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NON ci voleva molto a prevedere che il voto del Parlamento sulla permanenza in Iraq del corpo di spedizione italiano avrebbe suscitato le prefiche dei fautori dell'"ammucchiata". Infatti così è puntualmente avvenuto. Il centrismo nazionale non è quantitativamente rilevante; operativamente è un fenomeno solo virtuale di fronte alla tenaglia del sistema elettorale maggioritario. Dispone però di molte tribune mediatiche e le usa senza risparmio tutte le volte che può.

A differenza della vecchia Dc, titolare d'un centrismo numericamente imponente che, secondo la definizione di De Gasperi, marciava verso sinistra, quello attuale è striminzito e marcia verso destra. Avrebbe voluto tirarsi appresso la parte "responsabile" dell'Ulivo. Patrocinare il taglio alle ali (ma solo all'ala sinistra) classica aspirazione dei moderati di tutti i tempi.

Isolare la sinistra massimalista.

Convincere i riformisti di Prodi che la svolta in Iraq è già avvenuta e sarà infallibilmente formalizzata e solennizzata tra la fine di maggio e quella di giugno e indurli, di conseguenza, a un voto d'astensione se non addirittura di confluenza sulla mozione del governo e sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio.

Poiché tutto quello che avevano immaginato non è avvenuto, i fautori dell'"ammucchiata" hanno dato sfogo alle lamentazioni salmodiando la fine del riformismo, il trionfo di Bertinotti, la resa di Prodi, Fassino, Rutelli al massimalismo girotondista e piazzaiolo, intonando insomma il "Miserere" e il "Parce sepultum".

In questa operazione (che non è affatto sorprendente perché ampiamente prevedibile e prevista), si distinguono i soliti noti. Tralascio di proposito i nomi di quelli che scrivono sui giornali e dicono la loro nei salotti tv. Segnalo invece la posizione del partito di Follini e di Buttiglione, schiacciato come un tappeto sulle tesi militaresche di Forza Italia. E, memorabile tra tutti, la posizione di Berlusconi che ha aperto il dibattito alla Camera con un incipit clamoroso: "M'ero illuso che questa volta l'opposizione si comportasse in modo responsabile".

Pensava veramente che la lista dei riformisti considerasse il suo "spot" propagandistico sulla svolta come un approccio serio di un governo serio a una situazione drammaticamente seria?

I berlusconologhi giurano di sì, che lo pensava veramente. Come spessissimo gli capita, s'era autoconvinto che le sue bugie propagandistiche riflettessero la realtà. Quest'uomo è formidabile. Per lui e per i suoi sodali, politici e giornalistici, vale la pena di usare una classica definizione di Flaiano: "Un gruppo di buoni a nulla, capaci di tutto". Sembra tagliato su misura.

* * *

La svolta. Si discute sulla svolta. Se ci sia stata, se ci sarà, se l'abbia effettuata Bush su pressione di Blair oppure di Powell oppure (udite udite) di Berlusconi. O piuttosto per la pressione dei fatti iracheni e le impellenti necessità ch'essi creano sul terreno.

Mi ha sommamente divertito leggere l'altro ieri sul Corriere della Sera due articoli di prima pagina sul tema, appunto, della suddetta svolta.

Uno è firmato da Angelo Panebianco e ha come titolo "La disfatta del riformismo"; autore dell'altro è Gian Antonio Stella e il titolo recita "La svolta rettilinea del Cavaliere". Mi hanno divertito perché sostengono l'uno l'opposto dell'altro. Secondo il primo i riformisti sono in rotta, succubi di Bertinotti, non avendo capito che Berlusconi era finalmente arrivato sulle posizioni da loro fino a quel momento sostenute e proprio in quel momento da loro stessi abbandonate.

Ma Stella dimostra invece esattamente il contrario e cioè che la predetta svolta è del tutto inesistente e che comunque il nostro presidente del Consiglio, dopo avere per oltre un anno sbeffeggiato all'Onu seguendo pedissequamente gli sberleffi lanciati dai neoconservatori americani, dal Pentagono e dalla stessa Casa Bianca contro il Palazzo di Vetro, ha compiuto "una svolta rettilinea", sempre al seguito dei suoi protettori di Washington, affermando da pochi giorni in qua il contrario di quanto ha per un anno conclamato ai quattro venti.

Ora, la verità è quella descritta da Panebianco o quella motteggiata da Stella? La risposta è nei fatti reali e non in quelli virtuali. Del resto i compromessi si possono fare sulle tasse, sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulla patente a punti, sulle regole societarie e su tante altre cose ancora; ma se c'è una questione che richiede e anzi impone scelte nette e non equivoche, quella è la questione della pace e della guerra.

Lì la bugia non è ammessa, il sotterfugio non è consentito, la tergiversazione non può aver luogo. Lì si sta da una parte o dall'altra. Lì il popolo è e dev'essere davvero sovrano perché "ne va la vita". Il presidente del Consiglio ha insultato l'opposizione accusandola di abbandonare i nostri soldati proprio nel momento in cui sono sotto il fuoco della guerriglia.

Ma chi li ha mandati a prendersi le fucilate della guerriglia e le autobombe del terrorismo? Invece che inviare in Iraq medici, tecnici, operatori di pace? Chi ha manipolato il mandato del capo dello Stato e del Consiglio supremo di Difesa che avevano autorizzato soltanto una missione umanitaria? Chi ha accettato che i militari spediti come presidio degli operatori di pace fossero invece impiegati come forza d'occupazione di un territorio ad essi affidato, sotto il comando angloamericano che non è certo lì per ragioni umanitarie ma politiche e d'ordine pubblico? Infine: chi ha la responsabilità politica di quelle morti e delle altre che possono ancora avvenire?

Un capo di governo serio e responsabile avrebbe dovuto dire al Parlamento e al paese la verità fin dal primo momento e comunque ammetterla l'altro ieri di fronte all'evidenza dei fatti. E la verità è che i 3 mila militari italiani sono nella regione di Nassiriya truppe occupanti, esattamente come gli inglesi e gli americani.

Tanto è che da quelli prendono ordini e come loro hanno una zona di territorio assegnata nella quale inglesi e americani non vanno se non su richiesta del comandante italiano. E non ci vanno per la semplice ragione che lì ci sono gli italiani a svolgere lo stesso ruolo e gli stessi compiti che gli angloamericani svolgono nelle altre zone dell'Iraq.

Queste cose avrebbe dovuto dire il presidente del Consiglio. Ma si sarebbe imbattuto nell'ostacolo costituzionale e quindi ha scelto la bugia. Del resto ci riesce benissimo perché una cosa è certa: come bugiardo non ha rivali in tutto il pianeta. È la cosa che meglio gli riesce. È un guinness. All'estero ce lo invidiano.

* * *

In un certo senso l'Onu è già in Iraq perché il segretario generale Annan ha inviato un suo rappresentante, l'algerino Brahimi, con il compito di suggerire nomi credibili per la formazione di un nuovo governo provvisorio che sarà installato dalla coalizione entro il 30 giugno. Quest'iniziativa rientra nei poteri del segretario generale, infatti non c'è stato bisogno di nessuna apposita risoluzione del Consiglio di sicurezza.

Egualmente rientra nei poteri di Annan di delegare a suoi rappresentanti un ruolo di consulenza per preparare insieme al governo provvisorio le elezioni da tenersi nel prossimo gennaio.

È questa la svolta? No, non è questa. Sarà una presenza importante quella dei delegati del segretario generale dell'Onu? La risposta l'ha data ufficialmente lo stesso Brahimi: "Una presenza e un ruolo molto limitati". Del resto Brahimi lavora al suo progetto da oltre due mesi e da oltre due mesi le date per l'insediamento del governo provvisorio e per le elezioni nel gennaio 2005 sono arcinote.

Le notizie comunicate al Parlamento da Berlusconi come prova della svolta sono sui giornali di tutto il mondo dallo scorso marzo. La sorpresa, il risultato eclatante del viaggio americano del nostro presidente del Consiglio sono sull'Ansa di sessanta giorni fa.

La strombazzata sovranità del governo provvisorio sarà puramente simbolica, anche questo è risaputo. Più interessante sarà invece l'organizzazione della sicurezza sul terreno. Per quanto se ne sa (ma Berlusconi nulla ha detto in proposito nelle sue comunicazioni al Parlamento) essa si articolerà nei seguenti punti.

1. Responsabile della sicurezza e dell'ordine pubblico nelle città saranno la polizia e l'esercito iracheno, coordinati naturalmente dal Comando della coalizione.

2. La seconda linea situata alla cintura esterna delle città sarà affidata a truppe che dovrebbero affluire da paesi non attualmente occupanti. Soprattutto da paesi appartenenti alla Lega araba o da altri Stati musulmani.

3. L'attuale armata d'occupazione dovrebbe acquartierarsi nelle basi già predisposte, pronta tuttavia a interventi d'emergenza - specie con aerei ed elicotteri da combattimento - in casi di emergenza.

4. La lotta al terrorismo proseguirà affidata a intelligence e a corpi speciali.

5. Questo schieramento, basato su tre anelli, entrerà in vigore quando l'attuale guerriglia e le attuali insorgenze saranno state domate e quando polizia ed esercito iracheni saranno in grado d'assolvere ai compiti di cui al numero 1.

Cioè quando? Non si sa, non c'è risposta. Quale sarà il ruolo dell'Onu in tema di sicurezza? Non c'è risposta.

I paesi della Lega araba sono pronti a inviare truppe? Sono già stati consultati? Non c'è risposta.

Altri paesi europei, la Russia, la Cina, l'India, sono disponibili? La Germania ha già detto: grazie, per ora no. La Russia idem. Idem la Cina. La Francia ha detto di più: non manderemo truppe né ora né poi, neppure sotto bandiera Onu. Chi dunque s'unirà all'attuale coalizione e quando? Non c'è risposta. Tutti sono invece pronti a mandare medici, tecnici, operatori di pace. Anche subito. Truppe no. È questa la svolta?

Le nostre vedove centriste e terziste (è quasi la stessa cosa) hanno compianto Prodi, trascinato suo malgrado a fianco di Bertinotti. Ma Prodi ha parlato ieri a Milano agli stati generali del centrosinistra. Ha detto sulla guerra irachena, sul dopoguerra, sull'America, sulle torture, parole ancora più dure di quelle di Bertinotti. Possono essere non condivise o addirittura deplorate ma nessuna persona intellettualmente perbene potrà continuare a sostenere che Prodi è stato "messo in mezzo" suo malgrado.

Resta la questione della nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza. Berlusconi, con l'aria di un Pierino, ha dichiarato che la risoluzione ci sarà entro il mese di giugno. Può darsi, ma lui che ne sa? E che cosa dirà quella risoluzione? L'Italia non fa parte del Consiglio di sicurezza. La Francia ha già specificato la propria posizione: vuole una conferenza internazionale che decida la sorte dell'Iraq nel quadro dell'intero riassetto della regione mesopotamica e mediorientale; vuole una data-limite entro la quale le truppe d'occupazione se ne debbano andare; vuole che il governo iracheno dopo le elezioni sia sovrano e indipendente; vuole che il petrolio sia subito restituito agli iracheni. Non vuole che la Nato sia utilizzata in Iraq. Germania e Russia sono sulla stessa linea.

In compenso Berlusconi, quando li incontra, dà e riceve pacche sulle spalle e qualche bacio da Putin, da Chirac, da Blair, ovviamente da Bush e - con qualche riserbo in più - anche da Schröder e Zapatero.

Questo è lo stato delle cose.

Il riformismo è stato sconfitto? Non sembra. S'è messo al rimorchio dei massimalisti? Non direi perché la sua posizione è sempre la stessa fin dall'aprile del 2003 quando scoppiò la guerra irachena. Per votare la prosecuzione della missione italiana in Iraq voleva e vuole che il Consiglio di sicurezza dell'Onu voti la sostituzione dell'autorità d'occupazione angloamericana con una coalizione agli ordini dell'Onu che abbia autorità insieme politica e militare.

Non è accaduto e ovviamente non accadrà, perciò tutto il centrosinistra ha votato per il ritiro delle truppe. Le quali, naturalmente, restano dove sono poiché il nostro governo segue Bush punto e basta. Buoni a niente ma capaci di tutto. Lapidario.

«L´UN dopo l´altro i messi di sventura / piovon come dal ciel» scriveva il poeta del Ça Ira e così avviene da un anno per i fronti iracheno e mediorientale. Nel mese di aprile i messi di sventura si sono moltiplicati. In Iraq lo stillicidio degli ammazzamenti è diventato guerriglia con aspetti di vera e propria insorgenza popolare; la radicalità sunnita si è congiunta con la radicalità sciita, le bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce sono state centinaia, migliaia le vittime cadute sotto i cannoni e le bombe americane; è cominciata la presa di ostaggi occidentali e tra questi quattro italiani, uno dei quali barbaramente assassinato, gli altri ancora nelle mani dei sequestratori dei quali non si conosce l´identità ma si crede di sapere che chiedano per rilasciarli uno scambio di prigionieri e un riconoscimento politico; lo sceicco Sadr dalla città santa di Najaf minaccia di scatenare centinaia di kamikaze se le truppe d´occupazione lo attaccheranno; l´ayatollah Sistani, massima autorità religiosa degli sciiti iracheni, minaccia a sua volta l´insorgenza generale se le città sante saranno prese d´assalto dagli angloamericani. Nel frattempo la Spagna, l´Honduras e Santo Domingo hanno deciso il ritiro delle loro truppe dal teatro iracheno dove sarebbero state disposte a rimanere solo sotto bandiera e comando dell´Onu.

Essendo ormai manifestamente impossibile il verificarsi di questa condizione, hanno deciso di andarsene.

Dal fronte palestinese le notizie sono altrettanto cupe. Dopo lo sceicco Yassin, guida religiosa e politica di Hamas, i soldati di Israele hanno ucciso con missili mirati anche il suo successore Abdul Rantisi; Sharon minaccia Arafat della stessa fine o dell´espatrio forzoso; la road map è ormai non più che un ricordo; i morti da una parte e dall´altra continuano ad ammucchiarsi; ogni speranza di pace sembra caduta.

In questa paurosa situazione il terrorismo di marca Al Qaeda prospera come il pesce nell´acqua. Dopo aver insanguinato Madrid l´11 marzo, si concentra ora sull´Arabia Saudita. Le linee di frattura non passano soltanto tra crociati musulmani e crociati cristiani ma anche, secondo la strategia di Osama bin Laden, tra sunniti, sciiti moderati e wahabiti. Dopo la sconsiderata guerra irachena che ha scoperchiato il vaso di Pandora, l´epicentro terroristico opera indisturbato dalle sue basi pachistane, irachene, marocchine, saudite e con le sue propaggini logistiche in Europa e in Usa.

Questo è lo stato dei fatti. Irrisolvibile in Palestina. Con due ipotesi di soluzione in Iraq: un coinvolgimento di pura facciata dell´Onu lasciando di fatto tutti i poteri alle truppe d´occupazione, oppure il trasferimento dei poteri effettivi all´Onu, in conformità a quanto chiesto da Francia, Germania e Russia e dal nuovo premier spagnolo Fernando Zapatero. Ma l´Onu che cos´è? Che cosa può e sa fare? È in grado di farlo oppure è soltanto un alibi per mascherare il disimpegno europeo dalla crisi irachena?

* * *

Europa zapatera è una definizione lessicalmente cantabile che suona bene all´orecchio con una sonorità quasi zingaresca. Ci vedi un´Europa gaucha o gitana, col sombrero di traverso e magari un coltello nello stivale e il gambo d´una rosa tra i denti.

Invece no. Nei titoli di alcuni giornali e nel lessico di alcuni politici nostrani quella definizione è usata per descrivere un´Europa traditora, vile, fuggitiva; un cuneo che rischia di disgregare l´unità politica del continente riducendolo ad un corpaccione ripiegato su se stesso, senza una missione da compiere, vassallo dei propri egoismi nazionali. L´alternativa a tale sfacelo è di stringersi attorno all´America coadiuvandone gli emeriti sforzi di assicurare la stabilità e la democrazia alla società irachena finalmente liberata dalla cupa tirannide di Saddam.

In questa così delineata alternativa è da qualche giorno entrato anche un auspicato ruolo «centrale» dell´Onu, caldeggiato ora perfino dalla Casa Bianca e naturalmente dal ministro degli Esteri italiano, ben lieto di poter annunciare la buona novella che sarebbe maturata anche per le pressioni del nostro governo su Bush. Risum teneatis.

Zapatero avrebbe dunque sbagliato tutto? C´era ancora tempo e spazio per ottenere dagli Usa un´inversione di rotta dopo un anno di dissennatezze costate migliaia di vittime innocenti e il dilagare di un sentimento antiamericano tra l´Eufrate, il Caspio, il Golfo arabico e il Mediterraneo? La risposta a queste sciocchezze è venuta da una dichiarazione fatta il 23 aprile dal sottosegretario di Stato, Marc Grossman di fronte al Congresso degli Stati Uniti. «Fino al 31 gennaio 2005 - ha detto Grossman - in Iraq rimarranno in vigore le norme stabilite da Paul Bremer, il governo provvisorio iracheno che sarà insediato il 30 giugno prossimo non potrà emettere leggi né decreti senza l´accordo del comando americano né avere il controllo della sicurezza. Non pensiamo che il periodo dal primo luglio fino al gennaio 2005 sia il migliore per cambiare radicalmente le cose».

Naturalmente, ha aggiunto Grossman rispondendo alle preoccupate osservazioni dei rappresentanti democratici «l´Onu avrà un ruolo importante sebbene limitato, il passaggio dei poteri agli iracheni sarà tangibile». E questo al momento è tutto.

Ho definito la scorsa settimana questo ruolo previsto dagli Usa per le Nazioni Unite una soluzione «vivandiera» nel senso che, come le vivandiere negli eserciti ottocenteschi, le Nazioni Unite avrebbero compiti ausiliari di consulenza e di copertura legittimante, cioè sarebbero portatrici d´acqua al servizio dei veri detentori del potere.

È facile prevedere che in queste condizioni il Consiglio di sicurezza non darà il disco verde ad una nuova risoluzione né ci potrà essere la disponibilità della Nato all´invio di contingenti militari. Zapatero ovviamente era già al corrente della linea americana visto che la Spagna fa parte in questi mesi del Consiglio di sicurezza dell´Onu. Perciò se n´è andato prima del 30 giugno avendo la certezza che quel giorno non cambierà nulla se non l´eventuale inasprimento della guerriglia irachena, già fin troppo accesa in tutto il paese.

* * *

Si domanda da chi si oppone al ritiro delle truppe: possiamo noi abbandonare l´Iraq alla guerra civile? Risposta: la guerra infuria già in tutto l´Iraq; è guerra contro gli americani, contro i loro alleati e contro gli iracheni «collaborazionisti». Nella sola giornata di ieri sono morti un´altra decina di soldati Usa e un numero imprecisato di iracheni. A Falluja negli ultimi venti giorni i morti sono centinaia tra i quali la percentuale di donne e bambini è di circa il 20 per cento; a Bassora in un solo giorno le vittime innocenti sono state almeno cinquanta. Può andare peggio di così? Sì. Se il piano Usa è quello di attaccare Najaf e Kerbala per uccidere o catturare Sadr può andare molto peggio di così. Dunque lo spauracchio d´una guerra civile tra sunniti e sciiti nel caso di un ritiro delle truppe d´occupazione non è una motivazione valida.

In realtà il ritiro delle truppe americane, se non dall´Iraq almeno nelle basi trincerate già predisposte, non aggraverebbe una situazione già gravissima; semmai la migliorerebbe. L´arrivo dell´Onu senza gli americani raffredderebbe il clima e fornirebbe al governo provvisorio una sponda preziosa di consulenza e di legalità internazionale.

Si dice ancora: ritirarsi sarebbe una vittoria del terrorismo. Sbagliato.

Il terrorismo, quello di Al Qaeda, centra poco o niente con l´attuale guerriglia irachena. E quest´ultima c´entra nulla affatto con i morti di Madrid e con quelli di Riad. Certo se la guerriglia antiamericana si cronicizzasse il terrorismo di Al Qaeda avrebbe ampio spazio per tessere un´alleanza con il radicalismo iracheno ed ecco un´altra valida ragione per disinnescare questo latente ma gravissimo pericolo.

Il solo vero motivo che spinge l´amministrazione Usa e il governo britannico a rimanere immobili sulla loro linea è di tutt´altra natura. E´ in gioco la rielezione di Bush e quella di Blair, questa è la sola ragione che impedisce ai pragmatisti per eccellenza di mettere in opera la loro flessibilità e di scoprirsi invece dogmatici. Dobbiamo seguirli fino in fondo? Dobbiamo accompagnarli tra le fiamme dell´inferno iracheno senza porre una sola condizione, una data di scadenza, un piano alternativo? L´Europa zapatera è in realtà la sola alternativa possibile: disinnescare la miccia irachena ed intraprendere con serietà e intelligenza la guerra contro il vero terrorismo e nel contempo imporre a israeliani e palestinesi un percorso di pace che da soli non sono mai stati in grado di costruire.

* * *

Il centrosinistra italiano non è al governo; il suo voto contro la permanenza della nostra missione militare a Nassiriya non avrà dunque effetti concreti se Berlusconi continuerà a preferire la condizione di vassallo di Bush a quella di membro dell´Unione europea.

Tuttavia un voto compatto del centrosinistra sulla questione irachena avrà un valore politico tutt´altro che trascurabile, soprattutto se servirà a potenziare la presenza di veri operatori di pace in quel tormentato paese. È curioso che i religiosi sunniti che cercano un contatto con i sequestratori dei nostri ostaggi usino tra gli altri argomenti di persuasione quello di sottolineare l´esistenza in Italia d´un forte movimento popolare contrario alla presenza di truppe d´occupazione. Il pacifismo italiano così vilipeso in patria è diventato uno dei pochi strumenti per riportare a casa quei tre ragazzi minacciati di morte. Non c´è da riflettere su questa evidente contraddizione?

Ancora una volta essa dipende da un errore lessicale che maschera un interesse politico. L´errore lessicale è quello di confondere e chiamare con lo stesso nome il terrorismo di Bin Laden e la guerriglia irachena.

L´interesse politico è quello di far vincere a Berlusconi le elezioni europee o almeno salvarlo da una cocente disfatta.

Viene in mente l´entrata in guerra di Mussolini contro una Francia già sconfitta, il 10 giugno del 1940, per potersi sedere al tavolo della pace con poco rischio e poche perdite umane. Finì come sappiamo. I paragoni non sono mai possibili, ma le analogie possono essere talvolta istruttive e questa lo è. Berlusconi, l´ho già scritto ma lo ripeto, avrebbe oggi una grande chance: quella di utilizzare lo sganciamento dall´avventura irachena come leva per ottenere da Bush un radicale mutamento di strategia. Non la soluzione dell´Onu «vivandiera» e portatrice d´acqua, ma il passaggio integrale dei poteri all´Onu e al governo provvisorio purché riformato da cima a fondo e l´acquartieramento delle truppe d´occupazione.

Se fosse politicamente intelligente e capace di valutare gli interessi dell´Italia, dell´Europa, dell´Occidente e dello stesso popolo iracheno lo farebbe e forse passerebbe alla storia. Ma purtroppo non lo farà. La sua natura glielo impedisce. La sua corta vista politica lo impedisce. Il dogma dell´alleanza con la destra americana lo impedisce.

Tanto più il centrosinistra dev´essere chiaro e netto. Il tempo è scaduto, ogni giorno che passa è perduto. Perciò muovetevi prima che sia tardi.


La guerra al terrorismo e le analisi erronee, l´ignoranza del nemico, le crociate farneticanti e i miles gloriosi; le penose rodomontate, in cui siamo immersi, con rassegnazione e pena quotidiane.

L´analisi più erronea è quella del richiamo a Monaco cioè al cedimento della democrazia di fronte alla minaccia nazista. Richiamo impossibile e fuorviante.

Il nazismo era uno Stato aggressore, definito territorialmente, con una sua monolitica ideologia, con i progetti dichiarati e concreti, con un esercito visibile, misurabile. Il terrorismo islamico è una costellazione dei diversi, per nulla monolitico, contrastato dal moderatismo arabo, non definibile territorialmente, con un esercito invisibile, indefinibile che muore e rinasce dalle sue ceneri. La conoscenza del nazismo era possibile, il suo stesso capo Hitler lo aveva raccontato per iscritto in Mein Kampf. L´islamismo terrorista oscilla fra i progetti ferocemente concreti degli attentati e quelli vaghi o impossibili dell´anticrociata, della riconquista araba.

Il primo e perdurante errore dell´America di Bush e dei suoi alleati è stato proprio quello di non aver dimenticato Monaco; di avere creduto necessaria una reazione alla minaccia islamica con le occupazioni armate di territori arabi come se fosse possibile identificarli con il terrorismo. Ma l´Iraq di Saddam era esattamente il contrario, era una dittatura feroce ma laica, nemica di Osama Bin Laden come di altre organizzazioni integraliste. Un errore conseguente a quello delle guerre preventive di occupazione è stato quello delle crociate ideologiche o religiose alla Fallaci o alla Baget Bozzo il cui pessimo risultato è stato di rendere impossibile o difficilissima la convivenza in un futuro prossimo e di ricompattare il mondo arabo, di dimostrare che la separazione e la inimicizia sono inevitabili.

L´orrenda strage di Madrid ha ridato voce e furore al partito della guerra il quale non solo cancella e rifiuta le sue responsabilità, gli errori e le colpe delle occupazioni e delle repressioni ma rovescia il piatto, accusa i pacifisti, rilancia la retorica patriottarda, promette una guerra più grande e più dura e ricorre alla menzogna più sistematica per sopravvivere. Da noi il capo del governo spara menzogne assurde a raffica: la popolazione irachena è dalla nostra parte, la democrazia irachena è in marcia, la nuova Costituzione è una svolta decisiva, la ricostruzione procede spedita mentre la realtà sotto gli occhi di tutti è l´opposto: una guerriglia continua, lo stillicidio dei morti e dei feriti, un territorio incontrollabile, stragi fra comunità religiose un futuro senza prospettive. Chi mai, sano di mente può credere che la teoria americana della guerra continua, già fallita nel Vietnam, in Afghanistan, in Somalia, dovunque, sia percorribile? Che dall´occupazione dell´Iraq si passi a quelle dell´Iran del Pakistan, della Corea del Nord tacendo su quella della Cina perché anche i superfalchi su quella per ora si fermano?

Ci sono cose più urgenti e possibili da fare nella difesa dal terrorismo.

La prima è di uscire in qualsiasi modo dalla guerra sbagliata, dalla guerra insensata. Anche nella guerra del Vietnam i suoi responsabili sostennero le tesi dell´effetto domino e del vuoto di potere: l´intera Asia, il mondo intero avrebbe assistito alla palingenesi totalitaria, al trionfo del comunismo liberticida. Ma non è accaduto nulla del genere, quel che c´era di solido nell´universo democratico ha tenuto, si è assistito anzi al contrario, al prepotente ritorno al capitalismo della Cina e dello stesso Vietnam. La seconda cosa da fare è di uscire dall´ignoranza millenaria e perdurante sull´Islam. La falsa propaganda non paga neppure nel mercato delle vacche elettorali. Non paga neppure la testardaggine che taluni chiamano coerenza, la testardaggine di un Berlusconi che per difendere il suo amico Aznar continua a dire che la strage di Madrid è stata fatta dall´Eta. La verità non ci esenta dal bagno di lacrime e di sangue che è la nostra storia, ma almeno ci evita quel sovrappeso che la menzogna comporta, la caccia alle streghe e agli untori che già dilaga nell´informazione. I pacifisti accusati di tradimento della patria, di disfattismo, di cinismo, gli incitamenti a isolarli, a denigrarli, l´appello ai vecchi istinti aggressivi; la televisione occupata e in genere i mass media sfornano finti dibattiti in cui i padroni della scena, sempre in schiacciante maggioranza, invece che ragionare scomunicano, zittiscono, non si fa a tempo ad aprir bocca che già i cortigiani di regime gridano: Bugie! Bugie! Impressionante il ministro della Pubblica istruzione signora Moratti che si chiude nel suo genovesismo fazioso e presuntuoso, ritratto dell´intolleranza. E poi la corsa reazionaria al rovesciamento di tutti i valori; la volgarità che domina la buona educazione, il denaro che sommerge tutte le altre ragion di vita. Il trionfo dei bestseller indecenti, del mondo che cammina con la testa in giù e i piedi in alto che ogni giorno ci fa chiedere se non sia avvenuta una mutazione totale, una scomparsa della forza di gravità, l´avvento di un´era in cui gli uomini, come si vede nelle cabine spaziali, invece che camminare galleggiano, mentre oggetti e strumenti gli svolazzano attorno.

Tu sindacato porti per le strade di Roma ottanta, centomila persone per una forte, motivata manifestazione contro la de-forma Moratti? E io ti organizzo un convegno “azzurro” pro-Moratti con trecento persone e i “miei” telegiornali nazionali – che ormai sono cinque su sei – gli dànno un minutaggio praticamente uguale a quello del tuo bel corteo sindacale riducendone di molto l’effetto mediatico. Per carità, i convegni meritano rispetto, soprattutto se a fare da relatore c’è un genio della politica come Sandro Bondi.

Però qui siamo ad un passo dalla Stefani, dall’agenzia unica del regime la quale forniva ai giornali del ventennio le “veline” dicendo loro cosa non dare, cosa dare e come darlo (eventualmente) ai lettori. Quanto è successo nella informazione televisiva di sabato rispetto al grande, vitale, generoso corteo di Cgil, Cisl e Uil a tutela di un bene fondamentale qual è, nonostante tutti i suoi acciacchi, la scuola pubblica non ha forse precedenti : ovviamente né i Tg della Rai né quelli di Mediaset potevano ignorarlo. Però, con l’ormai isolata eccezione del Tg3, gli hanno subito appiccicato e contrapposto il convegno di Forza Italia sulla “riforma” Moratti tanto cara al premier. E così sono stati in buona parte oscurati nella comunicazione radiotelevisiva gli sforzi degli organizzatori sindacali, l’abnegazione dei tanti partecipanti arrivati da tutta Italia con un tempo da lupi, i loro argomenti così netti e competenti a salvaguardia del tempo pieno e di altre conquiste maturate in Italia dalla fine degli anni ’60.

La sproporzione fra quel corteo di massa e quel convegno al chiuso di una sala era oggettivamente enorme. In termini giornalistici il primo era un fatto costruito da decine di migliaia di persone, di famiglie, di operatori e da tre sigle sindacali nazionali che un bel peso ce l’hanno ancora. Un fatto che meritava un ampio servizio, un racconto a più voci. Com‘è poi avvenuto su molti giornali domenica mattina.

Mentre il secondo era una notizia da registrare, certamente da dare, come si dà un convegno significativo sul tema della scuola. Capisco che questo della scuola pubblica – al pari di quello della sanità pubblica e magari della casa e dell’affitto che non ci sono più – stia diventando per il governo un autentico ginepraio in cui Berlusconi ha creduto di potersi ficcare con la banale formuletta finto-moderna delle tre I e nel quale non sa più come districarsi. Un po’ per l’evidente inadeguatezza del ministro Moratti. Un po’ perché il suo progetto va a separare, ad un certo punto, educazione e formazione in modo vecchio e classista, perché scarica altri pesi sulle famiglie che già ne portano troppi, perché non garantisce alcuna delle vere modernizzazioni di cui questa scuola ha bisogno da tempo, e poi perché, alla fine, è fin troppo evidente lo scopo di favorire l’istruzione privata. La quale, almeno a livello di scuole confessionali, è come avvitata in una crisi senza fondo (soltanto a Roma le mancano migliaia di insegnanti e stanno ansimando anche vecchi Licei di tradizione dove si pagano da tempo rette più che salate).

Quindi anche questo modo di neutralizzare in sede di comunicazione di massa, nel sommario stesso di radio e telegiornali, i fatti concreti prodotti dalla contestazione di massa della de-riforma Moratti (discorso analogo potremmo fare per la sanità pubblica, per il caro-prezzi imputato all’euro, per la politica ambientale e così via) diventa alla fine un gesto disperato. Volto, come tanti altri, ad occultare la realtà vera del Paese, cosa si muove effettivamente dentro di esso.

Gioco disperato condotto con la solita carica di cinismo: Berlusconi sa benissimo che una larghissima fetta di elettorato, in specie le fasce più anziane e quelle più giovani, leggono poco i giornali e si formano davanti al video un’opinione sui fatti del giorno. Secondo il Censis, il 62 per cento e oltre delle italiane e degli italiani, contro un 21-22 per cento che s’informa sui quotidiani. Lui ci prova. Però la scuola pubblica minacciata coinvolge milioni di persone, la sanità pubblica pericolante pure, l’inflazione più alta di tutta l’Europa che ha adottato l’euro non parliamone. E il catalogo negativo potrebbe continuare.

Tutto ciò conta e conterà al momento del voto, alla prima scadenza di giugno. Ma sottolineare quel gioco cinico, quel comportamento da bari dell’informazione si deve. Con più forza. E insieme si devono costruire dal basso, da queste esperienze di lotta in corso, programmi condivisi di “ricostruzione” democratica del Paese, i quali trovino domani un’ampia e convinta maggioranza di consensi. In questa “ricostruzione” democratica il tema dei Media, dopo quasi tre anni, ormai, di omologazione teleguidata, di falsificazione, di omissione, quindi di inquinamento profondo delle coscienze e delle conoscenze, ha un ruolo più che mai strategico. Sul quale è indispensabile lavorare unitariamente, giorno dopo giorno.

P ereat mundus, fiant vacationes. Sembra lo slogan delle sinistre. Nel governo ne succedono di tutte, Forza Italia impazza contro la Udc, la Udc contro la Lega, Calderoli contro tutti, Castelli contro la sinistra, ma l'opposizione tace, salvo per unirsi al coro di chi non si darà pace finché il Battisti Cesare, colpevole negli anni `70 e da trent'anni tranquillo cittadino in Francia, non sarà stato consegnato alle patrie galere, notoriamente vaste, fresche e sottopopolate. E pazienza se l'opposizione si prendesse qualche riposo dopo averci fatto conoscere le intenzioni sulle quali chiederà al popolo il voto per sostituire l'attuale governo, del quale esige le dimissioni un giorno sì e un giorno no. Dopo le elezioni europee, c'è una probabilità che quelle legislative avvengano nel 2005, cioè domani. Quali guasti intende sanare dei molti fatti dal Cavaliere? Il conflitto d'interesse? Le misure giudiziarie ad personam? La progettata riforma della magistratura? Le legge Maroni sulla flessibilità del lavoro? La Bossi-Fini? La riforma Moratti? Qualcuno ha ventilato che molte di esse avrebbero alle radici delle buone ragioni. D'altra parte non si rimedierà con semplici misure legislative a disposizione che hanno già modificato la costituzione materiale e formale del paese. Fra tre settimane darà alla Camera una devolution, cui ha aperto le porte la modifica del capitolo 5 votata a spron battuto dal centrosinistra.

Il governo ci lascia un deficit di migliaia di miliardi di euro, che intende coprire detraendoli dalla spesa sociale e vendendo beni pubblici. La sinistra invece che ne farà? Ripreleverà dai grossi redditi, dai patrimoni comprese rendite finanziarie? Sarebbe logico ma andrebbe detto. Inoltre una grande industria italiana non c'è più, Montezemolo invita a «ricostruirla assieme» ma con quali mezzi, priorità e garanzie per il lavoro non glielo chiede nessuno. Non l'opposizione, una cui inviata all'estero fa sapere che buona parte dell'Ulivo lo considera un premier ideale. Non solo i governi europei hanno nominato una commissione in confronto alla quale la Confindustria è un seminario di socialdemocrazia. Qualcuno protesta? E con quali ragionevoli alleanze si propone ragionevolmente di modificare il patto di stabilità?

Infine ma non per ultimo, in queste settimane l'offensiva americana contro l'Iraq è diventata selvaggia e investendo Najaf si è messa contro oltre che i sunniti gli sciiti. Mentre i nostri a Nassirya sono nella zona di fuoco. Che si aspetta per fare una pressione per il ritiro delle truppe, anche a prescindere dal povero Baldoni? Che si aspetti la vittoria di Kerry, il quale non cambierà né molto né subito?

Urge scegliere il che cosa e il come. Un programma non è una lista di buone intenzioni è una tabella di marcia cui si risponde. Ha da essere chiara, fattibile e impegnativa.

Non ce l'hanno ancora né la sinistra moderata né quella radicale. Ambedue ci intrattengono su questioni di metodo: fare o no le primarie per eleggere il leader del centro-sinistra, che è definito da un pezzo? E a che punto è la coalizione, e se è a buon punto prelude o no a una maggioranza di governo? L'Unità non si espone, tanto più che il Congresso dei Ds sarà tutto un fair play. Su Liberazione è invece in corso un dibattito acerbo se si debba andare ad una maggioranza come propone Bertinotti oppure no e chi dovrebbe decidere: la maggioranza del partito, tutto il partito, maggioranza e minoranza o partito e movimenti? E si sprecano accuse reciproche di cedimento o settarismo.

Può darsi che il caldo ci renda nervosi. E che con l'ebbrezza di settembre escano invece le idee chiare dalla sinistra. Nel solleone di agosto abbiamo visto soltanto che la borghesia ha gratificato la memoria del suo De Gasperi mentre la sinistra ha riseppellito l'ex suo Togliatti senza lasciare per un giorno la villeggiatura e mettere sul suo sepolcro un fiore né di ricordo né di elogio né di perdono.

LE CARTE del gioco sono sempre più mischiate, i gomitoli sempre più imbrogliati e dipanarne i fili è diventata un´operazione quanto mai ardua.

Vale per l´Italia, vale per l´Europa, per gli Stati Uniti, per la Russia e per l´Oriente, quello vicino e quello lontano. In un mondo sempre più interdipendente dare un senso a questa congerie di eventi nebulosi è quasi impossibile. Forse un senso non c´è. Siamo costretti a inventarcelo per sopravvivere. Accatastiamo segnali contraddittori, reperti, analogie, metafore del possibile, statistiche del probabile. Ma da dove e da chi cominciare?

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Comincerò da Kerry, l´anti-Bush che sta scrupolosamente attento a nominare il suo antagonista il meno possibile, a volare rasoterra per sfuggire ai radar dell´avversario cercando di convogliare attorno a sé il pacifismo del mondo intero presentandosi con la mano alla visiera da vecchio combattente e con lo slogan "Strong America". Il campione del multilateralismo che dovrà ricucire le ferite inferte dai neo-conservatori agli alleati europei e agli arabi moderati esordisce affermando: «Non permetterò mai a nessun paese e a nessuna istituzione internazionale d´interferire sulle nostre decisioni per quanto riguarda la nostra sicurezza».

Reculer pour mieux sauter? Forse. Ma forse no. Kerry parla ad un paese che è il più potente del mondo e deve ottenerne il consenso. Un paese dove il saluto militare è ormai una sorta di tic nazionale. Un paese geloso della propria democrazia ma assai poco versato al garantismo d´esportazione. Infine: un paese molto generoso con gli altri anche perché gli altri gli forniscono da almeno ottant´anni i mezzi per vivere costantemente al di sopra delle sue risorse.

Può darsi che Kerry vinca la sfida con Bush. Personalmente me lo auguro perché penso che l´America da lui rappresentata sia comunque il meglio che quel grande paese amico possa esprimere. Ma non facciamo l´errore di considerare Kerry come l´erede di George Washington o di Abramo Lincoln.

Troppo tempo è passato e gli Usa, anche se smetteranno di teorizzarlo, sono comunque il centro d´un impero. Ai suoi tempi perfino Marco Aurelio, l´imperatore filosofo, sapeva bene come far rispettare la forza di Roma.

Kerry sa che il suo paese può vincere da solo qualsiasi guerra ma ha bisogno di grandi alleanze e di grande consenso per vincere la pace. Ma questo ormai lo sa perfino Bush. Kerry, se andrà alla Casa Bianca, curerà molto di più lo sconquassatissimo welfare americano, la sanità, la scuola, l´assistenza. Forse vezzeggerà più Chirac di Berlusconi. Gli si può chiedere di più?

Quanto ai nostri Fassino e Rutelli, è perfettamente vero che la loro dichiarazione sulla permanenza del contingente italiano in Iraq nel caso che l´Onu assuma poteri rilevanti in quel paese non rappresenta una novità.

L´hanno sempre detto, perfino con atti parlamentari più volte ripetuti. Perciò non si capisce perché abbiano sentito il bisogno di ripetere il già noto.

Talvolta la sobrietà è meglio della loquela e questo era uno di quei casi.

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Ho cominciato dallo sfidante di Bush ma ora, perdonatemi, debbo parlarvi dei tafferugli avvenuti ieri alla Camera dei deputati riunita per votare il prestito-ponte destinato a far sopravvivere almeno per qualche mese l´Alitalia nella speranza che la compagnia possa risollevarsi dallo stato di prefallimento in cui versa.

Leggerete in cronaca il resoconto di questo episodio disdicevole, attizzato dal diverbio tra socialisti e Lega. Va detto che qui si è giunti molto al di là del folklore.

Dalle parole si è passati ai fatti, la gazzarra leghista ha prodotto molti contusi e addirittura un ferito, condotto nell´infermeria di Montecitorio.

Vittime dell´aggressione leghista sono stati un deputato della Margherita e i socialisti ma non quelli di Boselli bensì quelli di De Michelis, all´interno cioè del centrodestra.

Ora si parla di dimissioni di Bondi, che teme altri e più insidiosi attacchi dall´interno della stessa Forza Italia. L´ex ministro dell´Interno, Scajola, vuole parlare del dopo-Berlusconi e decine di deputati gli fanno coro. Formigoni da Milano sfiducia il rappresentante di Berlusconi che sovrintende al partito in Lombardia. Il presidente della Camera si rifiuta di strozzare il dibattito sulla devolution come vorrebbe la Lega. Fini ha perso la voce e dopo tanto eloquio è diventato muto. Follini aspetta settembre.

Berlusconi spiega che la Finanziaria di Siniscalco non prenderà un solo centesimo dalle tasche degli italiani ma sosterrà lo sviluppo del paese con apposite misure. I 24 miliardi di manovra prevista pioveranno dunque dal cielo per premiare l´uomo della provvidenza. Forse quell´uomo è diventato pazzo e ancora non ce ne siamo accorti. E quand´anche, non bisognerebbe dirlo per poter agganciare i voti dei moderati in trasferimento da destra verso il centro (sinistra?).

Signori, egregi lettori, concittadini: è chiaro che il governo e la coalizione di maggioranza sono usciti dai cardini. Domenica scorsa scrissi che il paese è stato affidato a un gruppo di saltimbanchi imbroglioni. Poi, rileggendomi, mi sono pentito: alla mia età dovrei essere più cauto, più saggio, meno puntuto. Ma oggi, con quello che accade intorno, mi assolvo completamente. Ancora una volta la realtà ha superato l´immaginazione e nemmeno le parole per descrivere l´umiliazione e la vergogna che si provano di fronte allo spettacolo impudico messo quotidianamente in scena da chi rappresenta le nostre istituzioni, sono bastanti.

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Debbo anche parlarvi - e scusatemi ancora - di Siniscalco il nuovo ministro dell´Economia che, seguendo il lessico in uso, si dice sieda sulla poltrona che fu di Quintino Sella.

Dunque Siniscalco. Sta vivendo un suo periodo di grazia. Il predecessore era talmente querulo e al tempo stesso tirannico, talmente creativo e al tempo stesso dissennato, che chiunque fosse stato scelto dopo di lui sarebbe stato accolto con un sincero benvenuto.

Siniscalco ha promesso trasparenza, ascolto, dialogo. Ha snocciolato le cifre del disastro finanziario. Non tutte, perché il disastro è almeno il doppio di quanto annunciato; ma insomma ha certamente sollevato una parte del velo che aveva coperto per tre anni quelle voragini.

Qui però, almeno per ora, si arresta la trasparenza di Siniscalco. Non sappiamo dove prenderà i 24 miliardi della manovra più i 6 necessari per far giocare il Capo con la riduzione dell´Irpef.

Il primo approccio del successore di Quintino Sella sembra quello di poter superare la soglia del 3 per cento deficit/Pil col benestare dell´Europa.

Ammesso e non concesso che quel benestare ci sia, questo significa che il successore di Sella potrà sfondare i limiti di Maastricht aumentando così il disavanzo. Curerà il buco di competenza mandando in passivo la cassa.

Elementare Watson. Stamperà biglietti il nipotino di Quintino Sella.

Accrescerà il fabbisogno. Emetterà titoli pubblici. Quindi aumenterà il debito pubblico. Auguri.

Ma poi, per turare l´ammanco di cassa, venderà patrimonio. Immobili.

Azioni. Diritti. Per cento miliardi di euro (200mila miliardi di lire) in quattro anni. E poi dite se anche lui non è creativo: si muove sul trapezio con sapiente maestria. Avevo detto saltimbanchi ma mi correggo: trapezisti.

Però senza rete. È infatti molto dubbio esitare il patrimonio così rapidamente. Credo che chiameranno in soccorso le banche per anticipare i soldi necessari. Ma per invogliarle dovranno svendere gli asset patrimoniali.

E chi se ne frega: pagheranno i figli e i nipoti.

Questa storia dei figli e dei nipoti sta prendendo una bruttissima piega.

Non dovevano essere i padri a pagare per i giovani? Non era questo lo spunto della riforma del lavoro e di quella delle pensioni? Contrordine: pagheranno tutti. Anzi i figli più ancora dei padri.

Dice il professor Nicola Rossi, deputato riformista Ds: la riforma delle pensioni non è granché, doveva essere più rigorosa, ma se il centrosinistra vincerà dovrà tenersela perché è comunque meglio di niente.

Ho stima per il professor Rossi ma, mi scuserà se dico che non condivido.

La riforma delle pensioni potrebbe certo essere ancora più severa e più rapida nei risultati ma a una tassativa condizione: e cioè che prima o almeno contestualmente al suo varo avrebbe dovuto esser messo in piedi un sistema di ammortamenti sociali che coprisse l´insicurezza del lavoro flessibile e provvedesse alla formazione e alla "buona occupazione" dei lavoratori, come da tempo suggerisce Giorgio Ruffolo.

Se questo fosse il programma del centrosinistra, come mi auguro, la riforma delle pensioni può perfino essere migliorata, ma non un solo centesimo dovrebbe finire nelle casse del Tesoro: saranno gli stessi pensionandi a destinare i loro sacrifici per render possibile il nuovo Welfare. Sennò, no.

Confido che il professor Rossi convenga con me.

* * *

Intanto affiora l´ipotesi di un´imposta patrimoniale perché il buon Siniscalco da qualche parte dovrà pur trovarli quei maledetti quattrini. Hai voglia a tagliare le pensioni d´invalidità, hai voglia a sostituire incentivi con prestiti agevolati, hai voglia ad aumentare le sigarette. Bazzecole. C´è un vasto patrimonio immobiliare privato. Tassiamolo. E infatti hanno cominciato con la seconda casa, ma sono briciole.

Naturalmente la parola "patrimoniale" non può neppure essere pronunciata.

Ma ci stanno pensando. Prelevare con imposta le plusvalenze degli immobili.

Attenti però: se non è uno scherzo può diventare una rivoluzione. Tassare la prima casa? Che lo dica Bertinotti, passi; che lo pensi Siniscalco, membro d´un governo sostenuto dal medio ceto, via, sarebbe solo il sintomo che non c´è più niente da fare.

Onorevole ministro dell´Economia, dica forte e chiaro ciò che finora ha sussurrato: per colmare il buco lei dovrà tassare o accrescere il debito.

Scelga lei a quale corda impiccare i padri oppure i figli o tutti e due. E ringrazi il suo predecessore per la bella eredità che le ha lasciato.

Colombo, Dopo la caduta

No, non è il caso di cantare “Bella Ciao” dopo la caduta di Tremonti. Il ricordo evocato da questo oscuro episodio di palazzo corre piuttosto al 25 luglio. La frase che viene in mente è quella triste e porta-sfortuna di Badoglio: «La guerra continua». Avverto subito coloro che - su tutti i giornali della Repubblica - assistono con serenità buddista a incredibili eventi di governo che sono fuori dal buon senso, fuori dalla Costituzione, fuori dall’Europa (venerdì navi della Marina italiana hanno costretto un cargo di profughi dalle stragi del Sudan a restare al largo per impedire che quei profughi potessero chiedere asilo politico) ma si allarmano subito se la sinistra si permette di celebrare un po’ troppo una sua vittoria.

No, in questo caso, dicendo guerra, non stiamo parlando della guerra dell’opposizione. Il riferimento è alla loro guerra, quella contro le leggi, contro le istituzioni, contro il Paese, al solo fine di allargare il loro potere personale.

Perché questa guerra finisca, o almeno ci sia un armistizio fra l’Italia e il suo rovinoso governo, sabato tutta l'opposizione, per prima cosa, ha chiesto le dimissioni di Berlusconi e dei suoi.

Nonostante che il momento sia insieme farsesco e tragico, perché il governo è inciampato malamente e in pubblico là dove un qualunque imprenditore di media esperienza avrebbe scambiato in poche ore ruolo e responsabilità dei suoi collaboratori, mostrando continuità ai concorrenti ed evitando piazzate, lui, il modesto eroe che alla fine lascerà di se stesso solo un ricordo un po’ ridicolo e un po’ sgradevole, non si dimetterà, se appena appena gli riuscirà di tenere testa al Quirinale. Perché, contro ogni buon senso e vera necessità, cercherà di non farlo? La spiegazione è in uno dei due grandi fili che legano e spiegano la sequenza di terribili performance politiche berlusconiane.

Il primo filo, come sappiamo, è l’interesse personale. Basti ricordare un episodio di questi giorni. Subito dopo la approvazione della Legge Gasparri, che sposta tutto il peso delle comunicazioni italiane sul sistema digitale (e che questo giornale - esagerando come al solito - aveva dichiarato un colpo di mano della famiglia Berlusconi, tramite l’amico di famiglia Gasparri) la Fininvest ha messo fuori gioco la Rai e si è assicurata con il calcio la parte più succosa del digitale, cioè del malloppo reso disponibile dalla nuova legge delle comunicazioni.

Ma questo percorso - come i lettori sanno - è stato esplorato da l’Unità in ogni singolo giorno del suo ritorno in vita, attirandosi sia le ire della famiglia in questione e dei suoi astiosi portavoce, sia la disapprovazione pacata di chi avrebbe voluto, invece, che ci dedicassimo a esaminare ogni mattina, da capo, i problemi della sinistra. Ognuno ha le sue ossessioni e la nostra, come i lettori sanno, è Berlusconi e il suo governo. Ragioni, che tutti conoscono e pochi dicono sono l’immenso conflitto di interessi, i gravi danni all’Italia, e il distacco dall’Europa, la trasformazione del nostro Paese da buon alleato a colonia americana.

Ma l’altro grande filo che spiega il comportamento a volte risibile, a volte infantile, spesso poco sensato del primo ministro italiano è una vanagloria più da avanspettacolo (era il tipo di varietà con cui una volta si intratteneva il pubblico dei cinema prima del film) che da show business. È il giorno giusto per soffermarci su tre scenette tipiche di questo avanspettacolo.

La prima è il vezzo di Berlusconi di darsi in pubblico dei meriti che non ha. Il pubblico, specialmente fuori dall’Italia, dove le televisioni sono libere, ride. Ma lui ci crede, insiste e ripete. Per esempio celebra “la durata senza precedenti” del suo governo, tentando di far credere che è lui, e non la durata della legislatura, il vero protagonista. In questo modo si mette con buffa e ingenua vanteria, nelle mani dei suoi alleati che non possono controllare il governo ma hanno qualcosa da dire sulla durata della legislatura e, come sembra stia per accadere questa volta, potrebbero giocarsela contro gli interessi dei loro rispettivi partiti.

Ma Berlusconi, al modo del compianto presidente cinese Mao, ha un altro vizietto: attribuisce a se stesso il merito di ogni azione di governo. Impresa azzardata, per un governo che di meriti ne ha pochi. Eppure lui si fa trovare accanto al ministro Lunardi per celebrare le grandi opere che non sono state mai fatte. Si fa trovare in televisione, accanto alla signora Moratti, per farti credere, con ammiccamenti, interruzioni e monologhi che la riforma della scuola è sua. Strana rivendicazione, visto che si tratta della peggiore e della più sgangherata riforma possibile. Ma a Berlusconi sta a cuore l'avanspettacolo di cui si sente la star. Il suo lato vanesio, come dimostra il penoso e non molto utile episodio del lifting facciale, vince sempre sulla ambizione ad apparire statista.

Ma Berlusconi è anche il primo ministro che, senza pudore, senza interlocutori, e con la complicità di giornalisti servili, andava in televisione da solo, quando voleva lui, e recitava senza esitazione sfilze di numeri inventati, contando sul fatto di avere intimidito abbastanza il mondo dei media dai tempi del licenziamento in tronco di Enzo Biagi, per non dover temere una domanda impertinente di un solo giornalista od esperto. Dunque lui ha preteso - da solo e con disprezzo per tutti - di essere, lui in persona, la vera anima e il vero cervello del piano e delle riforme economiche. Adesso Berlusconi ha inciampato in se stesso. L’uomo di avanspettacolo (Berlusconi) si è impigliato nel grande timoniere dell’economia (Berlusconi). Insieme non hanno saputo sbrogliare una obiezione dell’alleato Fini su numeri falsi e imbrogli contabili. E adesso chi darà risposte plausibili a Bruxelles?

Nella seconda scenetta vediamo Berlusconi trasformarsi da finto leader politico a vero padrone cattivo, come il miliardario di Charlie Chaplin disprezza e svilisce i suoi alleati. Sprezzante, si azzarda a dire loro in pubblico: ma dove andate senza di me?

Adesso loro, che hanno anche incassato qualche voto in più alle elezioni, rispetto alla rotta di Forza Italia, fanno il gesto di alzarsi e di andarsene. Solo il gesto. Ma lui? Lui che ama i fondali finti di Pratica di Mare e i successi inesistenti però celebrati da tutti i Tg di regime, adesso si trova in un saloon con i tavoli rovesciati.

La terza scenetta non è allegra neppure per chi ha sempre cercato di far capire quanto danno Berlusconi ha fatto, e si accinge ancora a fare, a questo Paese. Si tratta di confessare in pubblico, in Europa, come in un grande rito protestante, la bancarotta italiana del governo Berlusconi. Il lavoro duro di tutti gli editorialisti e commentatori che per tre anni hanno infaticabilmente celebrato il regime, le sgridate di Vespa e di Aldo Forbice, in studio o in trasmissione a chi osa dire male, anche solo con una mite osservazione, di Silvio Berlusconi, tutto va in fumo in un giorno, anzi in una notte. Lo avevamo detto fin dall’inizio di questo confronto impari con l’uomo più ricco e più incapace di governare nel mondo: l’Europa ci salverà.

ROMA Bruno Trentin, ex segretario generale della Fiom e della Cgil, parla con l’Unità del dopo Melfi. Attenti, avverte, tra i giovani cova la rivolta. C’è una nuova generazione di lavoratori che non sopporta condizioni discriminanti. E' uno stato di malessere che serpeggia nell'intero mondo del lavoro. E sulla sinistra ha pesato, negli ultimi anni, l'egemonia delle culture liberali.

La fabbrica Fiat di Melfi era nata sotto l’insegna del cambiamento. Che cosa è successo poi?

«Era un tentativo di creare sul “prato verde” un esperimento nuovo, contrassegnato dal just in time, il rifornimento “sul momento” dei pezzi di ricambio dell’auto, con la creazione di un nuovo rapporto tra l’azienda subfornitrice e l’azienda fornitrice. C’era poi l’ambizione di favorire il lavoro di gruppo. Creavano delle aree di lavorazione affidandone la responsabilità a dei capi. Una piccola minoranza è stata così associata alla linea di direzione della Fiat, mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori, ed erano tutti diplomati, rimaneva dopo sei settimane di formazione generica, assolutamente tagliata fuori. E su di loro è piombato un sistema disciplinare intollerabile, una politica salariale che discriminava i nuovi assunti rispetto ai lavoratori delle altre fabbriche Fiat del Nord, un’organizzazione del lavoro in larga misura di tipo tayloristico, con ritmi massacranti».

Come mai gli operai hanno tollerato questa situazione per tanti anni?

«Erano di fronte ad una nuova occasione di lavoro, in un territorio davvero dissestato dal punto di vista dell’occupazione. E poi devo dire che sono prevalse, dentro il mondo della sinistra, culture neoliberiste. Melfi è solo un esempio. Credo che giustamente Massimo D’Alema, in un recente intervento, abbia riconosciuto che c’è stata un’egemonia delle culture neoliberali anche nella sinistra italiana».

Un’egemonia a proposito di che cosa?

«Credo che si riferisse al fatto che per un certo periodo è stata fatta quasi un’apologia della flessibilità del lavoro, anche quando tale flessibilità corrispondeva ad una precarietà delle condizioni di lavoro e delle condizioni d’occupazione. C’erano animate discussioni sul valore del sottosalario per i giovani, come condizione per la creazione di posti di lavoro. I giovani - si diceva con una battuta - sarebbero andati a manifestare contro i sindacati, stracciando i contratti di lavoro, per trovare un’occupazione. Una menzogna. Mai la riduzione del salario per un nuovo assunto ha consentito la realizzazione di un posto di lavoro. Ci vuole ben altro. Rappresenta solo una convenienza dell’azienda che risparmia e rende più facile l’espulsione di lavoratori anziani che costano di più. Era la negazione di un principio costituzionale: a parità di lavoro parità di salario, per età e per sesso».

Melfi rievoca una tale egemonia conservatrice?

«Melfi è la riprova di questi errori. Quel momento di rivolta, avvenuto inizialmente anche senza il sindacato, affermava un grande problema, al di là della parificazione con i trattamenti degli altri lavoratori Fiat, al di là dei turni massacranti. Era un problema di dignità, la volontà di cambiare quello che sembrava essere un dogma persino di natura economica. Hanno buttato a mare i dogmi, hanno dimostrato che coloro che lavorano, tanto più quando sono diplomati, acculturati, intendono essere riconosciuti come delle persone che hanno un contributo insostituibile da recare alle attività produttive e alla vita democratica del Paese».

E’ la spia di un malessere che accomuna gli autoferrotranvieri di Milano con i lavoratori dell’Alitalia, passando per Terni?

«Alcune vicende si devono a situazioni di crisi, come all’Alitalia dove occorre cercare di evitare la catastrofe. A Terni è stata una rivolta popolare contro lo smantellamento di un reparto d’acciai speciali, ad alto contenuto tecnologico. A Milano, invece, la rivolta era proprio contro il sottosalario ai nuovi assunti. Io ricordo le battaglie fatte, quando ero segretario della Cgil, molte volte non capite da anziani lavoratori. Esistono salari dei giovani neo assunti con il 30, il 35 per cento in meno rispetto a mansioni eguali».

Sono situazioni presenti in altre parti del Paese?

«In molte: in nome dell’aiuto ai giovani si toglieva il salario ai giovani, per accelerare la partenza dei vecchi. Sono queste ideologie che ora sono rimesse in questione. E ritorna un grande tema rimosso dalla riflessione della sinistra e del sindacato: il controllo dell’organizzazione del lavoro, il controllo sul tempo di lavoro e sul tempo di vita. E’ una tematica che è stata fondamentale negli anni Sessanta e Settanta».

C’è stato un ritardo anche nel comprendere le novità del mondo del lavoro?

«Non abbiamo capito che la specificità del lavoro richiedeva un nuovo approccio al mercato del lavoro. Chiedeva una battaglia per la formazione continua che impedisse che milioni di giovani fossero rapidamente emarginati non solo dal lavoro, ma dalla conoscenza e si sentissero sempre più handicappati nell’acquisire un altro lavoro».

Torna anche il tema della democrazia, del rapporto tra sindacati e lavoratori...

«Quando prevale nel sindacato la battaglia difensiva allora molto spesso ci si divide tra chi ritiene d’essere più realista e chi ritiene d’essere più intransigente. E poi si perdono i rapporti diretti con i lavoratori interessati. Nuove forme di democrazia vanno ricercate e costruite coinvolgendo i lavoratori. Il referendum può essere una forma utile, così com’è stata usata a Melfi. Nei momenti più alti della lotta sindacale noi siamo ricorsi, però, a consultazioni molto più complesse, ad assemblee che discutevano per due-tre giorni e non si limitavano ad esprimere un sì o un no. Ricordo quando per il contratto nazionale eleggevamo unitariamente i delegati in tutti i luoghi di lavoro e creavamo una consulta dei delegati che giorno per giorno seguiva la trattativa».

Per la maggioranza torturare è lecito, basta non insistere

di Maria Zegarelli

Giovedì alla Camera c’è stato un altro durissimo regolamento di conti nella Cdl. Ha vinto la Lega, facendo votare a sorpresa un - incivile - emendamento alla legge sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale in base al quale le violenze o le minacce devono essere «reiterate». Ripetute più volte, altrimenti no, non è tortura. L’emendamento è passato con 201 sì, 176 no e due astensioni, Bobo Craxi del nuovo Psi e Giuseppe Naro dell’Udc. È successo tutto nel giro di pochi minuti, mandando all’aria un lavoro che andava avanti da due anni. Il testo - primi firmatari Piero Ruzzante, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, oltre a 100 parlamentari di centro destra - in Commissione Giustizia era stato condiviso da tutti gli schieramenti politici, tranne la Lega. Il Parlamento stava, finalmente, per votare la legge che dava corpo agli impegni presi dall’Italia con la ratifica della Convenzione dell’Onu contro la tortura. Invece adesso si riparte da zero.

Fuori c’è il sole. Dentro il parlamento, invece, il clima è plumbeo. La bagarre scoppia quando il relatore del provvedimento Nino Mormino alza il pollice verde dando indicazioni di voto a tutta la Cdl. L’opposizione insorge. Anna Finocchiaro, responsabile giustizia dei Ds urla verso i banchi della maggioranza «vergogna». Racconta la testimonianza «di una donna del Salvador che venne sottoposta per giorni e giorni a torture fisiche. Lei mi disse che la cosa più grave che le fecero fu una sola minaccia. Fatta una volta sola: le promisero che avrebbero fatto assistere alle torture il figlio di 3 anni e mezzo... Dovreste vergognarvi perché con il voto di oggi mancate di rispetto alle migliaia di persone che ogni giorno vengono torturate». Il presidente di turno, Alfredo Biondi sospende la seduta, mentre il responsabile Giustizia della Margherita, Giuseppe Fanfani, chiede di far tornare in commissione il testo di legge. Il verde Paolo Cento accusa: «Voi state dalla parte dei torturatori. Non potevamo aspettarci di meglio da questi leghisti che esprimono i ministro Castelli che era a Bolzaneto e ha coperto le torture del G8». Volano diversi «fascisti», gridati da Russo Spena, di Rifondazione. Antonio Di Pietro azzarda: «Dietro questo emendamento c’è la volontà di rendere non punibile il comportamento di mafiosi veri...».

La maggioranza rumoreggia e poi esplode il leghista Guido Rossi: «Oggi è stata fatta una grave offesa all’aula che è sovrana». Detta così, proprio da un leghista, sembra quasi comica, la frase. La Lega ci mette in mezzo l’ex ministro Oliviero Diliberto, Cuba, i comunisti e altro ancora. Luciano Dussin butta lì: «La proposta di legge non ha nulla a che vedere con la tortura, è nata per contrastare l’attività investigativa delle forze dell’ordine». Anna Finocchiaro, che è uscita dall’aula, non ci pensa nemmeno a rientrare, perché «non c’è niente da discutere con questi». Dice: «Con questo emendamento prendere un ragazzo o un immigrato, portarlo in caserma e torturarlo per una volta soltanto non è reato».

Un «sorpreso» presidente della commissione Gaetano Pecorella, invece, chiede il rinvio del testo al comitato dei nove. Richiesta accolta. La confusione è al massimo: sia il relatore che Pecorella avevano espresso parere negativo all’emendamento, ma poi in cinque minuti è tutto cambiato. L’esponente di Forza Italia, in affanno, butta giù una spiegazione e peggiora tutto. Fa insorgere anche l’Udc. Dice: «Devo dare atto che la scelta della commissione era esattamente nel senso opposto e cioè di un parere contrario all’emendamento della Lega. Poi c’è stata una decisione politica all’interno della Cdl, che purtroppo è intervenuta secondo me tardivamente, ma di cui non abbiamo potuto non prendere atto perché una coalizione di maggioranza deve avere, o dovrebbe avere, caratteristiche di compattezza...». Il capogruppo dell’Udc Luca Volontè ribatte: «Non c’è stato alcun accordo. Forza Italia non ha parlato di questo con noi, forse l’ha fatto con la Lega. Se questo è l’ennesimo prezzo che qualche luminare della Cdl vuole pagare alla Lega lo paghi, ma noi non cederemo. O si torna al testo originario, concordato sia all’interno della coalizione sia con l’opposizione oppure il nostro sarà un voto contrario». A nome suo e del gruppo che rappresenta promette battaglia. Di più: «Farò scudo con il mio corpo affinché o si tolga l’emendamento della Lega o la legge non trovi il voto favorevole dell’intero parlamento».

In tarda serata arriva un’altra versione dei fatti: c’è stata confusione con un emendamento antecedente a quello in esame, presentato dalla Lega. Così Udc, An e Fi hanno votato a caso. La Lega gongola: «Il nostro emendamento non sconvolge lo spirito della legge, ma determina meglio che cosa si debba intendere per tortura. La minaccia è già sanzionata - sostiene Carolina Lussana - ma perché diventi tortura c’è bisogno di qualcosa di più». Fuori dall’Aula, intanto, cresce la protesta.

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22.04.2004

Passa in Commissione la privacy armata, come negli Usa

di red

Via libera a maggioranza dalla commissione Giustizia del Senato al ddl che modifica l'attuale normativa in materia di legittima difesa e consente l'uso di

armi nelle abitazioni private e negli esercizi commerciali per difendere l'incolumità di persone e beni, alla stregua dell'America. Il ddl andrà in Aula nei prossimi giorni.

Le nuove norme in materia di legittima difesa scattano quando c'è violazione di domicilio da parte di qualcuno che minaccia l'incolumità di persone e cose. A spiegare il provvedimento licenziato dalla commissione

Giustizia di Palazzo Madama è il senatore Furio Gubetti di Forza Italia che lo scorso anno presentò il ddl che nelle ultime settimane ha imboccato il «binario veloce» per una serie di fatti di cronaca nera.

La legge è stata approvata con i voti della maggioranza,

contro Ds e Verdi, astenuta la Margherita e, a titolo personale

il diessino Giuseppe Ayala.

Per domicilio, oltre alla propria casa, si intende anchetutti i punti comuni condominiali e così le nuove norme in materia di legittima difesa si avranno in caso di aggressione in ascensore, box auto, garage, cortili interni, rampe di scale. Domicilio sono anche negozi, uffici ed ogni esercizio commerciale collocato in immobili.

L'uso delle armi per difendere la propria incolumità, anche sessuale, o quella di beni è possibile se il malavitoso non desiste e resta il pericolo di aggressione. Quindi non sarà possibile, ad esempio, inseguire un rapinatore fuori da una gioielleria e sparargli. La nuova legge rende poi automatico il «rapporto di proporzione» il che significa che è superato la proporzione del tipo di arma: così se il malavitoso aggredisce con un

coltello o a mani nude ci si potrà difendere con un revolver.

Una specie di Far West all'italiana per combattere l'aumento della micro-criminalità. E un favore alla lobby delle fabbriche di armi.

Lo studente universitario italiano medio si laurea a 27 anni impiegando 2-3 anni in più rispetto a quanto previsto

ROMA - Il tempo medio per laurearsi in Italia è di sette anni e mezzo e ciò determina un costo per il Paese di 7,6 miliardi di euro all'anno. L'universitario italiano medio si laurea, infatti, a 27 anni, e impiega sette anni e mezzo per terminare gli studi, due-tre anni in più rispetto a quanto previsto dalla facoltà. È quanto emerge dal secondo rapporto sullo stato di salute dell'istruzione universitaria in Italia, curato dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (Cnvsu), organismo istituzionale del ministero dell'Istruzione e dell'università e presentato lunedì alla Camera.

LA «MIGRAZIONE» VERSO IL NORD - Lo studio ha preso a campione gli studenti immatricolati nell'anno accademico 2002/03. Al centro dell'analisi, oltre all'eccessiva durata del corso degli studi, anche il fenomeno della «migrazione» universitaria degli studenti meridionali verso gli atenei del centro-nord. A ogni singolo studente che non riesce a conseguire nei tempi previsti il titolo universitario corrisponde un costo sociale che varia tra 15 e 20 mila euro annui. Ciò, tradotto, vuol dire che ciascuno dei fuori corso ancora iscritti negli atenei italiani potrebbe guadagnare fino a 20 mila euro all'anno. Una cifra che, se moltiplicata per tutti i fuori corso produrrebbe un incremento medio del pil italiano di 7,6 miliardi di euro all'anno.

OGNI STUDENTE FUORI SEDE COSTA 9.545 EURO - Secondo il Cnvsu la spesa per ogni studente fuori sede sfiora i 6 mila euro. Una cifra che considera, però, soltanto le spese direttamente collegate al regolare svolgimento degli studi: l'alloggio, il vitto, i trasporti e il materiale di studio. Se a tali uscite si aggiungono le attività ricreative, la formazione, Internet, i costi lievitano fino a 8.300 euro per ogni studente fuori sede. Ma il calcolo, fanno notare dal Cnvsu, è stato effettuato in lire. «Ai valori rilevati - dicono i relatori dell'analisi - bisogna aggiungere un 10-15% (corrispondente all'inflazione degli ultimi due anni e mezzo)», e così i costi salgono verosimilmente a 9.545 euro.

Si mantiene stabile il dato sulla mobilità universitaria tra le regioni: si immatricola nella stessa regione di residenza l'80% degli studenti e circa il 50% si immatricola nella stessa provincia. Ma si registra ancora un fortissimo saldo migratorio dei giovani del Mezzogiorno verso gli atenei del centro e del nord, nonostante la crescente offerta di atenei meridionali, non si è andata attenuando l'accentuata propensione verso il settentrione d'Italia. Alcune università spiccano per l'elevato indice di attrazione: sono quelle di Emilia Romagna, Umbria, Toscana, Lazio e Marche. A quest'ultime fanno da contraltare alcuna università con indice di attrazione molto basso: sono gli atenei di Basilicata, Calabria, Puglia, Liguria e Veneto.

Di questi tempi la stampa quotidiana non attraversa uno dei suoi periodi migliori.

La televisione, regolata secondo gli interessi del principale imprenditore privato del settore che, guarda caso, è nello stesso tempo il capo del governo (secondo la recente legge Gasparri intervenuta dopo vent’anni di duopolio più o meno collusivo) sottrae risorse finanziarie al lettore e ai quotidiani che si contendono accanitamente un mercato fin troppo ristretto.

Il dibattito politico, tuttavia, si svolge necessariamente sui giornali, visto l’assordante conformismo televisivo e l’asservimento dei principali telegiornali al governo Berlusconi.

Di qui conserva un qualche peso la posizione delle grandi testate e in particolare del quotidiano più diffuso, il Corriere della sera, sull’attualità politica e suscita un certo stupore, dopo gli accorti equilibrismi di cui è stato protagonista il direttore Stefano Folli negli ultimi mesi, leggere l’editoriale di domenica scorsa 22 agosto di quel giornale, affidato all’ex direttore Piero Ostellino.

Ostellino rompe tutti gli indugi rispetto alla questione di fondo di oggi, al di là dello scarso spazio che a essa dedicano i mezzi di comunicazione, cioè la riforma costituzionale che sarà discussa nelle prossime settimane e prende una posizione decisa a favore del disegno di legge dei «quattro saggi» cercando, nello stesso tempo, di fornire una spiegazione storica in grado di giustificare il rigore iconoclasta della maggioranza di centrodestra.

Il giornalista, riferendosi alla Costituzione del 1948 e alla storia politica del nostro paese, fornisce per l’ennesima volta una visione semplificata pressoché caricaturale, ripetuta più volte nell’ultimo decennio dell’Italia passata dalla dittatura alla democrazia, dal fascismo alla Repubblica.

A suo avviso, le culture politiche che hanno prodotto quel documento sono profondamente estranee al liberalismo e risentono invece in maniera determinante della cultura fascista e di quella successiva comunista. E, dunque, sostiene Ostellino, non ha senso difendere oggi quella Carta costituzionale ma occorre piuttosto modificarla radicalmente per esaltare le culture dell’individuo rispetto a una sorta di «neocomunitarismo» che avrebbe sostituito nella Costituzione fascismo e comunismo, essendo nient’altro che «la versione edulcorata ma ugualmente antiindividualista di entrambi».

Per dimostrare il singolare assunto che deriva da una lettura profondamente ideologica e antistorica del liberalismo come ideologia che si oppone per principio alla democrazia e al socialismo, oltre che al comunismo, Ostellino propone una lettura francamente ridicola dei princìpi della Costituzione, di quegli articoli fondamentali che occupano la prima parte della Carta e indica i limiti che di volta in volta sulla base dei prevalenti interessi generali si pongono all’esercizio di libertà individuali come vere e proprie contraddizioni rispetto a una cultura che ponga l’individuo al centro della società contemporanea. Ma una simile lettura produrrebbe effetti simili applicata a molte altre Costituzioni giacché il liberalismo individualistico a cui si riferisce Ostellino è profondamente estraneo alla visione di uno Stato moderno quale quello che è andato formandosi ed evolvendo negli ultimi due secoli in Europa e in occidente.

Ancora una volta è una visione idealizzata e astratta del modello statunitense a suggerire la critica della nostra esperienza senza tener conto della grande tradizione democratica di base che in America interviene a limitare l’arbitrio individuale e che in Europa ha bisogno invece per conseguire lo stesso obiettivo, di norme esplicite. In altri termini, nell’attacco di Ostellino alla prima parte della Costituzione repubblicana sull’onda di un preteso liberalismo individualistico di cui non si sa bene chi sarebbero gli alfieri, se non l’attuale maggioranza berlusconiana, l’obiettivo non è più soltanto la sinistra, in qualche modo erede del comunismo e del socialismo, ma anche quella parte della cultura repubblicana che rifiuta quel liberalismo assoluto e ha contribuito alla scrittura della Costituzione repubblicana e oggi la difende.

L’attacco è alla cultura cattolico-democratica, come a quella liberal-socialista e repubblicana, cioè a quelle forze che negli anni della Resistenza e del primo cinquantennio repubblicano, si allearono con le forze della sinistra nella lotta contro il fascismo e i suoi eredi.

Si ritorna, insomma, ancora una volta, a quelli che sono stati in questi anni gli obiettivi di fondo di un tenace quanto superficiale revisionismo storico: criticare a fondo, come contrario all’esperienza del liberalismo individualistico, il compromesso che condusse prima alla lotta contro il fascismo e poi alla costruzione dell’Italia repubblicana come della Costituzione del 1948.

La lotta è dunque non soltanto contro la cultura socialista e comunista ma anche contro tutte quelle culture che hanno avuto una parte più o meno rilevante nel compromesso del 1943-48. La Carta costituzionale costituisce il vero ostacolo da abbattere per l’affermazione di un compromesso diverso legato a un liberalismo estraneo all’esperienza storica europea e italiana ma meglio funzionale alle esigenze politiche attuali, all’interno dell’impero americano.

C’è da chiedersi, a questo punto, che senso abbia la presa di posizione del maggior quotidiano italiano sul dibattito politico che, almeno per ora, sembra riguardare la seconda parte, piuttosto che la prima, della nostra Carta costituzionale e che si è rifatto finora da parte del centrodestra piuttosto a esigenze di funzionalità e di concentrazione dei poteri nelle mani del premier che a visioni della storia italiana come quest’ultima pericolosamente esemplificanti.

Si vuole rafforzare le posizioni della maggioranza e lo si fa per tempo sulla base di una visione della storia come della politica attuale che hanno assai scarso fondamento sul piano scientifico come su quello culturale? O si tratta comunque di indicare fin da ora ai lettori che il compromesso costituzionale del 1948 non è più accettabile? È difficile rispondere a interrogativi come quelli che pure derivano dalla lettura dell’editoriale di Ostellino giacché assai diverso e più oscillante appare il percorso dell’attuale direzione del giornale, preoccupato in maniera addirittura ossessiva di trovare ascolto anche nella parte più moderata della coalizione di governo.

Le prossime settimane ci diranno meglio quale sarà il panorama dello scontro di fronte alla riforma costituzionale destinata a occupare molte sedute parlamentari nel prossimo autunno. Ma cercare di difendere l’attacco violento alla Carta costituzionale in nome del liberalismo, non di quello crociano ma di altri antenati non meglio individuati, può apparire di fronte agli italiani di oggi una sorta di artificio intellettuale che non entra nel merito dei problemi come dei valori messi in discussione.

Non so se alla destra berlusconiana, così povera di ragioni ideali, possa addirsi una simile difficile strategia ideologica.

Caro Presidente,

ci rivolgiamo a Lei come supremo custode dei valori e della lettera della Costituzione sapendo quanto essi Le stiano a cuore e quanto già si sia prodigato a sostenerli e promuoverli.

L''ufficio di presidenza di Libertà e Giustizia denuncia il mercimonio che si sta facendo della nostra Carta; accusa il clima di assoluta leggerezza con il quale si stanno trattando questioni fondamentali per l''equilibrio della vita democratica; rileva la superficialità con la quale si affrontano momenti fondamentali delle garanzie tra poteri istituzionali.

Sotto la falsa bandiera della modernizzazione si sta distruggendo l’unità d’Italia, quell’unità nazionale cui Lei ha fatto tante volte riferimento anche in questi ultimi giorni.

Sotto la falsa bandiera della devolution, si sta attentando al ruolo del Parlamento e all’autonomia della Corte Costituzionale, dando vita a una forma di governo che non trova parallelo in nessun altro ordinamento istituzionale. Si vuole portare il Parlamento a votare una nuova Costituzione.

Una situazione così grave non si era mai verificata nella storia della nostra Repubblica. Nella distrazione dei mezzi di comunicazione, nel silenzio quasi totale delle tv, chiediamo che gli italiani siano informati della posta in gioco.

Siamo certi, signor Presidente, che Lei saprà intervenire con la forza che la stessa Carta le garantisce. In questa sua opera di difesa del dettato costituzionale Lei potrà contare non solo sui tanti soci di Libertà e Giustizia ma su tantissima parte della società italiana che non accetta di assistere, giorno dopo giorno, alla demolizione continua della nostra Repubblica.

L’ufficio di presidenza

di Libertà e Giustizia

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Nel 64 avanti Cristo Marco Tullio Cicerone, già celebre oratore ma tuttavia 'uomo nuovo', estraneo alla nobiltà, decide di candidarsi alla carica consolare. Il fratello Quinto Tullio scrive per suo uso e consumo un manualetto, in cui gli dà consigli per bene riuscire nella sua impresa. A volgerlo in edizione italiana, con testo a fronte ('Manuale del candidato - Istruzioni per vincere le elezioni', editore Manni, 8 euro), è Luca Canali, corredandolo di un commento, in cui si chiariscono le circostanze storiche e personali di quella campagna. Furio Colombo scrive l'introduzione, con una sua polemica riflessione sulla 'prima Repubblica'.

Infatti molto simile alla nostra seconda è questa Repubblica romana, nelle sue virtù (pochissime) e nei suoi difetti. L'esempio di Roma, nel corso di più di due millenni, ha sempre continuato ad avere molta influenza sulle successive visioni dello Stato. Come ricorda Colombo, al modello della più antica Repubblica romana si erano ispirati gli autori dei 'Federalist papers', che avevano delineato le linee fondamentali di quella che sarebbe poi stata la costituzione americana, e che vedevano in Roma, più che in Atene, l'esempio ancora attuale di una democrazia popolare. Con maggiore realismo i 'neo cons' intorno a Bush si ispirano all'immagine di Roma imperiale e, d'altra parte, molta della discussione politica attuale fa ricorso sia all'idea d'Impero che a quella di 'pax americana', con esplicito riferimento alla ideologia della 'pax romana'.

Salvo che l'immagine di competizione elettorale che emerge dalle 20 paginette di Quinto è assai meno virtuosa di quella che aveva ispirato i federalisti del Settecento. Quinto non pensa affatto a un uomo politico che si rivolga al proprio elettorato con un progetto coraggioso, affrontando anche il dissenso, nella speranza di conquistare i propri elettori con la forza trascinatrice di un'utopia. Come nota anche Canali, è totalmente assente da queste pagine ogni dibattito di idee; anzi è sempre presente la raccomandazione a non compromettersi sui problemi politici, in modo da non crearsi nemici. Il candidato vagheggiato da Quinto deve soltanto 'apparire' affascinante, facendo favori, altri promettendone, non dicendo mai di no a nessuno, perché anche a lasciar pensare che qualche cosa si farà, la memoria degli elettori è corta, e più tardi si saranno dimenticati delle antiche promesse.

La lettura di Colombo tende a mettere in luce "incredibili affinità, somiglianze, assonanze che sembrano attraversare i secoli". Quelli che nel testo sono i 'salutatores', che vanno a rendere omaggio a più candidati, sono visti come dei 'terzisti', i 'deductores', la cui presenza continua deve attestare l'autorevolezza del candidato, hanno la funzione di renderlo visibile e (mutatis mutandis) svolgono la funzione che svolge oggi la televisione. La campagna elettorale appare come uno spettacolo di pura forma, in cui non conta che cosa il candidato sia, ma come appaia agli altri. Come dice Quinto, il problema è che, per quanto le doti naturali abbiano un peso, il vero problema è ottenere che la simulazione possa vincere la natura.

D'altra parte "la lusinga è detestabile quando rende qualcuno peggiore ma. è indispensabile a un candidato il cui atteggiamento, il cui volto, il cui modo di esprimersi, devono di volta in volta mutare per adattarsi ai pensieri e ai desideri di chiunque egli incontri". Naturalmente bisogna fare in modo "che l'intera tua campagna elettorale sia solenne, brillante, splendida, e insieme popolare. Appena ti è possibile, fa pure in modo che contro i tuoi avversari sorga qualche sospetto. di scelleratezza, di dissolutezza o di sperperi". Insomma, tutte belle raccomandazioni che sembrano essere state scritte oggi, e viene subito in mente per chi - ovvero il lettore - legge Quinto ma pensa a Silvio.

Alla fine della lettura ci si chiede: ma la democrazia è davvero e soltanto questo, una forma di conquista del favore pubblico, che deve basarsi solo su una regia dell'apparenza e una strategia dell'inganno? È certamente anche questo, né potrebbe essere diversamente se questo sistema (che, come diceva Churchill, è imperfettissimo, salvo che tutti gli altri sono peggio) impone che si arrivi al potere solo attraverso il consenso, e non grazie alla forza e alla violenza. Ma non dimentichiamoci che questi consigli per una campagna elettorale tutta 'virtuale' sono dati nel momento in cui la democrazia romana è già in piena crisi.

Di lì a poco Cesare prenderà definitivamente il potere con l'appoggio delle sue legioni, istituirà di fatto il principato, e Marco Tullio pagherà con la vita il passaggio da un regime fondato sul consenso a un regime fondato sul colpo di Stato. Però non si può evitare di pensare che la democrazia romana avesse iniziato a morire quando i suoi politici hanno capito che non occorreva prendere sul serio i programmi ma occorreva ingegnarsi soltanto di riuscire simpatici ai loro (come

STA accadendo un fatto molto strano sul quale invito i nostri lettori a riflettere con attenzione: in questi giorni si è accesa in Italia una discussione di infimo livello sulla contabilità dell´orrore. Per iniziativa di alcuni giornali di parte la barbara decapitazione d´un giovane americano è stata utilizzata con dovizia di fotografie per controbattere la rivelazione delle disgustose sevizie perpetrate da soldati americani su prigionieri iracheni. È più orrenda quella decapitazione o quelle sevizie? Chi sta dalla parte di chi? Con la chiosa già ampiamente collaudata che almeno le democrazie con l´America in testa hanno immediatamente fatto atto di contrizione per il sadismo emerso in pochi «casi isolati» e stanno procedendo alla punizione dei colpevoli, mentre gli assassini del giovane americano si gloriano della loro truculenta impresa tra gli applausi della loro gente.

La cupa stranezza di questa contabilità dell´orrore sta nel fatto che il libro mastro in cui vengono annotate le due opposte partite del dare e dell´avere, dell´attivo e del passivo, è gestito da giornali e televisioni italiane. Negli Stati Uniti d´America le foto e le riprese televisive della duplice barbarie sono state ampiamente diffuse, così come nei "media" del resto del mondo; ma a nessuno è venuto in mente di usare una delle due barbarie come lavacro dell´altra. In America ? e nel resto del mondo ? l´orrenda sequenza della decapitazione del giovane americano ha suscitato sentimenti di reazione e di emozione profondissimi, ma la riprovazione verso la politica di guerra coloniale in corso in Iraq, con il suo strascico di brutalità verso quel popolo sventurato, non è stata affatto scalfita anzi continua a montare giorno dopo giorno. Al punto che l´ultimo sondaggio (Zogby Poll) diffuso ieri dalla stampa americana registra il crollo della politica irachena di George Bush che ottiene soltanto il 36 per cento dei consensi. Il 64 per cento degli americani "do not think it was worth going to war", pensano che non valesse la pena di farla, questa guerra. Si tratta di un livello di consenso ancora più basso di quello raggiunto per la guerra in Vietnam che obbligò l´Amministrazione a ritirare dal Sudest asiatico il mezzo milione di soldati che vi erano stati sbarcati e combatterono contro Ho Chi Minh e contro i vietcong per otto anni.

Segnalo dunque il fatto che alcuni (pochi ma significativi) giornali italiani e alcune emittenti televisive abbiano sfoderato un argomento che ritenevano decisivo per l´esito d´una disputa politica insensata e moralmente squalificante.Mentre quel medesimo tema non ha trovato accoglienza nel paese protagonista di quella disputa, la cui opinione pubblica si sta semmai mobilitando contro il proprio governo, chiamato alla sbarra per cambiare rotta ed emendarsi dagli errori che hanno ferito nel profondo non già la forza dell´America ma la sua credibilità e il sentimento morale della nazione.

Questo è il vero patriottismo americano che fa onore all´Occidente e del quale ci sentiamo interamente partecipi.

* * *

Due notizie ci hanno colpito ieri mentre il caos iracheno continua ad infuriare: a Nassiriya la guerriglia sciita ha attaccato i reparti del corpo di spedizione italiano; il segretario di Stato Colin Powell ha dichiarato che se il nuovo governo iracheno dirà alla coalizione dei "volenterosi" di lasciare il paese, le truppe Usa se ne andranno. Gli hanno fatto eco immediatamente Blair e Berlusconi.

Esaminiamo queste due prominenti notizie cominciando dalla seconda. È improbabile che il nuovo - costituendo - governo iracheno inviti gli americani e i loro alleati a togliere il disturbo. Quando (e se) sarà costituito, i suoi componenti saranno stati scelti da Brahimi, delegato dell´Onu a Bagdad, previa consultazione con Kofi Annan e soprattutto con il governo di Washington. Sarà dunque e in ogni caso un governo amico, non certo ostile. Licenzierà la coalizione anche se essa non volesse essere licenziata, come una colf i cui servizi non sono più graditi? Sarebbe enorme. Il paese più potente del mondo, dopo aver messo a ferro e fuoco la Mesopotamia, avere abbattuto un tiranno sanguinario, aver risvegliato gli animal spirits d´un terrorismo che non s´era mai visto prima in territorio iracheno, rispedito a casa su due piedi dopo aver perso un migliaio di uomini e aver già speso cinquanta miliardi di dollari? Impensabile. Dunque non può accadere. Allora perché è stata affacciata questa assurda ipotesi?

Per due ragioni. La prima è per dare la sensazione al resto del mondo che il futuro governo iracheno nascerà veramente come autorità indipendente e nel pieno dei suoi poteri. Volevate una svolta? Una fottutissima svolta, per usare il linguaggio americano corrente? Eccovela servita.

Seconda ragione (più improbabile): il governo Usa non sa più come uscire dalla trappola irachena; la sola via di sbocco è di farsi dare il benservito dagli stessi iracheni. Naturalmente a certe condizioni che possono riguardare il petrolio e i rapporti con gli altri paesi dell´area a cominciare da Israele e dall´Iran. Insomma una finta ritirata, ma comunque un disimpegno militare sul terreno.

Si vedrà. Ma un punto resta fin d´ora acquisito. Il timore che il ritiro dell´armata occupante scateni una mortale guerra civile risulta inesistente poiché se fosse così serio e grave come finora ci è stato ripetuto in tutti i modi e da tutti i cantoni, non è comprensibile che l´armata liberatrice faccia i fagotti. Immaginate un´ipotesi del genere nell´Italia di sessant´anni fa, con un Ivanoe Bonomi o un Ferruccio Parri che invitano gli angloamericani a sgombrare le tende dopo la cacciata dei nazisti? O i giapponesi che rispediscono a casa MacArthur e le sue truppe?

Un altro timore, questo in realtà assai più serio dell´eventuale guerra civile, risulta anch´esso spazzato via dalle dichiarazioni di Colin Powell: il timore che, nel momento in cui gli yankees ripassassero l´Atlantico in senso inverso, il terrorismo di Al Qaeda resti padrone del territorio iracheno.

Questo rischio, evocato da Giovanni Sartori sul Corriere della Sera, ha una sua consistenza ma a Washington evidentemente non vi danno gran peso se già parlano di possibile reimbarco.

In realtà se la tesi di Sartori fosse valida le truppe americane dovrebbero restare in Iraq a dir poco altri cinque anni se non dieci o più. Personalmente penso che contro Al Qaeda non sia utile e tantomeno necessario mantenere di stanza 150 mila uomini di truppa con relativi carri armati e bombardieri pesanti. Per tenere a bada Al Qaeda ci vogliono intelligence, corpi speciali, abilità politica. Non si combatte il terrorismo con i marines né suscitando nel paese guerriglia, insorgenza e guerre sante.

Dunque resta assodato: per il dipartimento di Stato americano e anche per gli alleati "volenterosi" le questioni guerra civile e terrorismo non sono di ostacolo al ritiro delle truppe, solo che lo vogliano i notabili dell´Iraq liberato. Prendiamone atto ed escludiamo dunque questi «pretesti» dalla discussione sul "che fare" che durerà ancora un bel pezzo.

* * *

Ieri a Nassiriya è avvenuto un fatto nuovo. Prevedibile, preannunciato, ma comunque nuovo: le milizie sciite di Sadr hanno preso possesso della città e hanno attaccato la sede dell´Autorità provvisoria presidiata dagli italiani.

Mentre scriviamo l´assedio è stato tolto ma la città resta di fatto sotto il controllo della guerriglia. Per ristabilire l´ordine il nostro contingente militare dovrà negoziare con i guerriglieri o rintuzzarli con le armi o chiedere soccorso ai marines.

Quale che sia lo sbocco di questa tristissima storia resta che la nostra missione ha da tempo cambiato natura; come ha detto tre giorni fa Romano Prodi, ha perso le caratteristiche di missione di pace acquistando quelle di missione d´occupazione. In realtà questa mutazione era già avvenuta da tempo ma ormai è palese agli occhi di tutti. Soprattutto è palese agli occhi degli iracheni, guerriglia o non guerriglia. Loro la vedono e la vivono così: truppe d´occupazione, punto e basta. Hai un bel dire che non è vero perché i primi a doverti giudicare sono quelli in mezzo ai quali sei andato a portare la tua offerta umanitaria. Se proprio i beneficiari di quell´offerta ti giudicano un intruso e per di più un sopraffattore, questa diventa la tua essenza e non c´è niente da fare.

Quando Berlusconi decise l´invio dei nostri militari al fronte iracheno (a guerra che sembrava già conclusa) il presidente Ciampi, prima di dare il suo indispensabile assenso a quella sciagurata iniziativa, convocò il Consiglio supremo di Difesa, da lui presieduto.

Era molto tempo che quell´organo, di cui fanno parte molti ministri, tutti i capi delle Forze armate e naturalmente il presidente del Consiglio dei ministri, non si riuniva. E non si era mai riunito per decidere l´invio all´estero di nostri reparti militari per la semplice ragione che le nostre missioni erano sempre avvenute nel quadro di decisioni prese da organismi internazionali dei quali l´Italia fa parte. Il caso iracheno era invece profondamente diverso perché privo di ogni legalità. Quindi si scontrava contro la norma costituzionale che vieta di partecipare ad azioni di guerra che non siano difensive o debitamente autorizzate.

Per queste ragioni Ciampi riunì il Consiglio supremo di Difesa. E chiese che la missione fosse strettamente umanitaria. Che cosa significava questa espressione? È del tutto chiaro: significava l´invio di tecnici capaci di riattivare le reti di comunicazione e di trasporto, riattivare gli impianti petroliferi, aprire e gestire ospedali, ricostruire installazioni distrutte e strade, portare cibo e medicinali. Poiché il paese era ancora in stato di turbolenza, era pure necessario che la missione fosse affiancata da un contingente militare nei limiti e con lo scopo di difendere gli operatori di pace nei loro specifici siti.

Per meglio sottolineare la natura della nostra missione, Ciampi chiese anche che fosse dichiarato a chiare lettere che essa era «non belligerante». E per evidenziare ancora di più la posizione complessiva dell´Italia chiese anche che gli aerei militari Usa in missione di guerra in Iraq non potessero volare nello spazio aereo italiano.

Per quanto si sa, il Consiglio supremo di Difesa, Berlusconi incluso, approvò tutte le richieste di Ciampi. Non è dato sapere quale sarebbe stato il comportamento del presidente se l´approvazione non ci fosse stata. Che cosa poteva fare? Inviare un messaggio alle Camere? Rifiutare la firma della legge di finanziamento della missione? E´ probabile che avrebbe marcato in tutti i modi costituzionalmente previsti il suo dissenso, ma non fu necessario: Berlusconi accettò tutte le cautele raccomandate, la maggioranza parlamentare idem. In teoria. Nella pratica no, tant´è che l´ospedale italiano fu aperto a Bagdad con un piccolo reparto di carabinieri a sua salvaguardia, mentre 2.700 militari delle quattro forze armate furono destinati nel distretto di Nassiriya sotto comando inglese. Vai a capire perché e a fare che cosa.

Questa è la deplorevole storia della nostra missione. Onore a quei soldati che compiono un loro faticoso e assai pericoloso dovere. Opposizione contro chi ce li ha mandati in condizioni tali da non poter neppure impedire maltrattamenti contro i prigionieri soggetti al dominio non contrastabile di una polizia irachena brutale e autonoma da chi dovrebbe curarne la formazione professionale ma non può sanzionarne le azioni anche se delittuose.

Adesso i nostri soldati stanno lì a prendersi la fucileria dell´insorgenza sciita o a trincerarsi nei loro malcerti casermaggi senza mettere il naso fuor dalla porta.

* * *

All´ultim´ora giunge notizia di un discorso di Bush che contraddice Colin Powell continuando a confermare che non se ne andrà dall´Iraq se non «a lavoro compiuto». Nel frattempo un giornale americano pubblica un lungo articolo per dimostrare come dietro le torture ci fossero precise indicazioni date da Rumsfeld nell´estate del 2003. Puniranno i colpevoli? Ma certo, quattro soldati e un paio di sergenti.

Bush ha ringraziato Rumsfeld perché ha svolto un «lavoro superbo». Rumsfeld ha volato per undici ore fino a Bagdad, ha ringraziato i soldati perché anche loro hanno svolto un «lavoro superbo», ha consumato il rancio insieme a tutti loro e si è fatto altre undici ore di volo per tornare nel suo Pentagono. Il 64 per cento degli americani vuole che le truppe lascino l´Iraq. Le commissioni del Senato e del Congresso indagano. Il petrolio ha superato i 41 dollari al barile. L´Europa non concorda, ma Blair e Berlusconi sì, fino alla fine.

Come e quando ci sarà questa fine non lo sanno, ma va bene lo stesso.

Perciò avanti così. Perinde ac cadaver. No, non è Loyola che aveva un altro spessore, ma sono Schifani, Bondi e Bonaiuti.

Riemergono dall’emiciclo suonati. I parlamentari di Forza Italia e An devono, in qualche modo, giustificare la sconfitta appena subita. La relazione sulla libertà dei media in Europa e sui rischi di violazione del diritto all’informazione è stata approvata. Dopo una settimana di passione. La relazione passa con l’86 per cento dei votanti. Ottiene 237 “sì” del Pse (con gli italiani Fava, Ghilardotti, Lavarra, Napoletano, Napolitano, Paciotti, Pittella, Ruffolo, Sacconi, Vattimo, Veltroni e Volcic), dei Verdi (con l’italiana Frassoni), del Gue (con gli italiani Cossutta, Di Lello, Manisco e Vinci) dell’Eldr (con gli italiani Calò, Costa, Di Pietro, Formentini, Procacci e Rutelli). I voti contro sono stati soltanto 24 (tra gli italiani, i radicali con Pannella e Bonino) perché i gruppi del Ppe e della destra Uen scelgono la via inedita della non partecipazione per protesta.

Niente voto. Sapevano di perdere e, invece di opporsi pigiando i pulsanti, restano a chiacchierare. Si dissociano dal Ppe tre deputati giscardiani che votano e votano “sì”, tre parlamentari euroscettici danesi, mentre altri 9 deputati del Ppe, tra cui l’ex ministro francese Lamassoure, si astengono. Espressioni significative e di insofferenza in un gruppo che ha cambiato, progressivamente, i propri connotati (dall’ingresso di Forza Italia e dei conservatori britannici). Uno smarrito Scapagnini, medico di Berlusconi fatto rientrare precipitosamente a Strasburgo, si aggira tra i banchi con il senso del vuoto. I deputati di Fi e An trascinano, in una pratica del tutto sconosciuta sinora alla storia del parlamento europeo, i loro gruppi di appartenenza. Non era mai accaduto. Evidentemente, Berlusconi è in grado, ormai, di pretendere anche questo dal tedesco Hans Poettering, il capogruppo. L’unica consolazione: nel rapporto è stato cancellato il nome di Silvio Berlusconi. Non si usa, per eleganza, citare le persone in risoluzioni ufficiali. Accontentati. Così Berlusconi, nella relazione, sarà indicato come l’”attuale presidente del Consiglio italiano”.

Escono dall’aula e si scagliano contro la “sinistra” e contro i “comunisti”. Ma si capisce che ce l’hanno con uno che comunista non è mai stato e non lo sarà mai. Il bersaglio è il presidente del Parlamento europeo, il liberale irlandese Pat Cox, definito, in aula in scomposti interventi, come l’autore di un’impresa “nefasta”. Uomo che ha tradito il “senso della democrazia in questo Parlamento”, sentenzia il forzista Guido Podestà, il quale, peraltro, è uno dei vice di Cox. Curioso destino degli autentici liberali. Cox non è il presidente delle forze progressiste e di sinistra. Due anni e mezzo fa, nel gennaio del 2002, venne eletto alla carica più alta da una maggioranza che fece perno sul Ppe e sulla destra. Il candidato della sinistra, il laburista David Martin, venne sconfitto. Al centro destra, ora, non va proprio giù il fatto che il “suo” presidente abbia utilizzato le prerogative del regolamento per consentire la votazione della relazione sui media contro cui, proprio alla fine dell’iter parlamentare, si è concentrato l’attacco ostruzionistico. Cox resiste sino all’ultimo, non si lascia intimidire e permette, autorizzando la votazione del testo paragrafo per paragrafo. I 338 emendamenti del centro destra decadono automaticamente, essendo stati approvati i paragrafi del documento di base. La destra grida al complotto. Che non esiste. Si scaglia contro Cox e la mite relatrice: un’altra liberale, l’olandese Johanna Boogerd-Quaak che, continuamente, si dice “attonita” per le bordate che le giungono dai forzisti.

È l’ultima tornata di voto del Parlamento prima dello scioglimento. Il verde Cohn Bendit prende in giro Tajani e i suoi colleghi: “Avete fatto persino gravi errori di tattica parlamentare e siete caduti nel ridicolo”. Il fatto è che, per tentare di sabotare la relazione che denuncia, tra gli altri rilievi, il gravissimo e irrisolto conflitto d’interessi del presidente del Consiglio italiano, Fi e An provano l’ultima chance: chiedere il rinvio del rapporto in commissione. Il voto dell’aula li inchioda: raccolgono soltanto 214 voti ma 259 parlamentari respingono la proposta. Un applauso sottolinea l’ultimo, fallito, assalto. L’applauso si ripete dopo la proclamazione dell’avvenuta approvazione della relazione. L’on. Boogerd-Quaak dice: i parlamentari hanno avuto il coraggio di esprimersi contro i rischi per la libertà e il pluralismo dei media. Adesso la Commissione dovrà presentare una proposta di direttiva”.

“È un successo del Parlamento europeo mentre la destra ha rifiutato il confronto e ha pure sbagliato tattica”, dice Pasqualina Napoletano, e aggiunge che il presidente Cox “è stato bravo nel difendere il diritto di voto su una relazione”. Per Francesco Rutelli, che è rimasto come gli altri per tutti i quattro giorni di battaglia (come Walter Veltroni, partito per le celebrazioni del “Natale di Roma”, e rientrato nella notte a Strasburgo), il voto dimostra che “si è meno soli adesso” contro la “monumentale anomalia italiana rappresentata dal conflitto d’interessi del premier”. Di Lello sottolinea la “vittoria europea, non solo italiana”; Mariotto Segni (eletto con An) ricorda d’essere stato tra i promotori dell’iniziativa ma non la conclude con il voto perché assente; Frassoni invita l’Ue ad “attivarsi dopo il voto” e Beppe Giulietti (Articolo 21) da Roma afferma che l’Europa “adesso è pronta per bocciare anche la Gasparri”. Il capogruppo di Fi, Tajani, appare stremato. Consegna questo testamento ai cronisti: “Valuteremo nella prossima legislatura. I liberali ci hanno lasciato molto perplessi, sono sembrati più orientati a schierarsi con la sinistra…”. A fine legislatura, quanto apprezzerà Berlusconi questo risultato del suo capogruppo?

Caro direttore, tredici mesi fa, il 15 febbraio, le capitali di tutto il mondo furono attraversate dal popolo della pace. Milioni di donne e di uomini dissero no alla guerra in Iraq.

Un mese dopo è iniziata questa guerra al di fuori dell´Onu e del diritto internazionale, una guerra che non doveva cominciare, che saggezza e lungimiranza politica consigliavano di evitare e che oggi non è ancora conclusa, lasciando l´Iraq dentro un guado, il cui passaggio può avere esiti imprevedibili e pericolosi.

Il popolo europeo nella sua interezza è stato parte integrante del movimento della pace, anzi ha posto la pace nell´identità stessa della nuova Europa. A distanza di un anno, alla vigilia di una nuova giornata mondiale per la pace e contro la guerra, c´è una domanda che il popolo della pace pone alla politica, anche in Europa, e che non può essere evitata.

Queste sono le questioni all´ordine del giorno:

1) Di fronte al fallimento della guerra come strumento per risolvere i conflitti, è necessario riflettere con più coraggio sul ruolo dell´Onu e sulla sua riforma, perché non si può permettere in nessun modo la delegittimazione di questo insostituibile strumento, per prevenire e risolvere i conflitti e per salvaguardare un ordine internazionale pacifico.

2) La lotta al terrorismo. L´assoluta consapevolezza del pericolo rappresentato oggi dal terrorismo e la necessità di moltiplicare tutti i nostri sforzi per combatterlo, non può giustificare la guerra. È necessario trovare nuove strategie efficaci da affiancare alle indispensabili azioni a tutela della sicurezza dei cittadini.

Il terrore punta alla paura, per catturare e fare prigionieri del proprio disegno i popoli e le istituzioni. Per sconfiggere la paura e la cattura del terrore sono necessarie un´intelligence costante e puntuale, istituzioni forti e credibili e una politica, che sappia guardare lontano alle grandi ferite aperte in tante parti del mondo, a cominciare dal Medio Oriente, e sappia sanarle con coraggio. 3) Il drammatico e crescente divario tra il nord e il sud del mondo. C´è un nuovo muro, che divide il mondo. C´è uno sterminio per fame, per sete, per malattia, che travolge interi continenti e che interpella la coscienza di tutte le persone. Dobbiamo combattere questo sterminio con la stessa intransigenza con cui pensiamo di combattere il terrorismo, impegnando più risorse di quelle che spendiamo per le armi. Solo così e non altrimenti si costruisce il futuro. 4) Il nuovo ruolo dell´Europa. Un´Europa che sappia costruire la pace, in alleanza con pari dignità con gli Usa e in un dialogo efficace e lungimirante con le leadership africane, latino-americane e asiatiche, operando per un nuovo multilateralismo, dove possano contare davvero tutte le grandi aree del mondo. La stessa forza di difesa europea è al servizio di questo disegno e ne è strumento. La forza dell´Europa non sta principalmente nelle sue armi e nel suo esercito, ma nella sua politica, nella sua costituzione e nelle sue istituzioni.

Se questi sono i problemi sul tappeto, è giusto anche riconoscere che il movimento per la pace sta faticosamente costruendo una nuova cultura della pace, che la politica non può sottovalutare: anzi è un patrimonio di valori, a cui attingere.

Queste sono le sfide:

A) Costruire la pace con mezzi pacifici. Di fronte al fallimento della guerra, che oggi in tantissimi condividono, questa è una intuizione di straordinario valore, sui cui lavorare con pazienza, con intelligenza, senza arrendersi alla cultura della forza e delle armi.

B) Vedere la guerra dalla parte della vittime. Non è umanitarismo compassionevole, è uno sguardo nuovo e grande, che rivela la follia della guerra, pagata sempre dagli innocenti e dai civili.

C) Un nuovo senso della giustizia. Per secoli si è campato sull´equazione guerra/giustizia, ma, come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, "nessuna politica è conforme a giustizia se il perseguimento del suo fine comporta il prezzo dell´ingiustizia, del male causato all´innocente".

D) Il tramonto della cultura del nemico. Il movimento della pace rifiuta alla radice l´odio, l´inimicizia, il disprezzo dell´altro, e critica la guerra con lucidità perché cerca incessantemente la pace. Anche l´antiamericanismo, che è presente in alcune frange, non fa parte della cultura del movimento della pace, come non fa parte di questa cultura la logica della scomunica, della delegittimazione con un linguaggio violento di chi non la pensa esattamente come noi. Queste sono scorie che appartengono ad altri recinti e che sono molto pericolose, perché possono portare a derive imprevedibili. La nuova cultura della pace domanda stili di mitezza e di dialogo.

E) La riconciliazione. Sembra una parola debole e non politica. Al contrario ha una grande forza anche politica. Il problema ultimo nei conflitti non è vincere, ma riconciliare, perché solo riconciliando si vince e si costruisce futuro nella vita di un paese, come l´Iraq o nel confronto drammatico israelo/palestinese e in tante altre parti del mondo.

Questi sono i motivi per cui vale la pena di guardare con grande speranza alla giornata di oggi. Essa sarà importante perché la pace avvenga in Iraq, ma anche per il futuro dell´Europa. Non c´è Europa senza la pace.

DOPO Tremonti anche Gianfranco Fini invoca il dialogo con l’opposizione e con i sindacati. Del resto non è una novità perché già da alcuni mesi il leader di An insieme al Follini dell’Udc cercano di smarcarsi dal blocco oltranzista guidato da Bossi e dallo stesso Berlusconi, anche se alle tante dichiarazioni non sono mai seguiti i fatti. Ma la posizione assunta dal ministro del Tesoro e resa esplicita nell’intervista data l’altro ieri al nostro direttore, quella sì, è una novità perché Tremonti è stato finora l’anello forte del blocco oltranzista che si può anche definire populista, demagogico, nordista, autoritario, plebiscitario o come altro si voglia ma che in realtà merita un solo appropriato aggettivo: incapace. Incapace di governare.

Dopo 32 mesi di esperienza governativa quest’incapacità è sotto gli occhi di tutti: gli avversari lo avevano previsto da tempo, i sostenitori hanno cominciato ad accorgersene fin dagli inizi di quest’anno come dimostrano i sondaggi da gennaio a oggi; ma ora l’hanno capito anche gli alleati di governo e settori consistenti dello stesso partito creato dieci anni or sono dal "patron" di Fininvest.

La maggioranza si sfarina: questo è il fatto nuovo. Si sfarina malgrado disponga di cento voti parlamentari in più dell’opposizione, malgrado abbia il monopolio della televisione e della pubblicità, malgrado le risorse finanziarie private del suo leader che se ne vale in tutti i modi, nessuno escluso ed eccettuato.

La maggioranza si sfarina perché il blocco sociale che finora ha sostenuto il progetto berlusconiano di rivoltare l’Italia come un calzino cominciando dalla diminuzione della pressione fiscale, dalla pace sociale, dall’aumento del reddito e dell’occupazione, dalla maggiore sicurezza, da una nuova efficienza della pubblica amministrazione; quel blocco sociale ha visto cadere uno a uno tutti i petali del fiore vagheggiato da Berlusconi e scritto sulle pagine del suo contratto con gli italiani firmato ? ovviamente ? in televisione dinanzi al compiacente ed entusiasta Bruno Vespa in veste di notaio.

Il colpo di grazia è arrivato appena sei giorni fa quando non Fassino o Bersani o Rutelli o altri visi pallidi di comunisti più o meno infiltrati, ma addirittura lo stesso ministro del Tesoro ha dovuto diffondere i dati sul reddito, sul disavanzo del bilancio, sul debito pubblico e - udite udite - sulla pressione fiscale. Dati di un disastro inutilmente annunciato dall’opposizione e da quel poco che resta di libera stampa in questo Paese di tartufi, ma che ormai gli italiani percepiscono sulla loro pelle di consumatori, di contribuenti e di lavoratori e che comunque ormai non possono più esser nascosti neppure dalla finanza creativa del ministro del Tesoro.

Le cifre sono chiarissime. Dopo circa tre anni di governo del centrodestra la pressione fiscale del 2003 è al livello più alto rispetto a tutti i tre anni precedenti, l’avanzo primario del bilancio è stato dimezzato, il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo, ufficialmente contenuto al 2.4, senza i condoni sarebbe già al 4, cioè ben oltre i parametri di Maastricht. Il tutto in presenza di un’inflazione reale che è almeno il doppio di quella apparente, un crollo delle esportazioni verso gli altri Paesi dell’Unione europea (dunque indipendentemente dal rapporto di cambio tra euro e dollaro), un crollo degli investimenti, una stasi prolungata e perdurante dei consumi, una diminuzione drastica della quota di reddito risparmiato.

Il ceto medio è impoverito e impaurito. Dal fondo del paese sale un crescente brontolio, un disagio, un malcontento che ormai risuona dovunque. Ecco perché il blocco sociale si sfarina e di conseguenza si sfarina la maggioranza parlamentare, i partiti alleati, perfino Forza Italia. Ed ecco perché Tremonti cambia passo e invoca il metodo repubblicano, cioè il senso dello Stato che dovrebbe prevalere in certe occasioni e su certi problemi sopra gli interessi particolari di gruppo, di partito, di persona.

Guarda guarda, senti senti.

* * *

L’onorevole Tremonti ha una percezione molto personale e assai singolare di quello che lui chiama - chissà perché - metodo repubblicano e che tutti noi comuni mortali chiamiamo senso dello Stato. Per quanto mi riguarda io continuerò a chiamarlo così.

Il senso dello Stato, degli interessi permanenti dello Stato, infine del bene comune rappresenta (dovrebbe rappresentare) il contenuto stesso di ogni politica. E’ strano che Tremonti ne ravvisi la necessità soltanto con riguardo alla riforma delle pensioni e alla tutela del risparmio. E tutto il resto? La politica estera la vogliamo escludere dal senso dello Stato? La politica fiscale, quella economica, quella ambientale, la sanità, la parità di accesso ai mezzi di comunicazione, la politica dei redditi, il conflitto degli interessi, l’ordinamento della giustizia, il federalismo: tutte queste materie e altre ancora sono dunque da considerare carne di porco, "terrain vague" dove chiunque abbia in mano le redini del potere può fare i suoi porci comodi, far approvare leggi "ad personam", infischiarsene delle autorità di garanzia, dare spallate alla Costituzione, usare le Commissioni parlamentari d’inchiesta come strumenti di amplificazione per calunniare e infangare gli avversari politici?

Il ministro del Tesoro ha avuto un ruolo di protagonista nel calpestare con sovrana indifferenza il senso dello Stato. Cominciò fin dal suo esordio ministeriale mentendo spudoratamente al Parlamento e al Paese sulle cifre essenziali del bilancio, del reddito e delle prospettive dell’economia. Non solo errori macroscopici, ma menzogne, occultamento di dati reali. In altri paesi mentire al Parlamento è un comportamento analogo al disprezzo della Corte: entrambi vengono durissimamente sanzionati. Qui da noi sono considerati comportamenti innocui o tutt’al più peccati veniali dai quali ci si può riscattare biascicando cinque «Pater Ave e Gloria».

Poi, galleggiando sulle menzogne che rischiavano di diventare manifeste, si imbarcò nella vendita del patrimonio pubblico inventando strumenti che alleggerivano il disavanzo e il debito con anticipi ottenuti dalle banche alle quali i beni pubblici e/o l’incasso di pubbliche entrate venivano dati in garanzia con cospicui sconti sui valori di mercato. Così faceva ai tempi del Re Sole il sovrintendente generale Fouquet, che alla fine il Re fece arrestare dai moschettieri e che passò il resto dei suoi giorni nei tristi carceri di Antibes e di Pinerolo.

Infine il Tremonti ha utilizzato i condoni non già come provvedimenti saltuari ma come pratica costante della sua politica finanziaria, condonando il condonabile: evasione fiscale, evasione contributiva, abusivismo edilizio, imposte su redditi futuri forfettizzati oggi per domani, contravvenzioni sulle patenti di guida a punti, condoni tombali. Insomma tutto perdonato contro un po’ di soldi maledetti e subito, addestrando i contribuenti a infischiarsene del fisco con il magnifico risultato di avere abbassato le entrate tributarie ordinarie e vanificato la lotta all’evasione. Ritrovandosi nonostante ciò (l’ho già detto ma lo ripeto perché il fatto è enorme) con un aumento della pressione fiscale.

A me dispiace dirlo perché quel ministro sta seduto dietro alla scrivania che fu di Quintino Sella, di Marco Minghetti e per venire a tempi a noi più vicini di Luigi Einaudi, di Ezio Vanoni, di Ugo La Malfa, di Bruno Visentini e di Nino Andreatta. Perciò mi spiace dirlo, ma un ministro dell’Economia come questo, che per di più assomma nelle sue mani il Tesoro, il Bilancio e le Finanze non si era mai visto nella storia d’Italia, quella monarchica e quella repubblicana.

Comunque sulla via di Damasco il fulmine della rivelazione lo colpisce e gli rivela il metodo repubblicano. Limitatamente a pensioni e risparmio, s’intende.

Lo vogliamo prendere per buono?

* * *

Il collega Massimo Giannini ha scritto ieri a quali condizioni, secondo lui, possiamo prenderlo per buono. Concordo pienamente con la fitta elencazione da lui redatta anche se su alcuni punti mi sembra fin troppo generosa.

Ma sono anch’io del parere di prenderlo per buono, il Tremonti fulminato sulla via di Damasco perché stretto tra l’ostilità di Fini-Follini, il «pressing» di Bruxelles e dell’Ecofin, le cifre della Ragioneria e dell’Istat, l’opposizione parlamentare e quella sindacale. Il tutto mentre la sedia su cui sta seduto poggia su un basamento politico che, come abbiamo visto, si sfarina ogni giorno di più. E lasciamo pure da parte i settori dai quali lui in quanto lui si chiama fuori per ragioni di competenza.

Dove non si può chiamar fuori è però l’insieme della politica economica che non si può circoscrivere alle pensioni e al risparmio, altrimenti non si tratta più di invocare il senso dello Stato o metodo repubblicano che dir si voglia, ma di cercarsi degli ascari nell’opposizione parlamentare (o parte di essa) e nell’opposizione sindacale (o parte di essa). Perché se di questo si trattasse, allora all’ottimo Tremonti non bisognerebbe lasciare alcuno spazio né bisognerebbe cedere a nessun incantamento.

Dunque la politica economica. E’ molto semplice e non c’è bisogno di lunghi discorsi. 1) Basta con provvedimenti «una tantum», condoni e «swap» bancari in particolare. 2) Basta con l’idea di usare la riforma delle pensioni per fare cassa: quei risparmi - ottenuti possibilmente senza tagliare le gambe né ai padri né ai figli - debbono andare contestualmente e interamente al finanziamento del nuovo Welfare che, se non vuol essere una barzelletta, in tempi di lavoro flessibile è molto più costoso del vecchio e logoro Welfare tuttora esistente. 3) La tutela del risparmio avviene anzitutto sul terreno degli amministratori delle società (quotate o non quotate, onorevole ministro del Tesoro, questo lei lo sa benissimo perché le grandi holding di gruppo a cominciare da Fininvest non sono quotate in Borsa), sul terreno dei sindaci, dei revisori dei conti e delle agenzie di rating. Non mi pare che il suo disegno di legge dica granché su questi punti. Perciò si concentri meglio e riscriva, onorevole ministro, riscriva. 4) Divida pure le competenze sul sistema bancario tra Antitrust (tutela del risparmio) e Bankitalia (stabilità) e fissi pure, se il Parlamento è d’accordo opposizione compresa, un termine di durata nella carica di governatore della Banca centrale. Il termine, quale che sia, deve decorrere da oggi e probabilmente non deve coincidere con la fine della legislatura parlamentare. Credo inutile spiegarne il perché.

La politica economica non si esaurisce certo in queste poche cose, ma già questi quattro punti sarebbero sufficienti. Rispettandoli, tanto per dire, le risulterebbe impossibile continuare a parlare di riduzione della pressione fiscale (peraltro auspicabilissima) senza indicare quale taglio di quali spese si dovrebbe effettuare. Altrimenti si resta nel libro dei sogni e dei miracoli, cioè in quel tipo di cose che lei e i suoi compagni di governo debbono ormai togliersi dalla mente perché nessuno ci crede più.

Auguri, signor ministro del Tesoro. Ne ha di cose da fare. Tra l’altro le dovrà pur discutere con Berlusconi. O no?

Post scriptum. Penso anch’io, come il collega Giannini, che Francesco Rutelli farebbe bene a consultarsi con gli altri suoi alleati della lista Prodi prima di formulare proposte da lanciare verso la maggioranza. Se tutti i componenti di quella lista imitassero il presidente della Margherita, invece che lista Prodi converrebbe chiamarla lista Babele e non sarebbe una gran trovata elettorale. Questo è solo il modesto consiglio di un elettore, dopodiché ciascuno è libero di scegliere la corda con la quale impiccarsi.

LO SCHEMA classico della democrazia moderna, quella emersa in tempi diversi in Gran Bretagna, negli Stati Uniti d´America e in Francia, è la contrapposizione tra una destra e una sinistra, tra conservatori e progressisti, tra chi privilegia la tradizione e chi punta sull´innovazione. Socialmente la destra è più sensibile agli interessi dei ceti possidenti, la sinistra ai bisogni dei ceti economicamente più deboli. La destra è attenta a favorire la produzione di ricchezza, la sinistra alla sua equa ripartizione.

La rappresentanza politica in una siffatta democrazia si fonda su due partiti o su due coalizioni di partiti. Il meccanismo elettorale più appropriato è quello maggioritario ma anche un meccanismo proporzionale può essere compatibile col bipolarismo. Ne fa fede la storia italiana degli ultimi cinquant´anni, durante i quali abbiamo avuto un sistema elettorale rigorosamente proporzionale e uno schieramento politico rigorosamente bipolare, con la Democrazia cristiana e i suoi alleati da una parte e il Partito comunista e i suoi compagni di strada dall´altra.

Questo schema prevede che tra i due poli contrapposti s´interponga un territorio più o meno vasto, abitato da elettori che si definiscono di centro: moderatamente conservatori e moderatamente innovatori, moderatamente sensibili alla produzione della ricchezza e moderatamente attenti alla sua equa ripartizione.

Lo sforzo che impegna ciascuna delle due parti contrapposte a ogni scadenza elettorale è di conquistare gli abitanti di quel territorio centrale, o meglio centrista. I voti degli elettori di centro, che sono per definizione voti mobili, decidono di solito chi sia il vincitore della contesa. Vince chi - conservando la propria originaria dotazione di consensi - riesce ad attirare il maggior numero degli elettori centristi. Sicché sia la destra che la sinistra debbono darsi programmi in qualche modo compromissori per ottenere il favore dei moderati.

In vista delle elezioni si apre così la caccia al voto moderato. Tra il bianco e il nero, o se volete tra l´azzurro e il rosso, si interpongono i colori intermedi: tutte le gradazioni del grigio, tutte le gradazioni del rosa e del celeste. E i moderati scelgono sulla base dell´esperienza di quanto fatto o non fatto dal governo precedente e degli impegni elettorali credibilmente assunti dai partiti che sollecitano ora il consenso.

* * *

Questo schema è semplicemente uno schema. Serve a dare un minimo d´ordine ai nostri pensieri e ai nostri giudizi, ma riflette una parte limitata della realtà. In certe situazioni si rivela lontanissimo dalla realtà.

A esser franchi: la democrazia moderna così raffigurata non esiste più in nessuna parte del mondo (ammesso che sia mai esistita). Non esistono i blocchi sociali che dettero qualche sostanza e qualche struttura alla destra e alla sinistra di un tempo.

Esistono, quelli sì, i poveri dislocati sui vari gradini della povertà e i ricchi dislocati sui vari gradini della ricchezza; ma pesano soprattutto le paure dei semi-ricchi di precipitare nell´inferno della povertà e le aspettative dei poveri intraprendenti, fiduciosi di entrare nel paradiso degli agiati. In tempi di ottimismo congiunturale i poveri intraprendenti e fiduciosi delle proprie forze danno il tono di fondo all´intera musica mentre in tempi di pessimismo e di stagnazione sono le paure dei semi-ricchi a prevalere.

Da quando le tradizionali e nette distinzioni di classe sono scomparse sotto l´urto delle nuove tecnologie e della nuova organizzazione del lavoro, la destra e la sinistra hanno mutato fisionomia acquistando connotati nuovi e più aderenti ai tempi e alle condizioni sociali. Ma i moderati sono di fatto scomparsi.

I moderati si interponevano tra i padroni delle ferriere descritti dai romanzi di fine Ottocento e gli anarchici e i socialisti delle leghe contadine e delle case del popolo operaie.

Ma oggi il "parun da le bele braghe bianche" delle canzoni d´epoca lavora al computer per vendere i prodotti della sua azienda interamente informatizzata e i socialisti e comunisti rivoluzionari delle leghe d´un tempo mandano avanti le loro piccole officine, gestiscono l´autopompa e lo snack, aprono agenzie di pulizia, recapitano plichi a domicilio, possiedono automobili da rimessa, fabbricano prodotti d´abbigliamento, indotto d´ogni genere e tipo.

Ceto medio, lavoro a cottimo, partite Iva, immenso esercito del sommerso, artigiani. A volte votano a sinistra, a volte a destra, secondo che prevalga la paura di esser risucchiati all´indietro nella scala dei redditi, o prevalga la speranza e la voglia di progredire; secondo che sentano più bisogno di farsi da sé o di ottenere protezione sociale; secondo che privilegino il sacro egoismo individualistico o la santa solidarietà collettiva.

Chi sono, in una società informe come l´enorme pancia d´una balena, e dove sono i moderati? Gli amanti dei colori pastello, del parlar sottovoce, dei modi urbani, del giusto mezzo, della sobrietà nell´agire e nel pensare, del rigore dei sentimenti e della riga dei pantaloni? Entrate in una trattoria, in un ristorante, in un bar, in un vagone di treno e di metropolitana, in uno stabilimento balneare, in un impianto di sciovie e funivie e cercate tra tanta e varia gente un gruppo di moderati. Non lo troverete perché non c´è. Non c´è perché è stato distrutto dai mutamenti del costume, dell´economia, dei mezzi di comunicazione, della politica.

I moderati sono una specie in estinzione come la foca monaca, i pinguini e le tartarughe giganti. Perciò quel famoso schema secondo il quale tra la destra e la sinistra vince chi riesce a conquistare i voti moderati del centro è fasullo. Il centro è vuoto o tutt´al più semivuoto. Se ti vuoi conquistare il voto disincantato delle partite Iva è inutile promettere sgravi fiscali: stanno perdendo clienti, fatturato e profitti; hanno bisogno che aumenti la domanda altrimenti chiuderanno bottega e molti l´hanno già chiusa. L´indotto di mezz´Italia barcolla senza più grandi e medie industrie che lo sostengano.

La piccola impresa ha il fiato grosso e si delocalizza. La competitività continua a regredire e sta agli ultimi posti della scala mondiale.

Volete, a destra e a sinistra, dare la famosa scossa? Bisognerebbe fiscalizzare gli oneri sociali, avvicinare il più possibile il salario lordo a quello netto e fare spazio a consistenti aumenti delle retribuzioni. Altro che abbattimento dell´Irpef.

Il reddito minimo di sussistenza è stato calcolato in 1700 euro mensili, ma quanti sono i pensionati e i lavoratori che stanno sotto a quel minimo? E quanti coloro che, standone ancora al di sopra, hanno fondate ragioni di temere lo scivolamento all´ingiù?

* * *

Il problema della sinistra, dunque, non è quello di scovare i moderati e conquistarne il consenso, ma di recuperare il consenso attraverso lo sviluppo e di riprendere al tempo stesso un´energica politica di risanamento finanziario.

La destra, se sarà sconfitta, lascerà in eredità un buco enorme, di almeno 60 miliardi di euro. Ve l´ha già detto Siniscalco nel suo Dpef e a lui almeno in questo si può credere. Ma colmare quel buco significa soltanto rimettere in regola la finanza. Se aggiungete i costi necessari a rilanciare lo sviluppo arrivate più o meno a 100 miliardi di euro, 200.000 miliardi di lire.

Certo se la domanda riprende ci saranno maggiori entrate, ma arriveranno gradualmente e per un anno non vedrete un centesimo in più.

Qualcuno dovrà pur pagare almeno una parte di questa rovina. Bisogna spiegarlo agli italiani ma stando attenti a non adottare misure che deprimano la domanda, ma anzi che la rilancino.

Ecco perché ci vuole un patto sociale. Non tra forze politiche ma tra forze sociali. Bisogna orientare tutte le risorse disponibili sul rilancio del potere d´acquisto, della domanda, degli investimenti, della sicurezza sociale, dei servizi pubblici, delle infrastrutture. Bisogna garantire buona e nuova occupazione, come predicano (ma finora inascoltati) Giorgio Ruffolo e Alfredo Reichlin. Bisogna favorire il dialogo tra sindacati, Confindustria, Confcommercio.

E bisogna fermare il federalismo al buio della Lega. Quanto costerebbe all´economia la devolution voluta dai nipotini di Bossi? Nessuna indagine ufficiale è stata ancora compiuta ed è una lacuna incredibile e inammissibile.

Ma alcune analisi fatte a spanne parlano di 100 miliardi di euro come maggior costo burocratico della devolution, gradualizzate in cinque anni. Capite in quale baratro rischia di precipitare lo Stato per far contento Calderoli? La legge rischia di passare entro il prossimo 6 ottobre, ma senza un attento calcolo dei costi è impensabile che possa esser promulgata: aprirebbe la strada alla bancarotta dello Stato.

* * *

La sinistra dispone d´una squadra dirigente notevole, la migliore che ci sia sul mercato politico. Ma finora ha affrontato questo gomitolo di questioni solo di striscio. E´ venuta allora ad affrontarle frontalmente perché l´autunno 2004 sarà molto caldo.

A destra il disincanto dilaga, ma quei consensi che Berlusconi sta perdendo non varcano ancora la soglia. Si rifugeranno nell´astensione.

Attenti però: anche a sinistra c´è disincanto. Anche a sinistra l´astensione, già alta, può aumentare.

Sarebbe sciocco dire a Prodi: facci sognare. Non servono i sogni né bisogna sperare nei miracoli che non esistono. Ma possiamo dire a Prodi: datti da fare. Da subito. I problemi sono quelli. Li conosciamo. Conosciamo anche i bisogni. Perciò datti da fare. Fai un discorso alla nazione. Dì quali sono i pericoli, quali le possibilità, quali gli obiettivi, quali i mezzi e i modi per realizzarli. Insedia la squadra.

È sbagliato pensare che la battaglia cominci nella primavera del 2006 o alle regionali del 2005. La battaglia è in pieno svolgimento. Stanno smontando pezzo a pezzo lo Stato, le istituzioni di garanzia, l´economia pubblica e quella privata, il potere d´acquisto dei cittadini. Ai primi d´ottobre daranno un altro colpo di piccone con una devolution senza sostanziale copertura.

C´è un uomo al Quirinale che rappresenta tutti i cittadini. Riscuote un consenso di massa quasi unanime. Ma è solo, terribilmente solo. Non pensiate che da solo possa sorreggere uno Stato pericolante. Voi di destra, voi di sinistra, che avete egualmente a cuore le sorti del paese e vi entusiasmate quando il tricolore sale sul podio olimpico, aiutate quell´uomo e fate che non sia il solo a combattere per tutti.

Speriamo con tutto il cuore che il secondo turno delle amministrative confermi il primo: tutti i seggi al centro sinistra, perché il centro destra ha governato male, perché Berlusconi deve sapere, come ha saputo nelle elezioni europee e nelle amministrative che si sono concluse al primo turno (come le splendide vittorie di Bologna e di Bari), che non c’è più molta domanda di un prodotto che consiste esclusivamente nelle maniacali esibizioni di un miliardario ossessionato con se stesso.

Ieri, affrontato duramente da Fini e Follini, il miliardario ha detto con rabbia e candore: «Per colpa vostra ho perso le elezioni». La ragione è falsa, perché la colpa è sua. Ma è importante che la frase sia stata pronunciata.

Dunque siamo in ansiosa attesa che l’esito finale del ballottaggio confermi dovunque l’evento storico: Berlusconi ha perso le elezioni. Se questo accadrà, perché i cittadini, dovunque si riuniscano per celebrare, non dovrebbero cantare “Bella ciao”, canzone festosa e identitaria che produce legame e fiducia perché ricorda la grande conquista italiana della libertà per tutti?

Ne parlo perché ieri nella sua lettissima rubrica, un commentatore cauto e misurato come Paolo Mieli ha scritto: «Chi intona “Bella ciao” in riferimento a uno specifico contesto politico - cioè come citazione anche vaga della lotta partigiana contro il regime fascista di Salò - avrebbe poi il dovere di essere conseguente». Un ammonimento grave che vuol dire, come minimo, andare in montagna, clandestini e armati, in attesa di scendere a valle “per conquistare la nostra libertà”.

E conclude: «Ragion per cui mi sento di raccomandare - in vista di probabili vittorie ai secondi turni, domenica prossima - un modo più sorvegliato di esprimere legittima gioia». Curioso Paese quello in cui il proprietario Berlusconi può celebrare ciò che vuole, quando vuole, nel modo che gli piace di più. Ma la sua opposizione deve limitarsi a pacati battimano. Ricordate il costoso trionfo con fondali finti di Pratica di Mare? Non era successo niente, ma per giorni si è celebrato “lo statista Berlusconi” per avere dato una pacca sulla spalla a Putin e una a George Bush, che sono però rimasti esattamente alla stessa distanza (e anzi antagonisti, sulla guerra in Iraq).

In questo stesso Paese viene considerato di cattivo gusto se in una piazza di Bologna, in occasione di una molto attesa e desiderata vittoria per riconquistare il governo della città, la gente in festa intona l’allegra canzone dedicata alla libertà. Francamente non vedo perché si violerebbe il “bon ton” elettorale, cantando “Bella ciao”, e un po’ mi meraviglio che un commentatore ricco di memoria e di esperienze come Mieli non si sia ricordato di “We Shall Overcome” (traduzione alla buona “alla fine ce la faremo”).

È un canto religioso di speranza degli schiavi (dunque si può immaginare quanto drastico e dolente fosse il riferimento alla libertà) divenuto l’inno delle marce per i diritti civili, ma non mi ricordo che qualcuno abbia rimproverato a Martin Luther King di non essere più schiavo, trasformatosi nel 1968 nel canto-bandiera dei giovani dimostranti contro la guerra nel Vietnam, e nessuno a dire a quei ragazzi che non erano né neri né schiavi o che questa volta volevano solo la pace. Ai giorni nostri il canto di “We Shall Overcome” si ascolta in tutte le occasioni (soprattutto in scuole e campus universitari) in cui tanti o pochi, una massa o una minoranza, reclamano qualcosa di importante o celebrano un risultato che conta. Per esempio si canta moltissimo per protestare contro i divieti ottusi (vedi la questione della ricerca sulle cellule staminali) del cristianesimo fondamentalista, nella ricerca e nell’insegnamento.

Sembra chiaro che i ragazzi americani non devono tornare nella capanna dello zio Tom per cantare l’antica e gloriosa canzone della loro libertà. E non c’è bisogno di andare in montagna, domenica sera, in caso di sconfitta di Ombretta Colli e di vittoria del candidato di centrosinistra Penati, mentre tanti si augurano che quel voto locale a Milano sia l’inizio della fine del regime mediatico di Berlusconi. Basterà cantare “Bella ciao” in segno di saluto e di piccola celebrazione, nella piazza del Duomo a Milano e, sperabilmente, nelle piazze di Vercelli, di Piacenza, di Bergamo. Ad alcuni di noi la memoria partigiana sembra perfettamente intonata a una festa. E poi è un canto che porta bene.

Alcune settimane fa si è intrecciata una fitta discussione sui media italiani, e non soltanto italiani, sulla natura e la deontologia di due emittenti televisive arabe che si sono guadagnate una grande popolarità nelle regioni del Medio Oriente: Al Jazeera e Al Arabia. L'occasione di questo dibattito è stata fornita dal fatto che una delle due emittenti era in possesso della videocassetta con il filmato della barbara esecuzione di Fabrizio Quattrocchi, uno dei quattro ostaggi italiani sequestrati da una banda irachena; Quattrocchi fu ucciso il giorno dopo il sequestro, gli altri tre, ancora vivi e in buona salute, sono tuttora tenuti prigionieri. Al Jazeera dette la notizia dell'avvenuta esecuzione di Quattrocchi ma decise di non mettere in rete il filmato di quell'assassinio: una scena troppo brutale e macabra che avrebbe provocato emozione e reazioni da parte degli ascoltatori. Il contenuto della videocassetta fu mostrato solo all'ambasciatore italiano convocato per il riconoscimento dell'ostaggio ucciso. Di qui la polemica. Perché Al Jazeera non ha reso pubblico il filmato in questione? È accettabile la motivazione fornita dal direttore sul contenuto troppo crudele del filmato?

La motivazione non regge, hanno dichiarato all'unisono i giornalisti italiani chiamati a commentare quella sorta di autocensura televisiva. La verità, hanno aggiunto, è piuttosto che il filmato avrebbe profondamente e sfavorevolmente impressionato tutta l'opinione pacifista occidentale e almeno una parte dell'opinione pubblica araba, indebolendo la causa della resistenza irachena. I giornalisti italiani che intervennero nel dibattito sul 'Corriere della Sera', sulla 'Stampa', sul 'Messaggero' e su altre testate non furono teneri nei confronti dell'emittente araba, così come non lo furono alcuni conduttori e partecipanti ai consueti talk show, da 'Porta a Porta' a 'Otto e mezzo'. L'accusarono di manipolare le notizie e di pilotarle, per eccitare i militanti della guerriglia evitando al contempo di isolarli e imprimere su di loro il marchio della barbarie e dell'infamità. Poi sono venuti altri fatti, sempre in tema di autocensura e censura delle notizie dagli epicentri di guerra, ma questa volta gli attori erano cambiati: sul banco degli accusati sono saliti i media occidentali o almeno gran parte di essi, nonché le principali fonti dalle quali le informazioni dovrebbero provenire. A titolo preliminare cade qui opportuno ricordare che la guerra irachena, ufficialmente durata 20 giorni e iniziata con un apparato informativo e tecnologico imponente, è stata di fatto blindata proprio per quanto riguarda le notizie dal fronte.

I giornalisti furono accreditati soltanto se accettavano le regole e i limiti imposti dagli uffici stampa creati presso i reparti militari. Furono assegnati ai vari settori, presi in forza dai suddetti uffici stampa, la loro libertà di movimento fu ridotta al minimo, la loro dipendenza dalle fonti autorizzate fu totale. Chi non accettò questo regime di libertà vigilata fu di fatto tagliato fuori dalle fonti e dovette muoversi a proprio rischio e pericolo con scarse probabilità di fornire notizie complete e oggettive. La conseguenza è stata che, al di là dei boati e delle fiamme dei bombardamenti, nonché delle cifre sulle perdite delle forze armate americane, si è saputo ben poco sulle perdite della popolazione civile, sulle condizioni di vita nelle città, sulle distruzioni effettivamente avvenute. Scavalchiamo un anno e veniamo ai fatti di più stretta attualità cominciando dall'assedio di Falluja. Su quest'assedio non si è saputo assolutamente nulla perché i giornalisti e i fotoreporter non hanno potuto neppure avvicinarsi alle linee. Una sola volta sono stati accolti sui camion della Croce rossa italiana che trasportavano viveri e medicinali.

Il convoglio, organizzato come prova di umanità volta a facilitare la liberazione dei nostri ostaggi, ha percorso un tragitto preordinato fino a una moschea dove il materiale è stato scaricato. Poi è tornato indietro. I giornalisti hanno potuto vedere ben poco. Sull'assedio di Falluja si sa soltanto che è durato tre settimane, che i combattimenti sono stati furiosi e intervallati da brevi tregue, che i bombardamenti sono stati effettuati con caccia-bombardieri a volo radente, che la fanteria di Marina è stata preceduta da carri armati che sparavano cannonate sulle case occupate dai guerriglieri, che le vittime civili sono state molto numerose tanto che gli ospedali non sono stati più in grado di accogliere i feriti, che i bambini uccisi si valutano al 20 per cento dei morti, ma mancano cifre certe alle quali applicare questa stima percentuale. A tutt'oggi le notizie sono a questo punto. Situazione analoga riguarda l'intero territorio iracheno, il che ci porta a concludere che sul dopoguerra si conoscono tante notizie quanto se ne ebbero durante i 20 giorni della guerra, cioè poco più di nulla.

Parliamo ora delle torture nella cupa prigione di Abu Ghriab, nella periferia di Baghdad. Erano rinchiusi in essa circa 2 mila prigionieri iracheni sospetti di attività terroristiche e di connivenze con la guerriglia. Tra di essi 600 donne. Le donne riuscirono - non si sa come - a mandar fuori alcuni appunti e informazioni scritte sulle sevizie che subivano ad opera dei loro carcerieri. Questi appunti furono stampati alla macchia e qualche copia fu affissa nei pressi della prigione. Quindici giorni fa la notizia di quelle sevizie e di quelle efferate torture cominciò a circolare tra i giornalisti accreditati a Baghdad. Ne chiesero conto alle autorità militari americane che smentirono o minimizzarono. Poco dopo una rete televisiva Usa entrò in possesso di foto che documentavano i fatti. Ne informò il Pentagono per averne le reazioni. Fu invitata a non diffondere le foto per evitare reazioni eccessive e drammatizzanti della pubblica opinione. Attese tre giorni, poi, nel timore che il materiale arrivasse alla concorrenza, decise di mandarlo in onda.

Le prime reazioni dei giornali americani furono molto caute: nulla o quasi nelle prime pagine, titoli e spazi modesti nelle pagine interne, nessun commento. Analoghe furono le reazioni dei media italiani. I nostri quotidiani confinarono l'avvenimento nelle pagine interne; tra i grandi giornali d'informazione soltanto 'Repubblica' dette la notizia delle torture nell'apertura di prima pagina. Canale 5, che diffuse ampiamente le informazioni, decise però di non mandare in rete le fotografie e lo fece soltanto dopo che erano uscite sui giornali di mezzo mondo. Il Pentagono ha messo sotto processo sei militari e una generalessa, ammettendo che le informazioni erano in suo possesso fin dallo scorso gennaio. Questi i fasti e i nefasti dell'informazione in Occidente, terra della libertà di stampa e della trasparenza. Perciò stiamo molto attenti a intrecciare polemiche perché su questi argomenti chi è senza peccato scagli la prima pietra, come disse 2 mila anni fa il Maestro.

Facendo una ricerca in rete (non difficile, che però mi sembra nessun giornalista si sia preso la briga di fare), si scoprono varie cose interessanti sulla società americana Dts e sulla sua figlia Dts security llc, che e` quella da cui dipendevano Quattrocchi e gli altri tre Italiani rapiti in Irak. prima di tutto, che il nome intero e` Dyncorp Technical Services (e` col nome Dyncorp che viene di solito citata in rete) e che la società in effetti dal 7 marzo 2003 e` stata assorbita (insieme con la Dts Security Llc) dalla Computer Science Corporation (Csc), un gruppo da 90.000 dipendenti e 11,3 miliardi di dollari di fatturato nel 2002. dal sito della csc si evince che le attività aerospaziali e di difesa (a&d) siano solo una piccola parte del loro business (che comprende anche: attività assicurative e bancarie, consulenza alle imprese, manutenzione di aerei ed elicotteri militari, conduzione di ricerche oceanografiche con una flotta di navi di proprietà , gestione di call center dell'amministrazione pubblica). giusto per dare un ordine di grandezza: gli ultimi tre appalti ottenuti nel settore a&d dalla Csc (sono tutti del primo trimestre 2004) valgono 950, 406, e 228 milioni di dollari. csc e Dts erano entrambe fino a prima della fusione fra le prime 25 imprese (per giro d'affari) fornitrici del governo americano nel settore militare. di cosa si occupa la Dts - direttamente, attraverso sue sottoaziende, o nell'ambito di joint venture a cui partecipa la Csc? lo vediamo subito. mi preme sottolineare che le mie fonti sono relativamente istituzionali: per esempio i siti della Federation of American Scientists (Fas) e di corpwatch, che si occupano (tra l'altro) da anni di monitorare le attività militari e di intelligence del governo americano e delle multinazionali.

1) la Dts (o Dyncorp, per il resto del mondo) forniva supporto logistico alle truppe americane di stanza, tra l'altro, a Timor est, a Panama, in Perù.

2) la Dts e` l'impresa con contratti dell'importo maggiore (ca. 600 milioni di dollari) nell'ambito del Plan Colombia , cioe` il piano di distruzione militare delle piantagioni di coca in Colombia (qui qualche dettaglio in più sul Plan Colombia), e in particolare e` la Dyncorp che si occupa di irrorare i campi di defolianti con 88 aerei di sua proprietà , tanto da essere citata in giudizio nel 2001 da un gruppo di contadini ecuadoregni raggiunti in maniera assolutamente illegale dai pesticidi, che avevano causato malattie, malformazioni e morti infantili; i defolianti usati sono in effetti molti simili all'agent orange usato in vietnam.

3) la Dts gestisce per conto dell'amministrazione americana la riorganizzazione dell'attività poliziesca e giudiziaria in Irak.

4) i dipendenti della Dts costituiscono il nucleo centrale della forze armate americane di stanza in Bosnia - per chiarire: l'esercito americano appalta la fornitura di ufficiali per la sua truppa ad un'azienda esterna, in outsourcing.

5) la Dts é stata condannata in tribunale dopo che un'ispettrice dell'Onu aveva accusato i suoi uomini di aver ridotto in schiavitù e costretto alla prostituzione, in Bosnia , donne e ragazzine minorenni: - qui un'inchiesta di Salon sulla vicenda, qui un resoconto della sentenza sfavorevole alla Dyncorp.

6) la Dts si occupa del controllo militare del confine tra Usa e Messico, compreso il tratto di 22 km in cui è stato eretto un muro difensivo alto 3 metri, simile a quello tra Israele e Cisgiordania.

7) la Dts e` fra le imprese che si occupano di sviluppare per conto dell'amministrazione americana il Ballistic Missile Defense System, cioè lo scudo spaziale.

8) la Dts si occupa della manutenzione di aerei (per esempio i B-52) e navi della marina e dell'aviazione americana.

9) la Dts gestisce diversi poligoni di tiro atomici in giro per gli Usa.

Insomma, la questione mi sembra ben spiegata dal Washington Post: "The U.S. government increasingly relies on civilians to perform jobs once reserved for the military, including [...] training Iraq's new armed forces and providing security for foreign leaders". In altre parole: un tempo sarebbero stati soldati reclutati dallo stato americano, ora sono soldati privati che forniscono servizi alle forze armate americane in outsourcing. Mi correggo: sono soldati privati quando sono cittadini americani: se invece si tratta di cittadini stranieri, in particolare cittadini di stati che al momento non hanno dichiarato guerra all'Irak (come l'Italia), si tratta di mercenari secondo la convenzione ONU contro il reclutamento, l'uso, il finanziamento e l'addestramento di mercenari, ratificato dall'Italia attraverso la legge 210/1995. per concludere sugli italiani dipendenti della Dts rapiti in Irak: poveri vigilantes un par di palle.

Se leggete l'articolo in questo sito avete numerosissimi riferimenti collegati alle pagine originarie

I SONDAGGI sono quel che sono: una fotografia che ferma l’attimo fuggente della pubblica opinione in quel determinato momento. Anche se letti in una serie cronologicamente continuativa non cessano di sottovalutare le dinamiche dei processi sociali. Ma questo diffuso ieri dall’Eurispes resta comunque una sciabolata che rompe il velo della verità ufficiale e che mette in luce uno scenario estremamente preoccupante; scenario di declino economico, incertezza esistenziale, sfiducia politica.

Le cifre più drammatiche riguardano il numero di famiglie collocate al disotto della soglia di povertà: due milioni e quattrocentomila, il 10 per cento delle famiglie italiane, più o meno sei milioni di anime il cui reddito pro capite diminuisce man mano che il nucleo familiare aumenta. Ciò spiega meglio di qualunque ragionamento il crollo delle nascite che vede il nostro Paese in coda a quasi tutti gli altri paesi industriali.

A integrare questo primo blocco di informazioni seguono i dati sulla caduta del potere d’acquisto di alcuni gruppi sociali che costituivano i pilastri della classe media. Nei due anni 2002-2003 gli impiegati hanno perso il 20 per cento del potere d’acquisto, cioè un quinto di quanto disponevano nel 2000-2001, gli operai il 16, i dirigenti il 15,4, i quadri il 13,3. Perdite cospicue e tanto più penalizzanti quando riguardano una base redditizia e patrimoniale già modesta in partenza.

Questa falcidia del potere d’acquisto deriva dalla combinazione di almeno due fattori: l’aumento dei prezzi da un lato, la lenta dinamica delle retribuzioni dall’altro. Presa in mezzo ai due bracci di questa tenaglia la classe media sente sul collo come pericolo incombente e concreto la proletarizzazione del suo status. La mobilità del lavoro, in una società dinamica rappresenta un elemento di dinamismo ulteriore, in una società declinante costituisce un rischio non calcolabile e quindi avvertito come catastrofico.

Alla luce di questi dati si capisce facilmente l’opposizione massiccia sia dei vecchi che dei giovani alle politiche miranti a realizzare un mercato del lavoro flessibile e un Welfare leggero e modellato sulle nuove condizioni dei lavoratori.

Questo tipo di riforma è stato presentato come il tentativo generoso di favorire le nuove generazioni e di includere nel circuito produttivo quanti finora ne erano rimasti esclusi. Perciò ha destato stupore la compattezza dei giovani insieme agli anziani nell’avversare una riforma che proprio da loro avrebbe dovuto essere accolta col massimo favore.

Ma riflettendo sulle cifre dell’impoverimento e della perdita così cospicua e rapida del potere d’acquisto, quello stupore dovrebbe dileguarsi: come potrebbero i giovani assistere allo smantellamento senza altre valide reti protettive delle magre posizioni dei padri senza che dalle evanescenti nebbie d’un futuro sempre più incerto altro non si profili se non una società misurata su tempi brevi e su ritmi sussultori di occupazione-disoccupazione, scanditi dalla nevrosi d’una affannosa ricerca che nulla lascia ai diritti e alla sempre più chimerica qualità della vita?

***

Giustamente Savino Pezzotta, il leader della Cisl, chiama ora a raccolta tutto il sindacato e le forze politiche affinché recuperino il metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che assicurò al paese un periodo di saggezza e di stabilità. È auspicabile che la Cgil risponda positivamente all’appello di Pezzotta e coincide con quello più volte rinnovato dal presidente Ciampi che di quel metodo fu l’autore insieme a Giuliano Amato. Riesce tuttavia difficile sperare che l’attuale governo risponda positivamente a quella chiamata.

Si comincia forse a comprendere che la tenace difesa dell’articolo 18 guidata a suo tempo da Sergio Cofferati non era poi così massimalistica e scriteriata come allora fu da molte parti giudicata; si comincia a valutare da parte della categoria imprenditoriale di aver perso un anno intero per sfiancare e dividere il sindacalismo confederale fu un tragico errore.

Personalmente auspico che lo stesso Pezzotta sia divenuto consapevole del danno provocato dalla spaccatura sindacale e dall’illusione che il "Patto Italia" stipulato con il governo da Cisl e Uil potesse contenere il galoppo socialmente regressivo del blocco elettorale irretito dalle promesse miracolistiche dell’incantatore di serpenti.

In realtà quello scontro, se condotto fino in fondo da parte d’un sindacato compatto, avrebbe segnato un colpo d’arresto alla deriva che oggi ha investito in pieno i ceti produttivi e rischia di cancellare la borghesia e la classe media italiana. Di lì poteva ripartire su basi di maggior forza la stagione del riformismo, contenendo l’antagonismo sindacale e politico.

Un anno fa Pezzotta sbagliò come dimostrano i fatti. Ma oggi ha pienamente ragione quando vuole ricucire l’unità del sindacato e chiama Epifani a riproporre insieme i temi di fondo della società italiana. Non basta il fronte del no: ci vogliono proposte concrete e unitarie per uscire dalla stagnazione e dalla paura dell’impoverimento e dell’imbarbarimento sociale.

***

Nel generale clima di sfiducia ci sono poche ma illuminanti eccezioni: il presidente Ciampi che riscuote il consenso dell’80 per cento degli italiani, una percentuale che tende ad aumentare anche oltre questo picco durevole ormai da tre anni. Insieme a Ciampi riscuotono analogo favore le forze dell’ordine, carabinieri e polizia. Il 58 per cento ha fiducia nell’Europa; il 52 per cento nella magistratura.

Gli italiani insomma puntano sulle istituzionI e l’Europa è vista giustamente come una di queste. Non così il governo né il Parlamento (che sempre più sembra la sua protesi); non così i partiti che sono al livello più basso di tutti.

Nelle ultime ore Berlusconi ha compiuto una clamorosa retromarcia sull’euro. Fino a ieri lo riteneva la causa di tutti i nostri mali scaricando sulla moneta europea le palesi deficienze politiche del suo governo; ma da ieri ha invertito la rotta ed ora benedice l’euro, scudo e salvaguardia della stabilità monetaria. È la piena verità, ma la conseguenza di questo giudizio è che l’impennata dei prezzi e del costo della vita risale alle manovre speculative avvenute a cielo aperto e sotto gli occhi delle pubbliche autorità falcidiando una quota impressionante del risparmio nazionale.

Non a caso (ricavo queste cifre dall’Eurispes ma esse trovano conferma in molti altri sondaggi recenti) la fiducia nel governo è crollata al 33 per cento. Un altro sondaggio commissionato dallo stesso presidente del Consiglio e noto soltanto ai massimi dirigenti della Casa delle Libertà segnala che il consenso elettorale di Forza Italia è passato dal 29 per cento delle ultime elezioni al 20. Cifre paurose per il committente. Certo, una cosa sono i sondaggi e un’altra la campagna elettorale e il voto degli elettori, ma un crollo di otto punti percentuali non è facile da rimontare se il centrosinistra a sua volta non lo aiuterà con i suoi errori e omissioni.

***

L’errore del centrosinistra sarebbe quello di tardare ancora a formulare un programma credibile basato su poche ma essenziali idee forza e su grandi riforme che abbiano la finalità di rilanciare il paese, fugare la paura sociale, proiettarlo in Europa con un ruolo consono a una grande nazione fondatrice della Comunità.

Dopo tante vanterie sui successi di politica estera di questo governo, proprio in questi giorni stiamo assistendo alla formazione d’un triumvirato europeo composto da Francia, Germania, Gran Bretagna dal quale l’Italia è il solo grande paese fondatore escluso. Segno evidente che la politica delle corna, delle barzellette, e delle pacche sulle spalle con il sovrappiù del cuoco Michele e del cantante Apicella serve soltanto a incantare i gonzi e i paparazzi in cerca di foto.

L’omissione dalla quale il centrosinistra deve guardarsi è quella di mettere il silenziatore sul problema politico centrale di questa legislatura che è il conflitto d’interessi del presidente del Consiglio e la sua personale posizione dominante nel campo dell’informazione televisiva.

I tanti grilli parlanti che danno i voti alle forze politiche e suggeriscono comportamenti all’una e all’altra, quando si rivolgono all’attuale opposizione raccomandano o di abbandonare l’antiberlusconismo a favore di programmi concreti oppure, al contrario, di accrescere il radicalismo anti-Berlusconi mettendo in subordine i programmi e le proposte.

Mi permetto di dire che questa scissione mentale rappresenta il peggio del peggio e contiene appunto gli errori e le omissioni che ho prima accennato.

Proposte e programma sono essenziali. L’anomalia berlusconiana è a sua volta un "memento" e non può mai essere sottaciuto. Proprio ieri un tribunale francese ha condannato l’ex presidente del Consiglio Juppé, delfino di Chirac, sindaco di Bordeaux e segretario del partito chiracchiano, perché utilizzò per lavori privati alcuni dipendenti della municipalità di Parigi. Pene detentive, pene pecuniarie e dieci anni di interdizione dagli incarichi pubblici. La classe politica francese ha preso atto della sentenza. Il condannato potrebbe ricorrere in appello come è suo diritto. Nessuno si è permesso di dire che i giudici che l’hanno condannato sono «maledetti comunisti».

Sentite: c’è un paese timoroso e smarrito e un elettorato che cerca una guida più seria e più credibile di quella che tre anni fa ha riscosso la maggioranza dei consensi. Sta all’opposizione di proporsi con proposte, programmi e volontà alternativa alla cialtroneria imperante della quale gran parte degli italiani è ormai consapevole e stufa.

Cher Comité pour la paix,

Merci pour le «prix de la Paix» ! Comme vous, je crois en la paix. Et nous qui croyons en la paix pensons que c’est la plus noble des tâches de faire que chacun d’entre nous dans le monde pense de même.

Mais tout le monde ne le veut pas. Le monde est composé de deux tribus vivant dans le désert. Une tribu vit dans le pays qui possède le puits. Les autres vivent autour. La tribu qui a le puits veut la paix. La tribu qui vit dans le pays autour ne veut pas la paix — elle veut de l’eau !

La tribu qui vit dans le pays autour est sans doute un peu moins civilisée et n’a même pas un mot pour «paix». Mais elle en a un pour «soif», ce qui, vu les circonstances, veut plus ou moins dire la même chose.

Le «Comité pour la paix» qu’on trouve dans le pays qui a le puits, est composé de gens honnêtes, sages, beaux, riches, qui n’ont pas soif. C’est pour cela qu’ils ont le temps et l’énergie de se dévouer pour le Comité. Les gens du pays qui ont le puits parlent beaucoup du «prix de la paix» attribué par le Comité aux autres personnes qui vivent dans le pays qui a le puits.

Les gens du pays autour ne parlent pas beaucoup du «prix de la Paix».

Merci pour mon «prix de la Paix»

Lars von Trier

Caro Comitato per la pace,

grazie per il Premio per la pace! Come voi, anch’io credo nella pace. E noi che crediamo nella pace pensiamo che il compito più nobile è quello di far sì che che ciascuno di noi nel mondo la pensi così

Ma non tutto il mondo lo vuole. Il mondo è composto da due tribù che vivono nel deserto. Una tribù vive nel paese che possiede i pozzi: Gli altri vivono attorno. La tribù che ha i pozzi vuole la pace. La tribù che vive nei paesi attorno non vuole la pace – vuole l’acqua!

La tribù che vive attorno è indubbiamente un po’ meno civilizzata e non ha neppure un nome per “pace”. Ma ne ha uno per “sete”, ciò che, date le circostanze, significa più o meno la stessa cosa.

IL “comitato per la Pace” che si trova nel paese che ha i pozzi è composto da persone oneste, sagge, belle, ricche, che non hanno sete. E’ per questo che hanno il tempo e l’energia per dedicarsi al Comitato: Le persone del paese dei pozzi parla molto del “premio della Pace” attribuito dal Comitato alle altre persone che vivono nel paese che ha i pozzi.

Le persone del paese attorno non parlano molto del “premio della Pace”.

Grazie per il mio “premio della Pace”

Lars Von Trier

La storia recente del rapporto tra il nostro Stato e le regioni, è una storia europea in salsa italiana. Negli ultimi 10 anni non c´è Stato europeo che non abbia, come si dice, "decentrato". Il confine più largo, quello dell´Unione, ha allentato gli storici confini più ristretti: quelli degli Stati nazionali. I Larnder, le comunidades, le nostre regioni, hanno stabilito da tempo, legami e rappresentanze a Bruxelles come loro seconda "capitale". Si sono moltiplicate intese transfrontaliere tra regioni contigue appartenenti a Stati diversi.

D´altra parte il potere di far leggi, la qualità costituzionale decisiva, le nostre regioni l´avevano fin dal 1948, con la Costituzione repubblicana. Nel 2001 furono le stesse regioni - e i loro potenti presidenti eletti direttamente - che, all´unanimità, spinsero a espandere contenuti e soprattutto la logica del loro potere legislativo. Nacque così la riforma approvata con il referendum del 7 ottobre di quell´anno. La concezione generale dell´impianto non era cattiva. Ma rivelò subito due errori. Uno sul piano legislativo. Affidare alle regioni competenze, sia pure concorrenti, in certe specifiche materie - ricerca scientifica e tecnologica, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione e distribuzione nazionale dell´energia - contrastava con esigenze di azione unitaria dello Stato nell´ordine europeo. L´altro difetto era sul piano amministrativo. La riforma non era (non è) accompagnata da un piano di fattibilità con costi, tempi e risorse ben determinate.

Comunque, è da quella riforma che si deve partire per correggerla, per migliorarla, per completarla. Per bilanciarne pesi e vantaggi. Il progetto governativo si è invece mosso al largo di tutto questo. E parla soprattutto d´altro.

In primo luogo, si accanisce ad aggiungere qualcosa alla fitta lista delle competenze regionali: la devolution. E ne ha fatto la sua bandiera che tutto copre, e che quindi, tutto rischia di travolgere. È infatti disastrosamente antinazionale l´idea che nella stessa Costituzione possano ammettersi differenziazioni territoriali per programmi scolastici, per assistenza e organizzazione sanitaria, e addirittura per il servizio di polizia. (Quest´ultimo è anche il punto più ambiguo della riforma: si vogliono far convivere nello stesso testo costituzionale due formule diverse. Una parla, semplicemente, di polizia "amministrativa". L´altra, rischiosamente, di polizia "locale"?).

Poi, come da sempre previsto, si sta tentando di costruire una Camera parlamentare dove i governi territoriali si confrontino con lo Stato, trovino coordinamento tra loro e reciproche compensazioni, nella ripartizione delle risorse: insomma lo sbocco delle autonomie regionali e locali al centro della Repubblica. I cattivi riformatori l´hanno però costruito come il non-luogo di certe favole, dove tutto è a rovescio.

Dovevano inventare un sistema di rappresentanza territoriale? Avevano dietro la storia, concreta di insegnamenti, della Conferenza Stato-regioni istituita dal 1983 come "sede per un rapporto permanente con gli organi centrali dello Stato". La Corte costituzionale l´ha dichiarata (nel ´94): "sede privilegiata del confronto e della negoziazione politica tra lo Stato e le regioni". E ancora (nel ´97): "sede di raccordo per consentire alle regioni di partecipare a processi decisionali che resterebbero altrimenti nella esclusiva disponibilità dello Stato". Niente. Hanno ignorato una buona esperienza ventennale. Avevano un modello, già approvato con la legge costituzionale del 2001, di partecipazione di rappresentanti di regioni e governi locali alle decisioni delle Camere? L´hanno lasciato irresponsabilmente cadere. Non l´hanno mai provato. Hanno immaginato che far svolgere contemporaneamente le elezioni dei senatori e quelle dei consiglieri regionali porterebbe a "regionalizzare" il Senato (e non a "nazionalizzare" le elezioni regionali, come i più credono). Hanno ridotto il ruolo in Senato dei presidenti delle regioni a semplici compiti elettorali. Hanno vistosamente compromesso - fissando un numero elevato dei senatori (250) - il principio di tendenziale parità delle regioni nella Camera "federale".

A questo punto, come combinare questo Senato "federale " con la Camera dei deputati? Nel progetto s´è costruito un sistema di competenze legislative basate, secondo le materie, sulla prevalenza di una Camera sull´altra e non piuttosto sull´intreccio dei loro poteri di decisione.

Comunque, sempre a rovescio. Così al Senato è affidato, salvo revoca del governo, il compito di determinare i principi fondamentali della legislazione di competenza mista Stato-regioni. L´assemblea di rappresentanza territoriale approverebbe dunque le leggi di principio: quelle a cui sono affidati gli interessi unitari del Paese. Con illogica inversione, alla Camera dei deputati è affidata invece la parola definitiva per la disciplina dell´esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini. Dove sarebbe necessario che il Senato, ricco di esperienze più vicine alle comunità territoriali e soprattutto più "libero" nei confronti del dettato governativo, fosse posto in condizioni di parità legislativa.

Al Senato, sempre all´incontrario, spetterebbe proporre l´annullamento di leggi regionali per conflitto con l´interesse nazionale. La Camera dei deputati viene invece espropriata di questa delicatissima competenza dove, per definizione, deve valere la rappresentanza dell´interesse generale della Repubblica, e non la cura d´interessi territoriali. Ancora, con estrema contraddizione, l´"interesse nazionale" viene espresso come formula politica astratta. Non ancorata cioè a precisi parametri già presenti in Costituzione: come l´unità giuridica ed economica dell´ordinamento, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il rispetto della normativa comunitaria. Sarebbe questo infatti l´unico ancoraggio che può garantire l´autonomia regionale come vera autonomia da affidare alla tutela del giudice costituzionale e non all´arbitrio di una maggioranza politica congiunturale.

Il mondo a rovescio, si è detto. Così avviene che i presidenti delle regioni dovrebbero partecipare alle elezioni dei componenti del Consiglio della magistratura. E davvero non si capisce perché; a meno che non si voglia mettere in dubbio il carattere nazionale dell´ordine giudiziario. Dal lato opposto, a danno delle regioni, è stato abusivamente nascosto tra le norme transitorie (senza il minimo aggancio a modificazioni introdotte nel progetto) un incredibile incentivo alla loro disgregazione territoriale. Si vuole aprire una finestrella di cinque anni per consentire la frammentazione delle regioni esistenti, "sentendo" solo le popolazioni che vogliono la secessione, senza curarsi di quelle che dovrebbero subirla. Una norma ideale per la proliferazione regionale.

Eppure la via per un regionalismo ben temperato c´è. Come logico sviluppo degli elementi che già sono introdotti nell´esperienza costituzionale nostra e in quella europea (per la prima volta nel progetto, che sarà firmato a Roma il 29 ottobre, i governi territoriali entrano formalmente nella costituzione dell´Unione). La via è quella di concepire le autonomie territoriali come punti di una rete nazionale che sostiene tutti e non abbandona nessuno. Disegnare lo Stato come comunità di regioni e le regioni come federazioni di comuni e d´associazioni di comuni. Costruire le procedure per le decisioni come vincoli di partecipazione e non come momenti di gelosa separazione localistica.

La Corte costituzionale supplendo al legislatore moroso ha già indicato questa direzione: una rete di governi del territorio libera da blocchi, secondo il principio d´intesa e coordinamento e soprattutto, secondo il fluido principio di sussidiarietà (lo spostamento di competenze a seconda delle dimensioni e della intensità operativa dell´intervento). Imprenditori e lavoratori hanno già fatto capire che sarebbe il colmo se l´attuale confuso approccio - federalismo, regionalismo, devolution - creasse impedimenti ("antieuropei") alle imprese e al lavoro. E se, per di più, con i suoi costi finanziari e burocratici, facesse saltare i nostri conti pubblici comunitari.

Sarebbe allora saggio un momento di riflessione comparata con le esperienze regionali nell´Unione. Se, infatti, la salsa italiana prevalesse sulla storia europea, sarebbe, di tutti i finali possibili, il più stupefacente.

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