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Dicono che dopo 63 anni di attesa si stia costruendo un nuovo ordinamento per i giudici. Sarà. Costa però un certo sforzo di fantasia credere che sia un ordinamento quello in cui, in ogni direzione regionale del ministero della Giustizia, sia istituito un super-ufficio di sorveglianza sull´"esito di tutti i procedimenti giudiziari in tutte le fasi e gradi del giudizio" alla ricerca di "situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali" dei magistrati che hanno lavorato a quei processi. Ci vuole anche una forte immaginazione istituzionale per un ordinamento in cui i magistrati posti a capo degli "uffici di diretta collaborazione del ministro della Giustizia" abbiano, in forza di legge, un titolo preferenziale per la promozione alle funzioni superiori.

Ed è quasi incredibile un ordinamento giudiziario in cui il ministro di Giustizia possa ricorrere al Tar contro le decisioni di un organo costituzionale come è il Consiglio superiore della magistratura. È come se si ammettesse che il ministro può ricorrere al giudice amministrativo per il procedimento con cui è stata approvata una legge dal Parlamento. La sostituzione, per legge ordinaria, del processo costituzionale con uno amministrativo è davvero una stravaganza. È, ancora, perniciosa creatività pensare che alla Corte di Cassazione possa essere affidata la funzione di governo e selezione di tutti gli altri magistrati italiani. La Corte si trasformerebbe così, di fatto, da guardiana della intima coerenza della evoluzione giurisprudenziale del diritto - così preziosa in un tempo, come il nostro, di effervescente integrazione degli ordinamenti - a guardiana dei magistrati.

Si potrebbe continuare. Perché queste invenzioni e molte altre ancora, che si ritrovano tutte assieme nei criteri del nuovo ordinamento giudiziario, lo rendono assai poco affidabile perfino nel nome.

Si deve poi aggiungere che, forse per ragioni di serietà interna alla maggioranza (la gravitas che i romani consigliavano ai magistrati) questa legge fa proprio il criterio e principio direttivo a suo tempo determinato dal presidente del Consiglio: i giovani che aspirino ad entrare in magistratura devono perciò essere "positivamente valutati nei test di idoneità psicoattitudinale all´esercizio della professione di magistrato". Si ignora al momento in quale laboratorio scientifico siano in via di elaborazione questi test assai particolari.

È contro questo disegno di legge che i magistrati hanno già protestato e vogliono ancora farlo con uno "sciopero istituzionale" in settembre.

Ora, ci sono molti in Italia che ritengono gli scioperi dei magistrati non compatibili con la loro condizione collettiva di ordine-potere della Repubblica. E ritengono sciagurata, in certi suoi effetti, la vecchia legge Breganze sulle loro promozioni automatiche per anzianità. E assurdo il ritardo per cui non si è ancora rinnovato il loro ordinamento precostituzionale (via via rattoppato, dal 1941, con leggi parziali e con sentenze della Corte costituzionale). E, soprattutto, ritengono vergognoso che né i governi né il Consiglio superiore della magistratura né gli stessi magistrati siano finora riusciti a trovare soluzioni efficaci a quel disservizio della giustizia, evidente a tutti i cittadini a causa della irragionevole durata dei processi civili e di quelli penali.

Senonché nessuna di queste piaghe della giustizia italiana è affrontata dal nuovo disegno. Al contrario, altre se ne aggiungono. Così la Costituzione del 1948 che, alla disposizione VII, consegna un promemoria per il rinnovo dell´ordinamento giudiziario, "in conformità" alle garanzie, ai valori e ai principi da essa indicati, risulta ora tradita non solo da questa o quella norma (e ne abbiamo appena visto alcuni esemplari) ma dall´intero impianto della legge che il governo propone.

Questo impianto si regge, infatti, su un solo pensiero dominante: sostituire all´autogoverno dell´ordine giudiziario un altro governo, il governo del governo, la sostituzione strisciante del Guardasigilli al Consiglio superiore della magistratura. Dal punto di vista della Costituzione il golpe che si profila è assai grossolano. Salta infatti, con la piena autonomia della magistratura, il presupposto principale dello Stato costituzionale.

Il Consiglio superiore ha impiegato 28 pagine per dimostrare, con un´analisi implacabile, tale tentativo di estrometterlo di fatto dalle sue funzioni: dal concorso di ingresso nella magistratura, al meccanismo delle promozioni, alla formazione dei magistrati, ai compiti disciplinari. Ma dal punto di vista del comune cittadino importa di più una sola pagina bianca. Quella che il governo non è stato capace di riempire per far fronte alle piaghe della giustizia italiana.

Contro i guasti della progressione automatica in carriera, non è stato proposto alcuno dei possibili rimedi basati sulla valutazione della produzione giudiziaria dei singoli magistrati. L´opposizione aveva proposto verifiche del loro lavoro ogni quattro anni con la sanzione dell´espulsione dopo una doppia valutazione negativa del rendimento. È stato architettato invece un sistema labirintico di concorsi (diciotto per le qualifiche, quattro per le funzioni) che avrà il prevedibile effetto di favorire un carrierismo per titoli e per esami e non per il lavoro effettivamente svolto nell´interesse pubblico.

D´altra parte, l´ossessione per la carriera e per il posto è instillata, in forma di legge, fin dai primi passi. Appena vinto il concorso di ingresso, i magistrati-ragazzini sono forzati a scegliere "dalla culla alla bara", se faranno i giudici o i pubblici ministeri. Dopo cinque anni, la loro scelta sarà irrevocabile: funzioni separate per sempre. È ignorata, invece, la via indicata dalla Costituzione, di costruire per i pubblici ministeri uno status di garanzie diverse (il che non vuol dire inferiore) a quello dei giudici, per consentirgli di esercitare l´azione penale con autonomia di magistrato e coscienza delle priorità pubbliche.

Queste priorità di politica giudiziaria potrebbero, e forse dovrebbero, essere definite soltanto con un atto di indirizzo dei due terzi dei parlamentari (e non certo della loro maggioranza semplice) rivolto al Consiglio superiore della magistratura (e non certo al ministro). Invece, a leggere il progetto, la politica criminale dovrebbe essere definita, ufficio per ufficio, dai Procuratori della Repubblica "titolari esclusivi dell´azione penale", unici responsabili del suo "corretto e uniforme esercizio". I sostituti procuratori sarebbero, invece, declassati da magistrati soggetti soltanto alla legge a semplici funzionari esecutori di direttive del superiore. Basta una semplice "divergenza" tra procuratore e sostituto-procuratore perché la delega sia revocata senza più possibilità di appello. Con questa sudditanza dei pubblici ministeri ad un titolare gerarchico, le costituzionali "condizioni di parità" - tra un´accusa, diretta dall´alto per gerarchia extra processuale, e una difesa tutta dentro al concreto procedimento - rischiano di essere, quindi, di volta in volta alterate rispetto alla vera realtà processuale.

Quanto alla rapidità dei processi, la Corte di cassazione è distolta dalle sue funzioni di "amica del diritto" per compiti di governatrice della magistratura, proprio quando se ne sarebbe dovuta istituzionalizzare una funzione giurisprudenziale "per principi", allo scopo di semplificare la conclusione dei processi. E anche, e soprattutto, per dare ai cittadini e alle imprese - sulla base di una commistione tra giurisprudenza anglosassone e quella della Corte di giustizia europea sul "vincolo di precedente" - una ragionevole prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni. Il bene pubblico della certezza del diritto sulla cui base perfino la Banca Mondiale classifica l´affidabilità degli Stati...

Aspettare 63 anni per ritrovarsi con un niente intitolato "nuovo ordinamento giudiziario" è un po´ troppo. E questo vuoto è perfino ancora più pericoloso dei soprusi alla Costituzione che pure ci sono. Vien fatto di dire - anche da chi non se lo augura - che se i magistrati a settembre sciopereranno, non lo faranno tanto come membri dell´ordine giudiziario quanto come cittadini informati dei fatti: nell´interesse di tutti gli altri cittadini che in questo progetto non hanno trovato nulla di quanto avrebbero voluto come "consumatori" di giustizia. Salvo, come sembra noiosamente evidente, il solito, e questa volta più complicato, regolamento di conti che dall´inizio della legislatura, si trascina tra il governo e chi deve giudicare "in nome del popolo italiano".

La verità che il governo si ostina a nascondere al paese, irrompe prepotentemente nelle case degli italiani con il telegiornale del terzo canale Rai, quello che Berlusconi non è ancora riuscito a piegare. La vedova di un carabiniere morto nell’attentato kamikaze del 12 novembre scorso a Nassiriya, rivela le confidenze fattele a suo tempo dal marito.

Prigionieri torturati. Ufficiali italiani consapevoli. Roma informata. Il ministero della Difesa replica con uno stringatissimo comunicato in cui nega di avere «mai avuto alcuna notizia o informazione da parte di qualsiasi fonte circa trattamenti dei prigionieri non conformi alle norme del diritto internazionale umanitario».

La parola del ministro Martino, quello per il quale in Iraq non si combatte alcuna guerra, contro la parola della signora Pina, vedova del maresciallo Massimiliano Bruno.

In un’intervista che il Tg3 ha anticipato alle 19, e doveva essere poi trasmessa integralmente a tarda ora dalla trasmissione Primo Piano, la donna fa rivelazioni sconvolgenti. «Massimiliano sapeva delle torture, le vide con i suoi occhi». Alla domanda se questi fatti fossero stati raccontati ai superiori, la signora Bruno risponde: «Sì, le denunce sono state fatte. Loro hanno fatto finta di non sapere niente. È come se dicessero ad una madre che un figlio ha rubato».

«Massimiliano -racconta la vedova nell'intervista- era rimasto molto colpito di quello che stava succedendo in Iraq e mi aveva detto: “Siamo nel 2000, neanche ai tempi della prima Guerra Mondiale c'erano queste torture”. C'erano dei posti sotterranei dove nascondevano questi iracheni -prosegue la donna-. C’erano delle celle sotterranee e le controllavano gli americani. Massimiliano mi disse: “Ho visto un carcere, una cosa squallida, bruttissima. Li tenevano nudi”. Loro andavano lì, per questo Massimiliano ha visto queste cose. Perchè loro andavano a prendere i carcerati iracheni e gli dicevano: “Se ti comporti bene, ti facciamo uscire. Ti facciamo lavorare per noi italiani”. Quando ha visto certe cose -continua Pina Bruno- Massimiliano è rimasto stravolto. Non credeva a quello che aveva visto. Mi diceva: “Se me lo raccontavano, non ci credevo. Quelli sono trattati peggio degli scarafaggi”.

I carabinieri fecero delle denunce? «Sì. Massimiliano mi disse che ognuno di loro aveva un compito. C'era la persona che comunicava quello che aveva visto, quello che succedeva e quello che stava per succedere». E i superiori hanno fatto mai niente? «No, -risponde la Bruno- ma dai, scherziamo? È impossibile che nessuno sapesse. È assurdo che loro dicano che non sapevano niente». «Le denunce ci sono state -aggiunge- solo che loro fanno finta di non sapere niente. Perchè sono vigliacchi». «Massimiliano -continua la vedova- sapeva di queste torture e mi diceva: “spero che smettano al più presto”».

Chiamiamo il generale Francesco Bruno Spagnuolo, comandante del contingente italiano in Iraq. Ha visto il TG3, generale? Risposta negativa. Lo informiamo del contenuto dell’intervista, e Spagnuolo descrive un contesto che secondo lui potrebbe aiutare a interpretarla correttamente. «Posso dirle -afferma il generale- che dopo il mio arrivo, alcuni mesi fa, venni a sapere che c’erano problemi con la polizia locale, per il modo in cui essa trattava i detenuti. Mi fu detto che c’erano difficoltà nel convincere gli agenti iracheni a trattare in maniera corretta le persone in loro custodia. Comportamenti simili venivano tenuti anche dalle varie milizie locali, che quando prendevano qualcuno, spesso lo massacravano di botte».

«A parlarmi di questa realtà -continua Spagnuolo- fu lo stesso comandante della Msu (Unità multinazionale specializzata costituita prevalentemente da carabinieri), colonnello Burgio, prima di lasciare il paese, alla fine della sua missione. Mi disse che i suoi uomini avevano avuto problemi nel convincere la polizia locale che gli arrestati non dovevano essere picchiati e maltrattati. Ritengo dunque che gli episodi a cui fa riferimento la vedova nell’intervista di cui lei mi parla, riguardino il comportamento di agenti iracheni».

Il generale Spagnuolo aggiunge di avere saputo solo da giornali e televisione delle torture compiute nei campi gestiti da inglesi e americani. «Per quanto ci riguarda, ribadisco ancora una volta che quando fermiamo qualcuno, entro dodici ore lo consegniamo alla polizia irachena oppure, se catturato in atteggiamento ostile, agli inglesi che comandano la divisione multinazionale della regione sud, a Bassora. Questo avviene nel quadro di norme Nato che regolano i rapporti con le altre forze della Coalizione, anche se questa non è una missione Nato. Noi come brigata italiana non avremmo né le strutture né le competenze per gestire campi di prigionia. Aggiungo che gli individui da noi fermati, prima di essere consegnati ad altri, vengono sottoposti a visita medica da parte del personale della Croce rossa militare».

Considerazioni simili otteniamo dal generale Marchiò, che è inserito con un ruolo di vice nella struttura di comando della divisione a guida britannica. «Le prime notizie di torture a Bassora le ho avute dagli articoli del Daily Mirror, nelle rassegne stampa dei giorni scorsi. Sono qui da marzo, e nessuno mi ha mai parlato di cose simili».

Orrore, sdegno. E assoluta ignoranza dei fatti. Questo tipo di reazione accomuna gli ambienti militari italiani in Iraq, o per lo meno le fonti a cui ci rivolgiamo. «Viviamo questa vicenda con ripugnanza -afferma il colonnello Giuseppe Perrone, portavoce dela task force dell’operazione Antica Babilonia, raggiunto telefonicamente alla base Tallil, presso Nassiriya-. Come uomini in uniforme e come cittadini del mondo, ci sentiamo estranei a pratiche così brutali e disumane. Tra l’altro questi obbrobri rischiano di mettere in cattiva luce il lavoro che noi svolgiamo, che ha invece carattere umanitario. Sono qui dal 30 gennaio. Non mi è mai giunto nulla del genere all’orecchio. Anzi, il nostro comandante generale Chiarini si è impegnato in uno sforzo continuo per istillare nella polizia irachena il senso del rispetto delle persone fermate. Sono addolorato. Come si fa a esportare la democrazia, se chi la predica, razzola male? Quanto a noi, continuiamo l’opera di assistenza ai civili. L’altro giorno abbiamo inaugurato una scuola elementare per 250 allievi, interamente costruita da noi in un villaggio che era totalmente privo di strutture educative. Domani distribueremo medicinali, incubatori, e depuratori dell’acqua in un’altra località presso Nassiriya. Ci rendiamo conto che sono gocce in un oceano di bisogni. Ma è il poco che siamo in grado di fare, e lo facciamo con passione».

In serata lo stesso Perrone commenta l’intervista del Tg3 affermando che «non abbiamo alcun riscontro a quanto denunciato dalla signora Bruno. Posso confermare però che i maltrattamenti e le torture nei confronti dei prigionieri non fanno parte del nostro modo di essere. Nell’addestramento a cui ogni giorno sottoponiamo gli aspiranti poliziotti iracheni, insistiamo invece proprio sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone, soprattutto di quelle che vengono arrestate». Per il portavoce delle forze italiane a Nassiriya per altro, visto che il carabiniere scomparso non può confermare le affermazioni attribuitegli, «il silenzio sarebbe d’obbligo».

A tarda sera il comando generale dell’Arma nega di aver mai saputo nulla, ma la formula usata è cauta: «I superiori gerarchici del maresciallo Bruno dichiarano di non avere mai ricevuto dal predetto qualsiasi notizia inerente a maltrattamenti nei confronti di detenuti nella responsabilità delle forze della coalizione». Come dire: sono loro a dirlo, noi come comando generale ci limitiamo a prendere atto delle loro smentite.

La Croce rossa italiana nega da parte sua non solo di essere stata coinvolta nelle ispezioni del Cicr (la Croce rossa internazionale), ma anche di esserne stata informata. Lo spiega Massimo Barra, che da poco è stato eletto vicepresidente della Federazione internazionale della Croce Rossa (la Cicr interviene nei paesi in guerra, la Federazione in situazioni di emergenza non bellica): «Escludo che le squadre impegnate nelle visite ai luoghi di prigionia iracheni includessero dei nostri connazionali, per il semplice fatto che la Cicr è per statuto composta quasi unicamente di cittadini elvetici. Solo da poco tra i delegati incaricati delle ispezioni è stato ammesso un limitato numero di non svizzeri. Nessun italiano comunque. Aggiungo che la Cicr non informa mai sulle proprie attività le organizzazioni nazionali affiliate. I rapporti sui controlli nelle carceri viene fatto alle autorità dei paesi che gestiscono le carceri stesse». Nel caso specifico Usa, Gran Bretagna, Spagna. Barra non si pronuncia sull’eventualità che il governo italiano abbia ricevuto informazioni sulle torture (anche se ritiene «verosimile» che ciò non sia avvenuto). «Se ha saputo qualcosa, non è stato dalla Croce rossa».

L'Ulivo: «Vergogna, il governo sapeva e ha taciuto» di Luana Benini

Servi e bugiardi leggi l'editoriale di Antonio Padellaro



Cos’è accaduto sui ponti di Nassiriya fra il 5 ed il 6 aprile scorsi?

Secondo la versione più o meno ufficiale fornita dai militari italiani, alcuni reparti che nella notte si erano mossi per riprendere il controllo dei tre ponti che attraversano il fiume Eufrate e dividono la città in due, sono stati accolti dal fuoco di miliziani iracheni appostati nei pressi. Per difendersi i soldati italiani (che hanno avuto dodici feriti nelle loro fila) hanno a loro volta sparato, uccidendo un numero imprecisato di armati e di civili che si trovavano nelle vicinanze. Si è parlato inizialmente di una quindicina di morti fra gli iracheni. Poi, più genericamente di alcune decine. Ma c’è perfino chi in una corrispondenza da Nassiriya, dopo avere interpellato sia le fonti italiane sia i capitribù locali, avanza l’ipotesi che le vittime siano state molte di più: sino a 200. Secondo un sito online specializzato in questioni militari la battaglia è stata preceduta da un crescente clima di tensione che ha portato al ridimensionamento della normale attività operativa dei reparti italiani ed è stata, infine, innescata dall'occupazione militare dei ponti dai ribelli sciiti e dal conseguente ordine del comando britannico di ripristinare la libera circolazione. Lo Stato maggiore della Difesa nazionale ha aderito alla richiesta britannica e il generale Chiarini, comandante del contingente italiano, ha avuto luce verde per l'attacco. Si calcola che in diciotto ore di battaglia siano stati sparati complessivamente centomila proiettili. Uno scenario tipicamente bellico che contraddice le incredibili dichiarazioni del ministro della Difesa Martino: tutto tranquillo, situazione sotto controllo, missione di pace. Le testimonianze degli italiani, militari e civili, rientrati da Nassiriya, concordano nel dire che da quel giorno il rapporto tra la popolazione locale ed il contingente italiano, che era già peggiorato negli ultimi tempi, è diventato ancora più teso, nonostante abbia sinora retto la tregua concordata dal comando italiano e dalla Cpa (Amministrazone provvisoria della coalizione) locale con la mediazione dei notabili locali.

Da dove venivano i miliziani sciiti che hanno combattuto contro gli italiani?

Si è parlato genericamente di «gente venuta da fuori». E sono fiorite illazioni su infiltrazioni dai paesi vicini, in particolare dall’Iran. Avvalorando queste tesi, poi rivelatesi probabilmente infondate, una parte dei media ha dato forza alla edulcorata immagine governativa dei presunti idilliaci rapporti fra truppe italiane e popolazione locale. Solo un disegno destabilizzatore esterno poteva intervenire a turbare la quiete amorosa di Nassiriya, secondo i sostenitori della ingerenza straniera. Ma le informazioni raccolte sul posto nelle settimane successive hanno chiarito che i gruppi legati al leader radicale sciita Moqtada Sadr venivano in gran parte da cittadine e villaggi limitrofi: Ash Shatra, Suq Ash, Shuyukh, Al Fukud, Al Rifai. Sono tutte località della privincia di Dhi Qar, di cui Nassiriya è il capoluogo.

Cos’è veramente accaduto nelle ultime settimane a Falluja?

Gli americani sono avari di notizie sulle operazioni compiute nella città del cosiddetto triangolo sunnita, area in cui il regime di Saddam aveva più consensi, e nella quale più accanita è stata la resistenza contro l’occupazione. Per molti giorni Falluja è rimasta isolata ed inaccessibile a chiunque, con l’eccezione delle forze statunitensi che la circondavano dopo esservi penetrate per vendicare il trattamento inflitto a quattro marines: dopo essere stati uccisi, i loro corpi erano stati fatti a pezzi e esposti al pubblico ludibrio dalla folla inferocita. I particolari della rappresaglia ancora sono quasi ignoti. Porzioni di verità emergono a poco a poco dal racconto di alcuni feriti trasportati in ospedali di Baghdad, e degli sfollati. Si calcola che fra guerriglieri e civili siano state uccise 1500 persone. Molti sono caduti sotto i colpi di cecchini americani appostati sui tetti, in una drammaticamente curiosa inversione di ruoli fra truppe regolari e formazioni ribelli. Le cifre ufficiali di fonte americana sugli iracheni uccisi in tutto il paese, a partire dal primo di aprile, giorno in cui è iniziata la battaglia di Falluja, si aggirano su mille. Gli Usa si rifiutano di dire quanti in quel numero siano civili. Ufficialmente per loro non esistono vittime civili.

Chi sono i terroristi che hanno rapito quattro italiani, ne hanno ucciso uno, e sino a ieri sera non avevano rilasciato gli altri tre?

Sono stati spregiativamente definiti «banditi di strada». L’espressione denota un ovvio giudizio di condanna nei confronti degli autori di un gesto vile, da qualunque punto di vista lo si consideri. Ma rischia di essere fuorviante, perché accredita l’ipotesi di un sequestro compiuto da criminali comuni, o da gente che agisce senza un disegno preciso. Caratteristiche che sembrano invece contraddette dal loro comportamento, sin dall’inizio di questa dolorosa e misteriosa vicenda. Il rapimento fu accompagnato dalla diffusione di un comunicato in cui si rivendicavano le motivazioni politiche dell’impresa e si indicavano gli obiettivi: via le truppe italiane dall’Iraq, scuse ufficiali da parte del primo ministro Berlusconi per l’appoggio dato all’occupazione statunitense. Non solo, un altro comunicato accompagnò la brutale esecuzione di Fabrizio Quattrocchi, nel quale, citando le dichiarazioni rilasciate da Berlusconi dopo il sequetro, le si giudicava il segno di una scelta a favore della permanenza a Nassiriya e di scarsa considerazione per la sorte dei concittadini prigionieri. La tempestività nella diffusione dei messaggi, il loro contenuto politico molto chiaro nella sua spietata schmaticità, la disponibilità di telecamere per filmare prima i rapiti poi l’uccisione, e di canali per far pervenire quei video alla tv Al Jazira, dimostra che di fronte a sé il governo e l’intelligence italiana non hanno affatto un gruppo di sprovveduti.

A che punto è la ricostruzione economica dell’Iraq?

Al di là dei piccoli progetti per la ristrutturazione di edifici scolastici, il ripristino della distribuzione di energia elettrica, la sistemazione di piccole reti fognarie, tutte opere utili, nelle quali si sono prodigati ad esempio i militari italiani a Nassiriya, non è ancora partito alcuno dei grandi interventi necessari a rimettere in sesto un’economia che era già in ginocchio ai tempi di Saddam, ed è crollata al suolo con la guerra. I beneficiari del businness sono in molti casi già stati designati, e sono per lo più grosse aziende americane. Altre gare d’appalto, tutte pilotate da Washington, sono state indette. In Italia il governo ha promosso convegni per spiegare ai nostri imprenditori quanto sia lucroso investire nella ricostruzione dell’Iraq. Ma le persistenti condizioni di caos e insicurezza non hanno sinora consentito il decollo di alcuna grande opera. Strade, ferrovie, ponti danneggiati o distrutti, sono rimasti tali. Le maggiori centrali elettriche restano nello stato di obsolescenza in cui si trovavano prima della guerra. Ma il segno principe dello sconquasso materiale iracheno è la situazione dei pozzi petroliferi e delle raffinerie, sottoposti ad attacchi e sabotaggi continui. Tanto che oggi l’Iraq deve importare persino la benzina per la circolazione delle auto, e i prezzi del carburante sono saliti alle stelle. Il colmo per il secondo produttore mondiale di greggio.

Forse il primo ministro Tony Blair pagherà più cara la sua vittoria sulla BBC della sconfitta che temeva. Forse i giorni peggiori del suo premierato non sono stati i due durante i quali ha rischiato di essere sconfitto alla Camera dei Comuni sull’aumento delle tasse universitarie e ha atteso, con comprensibile ansia, la lettura della “sentenza Hutton”. Forse i giorni peggiori devono ancora venire. La nuova dirigenza della Bbc ha dovuto chiedere scusa “incondizionatamente” non per una incursione nella vita privata del primo ministro, ma per un giudizio politico. Non sono cose che si dimenticano e si archiviano. Certo è un brutto giorno, per il giornalismo del mondo, come lo è stato il giorno in cui la Cbs, minacciata da una immensa causa per danni, ha ritirato e distrutto il suo documentario sul Vietnam vent’anni dopo la fine di quella guerra, e lo ha fatto perché troppo onerosa era stata la richiesta di danni da parte del principale interessato, il generale Westmoreland. Forse è un brutto giorno come quando il celebre programma giornalistico di inchieste televisive della stessa Cbs, la leggendaria “Sixty Minutes”, ha rifiutato di mandare in onda la dura denuncia sull’industria del tabacco che è poi stata narrata agli americani dal film “Insiders”. Nel film viene denunciato per nome il direttore del programma, Mike Wallace, a cui si deve la decisione (prudente dal punto di vista delle querele, gravissima per il giornalismo) di non trasmettere la documentatissima inchiesta.

Tony Blair è forte, carismatico, vitale, combattivo. Umanamente e psicologicamente è un leader unico nel grigio panorama mondiale. Tanto più che deve tutto, anche questo successo politico, a se stesso, non al suo controllo o alla sua proprietà dei media o all’assoggettamento del potere giudiziario, che in Inghilterra gode di un’autonomia unica. Ma non sembra proprio che una simile vittoria abbia calmato le acque e abbia reso più mite e silenzioso quel protagonista formidabile della democrazia che è l’opinione pubblica.

Vi sono due ragioni, che tipicamente torneranno a ripresentarsi sul palcoscenico della vita pubblica: la vittoria di Blair è eccessiva. E il collasso, almeno apparente della Bbc, è una umiliazione al di là di ogni limite ragionevole, rispetto a ciò che è accaduto. Rivediamo la storia. Ha tre personaggi: Tony Blair, lo scienziato suicida Kelly e la Bbc, sul fondo della guerra in Iraq e delle ragioni di fare, con urgenza assoluta, quella guerra. In questa storia però la guerra non è in discussione, lo è il ruolo e il senso di ciò che hanno fatto le tre parti in causa.

Il primo ministro ha piegato il suo partito (i laburisti sono molto meno inclini dei conservatori alle soluzioni militari dei conflitti, come dimostra la storia inglese) e persuaso l’opinione pubblica del suo Paese ad accettare la guerra come unica via di scampo da un pericolo “grave, urgente, mortale” (cito le sue parole)con un discorso splendido, trasmesso in diretta dalla Cnn (per questo ho potuto seguirlo), un capolavoro di arte oratoria e di passione politica. Quel discorso era fondato, con frasi limpide ed estreme, su documenti che mostravano inconfutabilmente la minaccia delle armi di distruzione di massa puntate sul mondo. E’ di Blair la efficacissima frase: “sono pronti a distruggerci con un preavviso di soli 45 minuti”. Ho ascoltato attentamente quel discorso. In esso la malvagità umana e politica di Saddam Hussein appariva rivelata dal suo essersi dotato di quelle armi - che sono state evocate con la bravura che affascina e spaventa di un terribile predicatore - e dal conseguente probabile pericolo di uso immediato di quelle armi come proseguimento del terrorismo iniziato con le Torri gemelle di New York.

Dunque c?era una causa, un movente e un colpevole, e mai arringa è stata più serrata e persuasiva. Lo scienziato Kelly si è suicidato a causa di quel discorso e della persuasione di essere stato “usato” dal potere politico per cose che non aveva detto e prove che non aveva provato? L?inchiesta giudiziaria, a suo tempo, non ha raggiunto alcuna soluzione. L?inchiesta giornalistica della Bbc ha legato quel suicidio al discorso e dunque all?azione manipolatrice di Blair.

La controversia scuote il Paese, specialmente dopo due rivelazioni: la prima è che la documentazione usata come prova e fornita anche agli americani, è risultata composta dalla combinazione di due tesi di laurea sul Medio Oriente, una vecchia di dieci anni. La seconda è che le armi, una volta finita la parte ufficialmente combattuta di quella guerra, non sono state mai trovate. Infatti l?esperto americano nominato da Bush si è dimesso con affermazioni non proprio diplomatiche. In che cosa consiste allora l?errore della Bbc? Consiste nell?avere trasformato la persuasione soggettiva del giornalista, pure basata su un bel po? di evidenze, in una affermazione oggettiva. La possibile, probabile causa del suicidio di Kelly - dice la Bbc - è la manipolazione delle evidenze scientifiche e il loro uso alterato da parte del primo ministro e dei suoi collaboratori. E? a questo punto che si dimette l?uomo immagine e portavoce di Blair, Campbell. Si dimette, come accade in altri Paesi, in vicende politiche del genere, per non essere di peso a Tony Blair e alla sua difesa.

Ma la difesa di Tony Blair non funziona nel tribunale dell?opinione pubblica e dei media. Perché non funziona nonostante la straordinaria bravura oratoria di Blair? Non funziona perché c?è quella clamorosa discrepanza, che ormai ha fatto il giro del mondo, e tormenta l?America. Chi ha giurato sulle armi di distruzione di massa deve ammettere che quelle armi non esistono, o almeno non se ne è trovata traccia. Per esempio, Condoleeza Rice, la mitica collaboratrice di Bush, dice alle Tv americane: “Forse i servizi segreti ci hanno ingannati”. E tre dei candidati democratici alle prossime elezioni presidenziali (Kerry, Clark, Dean) chiedono al Congresso - con voce ben più autorevole della Bbc - una inchiesta parlamentare proprio sul punto rovente che ha diviso l?Inghilterra e che Lord Hutton nella sua sentenza sembra avere deciso di non notare: dove, quando, da parte di chi è stata alterata la verità e sono state ritoccate le carte segrete che, come è noto, comprendevano molte fonti inglesi?

Ora Tony Blair ci dice, come giustificazione finale, che l?uomo Saddam era comunque molto cattivo e che meritava comunque di essere spodestato. Ma ce lo dice adesso. L?argomento non è stato usato a suo tempo. Tanto che è rimasta isolata una proposta italiana, quella di Marco Pannella, sostenuta da centinaia di deputati del nostro Paese e del Parlamento europeo, e del mondo arabo, secondo cui il punto era rimuovere Saddam Hussein inducendolo all?esilio. C?è un tormentone in questa preveggente intuizione. Non solo, non tanto, la possibilità di evitare una guerra breve ma spaventosa e un disordine che non accenna a risolversi. Ma l?avere centrato l?obiettivo certo, che era il dittatore, non le sue armi vere o presunte.

Entra in scena Lord Hutton, giudice indipendente che però funziona da arbitro, non da tribunale, e dunque è autorizzato ad esprimere - come ha fatto - un parere soggettivo, non una sentenza motivata. S?intende che le parti hanno accettato la qualità vincolante di quel parere. Lord Hutton non emana condanne, ma il suo parere ha peso.

È naturale che pesi soprattutto sulla parte debole, che anche nei Paesi iperdemocratici come l?Inghilterra sono i media, la stampa e la televisione. Come sempre, la più debole fra tutte è la la televisione pubblica quando si discosta dal potere politico. Lord Hutton ha deciso che è stato un errore grave trasformare la persuasione soggettiva di un giornalista, adatta a un corsivo o a un editoriale, in un risultato di inchiesta, ed è vero. Ha inoltre deciso che Blair non ha manipolato o alterato o fatto alterare le carte dei servizi segreti, dunque non ha mentito ai suoi cittadini. Di fronte a questa autorevole opinione vincolante, la Bbc è crollata, almeno al suo vertice, come un castello di carta e il club di Blair e del nuovo Labour cantano vittoria. Invece il giudizio di Hutton, che segue scrupolosamente il percorso della forma apparente piuttosto che del contenuto verificato dei fatti, apre, piuttosto che chiudere, diverse questioni. È di esse che si parla (con insolita vivacità) e si parlerà in Inghilterra, guastando gradatamente sia la festa blairiana sia quella dei suoi incantati ammiratori italiani di destra e di sinistra, tutti ugualmente contenti dal fatto che la stampa, e dunque l?opinione pubblica e dunque i girotondi e tutti gli impiccioni che senza titolo si immischiano nella politica, sono stati battuti.

Ma prendiamo la parte che riguarda Blair e il suo avere o non avere mentito agli inglesi. Mentire vuol dire affermare una cosa non vera sapendo che è non vera. Dire invece una cosa non vera credendola vera è un errore. Data l?evidenza dei fatti sotto gli occhi del mondo, Blair ha commesso un errore. Infatti non ci sono le armi di distruzione di massa che hanno motivato il celebre e appassionato discorso di Blair e hanno provocato l?emozione e la mobilitazione dei suoi cittadini. Ma quell?errore è stato commesso dal primo ministro di un Paese come l?Inghilterra. Anche la Bbc ha commesso un errore, credendo che fosse vera la versione trasmessa sulla morte di Kelly. È un errore dello stesso tipo (diffondere qualcosa di non vero credendolo vero). Ma mentre la Bbc ha portato discredito al primo ministro, il primo ministro, con il suo errore, ha portato l?Inghilterra in guerra. Quale dei due errori avrebbe dovuto meritare la severa opinione di Lord Hutton?

La questione non muore qui. La soddisfazione di Blair sarà disturbata dal fatto che la falsità delle carte su cui ha basato la sua perorazione e ha messo deliberatamente in gioco la sua credibilità e la sua immagine, è stata oggetto di imbarazzo e di scuse da parte del segretario di Stato americano Powell, che, con i dati inglesi, era stato mandato allo sbaraglio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Quella soddisfazione sarà disturbata dal fatto che la questione della verità sulla necessità di far guerra subito all?Iraq è diventato il tema centrale della campagna elettorale americana. È l?arma principale anche dei candidati come Kerry che - credendo alla minaccia immediata - avevano votato per la guerra. È un argomento che i media americani continuano a tenere vivo, mentre persino Bush, adesso, vuole un?inchiesta sulle carte dei servizi segreti inglesi e americani che hanno fatto apparire la guerra necessaria e immediata.

Come abbiamo detto, a questo punto non è in discussione la guerra né la necessità di rimuovere dal suo potere dittatoriale Saddam Hussein. È in discussione se - per fare quella guerra - alcuni abbiano mentito, e a quale livello di responsabilità. La Bbc è una istituzione gravemente ferita per una trasmissione sbagliata. Ma per il primo ministro Blair, che ha usato carte false per fare la guerra (non lo sapeva, ci dice Lord Hutton, ma le carte erano false davvero e la guerra c?è stata davvero) gli esami non finiscono qui.

«Sì, ne sono convinto, la lotta per la democrazia è la sfida più importante dei nostri tempi». Amartya Sen, indiano del Bengala, è un premio Nobel per l´economia. L´ha ottenuto nel 1998 - per i suoi studi sul welfare, la povertà e la carestia - quando insegnava a Cambridge (Inghilterra) nel prestigioso Trinity College. Adesso insegna in un´altrettanta prestigiosa università (Harvard), vive in un´altra Cambridge (Massachusetts), e un suo saggio, che di economia non tratta proprio, (Democracy and Its Global Roots) apparso lo scorso ottobre sulla New Republic ha fatto discutere molto il mondo accademico e politico americano. Questo saggio è una parte del libro - La democrazia degli altri - che esce ora in Italia per la Mondadori (pagg. 88, euro 10).

Le radici della democrazia non sono dunque in Occidente?

«Non dico questo, è un fatto che in Grecia la democrazia ha preso forma. Già nel V secolo a.c. quando ad Atene c´era una sorta di democrazia diretta e si tenevano vere e proprie elezioni. Quello che contesto è che la civiltà greca faccia parte solo della cultura occidentale. Le dirò di più: se prendiamo le diverse storie delle diverse parti d´Europa vediamo che quei paesi che sono oggi un esempio di democrazia, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, al tempo dei greci avevano come antenati i goti piuttosto che i visigoti. Ed è sbagliato non riconoscere i legami culturali e intellettuali che i greci avevano con gli antichi egizi, con i persiani e con gli indiani».

Democrazia vuol dire libere elezioni?

«No. Da sole le elezioni non bastano a stabilire una democrazia. Le faccio l´esempio di Stalin, che come è noto otteneva quasi il 100 per cento dei voti, a volte di più. In tutti i regimi dittatoriali si sono svolte elezioni, dove la gente andava a votare per paura, non per scelta o convinzione. La democrazia è una cosa più complessa».

Proviamo a definirla?

«In una frase? Rispetto delle libertà fondamentali e delle diversità, pluralismo. Io la chiamo la "discussione pubblica", la possibilità di manifestare e discutere liberamente le proprie idee. Da questa "discussione" consegue la partecipazione popolare alle discussioni vere e proprie dei problemi di governo, all´agenda politica».

Lei ha preso un Nobel per i suoi studi sulla povertà, è possibile una democrazia completa nei paesi in via di sviluppo?

«La democrazia completa qual è? Prendiamo l´esempio di questo paese, gli Stati Uniti. E´ un paese sicuramente democratico, eppure sono pochi quelli che vanno a votare, soprattutto tra le minoranze etniche come gli afroamericani. Ma sarebbe sbagliato criticare l´America per questo. Quanto alle nazioni povere, le faccio l´esempio dell´India, il paese dove sono nato. Quando negli anni Settanta Indira Gandhi, che non era un´antidemocratica ma forse venne malconsigliata, tentò di ridurre i diritti civili e le libertà politiche, fu sonoramente battuta alle elezioni. Gli elettori "poveri" decisero che anche in un paese in via di sviluppo come l´India le libertà e la democrazia erano fondamentali».

E´ possibile la democrazia nei paesi islamici?

«Certo che sì. Ripeto la democrazia è un valore globale, è profondamente sbagliato pensare che sia un valore solo occidentale».

E se confligge con i principi dell´Islam?

«Non dico che non ci sia un conflitto con la religione, ma se c´è un conflitto c´è una discussione e questo ci riporta al principio di democrazia come "discussione pubblica". Del resto ogni religione entra in conflitto con la democrazia. La religione può essere, e in certi casi è, un problema. Atene non era una città particolarmente religiosa. Però direi che non dobbiamo dare troppa enfasi agli integralisti islamici come non la dobbiamo dare ai "fondamentalisti" cristiani in questo paese».

Si può esportare la democrazia?

«Io posso esportare qualcosa che io ho e tu no. Dire che noi come "Occidente" esportiamo la democrazia è un comportamento arrogante, significa appropriarsi di qualcosa che non è solo nostro, significa "rubare" la democrazia, un valore che è un´eredità mondiale. Nel nono, decimo e undicesimo secolo c´era più democrazia e tolleranza a Cordoba, dominata dai musulmani, che non in "occidente". Nel dodicesimo secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a fuggire da un´intollerante Europa e trovò benevola accoglienza alla corte dell´imperatore Saladino, quello stesso Saladino che combatté per l´Islam contro i crociati. E le crociate le hanno "inventate" in Occidente. Quando Giordano Bruno venne messo al rogo a Roma l´imperatore moghul Akbar proclamava in India la necessità della tolleranza e apriva il dialogo tra genti di fedi diverse: indù, musulmani, cristiani, parsi, jainisti e persino atei».

E´ legittimo imporla con la forza?

«Io non credo che sia il modo migliore. Credo che spetti innanzitutto agli "indigeni", trovare il modo di sviluppare e imporre la democrazia. A volte la pressione e le interferenze esterne sono necessarie; mi viene il mente la Birmania, adesso si chiama Myanmar, ma io preferisco continuare a chiamarla Birmania. Lì la pressione esterna è stata importante».

E l´Iraq?

«Per l´Iraq ci sono state le pressioni degli esiliati iracheni a Washington; il loro punto di vista è discutibile e comunque non era l´unico di cui tenere conto. L´Iraq è un problema particolare».

In che senso?

«Perché non c´è dubbio che era un regime tirannico e sanguinario, una terribile dittatura. Però era un regime "secolare" non un paese islamico integralista. Adesso, dopo l´invasione americana, questa società secolare verrà dichiarata, con una "Costituzione", una società islamica. Ci sono molte contraddizioni in tutto ciò».

Però lei era a favore della guerra in Kosovo. Perché?

«Perché ritengo che fosse un intervento più giusto. L´intervento in Iraq è stato deciso non perché quello era un regime sanguinario ma perché Saddam rappresentava un "rischio" per gli Stati Uniti, anche se poi le famose armi di distruzione di massa non sono state trovate. In Kosovo migliaia di persone, in quel caso musulmani, venivano brutalmente uccise. E l´intervento non venne deciso per difendere gli interessi americani o della Gran Bretagna».

Si può usare la violenza "per" la democrazia?

«La violenza in alcuni casi può essere giustificata, Un esempio per tutti quello della seconda guerra mondiale. Però occorre stare molto attenti. E per tornare all´Iraq io trovo che non avere coinvolto le Nazioni Unite sia stato un grave errore».

Le Nazioni Unite non godono di buona salute non crede?

«Allora prima di parlare dell´Onu le devo dire una cosa».

Che cosa?

«Che io sono un consigliere speciale di Kofi Annan. Lo devo precisare per correttezza».

Allora, cosa pensa un consigliere di Kofi Annan dell´Onu?

«Pagato simbolicamente un dollaro all´anno. Lo dico perché non sono un fan delle Nazioni Unite perché mi pagano, ma sono diventato consigliere speciale perché credo nelle Nazioni Unite. Il problema dell´Onu è che dipende dagli Stati, non solo economicamente, ma anche politicamente. In Iraq l´Onu non c´è perché non ce l´hanno voluta gli americani e gli inglesi. Ed è stato un errore».

Lei è anche un esperto di globalizzazione. Quali sono oggi i problemi più gravi?

«La globalizazione per se stessa non è un problema. La globalizzazione in economia, nelle scienze, in matematica, nella musica è qualcosa che arricchisce l´umanità, è un fatto assolutamente positivo. Il problema è l´ineguaglianza nel partecipare nella globalizzazione».

Secondo una dichiarazione riportata da Repubblica poco dopo la sua nomina, il ministro dell´Economia Domenico Siniscalco ha detto di non credere al declino dell´industria italiana. Quel che ad alcuni sembra un declino sarebbe in realtà l´esito di una profonda trasformazione della nostra struttura industriale.

Il parere del ministro merita un commento per due ragioni. Anzitutto nella elaborazione di interventi eventualmente diretti a contrastare il declino dell´industria, meglio ancora a rilanciarla, il ministero dell´Economia conta assai più dell´evanescente ministero per le Attività produttive. Anche perché esso controlla tramite il Tesoro alcuni degli ultimi pezzi pregiati dell´industria italiana, Eni e Finmeccanica, per i quali sono in vista novità importanti, tra cui la creazione di Finmeccanica 2. Se il suo titolare per primo crede che il declino non esista, tali interventi non vi saranno, o avranno un indirizzo molto diverso. In secondo luogo un parere analogo nella sostanza a quello del ministro è stato espresso di recente da autorevoli esponenti del centro sinistra. In questo caso esso si rifletterebbe nel programma di quest´ultimo per le prossime elezioni politiche, supponendo che prima o poi esso veda la luce.

Affermare che l´industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell´industria sono sì scomparsi, ma ne sono emersi altri che prima non esistevano o erano di modesto peso. Oppure che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce beni e servizi differenti. Infine la stessa affermazione può voler dire che un intero settore, caratterizzato un tempo da poche grandi imprese, si è frazionato in gran numero di imprese piccole e medie. Come settore nel suo complesso continua a prosperare, ma le dimensioni ridotte di ciascuna impresa fanno sì che il settore sia diventato invisibile o quasi ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche.

Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell´industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l´industria italiana, indossate nuove vesti, gode tuttora di buona salute. Si prenda ad esempio l´elenco delle Global 1000, le prime mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto da "Business Week". La prima cosa che salta all´occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer. Il primo gruppo italiano in classifica è l´Eni, al 37? posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50?. Tra l´86? e il 105? posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia. Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane occorre scendere verso il 750? posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841?) e Finmeccanica (850?, con un forte balzo all´ingiù perché nel 2003 l´analogo rapporto la poneva al 669?), strette tra un folto gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane.

Che cosa si può trarre da tale elenco a favore dell´ipotesi che l´industria italiana non declina bensì va trasformandosi? Piuttosto poco. La sola novità - per quanto significativa - è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il cui valore di mercato è più elevato del gruppo Fiat - 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 - ma le cui vendite sono diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel 2003 secondo il dossier di "Business Week". In altre parole ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell´ultimo grande gruppo manifatturiero esistente in Italia.

Per il resto dall´elenco in parola il quadro che si ricava dell´industria italiana appare così connotato: tolte le prime quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre cinque si collocano verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell´Italia. Per di più una prospettiva comparata le imprese industriali italiane sono scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell´elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35. Infine le nove imprese industriali italiane producono precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione sociale, come più o meno fanno sin dalla nascita. Ossia non si sono trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro di sé sottosettori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l´Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico.

Resterebbe, dalla parte dell´ipotesi "non declino ma mi trasformo", che stando alle dichiarazioni ricordate all´inizio apparirebbe curiosamente bipartisan, l´obiezione che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell´elenco delle Global 1000 di "Business Week", o in quelle simili redatte annualmente da "Fortune", "Financial Times", o Standard & Poor´s. Come a dire che l´industria italiana c´è, ed è solida, ma le sue unità hanno - volutamente e felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali. Con l´implicazione che l´Italia sarebbe l´unico paese al mondo che insiste a definirsi industriale non avendo più imprese industriali capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala, di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità dei suoi prodotti più che alla compressione del costo del lavoro, e di avere in mano propria, piuttosto che nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo della propria attività.

Due commissioni d'inchiesta hanno spiegato nelle ultime settimane come si è arrivati alla guerra in Iraq, nel marzo 2003: sulla base di quali informazioni, e soprattutto disinformazioni, fornite a Bush e Blair dai rispettivi servizi segreti. La prima commissione, composta di senatori americani, ha presentato il proprio rapporto il 9 luglio. La seconda, britannica, era presieduta da Lord Butler, un funzionario pubblico che ha servito più governi: dopo aver investigato per sei mesi, egli ha presentato le proprie conclusioni il 14 luglio.

I due verdetti andrebbero studiati con cura, perché con toni più o meno severi essi hanno in comune una cosa essenziale: la convinzione granitica che vi fu errore grave, ma che esso non sia da attribuire ai singoli politici bensì alla struttura di potere, alla meccanica delle decisioni, alla natura delle comunicazioni fra servizi e governanti. Il rapporto Butler è esplicito: non vi furono responsabilità individuali, per le false informazioni date sulle armi di distruzione di massa in Iraq, ma «solo responsabilità collettive».

Sono entità completamente astratte che avrebbero dunque agito al posto dei singoli uomini (entità come la struttura, la meccanica, la natura) e questo toglie all'individuo il libero arbitrio, e di conseguenza la responsabilità e la colpa. Prigionieri com'erano della struttura del potere da loro diretto, Bush e Blair sono presentati come uomini che certo sbagliarono - si lanciarono in una guerra le cui motivazioni ufficiali erano senza fondamento - ma che agirono «in buona fede», senza intenzione alcuna di distorcere i fatti o di mentire ai Parlamenti e all'Onu. Obiettivamente furono disonesti, ma soggettivamente, come scrive l'Economist in copertina, vengon giudicati «ingannatori sinceri» (sincere deceivers). Credevano di agire bene, e per il bene.

Il dubbio non li sfiorava, tanto forte era questo loro credere. Non avevano in fondo bisogno di prove, perché chi crede intensamente non va in cerca di testimonianze o confutazioni fornite dalla realtà. Si crede anche nell'assurdo, come dicono a volte le grandi religioni e come dicono sempre le sette. Questo era il morbo che affliggeva sia Bush sia Blair, a giudizio dei senatori statunitensi e della commissione Butler: un morbo della psiche che li teneva ingabbiati, e che oggi provvidenzialmente li scagiona.

Per questa via la psichiatria fa ingresso nel regno della politica, così come da tempo ha fatto ingresso nei processi per i crimini comuni. È come se valesse, anche per il politico, l'attenuante dell'errore o del crimine commesso «senza capacità d'intendere e volere». L'irresponsabilità cessa di essere una colpa, e diventa una patologia da curare con le dolci medicine dell'empatia.

È singolare che ambedue le commissioni giungano a questo risultato, e che in tutti e due i casi venga dato lo stesso nome alla malattia che tormentò i poveri Bush e Blair al punto di toglier loro la capacità d'intendere e di volere. È un nome usato in psichiatria, e si chiama groupthink: pensiero di gruppo. È un neologismo che echeggia quelli inventati da Orwell per descrivere il fanatismo comunista (il doublethink ovvero pensiero doppio; il newspeak ovvero Neolingua) e fu Irving Janis, esperto in psichiatria, a coniarlo negli Anni 70 per ricostruire i meccanismi che condussero a disastrose decisioni come l'invasione della baia dei Porci nel '61 (Irving Janis, Victims of Groupthink, Boston 1972). Le vittime del pensiero di gruppo sono fideiste, prima ancora di esser fedeli a un'idea condivisa o a un partito che tende a reclutare militanti acritici. Il loro rapporto con la realtà è tenue, visto che vivono nella fede e che non sopportano una conciliazione tra questa fede e il pensiero critico opposto dalla ragione.

Irving Janis spiega come le decisioni prese in questa sorta di estasi collettiva producano risultati catastrofici, e come il gruppo s'impossessi dell'individuo e della sua libertà. Se ne impossessa dando ai singoli un'illusione di invulnerabilità e di moralità unanimemente condivise. Le obiezioni sono sistematicamente messe a tacere, e non solo non vengono richieste ma finiscono col provocare una sorta di vergogna anticipata in chi potrebbe essere indotto a criticare il metodo di decisione o la decisione stessa. Le informazioni che vengono dalla realtà sono accantonate, perché rischiano d'inquinare le buone intenzioni e la moralità del gruppo.

Il groupthink ha sinonimi illustri, nella storia passata e presente. Può prendere il nome di linea di partito, può dissimularsi dietro termini più blandi come «il comune sentire». Sempre, comunque, il pensiero di gruppo è un esercizio in conformismo. E sempre contiene gli ingredienti descritti da Janis: esso «interviene nei gruppi molto coesi, quando l'aspirazione all'unanimità rimpiazza la ricerca realistica di azioni alternative».

L'alternativa all'intervento in Iraq era di attendere che gli ispettori Onu finissero il lavoro cominciato: un lavoro fatto sul terreno, che oggi si rivela ben più efficace di quello dei servizi americani e britannici. Era di riconoscere che la politica di contenimento non aveva fallito, checché ne dicesse Bush nella dottrina sulle guerre preventive, ma che aveva ben funzionato in Iraq, visto che il capo degli ispettori Blix non trovò le armi. Ma Blix era difficilmente compatibile con il settarismo del pensiero di gruppo, come lui stesso fa oggi capire («Era come se credessero nelle streghe - ha dichiarato al Guardian -.

Qualsiasi notizia proveniente dal mondo reale veniva reinterpretata come conferma dell'esistenza delle streghe»). Blix fu messo da parte e ignorato perché rappresentava un'intollerabile intrusione della realtà nell'impermeabile buona fede del gruppo.

La buona fede può generare mostri, come insegna la storia dei totalitarismi di carattere fideistico: specie quando si applica a collettivi chiusi. Ma visto che di fede si tratta, è probabilmente nelle grandi religioni che conviene cercare il rimedio. Lo psichiatra Janis lo trova nell'avvocato del diavolo, una figura che la Chiesa cattolica istituzionalizzò nel '500 per i processi di beatificazione e canonizzazione. E anche Lord Butler consiglia di far ricorso a tale figura nelle decisioni politiche, lamentando il suo presunto venir meno nella preparazione della guerra irachena.

L'advocatus diaboli è incaricato dalla Chiesa stessa di presentare ragioni contrarie alla volontà-decisione prevalente, di fornire le prove di possibili errori, di opporre argomenti razionali a argomenti puramente fideistici, passeggeri. Esso non agisce contro la fede, ma la mette alla prova e in fin dei conti la consolida. L'advocatus diaboli è un'invenzione grandiosa della Chiesa, e non stupisce che sia chiamato, ufficialmente, non avvocato del maligno ma difensore della fede: della fede vera, che si rafforza solo dopo aver messo alla prova le sue presunte verità, senza contrapporre fede e ragione. Di questo avvocato-difensore c'è bisogno nelle decisioni collettive, per evitare i disastri del dogmatismo e del male fatto in nome del bene.

Contrariamente a quel che pretendono le commissioni d'inchiesta, tuttavia, nella guerra in Iraq non mancarono gli avvocati del diavolo, che tentarono di correggere gli eccessi del pensiero di gruppo dietro cui stavan trincerati Bush e Blair. Avvocati del diavolo sono stati Blix, e in America repubblicani come Baker, Scowcroft, in parte Powell. Sono stati la Bbc in Inghilterra, e lo scienziato David Kelly che espose i propri dubbi alla Bbc e finì con l'uccidersi quando il suo nome fu reso pubblico (anche la colpevolizzazione del dissidente è tipica del groupthink, secondo Janis).

Solo che i politici odierni non sembrano aver bisogno di simili avvocati, e le commissioni che li assolvono fingono che avvocati del genere neppure siano esistiti, pur di salvare la tesi - tanto comoda per i governanti - sul pensiero di gruppo. I politici oggi non hanno la statura di Churchill, e tuttavia si sentono più sicuri di lui, nella loro doppia illusione d'impunità e moralità. Più sicuri perfino della Chiesa del '500, che per tema dell'unanimismo e per temprarsi fece spazio addirittura alle più cavillose controargomentazioni del maligno. Non sono stati loro a sentire il dovere di dimettersi, ma la Bbc e un giornalista un po' più preciso di Lord Butler.

Ma forse i politici temono l'advocatus diaboli e lo zittiscono proprio perché sanno di essere abbastanza mediocri. Perché sanno che la loro guerra, come dice Blix, «ha reso forse il mondo un po' migliore, sbarazzandolo d'un dittatore, ma non più sicuro». L'ha reso anzi più insicuro: non solo perché il terrorismo s'è rafforzato, ma perché nessuno crederà più a decisioni prese da politici incapaci d'intendere e volere, e proprio per questo sollevati dall'obbligo di rispondere degli errori commessi.

«CONSAPEVOLI che l´Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti giunti in ondate successive fin dagli albori dell´umanità vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell´umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione. Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell´Europa i cui valori, sempre presenti nel suo patrimonio, hanno ancorato nella vita della società il ruolo centrale della persona, dei suoi diritti inviolabili e inalienabili e il rispetto del diritto. Convinti che l´Europa, ormai riunificata, intende proseguire questo percorso di civiltà, di progresso e di prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi. Persuasi che i popoli dell´Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, sono decisi a superare le antiche divisioni e uniti in modo sempre più stretto a forgiare il loro comune destino. Certi che, unita nella diversità, l´Europa offre loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza delle loro responsabilità nei confronti delle generazioni future e della Terra, la grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana».

Leggetele con attenzione queste poche righe. Esse costituiscono il preambolo della Costituzione europea approvata l´altro ieri sera dal Consiglio dei 25 capi di Stato e di governo all´unanimità. Due anni e mezzo di faticoso lavoro per delineare la figura delle istituzioni, i loro poteri e i loro limiti, il difficilissimo equilibrio tra il peso specifico delle singole nazioni e l´ideale di un federalismo con una testa, una voce, una politica estera, una difesa e una moneta: insomma la governance, il tipo di governo della nuova Unione. Ma pochi giorni per redigere quelle poche righe che sintetizzano la storia, l´identità, i comuni valori e insomma la missione in cui si riconoscono le genti del nostro continente.

La governance è piena di difetti, è barocca, sarà inceppata a ogni passo da veti e contro-veti, sarà ancora più lenta nei processi decisionali di quanto finora non lo sia stata, sarà paralizzata dalla regola dell´unanimità che persiste dopo mezzo secolo di vita comunitaria in materie decisive: la politica estera, quella della difesa, quella della tassazione, quella sociale.

Ma, contrariamente al generale pessimismo sparso a piene mani dai commentatori europei, a me non sembra che i pur evidenti e gravi inceppamenti che costellano la struttura operativa e l´architettura complessiva della Costituzione siano tali da autorizzare il rintocco delle campane a morto che ho letto in tanti giornali italiani ed europei nelle ultime 48 ore.

Tra gli innumerevoli difetti del testo emerge un pregio essenziale: si tratta di una Costituzione "aperta", d´una Costituzione "cantiere", che parte a passo lento e guardingo ma non preclude l´alta velocità né impedisce a chi voglia fin d´ora accelerare il passo di aprire ai più lenti la strada.

Non è dunque nella discutibile e perfettibile governance il tallone d´Achille della Carta fondamentale dell´Europa, anche in virtù di quel breve preambolo che ne riassume e ne esplicita lo spirito e ne rappresenta per tanto il canone ermeneutico del superare gli ostacoli, le resistenze, l´egoismo degli interessi territoriali, nazionalisti, lobbistici.

I padri costituenti europei videro fin dall´inizio il nostro continente come uno spazio ideale, culturale, commerciale, sorretto dai principi della libertà, dell´eguaglianza, della tolleranza, della pace, del progresso civile economico sociale. Questa visione, latente da secoli nelle vene dei popoli europei ma contraddetta continuamente dalle guerre, dai massacri, dalla violenza, dalla cupidigia, ha infine preso il sopravvento dopo la carneficina delle due "guerre civili", quella del 1914-´18 e l´ultima del ?39-´45.

Ciò non significa che il cammino sia ineluttabilmente tracciato, se non altro per il fatto che l´Europa non è certo il solo soggetto del pianeta, né il più forte, né il più popoloso. È tuttavia, anche nel suo stato ancora semilarvale, un oggettivo protagonista. Può rappresentare un modello, comunque un punto di riferimento, un alleato indispensabile, un ideale di cosmopolitismo; infine, l´anima stessa di quella globalizzazione tecnologica che rappresenta la grande promessa ma anche la grande minaccia della nostra modernità.

No, l´ostacolo non è la governance imperfetta ma perfettibile. E tuttavia un ostacolo esiste e - quello sì - è temibilissimo. L´ostacolo è politico. Va individuato con chiarezza e va affrontato sapendo che su quel contrafforte (si può dirlo senza retorica) o si fa l´Europa o si muore.

* * *

Allo stato delle cose, e dopo mezzo secolo dal suo inizio, l´Europa è una Comunità per un quarto federata (o magari per un terzo) e per tre quarti (o due terzi) confederata. Gli organi più vicini a potersi definire federali sono la Commissione, la Banca centrale, la Corte di giustizia; gli organi confederali sono il Consiglio dei capi di Stato e di governo e i Consigli dei ministri di settore. Ma gli organi confederali detengono poteri politici, di indirizzo e di legislazione. Senza il loro contributo attivo gli organi federali sono di fatto paralizzati ad eccezione forse della Banca centrale limitatamente alla politica monetaria strettamente intesa ma espropriata dalla politica del cambio.

Il Parlamento, pur dotato di poteri notevolmente accresciuti proprio dalla Costituzione testé approvata (ma tuttavia ancora inoperante poiché soggetta a ratifica da parte dei Parlamenti nazionali o in alcuni casi da parte di referendum popolari), è piuttosto un organo confederale a causa del sistema elettorale con il quale viene formato. Ogni Stato infatti vota soltanto la quota di parlamentari che gli è stata assegnata dal Trattato: i tedeschi votano i parlamentari tedeschi, gli italiani gli italiani e così via. Dunque non è un vero Parlamento dove i cittadini di una comunità votano i loro membri sulla base di suffragio universale e di appartenenze politiche.

La più urgente riforma da introdurre sarebbe dunque, secondo il mio modesto parere, quella di modificare il modo di elezione introducendo liste e campagne elettorali transnazionali. Nascerebbero così (e solo così possono effettivamente nascere) partiti europei veri e propri, con conseguenze importanti anche sulla composizione delle maggioranze parlamentari nei Parlamenti locali (nazionali). Conseguenza non automatica ma di trascinamento, cosa che attualmente non può avvenire.

È evidente che un vero Parlamento europeo su base transnazionale eserciterebbe i poteri che già ha e ancor di più quelli che potrebbe ottenere, con un´incidenza estremamente più netta e assumerebbe un carattere federale che si proietterebbe sull´intero funzionamento dell´Unione. Credo che a questo compito primario dovrebbero dedicarsi i nuovi membri eletti in tutta Europa il 13 giugno. Questa riforma è infatti preliminare ad un altro aspetto della questione, all´altro ostacolo politico che impedisce all´Ue di progredire, molto di più dei difetti della governance dei quali abbiamo già parlato.

* * *

L´altro ostacolo deriva dal fatto che la politica di parecchi paesi membri è, in parte o addirittura in tutto, eterodiretta. Dagli Usa.

Questi paesi subordinano gli interessi europei a quelli americani. Spesso tali interessi coincidono e allora il problema evidentemente non si pone. Ma talvolta non coincidono. Talaltra sono addirittura contrapposti. Questi casi avvengono tanto più spesso quanto più l´Europa tenta di procedere verso il suo sviluppo unitario.

Se gli Usa fossero ancora una confederazione e le nazioni europee fossero ancora punti di forza mondiali, sarebbe come se la Francia avesse come alleato preferenziale lo Stato della Louisiana, la Gran Bretagna il Massachusetts e gli altri Stati della costa orientale, la Spagna il Nuovo Messico e il Texas.

Qualche cosa di simile accade oggi quando Gran Bretagna, Italia, Olanda e le new entry dell´Est europeo si considerano molto più strettamente legate agli Usa di quanto non lo siano alla stessa Comunità europea della quale fanno parte.

È chiaro che il protrarsi e l´aggravarsi di questa spaccatura politica paralizza l´evoluzione dell´Ue. Se n´è avuta una prova nella difesa ad oltranza della regola dell´unanimità da parte della Gran Bretagna su materie essenziali come la politica estera e la difesa comune.

Bisogna essere molto chiari su questa questione. L´ho già scritto in numerose occasioni ma il tema è troppo importante per non riproporlo: la crescita dell´Europa implica un chiarimento di fondo con il governo di Londra.

Nessuno ignora l´importanza della presenza inglese nel contesto europeo, ma nessuno dovrebbe volerla e patrocinarla ad ogni costo, anche quando quella presenza equivale alla paralisi del disegno europeo.

Discutendo due giorni fa del presidente della Commissione di Bruxelles da eleggere al posto di Prodi, Blair ha apostrofato Chirac e Schroeder con la seguente frase: «Non crediate di esser voi due i padroni d´Europa».

Affermazione ineccepibile, che ciascuna delegazione presente a Bruxelles avrebbe potuto far propria, ma che si può e si deve ritorcere ad egual titolo nei confronti di Blair.

Il caso inglese del resto contiene un´anomalia che varrà la pena di esaminare accuratamente nel prossimo futuro. La Gran Bretagna non fa parte dell´eurogruppo, non ha accettato la moneta comune, è rimasta e rimane ferma sulla sua sterlina. La situazione sarebbe accettabile perché fa parte di quelle collaborazioni rafforzate che la nuova Costituzione ha ora formalmente autorizzato e di cui l´euro è stato finora l´esempio più vistoso. Ma l´anomalia consiste nel fatto che la Gran Bretagna partecipa e vota in sede Ecofin su questioni che riguardano esclusivamente o principalmente la moneta comune e l´area e gli interessi dei paesi in cui essa circola. E´ evidente che questa situazione non può durare all´infinito, sicché sembra venuto il momento di porre al governo di Londra una qualche scadenza entro la quale debba ragionevolmente decidere se entrare nell´euro o rinunciarvi definitivamente, ridimensionando di conseguenza la sua partecipazione alle decisioni che riguardano quella moneta.

È lecito prevedere che la regola dell´unanimità sulle questioni di politica estera sarà usata da Londra per impedire qualunque decisione sgradita a Washington. Stessa posizione sarà assunta dal governo italiano, almeno fino a quando sarà guidato dal nostro attuale "premier". Conseguenza: la libera scelta e la libera e unitaria voce dell´Europa hanno come spazio di manovra possibile soltanto quello di consentire con le decisioni di Washington oppure di non esistere.

Riflettano coloro che si disperano per l´assenza dell´Europa dai grandi temi internazionali. Potremmo dire che la stessa assenza si osserva per quanto riguarda i Laender della Renania o della Sassonia oppure la Scozia o il Vermont e la Florida. Nessuna di queste entità ha voce in materia di politica internazionale, così come non ce l´ha l´Europa in quanto tale se non accetta di farsi rappresentare dal dipartimento di Stato americano o dal Pentagono.

Eppure una differenza c´è ed è a svantaggio ulteriore dell´Europa: i cittadini del Vermont e della Florida, come quelli della Renania o del distretto di Amburgo, votano per l´elezione dei rispettivi parlamenti federali e nel caso degli Usa per l´elezione del presidente. L´Europa no, non vota per l´elezione del capo dell´impero. Obbedisce, se vuole; rinuncia ad esistere come voce unitaria se dissente; ma in ogni caso non vota, non può scegliere tra Bush e Kerry.

Questo è l´ostacolo politico che sta di fronte a noi europei e che c´impedisce d´avere un corretto e solido rapporto d´amicizia con la democrazia americana conservando la nostra autonomia e dignità di cittadini europei.

Finché questo ostacolo non sarà rimosso la Costituzione europea, buona, cattiva, perfettibile che sia, resterà un pezzo di carta straccia o poco più.

Il testo della nuova Costituzione europea (in inglese)

La tortura cambia il discorso, fa aprire gli occhi e dimostra che l'accettazione della guerra e la partecipazione alla guerra, sia pure come fatto compiuto, sono fondamentalmente sbagliate perché troppi fatti che riguardano quella guerra sono immersi nel buio?

Le immagini della tortura bastano da sole a dire: non sappiamo e non sapevamo niente del modo in cui viene condotta questa guerra, dei vivi, dei morti, delle ferite di tutti i tipi inferte e subite, degli ordini dati, se e che cosa è andato storto, in questa guerra, rispetto a che cosa, perché, restando, restiamo al buio, senza conoscere le cause e gli effetti, di ogni evento che ci riguarda, dagli ostaggi agli assalti continui contro i soldati italiani?

Sarebbe necessario condurre un dibattito netto e frontale: guerra o non guerra, con tutte le sue conseguenze. Questo dibattito, con i toni disperati di un'opinione pubblica che ha scoperto troppo tardi eventi che umiliano tutto il Paese, ha luogo adesso in America. Non in Italia. In Italia ogni argomento è intercettato dal ricatto. È il ricatto dell'abbandono e del tradimento, del venir meno all'impegno dell'alleato. Viene avanti un fantasma che - ci dicono - è il destino dell'Iraq e che, a quanto pare, è a carico di tutta la sinistra che fin dall’inizio si è opposta alla guerra. Ecco perché il dibattito, con pazienza, deve continuamente ricominciare da capo. Ricomincia da dove si è detto che - nonostante l'enormità dei fatti accaduti e che adesso sono sotto gli occhi di tutti - finirà per ricadere su chi chiede e vota, sia pure vanamente, il ritiro dei soldati italiani.

Chi ha letto, con attenzione l’intervista di Giuliano Amato a la Repubblica (4 maggio, pag.9) ha certo notato alcuni punti di riflessione fondamentali per la Sinistra.

Mi sembrano importanti e cercherò di esaminarli uno per uno. Lo farò a nome di coloro che, come me, ascoltano e rispettano le argomentazioni limpide di Amato ma, a volte, (questa volta, per esempio) non riescono a essere d’accordo.

Comincio con questa citazione: «Io continuo a ripetere che è stato comunque un errore andare in Iraq. Ma oggi, al di qua e al di là dell’Oceano, sono sempre di più coloro che pensano: io ero contrario ma a questo punto è in gioco il futuro dell’Iraq, quindi cerchiamo una soluzione».

Manca qualcosa in questa frase, ed è la differenza tra le due sponde dell’Atlantico. Di là, negli Stati Uniti, c’è un cattivo governo (Amato lo ha descritto bene nelle prime frasi della sua intervista: «un impasto di ideologia, semplicismo, unilateralità, improvvisazione») contro cui si sta levando una vasta opposizione. Quando, speriamo, quell’opposizione avrà vinto, essa tornerà al multilateralismo, alle alleanze, al fare le cose insieme, allo spirito di cooperazione e collaborazione che è il tratto più importante di identità dell’America e che George Bush ha distrutto. La liberazione degli Stati Uniti da Bush e dal pericolo che rappresenta (cito John Kerry) è, per ora, solo speranza, d’accordo.

Ma è una speranza realistica, con una scadenza relativamente vicina (novembre di quest’anno). La liberazione dell’Italia da Berlusconi, invece, non è altrettanto imminente. Il suo infaticabile lavoro di devastazione della Costituzione italiana, delle relazioni e del commercio internazionale (lo ha detto chiaro il Presidente della Repubblica), della nostra immagine e dei nostri legami con l’Europa, continueranno per oltre due anni da adesso, il tempo di recare un danno considerevole, sempre più notato nel mondo. È difficile per noi farci carico del futuro dell’Iraq mentre non abbiamo una nozione precisa del nostro futuro, ma anche del nostro ruolo.

Qui si colloca la domanda che manca nella affermazione di Amato. Noi chi? Una buona parte di noi italiani, cittadini tutt’altro che insensibili alla disperata situazione irachena, non soltanto non avremmo voluto la guerra. Non avremmo mai mandato i nostri soldati come braccia armate e sottoposte alla guerra di altri, di strategie e piani di cui non sappiamo nulla, a disposizione di comandi che non devono rispondere né al governo né al Parlamento italiano.

Non avremmo mai offerto i nostri soldati per metterli agli ordini di generali inglesi e americani, senza un trattato, senza alcun riferimento a regole o limiti di qualsiasi genere. I nostri soldati sono bravi. E ne siamo tutti orgogliosi. Ma sono - dal punto di vista parlamentare - illegali perché inviati per una missione di pace che non esiste e che non possono compiere.

Combattono ogni giorno per difendersi, cercando di fare il minor numero possibile di vittime fra i civili. Lo fanno con valore, con bravura. Ma questo fanno, combattono. Il Parlamento italiano aveva votato una bugia del governo, ormai ampiamente svelata: missione di pace. Per comprendere l’enormità di quanto è avvenuto nel nostro Paese si consideri che nessun altro contingente di truppe di altri Paesi (a cominciare naturalmente dagli Stati Uniti, ma fino ai Paesi più piccoli) è stato mandato in Iraq sotto falso pretesto. Gli spagnoli di Aznar avevano fatto - ha deciso Zapatero - la scelta sbagliata. Ma non hanno mentito sulla guerra.

La missione spagnola era stata votata come missione militare che include il combattimento. La questione non è formale. Come possiamo occuparci del futuro dell’Iraq se non abbiamo voce in capitolo ad alcun livello, non siamo parte di alcun comando, se persino la “battaglia dei ponti” (la cifra delle vittime civili resta sconosciuta) è stata decisa da un generale inglese che non deve rispondere della sua decisione al nostro Parlamento?

Più avanti Amato dice che «abbiamo responsabilità oggettiva verso l’Iraq». Moralmente è vero. Ma politicamente c’è di mezzo Berlusconi e il suo governo, che da un lato è segnato da una grave incapacità di funzionare. È forse il governo più incapace e inadeguato della storia della Repubblica. E dall’altro, risolve la sua inadeguatezza mettendosi al servizio di un altro governo non da alleato ma da subalterno.

Noi, al momento, siamo sottoposti invece che amici e alleati, siamo soltanto dei dipendenti. Amato parla il linguaggio responsabile di uno statista. Ma non governa. Governa un miliardario di umore instabile che ama svolte pericolose e dichiarazioni irresponsabili. Come quel suo ostinato ripetere «resteremo in Iraq fino in fondo», mentre si tratta la liberazione degli ostaggi (gli Usa, in silenzio, liberano gli ostaggi americani, come Hamil, senza dire in cambio di che cosa).

Il nostro premier ama soprattutto vantarsi di essere il miglior amico di Bush. Come dire, allora, che «l’unica forza negoziale che ha l’Italia è quella di restare, dicendo: se non cambiate me ne vado?» (cito sempre dall’intervista). A chi lo diciamo, visto che non siamo parte di alcun organismo collegiale, visto che siamo solo coloro che hanno offerto senza condizioni le vite dei nostri soldati? Come si può impiantare il negoziato, chi lo conduce, Martino? Frattini? Fini ha dovuto dire a Washington, nel corso della sua ultima visita, che l’Italia non poteva offrire altri soldati, segno che altre truppe erano state insistentemente richieste.

Sostiene ancora Giuliano Amato: «Dico che non ci conviene impegnarci ora su una posizione di ritiro delle truppe. Potremmo trovarci fra un mese con un governo che si trova sulle stesse posizioni di Francia, Germania, Gran Bretagna». Quale governo, quello che ha lavorato alacremente, finora, a spezzare l’Europa? C’è un doppio salto mortale in quella frase: credere che questo sia un governo normale, paragonabile ad altri governi normali, invece che un aggregato di sudditi di un miliardario vanitoso che ha in pugno tutti i media. E immaginare un’Europa che si unisce senza l’Italia (se l’Italia va via dall’Iraq) ma senza domandarsi come mai in quell’Europa ci sia già (di nuovo) la Spagna, che è appena uscita dall’Iraq, con il rispetto e l’attenzione di tutti. Ha ragione Amato a dire: tutto ciò non aiuta l’opinione pubblica a capire che cosa vogliamo sull’Iraq. Ma la domanda è proprio questa: che cosa vogliamo?

Si pone la stessa domanda Morton Abramowitz, presidente del Carnegie Endowment, sulla rivista The National Interest, uno dei luoghi più importanti del dibattito americano sugli affari internazionali. Risponde: vogliamo il ritiro americano. E infatti dice: «La nostra posizione preminente nel mondo può affrontare l’apparente contraddizione di un ritiro anticipato dall’Iraq che è urgente e auspicabile.

C’è da aspettarsi che la nostra influenza resterebbe molto grande, nonostante la fine delle operazioni militari. E la nostra capacità di fronteggiare gli imprevisti di un mondo minacciato dal terrorismo diventerebbe più veloce e più agile». Resta il problema delle Nazioni Unite. Se la missione sarà Nazioni Unite, ammonisce Giuliano Amato, non possiamo non esserci. E lo stesso Amato dà la giusta risposta: «Credo che se si ragionasse sui contenuti concreti di una risoluzione dell’Onu, probabilmente troveremmo Zapatero e Blair sulla stessa posizione». È vero. Perché non dovremmo essere pronti a votare con Zapatero e con Blair, non appena la risoluzione dell’Onu sarà vera e sarà pronta?

Oltretutto è più facile immaginare un accostamento fra Zapatero (che ha ritirato le truppe dall’Iraq) e Blair che fra questo governo italiano e l’opposizione. Perché quando l’opposizione sarà pronta a dare il via libera per l’Onu, Berlusconi avrà perduto il suo incentivo a proclamarsi l’amico esclusivo di Bush e uno dei tre grandi che occupano l’Iraq. Tutta la situazione, una volta divenuta legale e normale e non più soggetta alla segretezza che priva l’opposizione e l’opinione pubblica italiana di ogni notizia attendibile, non gli interessa più.

Il fatto è che in tutto questo dibattito sulla guerra e sui nostri soldati in Iraq manca il protagonista Berlusconi, ed è questo che crea disorientamento nel popolo di sinistra sul che fare in Iraq. Dire che Berlusconi è un presidente del Consiglio che governa perché ha vinto le elezioni è solo una parte della verità. Berlusconi ha esautorato il Parlamento, ha reso impossibile ogni rapporto o collaborazione con l’opposizione, ha lavorato a dividere il più possibile gli italiani dagli italiani e tutti noi dalla nostra storia. Ha favorito, attraverso il suo controllo totale delle informazioni, la circolazione di un clima di livore, incattivimento, vendetta e ricatto («se non sostieni la guerra in Iraq sei un traditore, sei un amico dei terroristi»).

Qualunque cosa si pensi dell’Iraq, per noi italiani tutto è alterato e reso illegale, incostituzionale e pericoloso (pericoloso sopratutto per la vita dei soldati italiani e dei nostri ostaggi) sia dalla vanagloria personale del premier, che gira il mondo vantandosi della guerra, sia dalla sua inclinazione a mentire, che lo ha indotto a far votare una missione di pace mentre mandava i soldati italiani in guerra, come ci dicono ogni giorno tutti i giornali e i telegiornali. In questa condizione, è evidente che i migliori soldati del mondo, senza responsabilità e senza partecipazione alle decisioni e alle scelte, non possono recare alcun contributo né essere utili in alcun modo alla vita degli iracheni e al loro destino.

Possono solo restare asserragliati in un bunker o nei mezzi blindati e cercare di non essere colpiti per primi. Il voto che ha mandato quei soldati è svuotato dalle false premesse. Sulla guerra (a cui la Costituzione non ci permetterebbe di partecipare) non possiamo influire. All’Iraq non possiamo giovare. Possiamo solo ubbidire e fare fuoco quando altri ci dicono di fare fuoco. Purtroppo non basterà il voto dell’opposizione per farli tornare. Che sappiano, almeno, che abbiamo dato il segnale giusto. Quanto alle Nazioni Unite, quando verranno staremo certo, come dice Amato, dalla parte di Zapatero e di Blair e di Francia e Germania. Cioè con tutta l’Europa.

Infine vorrei contribuire alla riflessione di Amato con questa persuasione, che mi sembra difficile da negare: noi non siamo una potenza militare. Noi siamo una potenza umanitaria. Noi - l’Italia - avremo un ruolo e un peso sull’Iraq, il suo futuro, il suo destino, quando saremo fuori dalla guerra che continua a tormentare senza soluzione quel Paese, e che fa apparire uguali e nemici tutti i combattenti. Quando saremo disinteressati, credibili e disarmati, allora saremo uniti all’Europa e a grandi operazioni umanitarie, mettendo in campo la forza più grande del nostro Paese, Ong, volontariato, Croce Rossa, nuovi ospedali, zone di raccolta e salvezza per i bambini, ponti aerei per i feriti.

Un contributo di civiltà. Contro il terrorismo è un’arma molto potente e noi l’abbiamo.

Una scelta definita di «grande responsabilità», anzi «l’unica scelta possibile» per smuovere le acque dell’Onu, sollecitare con i fatti la tanto evocata svolta e far scendere a patti gli Usa. L’ala più pacifista del centrosinistra, il Correntone Ds, Verdi, Pdci, Rifondazione, scendono in campo a sostegno di Zapatero e sollecitano l’opposizione tutta ad unirsi per «appoggiarne fino in fondo» la linea. Via subito dall’Iraq, dunque, e parole chiare. Parole che però non vengono pronunciate dai vertici della lista unitaria alla fine di una giornata che si era aperta con espressioni di grande apertura da parte di Prodi nei confronti di Zapatero e che poi è evoluta con le parole del suo portavoce che escludeva il ritiro immediato. Ciò che fa dire ad Achille Occhetto: «Con l’anima Prodi sta con Zapatero ma evidentemente c’è qualche pressione su di lui da parte delle forze che lo sostengono...». Secondo Occhetto «le forze politiche del triciclo», sono «imbarazzate e confuse»: «Il fatto che Fassino, un dirigente dell'Internazionale socialista, invece di spiegare se ha una linea diversa da quella di Zapatero, chieda a Berlusconi di venire in Parlamento a riferire, dice chiaramente che siamo alla frutta». Per Occhetto la «road map» dovrebbe avere le tappe seguenti: conferenza internazionale, annuncio di un giorno preciso in cui la coalizione dei «willings» inizierà il ritiro delle truppe dall'Irak, ritiro immediato delle truppe italiane.

Critiche alla «lista riformista» arrivano anche dai Verdi, dal Pdci e da Rifondazione. Pecoraro Scanio ritiene «un errore» che non si sia «assunta una posizione netta come lasciavano intravedere le prime parole di Prodi». Bertinotti chiede «chiarezza»: «Le opposizioni devono prendere una immediata iniziativa parlamentare. La posizione della lista unica non convince affatto». Il problema è come muoversi nei prossimi giorni, posto che Verdi e Pdci hanno già depositato mozioni per il ritiro e che il Forum dei parlamentari per la pace sta preparando una sua mozione. D’altra parte il Correntone Ds punta, come spiega Fabio Mussi, a lavorare per una mozione unitaria di tutto il centro sinistra: «Il centrosinistra italiano si attesti sulla posizione di Zapatero. Prodi oggi ha fatto un passo in avanti importante, ma ora ne serve un altro». Il passo avanti per Mussi è proprio la consapevolezza che occorre una risoluzione Onu netta e precisa e non acqua fresca a copertura dell’esistente. Il passo ulteriore è quello di chiedere il ritiro come arma di pressione. «Per ottenere un cambiamento radicale della politica degli Usa ed una risoluzione dell'Onu che consegni effettivamente all'Onu il governo della crisi irachena». «Il listone - ribadisce Giovanna Melandri - non può limitarsi ad evocare buone intenzioni ed azioni diplomatiche che il governo Berlusconi, subordinato a Bush e Blair, non assumerà. Occorre un'iniziativa concreta per il ritiro del contingente italiano». E Pietro Folena parla di «titubanze, frammiste a dichiarazioni apertamente contrarie al ritiro del contingente italiano» che prevarrebbero nei vertici della lista riformista.

Ma anche dentro la lista unitaria le bocce sono tutt’altro che ferme. Prodi, fanno rimarcare coloro che si trovano su posizioni di frontiera se non di pieno appoggio alla linea Zapatero, è stato chiaro a proposito dei contenuti di cui la auspicata svolta in Iraq dovrebbe sostanziarsi: passaggio dei poteri politici e militari all’Onu. Il punto è decisivo. Il ds Valdo Spini, capogruppo nella commissione esteri, già da una decina di giorni va sostenendo che non si deve aspettare il 30 giugno per porre il problema del ritiro: «Con la prospettiva dell'uscita della Spagna, il contesto politico della missione in Iraq viene ad essere modificato profondamente. La prospettiva di non avere una nuova risoluzione dell'Onu pone anche al centrosinistra italiano il problema di convergere con la posizione di Zapatero». La posizione di Intini non è analoga a quella di Boselli: «Il 30 giugno è diventato ormai un feticcio - dice il capogruppo Sdi - la questione è restare o andarsene nel momento in cui è chiaro se l' Onu prenderà in mano la situazione o no. Per Zapatero è stato no». Anche dentro la Margherita ci sono posizioni distanti da quelle di Rutelli, Enrico Letta o Dario Franceschini. «Il 30 giugno non è una scadenza vaticinata da Nostradamus - afferma Ermete Realacci - Se non ci sono le premesse perchè entro quella data l'Onu possa assumere pienamente la guida del processo di pace, se non verranno create le condizioni per un pieno coinvolgimento delle altre nazioni europee e dei paesi islamici e arabi moderati, la nostra presenza militare in Iraq non ha senso». Analoghe le valutazioni di Beppe Fioroni: «Ben venga l'elettrochoc Zapatero. L'unico modo per chiudere una fase fallimentare e aprirne un'altra è dare un segnale forte sulla inutilità, in questo contesto, della nostra presenza». Insomma, la parola «ritiro» non è più un tabù. E corre voce che rinviarne la richiesta, a questo punto, sia solo una questione di tatticismo. Mentre le associazioni pacifiste della Tavola della pace consegnano un documento al Parlamento: l’Italia faccia come Zapatero.

«Il presidente George W. Bush ha accettato di nominare una commissione indipendente e bipartisan che indaghi sull’attività dei servizi segreti statunitensi in relazione alle armi di distruzione di massa irachene».

«E in questo modo ha implicitamente ammesso che alcune delle sue dichiarazioni prebelliche erano sbagliate», scrive Dana Milbank sul Washington Post. Il comportamento della Casa Bianca potrebbe sembrare contraddittorio, ma alla base c’è una strategia molto precisa: «Bush ha imparato che ammettere in pubblico i propri errori rende più vulnerabili. Invece, scegliere di aprire un’inchiesta e posticipare il suo rapporto al 2005 permette a Washington, in vista delle prossime elezioni, di gettare un’ombra d’incertezza sulle affermazioni di David Kay, capo delle ispezioni per le armi illecite di Bagdad».

Secondo William Raspberry le dichiarazioni di Kay dimostrano che gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra sbagliata adducendo false motivazioni: «Ogni volta che qualcuno lo interroga sull’arsenale iracheno – sostiene sul Washington Post – Bush risponde sempre che il mondo è un posto più sicuro senza Saddam Hussein.

Ma questa non è né una risposta né tantomeno una giustificazione a un’azione violenta. E soprattutto – fa notare Raspberry – il presidente Usa ha sempre sostenuto che il raìs violava le risoluzioni Onu e che le sue armi chimiche erano una seria minaccia per il paese».

L’esistenza o meno di un arsenale nucleare iracheno è un problema di cui si devono occupare soltanto i politici. Ma tutta la questione ha danneggiato in maniera consistente la credibilità della politica estera degli Stati Uniti, e un’inchiesta non è certo sufficiente a risolvere le difficoltà del paese: «L’America non è onnipotente», sottolinea sul quotidiano di Washington Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter.

«È necessario, perciò, che abbia il supporto genuino e sincero degli altri paesi, soprattutto dei suoi più stretti alleati. La fiducia è un ingrediente essenziale del potere e la sua perdita potrebbe incidere a lungo termine sulla sicurezza nazionale».

Per il New York Times una commissione indipendente potrebbe aiutare gli alti funzionari dell’intelligence a superare la crisi: «I servizi segreti – scrive Douglas Jehl – riconoscono che, dopo l’incapacità di prevenire gli attacchi dell’11 settembre e gli errori commessi sulle armi irachene, è necessaria un’indagine più approfondita. L’inchiesta, inoltre, potrebbe avere il vantaggio di sensibilizzare l’attenzione sulla necessità di maggiori finanziamenti».

Oltre che difendere il lavoro dei servizi segreti, il Wall Street Journal sottolinea anche che, all’interno della comunità internazionale, non c’erano disaccordi sul possesso di armi illecite da parte del raìs e la necessità di disarmarlo.

Oltreoceano ci si chiede quali conseguenze avranno le dichiarazioni di Bush in Europa: mentre il Guardian sottolinea l’isolamento di Tony Blair, l’Independent sostiene che per il premier britannico è arrivato il momento di dissociarsi dall’alleato statunitense e cominciare a pensare che, dal prossimo novembre, potrebbe avere a che fare con un presidente democratico.

«Che stranezza», «Non capisco» «Commendatore...non so nemmeno che cosa sia». Ma le piace lo stesso. Giovanna Marini, commendatore al merito della Repubblica da un paio di giorni, è sorpresa e vorrebbe tanto ringraziare. Il presidente, soprattutto, e magari la signora Ciampi: «Mi sa che è stata lei». «Giovannamarini.com»: Giovanna scherza, è il suo modo lieve di vivere modeste contraddizioni. Lei è un pezzo della storia d’Italia alla quale le istituzioni sono sempre andate strette, molto strette. Anzi, la sua voce le ha spesso «suonate» al «sistema». Se vogliamo, la vera novità nell’elenco delle onorificienze preparato dal Quirinale in occasione dell’Otto Marzo, è proprio il suo nome. È la traccia di una cultura aliena che Ciampi, con scelta davvero felice, ha riconosciuto come parte positivamente integrante dell’Italia che ci piace di più. Giovanna è testimone di un nucleo di creatività che ha fatto dell’arte e della politica il suo pane quotidiano e non ha mai cercato più opportune neutralità. Anche a noi viene di ringraziare Ciampi: ha fatto proprio una bella cosa.

Giovanna, che effetto ti fa?

Intanto, meglio che “cavaliere”, lo avrei rifiutato, oggi è davvero insostenibile, visto il cavaliere che ci governa. Fammici pensare: è un disastro lo stesso; Bossi è commendatore, che brutta cosa. Mi chiedo come gli sarà venuto in mente di scegliere una come me...

Brava, sei brava: lo dicono tutti, e da molto tempo. Fai un lavoro importante sulla musica. Ma hai ragione: mi sa che non basta, in genere...

Cosa vuoi che ti dica, non faccio che ricevere complimenti per questa cosa che non so cosa voglia dire. Fassino mi ha mandato un telegramma: lui è contento ed è stato gentile a dirmelo. È contento anche Ambrogio Sparagna; mi ha detto: Giovanna, questo è importante per tutto il nostro settore. Gli credo, anzi credo che sia l’unica cosa che conta, è come se il Quirinale avesse premiato tanta gente che lavora come me, con uno stile comune, quasi con una condivisa intelligenza della realtà. Vorrei scrivere “grazie presidente” ma non so come si fa. Mi rendo conto che sono proprio fuori dal mondo: un motivo in più per dubitare di quel mi è successo.

È un bel fatto: dai palchi del ‘68 a uno dei massimi riconoscimenti della Repubblica. Sembra una storia a lieto fine...

Lascia perdere il lieto fine. Ne parliamo dopo che ti ho raccontato una storia. Giorni fa ero a Sassari. Dovevo suonare e cantare in una bella sala dedicata a Pietro Sassu, un importante musicologo al quale dobbiamo molto. Canto. Poi si fa avanti una ragazza vestita di pelle che mi accusa: lei non ha fatto un concerto, ha fatto un comizio. Come sarebbe, obietto, ho cantato un patrimonio comune di tutta l’Italia democratica. No, insiste, lei ha cantato solo cose di sinistra. Provo a spiegare: non è colpa mia se la gente che soffre è quella che poi canta, non è colpa mia se la sinistra si è sempre fatta carico della gente che soffre. Esiste una musica di destra? Esiste una musica di regime, inventata dal fascismo, ma quella - glielo giuro - io non la canto. È servito a niente. Peccato. Sai che cosa ho pensato? Che due anni fa un attacco di questa violenza non sarebbe accaduto. Rifletti, ora, sul lieto fine.

Su Giovanna Marini vedi anche

Un'intervista al Venerdì di Repubblica (14 novembre 2002)

Lamento per Pier Paolo Pasolini

L’Italia non è un Paese normale. Chi ci ripete, anche all'interno del centrosinistra, che un programma di governo deve ragionare in positivo e non in negativo, dimentica che il governo del centrodestra ha mirato a demolire lo stato sociale e a scardinare la Costituzione. Perciò ragionare in positivo oggi comporta anche la necessità di annullare gli effetti disastrosi del governo precedente. Un atteggiamento punitivo potrebbe pensare solo all'abrogazione delle sue leggi, ma uno spirito riformatore deve soprattutto indicare un suo punto di vista, una sua idea di società.

Giusto così, ma in Italia è impossibile ragionare sul destino della nostra società fingendo che essa si trovi ora in una condizione di vita normale. Basti pensare alla disparità di mezzi di cui dispongono maggioranza e opposizione in una qualsiasi campagna elettorale. Può darsi che il centrosinistra possa vincere, come nelle recenti amministrative, ma dovrà fare una fatica assai superiore a quella dell'avversario. Quindi è impossibile delineare una nostra idea di società senza porsi la necessità di cancellare l'anomalia italiana.

Bisogna prima di tutto ricostruire la salute istituzionale del paese. Sarà dunque necessario abrogare le leggi ad personam, come la Cirami sul legittimo sospetto e la Maccanico-Schifani sull'immunità-impunità, ma non è sufficiente. Occorre anche affermare principi fondativi. La nostra Costituzione assicura una precisa separazione dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario godono tutti di una reciproca indipendenza. Ma il governo e la maggioranza di centrodestra puntano a un predominio assoluto dell'esecutivo. Bisogna dunque battersi con tutti i mezzi leciti per la salvaguardia delle garanzie costituzionali. Su questo tornerò in fondo. Il potere politico deve essere separato dal controllo sui mezzi di comunicazione, perché non può avere il dominio sugli strumenti che concorrono alla formazione del potere politico stesso. Dunque chi ha la proprietà o il controllo di mezzi di comunicazione non può essere eletto, e viceversa. Principio integrativo è il pluralismo: bisogna garantire la maggiore varietà di opinioni e di voci, perciò si dovrà sciogliere il duopolio televisivo (oggi monopolio sostanziale) e stabilire il massimo di una rete a testa per gli operatori privati, in modo da garantire la maggiore pluralità possibile delle fonti. Si dovrà stabilire un tetto alla raccolta pubblicitaria delle reti televisive per lasciare alla carta stampata una quota significativa, molto superiore a quella attuale.

Un'idea di società promossa da un governo di centrosinistra dovrebbe essere basata sull'eguaglianza dei diritti, la prevalenza dell'interesse pubblico sul privato, la partecipazione dei cittadini.

Il principio egualitario non vuole l'appiattimento delle singolarità personali, cerca anzi il rafforzamento delle libertà individuali. Ma poiché gli individui non godono tutti delle stesse condizioni e opportunità, va delineato un accordo tra la libertà dal bisogno e la libertà di scelta. Occorre alleggerire gli individui dal peso spesso opprimente della disuguaglianza e fornire loro i mezzi materiali e intellettuali per realizzare i loro propositi e se possibile assecondare le loro vocazioni.

In tutti i settori essenziali per l'utilità collettiva (sopra a tutti gli altri il fisco, la scuola e la sanità) il criterio guida dev'essere il soddisfacimento dei bisogni pubblici. L'economicità è importante, ma a che cosa serve un ospedale in pareggio se non cura gli ammalati? Anche l'iniziativa privata in questo campo deve essere sottoposta all'utilità pubblica.

La partecipazione non può essere imposta per legge ma nemmeno negata di fatto. La separazione tra rappresentati e rappresentanti può produrre un vero e proprio deficit di democrazia. Ma il protagonismo civile può introdurre elementi di conflitto positivo e fronteggiare la tendenza all'autoriproduzione del ceto politico.

Che fare nel concreto di questi principi? Ricostruire lo stato sociale. È necessario prima di tutto basare di nuovo il fisco sulla progressività dell'imposizione. Nessuno è autore da solo delle proprie fortune ed è giusto che chi ha di più restituisca alla società una parte di ciò che la società gli ha permesso di accumulare. Individuare l'evasione e l'elusione fiscale incoraggiate fino all'impensabile dai condoni governativi.

Rifondare la scuola pubblica, impoverita a vantaggio della privata. Scuola dell'obbligo fino alle superiori senza distinzione tra avviamento al lavoro e destinazione allo studio. Classi meno affollate, mai al di sopra dei venti alunni (oggi possono superare i trenta). Non impartire competenze tecniche presto invecchiate ma rafforzare l'apprendimento critico.

Ricostruire la sanità pubblica sconciata a favore di quella privata (per sapere basta parlare con i medici ospedalieri).

Rafforzare la normativa antitrust e salvaguardare la concorrenza, che esiste solo nei manuali della Bocconi, e nei settori più importanti è sostituita da cartelli oligopolistici. L'unica concorrenza ricercata in Italia (tramite la legge 30) è quella tra lavoratori costretti a misurarsi ognuno da solo con la classe degli imprenditori. Quindi sostituire la legge 30 con un dispositivo che permetta ai lavoratori di contrattare il prezzo e le condizioni normative del proprio impiego.

Proteggere i risparmiatori dagli specialisti del falso in bilancio.

Sostituire la Bossi-Fini con una legge degna di un paese civile.

Dedicare risorse ingenti alla ricerca scientifica e alla salvaguardia dell'ambiente, sottoposto dalle leggi del centrodestra a processi di crescente dissipazione. Favorire l'impiego delle fonti energetiche rinnovabili. Abrogare la Patrimonio Spa e tutto il suo melmoso corredo di vendite a basso prezzo al peggior offerente.

Risanare il bilancio dissestato dal centrodestra e rilanciare l'economia con misure a favore dell'equità sociale. Sostituire la legge sulla procreazione assistita con una affine ai principi laici della legislazione europea. Distinguere con fermezza la lotta al terrorismo dall'esercizio della guerra preventiva ai popoli e alle nazioni.

Ma gli esercizi di riformismo possibile debbono essere inscritti nel quadro della difesa più rigorosa della Costituzione. Se alla classe di governo più cialtrona di tutta la storia repubblicana permettiamo di smantellare la nostra Carta fondamentale, tutti i possibili buoni propositi sono destinati a svanire.

Prepariamoci quindi a una ripresa d'iniziativa di massa nel prossimo autunno. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare il referendum confermativo. Bisogna muoverci subito.

altri articoli sul programma della sinistra nella cartella Scritti su cui riflettere

L´Italia in rovina aspettando Godot

Il futuro di B. non dipene né da Fini né da Follini, ma dal centro sinistra: questa la conclusione della consueta analisi domenicale, su la Repubblica del 18 luglio 2004

UN GOVERNICCHIO balneare. I nodi veri si ripresenteranno a settembre, sotto l´incalzare non sopito della guerriglia ormai cronicizzata all´interno del Casino delle Libertà. Dunque - questo è il giudizio quasi unanime degli osservatori più equanimi - Berlusconi ha perduto su tutta la linea.

Non sono interamente d´accordo con questo verdetto, formulato da chi guarda i fatti dal punto di vista degli interessi del Paese. Silvio Berlusconi se ne infischia platealmente degli interessi generali. Non sono pane per i suoi denti. Lui è formidabile nel realizzare i suoi interessi personali e, sulla scia, quelli del suo gruppo che costituisce la truppa scelta, la corte pretoria per attaccare i nemici e difendere l´incolumità e il potere del padrone. Se guardiamo le cose da questo punto di vista Berlusconi ha vinto anche questa battaglia. Certo non ha vinto la guerra, ma la guerra, quella del potere, non la vince mai nessuno nel senso che il potere è sempre a rischio.

Non la vinse neppure Cesare quella battaglia, né Napoleone. E vi consolate sostenendo che non l´ha vinta neppure il Cavaliere della Fininvest? Gli osservatori hanno calcolato che la lotta dei suoi alleati contro di lui dura da 450 giorni, un anno e mezzo. E che cosa hanno ottenuto? Niente, assolutamente niente.

Volevano fargli cambiare politica. Non ci sono riusciti. Volevano contare di più nella coalizione e nel governo. Non ci sono riusciti. Volevano che la sua monarchia finisse. Non ci sono riusciti. Alla fin fine volevano almeno conquistare qualche poltrona in più, ma non sono riusciti neanche a ottenere questo modesto e alquanto avvilente risultato. Niente di niente, salvo il licenziamento di Tremonti e la sua sostituzione con il suo vice. Un tecnico, come Tremonti. Un creativo, come Tremonti. Uno con amicizie a destra e a sinistra, come Tremonti. Con antiche simpatie socialiste, come Tremonti. Copia conforme. Il potere di Tremonti era molto cresciuto negli ultimi mesi. Si può perfino pensare che cominciasse a dare ombra al suo capo. Si può pensare che licenziarlo sia stata per lui una liberazione; ma il punto comunque non è questo.

Il punto è che Siniscalco, a differenza di Tremonti, non ha alleati politici alle sue spalle. Ha soltanto la sua coscienza di "civil servant".

Basterà? Basterà a impedirgli di seguire il padrone se gli chiedesse di portare fino il fondo il disastro finanziario già arrivato a così buon punto? Forse Siniscalco a quel punto punterebbe i piedi; ma prima d´arrivarci farà di tutto per compiacere il padrone. Il quale dal canto suo non vuole affatto il disastro. Vuole, semplicemente, che il risanamento finanziario non gli costi la perdita del potere e quindi che non avvenga a spese del blocco sociale che ha in lui il suo punto di riferimento e di rappresentanza. Anche quando recita barzellette e fa le corna. Anche quando evade il fisco. Anche quando difende e allarga un gigantesco conflitto d´interessi che «ce lo invidiano perfino all´estero». Anche quando considera le istituzioni come cosa propria. Anche quando insulta e mette la mordacchia ai giudici.

Il peso di questo blocco sociale si va restringendo, per fortuna. Se si andasse a votare oggi, Berlusconi perderebbe? Forse sì. Tra due anni? E chi può saperlo. Dipende dallo schieramento avversario. Dipende dalla congiuntura economica. Dipende perfino da Bush perché Bush è una carta molto importante nel suo gioco.

Perciò attenzione. Chi pensa che Silvio Banana, come lo chiama il nostro Altan, sia liquidato commette un madornale errore e il risveglio potrebbe esser molto amaro. Non è con il ridicolo né con il buongusto né con gli insulti, né col terzismo che sarà liquidato.

* * *

Nel frattempo Bossi è tentato di scegliere Strasburgo per lasciare Roma ladrona. Sarebbe un colpo di immagine mica da poco. Contro Berlusconi? Direi proprio di no. Il premier potrebbe metterlo sul conto di Fini e soprattutto di Follini che hanno voluto il licenziamento di Tremonti e vogliono ridimensionare il federalismo.

Bossi non può più fare il ministro e questo è chiaro. La scelta di Strasburgo gli consentirebbe di uscire in avanti: direbbe che è il primo segnale per difendere la devolution insidiata dagli ex alleati, cui potrebbe seguire il disimpegno della Lega. Se questo accadesse, Berlusconi potrebbe usare a fondo questo argomento. Fini farà la sfinge come sempre. Il cerino tornerà a Follini.

Questa storia del cerino è degna di qualche attenzione. Di solito serve per impedire a se stessi di essere coerenti con le proprie idee. Stai sostenendo le tue idee, appunto, e ad un certo momento ti accorgi che ti stai bruciando le dita col cerino e lo passi con destrezza in altre mani, cioè rinunci a seguire le tue idee e te ne liberi. Questo è, ridotto all´osso, il gioco del cerino.

Se ridimensioni il federalismo sbracato e secessionista di Bossi puoi provocare la crisi di governo. Vai avanti o ti liberi del cerino? Lo sapremo tra poco. Certo Follini è un osso duro ma per battaglie a lungo termine. A lunghissimo termine. Per quelle a breve finora, dopo i primi scontri, batte la ritirata. Ha fatto così anche questa volta. Aveva chiesto a Berlusconi alcune cose piuttosto indigeste: svolta nella politica economica, ridimensionamento del federalismo, pluralismo alla Rai. Se non le avesse ottenute l´Udc avrebbe votato il 16 luglio l´uscita dal governo. Ma il cerino di quell´uscita ha cominciato a bruciare, così di far dimettere Buttiglione e Giovanardi più i sottosegretari siciliani non se ne è più parlato. Anzi si è parlato del contrario e cioè d´un maggiore coinvolgimento dell´Udc nel governo (che poi non c´è stato perché Berlusconi ha ripassato il cerino).

La sola risposta di Follini al "niet"» politico di Berlusconi è stata la sua indisponibilità ad entrare nel Ministero. Per alimentare la guerriglia? Per aprirsi un credito esigibile a lungo termine?

* * *

Propendo per questa tesi. Follini non andrà mai nel centrosinistra. A fare che cosa? Follini vuole trasformare il Casino delle libertà in una Casa dei moderati dalla quale affrontare il riformismo progressista.

E´ un bel disegno. E´ anche il disegno di Casini. Di gran parte dell´establishment. Perfino di Prodi e di tutti quelli che sognano un paese normale. Un paese europeo ed europeista.

Follini vuole entrare in possesso della sua dote: i moderati che si sono accasati in Forza Italia e che a sinistra non ci andranno mai ma che vorrebbero semmai avere una stampella dalla sinistra o da una parte di essa.

Perciò Follini non rompe. Vorrebbe la proporzionale pura e semplice per meglio ereditare la sua dote. Ma non l´avrà mai. Avrà tutt´al più una proporzionale col premio e il vincolo di maggioranza. In quel caso si presenterebbe da solo rinunciando al premio? Nel migliore dei casi otterrebbe una quindicina di deputati, cioè niente.

Aspetta Godot, cioè la fine di Berlusconi per lenta consunzione, nel senso che prima o poi tutto finisce.

Intanto l´Italia va in rovina.

* * *

Il vero e il solo concreto appuntamento sarà la finanziaria del 2005.

Appuntamento per tutti: Berlusconi, Siniscalco, Follini, la Lega, Prodi, Fassino, Epifani, Montezemolo. E per il paese, la sua ripresa, il suo declino, il suo ruolo in Europa. Non tempi lunghi ma cortissimi.

I termini del problema sono chiari. I conti viaggiano al 4,5 di rapporto deficit/Pil, ben al di là della soglia europea del 3 per cento. Per riportarli in linea, al netto delle «una tantum», ci vorranno 20 miliardi di euro. Per finanziare la riforma fiscale di Berlusconi ce ne vogliono un´altra decina e fanno 30. Da quella riforma non sortirà alcuna sopravvenienza attiva prima del 2006, quando nell´ipotesi migliore potrà arrivare un sollievo di 3-4 miliardi.

Se arriva. Se la congiuntura internazionale favorevole sarà intercettata anche dall´Italia. Ma non è affatto detto che la congiuntura favorevole durerà. In Usa ci sono già segnali di infiacchimento. Il prezzo del petrolio è oltre i 40 dollari al barile.

Comunque, 30 miliardi. Ma con la spesa degli enti locali ridotta all´osso, i servizi sociali idem. E gli ammortizzatori sociali? Non se ne parla più ma solo per cominciare ci vorrebbero altri 7 miliardi. E il gettito delle entrate in calo. Senza «una tantum» un´altra decina di miliardi. Scala quaranta. Ecco il vero costo della Finanziaria 2005.

Almeno Siniscalco queste cose le sa. Sa anche che il fabbisogno gonfierà il debito pubblico e lo porterà verso il 108 per cento del Pil. Sa che l´Europa non starà certo a guardare e le agenzie di rating neppure. Altre una tantum? Altro appello alle banche affinché anticipino l´aria fritta?

* * *

La sinistra è un elemento essenziale di questo rebus. Deve smetterla di fidare negli errori dell´avversario e di sperare nel compagno Follini o nella sfinge Fini. Sul campo di Waterloo doveva arrivare il generale Grouchy e Napoleone avrebbe vinto, ma arrivò invece il generale Blücher e vinse Wellington. Non ripetete l´errore.

Fate un programma concreto. Non una filosofia. Un programma, tre-quattro punti decisivi per riportare in linea la nave Italia.

Fate questo e basterà almeno per ora. Ma fatelo, perdinci. Siete l´ultima ciambella di questo paese, ma se è una ciambella senza il buco non servirà a un accidenti.

Ci scusiamo con i lettori se parliamo ancora di Berlusconi. Ma, come vedete, lo dice lui stesso: «Abbiamo perso voti perché il capo del governo (lui parla sempre di sé in terza persona, senza ridere) è stato bersaglio di tutti gli attacchi e di tutte le aggressioni dell’opposizione e dei suoi media».

Berlusconi pone due problemi delicati a chi deve interpretare questa frase. Il primo è: di chi altro si dovrebbe parlare, visto che lui, Berlusconi attribuisce tutto a se stesso, compreso il blitz mai avvenuto per liberare gli ostaggi che attendevano in una stanza, con la porta aperta, come ci ha fatto vedere il filmato inviato dagli americani?

L’altro problema è: chi saranno i media dell’opposizione?

Sembra di intravedere il gesto che indica con realismo una flotta potente e bene armata. Vuole che i cittadini si rendano conto che lui, il leader Berlusconi, ha resistito bene all’assalto e va apprezzato perché quell’assalto era incontenibile e avrebbe piegato chiunque non fosse un gigante.

Spiace deludere Berlusconi e i suoi Bondi, e anche coloro che ti dicono che «tutto sommato Berlusconi ha tenuto». Ma è giusto dire che quella flotta siamo noi, il giornale che avete comprato e che state leggendo, noi contro tutta la Rai, contro tutta Mediaset, contro quella parte della editoria italiana che ogni volta che prova ad essere più libera perde un direttore, o riceve pesanti ammonimenti. E anche quando tenta di salvare il proprio decoro, ha a bordo agenti di governo detti opinionisti che rappresentano rigorosamente il governo e le spiegazioni e i “retroscena” che il governo desidera.

Sì, certo, non possiamo prenderci tutto il merito del diploma appena ricevuto dal presidente del Consiglio. Ci sono in campo, a sinistra in questa lotta politica, il Manifesto, Liberazione. C’è , unico fra i quotidiani detti “indipendenti”, la Repubblica , che resta un grande quotidiano europeo.

Ma noi siamo il “giornale strillato” verso il quale si è voltata con un po’ di sdegno anche qualche voce della sinistra che raccomandava i toni bassi. Li raccomandava in un Paese stretto nella presa mediatica di Bondi, di Cicchitto, di Schifani, di Vito, di La Russa, di Gasparri, con Previti e Taormina come supporto. Un Paese in cui Berlusconi ha aperto il ciclo di vita politica che stiamo vivendo con questo annuncio al Paese: «se vincono loro (la sinistra) gli italiani non voteranno mai più».

È l’annuncio di una battaglia senza quartiere contro nemici (la sinistra) che minacciano la libertà del Paese.

Noi non sappiamo dove sia nata la persuasione secondo cui dire con precisione, con chiarezza, con la dovuta reiterazione, il pericolo rappresentato da Berlusconi, dal suo conflitto di interessi, dalle sue pulsioni liberticide («Datemi il 51 per cento, e risolvo tutto. Con me stesso mi serve pochissimo tempo per discutere») sia “demonizzazione”.

L’argomento è caro a Sandro Bondi, uno che, sorpreso dall’ingresso di Berlusconi in una sala in cui stava parlando, si è rivolto al suo capo dicendo: «Scusi se parlo in sua presenza» (testimonianza di Vittorio Sgarbi all’ Unità). Ma perché avrebbe dovuto diventare un dibattito da sinistra, una accusa contro questo giornale?

Qualcuno ha mai accusato Robert Kennedy di demonizzare il presidente Johnson quando i due si contrapponevano sulla guerra in Vietnam, Kennedy denunciava quella guerra, e gli chiedeva ogni giorno quanti bambini aveva fatto morire?

L’argomento dei “toni bassi” veniva presentato così: smettetela di parlare di Berlusconi. Non si deve essere ossessionati da lui. Ci sono tanti altri argomenti che interessano gli italiani. È vero. Ma lui, Berlusconi, si è messo al centro di ogni argomento, vuole apparire l’organizzatore e anzi l’ideatore di tutto, viene trattato dai suoi colleghi di partito non come un leader democratico ma come un autocrate assoluto a cui si deve sempre dare ragione. E lui esige di avere ragione al punto di rifiutare ogni dibattito e incontro con chi potrebbe tentare di dargli torto.

È l’unico capo di governo in Europa che intende farsi rieleggere senza dibattito. Anzi, dichiara di voler cambiare la legge elettorale prima di andare al nuovo voto.

Esige di avere ragione al punto da apparire dovunque, in televisione e nei telegiornali, nelle trasmissioni minori e in quelle organizzate apposta per lui. E quando lui non c’è, i suoi sostenitori, che si comportano - lo sanno e lo possono testimoniare tutti i telespettatori italiani - come dipendenti di una azienda in cui non si sgarra, impediscono di parlare se si esprimono giudizi negativi su di lui o ci si discosta dalla scaletta di finta discussione che il finto conduttore, e leale sostenitore del capo, ha preparato.

Ci hanno detto che con la nostra ossessione di Berlusconi avremmo allontanato i moderati.

Adesso Berlusconi ha perso settecentomila preferenze e quattro milioni di voti, tutti moderati, si deve immaginare. E dice ad alta voce e solennemente che siamo stati noi. È evidente che molti, che lo avevano votato hanno soppesato il pro (tutti i canali tv, tutte le radio, gran parte dei giornali e la straordinaria e magistralmente diretta liberazione degli ostaggi) e il contro (giornali liberi e soli che non hanno mai smesso di parlare del conflitto di interessi anche a costo di restare senza pubblicità) e hanno detto: basta.

Adesso Berlusconi ci dà, sul campo, il riconoscimento, mentre altri ci hanno sgridato e inseguito con l’ammonizione a star buoni.

Per fortuna “star buoni” non è la vocazione di un giornale di opposizione (e forse di nessun giornale come dimostra il New York Times, che l’altro ieri ha ingiunto al presidente Bush di chiedere scusa al popolo americano per avere mentito in tutto sulle ragioni della guerra in Iraq).

La situazione italiana, comunque, era troppo grave per tacere. Il conflitto di interessi è una vergogna agli occhi del mondo, le leggi scansa processo sono una offesa al buon senso prima ancora che al diritto, la devastazione della Costituzione, i condoni, le leggi barbare e inapplicabili come la Bossi Fini sugli immigrati, e la legge Fini sugli spinelli dei ragazzi da incarcerare, sono una vasta distruzione della legalità.

Bisognava essere molto distratti, o molto assenti, per non essere ossessionati da Berlusconi, in questi quasi tre anni di rovinoso governo.

Quanto alle elezioni del 12-13 giugno, abbiamo vinto bene o solo così così? Abbiamo segnato l’inizio di un cambiamento o solo imposto una sosta al dilagare di Berlusconi?

Certo, a sinistra i Ds hanno ragione di essere orgogliosi, con una catena di vittorie nella conquista o riconquista delle città che fanno luce anche sul peso dei Ds nelle elezioni europee.

Certo, le liste a sinistra dei Ds hanno segnato i loro punti, e Rifondazione comunista più di tutti. La lezione sembra chiara: in un voto e nell’altro, più l’immagine è netta e bene identificabile nella linea politica e in quella del valore che rappresenta (dunque non cauta, smussata e sussurrata, ma espressa ad alta voce, e visibile a distanza) e più ne resta traccia sulla scheda elettorale.

Una cosa va detta di queste due prove elettorali: gli elettori non si lasciano confondere dal pasticcio continuamente tentato fra istituzioni e politica, per esempio quel continuo parlare di sé come “Capo del governo” di Berlusconi che vuol farti credere che quando attacchi il candidato Berlusconi screditi colui che rappresenta l’Italia e dunque sei contro tutto il Paese (a lui piace l’idea, che però gli va stretta, di essere l’Italia).

Gli elettori rispettano le istituzioni ma non le vogliono tirare in ballo, né permettere che vengano usate come una coperta, quando si deve discutere di una linea politica ed eventualmente bocciarla. Rispettano e ammirano le Forze Armate ma non le vogliono confondere con chi prende azzardate decisioni politiche internazionali, andando a cacciarsi nel momento sbagliato, nel tempo sbagliato, nella guerra sbagliata.

Gli elettori, a quanto pare, non apprezzano che chi prende simili decisioni corra poi a rifugiarsi dietro le Forze Armate sostenendo che chi critica la loro politica è nemico dei soldati. Sanno che dire “riforme” non è pronunciare una parola magica che qualifica come buoni e bravi coloro che ci lavorano.

Le riforme possono essere pessime e devastanti (come la legge giudiziaria del ministro Castelli), possono essere ad personam (come la legge che esenta il solo Berlusconi da ogni responsabilità giudiziaria), possono essere voto di scambio (la cosidetta devolution). O semplicemente indecenti, come la legge sulla procreazione assistita.

C’è chi continuerà a dire che i consensi si raccolgono al centro. Ma in queste elezioni (si vedano i risultati nelle città) è la parte più fortemente identificata dello schieramento che ha attratto il maggior numero di voti. E infatti decenni di esperienza nei Paesi a sistema maggioritario ti dicono che il fattore decisivo non è il centro ma la nitidezza e la vitalità delle parti che si confrontano. Si veda il caso dello sconosciuto Bill Clinton contro il peso elettorale ed economico di George Bush padre: vince colui che è più risoluto e più vivo.

Il centro abbandona il centro quando sente che il centro è vuoto. Quando si rende conto che aree di vitalità e di fatti nuovi si stanno creando altrove.

Ossessione di Berlusconi? È semplice realismo. Il PresDelCons aveva appena tentato di apparire l’autore di una operazione militare che non era mai avvenuta, aveva inondato di messaggi impropri i telefonino degli italiani, aveva tenuto un comizio politico mentre i seggi erano aperti, violando una legge elettorale che non era stata mai violata nei primi quarant’anni di democrazia italiana, aveva annunciato una grande vittoria, molto sopra il 25 per cento, e accusato i suoi avversari di «avere toccato il massimo della cialtroneria».

Il problema non è rispondergli con lo stesso linguaggio, agire nello stesso modo, adottare la stessa volgarità. Piuttosto è far notare ciò che è accaduto e mostrarne l’assurdità, l’illegalità, il ridicolo. I risultati ottenuti suggeriscono di non smettere proprio adesso

Lasciare l´Iraq per salvare l´Occidente

È UNA tragedia dell´Occidente, quella che va in scena nelle prigioni dell´Iraq e rimbalza come un atto d´accusa nei siti Internet e nelle televisioni in ogni angolo di deserto e in ogni città araba. Quei corpi torturati, ammucchiati, trascinati al guinzaglio e scherniti sono di soldati musulmani: umiliati nella loro impotenza, degradati a irrisione sessuale dei loro codici culturali, profanati in simboli rovesciati delle loro credenze, trasmettono nel loro mondo un´idea terribile del nostro concetto di vittoria e della moralità del nostro potere tecnologico, militare, politico. A noi, al nostro mondo, chiedono ancora una volta, semplicemente, "se questo è un uomo".

Siamo nuovamente protagonisti di un sopruso sul singolo uomo che va al di là della guerra e che nessuna guerra giustifica. Tutto questo, da parte non solo del più grande esercito della terra e dell´unica superpotenza egemone dopo gli anni della guerra fredda. Ma in nome dell´Occidente e dei suoi valori, della democrazia, del diritto, del nostro ordine mondiale. Cioè di tutto ciò che noi siamo, di ciò in cui crediamo.

Non ha molta importanza, a questo punto, sapere se il Pentagono ha ordinato ai suoi soldati di superare ogni limite e ogni codice nei confronti dei prigionieri di Abu Ghraib, o se la violenza è insieme sistematica e "spontanea", dunque legittimata di fatto da un clima e da un metodo di conduzione della guerra. È importante per la giustizia e per la politica. Ma dal punto di vista della moralità pubblica, tutto è già perduto nel fondo di quella prigione, nei flash di quelle fotografie, nell´uso privato di quella tragedia pubblica che adesso tutto il mondo conosce. E anche se c´è stato ritardo, reticenza e imbarazzo (compresa l´Italia, purtroppo) nel denunciare la gravità della tortura, oggi è chiaro che niente è più come prima.

La moralità stessa dell´Occidente è sotto accusa, la sua cultura e i suoi valori. Dunque la sua anima. Per salvarla, non bastano le scuse e non basta nemmeno il sacrificio rituale di Rumsfeld chiesto tre giorni fa dal New York Times. Occorre un´assunzione di responsabilità, per ripetere ancora una volta ciò che diciamo dall´11 settembre: la democrazia ha il diritto-dovere di difendersi, colpendo (per paradosso anche preventivamente) chi minaccia la sua stessa sopravvivenza.

MA - ecco il punto - può farlo solo a patto di restare se stessa, di rimanere dentro le regole che si è data, di sottomettersi ai valori e ai princìpi in cui crede, di confermare la sua identità distintiva.

In Iraq si è superato questo limite, estremo perché snaturante. È infatti il confine oltre il quale la democrazia incomincia a dubitare di se stessa, perché deve nascondere atti e comportamenti di cui si vergogna, e incomincia pericolosamente ad assomigliare in qualche angolo d´ombra al ritratto demoniaco che ne fanno i suoi nemici.

Ecco perché l´Italia oggi deve sentire il dovere di non restare in Iraq.

Deve andarsene, e per l´opposto di una fuga, di un ripiegamento, di una rottura di solidarietà occidentale. Anzi. Si impone un´assunzione di responsabilità, che separi la politica proprio in nome di una comunanza di valori e di cultura, che noi chiamiamo Occidente. Solo così si può far capire all´amministrazione americana, e anche a quell´opinione pubblica, che c´è un modo diverso di dirsi occidentali, che certe pratiche segnano una rottura, che l´Occidente non è mai stato un sistema di deleghe, e che certo non può esserlo per l´ordine di scatenare l´inferno ad Abu Ghraib.

La guerra era sbagliata, perché mancavano sia le armi di distruzione di massa, sia i legami operativi tra Saddam e Bin Laden, cioè le due pseudoragioni del conflitto. Era illegittima perché fuori dalla legalità internazionale, atto fondativo dell´unilateralismo libero e autonomo della superpotenza egemone. Era un errore anche politico perché spaccava l´Europa tra vecchia e nuova e rompeva la lunga alleanza novecentesca tra i due continenti. L´invio italiano di truppe a guerra che si pensava finita era un piccolo, grave gesto che mescolava titanismo e dilettantismo, velleitarismo e ideologismo, nella speranza ridicola di accreditare Berlusconi come miglior amico di Bush e la sua Italia come piccola potenza solitaria e gregaria in Europa.

Tutto questo è andato in frantumi, nella guerra che oggi si è riaccesa a Bassora e Nassiriya, ma prima e soprattutto nel buio del carcere delle torture.

Sono saltate, dopo quel che si è conosciuto, le regole d´ingaggio di una missione che ha promesso al Parlamento di voler "aiutare il popolo iracheno, garantendo la sua sicurezza". Oggi l´Italia deve sentire la responsabilità di rientrare: in Europa innanzitutto, per testimoniare nell´amicizia con gli Usa gli errori di Bush e la nostra concezione del diritto e della legalità internazionale. Solo da qui, da un rinnovato patto occidentale di regole e valori condivisi, può nascere una strategia utile per il dopoguerra iracheno e per la pace in Medio Oriente. Ma soprattutto questo è l´unico modo per salvare l´anima dell´Occidente, perduta nell´orrore di Abu Ghraib.

Così il presidente George Bush straccia il piano di pace israelo-palestinese e tutto va bene. Insediamenti israeliani per gli ebrei e solo per gli ebrei in Cisgiordania. Tutto bene. Si strappa ai palestinesi la terra che hanno posseduto per generazioni; tutto bene. La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dice che di quella terra non ci si può impadronire a seguito di una guerra. Lasciamo perdere. Tutto bene. Per caso il presidente George Bush lavora per Al Qaeda? Che vorrebbe dire? Che a George Bush sta più a cuore la sua rielezione che il Medio Oriente? O che George Bush ha più paura della lobby ebraica che del suo elettorato?

Il suo linguaggio, la sua vulgata, i suoi discorsi sulla storia sono stati una tale menzogna nelle ultime tre settimane che mi chiedo per quale ragione ci prendiamo la briga di ascoltare le sue noiose conferenze stampa. Ariel Sharon, responsabile del massacro di Sabra e Chatila (1.700 civili palestinesi morti) è un “uomo di pace”.

Un “uomo di pace” anche se il rapporto ufficiale israeliano del 1993 sul massacro lo indicava come “personalmente responsabile” dell’accaduto. Ora Bush loda come “un atto storico e coraggioso” il piano di Sharon di rubare altra terra ai palestinesi.

Che Dio ci aiuti! Basta abbandonare gli sparuti insediamenti ebrei illegali a Gaza e tutto va bene: il furto di terre ad opera dei coloni, il rifiuto del diritto di fare ritorno in Israele per i palestinesi che abitano lì: tutto bene. Bush, che affermava di aver cambiato il Medio Oriente invadendo l’Iraq, ora afferma che invadendo l’Iraq sta cambiando il mondo! Tutto bene! Non c’è nessuno pronto a gridare “Fermi! Ne abbiamo abbastanza!”?

Due sere fa quest’uomo pericolosissimo, George Bush, ha parlato di “libertà in Iraq”. Non di “democrazia” in Iraq. No, alla “democrazia” non ha nemmeno accennato. La “democrazia” è ormai semplicemente fuori dall’equazione. Ora si parla solo di libertà – libertà da Saddam piuttosto che libertà di avere le elezioni. E cosa dovrebbe comportare questa “libertà”? Un gruppo di iracheni nominati dagli americani cederà il potere ad un altro gruppo di iracheni nominati dagli americani. Questa sarà la “storica cessione della sovranita’” irachena. Ebbene sì, non mi riesce difficile capire perché George Bush vuole assistere ad una “cessione” di sovranità. I “nostri ragazzi” debbono essere tolti dalla linea del fuoco – che siano gli iracheni a fare da sacchetti di sabbia.

La storia irachena è già stata scritta. A titolo di vendetta per il brutale assassinio di quattro mercenari americani – perché questo di fatto erano - i Marines americani si sono resi responsabili del massacro di centinaia di donne, bambini e guerriglieri nella città sunnita di Falluja. I militari americani sostengono che la maggior parte dei morti erano militanti. Non è vero, replicano i medici. Ma le centinaia di morti, molti dei quali civili, sono stati un vergognoso riflesso sulla marmaglia della soldatesca americana che ha condotto questi attacchi indisciplinati contro Falluja. Molti sunniti di Baghdad dicono che Falluja dovrebbe essere la capitale del “Nuovo Iraq”, nuovo, naturalmente, secondo la versione irachena non secondo quella di Paul Bremer.

E il risultato? Grazie al presidente Bush, vaste zone della Cisgiordania palestinese diventeranno Israele. Terre che appartengono a persone non israeliane debbono essere rubate dagli israeliani perché è “irrealistico” accettare una soluzione diversa. Bush è per caso un ladro? È un criminale? Può essere accusato di complicità in un atto criminale? L’Iraq può dire al Kuwait che è “irrealistico” modificare i confini Ottomani? Un tempo la terra di Palestina abbracciava tutto l’attuale territorio israeliano. È apparentemente “realistico” modificare tutto questo sia pure nella misura del due per cento? Tutto quello che il governo degli Usa ha fatto per conservare la sua reputazione di “mediatore” in Medio Oriente è stato vanificato da questo codardo, vigliacco presidente americano, George W. Bush. Il fatto che potrebbero aumentare i rischi per i suoi soldati non lo preoccupa – in ogni caso lui non partecipa ai funerali. Il fatto di violare il diritto naturale non lo preoccupa. Il fatto che le sue dichiarazioni siano in palese violazione del diritto internazionale non ha alcuna conseguenza.

E tuttavia dobbiamo continuare ad andare al traino di quest’uomo. Se veniamo colpiti da Al Qaeda è colpa nostra. E se il 90% della popolazione spagnola ha chiaramente indicato di essere contraria alla guerra, vuol dire che sono filo-terroristi nel momento in cui piangono 200 civili spagnoli uccisi da Al Qaeda. Gli spagnoli prima hanno condannato la guerra, poi ne hanno dovuto subire le conseguenze – ed infine sono condannati come colpevoli di “appeasement” con il terrorismo dal regime di Bush e dai suoi vigliacchi giornalisti nel momento in cui dicono che i loro mariti, le loro mogli, i loro figli non meritavano di morire.

Se questo deve essere il loro destino allora, scusatemi, vorrei avere un passaporto spagnolo per poter condividere la “vigliaccheria” del popolo spagnolo! Se Sharon è “storico” e “coraggioso”, allora gli assassini di Hamas e della Jihad islamica potranno rivendicare il medesimo riconoscimento. Bush questa settimana ha legittimato il “terrorismo” – e chiunque dovesse perdere un arto o la vita può ringraziarlo per la sua inclinazione alla vigliaccheria. E temo che possano ringraziare anche Blair per la sua vigliaccheria.

© The Independent

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

“Don't cut Medicare for Bombs and Missiles, non tagliate la Sanità pubblica per pagare bombe e missili. Era uno degli striscioni più in voga durante le manifestazioni contro la guerra, particolarmente affollate in California…. Ai primi di settembre 2003, quando il presidente Bush ha avvisato il paese che gli servivano altri 87 miliardi di dollari per mantenere l'ordine e ricostruire le infrastrutture devastate dalla guerra contro Saddam, molti californiani hanno pensato alle loro scuole a corto di fondi, alle ferrovie a pezzi, alla rete elettrica decrepita, e si sono detti: forse sarebbe stato meglio se Bush avesse dichiarato guerra alla California ed avesse invaso noi”.

Federico Rampini, editorialista e corrispondente di “Repubblica” da S. Francisco, descrive le fragilità del paese più potente al mondo.

E descrive le angosce di milioni di americani in un bel libro “le paure dell'America” edito da Laterza. Il libro ha un duplice merito, si legge come un romanzo pur descrivendo situazioni e dati reali. Le insicurezze che dominano la vita quotidiana degli americani e le debolezze di un'economia che ha perso 3 milioni di posti lavoro accumulando un doppio deficit abissale dei conti pubblici e dei conti con l'estero, dall'ingresso di Bush alla Casa Bianca, sono infatti sempre documentate con evidenza statistica e riferimento alle fonti.

Per capire il cambiamento che l'America ha realizzato negli ultimi venti anni bisogna ripercorrere il cammino vittorioso dei neoconservatori americani in economia ed in politica. Per tutti questi le tasse sono una coercizione dello Stato e la Social Security è uno spreco di ricchezza, per cui entrambi sono da abolire. Il disastroso deficit pubblico, comune alle amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush, padre e figlio, è un modo per dissanguare lo Stato sociale. Il movimento dei neoconservatori americani in questo senso è stato rivoluzionario, perché ha ripudiato gran parte delle istituzioni su cui si fondava da oltre mezzo secolo, dal New Deal di Delano Roosvelt in poi, il patto sociale. Oggi il vecchio patto sociale non esiste più, con i sindacati ridotti al lumicino, la Sanità sempre più privata e prerogativa dei ricchi, la scuola sempre più costosa, l'etica dei Managers alla Enron sempre più piegata alla logica del profitto a breve non scevra da comportamenti illegali. Oggi le condizioni di lavoro sono sempre più precarie o flessibili come si dice da noi: le ferie godute dal lavoratore americano di medie e grandi aziende nel 2002 sono state mediamente di 9,5 giornate (dati Ministero del lavoro), la maternità pagata (paid maternity leave) privilegio solo del 2% delle lavoratrici madri, la Social Pension è all'incirca un terzo del salario, molti vecchi continuano a lavorare per non morire di fame, 50 milioni di americani sono senza protezione sanitaria perché non troppo poveri per il Medicare e non abbastanza "ricchi" da pagarsi una assicurazione privata.

La fine dall'America Dream, per cui ogni padre poteva lasciare il figlio in una posizione migliore, si ricava soprattutto dalla dimensione delle diseguaglianze crescenti. Nel trentennio 1970-2000 il salario medio reale è cresciuto solo del 10% mentre la ricchezza reale (Pil) cresceva quasi del 100%. Questo significa che il 90% degli aumenti di produttività sono andati al capitale e solo il 10% al lavoro. "Nello stesso periodo, la retribuzione media annua dei cento amministratori delegati più ricchi è passata da 1,3 milioni di dollari -39 volte il salario del lavoratore medio- a 37,5 milioni, cioè più di mille volte la paga del lavoratore medio".

Oltre l'attacco al Welfare e alla condizione dei lavoratori, il successo dei neoconservatori ha prodotto il declino della società civile. "Di che natura è la società civile in un paese dove vota solo il 38% dei cittadini, ed una percentuale ancora più bassa tra i giovani ed i meno abbienti?" Quest'analisi non viene da frange radicali ma da uno dei più autorevoli studiosi della società civile, Robert Putnam, che vi aggiunge un monito:le tendenze sociali e politiche di lungo periodo che nascono negli USA si trasmettono 10 o 20 anni dopo negli altri paesi industrializzati, Europa in testa. L'allarme di Putnam è in parte alleviato da un'altra considerazione, che Bush figlio alle ultime elezioni ha preso 500mila voti meno di Gore (che non era un fulmine di guerra). L'America non è solo quella di W Bush e dei neoconservatori, ma anche quella di milioni di cittadini che, con i Kerry e gli Edwards, i candidati democratici che hanno buone speranze di contrastare Bush alle prossime elezioni, sono sempre più apertamente critici verso politiche che stanno facendo dell'America all'interno, il paese tra i più difficili da vivere per la generalità dei suoi figli, all'estero il paese tra i più isolati al mondo. Infatti le paure dell'America di cui Rampini parla, non sono solo quelle dei suoi cittadini.

"Le paure dell'America possono sembrare poca cosa rispetto alle paure che l'America suscita negli altri".

L'antiamericanismo non è fenomeno recente post Afganistan e post Irak. Jean Paul Sartre quarant'anni fa, vedeva nell'America la patria del conformismo quando proprio lì, a cominciare dalla California, nasceva con prepotenza una società agitata dall'effervescenza della contestazione, della rimessa in discussione delle regole, di tutte le sue abitudini sociali e dei fondamenti stessi della cultura. Persino quando si addebitano agli USA due infami peccati originali come il genocidio degli indiani d'America e lo schiavismo, molti europei dimenticano che i primi responsabili di quei misfatti avevano ancora nazionalità inglese, francese, spagnola e portoghese. Ma l'antiamericanismo è arma usata regolarmente come clava di lotta politica. La destra americana accusa la sinistra di antiamericanismo dai tempi del senatore Mc Carthy negli anni 50 (la cui caccia alle spie comuniste infiltrate in tutti i settori della società, cinema compreso, avveniva sotto l'egida di una commissione d'inchiesta senatoriale "sulle attività antiamericane") fino ai giorni nostri, quando i neoconservatori accusano di tradimento Howard Dean, Ted Kennedy e tutti i critici sulla guerra in Iraq, persino l'attuale candidato democratico J. F.Kerry, che pur votò a favore al Senato ed oggi è molto critico sul dopoguerra. Se una morale può trarsi dal bel libro di Rampini è che l'americano medio oggi soffre per le politiche dei neoconservatori, che l'America ha gli anticorpi per ribaltare la situazione e che non vi è nulla di più antiamericano che cercare di soffocare il dissenso.

[Ecco] alcune tra le meravigliose schede di presentazione dei brani musicali del terzo anello.

Le schede sono così, non sono state modificate, quindi dovrete interpretare e tralasciare gli errori di battitura o ignoranza; le note sono degli Amici di Radio 3.

1) Berlioz, Beatrice et Benedict, ouverture.

L'ouverture, in stile opera-comique, scritta per la rappresentazione di tanto rumore per nulla "dii Shakespeare".

NOTA L'ouverture non può essere in stile opera-comique: caso mai, lo è l'opera (priva di recitativi e con i parlati). Non fu scritta per la rappresetnazione della commedia di Shakespeare, ma Berlioz (dal testo di Shakespeare) ricavò il libretto per una SUA opera-comique.

2) Berlioz, Adieu Bessy.

Da "Irlande" op. 2, composta tra il 1892 e il 1830.

NOTA Date insensate (tra l'altro, Berlioz morì nel 1869)

3) Bizet. Suite per orch. da "Jeux d'enfants".

Composta nel 1932... Un innocente galop, nitido e preciso, ispirato alla "musica per l'infanzia" di Fauré e Debussy.

NOTA Bizet è morto nel 1875. Debussy è nato nel 1862 e ha scritto "Children's Corner" nel 1908

4) Biber, Sonata Terza in Fa Mag per vl solo

Esecutori: John Holloway, Aloysia Assenbaum, Ulrik Lars Mortensen

NOTA Se è per violino solo, che suonano i tre musicisti citati?

5) Bernstein, Candide

Di difficile datazione

NOTA La data è il 1956 e, non trattandosi precisamente di musica antica, è abbastanza comico che non si sappia precisare la data di composizione.

6) Brahms, Sonata in La Mag n. 2 per vl e pf op. 100

Composta nel 1836

NOTA Brahms aveva tre anni

7) Brahms, Trio in Do Mag n. 2 per pf, vl e vcl op. 87

Composto tra il 1880 e il 1862

NOTA Modo curioso di datare la composizione. In realtà, fu scritto tra il 1880 e l'82.

8) Brahms, Trio in La min op. 114

Due commenti: 1) La scrittura di Brahms non riesce a creare un amalgama convincente; 2) Un Trio equilibratamente polifonico.

NOTA Si decidessero

9) Chopin, Sonata in Sol Min per vcl e pf.

Composta nel 1865

NOTA Chopin morì nel 1849

10) Milhaud, Catalogue des fleurs, 5 Liriche x voce e pf op. 60

Un ciclo di sette miniature per sette strumenti

NOTA Ma quante sono?

11) Mussorgsky, Quadri di un'esposizione - per pf La grande porta di Kiev Horowitz intarsia l'una dentro l'altra la versione pianistica di Mussorgsky e la versione orchestrale di Ravel e "crea" una pagina perfettamente funzionale al proprio sfrenato, eccessivo, esorbitante virtuosismo esecutivo.

NOTA Non è chiaro in che modo Horowitz possa intarsiare la versione orchestrale dato che è l'unico esecutore del pezzo. Altrettanto, non è chiaro perché il suo virtuosismo sia considerato eccessivo. Si vuol dire che era troppo bravo da un punto di vista tecnico? O che il pezzo di Musorgsky non richiede un eccessivo talento virtuosistico? Boh!

12) Shistakovitch, The panorama of Paris

Tema di valzer in souplesse non rpivo di una tenera ironia (e scusate l'ossimoro)

NOTA Ciò che non viene scusata è la totale assenza di senso logico.

13) Haendel, Suite in Mi Mag n. 5 per cemb, Aria e variazioni

Dalla Suite per clavicembalo in La Mag n. 2

NOTA Non è chiaro di quale Suite si tratti.

14) Bizet, Sinfonia in Do Mag

Composta nel 1885

NOTA Bizet morì nel 1875

15) Mercadante, Concerto in Mi Mag per fl e orch

Il flauto ha un ruolo molto "cantato"

NOTA Cioè?

16) Poulenc, Le Chemin de l'amour

1998. Valser caressante

NOTA Poulenc è morto nel 1963. Sfugge la lingua del commento

17) Rossini, L'italiana in Algeri, Quanta roba! Quanti schiavi! / Cruda sorte!

Cavatina di Isabella, dama italiana nel coro precedente

NOTA Ci si chiede che cosa sia diventata Isabella dopo il coro precedente.

18) Augustin Bardi, Gallo Ciego

Un innovativo pianista argentino nato nel 1916.

NOTA In realtà, nato nel 1884 e morto nel 1941.

19) Pachelbel, Canone

Eseguito secondo la partitura orchestrale originale.

NOTA L'originale è per tre violini e basso continuo.

20) Mozart, Concerto in Sib Mag per pf e orch K39

Mozart usa temi da Schubert.

NOTA Schubert è nato nel 1797, sei anni dopo la morte di Mozart.

Nell´iconografia tardomedievale una nave dei matti scioglie le vele al vento. Tale l´Italia berlusconiana. Basta dire i nudi fatti e viene fuori una versione italiana delle arringhe contro Filippo il Barbaro (Demostene, Atene 349-340 a.C.): l´aspetto originale sta nell´impasto d´ilare e macabro; cose da ridere se fosse una pantomima, ma è reality show dove un paese tira le cuoia. Nel salotto televisivo l´affarista conquistatore mugolava meraviglie cum figuris: imposte lievi, al diavolo l´austerità, opere pubbliche quali non sognavano i Faraoni, difendere i deboli, largo ai giovani; ciarle da fiera. Il destino baro vuole che 3 italiani su 10 le bevano: seguono 38 mesi d´inedia; aspettavano vacche grasse, le vedono fameliche, pell´e ossa. L´unico che s´arricchisca ancora, vertiginosamente, è lui, signore dell´illusione televisiva. Le urne lo puniscono. Due alleati su tre, usciti più o meno bene dalla prova, gli saltano addosso intavolando l´odiosa questione del debito pubblico. Venerdì 2 luglio presenta sul piatto la testa del Gran Visir d´economia virtuale; i soliti cantori intonano salmi: viva il nuovo corso aperto al pensiero collegiale. Domenica 4 riesplode l´egomania: prende lui il ministero vacante, un mostro a 5 teste; lo terrà fino a quando abbia riassestato i conti tagliando le imposte, due obiettivi assai poco compatibili. Nella nuova veste l´indomani vola a Parigi, annuncia che raschierà 7.5 miliardi, ottiene l´ovvio rinvio dell´early warning e torna vincitore, applaudito dai musicanti. Lunedì batte il pugno sul tavolo quando uno dei due alleati obliqui, mite democristiano in servizio permanente effettivo, ventila l´uscita dal governo: un ultimatum?; attento, così perde mezzo partito (id est, lui se lo compra). Ventiquattr´ore dopo appare remissivo: starà solo qualche giorno al ministero Moloch; ma l´ira traspare dalla minaccia d´andare alle urne sterminando i ribelli; e convoca un summit non stop da domenica sera, come nelle crudeli gare di ballo d´una volta, finché i meno resistenti cadano esanimi.

Giovedì 8 il governatore della Banca d´Italia nota quale suicidio sia ridurre le imposte gonfiando il debito pubblico, e lui non fiata. L´avvenimento interessante va in scena alla Camera. Bisognava discutere un ddl votato da Palazzo Madama sul conflitto d´interessi. Questione capitale. L´ammettono persino i finti ragionatori neutrali: è molto abnorme avere al governo, con poteri ignoti alla storia parlamentare, il padrone delle televisioni commerciali, egemone della Rai, arcieditore, banchiere, mercante, assicuratore, mani in pasta dovunque corrano soldi; classica situazione da óstracon, il coccio sul quale gli ateniesi scrivevano il nome della persona che fosse prudente escludere dalla contesa politica; l´unico antidoto sono le incompatibilità, ma il Centrosinistra al governo, traviato da cabale stupido-furbesche, non se n´è occupato. Questione insoluta, né era pensabile che la risolvesse lui, reinsediato una seconda volta dalle reti Mediaset: ha mascelle da caimano; e non è ragionevole aspettarsi una signorile astinenza dai caimani. Il ddl n. 1707D, infatti, modula l´idea sbalorditiva che il dominus d´un impero economico, quasi monopolista dei media, sia idoneo agl´incarichi governativi, purché non figuri negli organigrammi societari: quattro letture (28 febbraio e 4 luglio 2002, 22 luglio 2003, 10 marzo u.s.) apportano varianti cosmetiche; e arriva a Montecitorio l´8 luglio. La Cdl l´ha sempre votato militarmente. Stavolta coup de scène: è deserto il banco del governo; nemmeno un sottosegretario, tutti irreperibili; e trattandosi d´un disegno governativo, i regolamenti impongono il rinvio. Perché l´augusto interessato non vuole che diventi legge? Gliel´avevano cucito addosso, uno dei tanti doppiopetti. La risposta discende dall´art. 6: l´Antitrust sorveglia; accerta effetti distorsivi; applica pene pecuniarie; riferisce al Parlamento. Funzioni innocue se, qual è ora, non avesse un difetto. Lo dicono insensibile al vento d´Arcore: B. non se ne fida; e siccome il mandato scade tra sei mesi, la creatura resti nell´utero fino ad allora. L´art. 7 attribuisce analoghi poteri al garante delle comunicazioni. Qui Re Sole, anzi Lanterna (magica), corre minori rischi. Nel rapporto annuale, 9 luglio, il presidente diverte l´uditorio: Mediaset e Rai rastrellano l´86.5% della pubblicità; inutile dire chi sia il leone, ed era notorio che la soglia massima (30% rispetto al singolo operatore) fosse allegramente superata da sei anni; insomma, ventila ipotetiche sanzioni verso la fine del corrente mese; quali, non sappiamo, dall´innocuo biasimo in su; dipende dalle «precedenti istruttorie», al lume delle nove norme, essendo ormai in vigore la malfamata l. Gasparri, talmente fuori del quadro costituzionale da essere rinviata alle Camere, il cui secondo voto l´ha ritoccata pro forma. I vecchi oratori usavano dire «risum teneatis».

Domenica sera una cena chic apre il torneo a Palazzo Chigi. L´ormai insopportabile alleato democristiano chiede anche che il conflitto d´interessi sia presto risolto (rectius nascosto). L´anfitrione l´accoglie schiumando: sia meno ipocrita; sa benissimo perché gli elettori hanno risposto male; bisognava abrogare l´infausta l. 22 febbraio 2000 n. 28 che impone alle emittenti televisive una relativa par condicio nelle campagne elettorali; chi l´ha impedito?; lui; continui e subirà vendette Mediaset («le mie televisioni»). Invano quel mellifluo ciambellano venuto dalla più profonda seconda Repubblica, Talleyrand italiota, s´affanna a diluire l´effetto funesto. Nelle cronache del dialogo dietro le quinte («Corriere della Sera») l´epilogo è ancora più edificante. Non era una minaccia politica, spiega Sua Maestà, ridiventato affabile: sei milioni d´elettori democristiani guardano la tv, possibili clienti delle imprese che fanno pubblicità «sulle mie reti»; come può pensare che se li alieni? L´argomento interessa Antitrust e garante delle comunicazioni. Nell´uditorio del predetto rapporto sedeva l´ex-filosofo della scienza già fautore della ghigliottina Mani pulite, poi folgorato dal sole d´Arcore, furioso antigiustizialista, ora presidente del Senato, e in sorridente chiave dottorale rileva quanto poco influiscano gli schermi sulle scelte elettorali; col suo permesso, preferiamo l´analisi berlusconiana: ha influito la maledetta par condicio. Meno politico del macedone, l´odierno Filippo ha un punto debole nei fiotti verbali: governa l´Italia sull´ipotesi d´un virtuoso disinteresse negli affari Mediaset (ipotesi assurda, come se postulassimo Attila convertito in san Francesco: esistono limiti alle metamorfosi che Freud chiama Reaktionsbildungen); e davanti a testimoni afferma d´essere l´autentico imprenditore. Manca poco che salti il tavolo. Nella seconda seduta, lunedì 13, riazzanna Biancofiore: «gli spacco il partito»; «vuol distruggermi ma lo distruggo prima io». L´alleato infìdo post-Msi rifiuta inorridito il ministero dell´economia. Sua Maestà guarda torvo: troverà qualcuno; e medita stanziamenti monstre, se no «sarebbe una flebo al cadaverino» (riconosciamogli l´estro verbale), più i tagli Irpef senza i quali sarebbe infallibilmente sconfitto (diagnosi sua); non sa che anche i re taumaturghi soggiacciono al 2+2=4? Martedì 13 persiste lo stallo nel negoziato: diventa norma lo schernevole pastiche sul conflitto d´interessi; l´Istat segnala l´ennesimo scatto del debito pubblico. La nave dei folli imbarca acqua.

Nelle elezioni di ieri c’è uno sconfitto ed è Berlusconi. Si dirà che queste sono elezioni europee. Ma queste europee, per gli italiani, sono due volte politiche. Perché eleggono il primo Parlamento dell’Europa allargata, e perché il voto contro Berlusconi annulla il fitto lavorìo di Berlusconi contro l’Europa, riattiva una dignitosa presenza dell’Italia nell’Unione Europea. Dunque elezioni che cambiano le carte in tavola. E tagliano nettamente la dimensione e la rilevanza di Berlusconi-padrone.

Questa non è una vicenda normale, non è l’oscillazione del pendolo di cui parla Arthur Schlesinger nella sua teoria dell’alternanza. Questo è un Paese esasperato da tre anni di finzioni, disastro, teatro e bugie. Il Paese è stato lacerato, la Costituzione offesa, ogni punto di raccordo tra cittadini - la nazione, la Patria, i soldati, la pace ma anche la scuola, il sentimento religioso, la scienza - tutto è stato spaccato per mettere italiani contro italiani, per creare sospetto, sfiducia, caccia all’avversario, pregiudizio, la più grande campagna di cinismo e di cattiveria mai lanciata nell’Italia dopo la Resistenza. Inclusa la negazione della Resistenza e la evocazione di un mostro comunista da buttare addosso ad ogni avversario. Forse è stata educativa ed esemplare la vicenda degli ostaggi. L’Italia avrebbe voluto unirsi alle famiglie degli scampati e al dolore del giovane ucciso. Ma lo spazio era occupato dalla cascata di bugie, vanagloria e contraddizioni di un presidente del Consiglio e dei due suoi principali ministri.

Essi, con versioni diverse e sviste clamorose di luogo, tempo e personaggi, hanno voluto occupare tutto lo spazio, tutti i media, hanno reclamato tutto il merito e si sono voluti vantare di aver guidato magistralmente l’azione a distanza, ore dopo il rilascio.

* * *

Questa non è una vicenda normale in cui ciascuno dice la sua e poi il Paese decide. Il tema era l’Europa, ma l’Europa è la bestia nera di questo governo. Il rapporto Berlusconi-Europa è immortalato per sempre da quel primo giorno del semestre italiano in cui Berlusconi insulta il deputato tedesco Schultz. Il rapporto Berlusconi-Europa è nel comportamento da pessimo attore senza copione con cui Berlusconi ha condotto l’umiliante semestre italiano che - purtroppo - ha divertito il resto del mondo, e ridato vita ai peggiori cliché di tante barzellette anti italiane. Il rapporto Berlusconi-Europa è nella festosa definizione della Unione Europea come Forcolandia (Bossi) e nel tenace rifiuto a ogni cooperazione col sistema europeo della Giustizia «perché se no ci arrestano tutti» (il ministro Castelli).

Il rapporto Berlusconi-Europa è nell’avere prontamente schierato l’Italia in una guerra rifiutata da grandi maggioranze sia in Italia che in Europa, impedendo, insieme a quell’Aznar ormai scomparso dall’orizzonte politico, un vero rispettoso dialogo fra Europa e Stati Uniti. E mettendo l’Italia - adesso percepita come nemica - nelle condizioni di non poter partecipare in modo credibile a un progetto di pace in Iraq.

Intanto lui ha trasformato quel che resta della libera stampa italiana in regime, occupa i media fino a renderli ciechi, impone sulla vicenda guerra una censura e una invenzione di notizie che non si ricordava dal 1940. Nega persino ai soldati italiani, che in ogni istante rischiano la vita in combattimento, la definizione di “guerra” per la loro tremenda avventura, impedendo che tale possa risultare nel loro curriculum militare, dal quale si desumerà - invece - che stavano a Nassiriya in tranquille condizioni di pace.

* * *

L’Ulivo - faticosamente e laboriosamente - ha fatto la cosa giusta: ha lavorato nelle città, grandi e piccole, nelle piazze, nel vero porta a porta che è il contatto quotidiano, dal Sud al Nord, da un capo all’altro della penisola, con i cittadini. Ha coinvolto i cittadini e i movimenti, ha individuato persone come Cofferati per conquistare Bologna, Lilli Gruber per andare in Europa (con l’esperienza europeista nuova di Bersani e Berlinguer e quella collaudata e solida di Pasqualina Napoletano). Ha fatto spazio alle candidate donne, ha votato in modo chiaro e semplice (tre righe di mozione) contro la guerra. Quella mozione è l’atto costitutivo e il simbolo di una azione politica nuova e più vasta: tutta l’opposizione per la pace.

Tutta l’opposizione per l’Europa e dunque per una politica estera che torni a dare dignità al Paese, fiducia agli italiani verso il nostro ruolo e il nostro futuro. Fiducia di tutti verso di noi cominciando dal nostro stare in Europa. Non siamo più il Paese del miliardario umorale che ormai l’opinione pubblica del mondo stenta a distinguere dal sultano del Brunei (i due ammassi di ricchezza sono vicinissimi).

Si traccia oggi un percorso politico i cui punti fondamentali sono il ritorno alla Costituzione nata dalla Resistenza, il rispetto per i diritti, lo sviluppo nella pace e che fa riferimento al nome e alla garanzia di Prodi, e prefigura un governo.

A Hollywood intitolerebbero “L’alba del nuovo giorno”. Noi preferiamo dire, guardando agli altri europei con un po’ di orgoglio: «Abbiamo scaricato Berlusconi».

GEORGE BUSH is famously loyal to those closest to him. But that loyalty came under perhaps its greatest ever strain this week, as calls mounted for the resignation or dismissal of Donald Rumsfeld, the secretary of defence, over the torture and humiliation of prisoners at the Abu Ghraib prison in Iraq. The president has so far resisted these calls. He scolded Mr Rumsfeld on Wednesday May 5th, saying he should have known more, sooner, about the abuses. But on Thursday he called Mr Rumsfeld “a really good secretary of defence” and said he would remain in the cabinet.

Mr Rumsfeld has many enemies. He won grudging admiration from the press and many Americans for his straight-talking briefings during the Iraq war, even though he was never exactly shy about refusing to answer questions. He looked smart when American-led forces routed the Iraqi army even faster than expected. Since the war’s end, however, he has come under increasing fire for his perceived failure to plan sufficiently for peacekeeping and rebuilding. He had expected to reduce the number of American troops in Iraq to mere tens of thousands by late 2003, anticipating that grateful Iraqis would shoulder the burden of security. This turns out to have been wildly optimistic. Some 135,000 Americans are still stationed in the country.

Within the administration, too, he is a divisive figure. He is one of the closest advisers to Mr Bush (alongside Condoleezza Rice, the national security adviser, and Dick Cheney, the vice-president). But his differences with Colin Powell, the secretary of state, are well known. Mr Powell urged Mr Bush to seek United Nations backing for the Iraq war, while Mr Rumsfeld disdained such a move. When “senior administration officials” criticise the Pentagon anonymously in newspapers, they are believed often to be from the State Department, and occasionally Mr Powell himself.

Rivalries between the diplomats at the State Department and the warriors of the Pentagon are nothing new. And despite setbacks in Iraq, most Americans approved of the Bush administration’s handling of the Iraq war until recently. But during the disasters of April, in which more American soldiers were killed than during the main fighting of the war in 2003, poll numbers slipped. And after pictures of the Abu Ghraib abuses came to light, they slipped further—according to a new Gallup poll, 55% of Americans now disapprove of Mr Bush’s handling of the situation in Iraq, with only 42% approving. What had long seemed the president’s biggest political strength—his role as a war leader—may be becoming a liability. (Meanwhile, strong jobs numbers for April released on Friday, coming on top of good figures for March, may make what had been the president’s biggest liability—the economy—his biggest hope. It will be scant comfort to Mr Rumsfeld, but if he is fired, he will be rejoining a relatively buoyant labour market.)

The decision not to sack Mr Rumsfeld is a gamble. Ditching one of the president’s closest advisers would be a sign of weakness and defeat just six months before an election, something Mr Bush is understandably keen to avoid. But keeping the tainted Mr Rumsfeld could be just as dangerous, both at home and abroad. The media smell blood: the influential New York Times has called for Mr Rumsfeld’s head (as has The Economist—see article).

Moreover, by offering words but not deeds, Mr Bush may appear to the Muslim world to be showing only false contrition. In two interviews with Arabic television stations on Wednesday, he called the goings-on at Abu Ghraib “abhorrent” but did not apologise, a fact not lost on media commentators. The next day, Mr Bush changed tack, telling reporters he had said the magic word, “sorry”, in a meeting with King Abdullah of Jordan.

But in the electrified political atmosphere of an election year, “sorry” alone may not be enough. Predictably, John Kerry, Mr Bush’s Democratic rival in November’s election, has called for Mr Rumsfeld’s resignation, as has the leader of the Democrats in the House of Representatives, Nancy Pelosi. Republican congressmen, naturally, have been more circumspect. But many are said to be furious that they did not learn about Abu Ghraib before the press, given that the first accusations of abuse had been made in January.

When Mr Rumsfeld appeared before a Senate panel on Friday, the legislators’ own wounded pride at being kept in the dark was evident, with the defence secretary being put through some aggressive questioning—most notably from fellow Republican John McCain. Mr Rumsfeld offered a clear apology, as did the military men seated with him. He also accepted full personal responsibility, but gave no indication that he planned to resign. He referred repeatedly to ongoing military investigations into the abuse of prisoners, suggesting that he and his colleagues wanted to get to the bottom of the accusations as much as the committee did.

For opponents of the war and of the United States around the world, the treatment of prisoners at Abu Ghraib fits into a pattern. Just before the revelations of abuse in Iraq, the Bush administration found itself before the Supreme Court defending its stance in other cases involving prisoners. Several hundred men captured in Afghanistan remain in prison at Guantánamo Bay in Cuba, and the administration claims they have no right to a trial. More controversially for Americans, two American citizens, José Padilla (the alleged “dirty bomber”) and Yaser Hamdi, captured in Afghanistan, have been declared enemy combatants and held incommunicado without trial for over a year. The Supreme Court will rule on all of these cases this summer.

Mr Bush insists that the abuses of Abu Ghraib do not represent America’s soul, but for many, both at home and abroad, they are not as isolated as he would like to believe. If the outcry is sustained, or if new lurid details emerge—the chairman of the Joint Chiefs of Staff, General Richard Myers, said at Friday's hearing that there are photos and videos yet unseen—offering up Mr Rumsfeld may be the president’s only choice.

IN UNA guerra anomala come quella contro il terrorismo e nell´altra che s´incrocia e s´accavalla con la prima, com´è la guerra contro la guerriglia irachena, c´è un assioma preliminare che per chiarezza va ripetuto: con i terroristi e con quanti ne assumano i metodi non si tratta. Non ci si fa condizionare dai loro ultimatum, non si cede alle loro richieste anche se in gioco ci sono vite umane, ostaggi in pericolo, ricatti di qualsiasi genere che mettono in discussione la linea politica d´uno Stato.

Quest´assioma è chiarissimo e accettato da tutti: dal governo americano a Chirac, dal governo inglese a Zapatero, da Berlusconi a Schröder, da Prodi ad Annan, da Fini a Bertinotti. Perfino il Papa e tutta la Chiesa condividono questa posizione intransigente e pregano affinché i terroristi si ravvedano, nel qual caso potranno contare sulla misericordia divina.

Ma se si scende dal generale al particolare e dall´astratto al concreto, ecco che l´assioma della fermezza diventa inevitabilmente meno chiaro perché è evidente (e accettato da tutti) che bisogna fare il possibile e perfino l´impossibile per salvare le vite in pericolo; tanto più vero nel caso d´ostaggi minacciati di morte. Non si tratta ma si cercano intermediari in grado di trattare. Con chi? Offrendo e minacciando che cosa? I mediatori possono offrire ai terroristi che usano gli ostaggi come arma di pressione un salvacondotto d´impunità, o denaro, o tregua nella guerra di guerriglia. Al limite possono perfino offrire, oltre al perdono, un riconoscimento nella struttura politica che prima o poi dovrà governare l´Iraq, ammesso che si riesca a far uscire quello sventurato Paese dal marasma in cui è precipitato a causa della tragica catena d´errori del tandem Bush-Blair. Del resto non sarebbe una novità: uno dei più grandi errori commesso in Kosovo ? anche lì per pressione e volontà americana ? è stato quello d´aver riconosciuto un ruolo dominante all´organizzazione politico-militare dei combattenti antiserbi; un´organizzazione cui è stata appaltata la "sicurezza" e il governo del territorio e che si è rapidamente trasformata in una centrale di contrabbando e di traffico di droga in combutta con le mafie turca, bulgara, ucraina, russa, greca.

L´Occidente purtroppo non è nuovo a errori di questa natura, quando entra in contatto con popolazioni tribali, signori della guerra, boss mafiosi, che alternano l´efferatezza del crimine con la doppiezza politica e con l´uso spregiudicato del nazionalismo etnico e del fanatismo religioso. Misture esplosive quando si combinano con vecchi e nuovi imperialismi camuffati da portatori di doni democratici e di benessere economico.

I mediatori dunque hanno ampio campo per mediare, ma rimane il rebus degli interlocutori, volti e sigle ignoti, molteplici, mutanti. Nel caso specifico non si sa se siano sunniti o sciiti, se riconoscono come capo lo sceicco al Sadr o lo sceicco al Sistani o il Consiglio degli sciiti iracheni o il Consiglio degli Ulema sunniti o bin Laden e i suoi luogotenenti o addirittura nessuno salvo se stessi e i loro capetti barbuti e mascherati che si passano gli ostaggi tra loro come fa la ?ndrangheta con i rapiti per depistare la polizia. Un giorno uccidono, il giorno dopo rapiscono ancora, poi liberano e infine di nuovo uccidono. È un truce e mortale gioco di gente usa al mestiere della morte altrui e della propria? Dove sono? Chi può convincerli o costringerli alla ragione? Questo, anche questo, ma non solo questo è l´Iraq di oggi. Poi trovi di tanto in tanto l´imbecille che ti domanda: stavano meglio con Saddam o stanno meglio oggi? L´imbecille è convinto con questa domanda di stringerti in angolo, ma la sola risposta che può ottenere è racchiusa in una sola parola: dipende. A Falluja stavano meglio. A Sadr City stavano meglio. A Ramadi stavano meglio. Forse anche a Nassiriya stavano meglio. In cento altri siti alcuni stavano meglio e altri molto peggio. Con quali prospettive per il futuro?

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Ma prima d´affrontare per l´ennesima volta questa domanda cruciale torniamo ancora sui nostri ostaggi, i tre ostaggi italiani sospesi tra vita e morte mentre il quarto ha già pagato il suo debito agli assassini schiaffeggiandoli con la frase che ormai sta incisa nella coscienza nazionale insieme a tante altre frasi analoghe: «Vi farò vedere come muore un italiano».

Si è aperta una discussione se quel povero ragazzo, arrivato in Iraq a cercar fortuna, sia un eroe oppure no, se gli italiani debbano assumerlo tra i simboli della storia patria come Sciesa, Enrico Toti, Cesare Battisti, Luciano Manara, i fratelli Cairoli, i soldati della Folgore a El Alamein, Leone Ginzburg e le vittime delle Fosse Ardeatine, oppure no.

Discussione oziosa perché prima bisognerebbe definire che cosa si voglia significare con la parola eroe nei tempi moderni. Nei tempi dell´epica antica il senso di quella parola era chiaro: l´eroe era un uomo prescelto dagli dei per condurre eccezionali imprese, protetto da un dio e suo intermediario in terra. Era meno d´un dio ma più di un uomo. Spesso era il frutto d´un congiungimento tra un mortale e un immortale. Odisseo fu l´ultimo e chiuse la serie. Ma molto dopo fecero la loro comparsa gli eroi moderni. Fu il romanticismo a tenerli a battesimo, ma il senso di quella parola non era più lo stesso e l´intera questione diventò terribilmente complicata.

L´eroe moderno è qualcuno che, arrivato ad un certo punto della vita, abbandona le comodità, le abitudini mentali e i piccoli egoistici obiettivi dell´esistenza quotidiana e si vota ad una causa che lo sovrasta andando consapevolmente incontro a privazioni, pericoli, sofferenze per sostenere quella causa. Spesso anche se non necessariamente vi perde la vita. Nel concetto moderno dell´eroe entra cioè un contenuto e una scelta morale che ne diventa l´aspetto fondamentale. Si può dar prova di coraggio senza alcun contenuto morale. Per esempio chi gioca alla roulette russa. Chi sfida il destino correndo a rompicollo in automobile su strade accidentate. Chi sceglie il mestiere e l´avventura delle armi per dar prova d´essere un coraggioso. Ma nessuno di questi entra nel Pantheon degli eroi nazionali.

Infine tra l´eroe che muore per una causa e il coraggioso che muore per gli incerti della scelta fatta, esiste una terza categoria, quella degli eroi per caso.

L´altra sera, in una melensa quanto breve trasmissione televisiva il regista Mario Monicelli è stato interrogato sulla frase certamente eroica del povero Quattrocchi. Monicelli è stato il regista di quel bellissimo film sulla "Grande Guerra", quella del ?15-18, nel quale i due protagonisti, Vittorio Gassman e Alberto Sordi, interpretano le vicende di due soldati presi prigionieri dagli austriaci che chiedono notizie militari su movimenti di truppe. I due conoscono quei movimenti e dopo alcune esitazioni decidono di rivelarli per aver salva la vita. Mentre l´interrogatorio è in corso e i due stanno per confessare il segreto che rischia di compromettere la sorte dell´offensiva italiana insieme a migliaia di vite, l´ufficiale austriaco si lascia andare ad una frase insultante rivolta ai due soldati i quali se ne sentono sanguinosamente feriti. Uno dei due reagisce, dichiara che non rivelerà un bel niente e insulta a sua volta l´ufficiale chiamandolo «faccia di merda». Viene immediatamente fucilato e l´armata italiana sarà salva.

È stato un eroe? Ha chiesto più volte a Monicelli il conduttore della trasmissione. E ogni volta Monicelli ha risposto ostinatamente: eroe per caso.

«Gli italiani - ha aggiunto - non hanno la stoffa degli eroi perché difficilmente sacrificano la propria vita per una causa che sovrasti il loro particolare. Ma se vengono feriti nell´individuale personalità, allora reagiscono come leoni».

La trasmissione si è chiusa lì, il regista si era intestardito nella sua visione dell´eroe per caso mentre ciascuno di noi aveva dinanzi agli occhi la terribile immagine di quel giovane costretto in ginocchio dinanzi al suo carnefice con la canna fredda della pistola già puntata sulla sua tempia, che cerca di liberarsi dal cappuccio che gli copre il volto e grida la frase eroica della sua irata disperazione.

Questo è quanto è accaduto ed è terribile. Ci dice a che punto è arrivato il mattatoio. Nelle stesse ore, a pochi chilometri di distanza, centinaia di donne bambini vecchi e innocenti cadevano sotto i bombardamenti degli F15 e sotto il cannoneggiamento dei tank americani tra le rovine d´una città spettrale ammorbata dal puzzo dei cadaveri insepolti.

Questo è il mattatoio e questo l´eroismo per caso dei tempi del ferro e del fuoco.

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Prospettive? Speriamo migliori, se è vero che la speranza è l´ultima a morire.

Ma le previsioni non sono esaltanti. L´America si è convinta d´aver bisogno dell´Onu per impedire che la coalizione dei volenterosi si sfarini e il suo isolamento politico si accresca mentre il mattatoio iracheno e quello israeliano-palestinese continuano a macinare cadaveri.

L´America ha bisogno dell´Onu come di una vivandiera portatrice d´acqua gregaria. Ma è fin troppo chiaro che a queste condizioni non l´avrà e perfino se il Consiglio di sicurezza fosse unanime su una seconda risoluzione "vivandiera" l´arrivo dell´Onu risulterebbe del tutto inutile. Del resto che Bush e Blair perseverino su questa linea risulta evidente dopo il via libera data al piano Sharon per la Palestina. La scelta è stata ancora una volta quella della forza e dell´unilateralismo, come dimostra l´uccisione del nuovo leader di Hamas, appena succeduto allo sceicco Yassin, e colpito come lui a morte dai missili israeliani. Il "domino" virtuoso che doveva intrecciare i destini di Gerusalemme con quelli di Bagdad si è trasformato in un "domino" perverso di cui tutti - colpevoli e non colpevoli - pagheremo le conseguenze.

Un´altra opzione esiste: ristabilire l´ordine con le armi e arrivare ad un accordo con gli sciiti di al Sistani, sempre che lo sceicco moderato sia in grado di sopportare ancora per molto la mattanza in corso, il che sembra altamente improbabile.

Se comunque l´accordo con Sistani sarà infine raggiunto, avremo un Iraq guidato dalle tribù sciite, dai mullah coranici addestrati a Teheran, dalla fine del riformismo iraniano, dall´ammaina-bandiera dei famosi valori democratici da far vivere anche in Medio Oriente e nelle terre mesopotamiche.

La politica è regno di compromessi. Questo comunque sarebbe di bassissimo livello, tanto più che non arresterebbe affatto il terrorismo e la guerra per bande. Il governo italiano in questa situazione potrebbe avere, sol che lo volesse, un ruolo di rilievo, quello al quale lo spinge quasi quotidianamente il presidente Ciampi con i suoi continui e incalzanti richiami ad un ruolo non subalterno dell´Onu. Potrebbe (dovrebbe) il nostro governo dire chiaramente all´alleato americano che la soluzione di un´Onu portatrice d´acqua non soddisfa e non risolve e che, se questa sarà la scelta, dovremmo andarcene anche noi insieme agli spagnoli e ai portoghesi. In una coalizione che dà segni evidenti di sfaldamento l´influenza italiana può essere determinante. Ma questa ipotesi purtroppo non vale un soldo. Un "bookmaker" avveduto la darebbe a uno contro centomila. Non avverrà.

Purtroppo i carabinieri di Nassiriya sono morti invano e il grido patriottico di Quattrocchi è stato inutile. Poteva servire per far chiudere le porte del mattatoio. Se resteranno aperte questi morti saranno stati soltanto un tristissimo e dolorosissimo incidente di percorso, un sangue inutilmente sparso da un giovane eroe per caso e da diciannove soldati «usi a morir tacendo» sui quali è stata spalmata retorica a piene mani.

Oggi si discute in Senato il rifinanziamento della nostra missione in Iraq e quindi la permenenza o meno delle truppe italiane in quel Paese. È probabile, per non dire sicuro, che il decreto del governo, favorevole alla permanenza, sarà approvato per passare poi al vaglio della Camera.

Ci sia concesso finché si è ancora in tempo, di dissentire. La situazione è radicalmente cambiata da quando un anno fa mandammo i nostri soldati. Gli Stati Uniti, con la presa di Bagdad e la fuga di Saddam Hussein, avevano dichiarato finita la guerra e chiesto l'intervento dei nostri soldati per coadiuvare l'attività di ricostruzione dell'Iraq. Ma si erano sbagliati. La guerra era tutt'altro che finita, in un certo senso si può dire che era appena cominciata. Quando cinquanta uomini armati di tutto punto e ben organizzati assaltano ed espugnano una stazione di polizia, e questo segue una infinita serie di attacchi alle forze occupanti e alle loro basi militari e di attentati condotti in modo sistematico, non si può più parlare di terrorismo. È guerra, sia pure guerra di guerriglia, com'è sempre quella di una resistenza contro un esercito occupante e militarmente molto superiore. Oltretutto, non si può nemmeno dire che si tratti di azioni di residuali seguaci di Saddam destinate a spegnersi con la cattura o la morte del rais, perché Hussein è stato preso, e nelle condizioni per lui più umilianti e delegittimanti, ma la guerriglia è continuata con maggiore intensità di prima. Saddam e il vecchio regime dittatoriale non c'entrano se non molto marginalmente, il fatto è che una parte molto consistente della popolazione irachena non considera gli americani come dei liberatori ma come degli invasori e gli fa la guerra.

Ora, l'anno passato, al momento dell'invasione dell'Iraq, l'Italia, pur appoggiando politicamente gli americani, aveva deciso, a differenza di altri alleati, come la Gran Bretagna, la Spagna e la Polonia, di non partecipare alla guerra.

Non si vede perché debba rimanervi coinvolta adesso, con truppe che sono state mandate in Iraq con altre intenzioni, con altre regole di ingaggio e con un altro tipo di preparazione che non la partecipazione, diretta o indiretta di combattimenti (si pensi alla massiccia presenza dei carabinieri).

A chiudere il discorso ci dovrebbe essere poi la Costituzione che all'articolo II, vieta in modo esplicito all'Italia di partecipare a guerre se non difensive. E non si capisce assolutamente che tipo di offesa ci abbia portato l'Iraq, che non possedeva "armi di distruzione di massa" e non poteva non dico attaccare ma nemmeno minacciare né noi né i nostri alleati.

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