse rispettata nella lettera e nello spirito. Ecco, il suo estremismo è questo e quando vede che la Costituzione viene elusa, scavalcata e talvolta addirittura irrisa, allora scende in campo in nome del popolo e il popolo si riconosce in lui.

Spesso avviene che i furbi applaudano alle sue iniziative per meglio sabotarle e talvolta ci riescono. Ma non si illudano: sono vittorie col fiato corto. Ciampi non è soltanto il presidente della Repubblica ma è, soprattutto, l´educatore d´una nazione, il padre che indica la retta via senza piegarsi né a lusinghe né a minacce.

Tra le tante disavventure che ci angustiano da anni, questa è stata la tavola di salvezza più solida che da cinque anni e mezzo è il solo punto di riferimento comune di un paese per altri versi discorde e privo di bussola.

Dicono che Berlusconi sia un improvvisatore, capace soltanto di tutelare i propri interessi personali ma sprovvisto di una visione di governo e della capacità di attuarla; ma anche questo non è vero. Berlusconi sa benissimo che cosa vuole e persegue i suoi obiettivi con tenacia.

Sicuramente è vero che il primo di tali obiettivi sia stato e continui ad essere il suo personale interesse di imprenditore impresario alle prese con il mercato e con la legalità da lui lungamente e pervicacemente violata. Ma è sbagliato pensare che non abbia una sua coerente concezione della governance e una capacità notevole di realizzarla.

La sua concezione consiste nella consapevole demolizione del sistema democratico-liberale e dello stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri e sulle istituzioni di garanzia che ne sono il più alto presidio.

Forte d´una maggioranza parlamentare clonata e passivamente obbediente, sta abbattendo uno dopo l´altro i pilastri che da mezzo secolo hanno tenuto in piedi la struttura costituzionale del paese e gli ideali che la ispirano.

Ha dalla sua alcuni vizi di antico retaggio italiano che ha rivitalizzato con una sapiente miscela di populismo volutamente sguaiato. Si è messo ai margini dell´Europa agganciando le sue fortune a quelle di Bush: una scelta che ha ridotto la nostra politica estera ad un ruolo di satellite privo di qualunque reale influenza e ruolo internazionale e di qualunque positivo ritorno in termini strategici ed economici.

La sua concezione della governance coincide con l´autocrazia. Non l´ha ancora realizzata appieno, la magistratura resiste, i sindacati resistono, l´opposizione parlamentare resiste e Ciampi soprattutto resiste.

Resiste ciò che ancora rimane di libera stampa. Ma l´autocrazia sta emergendo rapidamente dalla sistematica distruzione dello stato di diritto e delle garanzie che ne costituiscono l´essenza.

Siamo ora arrivati alla fase decisiva di questo scontro tra democrazia e autocrazia. Di qui l´asprezza dei toni e la necessità di una strategia che non si limiti alla pura e semplice resistenza. Di qui i problemi e il destino del centrosinistra. Di qui infine il ruolo di Romano Prodi e il significato della sua battaglia politica.

* * *

Negli ultimi giorni quello che era sembrato un conflitto soprattutto personale tra Prodi e Rutelli ha rivelato meglio la sua vera natura. Che non coinvolge soltanto Rutelli e non coinvolge soltanto una parte della Margherita, ma attraversa trasversalmente tutto il centrosinistra.

Esso è infatti pienamente concorde nell´opporsi al tentativo berlusconiano di instaurare l´autocrazia ma è profondamente diviso nella costruzione di una strategia innovativa e alternativa, d´una piattaforma capace di compattare la lunga alleanza dei partiti d´opposizione e attirare la vasta parte del corpo elettorale incerta e disincantata dal modello autocratico che la destra ripropone con ormai esplicita chiarezza dopo gli iniziali infingimenti liberistici.

Esso infine, il centrosinistra, è diviso nel misurare il vero livello della sfida, che non riguarda soltanto problemi domestici ma si gioca su un livello europeo e internazionale perché le tendenze autocratiche affiorano su un ampio scacchiere, sollecitate da una globalizzazione priva di contrappesi istituzionali e politici.

È del tutto evidente che una sfida di questa natura e di così alto livello richiede d´essere affrontata da forze robuste e coese, sorretta da opinioni pubbliche partecipanti e consapevoli. Uno schieramento frammentato in otto o nove sigle di partiti, il più forte dei quali rappresenta un quinto dei voti espressi e il più piccolo supera di poco l´uno per cento ed è tuttavia indispensabile disponendo per conseguenza di un suo diritto di veto sui programmi, le scelte di fondo, le candidature e la selezione della classe dirigente; uno schieramento siffatto è del tutto inadatto ad assumere sulle sue spalle un compito così arduo che deve articolarsi in un programma istituzionale, politico, sociale, economico, inquadrato in una coerente visione del nostro ruolo nel quadro della comunità internazionale.

Il disegno federatore di Prodi risponde alle esigenze della situazione e ne è la sola risposta valida; ma presuppone appunto che la federazione da lui auspicata non sia una scatola vuota ma un soggetto politico al quale i partiti partecipano conferendo larga parte dei loro poteri attuali, del resto non spendibili nella frammentazione esistente e di fronte alla compattezza autocratica dell´avversario.

Il negoziato per arrivare alla soluzione auspicabile si prospetta graduale ma non può esser spinto troppo lontano nel tempo. Le elezioni regionali di aprile rappresentano una tappa non risolutiva ma comunque essenziale dell´intero percorso, sicché tutto dovrà esser chiarito entro i primi giorni di febbraio.

Il congresso dei Ds, che appunto avrà luogo in quei giorni, è dunque un momento decisivo di questo percorso, difficile quanto indispensabile.

* * *

La sinistra riformista e il suo leader, Piero Fassino, ha svolto in questa fase accidentata un compito importante.

Si è assunta ampie responsabilità cercando di mantenere stabile un´alleanza scossa da molte sortite e da improvvide impennate, da gelosie e rivalità, da inutili iniziative volte a guadagnare effimere visibilità. Ancora in queste ore il segretario diessino è impegnato a risolvere la questione delle liste regionali, questione forse minore ma indubbiamente propedeutica al più vasto disegno politico dell´unità operativa.

Tuttavia l´appuntamento decisivo per il più forte partito dell´opposizione sarà il congresso. Sembrava fino a poco tempo fa un appuntamento più rituale che di scelte politiche: la mozione del segretario (e lui medesimo come riconfermato leader del partito) ha ottenuto nelle votazioni di base l´80 per cento dei consensi. Sembrava dunque che il congresso non dovesse far altro che celebrare una salda unità e adempiere all´elezione degli organi dirigenti.

Invece non sarà più così o non dovrebbe più esser così se il maggior partito dell´opposizione vuole essere all´altezza delle sfide da affrontare e della vittoria da conseguire. Molte e qualificate voci hanno già auspicato nelle scorse settimane che questo salto di qualità avvenga, a cominciare da Alfredo Reichlin e da Giorgio Ruffolo, da Giorgio Napolitano e da Giuliano Amato. Aggiungo ad esse anche la mia, da cittadino interessato a un confronto politico e ideale che, quali ne siano le sorti, arricchirà la democrazia italiana e le darà spessore morale e culturale.

Il maggior partito della sinistra credo sia ben consapevole che il suo 20 per cento di rappresentanza è troppo e allo stesso tempo troppo poco. Troppo per rifugiarsi nell´irresponsabilità di un partito minore. Troppo poco per rivendicare un´egemonia sugli altri membri dell´alleanza.

Incombe dunque al suo gruppo dirigente di annunciare la sua disponibilità di conferire alla federazione guidata da Prodi i poteri necessari a renderla un soggetto politico impedendo che altro non sia che una sorta di circolo bocciofilo per anziani. Disponibilità e anzi richiesta netta agli altri consorti di procedere su quella strada aprendo finalmente un cantiere programmatico all´insegna di tre principi essenziali che sono poi da duecento anni quelli della democrazia, del socialismo e del cattolicesimo democratico: libertà, eguaglianza, solidarietà.

Il cantiere programmatico dovrà declinare quei principi in termini moderni e appropriati a correggere e rilanciare la globalizzazione, ma quello è l´orizzonte ideale e la piattaforma etico-politica che non potrà esser tradita se il duro confronto con l´avversario debba avere serie prospettive di successo.

Post scriptum. L´amabile vicepresidente del Consiglio, Marco Follini, in un´intervista del 4 gennaio al Corriere della Sera difende a spada tratta le nomine di Guazzaloca e di Pilati a membri dell´antitrust (nominati da Pera e Casini). "Il budino si giudica dopo averlo mangiato", ha sentenziato Follini. Cioè tra cinque anni. Ne hanno di tempo i due nominati per arrecare danni al paese, per totale incompetenza l´uno, per evidente conflitto di interessi l´altro.

Nello stesso giorno su Repubblica il redivivo Giulio Tremonti, interrogato sul medesimo argomento, invece di rispondere alle domande sulla qualità dei due nominati, si è lanciato in un ampio ragionamento dal quale emerge che la legislazione contro i trust e i monopoli è radicalmente sbagliata e, ovunque esista, andrebbe abolita o fortemente mitigata perché... la Cina è vicina.

Lascio ai lettori di giudicare questo genere di risposte nonché i criteri con i quali i presidenti delle Camere hanno fatto uso dei poteri loro conferiti dalla legge per designare i componenti della principale autorità di garanzia, titolare anche del potere di vigilanza e di sanzione sui conflitti d´interesse del presidente del Consiglio.

Titolo originale: New Berlusconi Investigation Is Called Politicking – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

ROMA, 29 dicembre – I magistrati hanno avviato un’altra indagine che riguarda il Primo Ministro Silvio Berlusconi, che potrebbe aver ordinato il pagamento di almeno 600.000 dollari nel 1997 a un avvocato britannico perché mentisse a suo favore in due processi.

I fatti su cui si indaga, riferiti dal quotidiano Il Corriere della Sera giovedì, sono stati decisamente negati sia dal portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, che dal suo avvocato, Niccolò Ghedini. Hanno liquidato l’indagine come una manovra politica in vista delle elezioni generali italiane di aprile.

”È cominciata al campagna elettorale” ha detto Bonaiuti in una dichiarazione, accusando il Corriere della Sera e i magistrati di Milano di lavorare insieme per impedire la rielezione di Berlusconi.

Per anni, Berlusconi ha schivato una serie di processi, attraverso un’abile strategia legale e, sostengono i suoi critici, costruendosi leggi pensate per evitargli il carcere. Nonostante questo, le nuove indagini mostrano che i magistrati, da lui accusati di essere simpatizzanti dell’opposizione di centrosinistra, non hanno rinunciato. Crea anche un’ulteriore difficoltà per Berlusconi, l’uomo più ricco del paese, che cerca un secondo, con i sondaggi che lo mostrano alle di Romano Prodi, già primo ministro.

In un articolo di prima pagina sulle nuove indagini il Corriere della Sera, quotidiano più venduto in Italia, ha riportato che Berlusconi e l’avvocato inglese David Mills, sono stati “invitati” a comparire davanti ai magistrati di Milano il 3 dicembre, per discutere i nuovi elementi.

Secondo la legge italiana, non esiste l’obbligo di presentarsi, e nessuno di loro l’ha fatto, secondo il giornale. Ghedini, avvocato di Berlusconi e membro del Parlamento eletto per il partito di Berlusconi, Forza Italia, ha dichiarato che le idagini sono “nelle fasi preliminari e non è emerso niente che interessi la difesa”.

Il Corriere ha comunque riportato che la convocazione di testimoni come Berlusconi e Mills indica come le indagini si stiano avvicinando alla fine. Ha detto che i magistrati potrebbero decidere entro il prossimo mese se richiedere a un giudice di istruire un eventuale processo.

Mills è sposato con Tessa Jowell, ministro britannico per la Cultura, Comunicazione e Sport.

Il Corriere sostiene che i magistrati indagano sull’autorizzazione a versare “non meno di” 600.000 dollari a Mills dal manager, ora deceduto, della Fininvest, l’enorme holding di Berlusconi, nel 1997, per testimoniare a favore in due occasioni. Una nel novembre 1997, in un processo per corruzione dove Berlusconi era accusato di aver corrotto funzionari del fisco; l’altro nel gennaio 1998, in un procedimento dove lo si accusava di un piano per inoltrare 12 milioni di dollari al partito dell’ex primo Ministro Bettino Craxi.

Berlusconi fun condannato in entrambi i casi nel gennaio 1998, anche se poi assolto in appello nel 2001 nel primo, e escluso nel secondo per scadenza dei termini di proscrizione.

here English version

ROMA - Berlusconi «ha usato un problema drammatico in modo sconcertante e avvilente facendone strumento di propaganda», ma detto questo l’emergenza abitativa c’è davvero. E il nodo - al di là delle polemiche - va affrontato. Il giorno dopo i feroci botta e risposta fra maggioranza e opposizione sulla promessa fatta dal premier di voler dare una casa a tutti gli italiani, Pierluigi Bersani, responsabile per il programma dei Ds, fa un passo avanti e racconta quello che l’Ulivo pensa di fare per risolvere la questione.

Il caso c’è, lei dice, allora il premier ha visto giusto?

«Certo, al di là del modo in cui è stata usata l’emergenza abitativa, va detto che i suoi sondaggisti hanno individuato un tema tragico, per gravità e ampiezza. Resta ora da capire come mai, in tutti questi anni, il governo non abbia fatto niente per affrontarlo. Tutto sommato, invece che lanciarsi sulla propaganda, avrebbe ancora tempo a disposizione per intervenire. Invece l’unica misura finora approvata è stata il dimezzamento del Fondo per gli affitti».

Ma adesso il centro-destra sta elaborando un piano. E voi?

«Noi al piano ci stiamo lavorando da tempo perché girando l’Italia molti sindaci ci avevano avvertito di come il caro-affitti abbia sconvolto il mercato con l’irruenza di uno Tsunami e di come ora, a chiedere sostegno, siano anche le classi medie. Gli insegnanti per esempio. Il problema della casa sta al cento del dramma di una generazione intera, quella del baby-boom, che solo ora si sta affacciando sul mercato e che spesso non ha i soldi per acquistare un immobile, né la stabilità lavorativa per ottenere un mutuo. Dar loro un bonus-bebè, pensando di convincerli con questo a metter su famiglia, non serve. Bisogna appunto fornire case ».

E cosa proporrete allora nel piano dell’Ulivo?

«Pensiamo ad interventi che non si limitino alle pur necessarie misure di sostegno all’affitto. Usate male, senza controlli e verifiche, potrebbero incoraggiare l’aumento dei prezzi. L’idea è quella di agire anche con investimenti a favore di piani di edilizia residenziale destinata ad affitto concordato».

Una nuova colata di cemento?

«No, non sarà necessaria, gli investimenti saranno collegati a processi di riqualificazione urbana. C’è un patrimonio abitativo oggi assolutamente inutilizzabile che se ristrutturato darebbe una bella svolta al problema».

E come finanziare il piano?

«Ci deve essere un contributo pubblico - Stato, regioni, enti locali - da rafforzare grazie a partnership con il privato. Su questo aspetto, per esempio, si possono concentrare anche i contributi del 36 per cento ora volti alla ristrutturazione degli immobili. Poi certo si possono attivare anche meccanismi di agevolazione fiscale volti a favore l’affitto concordato, ma sarà l’opera di riqualificazione stessa ad innescare una nuova spirale di investimenti».

Il ministro Alemanno prevede che il costo dell’operazione si aggiri sul miliardo di euro. E’ d’accordo?

«Credo che ne servano di più».

Postilla

Secondo il molto autorevole esponente dei DS sono “necessarie misure di sostegno all’affitto”, sebbene integrate da altre iniziative (ma “rafforzate da partnership con il privato”). Non si rende conto che sostenere l’affitto (e auspicare partnership con la proprietà immobiliare) serve a rafforzare quel perverso, e certo non liberista, mercato della casa il cui trionfo è la causa maggiore del disastro di oggi.

Ben diversa impostazione e prospettiva seppe dare il ministro democristiano Fiorentino Sullo quando, nel lontano 1962, inventò i “piani per l’edilizia economica e popolare”, i famosi PEEP. Quei piani il cui obiettivo era appunto fare ciò che il mercato non è in grado di fare: costruire (oggi lo si dovrebbe fare mediante operazioni di ristrutturazione urbanistica) quartieri su area pubblica, nei quali, eliminando la taglia della rendita immobiliare, in attuazione di piani regolatori generali comunali che inquadrassero l’assetto di ogni quartiere nell’assetto complessivo della città e del suo territorio, venissero realizzati quartieri in cui residenze, servizi, verde fossero compresenti e integrati, nel rispetto di standard quantitativi adeguati, la mescolanza sociale fosse garantita da una gestione pubblica costante e avveduta.

Qualche giornalista intelligente e libero, approfittando della riemersione (grazie agli eventi francesi) del problema della residenza di chi non vive nelle ville, cercherà di indagare su quali sono stati i frutti che quella impostazione ha dato là dove (negli anni 60 e 70) è stata praticata con determinata volontà politica e cultura tecnica, e sulle ragioni per cui essa (a partire dagli anni 80) è stata abbandonata e tradita per restituire oggi il bastone del comando al mercato immobiliare, alle sue leggi, ai suoi padroni via via più potenti? Praticamente senza più opposizione.

Una prima pietra, almeno teorica, Silvio Berlusconi la porrà: quella per il Ponte sullo Stretto, i cui lavori, sempre che tutto vada liscio, cominceranno nel 2006. La Impregilo, capofila di una delle cordate superstiti, si è infatti aggiudicata ieri, come general contractor, il maxi-appalto. Ora dovrà procedere alla progettazione definitiva. La prima obiezione è di natura finanziaria: i 4,6 miliardi di euro posti a base della gara si riferiscono ai costi di due anni fa, a tempi di cantiere che sono lievitati da sei a dodici anni (teoricamente il primo veicolo passerà sul Ponte nel 2018). Alcuni costi aggiuntivi, rispetto al primo progetto, sono stati imposti dal CIPE con ben 35 prescrizioni per limitare l'impatto ambientale e che, secondo gli ambientalisti, comporteranno rincari fra 1,5 e 3 miliardi di euro. Altri costi, altri rincari non mancheranno, in corso d'opera.

E però, ieri, le agenzie hanno battuto la stupefacente dichiarazione del presidente della Infrastrutture SpA, Raffaele Monorchio (ex ragioniere generale dello Stato, uno che di conti se ne intende) il quale ha affermato: «Al punto in cui siamo, dico che è impossibile non fare il Ponte. Lo Stato pagherebbe, a causa delle penali, cifre equivalenti alla costruzione del Ponte stesso». Come dire, questa maxi-opera «bisogna farla», anche se è una sorta di “boiata pazzesca”, da ogni punto di vista. Una dichiarazione sbalorditiva e, nella sostanza, “terroristica”.

Vediamoli questi punti di vista. Il Ponte sullo Stretto si cala su due sponde insidiate dal più alto rischio sismico. Il terremoto (con tsunami) del 1907 fu della magnitudo Richter 7,1 e su di essa è stata tarata la sicurezza del grande manufatto, ma in varie parti del mondo vi sono stati di recente sismi di magnitudo 8,9. Inoltre, secondo il Wwf Italia, si sono prese in considerazione scosse di 30 secondi, mentre quella dell'Irpinia, per esempio, fu di 80 secondi.

Nell'aprile scorso il rappresentante del Consorzio capeggiato dall'austriaca Strabag si è ritirato dalla gara affermando: «Il rischio legale, geologico e tecnico-finanziario è troppo alto». Era evidente anche l'allusione agli inquinamenti malavitosi nei lavori della maxi-opera, di cui si è già avvertita qualche ombra. La pioggia di subappalti non potrà non favorirli.

Il Ponte viene calato dall'alto, con opere di allacciamento imponenti che vanno ad impattare direttamente su zone o altamente abitate oppure di alto pregio ambientale e paesistico, fra due regioni le cui reti viarie e ferroviarie non potrebbero essere più asfittiche e invecchiate. Le autostrade siciliane sono quelle che sono, molto modeste, e i convogli merci viaggiano, per lo più, su ferrovie a binario unico e non elettrificate: velocità commerciale sui 24 Km orari. Del resto, rileva Legambiente, per andare da Palermo a Siracusa si impiegano quasi 6 ore di treno e fra Trapani e Siracusa le ore diventano 9 e mezzo. Non va meglio sul versante calabrese. Qui l'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, ai ritmi attuali, sarà completato, secondo la Cgil, fra ventisette anni almeno. Mentre l'Alta Velocità ferroviaria Battipaglia-Reggio Calabria presenta costi insostenibili (oltre 20 miliardi di euro), tali da renderla impensabile.

Quali sono allora le previsioni di traffico sul Ponte? In ogni caso modeste. Nell'ipotesi bassa, 10.000 veicoli al giorno, nell'ipotesi alta 18.000. Non il giorno dopo la sua inaugurazione, bensì nel 2032. Ora, se si tiene conto che la potenzialità del Ponte sullo Stretto è invece di 100.000 veicoli al giorno, si può dire che essa sarà sfruttata, nella migliore delle previsioni, al 18 per cento (previsioni del DICOTER, organismo tecnico del Ministero delle Infrastrutture, si badi bene). Difatti, per non sbagliare, alle Ferrovie dello Stato è stato imposto un canone annuo di 100 milioni di euro, che tanto somiglia ad una tassa a favore del Ponte. Sarà una domanda banale: i 4,4 miliardi, che poi diventano, come minimo, 6 e poi non sappiamo quanti ancora, non era meglio investirli nei porti siciliani e calabresi, nella rete viaria e ferroviaria e così via? Ma, allora, che senso ha parlare oggi di tariffe per i camion, le auto e le moto uguali a quelle odierne dei traghetti in servizio? Se il traffico oscillerà, nel 2032, tra il 10 e il 18 per cento della potenzialità del Ponte, quali dovranno mai essere le sue tariffe reali per rendere remunerativa la gestione complessiva? O non dovrà intervenire lo Stato? Sarebbe, a quel punto, una beffa clamorosa. E, allora, non era meglio migliorare strade, ferrovie, porti e i traghetti?

Fra l'altro, infiltrazioni mafiose a parte (sempre pericolosissime), il gigantesco cantiere assicurerà, si promette, l'occupazione nell'intero anno di 40.000 unità (vedremo con quali contratti). Alla fine dell'opera, non rimarrà quasi nulla, mentre gli attuali traghetti occupano oltre 1.200 addetti, in modo stabile ovviamente.

Il traffico camionistico sta inoltre flettendo. Il trasporto su gomma, tipicamente italiano, sembra avere un futuro per niente radioso. Al contrario della combinazione treno-nave-treno, con navi-portacontainers e treni bloccati tuttomerci. Di recente uno stesso carico ha viaggiato, in parallelo, da Palermo a Livorno in autostrada e per nave, arrivando prima per mare e con i conducenti sereni e riposati. Questo è il futuro ormai prossimo e a questo il Ponte o non dà risposta oppure ne dà una già decisamente vecchia, in controtendenza rispetto agli sviluppi europei, e costosissima. Nel Nord Europa la politica dei traghetti veloci sta battendo quella dei ponti. Purtroppo, ha ragione Gaetano Benedetto, segretario generale aggiunto del Wwf, quando afferma che con questa aggiudicazione dell'appalto si è posta una grave ipoteca sui conti pubblici e lo si è fatto non in base ad una analisi costi/benefici, bensì in base ad un mediocre calcolo politico, di tipo elettoralistico. Si potrà, con un governo diverso, rivedere a fondo la questione? Non sarà facile. Ma bisognerà provarci, al di là del troppo facile “terrorismo” sulle penali da pagare.

Cosa deve intendersi per "terrorista"? Di primo acchito, tutti concordiamo che gli autori dell’orrendo attacco dell’11 settembre 2001 a New York e Washington e delle devastazioni del 7 luglio a Londra erano terroristi. Ma altri casi meno netti fanno sorgere dubbi. Gli iracheni che all’inizio del mese hanno fatto saltare a nord di Bagdad un camion pieno di marines possono essere definiti terroristi? E i due arabi che il giudice Clementina Forleo aveva scarcerato definendoli "combattenti" o "guerriglieri", dovevano essere invece qualificati come terroristi, come ritiene invece il procuratore Spataro nel suo appello? È giusto condannare come terrorista, come fecero i giudici statunitensi, Timothy McVeigh, che nel 1995 fece saltare in aria un edificio governativo ad Oklahoma City, ammazzando 168 persone per vendicare l’uccisione da parte dell’Fbi dei membri di una setta religiosa a Waco, nel Texas? Avevano ragione Kofi Annan e Ariel Sharon, quando hanno definito terrorista il militare israeliano che il 5 agosto scorso ha aperto il fuoco contro alcuni civili in un villaggio druso alla periferia di Haifa, uccidendone 4, per protestare contro il piano Sharon per il ritiro da Gaza? E si può condividere la qualifica di terroristi data dal ministro Roberto Calderoli a quelli che lanciano sassi dai cavalcavia? Insomma: esiste una definizione accettabile di "terrorista" e "terrorismo", o è vero, come è stato detto, che i giuristi "annaspano" nel buio?

In realtà da tempo esiste in tutta la comunità internazionale un accordo di fondo sulla definizione. Questa però non è stata tradotta in norme giuridiche rigorose perché i Paesi arabi da anni insistono su una eccezione: a loro giudizio i "combattenti per la libertà" (sudafricani che lottavano contro l’apartheid, palestinesi che si battono contro Israele nei territori occupati, ecc.) non possono essere considerati in alcun caso terroristi, neanche quando le loro azioni violente colpiscono direttamente civili, perché la loro lotta è legittimata dal fine che perseguono (liberazione di un popolo). Ancora nel 1998 e nel 1999 Convenzioni internazionali della Lega araba e della Conferenza islamica prevedevano espressamente quell’eccezione. Persistendo il disaccordo tra paesi arabi e tutti gli altri Stati sull’eccezione, mancava anche un’intesa generale sulla regola. Per fortuna negli ultimi tempi la Lega Araba, pur mantenendo ferme le sue posizioni ideologiche e di principio sulla legittimità delle lotte di liberazione nazionale, ha ammesso che azioni violente contro civili, anche se intraprese da "combattenti della libertà", costituiscono atti di terrorismo. Rimangono riluttanze della Conferenza islamica, guidata da Stati più radicali. La Conferenza, soprattutto per ragioni ideologiche, blocca i lavori delle Nazioni Unite su una Convenzione generale sul terrorismo: pur ammettendo che violenze contro civili, ad esempio nei territori palestinesi occupati, possano essere qualificati come crimini di guerra, non vuole definirli atti di terrorismo. Ma se non è zuppa è pan bagnato: le norme internazionali sui conflitti armati vietano anche, e criminalizzano, "atti o minacce di violenza il cui scopo primario sia quello di diffondere il terrore nella popolazione civile". Insomma, esistono i crimini di guerra di terrorismo.

Oggi si è dunque faticosamente arrivati ad un consenso sostanziale e quasi unanime sul terrorismo, come è dimostrato dalle leggi di numerosissimi Stati (ultima quella italiana, contenuta nel pacchetto Giuseppe Pisanu) e da tanti trattati e risoluzioni internazionali. Qual è la definizione su cui si è d’accordo? Eccola. È terrorista chiunque 1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persona, ecc.) contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica (che ad esempio partecipano ad una funzione religiosa); 2) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale (ad esempio, una multinazionale); questa coartazione può avvenire diffondendo il terrore nella popolazione civile (si pensi agli attentati di Londra del 7 luglio) o con altre azioni (ad esempio, facendo saltare, o minacciando di far saltare, il ministero della Difesa, la banca nazionale, o un’ambasciata straniera; o sequestrando il capo del governo o anche di una multinazionale, se questa ad esempio non dà armi a guerriglieri); 3) per una motivazione politica o ideologica (quindi non per fini di lucro o per impulsi personali di vendetta o altro).

Rivediamo ora, alla luce di questa definizione, i vari esempi che ho dato all’inizio, per stabilire quale rientra e quale no nella categoria di "terrorista". Gli iracheni che hanno fanno saltare in aria un camion pieno di marines non hanno compiuto un atto terroristico, perché hanno colpito militari impegnati in azioni belliche; tuttavia, poiché agivano senza portare apertamente le armi, ossia non come legittimi combattenti, sono comunque colpevoli di un crimine di guerra, e possono quindi essere debitamente puniti.

Gli arabi scarcerati dal giudice Forleo potrebbero essere definiti "combattenti" o terroristi, a seconda delle circostanze di fatto: la Forleo ha ritenuto che quelle circostanze erano tali da farli considerare combattenti, mentre Armando Spataro ha concluso in senso contrario. Ma la distinzione giuridica in sé, delineata dalla Forleo, tra terroristi e coloro che partecipano ad azioni belliche rispettando sia le norme del diritto umanitario sui legittimi combattenti sia quelle sulla tutela dei civili, è corretta. Invece, l’azione di McVeigh non costituiva un crimine di terrorismo, perché mancava la motivazione politica o ideologica: era semplicemente una strage, come quella del militare israeliano. In entrambi i casi si trattava della vendetta o della protesta di un folle. Anche i forsennati che lanciano pietre dai cavalcavia non sono terroristi, perché non vogliono coartare l’azione delle autorità, e non hanno alcuna motivazione politica o ideologica. Sono colpevoli di omicidio volontario o di strage.

Queste distinzioni non sono oziose. Non solo in Italia, ma anche altrove gli strumenti investigativi a disposizione delle forze dell’ordine, così come le pene, cambiano a seconda della definizione dell’azione criminosa. Sarà perciò utile usare le "etichette" giuridiche con avvedutezza, non a sproposito, come fanno taluni qui da noi.

Postilla

Inquietanti le definizioni raccontate, senza batter ciglio, da quel serio giurista che è Antonio Cassese. Secondo la definizione che egli riporta sarebbero infatti considerati terroristi i partigiani della guerra di liberazione nazionale che contribuì a sconfiggere il nazifascismo in Italia, le analoghe azioni del maquis in Francia, della Resistenza in tanti altri paesi europei occupati dai nazifascisti, i combattenti del FLN in Algeria (ricordate il bellissimo film di Gillo Pontecorvo?). Sarebbero invece assolti gli autori degli atti di “guerra dichiarata” che portano allo sterminio di migliaia di civili. E’ proprio vero che sganciare la forma del diritto dalla sua sostanza, e la legge dalla storia, può portare a conseguenze aberranti

Avventurieri all'assalto

A differenza di altri, noi crediamo a ciò che ha detto Silvio Berlusconi quando ha assicurato di non avere alcuna parte nella scalata alla Rcs. Ci crediamo, vogliamo crederci, perché ci sembra ovvio che in un Paese serio si creda alla parola del presidente del Consiglio, almeno fino a prova contraria: e tale non ci pare neppure il fatto, per altro inoppugnabile, che troppe volte, in altre occasioni, le sue parole hanno reso un pessimo servizio alla verità.

Ma il punto non è tanto quello dell'effettiva attendibilità del presidente del Consiglio nel caso specifico: è il dubbio massiccio e permanente che su faccende importanti come queste grava da anni e anni su ogni sua parola e azione, rendendone la figura costantemente ambigua e non credibile agli occhi di una parte vastissima dell'opinione pubblica interna e della maggioranza degli osservatori internazionali. Un sospetto, una diffidenza costanti aleggiano intorno al presidente del Consiglio italiano ogni qualvolta si tratti di soldi, di aziende, di affari e di tutto ciò che abbia a che fare con queste cose, sia direttamente che indirettamente, sia nella sfera pubblica che in quella privata.

Berlusconi dirà sicuramente che ciò accade perché contro di lui esiste un pregiudizio instancabilmente e maliziosamente alimentato dalla sinistra per screditarlo e demonizzarlo. Ma non è così: o meglio, il tentativo di demonizzarlo c'è, ma il tentativo non ne spiega il successo. In realtà, sospetti e diffidenze, nonché il successo della demonizzazione ora detta, si spiegano con quella cosa che Berlusconi conosce benissimo e che si chiama conflitto d'interessi. È il conflitto d'interessi — a dispetto di ogni promessa mai sciolto, ma sempre furbescamente aggirato — che gli ha fin qui impedito di incarnare qualunque immagine istituzionale vera; è quel nodo che lo rende un candidato dato per perdente alle prossime elezioni perché perdente è il bilancio dell'azione del suo governo, di continuo condizionata da quel conflitto, che si trattasse della televisione, della magistratura, del calcio, della legislazione societaria, delle banche o di che altro. È il conflitto d'interessi che dal 2001 rappresenta la palla al piede per il ruolo politico del capo della destra, tra l'altro sottoponendone la maggioranza a continue, sfibranti, tensioni.

È altresì questa situazione che oggettivamente alimenta non solo le voci circa sue presunte mosse improprie (come sarebbe quella di una scalata a una casa editrice) quanto quel clima più generale fatto di progetti avventurosi, di protagonisti improbabili e di rilassatezza dei controlli e delle regole che da tempo si respira nel Paese. Non è una nuova tangentopoli, certo. Ma è qualcosa che alla fine produce un intreccio tra politica e affari egualmente, o forse anche più, patologico, dal momento che sulla scia dell'esempio fornito dal presidente del Consiglio, per politica oggi si deve intendere quasi esclusivamente la rete di relazioni, il circuito di influenze, i disegni di potere, le leve economico-finanziario-giornalistiche facenti capo non già a partiti e correnti ma a singole individualità impegnate in un accrescimento di potere anch'esso, alla fine, esclusivamente personale. Talvolta avventurieri. Non c'è più un sistema politico corrotto, si direbbe, non c'è più una corruzione sistemica, insomma: ora è piuttosto il tempo dei disegni spregiudicati di pochi capi solitari.

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