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«Il presidente George W. Bush ha accettato di nominare una commissione indipendente e bipartisan che indaghi sull’attività dei servizi segreti statunitensi in relazione alle armi di distruzione di massa irachene».

«E in questo modo ha implicitamente ammesso che alcune delle sue dichiarazioni prebelliche erano sbagliate», scrive Dana Milbank sul Washington Post. Il comportamento della Casa Bianca potrebbe sembrare contraddittorio, ma alla base c’è una strategia molto precisa: «Bush ha imparato che ammettere in pubblico i propri errori rende più vulnerabili. Invece, scegliere di aprire un’inchiesta e posticipare il suo rapporto al 2005 permette a Washington, in vista delle prossime elezioni, di gettare un’ombra d’incertezza sulle affermazioni di David Kay, capo delle ispezioni per le armi illecite di Bagdad».

Secondo William Raspberry le dichiarazioni di Kay dimostrano che gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra sbagliata adducendo false motivazioni: «Ogni volta che qualcuno lo interroga sull’arsenale iracheno – sostiene sul Washington Post – Bush risponde sempre che il mondo è un posto più sicuro senza Saddam Hussein.

Ma questa non è né una risposta né tantomeno una giustificazione a un’azione violenta. E soprattutto – fa notare Raspberry – il presidente Usa ha sempre sostenuto che il raìs violava le risoluzioni Onu e che le sue armi chimiche erano una seria minaccia per il paese».

L’esistenza o meno di un arsenale nucleare iracheno è un problema di cui si devono occupare soltanto i politici. Ma tutta la questione ha danneggiato in maniera consistente la credibilità della politica estera degli Stati Uniti, e un’inchiesta non è certo sufficiente a risolvere le difficoltà del paese: «L’America non è onnipotente», sottolinea sul quotidiano di Washington Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter.

«È necessario, perciò, che abbia il supporto genuino e sincero degli altri paesi, soprattutto dei suoi più stretti alleati. La fiducia è un ingrediente essenziale del potere e la sua perdita potrebbe incidere a lungo termine sulla sicurezza nazionale».

Per il New York Times una commissione indipendente potrebbe aiutare gli alti funzionari dell’intelligence a superare la crisi: «I servizi segreti – scrive Douglas Jehl – riconoscono che, dopo l’incapacità di prevenire gli attacchi dell’11 settembre e gli errori commessi sulle armi irachene, è necessaria un’indagine più approfondita. L’inchiesta, inoltre, potrebbe avere il vantaggio di sensibilizzare l’attenzione sulla necessità di maggiori finanziamenti».

Oltre che difendere il lavoro dei servizi segreti, il Wall Street Journal sottolinea anche che, all’interno della comunità internazionale, non c’erano disaccordi sul possesso di armi illecite da parte del raìs e la necessità di disarmarlo.

Oltreoceano ci si chiede quali conseguenze avranno le dichiarazioni di Bush in Europa: mentre il Guardian sottolinea l’isolamento di Tony Blair, l’Independent sostiene che per il premier britannico è arrivato il momento di dissociarsi dall’alleato statunitense e cominciare a pensare che, dal prossimo novembre, potrebbe avere a che fare con un presidente democratico.

«Che stranezza», «Non capisco» «Commendatore...non so nemmeno che cosa sia». Ma le piace lo stesso. Giovanna Marini, commendatore al merito della Repubblica da un paio di giorni, è sorpresa e vorrebbe tanto ringraziare. Il presidente, soprattutto, e magari la signora Ciampi: «Mi sa che è stata lei». «Giovannamarini.com»: Giovanna scherza, è il suo modo lieve di vivere modeste contraddizioni. Lei è un pezzo della storia d’Italia alla quale le istituzioni sono sempre andate strette, molto strette. Anzi, la sua voce le ha spesso «suonate» al «sistema». Se vogliamo, la vera novità nell’elenco delle onorificienze preparato dal Quirinale in occasione dell’Otto Marzo, è proprio il suo nome. È la traccia di una cultura aliena che Ciampi, con scelta davvero felice, ha riconosciuto come parte positivamente integrante dell’Italia che ci piace di più. Giovanna è testimone di un nucleo di creatività che ha fatto dell’arte e della politica il suo pane quotidiano e non ha mai cercato più opportune neutralità. Anche a noi viene di ringraziare Ciampi: ha fatto proprio una bella cosa.

Giovanna, che effetto ti fa?

Intanto, meglio che “cavaliere”, lo avrei rifiutato, oggi è davvero insostenibile, visto il cavaliere che ci governa. Fammici pensare: è un disastro lo stesso; Bossi è commendatore, che brutta cosa. Mi chiedo come gli sarà venuto in mente di scegliere una come me...

Brava, sei brava: lo dicono tutti, e da molto tempo. Fai un lavoro importante sulla musica. Ma hai ragione: mi sa che non basta, in genere...

Cosa vuoi che ti dica, non faccio che ricevere complimenti per questa cosa che non so cosa voglia dire. Fassino mi ha mandato un telegramma: lui è contento ed è stato gentile a dirmelo. È contento anche Ambrogio Sparagna; mi ha detto: Giovanna, questo è importante per tutto il nostro settore. Gli credo, anzi credo che sia l’unica cosa che conta, è come se il Quirinale avesse premiato tanta gente che lavora come me, con uno stile comune, quasi con una condivisa intelligenza della realtà. Vorrei scrivere “grazie presidente” ma non so come si fa. Mi rendo conto che sono proprio fuori dal mondo: un motivo in più per dubitare di quel mi è successo.

È un bel fatto: dai palchi del ‘68 a uno dei massimi riconoscimenti della Repubblica. Sembra una storia a lieto fine...

Lascia perdere il lieto fine. Ne parliamo dopo che ti ho raccontato una storia. Giorni fa ero a Sassari. Dovevo suonare e cantare in una bella sala dedicata a Pietro Sassu, un importante musicologo al quale dobbiamo molto. Canto. Poi si fa avanti una ragazza vestita di pelle che mi accusa: lei non ha fatto un concerto, ha fatto un comizio. Come sarebbe, obietto, ho cantato un patrimonio comune di tutta l’Italia democratica. No, insiste, lei ha cantato solo cose di sinistra. Provo a spiegare: non è colpa mia se la gente che soffre è quella che poi canta, non è colpa mia se la sinistra si è sempre fatta carico della gente che soffre. Esiste una musica di destra? Esiste una musica di regime, inventata dal fascismo, ma quella - glielo giuro - io non la canto. È servito a niente. Peccato. Sai che cosa ho pensato? Che due anni fa un attacco di questa violenza non sarebbe accaduto. Rifletti, ora, sul lieto fine.

Su Giovanna Marini vedi anche

Un'intervista al Venerdì di Repubblica (14 novembre 2002)

Lamento per Pier Paolo Pasolini

L’Italia non è un Paese normale. Chi ci ripete, anche all'interno del centrosinistra, che un programma di governo deve ragionare in positivo e non in negativo, dimentica che il governo del centrodestra ha mirato a demolire lo stato sociale e a scardinare la Costituzione. Perciò ragionare in positivo oggi comporta anche la necessità di annullare gli effetti disastrosi del governo precedente. Un atteggiamento punitivo potrebbe pensare solo all'abrogazione delle sue leggi, ma uno spirito riformatore deve soprattutto indicare un suo punto di vista, una sua idea di società.

Giusto così, ma in Italia è impossibile ragionare sul destino della nostra società fingendo che essa si trovi ora in una condizione di vita normale. Basti pensare alla disparità di mezzi di cui dispongono maggioranza e opposizione in una qualsiasi campagna elettorale. Può darsi che il centrosinistra possa vincere, come nelle recenti amministrative, ma dovrà fare una fatica assai superiore a quella dell'avversario. Quindi è impossibile delineare una nostra idea di società senza porsi la necessità di cancellare l'anomalia italiana.

Bisogna prima di tutto ricostruire la salute istituzionale del paese. Sarà dunque necessario abrogare le leggi ad personam, come la Cirami sul legittimo sospetto e la Maccanico-Schifani sull'immunità-impunità, ma non è sufficiente. Occorre anche affermare principi fondativi. La nostra Costituzione assicura una precisa separazione dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario godono tutti di una reciproca indipendenza. Ma il governo e la maggioranza di centrodestra puntano a un predominio assoluto dell'esecutivo. Bisogna dunque battersi con tutti i mezzi leciti per la salvaguardia delle garanzie costituzionali. Su questo tornerò in fondo. Il potere politico deve essere separato dal controllo sui mezzi di comunicazione, perché non può avere il dominio sugli strumenti che concorrono alla formazione del potere politico stesso. Dunque chi ha la proprietà o il controllo di mezzi di comunicazione non può essere eletto, e viceversa. Principio integrativo è il pluralismo: bisogna garantire la maggiore varietà di opinioni e di voci, perciò si dovrà sciogliere il duopolio televisivo (oggi monopolio sostanziale) e stabilire il massimo di una rete a testa per gli operatori privati, in modo da garantire la maggiore pluralità possibile delle fonti. Si dovrà stabilire un tetto alla raccolta pubblicitaria delle reti televisive per lasciare alla carta stampata una quota significativa, molto superiore a quella attuale.

Un'idea di società promossa da un governo di centrosinistra dovrebbe essere basata sull'eguaglianza dei diritti, la prevalenza dell'interesse pubblico sul privato, la partecipazione dei cittadini.

Il principio egualitario non vuole l'appiattimento delle singolarità personali, cerca anzi il rafforzamento delle libertà individuali. Ma poiché gli individui non godono tutti delle stesse condizioni e opportunità, va delineato un accordo tra la libertà dal bisogno e la libertà di scelta. Occorre alleggerire gli individui dal peso spesso opprimente della disuguaglianza e fornire loro i mezzi materiali e intellettuali per realizzare i loro propositi e se possibile assecondare le loro vocazioni.

In tutti i settori essenziali per l'utilità collettiva (sopra a tutti gli altri il fisco, la scuola e la sanità) il criterio guida dev'essere il soddisfacimento dei bisogni pubblici. L'economicità è importante, ma a che cosa serve un ospedale in pareggio se non cura gli ammalati? Anche l'iniziativa privata in questo campo deve essere sottoposta all'utilità pubblica.

La partecipazione non può essere imposta per legge ma nemmeno negata di fatto. La separazione tra rappresentati e rappresentanti può produrre un vero e proprio deficit di democrazia. Ma il protagonismo civile può introdurre elementi di conflitto positivo e fronteggiare la tendenza all'autoriproduzione del ceto politico.

Che fare nel concreto di questi principi? Ricostruire lo stato sociale. È necessario prima di tutto basare di nuovo il fisco sulla progressività dell'imposizione. Nessuno è autore da solo delle proprie fortune ed è giusto che chi ha di più restituisca alla società una parte di ciò che la società gli ha permesso di accumulare. Individuare l'evasione e l'elusione fiscale incoraggiate fino all'impensabile dai condoni governativi.

Rifondare la scuola pubblica, impoverita a vantaggio della privata. Scuola dell'obbligo fino alle superiori senza distinzione tra avviamento al lavoro e destinazione allo studio. Classi meno affollate, mai al di sopra dei venti alunni (oggi possono superare i trenta). Non impartire competenze tecniche presto invecchiate ma rafforzare l'apprendimento critico.

Ricostruire la sanità pubblica sconciata a favore di quella privata (per sapere basta parlare con i medici ospedalieri).

Rafforzare la normativa antitrust e salvaguardare la concorrenza, che esiste solo nei manuali della Bocconi, e nei settori più importanti è sostituita da cartelli oligopolistici. L'unica concorrenza ricercata in Italia (tramite la legge 30) è quella tra lavoratori costretti a misurarsi ognuno da solo con la classe degli imprenditori. Quindi sostituire la legge 30 con un dispositivo che permetta ai lavoratori di contrattare il prezzo e le condizioni normative del proprio impiego.

Proteggere i risparmiatori dagli specialisti del falso in bilancio.

Sostituire la Bossi-Fini con una legge degna di un paese civile.

Dedicare risorse ingenti alla ricerca scientifica e alla salvaguardia dell'ambiente, sottoposto dalle leggi del centrodestra a processi di crescente dissipazione. Favorire l'impiego delle fonti energetiche rinnovabili. Abrogare la Patrimonio Spa e tutto il suo melmoso corredo di vendite a basso prezzo al peggior offerente.

Risanare il bilancio dissestato dal centrodestra e rilanciare l'economia con misure a favore dell'equità sociale. Sostituire la legge sulla procreazione assistita con una affine ai principi laici della legislazione europea. Distinguere con fermezza la lotta al terrorismo dall'esercizio della guerra preventiva ai popoli e alle nazioni.

Ma gli esercizi di riformismo possibile debbono essere inscritti nel quadro della difesa più rigorosa della Costituzione. Se alla classe di governo più cialtrona di tutta la storia repubblicana permettiamo di smantellare la nostra Carta fondamentale, tutti i possibili buoni propositi sono destinati a svanire.

Prepariamoci quindi a una ripresa d'iniziativa di massa nel prossimo autunno. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare il referendum confermativo. Bisogna muoverci subito.

altri articoli sul programma della sinistra nella cartella Scritti su cui riflettere

L´Italia in rovina aspettando Godot

Il futuro di B. non dipene né da Fini né da Follini, ma dal centro sinistra: questa la conclusione della consueta analisi domenicale, su la Repubblica del 18 luglio 2004

UN GOVERNICCHIO balneare. I nodi veri si ripresenteranno a settembre, sotto l´incalzare non sopito della guerriglia ormai cronicizzata all´interno del Casino delle Libertà. Dunque - questo è il giudizio quasi unanime degli osservatori più equanimi - Berlusconi ha perduto su tutta la linea.

Non sono interamente d´accordo con questo verdetto, formulato da chi guarda i fatti dal punto di vista degli interessi del Paese. Silvio Berlusconi se ne infischia platealmente degli interessi generali. Non sono pane per i suoi denti. Lui è formidabile nel realizzare i suoi interessi personali e, sulla scia, quelli del suo gruppo che costituisce la truppa scelta, la corte pretoria per attaccare i nemici e difendere l´incolumità e il potere del padrone. Se guardiamo le cose da questo punto di vista Berlusconi ha vinto anche questa battaglia. Certo non ha vinto la guerra, ma la guerra, quella del potere, non la vince mai nessuno nel senso che il potere è sempre a rischio.

Non la vinse neppure Cesare quella battaglia, né Napoleone. E vi consolate sostenendo che non l´ha vinta neppure il Cavaliere della Fininvest? Gli osservatori hanno calcolato che la lotta dei suoi alleati contro di lui dura da 450 giorni, un anno e mezzo. E che cosa hanno ottenuto? Niente, assolutamente niente.

Volevano fargli cambiare politica. Non ci sono riusciti. Volevano contare di più nella coalizione e nel governo. Non ci sono riusciti. Volevano che la sua monarchia finisse. Non ci sono riusciti. Alla fin fine volevano almeno conquistare qualche poltrona in più, ma non sono riusciti neanche a ottenere questo modesto e alquanto avvilente risultato. Niente di niente, salvo il licenziamento di Tremonti e la sua sostituzione con il suo vice. Un tecnico, come Tremonti. Un creativo, come Tremonti. Uno con amicizie a destra e a sinistra, come Tremonti. Con antiche simpatie socialiste, come Tremonti. Copia conforme. Il potere di Tremonti era molto cresciuto negli ultimi mesi. Si può perfino pensare che cominciasse a dare ombra al suo capo. Si può pensare che licenziarlo sia stata per lui una liberazione; ma il punto comunque non è questo.

Il punto è che Siniscalco, a differenza di Tremonti, non ha alleati politici alle sue spalle. Ha soltanto la sua coscienza di "civil servant".

Basterà? Basterà a impedirgli di seguire il padrone se gli chiedesse di portare fino il fondo il disastro finanziario già arrivato a così buon punto? Forse Siniscalco a quel punto punterebbe i piedi; ma prima d´arrivarci farà di tutto per compiacere il padrone. Il quale dal canto suo non vuole affatto il disastro. Vuole, semplicemente, che il risanamento finanziario non gli costi la perdita del potere e quindi che non avvenga a spese del blocco sociale che ha in lui il suo punto di riferimento e di rappresentanza. Anche quando recita barzellette e fa le corna. Anche quando evade il fisco. Anche quando difende e allarga un gigantesco conflitto d´interessi che «ce lo invidiano perfino all´estero». Anche quando considera le istituzioni come cosa propria. Anche quando insulta e mette la mordacchia ai giudici.

Il peso di questo blocco sociale si va restringendo, per fortuna. Se si andasse a votare oggi, Berlusconi perderebbe? Forse sì. Tra due anni? E chi può saperlo. Dipende dallo schieramento avversario. Dipende dalla congiuntura economica. Dipende perfino da Bush perché Bush è una carta molto importante nel suo gioco.

Perciò attenzione. Chi pensa che Silvio Banana, come lo chiama il nostro Altan, sia liquidato commette un madornale errore e il risveglio potrebbe esser molto amaro. Non è con il ridicolo né con il buongusto né con gli insulti, né col terzismo che sarà liquidato.

* * *

Nel frattempo Bossi è tentato di scegliere Strasburgo per lasciare Roma ladrona. Sarebbe un colpo di immagine mica da poco. Contro Berlusconi? Direi proprio di no. Il premier potrebbe metterlo sul conto di Fini e soprattutto di Follini che hanno voluto il licenziamento di Tremonti e vogliono ridimensionare il federalismo.

Bossi non può più fare il ministro e questo è chiaro. La scelta di Strasburgo gli consentirebbe di uscire in avanti: direbbe che è il primo segnale per difendere la devolution insidiata dagli ex alleati, cui potrebbe seguire il disimpegno della Lega. Se questo accadesse, Berlusconi potrebbe usare a fondo questo argomento. Fini farà la sfinge come sempre. Il cerino tornerà a Follini.

Questa storia del cerino è degna di qualche attenzione. Di solito serve per impedire a se stessi di essere coerenti con le proprie idee. Stai sostenendo le tue idee, appunto, e ad un certo momento ti accorgi che ti stai bruciando le dita col cerino e lo passi con destrezza in altre mani, cioè rinunci a seguire le tue idee e te ne liberi. Questo è, ridotto all´osso, il gioco del cerino.

Se ridimensioni il federalismo sbracato e secessionista di Bossi puoi provocare la crisi di governo. Vai avanti o ti liberi del cerino? Lo sapremo tra poco. Certo Follini è un osso duro ma per battaglie a lungo termine. A lunghissimo termine. Per quelle a breve finora, dopo i primi scontri, batte la ritirata. Ha fatto così anche questa volta. Aveva chiesto a Berlusconi alcune cose piuttosto indigeste: svolta nella politica economica, ridimensionamento del federalismo, pluralismo alla Rai. Se non le avesse ottenute l´Udc avrebbe votato il 16 luglio l´uscita dal governo. Ma il cerino di quell´uscita ha cominciato a bruciare, così di far dimettere Buttiglione e Giovanardi più i sottosegretari siciliani non se ne è più parlato. Anzi si è parlato del contrario e cioè d´un maggiore coinvolgimento dell´Udc nel governo (che poi non c´è stato perché Berlusconi ha ripassato il cerino).

La sola risposta di Follini al "niet"» politico di Berlusconi è stata la sua indisponibilità ad entrare nel Ministero. Per alimentare la guerriglia? Per aprirsi un credito esigibile a lungo termine?

* * *

Propendo per questa tesi. Follini non andrà mai nel centrosinistra. A fare che cosa? Follini vuole trasformare il Casino delle libertà in una Casa dei moderati dalla quale affrontare il riformismo progressista.

E´ un bel disegno. E´ anche il disegno di Casini. Di gran parte dell´establishment. Perfino di Prodi e di tutti quelli che sognano un paese normale. Un paese europeo ed europeista.

Follini vuole entrare in possesso della sua dote: i moderati che si sono accasati in Forza Italia e che a sinistra non ci andranno mai ma che vorrebbero semmai avere una stampella dalla sinistra o da una parte di essa.

Perciò Follini non rompe. Vorrebbe la proporzionale pura e semplice per meglio ereditare la sua dote. Ma non l´avrà mai. Avrà tutt´al più una proporzionale col premio e il vincolo di maggioranza. In quel caso si presenterebbe da solo rinunciando al premio? Nel migliore dei casi otterrebbe una quindicina di deputati, cioè niente.

Aspetta Godot, cioè la fine di Berlusconi per lenta consunzione, nel senso che prima o poi tutto finisce.

Intanto l´Italia va in rovina.

* * *

Il vero e il solo concreto appuntamento sarà la finanziaria del 2005.

Appuntamento per tutti: Berlusconi, Siniscalco, Follini, la Lega, Prodi, Fassino, Epifani, Montezemolo. E per il paese, la sua ripresa, il suo declino, il suo ruolo in Europa. Non tempi lunghi ma cortissimi.

I termini del problema sono chiari. I conti viaggiano al 4,5 di rapporto deficit/Pil, ben al di là della soglia europea del 3 per cento. Per riportarli in linea, al netto delle «una tantum», ci vorranno 20 miliardi di euro. Per finanziare la riforma fiscale di Berlusconi ce ne vogliono un´altra decina e fanno 30. Da quella riforma non sortirà alcuna sopravvenienza attiva prima del 2006, quando nell´ipotesi migliore potrà arrivare un sollievo di 3-4 miliardi.

Se arriva. Se la congiuntura internazionale favorevole sarà intercettata anche dall´Italia. Ma non è affatto detto che la congiuntura favorevole durerà. In Usa ci sono già segnali di infiacchimento. Il prezzo del petrolio è oltre i 40 dollari al barile.

Comunque, 30 miliardi. Ma con la spesa degli enti locali ridotta all´osso, i servizi sociali idem. E gli ammortizzatori sociali? Non se ne parla più ma solo per cominciare ci vorrebbero altri 7 miliardi. E il gettito delle entrate in calo. Senza «una tantum» un´altra decina di miliardi. Scala quaranta. Ecco il vero costo della Finanziaria 2005.

Almeno Siniscalco queste cose le sa. Sa anche che il fabbisogno gonfierà il debito pubblico e lo porterà verso il 108 per cento del Pil. Sa che l´Europa non starà certo a guardare e le agenzie di rating neppure. Altre una tantum? Altro appello alle banche affinché anticipino l´aria fritta?

* * *

La sinistra è un elemento essenziale di questo rebus. Deve smetterla di fidare negli errori dell´avversario e di sperare nel compagno Follini o nella sfinge Fini. Sul campo di Waterloo doveva arrivare il generale Grouchy e Napoleone avrebbe vinto, ma arrivò invece il generale Blücher e vinse Wellington. Non ripetete l´errore.

Fate un programma concreto. Non una filosofia. Un programma, tre-quattro punti decisivi per riportare in linea la nave Italia.

Fate questo e basterà almeno per ora. Ma fatelo, perdinci. Siete l´ultima ciambella di questo paese, ma se è una ciambella senza il buco non servirà a un accidenti.

Ci scusiamo con i lettori se parliamo ancora di Berlusconi. Ma, come vedete, lo dice lui stesso: «Abbiamo perso voti perché il capo del governo (lui parla sempre di sé in terza persona, senza ridere) è stato bersaglio di tutti gli attacchi e di tutte le aggressioni dell’opposizione e dei suoi media».

Berlusconi pone due problemi delicati a chi deve interpretare questa frase. Il primo è: di chi altro si dovrebbe parlare, visto che lui, Berlusconi attribuisce tutto a se stesso, compreso il blitz mai avvenuto per liberare gli ostaggi che attendevano in una stanza, con la porta aperta, come ci ha fatto vedere il filmato inviato dagli americani?

L’altro problema è: chi saranno i media dell’opposizione?

Sembra di intravedere il gesto che indica con realismo una flotta potente e bene armata. Vuole che i cittadini si rendano conto che lui, il leader Berlusconi, ha resistito bene all’assalto e va apprezzato perché quell’assalto era incontenibile e avrebbe piegato chiunque non fosse un gigante.

Spiace deludere Berlusconi e i suoi Bondi, e anche coloro che ti dicono che «tutto sommato Berlusconi ha tenuto». Ma è giusto dire che quella flotta siamo noi, il giornale che avete comprato e che state leggendo, noi contro tutta la Rai, contro tutta Mediaset, contro quella parte della editoria italiana che ogni volta che prova ad essere più libera perde un direttore, o riceve pesanti ammonimenti. E anche quando tenta di salvare il proprio decoro, ha a bordo agenti di governo detti opinionisti che rappresentano rigorosamente il governo e le spiegazioni e i “retroscena” che il governo desidera.

Sì, certo, non possiamo prenderci tutto il merito del diploma appena ricevuto dal presidente del Consiglio. Ci sono in campo, a sinistra in questa lotta politica, il Manifesto, Liberazione. C’è , unico fra i quotidiani detti “indipendenti”, la Repubblica , che resta un grande quotidiano europeo.

Ma noi siamo il “giornale strillato” verso il quale si è voltata con un po’ di sdegno anche qualche voce della sinistra che raccomandava i toni bassi. Li raccomandava in un Paese stretto nella presa mediatica di Bondi, di Cicchitto, di Schifani, di Vito, di La Russa, di Gasparri, con Previti e Taormina come supporto. Un Paese in cui Berlusconi ha aperto il ciclo di vita politica che stiamo vivendo con questo annuncio al Paese: «se vincono loro (la sinistra) gli italiani non voteranno mai più».

È l’annuncio di una battaglia senza quartiere contro nemici (la sinistra) che minacciano la libertà del Paese.

Noi non sappiamo dove sia nata la persuasione secondo cui dire con precisione, con chiarezza, con la dovuta reiterazione, il pericolo rappresentato da Berlusconi, dal suo conflitto di interessi, dalle sue pulsioni liberticide («Datemi il 51 per cento, e risolvo tutto. Con me stesso mi serve pochissimo tempo per discutere») sia “demonizzazione”.

L’argomento è caro a Sandro Bondi, uno che, sorpreso dall’ingresso di Berlusconi in una sala in cui stava parlando, si è rivolto al suo capo dicendo: «Scusi se parlo in sua presenza» (testimonianza di Vittorio Sgarbi all’ Unità). Ma perché avrebbe dovuto diventare un dibattito da sinistra, una accusa contro questo giornale?

Qualcuno ha mai accusato Robert Kennedy di demonizzare il presidente Johnson quando i due si contrapponevano sulla guerra in Vietnam, Kennedy denunciava quella guerra, e gli chiedeva ogni giorno quanti bambini aveva fatto morire?

L’argomento dei “toni bassi” veniva presentato così: smettetela di parlare di Berlusconi. Non si deve essere ossessionati da lui. Ci sono tanti altri argomenti che interessano gli italiani. È vero. Ma lui, Berlusconi, si è messo al centro di ogni argomento, vuole apparire l’organizzatore e anzi l’ideatore di tutto, viene trattato dai suoi colleghi di partito non come un leader democratico ma come un autocrate assoluto a cui si deve sempre dare ragione. E lui esige di avere ragione al punto di rifiutare ogni dibattito e incontro con chi potrebbe tentare di dargli torto.

È l’unico capo di governo in Europa che intende farsi rieleggere senza dibattito. Anzi, dichiara di voler cambiare la legge elettorale prima di andare al nuovo voto.

Esige di avere ragione al punto da apparire dovunque, in televisione e nei telegiornali, nelle trasmissioni minori e in quelle organizzate apposta per lui. E quando lui non c’è, i suoi sostenitori, che si comportano - lo sanno e lo possono testimoniare tutti i telespettatori italiani - come dipendenti di una azienda in cui non si sgarra, impediscono di parlare se si esprimono giudizi negativi su di lui o ci si discosta dalla scaletta di finta discussione che il finto conduttore, e leale sostenitore del capo, ha preparato.

Ci hanno detto che con la nostra ossessione di Berlusconi avremmo allontanato i moderati.

Adesso Berlusconi ha perso settecentomila preferenze e quattro milioni di voti, tutti moderati, si deve immaginare. E dice ad alta voce e solennemente che siamo stati noi. È evidente che molti, che lo avevano votato hanno soppesato il pro (tutti i canali tv, tutte le radio, gran parte dei giornali e la straordinaria e magistralmente diretta liberazione degli ostaggi) e il contro (giornali liberi e soli che non hanno mai smesso di parlare del conflitto di interessi anche a costo di restare senza pubblicità) e hanno detto: basta.

Adesso Berlusconi ci dà, sul campo, il riconoscimento, mentre altri ci hanno sgridato e inseguito con l’ammonizione a star buoni.

Per fortuna “star buoni” non è la vocazione di un giornale di opposizione (e forse di nessun giornale come dimostra il New York Times, che l’altro ieri ha ingiunto al presidente Bush di chiedere scusa al popolo americano per avere mentito in tutto sulle ragioni della guerra in Iraq).

La situazione italiana, comunque, era troppo grave per tacere. Il conflitto di interessi è una vergogna agli occhi del mondo, le leggi scansa processo sono una offesa al buon senso prima ancora che al diritto, la devastazione della Costituzione, i condoni, le leggi barbare e inapplicabili come la Bossi Fini sugli immigrati, e la legge Fini sugli spinelli dei ragazzi da incarcerare, sono una vasta distruzione della legalità.

Bisognava essere molto distratti, o molto assenti, per non essere ossessionati da Berlusconi, in questi quasi tre anni di rovinoso governo.

Quanto alle elezioni del 12-13 giugno, abbiamo vinto bene o solo così così? Abbiamo segnato l’inizio di un cambiamento o solo imposto una sosta al dilagare di Berlusconi?

Certo, a sinistra i Ds hanno ragione di essere orgogliosi, con una catena di vittorie nella conquista o riconquista delle città che fanno luce anche sul peso dei Ds nelle elezioni europee.

Certo, le liste a sinistra dei Ds hanno segnato i loro punti, e Rifondazione comunista più di tutti. La lezione sembra chiara: in un voto e nell’altro, più l’immagine è netta e bene identificabile nella linea politica e in quella del valore che rappresenta (dunque non cauta, smussata e sussurrata, ma espressa ad alta voce, e visibile a distanza) e più ne resta traccia sulla scheda elettorale.

Una cosa va detta di queste due prove elettorali: gli elettori non si lasciano confondere dal pasticcio continuamente tentato fra istituzioni e politica, per esempio quel continuo parlare di sé come “Capo del governo” di Berlusconi che vuol farti credere che quando attacchi il candidato Berlusconi screditi colui che rappresenta l’Italia e dunque sei contro tutto il Paese (a lui piace l’idea, che però gli va stretta, di essere l’Italia).

Gli elettori rispettano le istituzioni ma non le vogliono tirare in ballo, né permettere che vengano usate come una coperta, quando si deve discutere di una linea politica ed eventualmente bocciarla. Rispettano e ammirano le Forze Armate ma non le vogliono confondere con chi prende azzardate decisioni politiche internazionali, andando a cacciarsi nel momento sbagliato, nel tempo sbagliato, nella guerra sbagliata.

Gli elettori, a quanto pare, non apprezzano che chi prende simili decisioni corra poi a rifugiarsi dietro le Forze Armate sostenendo che chi critica la loro politica è nemico dei soldati. Sanno che dire “riforme” non è pronunciare una parola magica che qualifica come buoni e bravi coloro che ci lavorano.

Le riforme possono essere pessime e devastanti (come la legge giudiziaria del ministro Castelli), possono essere ad personam (come la legge che esenta il solo Berlusconi da ogni responsabilità giudiziaria), possono essere voto di scambio (la cosidetta devolution). O semplicemente indecenti, come la legge sulla procreazione assistita.

C’è chi continuerà a dire che i consensi si raccolgono al centro. Ma in queste elezioni (si vedano i risultati nelle città) è la parte più fortemente identificata dello schieramento che ha attratto il maggior numero di voti. E infatti decenni di esperienza nei Paesi a sistema maggioritario ti dicono che il fattore decisivo non è il centro ma la nitidezza e la vitalità delle parti che si confrontano. Si veda il caso dello sconosciuto Bill Clinton contro il peso elettorale ed economico di George Bush padre: vince colui che è più risoluto e più vivo.

Il centro abbandona il centro quando sente che il centro è vuoto. Quando si rende conto che aree di vitalità e di fatti nuovi si stanno creando altrove.

Ossessione di Berlusconi? È semplice realismo. Il PresDelCons aveva appena tentato di apparire l’autore di una operazione militare che non era mai avvenuta, aveva inondato di messaggi impropri i telefonino degli italiani, aveva tenuto un comizio politico mentre i seggi erano aperti, violando una legge elettorale che non era stata mai violata nei primi quarant’anni di democrazia italiana, aveva annunciato una grande vittoria, molto sopra il 25 per cento, e accusato i suoi avversari di «avere toccato il massimo della cialtroneria».

Il problema non è rispondergli con lo stesso linguaggio, agire nello stesso modo, adottare la stessa volgarità. Piuttosto è far notare ciò che è accaduto e mostrarne l’assurdità, l’illegalità, il ridicolo. I risultati ottenuti suggeriscono di non smettere proprio adesso

Lasciare l´Iraq per salvare l´Occidente

È UNA tragedia dell´Occidente, quella che va in scena nelle prigioni dell´Iraq e rimbalza come un atto d´accusa nei siti Internet e nelle televisioni in ogni angolo di deserto e in ogni città araba. Quei corpi torturati, ammucchiati, trascinati al guinzaglio e scherniti sono di soldati musulmani: umiliati nella loro impotenza, degradati a irrisione sessuale dei loro codici culturali, profanati in simboli rovesciati delle loro credenze, trasmettono nel loro mondo un´idea terribile del nostro concetto di vittoria e della moralità del nostro potere tecnologico, militare, politico. A noi, al nostro mondo, chiedono ancora una volta, semplicemente, "se questo è un uomo".

Siamo nuovamente protagonisti di un sopruso sul singolo uomo che va al di là della guerra e che nessuna guerra giustifica. Tutto questo, da parte non solo del più grande esercito della terra e dell´unica superpotenza egemone dopo gli anni della guerra fredda. Ma in nome dell´Occidente e dei suoi valori, della democrazia, del diritto, del nostro ordine mondiale. Cioè di tutto ciò che noi siamo, di ciò in cui crediamo.

Non ha molta importanza, a questo punto, sapere se il Pentagono ha ordinato ai suoi soldati di superare ogni limite e ogni codice nei confronti dei prigionieri di Abu Ghraib, o se la violenza è insieme sistematica e "spontanea", dunque legittimata di fatto da un clima e da un metodo di conduzione della guerra. È importante per la giustizia e per la politica. Ma dal punto di vista della moralità pubblica, tutto è già perduto nel fondo di quella prigione, nei flash di quelle fotografie, nell´uso privato di quella tragedia pubblica che adesso tutto il mondo conosce. E anche se c´è stato ritardo, reticenza e imbarazzo (compresa l´Italia, purtroppo) nel denunciare la gravità della tortura, oggi è chiaro che niente è più come prima.

La moralità stessa dell´Occidente è sotto accusa, la sua cultura e i suoi valori. Dunque la sua anima. Per salvarla, non bastano le scuse e non basta nemmeno il sacrificio rituale di Rumsfeld chiesto tre giorni fa dal New York Times. Occorre un´assunzione di responsabilità, per ripetere ancora una volta ciò che diciamo dall´11 settembre: la democrazia ha il diritto-dovere di difendersi, colpendo (per paradosso anche preventivamente) chi minaccia la sua stessa sopravvivenza.

MA - ecco il punto - può farlo solo a patto di restare se stessa, di rimanere dentro le regole che si è data, di sottomettersi ai valori e ai princìpi in cui crede, di confermare la sua identità distintiva.

In Iraq si è superato questo limite, estremo perché snaturante. È infatti il confine oltre il quale la democrazia incomincia a dubitare di se stessa, perché deve nascondere atti e comportamenti di cui si vergogna, e incomincia pericolosamente ad assomigliare in qualche angolo d´ombra al ritratto demoniaco che ne fanno i suoi nemici.

Ecco perché l´Italia oggi deve sentire il dovere di non restare in Iraq.

Deve andarsene, e per l´opposto di una fuga, di un ripiegamento, di una rottura di solidarietà occidentale. Anzi. Si impone un´assunzione di responsabilità, che separi la politica proprio in nome di una comunanza di valori e di cultura, che noi chiamiamo Occidente. Solo così si può far capire all´amministrazione americana, e anche a quell´opinione pubblica, che c´è un modo diverso di dirsi occidentali, che certe pratiche segnano una rottura, che l´Occidente non è mai stato un sistema di deleghe, e che certo non può esserlo per l´ordine di scatenare l´inferno ad Abu Ghraib.

La guerra era sbagliata, perché mancavano sia le armi di distruzione di massa, sia i legami operativi tra Saddam e Bin Laden, cioè le due pseudoragioni del conflitto. Era illegittima perché fuori dalla legalità internazionale, atto fondativo dell´unilateralismo libero e autonomo della superpotenza egemone. Era un errore anche politico perché spaccava l´Europa tra vecchia e nuova e rompeva la lunga alleanza novecentesca tra i due continenti. L´invio italiano di truppe a guerra che si pensava finita era un piccolo, grave gesto che mescolava titanismo e dilettantismo, velleitarismo e ideologismo, nella speranza ridicola di accreditare Berlusconi come miglior amico di Bush e la sua Italia come piccola potenza solitaria e gregaria in Europa.

Tutto questo è andato in frantumi, nella guerra che oggi si è riaccesa a Bassora e Nassiriya, ma prima e soprattutto nel buio del carcere delle torture.

Sono saltate, dopo quel che si è conosciuto, le regole d´ingaggio di una missione che ha promesso al Parlamento di voler "aiutare il popolo iracheno, garantendo la sua sicurezza". Oggi l´Italia deve sentire la responsabilità di rientrare: in Europa innanzitutto, per testimoniare nell´amicizia con gli Usa gli errori di Bush e la nostra concezione del diritto e della legalità internazionale. Solo da qui, da un rinnovato patto occidentale di regole e valori condivisi, può nascere una strategia utile per il dopoguerra iracheno e per la pace in Medio Oriente. Ma soprattutto questo è l´unico modo per salvare l´anima dell´Occidente, perduta nell´orrore di Abu Ghraib.

Così il presidente George Bush straccia il piano di pace israelo-palestinese e tutto va bene. Insediamenti israeliani per gli ebrei e solo per gli ebrei in Cisgiordania. Tutto bene. Si strappa ai palestinesi la terra che hanno posseduto per generazioni; tutto bene. La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dice che di quella terra non ci si può impadronire a seguito di una guerra. Lasciamo perdere. Tutto bene. Per caso il presidente George Bush lavora per Al Qaeda? Che vorrebbe dire? Che a George Bush sta più a cuore la sua rielezione che il Medio Oriente? O che George Bush ha più paura della lobby ebraica che del suo elettorato?

Il suo linguaggio, la sua vulgata, i suoi discorsi sulla storia sono stati una tale menzogna nelle ultime tre settimane che mi chiedo per quale ragione ci prendiamo la briga di ascoltare le sue noiose conferenze stampa. Ariel Sharon, responsabile del massacro di Sabra e Chatila (1.700 civili palestinesi morti) è un “uomo di pace”.

Un “uomo di pace” anche se il rapporto ufficiale israeliano del 1993 sul massacro lo indicava come “personalmente responsabile” dell’accaduto. Ora Bush loda come “un atto storico e coraggioso” il piano di Sharon di rubare altra terra ai palestinesi.

Che Dio ci aiuti! Basta abbandonare gli sparuti insediamenti ebrei illegali a Gaza e tutto va bene: il furto di terre ad opera dei coloni, il rifiuto del diritto di fare ritorno in Israele per i palestinesi che abitano lì: tutto bene. Bush, che affermava di aver cambiato il Medio Oriente invadendo l’Iraq, ora afferma che invadendo l’Iraq sta cambiando il mondo! Tutto bene! Non c’è nessuno pronto a gridare “Fermi! Ne abbiamo abbastanza!”?

Due sere fa quest’uomo pericolosissimo, George Bush, ha parlato di “libertà in Iraq”. Non di “democrazia” in Iraq. No, alla “democrazia” non ha nemmeno accennato. La “democrazia” è ormai semplicemente fuori dall’equazione. Ora si parla solo di libertà – libertà da Saddam piuttosto che libertà di avere le elezioni. E cosa dovrebbe comportare questa “libertà”? Un gruppo di iracheni nominati dagli americani cederà il potere ad un altro gruppo di iracheni nominati dagli americani. Questa sarà la “storica cessione della sovranita’” irachena. Ebbene sì, non mi riesce difficile capire perché George Bush vuole assistere ad una “cessione” di sovranità. I “nostri ragazzi” debbono essere tolti dalla linea del fuoco – che siano gli iracheni a fare da sacchetti di sabbia.

La storia irachena è già stata scritta. A titolo di vendetta per il brutale assassinio di quattro mercenari americani – perché questo di fatto erano - i Marines americani si sono resi responsabili del massacro di centinaia di donne, bambini e guerriglieri nella città sunnita di Falluja. I militari americani sostengono che la maggior parte dei morti erano militanti. Non è vero, replicano i medici. Ma le centinaia di morti, molti dei quali civili, sono stati un vergognoso riflesso sulla marmaglia della soldatesca americana che ha condotto questi attacchi indisciplinati contro Falluja. Molti sunniti di Baghdad dicono che Falluja dovrebbe essere la capitale del “Nuovo Iraq”, nuovo, naturalmente, secondo la versione irachena non secondo quella di Paul Bremer.

E il risultato? Grazie al presidente Bush, vaste zone della Cisgiordania palestinese diventeranno Israele. Terre che appartengono a persone non israeliane debbono essere rubate dagli israeliani perché è “irrealistico” accettare una soluzione diversa. Bush è per caso un ladro? È un criminale? Può essere accusato di complicità in un atto criminale? L’Iraq può dire al Kuwait che è “irrealistico” modificare i confini Ottomani? Un tempo la terra di Palestina abbracciava tutto l’attuale territorio israeliano. È apparentemente “realistico” modificare tutto questo sia pure nella misura del due per cento? Tutto quello che il governo degli Usa ha fatto per conservare la sua reputazione di “mediatore” in Medio Oriente è stato vanificato da questo codardo, vigliacco presidente americano, George W. Bush. Il fatto che potrebbero aumentare i rischi per i suoi soldati non lo preoccupa – in ogni caso lui non partecipa ai funerali. Il fatto di violare il diritto naturale non lo preoccupa. Il fatto che le sue dichiarazioni siano in palese violazione del diritto internazionale non ha alcuna conseguenza.

E tuttavia dobbiamo continuare ad andare al traino di quest’uomo. Se veniamo colpiti da Al Qaeda è colpa nostra. E se il 90% della popolazione spagnola ha chiaramente indicato di essere contraria alla guerra, vuol dire che sono filo-terroristi nel momento in cui piangono 200 civili spagnoli uccisi da Al Qaeda. Gli spagnoli prima hanno condannato la guerra, poi ne hanno dovuto subire le conseguenze – ed infine sono condannati come colpevoli di “appeasement” con il terrorismo dal regime di Bush e dai suoi vigliacchi giornalisti nel momento in cui dicono che i loro mariti, le loro mogli, i loro figli non meritavano di morire.

Se questo deve essere il loro destino allora, scusatemi, vorrei avere un passaporto spagnolo per poter condividere la “vigliaccheria” del popolo spagnolo! Se Sharon è “storico” e “coraggioso”, allora gli assassini di Hamas e della Jihad islamica potranno rivendicare il medesimo riconoscimento. Bush questa settimana ha legittimato il “terrorismo” – e chiunque dovesse perdere un arto o la vita può ringraziarlo per la sua inclinazione alla vigliaccheria. E temo che possano ringraziare anche Blair per la sua vigliaccheria.

© The Independent

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

“Don't cut Medicare for Bombs and Missiles, non tagliate la Sanità pubblica per pagare bombe e missili. Era uno degli striscioni più in voga durante le manifestazioni contro la guerra, particolarmente affollate in California…. Ai primi di settembre 2003, quando il presidente Bush ha avvisato il paese che gli servivano altri 87 miliardi di dollari per mantenere l'ordine e ricostruire le infrastrutture devastate dalla guerra contro Saddam, molti californiani hanno pensato alle loro scuole a corto di fondi, alle ferrovie a pezzi, alla rete elettrica decrepita, e si sono detti: forse sarebbe stato meglio se Bush avesse dichiarato guerra alla California ed avesse invaso noi”.

Federico Rampini, editorialista e corrispondente di “Repubblica” da S. Francisco, descrive le fragilità del paese più potente al mondo.

E descrive le angosce di milioni di americani in un bel libro “le paure dell'America” edito da Laterza. Il libro ha un duplice merito, si legge come un romanzo pur descrivendo situazioni e dati reali. Le insicurezze che dominano la vita quotidiana degli americani e le debolezze di un'economia che ha perso 3 milioni di posti lavoro accumulando un doppio deficit abissale dei conti pubblici e dei conti con l'estero, dall'ingresso di Bush alla Casa Bianca, sono infatti sempre documentate con evidenza statistica e riferimento alle fonti.

Per capire il cambiamento che l'America ha realizzato negli ultimi venti anni bisogna ripercorrere il cammino vittorioso dei neoconservatori americani in economia ed in politica. Per tutti questi le tasse sono una coercizione dello Stato e la Social Security è uno spreco di ricchezza, per cui entrambi sono da abolire. Il disastroso deficit pubblico, comune alle amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush, padre e figlio, è un modo per dissanguare lo Stato sociale. Il movimento dei neoconservatori americani in questo senso è stato rivoluzionario, perché ha ripudiato gran parte delle istituzioni su cui si fondava da oltre mezzo secolo, dal New Deal di Delano Roosvelt in poi, il patto sociale. Oggi il vecchio patto sociale non esiste più, con i sindacati ridotti al lumicino, la Sanità sempre più privata e prerogativa dei ricchi, la scuola sempre più costosa, l'etica dei Managers alla Enron sempre più piegata alla logica del profitto a breve non scevra da comportamenti illegali. Oggi le condizioni di lavoro sono sempre più precarie o flessibili come si dice da noi: le ferie godute dal lavoratore americano di medie e grandi aziende nel 2002 sono state mediamente di 9,5 giornate (dati Ministero del lavoro), la maternità pagata (paid maternity leave) privilegio solo del 2% delle lavoratrici madri, la Social Pension è all'incirca un terzo del salario, molti vecchi continuano a lavorare per non morire di fame, 50 milioni di americani sono senza protezione sanitaria perché non troppo poveri per il Medicare e non abbastanza "ricchi" da pagarsi una assicurazione privata.

La fine dall'America Dream, per cui ogni padre poteva lasciare il figlio in una posizione migliore, si ricava soprattutto dalla dimensione delle diseguaglianze crescenti. Nel trentennio 1970-2000 il salario medio reale è cresciuto solo del 10% mentre la ricchezza reale (Pil) cresceva quasi del 100%. Questo significa che il 90% degli aumenti di produttività sono andati al capitale e solo il 10% al lavoro. "Nello stesso periodo, la retribuzione media annua dei cento amministratori delegati più ricchi è passata da 1,3 milioni di dollari -39 volte il salario del lavoratore medio- a 37,5 milioni, cioè più di mille volte la paga del lavoratore medio".

Oltre l'attacco al Welfare e alla condizione dei lavoratori, il successo dei neoconservatori ha prodotto il declino della società civile. "Di che natura è la società civile in un paese dove vota solo il 38% dei cittadini, ed una percentuale ancora più bassa tra i giovani ed i meno abbienti?" Quest'analisi non viene da frange radicali ma da uno dei più autorevoli studiosi della società civile, Robert Putnam, che vi aggiunge un monito:le tendenze sociali e politiche di lungo periodo che nascono negli USA si trasmettono 10 o 20 anni dopo negli altri paesi industrializzati, Europa in testa. L'allarme di Putnam è in parte alleviato da un'altra considerazione, che Bush figlio alle ultime elezioni ha preso 500mila voti meno di Gore (che non era un fulmine di guerra). L'America non è solo quella di W Bush e dei neoconservatori, ma anche quella di milioni di cittadini che, con i Kerry e gli Edwards, i candidati democratici che hanno buone speranze di contrastare Bush alle prossime elezioni, sono sempre più apertamente critici verso politiche che stanno facendo dell'America all'interno, il paese tra i più difficili da vivere per la generalità dei suoi figli, all'estero il paese tra i più isolati al mondo. Infatti le paure dell'America di cui Rampini parla, non sono solo quelle dei suoi cittadini.

"Le paure dell'America possono sembrare poca cosa rispetto alle paure che l'America suscita negli altri".

L'antiamericanismo non è fenomeno recente post Afganistan e post Irak. Jean Paul Sartre quarant'anni fa, vedeva nell'America la patria del conformismo quando proprio lì, a cominciare dalla California, nasceva con prepotenza una società agitata dall'effervescenza della contestazione, della rimessa in discussione delle regole, di tutte le sue abitudini sociali e dei fondamenti stessi della cultura. Persino quando si addebitano agli USA due infami peccati originali come il genocidio degli indiani d'America e lo schiavismo, molti europei dimenticano che i primi responsabili di quei misfatti avevano ancora nazionalità inglese, francese, spagnola e portoghese. Ma l'antiamericanismo è arma usata regolarmente come clava di lotta politica. La destra americana accusa la sinistra di antiamericanismo dai tempi del senatore Mc Carthy negli anni 50 (la cui caccia alle spie comuniste infiltrate in tutti i settori della società, cinema compreso, avveniva sotto l'egida di una commissione d'inchiesta senatoriale "sulle attività antiamericane") fino ai giorni nostri, quando i neoconservatori accusano di tradimento Howard Dean, Ted Kennedy e tutti i critici sulla guerra in Iraq, persino l'attuale candidato democratico J. F.Kerry, che pur votò a favore al Senato ed oggi è molto critico sul dopoguerra. Se una morale può trarsi dal bel libro di Rampini è che l'americano medio oggi soffre per le politiche dei neoconservatori, che l'America ha gli anticorpi per ribaltare la situazione e che non vi è nulla di più antiamericano che cercare di soffocare il dissenso.

[Ecco] alcune tra le meravigliose schede di presentazione dei brani musicali del terzo anello.

Le schede sono così, non sono state modificate, quindi dovrete interpretare e tralasciare gli errori di battitura o ignoranza; le note sono degli Amici di Radio 3.

1) Berlioz, Beatrice et Benedict, ouverture.

L'ouverture, in stile opera-comique, scritta per la rappresentazione di tanto rumore per nulla "dii Shakespeare".

NOTA L'ouverture non può essere in stile opera-comique: caso mai, lo è l'opera (priva di recitativi e con i parlati). Non fu scritta per la rappresetnazione della commedia di Shakespeare, ma Berlioz (dal testo di Shakespeare) ricavò il libretto per una SUA opera-comique.

2) Berlioz, Adieu Bessy.

Da "Irlande" op. 2, composta tra il 1892 e il 1830.

NOTA Date insensate (tra l'altro, Berlioz morì nel 1869)

3) Bizet. Suite per orch. da "Jeux d'enfants".

Composta nel 1932... Un innocente galop, nitido e preciso, ispirato alla "musica per l'infanzia" di Fauré e Debussy.

NOTA Bizet è morto nel 1875. Debussy è nato nel 1862 e ha scritto "Children's Corner" nel 1908

4) Biber, Sonata Terza in Fa Mag per vl solo

Esecutori: John Holloway, Aloysia Assenbaum, Ulrik Lars Mortensen

NOTA Se è per violino solo, che suonano i tre musicisti citati?

5) Bernstein, Candide

Di difficile datazione

NOTA La data è il 1956 e, non trattandosi precisamente di musica antica, è abbastanza comico che non si sappia precisare la data di composizione.

6) Brahms, Sonata in La Mag n. 2 per vl e pf op. 100

Composta nel 1836

NOTA Brahms aveva tre anni

7) Brahms, Trio in Do Mag n. 2 per pf, vl e vcl op. 87

Composto tra il 1880 e il 1862

NOTA Modo curioso di datare la composizione. In realtà, fu scritto tra il 1880 e l'82.

8) Brahms, Trio in La min op. 114

Due commenti: 1) La scrittura di Brahms non riesce a creare un amalgama convincente; 2) Un Trio equilibratamente polifonico.

NOTA Si decidessero

9) Chopin, Sonata in Sol Min per vcl e pf.

Composta nel 1865

NOTA Chopin morì nel 1849

10) Milhaud, Catalogue des fleurs, 5 Liriche x voce e pf op. 60

Un ciclo di sette miniature per sette strumenti

NOTA Ma quante sono?

11) Mussorgsky, Quadri di un'esposizione - per pf La grande porta di Kiev Horowitz intarsia l'una dentro l'altra la versione pianistica di Mussorgsky e la versione orchestrale di Ravel e "crea" una pagina perfettamente funzionale al proprio sfrenato, eccessivo, esorbitante virtuosismo esecutivo.

NOTA Non è chiaro in che modo Horowitz possa intarsiare la versione orchestrale dato che è l'unico esecutore del pezzo. Altrettanto, non è chiaro perché il suo virtuosismo sia considerato eccessivo. Si vuol dire che era troppo bravo da un punto di vista tecnico? O che il pezzo di Musorgsky non richiede un eccessivo talento virtuosistico? Boh!

12) Shistakovitch, The panorama of Paris

Tema di valzer in souplesse non rpivo di una tenera ironia (e scusate l'ossimoro)

NOTA Ciò che non viene scusata è la totale assenza di senso logico.

13) Haendel, Suite in Mi Mag n. 5 per cemb, Aria e variazioni

Dalla Suite per clavicembalo in La Mag n. 2

NOTA Non è chiaro di quale Suite si tratti.

14) Bizet, Sinfonia in Do Mag

Composta nel 1885

NOTA Bizet morì nel 1875

15) Mercadante, Concerto in Mi Mag per fl e orch

Il flauto ha un ruolo molto "cantato"

NOTA Cioè?

16) Poulenc, Le Chemin de l'amour

1998. Valser caressante

NOTA Poulenc è morto nel 1963. Sfugge la lingua del commento

17) Rossini, L'italiana in Algeri, Quanta roba! Quanti schiavi! / Cruda sorte!

Cavatina di Isabella, dama italiana nel coro precedente

NOTA Ci si chiede che cosa sia diventata Isabella dopo il coro precedente.

18) Augustin Bardi, Gallo Ciego

Un innovativo pianista argentino nato nel 1916.

NOTA In realtà, nato nel 1884 e morto nel 1941.

19) Pachelbel, Canone

Eseguito secondo la partitura orchestrale originale.

NOTA L'originale è per tre violini e basso continuo.

20) Mozart, Concerto in Sib Mag per pf e orch K39

Mozart usa temi da Schubert.

NOTA Schubert è nato nel 1797, sei anni dopo la morte di Mozart.

Nell´iconografia tardomedievale una nave dei matti scioglie le vele al vento. Tale l´Italia berlusconiana. Basta dire i nudi fatti e viene fuori una versione italiana delle arringhe contro Filippo il Barbaro (Demostene, Atene 349-340 a.C.): l´aspetto originale sta nell´impasto d´ilare e macabro; cose da ridere se fosse una pantomima, ma è reality show dove un paese tira le cuoia. Nel salotto televisivo l´affarista conquistatore mugolava meraviglie cum figuris: imposte lievi, al diavolo l´austerità, opere pubbliche quali non sognavano i Faraoni, difendere i deboli, largo ai giovani; ciarle da fiera. Il destino baro vuole che 3 italiani su 10 le bevano: seguono 38 mesi d´inedia; aspettavano vacche grasse, le vedono fameliche, pell´e ossa. L´unico che s´arricchisca ancora, vertiginosamente, è lui, signore dell´illusione televisiva. Le urne lo puniscono. Due alleati su tre, usciti più o meno bene dalla prova, gli saltano addosso intavolando l´odiosa questione del debito pubblico. Venerdì 2 luglio presenta sul piatto la testa del Gran Visir d´economia virtuale; i soliti cantori intonano salmi: viva il nuovo corso aperto al pensiero collegiale. Domenica 4 riesplode l´egomania: prende lui il ministero vacante, un mostro a 5 teste; lo terrà fino a quando abbia riassestato i conti tagliando le imposte, due obiettivi assai poco compatibili. Nella nuova veste l´indomani vola a Parigi, annuncia che raschierà 7.5 miliardi, ottiene l´ovvio rinvio dell´early warning e torna vincitore, applaudito dai musicanti. Lunedì batte il pugno sul tavolo quando uno dei due alleati obliqui, mite democristiano in servizio permanente effettivo, ventila l´uscita dal governo: un ultimatum?; attento, così perde mezzo partito (id est, lui se lo compra). Ventiquattr´ore dopo appare remissivo: starà solo qualche giorno al ministero Moloch; ma l´ira traspare dalla minaccia d´andare alle urne sterminando i ribelli; e convoca un summit non stop da domenica sera, come nelle crudeli gare di ballo d´una volta, finché i meno resistenti cadano esanimi.

Giovedì 8 il governatore della Banca d´Italia nota quale suicidio sia ridurre le imposte gonfiando il debito pubblico, e lui non fiata. L´avvenimento interessante va in scena alla Camera. Bisognava discutere un ddl votato da Palazzo Madama sul conflitto d´interessi. Questione capitale. L´ammettono persino i finti ragionatori neutrali: è molto abnorme avere al governo, con poteri ignoti alla storia parlamentare, il padrone delle televisioni commerciali, egemone della Rai, arcieditore, banchiere, mercante, assicuratore, mani in pasta dovunque corrano soldi; classica situazione da óstracon, il coccio sul quale gli ateniesi scrivevano il nome della persona che fosse prudente escludere dalla contesa politica; l´unico antidoto sono le incompatibilità, ma il Centrosinistra al governo, traviato da cabale stupido-furbesche, non se n´è occupato. Questione insoluta, né era pensabile che la risolvesse lui, reinsediato una seconda volta dalle reti Mediaset: ha mascelle da caimano; e non è ragionevole aspettarsi una signorile astinenza dai caimani. Il ddl n. 1707D, infatti, modula l´idea sbalorditiva che il dominus d´un impero economico, quasi monopolista dei media, sia idoneo agl´incarichi governativi, purché non figuri negli organigrammi societari: quattro letture (28 febbraio e 4 luglio 2002, 22 luglio 2003, 10 marzo u.s.) apportano varianti cosmetiche; e arriva a Montecitorio l´8 luglio. La Cdl l´ha sempre votato militarmente. Stavolta coup de scène: è deserto il banco del governo; nemmeno un sottosegretario, tutti irreperibili; e trattandosi d´un disegno governativo, i regolamenti impongono il rinvio. Perché l´augusto interessato non vuole che diventi legge? Gliel´avevano cucito addosso, uno dei tanti doppiopetti. La risposta discende dall´art. 6: l´Antitrust sorveglia; accerta effetti distorsivi; applica pene pecuniarie; riferisce al Parlamento. Funzioni innocue se, qual è ora, non avesse un difetto. Lo dicono insensibile al vento d´Arcore: B. non se ne fida; e siccome il mandato scade tra sei mesi, la creatura resti nell´utero fino ad allora. L´art. 7 attribuisce analoghi poteri al garante delle comunicazioni. Qui Re Sole, anzi Lanterna (magica), corre minori rischi. Nel rapporto annuale, 9 luglio, il presidente diverte l´uditorio: Mediaset e Rai rastrellano l´86.5% della pubblicità; inutile dire chi sia il leone, ed era notorio che la soglia massima (30% rispetto al singolo operatore) fosse allegramente superata da sei anni; insomma, ventila ipotetiche sanzioni verso la fine del corrente mese; quali, non sappiamo, dall´innocuo biasimo in su; dipende dalle «precedenti istruttorie», al lume delle nove norme, essendo ormai in vigore la malfamata l. Gasparri, talmente fuori del quadro costituzionale da essere rinviata alle Camere, il cui secondo voto l´ha ritoccata pro forma. I vecchi oratori usavano dire «risum teneatis».

Domenica sera una cena chic apre il torneo a Palazzo Chigi. L´ormai insopportabile alleato democristiano chiede anche che il conflitto d´interessi sia presto risolto (rectius nascosto). L´anfitrione l´accoglie schiumando: sia meno ipocrita; sa benissimo perché gli elettori hanno risposto male; bisognava abrogare l´infausta l. 22 febbraio 2000 n. 28 che impone alle emittenti televisive una relativa par condicio nelle campagne elettorali; chi l´ha impedito?; lui; continui e subirà vendette Mediaset («le mie televisioni»). Invano quel mellifluo ciambellano venuto dalla più profonda seconda Repubblica, Talleyrand italiota, s´affanna a diluire l´effetto funesto. Nelle cronache del dialogo dietro le quinte («Corriere della Sera») l´epilogo è ancora più edificante. Non era una minaccia politica, spiega Sua Maestà, ridiventato affabile: sei milioni d´elettori democristiani guardano la tv, possibili clienti delle imprese che fanno pubblicità «sulle mie reti»; come può pensare che se li alieni? L´argomento interessa Antitrust e garante delle comunicazioni. Nell´uditorio del predetto rapporto sedeva l´ex-filosofo della scienza già fautore della ghigliottina Mani pulite, poi folgorato dal sole d´Arcore, furioso antigiustizialista, ora presidente del Senato, e in sorridente chiave dottorale rileva quanto poco influiscano gli schermi sulle scelte elettorali; col suo permesso, preferiamo l´analisi berlusconiana: ha influito la maledetta par condicio. Meno politico del macedone, l´odierno Filippo ha un punto debole nei fiotti verbali: governa l´Italia sull´ipotesi d´un virtuoso disinteresse negli affari Mediaset (ipotesi assurda, come se postulassimo Attila convertito in san Francesco: esistono limiti alle metamorfosi che Freud chiama Reaktionsbildungen); e davanti a testimoni afferma d´essere l´autentico imprenditore. Manca poco che salti il tavolo. Nella seconda seduta, lunedì 13, riazzanna Biancofiore: «gli spacco il partito»; «vuol distruggermi ma lo distruggo prima io». L´alleato infìdo post-Msi rifiuta inorridito il ministero dell´economia. Sua Maestà guarda torvo: troverà qualcuno; e medita stanziamenti monstre, se no «sarebbe una flebo al cadaverino» (riconosciamogli l´estro verbale), più i tagli Irpef senza i quali sarebbe infallibilmente sconfitto (diagnosi sua); non sa che anche i re taumaturghi soggiacciono al 2+2=4? Martedì 13 persiste lo stallo nel negoziato: diventa norma lo schernevole pastiche sul conflitto d´interessi; l´Istat segnala l´ennesimo scatto del debito pubblico. La nave dei folli imbarca acqua.

Nelle elezioni di ieri c’è uno sconfitto ed è Berlusconi. Si dirà che queste sono elezioni europee. Ma queste europee, per gli italiani, sono due volte politiche. Perché eleggono il primo Parlamento dell’Europa allargata, e perché il voto contro Berlusconi annulla il fitto lavorìo di Berlusconi contro l’Europa, riattiva una dignitosa presenza dell’Italia nell’Unione Europea. Dunque elezioni che cambiano le carte in tavola. E tagliano nettamente la dimensione e la rilevanza di Berlusconi-padrone.

Questa non è una vicenda normale, non è l’oscillazione del pendolo di cui parla Arthur Schlesinger nella sua teoria dell’alternanza. Questo è un Paese esasperato da tre anni di finzioni, disastro, teatro e bugie. Il Paese è stato lacerato, la Costituzione offesa, ogni punto di raccordo tra cittadini - la nazione, la Patria, i soldati, la pace ma anche la scuola, il sentimento religioso, la scienza - tutto è stato spaccato per mettere italiani contro italiani, per creare sospetto, sfiducia, caccia all’avversario, pregiudizio, la più grande campagna di cinismo e di cattiveria mai lanciata nell’Italia dopo la Resistenza. Inclusa la negazione della Resistenza e la evocazione di un mostro comunista da buttare addosso ad ogni avversario. Forse è stata educativa ed esemplare la vicenda degli ostaggi. L’Italia avrebbe voluto unirsi alle famiglie degli scampati e al dolore del giovane ucciso. Ma lo spazio era occupato dalla cascata di bugie, vanagloria e contraddizioni di un presidente del Consiglio e dei due suoi principali ministri.

Essi, con versioni diverse e sviste clamorose di luogo, tempo e personaggi, hanno voluto occupare tutto lo spazio, tutti i media, hanno reclamato tutto il merito e si sono voluti vantare di aver guidato magistralmente l’azione a distanza, ore dopo il rilascio.

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Questa non è una vicenda normale in cui ciascuno dice la sua e poi il Paese decide. Il tema era l’Europa, ma l’Europa è la bestia nera di questo governo. Il rapporto Berlusconi-Europa è immortalato per sempre da quel primo giorno del semestre italiano in cui Berlusconi insulta il deputato tedesco Schultz. Il rapporto Berlusconi-Europa è nel comportamento da pessimo attore senza copione con cui Berlusconi ha condotto l’umiliante semestre italiano che - purtroppo - ha divertito il resto del mondo, e ridato vita ai peggiori cliché di tante barzellette anti italiane. Il rapporto Berlusconi-Europa è nella festosa definizione della Unione Europea come Forcolandia (Bossi) e nel tenace rifiuto a ogni cooperazione col sistema europeo della Giustizia «perché se no ci arrestano tutti» (il ministro Castelli).

Il rapporto Berlusconi-Europa è nell’avere prontamente schierato l’Italia in una guerra rifiutata da grandi maggioranze sia in Italia che in Europa, impedendo, insieme a quell’Aznar ormai scomparso dall’orizzonte politico, un vero rispettoso dialogo fra Europa e Stati Uniti. E mettendo l’Italia - adesso percepita come nemica - nelle condizioni di non poter partecipare in modo credibile a un progetto di pace in Iraq.

Intanto lui ha trasformato quel che resta della libera stampa italiana in regime, occupa i media fino a renderli ciechi, impone sulla vicenda guerra una censura e una invenzione di notizie che non si ricordava dal 1940. Nega persino ai soldati italiani, che in ogni istante rischiano la vita in combattimento, la definizione di “guerra” per la loro tremenda avventura, impedendo che tale possa risultare nel loro curriculum militare, dal quale si desumerà - invece - che stavano a Nassiriya in tranquille condizioni di pace.

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L’Ulivo - faticosamente e laboriosamente - ha fatto la cosa giusta: ha lavorato nelle città, grandi e piccole, nelle piazze, nel vero porta a porta che è il contatto quotidiano, dal Sud al Nord, da un capo all’altro della penisola, con i cittadini. Ha coinvolto i cittadini e i movimenti, ha individuato persone come Cofferati per conquistare Bologna, Lilli Gruber per andare in Europa (con l’esperienza europeista nuova di Bersani e Berlinguer e quella collaudata e solida di Pasqualina Napoletano). Ha fatto spazio alle candidate donne, ha votato in modo chiaro e semplice (tre righe di mozione) contro la guerra. Quella mozione è l’atto costitutivo e il simbolo di una azione politica nuova e più vasta: tutta l’opposizione per la pace.

Tutta l’opposizione per l’Europa e dunque per una politica estera che torni a dare dignità al Paese, fiducia agli italiani verso il nostro ruolo e il nostro futuro. Fiducia di tutti verso di noi cominciando dal nostro stare in Europa. Non siamo più il Paese del miliardario umorale che ormai l’opinione pubblica del mondo stenta a distinguere dal sultano del Brunei (i due ammassi di ricchezza sono vicinissimi).

Si traccia oggi un percorso politico i cui punti fondamentali sono il ritorno alla Costituzione nata dalla Resistenza, il rispetto per i diritti, lo sviluppo nella pace e che fa riferimento al nome e alla garanzia di Prodi, e prefigura un governo.

A Hollywood intitolerebbero “L’alba del nuovo giorno”. Noi preferiamo dire, guardando agli altri europei con un po’ di orgoglio: «Abbiamo scaricato Berlusconi».

GEORGE BUSH is famously loyal to those closest to him. But that loyalty came under perhaps its greatest ever strain this week, as calls mounted for the resignation or dismissal of Donald Rumsfeld, the secretary of defence, over the torture and humiliation of prisoners at the Abu Ghraib prison in Iraq. The president has so far resisted these calls. He scolded Mr Rumsfeld on Wednesday May 5th, saying he should have known more, sooner, about the abuses. But on Thursday he called Mr Rumsfeld “a really good secretary of defence” and said he would remain in the cabinet.

Mr Rumsfeld has many enemies. He won grudging admiration from the press and many Americans for his straight-talking briefings during the Iraq war, even though he was never exactly shy about refusing to answer questions. He looked smart when American-led forces routed the Iraqi army even faster than expected. Since the war’s end, however, he has come under increasing fire for his perceived failure to plan sufficiently for peacekeeping and rebuilding. He had expected to reduce the number of American troops in Iraq to mere tens of thousands by late 2003, anticipating that grateful Iraqis would shoulder the burden of security. This turns out to have been wildly optimistic. Some 135,000 Americans are still stationed in the country.

Within the administration, too, he is a divisive figure. He is one of the closest advisers to Mr Bush (alongside Condoleezza Rice, the national security adviser, and Dick Cheney, the vice-president). But his differences with Colin Powell, the secretary of state, are well known. Mr Powell urged Mr Bush to seek United Nations backing for the Iraq war, while Mr Rumsfeld disdained such a move. When “senior administration officials” criticise the Pentagon anonymously in newspapers, they are believed often to be from the State Department, and occasionally Mr Powell himself.

Rivalries between the diplomats at the State Department and the warriors of the Pentagon are nothing new. And despite setbacks in Iraq, most Americans approved of the Bush administration’s handling of the Iraq war until recently. But during the disasters of April, in which more American soldiers were killed than during the main fighting of the war in 2003, poll numbers slipped. And after pictures of the Abu Ghraib abuses came to light, they slipped further—according to a new Gallup poll, 55% of Americans now disapprove of Mr Bush’s handling of the situation in Iraq, with only 42% approving. What had long seemed the president’s biggest political strength—his role as a war leader—may be becoming a liability. (Meanwhile, strong jobs numbers for April released on Friday, coming on top of good figures for March, may make what had been the president’s biggest liability—the economy—his biggest hope. It will be scant comfort to Mr Rumsfeld, but if he is fired, he will be rejoining a relatively buoyant labour market.)

The decision not to sack Mr Rumsfeld is a gamble. Ditching one of the president’s closest advisers would be a sign of weakness and defeat just six months before an election, something Mr Bush is understandably keen to avoid. But keeping the tainted Mr Rumsfeld could be just as dangerous, both at home and abroad. The media smell blood: the influential New York Times has called for Mr Rumsfeld’s head (as has The Economist—see article).

Moreover, by offering words but not deeds, Mr Bush may appear to the Muslim world to be showing only false contrition. In two interviews with Arabic television stations on Wednesday, he called the goings-on at Abu Ghraib “abhorrent” but did not apologise, a fact not lost on media commentators. The next day, Mr Bush changed tack, telling reporters he had said the magic word, “sorry”, in a meeting with King Abdullah of Jordan.

But in the electrified political atmosphere of an election year, “sorry” alone may not be enough. Predictably, John Kerry, Mr Bush’s Democratic rival in November’s election, has called for Mr Rumsfeld’s resignation, as has the leader of the Democrats in the House of Representatives, Nancy Pelosi. Republican congressmen, naturally, have been more circumspect. But many are said to be furious that they did not learn about Abu Ghraib before the press, given that the first accusations of abuse had been made in January.

When Mr Rumsfeld appeared before a Senate panel on Friday, the legislators’ own wounded pride at being kept in the dark was evident, with the defence secretary being put through some aggressive questioning—most notably from fellow Republican John McCain. Mr Rumsfeld offered a clear apology, as did the military men seated with him. He also accepted full personal responsibility, but gave no indication that he planned to resign. He referred repeatedly to ongoing military investigations into the abuse of prisoners, suggesting that he and his colleagues wanted to get to the bottom of the accusations as much as the committee did.

For opponents of the war and of the United States around the world, the treatment of prisoners at Abu Ghraib fits into a pattern. Just before the revelations of abuse in Iraq, the Bush administration found itself before the Supreme Court defending its stance in other cases involving prisoners. Several hundred men captured in Afghanistan remain in prison at Guantánamo Bay in Cuba, and the administration claims they have no right to a trial. More controversially for Americans, two American citizens, José Padilla (the alleged “dirty bomber”) and Yaser Hamdi, captured in Afghanistan, have been declared enemy combatants and held incommunicado without trial for over a year. The Supreme Court will rule on all of these cases this summer.

Mr Bush insists that the abuses of Abu Ghraib do not represent America’s soul, but for many, both at home and abroad, they are not as isolated as he would like to believe. If the outcry is sustained, or if new lurid details emerge—the chairman of the Joint Chiefs of Staff, General Richard Myers, said at Friday's hearing that there are photos and videos yet unseen—offering up Mr Rumsfeld may be the president’s only choice.

IN UNA guerra anomala come quella contro il terrorismo e nell´altra che s´incrocia e s´accavalla con la prima, com´è la guerra contro la guerriglia irachena, c´è un assioma preliminare che per chiarezza va ripetuto: con i terroristi e con quanti ne assumano i metodi non si tratta. Non ci si fa condizionare dai loro ultimatum, non si cede alle loro richieste anche se in gioco ci sono vite umane, ostaggi in pericolo, ricatti di qualsiasi genere che mettono in discussione la linea politica d´uno Stato.

Quest´assioma è chiarissimo e accettato da tutti: dal governo americano a Chirac, dal governo inglese a Zapatero, da Berlusconi a Schröder, da Prodi ad Annan, da Fini a Bertinotti. Perfino il Papa e tutta la Chiesa condividono questa posizione intransigente e pregano affinché i terroristi si ravvedano, nel qual caso potranno contare sulla misericordia divina.

Ma se si scende dal generale al particolare e dall´astratto al concreto, ecco che l´assioma della fermezza diventa inevitabilmente meno chiaro perché è evidente (e accettato da tutti) che bisogna fare il possibile e perfino l´impossibile per salvare le vite in pericolo; tanto più vero nel caso d´ostaggi minacciati di morte. Non si tratta ma si cercano intermediari in grado di trattare. Con chi? Offrendo e minacciando che cosa? I mediatori possono offrire ai terroristi che usano gli ostaggi come arma di pressione un salvacondotto d´impunità, o denaro, o tregua nella guerra di guerriglia. Al limite possono perfino offrire, oltre al perdono, un riconoscimento nella struttura politica che prima o poi dovrà governare l´Iraq, ammesso che si riesca a far uscire quello sventurato Paese dal marasma in cui è precipitato a causa della tragica catena d´errori del tandem Bush-Blair. Del resto non sarebbe una novità: uno dei più grandi errori commesso in Kosovo ? anche lì per pressione e volontà americana ? è stato quello d´aver riconosciuto un ruolo dominante all´organizzazione politico-militare dei combattenti antiserbi; un´organizzazione cui è stata appaltata la "sicurezza" e il governo del territorio e che si è rapidamente trasformata in una centrale di contrabbando e di traffico di droga in combutta con le mafie turca, bulgara, ucraina, russa, greca.

L´Occidente purtroppo non è nuovo a errori di questa natura, quando entra in contatto con popolazioni tribali, signori della guerra, boss mafiosi, che alternano l´efferatezza del crimine con la doppiezza politica e con l´uso spregiudicato del nazionalismo etnico e del fanatismo religioso. Misture esplosive quando si combinano con vecchi e nuovi imperialismi camuffati da portatori di doni democratici e di benessere economico.

I mediatori dunque hanno ampio campo per mediare, ma rimane il rebus degli interlocutori, volti e sigle ignoti, molteplici, mutanti. Nel caso specifico non si sa se siano sunniti o sciiti, se riconoscono come capo lo sceicco al Sadr o lo sceicco al Sistani o il Consiglio degli sciiti iracheni o il Consiglio degli Ulema sunniti o bin Laden e i suoi luogotenenti o addirittura nessuno salvo se stessi e i loro capetti barbuti e mascherati che si passano gli ostaggi tra loro come fa la ?ndrangheta con i rapiti per depistare la polizia. Un giorno uccidono, il giorno dopo rapiscono ancora, poi liberano e infine di nuovo uccidono. È un truce e mortale gioco di gente usa al mestiere della morte altrui e della propria? Dove sono? Chi può convincerli o costringerli alla ragione? Questo, anche questo, ma non solo questo è l´Iraq di oggi. Poi trovi di tanto in tanto l´imbecille che ti domanda: stavano meglio con Saddam o stanno meglio oggi? L´imbecille è convinto con questa domanda di stringerti in angolo, ma la sola risposta che può ottenere è racchiusa in una sola parola: dipende. A Falluja stavano meglio. A Sadr City stavano meglio. A Ramadi stavano meglio. Forse anche a Nassiriya stavano meglio. In cento altri siti alcuni stavano meglio e altri molto peggio. Con quali prospettive per il futuro?

* * * * *

Ma prima d´affrontare per l´ennesima volta questa domanda cruciale torniamo ancora sui nostri ostaggi, i tre ostaggi italiani sospesi tra vita e morte mentre il quarto ha già pagato il suo debito agli assassini schiaffeggiandoli con la frase che ormai sta incisa nella coscienza nazionale insieme a tante altre frasi analoghe: «Vi farò vedere come muore un italiano».

Si è aperta una discussione se quel povero ragazzo, arrivato in Iraq a cercar fortuna, sia un eroe oppure no, se gli italiani debbano assumerlo tra i simboli della storia patria come Sciesa, Enrico Toti, Cesare Battisti, Luciano Manara, i fratelli Cairoli, i soldati della Folgore a El Alamein, Leone Ginzburg e le vittime delle Fosse Ardeatine, oppure no.

Discussione oziosa perché prima bisognerebbe definire che cosa si voglia significare con la parola eroe nei tempi moderni. Nei tempi dell´epica antica il senso di quella parola era chiaro: l´eroe era un uomo prescelto dagli dei per condurre eccezionali imprese, protetto da un dio e suo intermediario in terra. Era meno d´un dio ma più di un uomo. Spesso era il frutto d´un congiungimento tra un mortale e un immortale. Odisseo fu l´ultimo e chiuse la serie. Ma molto dopo fecero la loro comparsa gli eroi moderni. Fu il romanticismo a tenerli a battesimo, ma il senso di quella parola non era più lo stesso e l´intera questione diventò terribilmente complicata.

L´eroe moderno è qualcuno che, arrivato ad un certo punto della vita, abbandona le comodità, le abitudini mentali e i piccoli egoistici obiettivi dell´esistenza quotidiana e si vota ad una causa che lo sovrasta andando consapevolmente incontro a privazioni, pericoli, sofferenze per sostenere quella causa. Spesso anche se non necessariamente vi perde la vita. Nel concetto moderno dell´eroe entra cioè un contenuto e una scelta morale che ne diventa l´aspetto fondamentale. Si può dar prova di coraggio senza alcun contenuto morale. Per esempio chi gioca alla roulette russa. Chi sfida il destino correndo a rompicollo in automobile su strade accidentate. Chi sceglie il mestiere e l´avventura delle armi per dar prova d´essere un coraggioso. Ma nessuno di questi entra nel Pantheon degli eroi nazionali.

Infine tra l´eroe che muore per una causa e il coraggioso che muore per gli incerti della scelta fatta, esiste una terza categoria, quella degli eroi per caso.

L´altra sera, in una melensa quanto breve trasmissione televisiva il regista Mario Monicelli è stato interrogato sulla frase certamente eroica del povero Quattrocchi. Monicelli è stato il regista di quel bellissimo film sulla "Grande Guerra", quella del ?15-18, nel quale i due protagonisti, Vittorio Gassman e Alberto Sordi, interpretano le vicende di due soldati presi prigionieri dagli austriaci che chiedono notizie militari su movimenti di truppe. I due conoscono quei movimenti e dopo alcune esitazioni decidono di rivelarli per aver salva la vita. Mentre l´interrogatorio è in corso e i due stanno per confessare il segreto che rischia di compromettere la sorte dell´offensiva italiana insieme a migliaia di vite, l´ufficiale austriaco si lascia andare ad una frase insultante rivolta ai due soldati i quali se ne sentono sanguinosamente feriti. Uno dei due reagisce, dichiara che non rivelerà un bel niente e insulta a sua volta l´ufficiale chiamandolo «faccia di merda». Viene immediatamente fucilato e l´armata italiana sarà salva.

È stato un eroe? Ha chiesto più volte a Monicelli il conduttore della trasmissione. E ogni volta Monicelli ha risposto ostinatamente: eroe per caso.

«Gli italiani - ha aggiunto - non hanno la stoffa degli eroi perché difficilmente sacrificano la propria vita per una causa che sovrasti il loro particolare. Ma se vengono feriti nell´individuale personalità, allora reagiscono come leoni».

La trasmissione si è chiusa lì, il regista si era intestardito nella sua visione dell´eroe per caso mentre ciascuno di noi aveva dinanzi agli occhi la terribile immagine di quel giovane costretto in ginocchio dinanzi al suo carnefice con la canna fredda della pistola già puntata sulla sua tempia, che cerca di liberarsi dal cappuccio che gli copre il volto e grida la frase eroica della sua irata disperazione.

Questo è quanto è accaduto ed è terribile. Ci dice a che punto è arrivato il mattatoio. Nelle stesse ore, a pochi chilometri di distanza, centinaia di donne bambini vecchi e innocenti cadevano sotto i bombardamenti degli F15 e sotto il cannoneggiamento dei tank americani tra le rovine d´una città spettrale ammorbata dal puzzo dei cadaveri insepolti.

Questo è il mattatoio e questo l´eroismo per caso dei tempi del ferro e del fuoco.

* * * *

Prospettive? Speriamo migliori, se è vero che la speranza è l´ultima a morire.

Ma le previsioni non sono esaltanti. L´America si è convinta d´aver bisogno dell´Onu per impedire che la coalizione dei volenterosi si sfarini e il suo isolamento politico si accresca mentre il mattatoio iracheno e quello israeliano-palestinese continuano a macinare cadaveri.

L´America ha bisogno dell´Onu come di una vivandiera portatrice d´acqua gregaria. Ma è fin troppo chiaro che a queste condizioni non l´avrà e perfino se il Consiglio di sicurezza fosse unanime su una seconda risoluzione "vivandiera" l´arrivo dell´Onu risulterebbe del tutto inutile. Del resto che Bush e Blair perseverino su questa linea risulta evidente dopo il via libera data al piano Sharon per la Palestina. La scelta è stata ancora una volta quella della forza e dell´unilateralismo, come dimostra l´uccisione del nuovo leader di Hamas, appena succeduto allo sceicco Yassin, e colpito come lui a morte dai missili israeliani. Il "domino" virtuoso che doveva intrecciare i destini di Gerusalemme con quelli di Bagdad si è trasformato in un "domino" perverso di cui tutti - colpevoli e non colpevoli - pagheremo le conseguenze.

Un´altra opzione esiste: ristabilire l´ordine con le armi e arrivare ad un accordo con gli sciiti di al Sistani, sempre che lo sceicco moderato sia in grado di sopportare ancora per molto la mattanza in corso, il che sembra altamente improbabile.

Se comunque l´accordo con Sistani sarà infine raggiunto, avremo un Iraq guidato dalle tribù sciite, dai mullah coranici addestrati a Teheran, dalla fine del riformismo iraniano, dall´ammaina-bandiera dei famosi valori democratici da far vivere anche in Medio Oriente e nelle terre mesopotamiche.

La politica è regno di compromessi. Questo comunque sarebbe di bassissimo livello, tanto più che non arresterebbe affatto il terrorismo e la guerra per bande. Il governo italiano in questa situazione potrebbe avere, sol che lo volesse, un ruolo di rilievo, quello al quale lo spinge quasi quotidianamente il presidente Ciampi con i suoi continui e incalzanti richiami ad un ruolo non subalterno dell´Onu. Potrebbe (dovrebbe) il nostro governo dire chiaramente all´alleato americano che la soluzione di un´Onu portatrice d´acqua non soddisfa e non risolve e che, se questa sarà la scelta, dovremmo andarcene anche noi insieme agli spagnoli e ai portoghesi. In una coalizione che dà segni evidenti di sfaldamento l´influenza italiana può essere determinante. Ma questa ipotesi purtroppo non vale un soldo. Un "bookmaker" avveduto la darebbe a uno contro centomila. Non avverrà.

Purtroppo i carabinieri di Nassiriya sono morti invano e il grido patriottico di Quattrocchi è stato inutile. Poteva servire per far chiudere le porte del mattatoio. Se resteranno aperte questi morti saranno stati soltanto un tristissimo e dolorosissimo incidente di percorso, un sangue inutilmente sparso da un giovane eroe per caso e da diciannove soldati «usi a morir tacendo» sui quali è stata spalmata retorica a piene mani.

Oggi si discute in Senato il rifinanziamento della nostra missione in Iraq e quindi la permenenza o meno delle truppe italiane in quel Paese. È probabile, per non dire sicuro, che il decreto del governo, favorevole alla permanenza, sarà approvato per passare poi al vaglio della Camera.

Ci sia concesso finché si è ancora in tempo, di dissentire. La situazione è radicalmente cambiata da quando un anno fa mandammo i nostri soldati. Gli Stati Uniti, con la presa di Bagdad e la fuga di Saddam Hussein, avevano dichiarato finita la guerra e chiesto l'intervento dei nostri soldati per coadiuvare l'attività di ricostruzione dell'Iraq. Ma si erano sbagliati. La guerra era tutt'altro che finita, in un certo senso si può dire che era appena cominciata. Quando cinquanta uomini armati di tutto punto e ben organizzati assaltano ed espugnano una stazione di polizia, e questo segue una infinita serie di attacchi alle forze occupanti e alle loro basi militari e di attentati condotti in modo sistematico, non si può più parlare di terrorismo. È guerra, sia pure guerra di guerriglia, com'è sempre quella di una resistenza contro un esercito occupante e militarmente molto superiore. Oltretutto, non si può nemmeno dire che si tratti di azioni di residuali seguaci di Saddam destinate a spegnersi con la cattura o la morte del rais, perché Hussein è stato preso, e nelle condizioni per lui più umilianti e delegittimanti, ma la guerriglia è continuata con maggiore intensità di prima. Saddam e il vecchio regime dittatoriale non c'entrano se non molto marginalmente, il fatto è che una parte molto consistente della popolazione irachena non considera gli americani come dei liberatori ma come degli invasori e gli fa la guerra.

Ora, l'anno passato, al momento dell'invasione dell'Iraq, l'Italia, pur appoggiando politicamente gli americani, aveva deciso, a differenza di altri alleati, come la Gran Bretagna, la Spagna e la Polonia, di non partecipare alla guerra.

Non si vede perché debba rimanervi coinvolta adesso, con truppe che sono state mandate in Iraq con altre intenzioni, con altre regole di ingaggio e con un altro tipo di preparazione che non la partecipazione, diretta o indiretta di combattimenti (si pensi alla massiccia presenza dei carabinieri).

A chiudere il discorso ci dovrebbe essere poi la Costituzione che all'articolo II, vieta in modo esplicito all'Italia di partecipare a guerre se non difensive. E non si capisce assolutamente che tipo di offesa ci abbia portato l'Iraq, che non possedeva "armi di distruzione di massa" e non poteva non dico attaccare ma nemmeno minacciare né noi né i nostri alleati.

WASHINGTON — La guerra globale apre il suo fronte in Europa con il massacro di Madrid. E la capitale Usa medita la nuova strategia. Eta? Al Qaeda? Militanti Eta rinnegati, in contatto con fondamentalisti islamici? Il primo degli attacchi contro i Paesi che hanno appoggiato il presidente George W. Bush, Italia, Gran Bretagna, Polonia o la faida basca?

Capire la cultura del nemico è il solo modo per prevederne razionalmente i disegni e su questo rompicapo gli esperti americani spenderanno il primo, di tanti week end.

«L'Eta non ha legami conosciuti con Al Qaeda e non ci sono prove credibili di collaborazione tra le reti terroristiche. Nel novembre del 2001 otto agenti Al Qaeda sono stati arrestati in Spagna e uno era vicino a Batasuna, l'ala politica basca. Secondo il giudice Garzon, parte del blitz dell' 11 settembre è stata organizzato in Spagna. Terroristi Eta si sono addestrati in Libia e Algeria. Ma il disegno di Patria Basca e Libertà è laico, il disegno di Al Qaeda, la Base, è religioso» , dice uno dei cervelli incaricati di capire come la mattanza di Madrid cambi la guerra al terrore. «Siamo ancora alle ipotesi. Esplosivo basco, indizi islamici, l'Eta che smentisce a un giornale basco simpatizzante, Gara, la comprensibile prudenza del governo» .

Conversazioni, analisi e nuovi documenti ci anticipano la prima, approssimativa, reazione americana: «Contrariamente a voi europei, noi siamo persuasi, dopo averla combattuta in mezzo mondo, che Al Qaeda non sia un'organizzazione terroristica come le Br, l'Ira o Azione Diretta.

Condensiamo per i nostri uomini l'opera del sociologo spagnolo Manuel Castells, oggi docente a Berkeley, La nascita della società in rete ( tradotto dalla Bocconi). Castells spiega il concetto di “rete”, la società non cresce più a piramide, un mattone dopo l'altro come nell'antico Egitto, ma a nodi, uno dopo l'altro, del tutto estranei ma che insieme rafforzano la ragnatela del presente. Aziende, governi e Al Qaeda funzionano così. Un gruppo basco può avere fatto un patto, magari per soldi, con operativi islamici, senza input diretti da Osama Bin Laden» spiegano a Washington.

Un esercito di lillipuziani che marcia diviso, per colpire unito il nemico.

Per anticiparne le mosse, militari, intelligence e leadership politica prendono atto che non è più possibile operare sull'assunto del professor Samuel Huntington di uno «scontro di civiltà», Islam contro Cristianità (il saggio è tradotto da Garzanti). L'idea di Huntington è smentita dall'ordine di battaglia di Al Qaeda dopo l'11 settembre: i veri nemici di Osama sono i «rinnegati» , arabi che cercano il dialogo con l'Occidente, l'ambasciata giordana a Bagdad, la polizia irachena, i quartieri residenziali in Arabia Saudita.

Combattere la guerra secondo il canone Huntington sarebbe deleterio, malgrado non siano mancate le tentazioni in questo senso al Pentagono e alla Casa Bianca. Alla luce degli attacchi di Madrid, la nuova interpretazione della guerra al terrorismo passa attraverso lo studio di un volume ancora inedito, che gli studiosi Ian Buruma, del Bard College, e Avishai Margalit, della Hebrew University di Gerusalemme, pubblicheranno da Penguin Books. Che un ponderoso tomo accademico possa diventare arma contro il terrorismo e chiave delle stragi in Europa è solo l'ennesimo, misterioso, capitolo della guerra globale. Il saggio s’intitolerà Occidentalism,

Occidentalismo, e prende lo spunto dall' opera del critico di origine palestinese della Columbia University Edward Said, da poco scomparso,

Orientalismo (Feltrinelli). Per Said «orientalismo» è il modo occidentale di guardare all'Oriente, una lente deformata di pregiudizi, paternalismo, colonialismo, proiezione di se stessi sugli altri, inferiori, immaginati languidi, sensuali, violenti e primitivi.

Buruma e Margalit argomentano che esiste però un parallelo «occidentalismo» , la confusa visione del mondo sviluppato da parte degli orientali, che nella visione militante di Al Qaeda diventa offensiva militare e culturale. L'interesse dell'approccio di Buruma e Margalit per gli strateghi militari sta nel loro contrapporsi a Huntington. Non solo non c'è scontro tra le civiltà, ma anzi l'odio che smuove Al Qaeda e le sue ragioni adotta argomenti, temi, idee nati in seno al mondo occidentale. «Gli 'occidentalisti' vedono l'Occidente come disumano, una brutale macchina efficiente ma senza anima, a cui ci si deve opporre con la violenza». Israele, e gli alleati degli Stati Uniti nella guerra all'Iraq, «sono simbolo del male, idolatri, arroganti, immorali, un cancro che solo la morte può estirpare».

«Dall'analisi di Huntington, crociata di odio Oriente contro Occidente, scaturiva un modello militare da trincea, noi contro loro. Ma dall'analisi di Buruma è evidente che i fondamentalisti usano contro di noi un arsenale di ragionamenti che spesso prende in prestito concetti e comportamenti diffusi in Occidente. E allora ecco che Al Qaeda può colpire in Spagna, come a Bali, New York, Bagdad e Riad, odiando i dittatori laici musulmani come lo Scià di Persia o Saddam Hussein al pari di Bush e Aznar» . L'origine dell' «occidentalismo», il risentimento contro la civiltà occidentale, ha ramificazioni, secondo Buruma e Margalit, nelle teorie del nazifascismo, nello stalinismo, nella Conferenza di Kyoto del 1942 che propose «la guerra per battere la modernità». Lo scrittore ungherese Aurel Kolnai, già negli anni Trenta, parlava di «Guerra contro l'Occidente» e l'intellettuale iraniano Jalal al- e Ahmad coniò il neologismo «Ovestossine» , per deprecare la velenosa influenza euroamericana nei paesi in via di sviluppo. Ma al-e Ahmad nutre la sua propaganda di idee occidentali: da Hitler ai romantici tedeschi, perfino Robespierre e Saint Just.

«La strage di Madrid, sia di matrice domestica o internazionale, costringe a rivedere la strategia militare, dalla guerra di posizione a Kabul e Bagdad alla guerra di movimento in tre continenti». Il fronte non passa più tra Ovest ed Est, ma tra tolleranza e intolleranza, tra chi, in Occidente e nei Paesi arabi, accetta il dialogo e chi invece sceglie la violenza come unico strumento politico. «Da questo punto di vista — conclude l'analista che ha accettato di dialogare con il Corriere — l'inchiesta che dirà se si tratta di Eta o di Al Qaeda è importante per la polizia, ma meno per noi dell'antiterrorismo.

Perché la percezione dell'opinione pubblica mondiale, i titoli «Ground zero a Madrid» , inglobano già la strage nei parametri di guerra all'Occidente. L'immagine che scava le coscienze è una Al Qaeda europea, o una nuova Eta che ha scelto la scala terroristica 11 settembre». Se l'analisi di Buruma&Margalit è corretta, e la prima guerra globale diventa anche in Europa guerra civile tra tolleranza e intolleranza, sarà bene non dimenticare un concetto che gli esperti militari non sottolineano: «Se il nemico ci ruba idee e cultura non possiamo assomigliargli... nell'equilibrio tra sicurezza e libertà civili, non bisogna mai sacrificare la libertà... né opporre al loro fondamentalismo il nostro. La sopravvivenza delle nostre libertà dipende dalla volontà di difenderci contro il nemico esterno, resistendo alla tentazione dei nostri leader di usare la paura per distruggere le libertà».

L’egemonia culturale di Ponzio Pilato

Ezio Mauro

12 agosto 2004

NON so nulla delle lettere di Italo Calvino a Elsa de´ Giorgi e il tema non mi affascina. La questione mi sembra chiusa: il Corriere della Sera ha pubblicato un ampio servizio su quel carteggio (già rivelato anni fa da Epoca), ne ha ricavato qualche ipotesi romanzesca e qualche suggestione letteraria, come se quelle lettere contenessero la svolta intellettuale di tutta l´opera di Calvino. È sembrato troppo ad Alberto Asor Rosa, è sembrato ridicolo a Chichita Calvino, che hanno risposto su Repubblica. Il caso può finir qui. Aggiungo soltanto che a mio parere i giornali ovunque pubblicano le carte di personaggi pubblici, quando le giudicano di interesse generale, perché i giornali rispondono a quell´interesse. Con l´avvertenza, magari, di non presentare per inedito ciò che inedito non è, e con la licenza di romanzare un po´: soprattutto d´estate.

Qui potrebbe finire la storia, in sé minima. Ma se ne apre un´altra, formidabile. Perché Ernesto Galli Della Loggia è saltato a piedi giunti sul caso Calvino, ha ignorato la lunga intervista di Chichita e ha immediatamente imbastito un processo a Repubblica custode del sigillo sacro della sinistra e alla sinistra che detiene dagli anni Cinquanta ad oggi l´egemonia culturale e decide ciò che può essere detto e ciò che deve essere taciuto. Gli ha risposto Eugenio Scalfari, denunciando l´"ossessione" di Galli nei confronti della sinistra, che vede agire sotterraneamente e dovunque per subornare la pubblica opinione, e ricordando che nel lungo dopoguerra italiano i giornali, la radio e la televisione sono stati sempre nelle mani dei partiti di governo e dei poteri cosiddetti forti (allora lo erano davvero) che quei partiti fiancheggiavano con vigore.

Sono rimasto anch´io stupefatto per l´ideologismo ormai quasi meccanico che ha innescato questa discussione. Si parla delle lettere d´amore di Calvino ed ecco una scomunica integrale alla sinistra, detentrice ? secondo l´accusa ? perenne e immobile delle chiavi del politicamente corretto, ora e sempre: solo un automatismo ideologico può far discendere da quella causa questo effetto. Ma voglio provare a discutere sul serio con Galli Della Loggia, lasciando perdere l´occasione polemica per prendere il merito dei suoi argomenti.

E aggiungere un controargomento, per me di importanza capitale. In un paese democratico, come il nostro, l´egemonia culturale è in gioco tra i diversi poli di pensiero e i diversi gruppi di riferimento. Voglio dire che è contendibile, per fortuna. E può cambiare di segno, come a mio parere è avvenuto nell´ultimo decennio.

Galli ha ragione quando dice che un´egemonia culturale di sinistra ha contato nel nostro Paese, più o meno fino al collasso della Prima Repubblica, o a guardar meglio fino all´avvento del craxismo. Ma Galli ha torto, secondo me, quando traduce tutto questo nella categoria del "comunismo", come un perfetto fatturato politico della strategia togliattiana. Ha torto per due motivi, che accenno soltanto: prima di tutto quell´egemonia, come ha spiegato Scalfari, nasceva nella cultura, non nella politica, ma nell´opera individuale di registi, scrittori, intellettuali, orientati ? questo sì ? a sinistra, ma non longa manus di un partito; e poi, quell´egemonia ha travalicato il mondo della creazione artistica e dell´opera intellettuale ed è diventato politica diffusa dopo il Sessantotto, con la spinta e il nuovo linguaggio dei movimenti e delle forze extraparlamentari, che come è noto portavano in sé una forte carica di contestazione proprio nei confronti del Pci e del suo mondo.

Tuttavia su questo punto storico specifico Galli ha a mio parere più ragione che torto. Perché se la cultura orienta una società nei suoi valori e disvalori pre-politici, non c´è dubbio che la cultura del dopoguerra guardava a sinistra in un Paese politicamente moderato. E non c´è dubbio, nemmeno, che a sinistra chi più si è giovato di questo clima intellettuale è stato il Pci, gramscianamente (prima e più di Togliatti) educato a cogliere quei frutti.

Poiché non tutto è ideologismo, però, bisogna aggiungere che la cultura di sinistra (ripeto: in gran parte una libera cultura di sinistra, da Bobbio a Pasolini) in un´Italia democristiana è stata uno degli ingredienti della modernizzazione e della crescita di questo Paese, una sorta di correzione laica, di bipartitismo culturale in un Paese che non poteva portare il suo sistema politico a compimento per la presenza del più forte Partito comunista occidentale in anni di guerra fredda. Questo è un dato di fatto: così come è un dato di fatto che l´egemonia culturale di sinistra ha perpetuato alcuni "blocchi" nel dibattito italiano, come la lettura di una Resistenza incentrata sui comunisti, un´ipocrisia o peggio una mistificazione nei confronti dei crimini del comunismo, in Urss e negli altri Paesi dov´era andato al potere. Nella convinzione colpevole che «la verità ? come dice Martin Amis ? poteva sempre essere posticipata».

Ma oggi che il Pci non c´è più, è finito il comunismo, e si è dissolta l´Urss e con il sovietismo anche la divisione in blocchi e la guerra fredda, ha senso riprodurre quello schema, sostituendo al termine "comunista" il termine "sinistra", come se nel 2004 e in Italia fossero la stessa cosa? Non si può non vedere che una delle caratteristiche della sinistra italiana contemporanea è la debolezza identitaria, non la sua forza. Di quale egemonia culturale terribile sarà mai capace una sinistra che non sa da quali culture è lei stessa composta, quali sono le sue radici culturali spendibili oggi, chi sono i suoi ilari e i suoi penati superstiti dopo che - in ritardo, in gravissimo ritardo - ha scoperto che il tabernacolo comunista era vuoto?

Per il resto, l´Einaudi fa parte dell´universo berlusconiano, nel cinema italiano i Visconti hanno lasciato il posto a Vanzina, i giornali - ad eccezione di pochissimi - sono concretamente omogenei alla destra, tanto da essere ogni volta sorpresi e surclassati dalle reazioni della grande stampa europea davanti ad ogni nuova anomalia berlusconiana.

Tutto ciò mentre l´establishment in questo Paese che ha smarrito ogni sua missione è ormai fatto da pseudo-imprenditori che in realtà sono concessionari di lusso, post-imprenditori che devono gestire il loro declino, smart-imprenditori, indifferenti ad ogni idea civile del Paese, pur di spartirselo, visto che è facile, incapaci di qualsiasi opzione politica, perché costa e divide il fascio indistinto di popolarità conquistata nel grande rotocalco italiano e scambiata per consenso. Resta la tv, vera falciatrice di quel substrato materiale di egemonia culturale che è il senso comune. E la tv - tutte le tv, in Italia - è di destra ancor prima d´accenderla, è intrinsecamente berlusconiana con il catalogo modernissimo e regressivo di idee che veicola ogni giorno ad ogni ora.

Dunque, cerchiamo di essere intellettualmente onesti anche qui, davanti a questa evidenza. Che senso ha, che scopo ha, parlare oggi di egemonia (culturale?) della sinistra in Italia? È solo un riflesso condizionato? Credo di no. Penso anzi che si tratti di un´operazione tutta ideologica e politica - nient´affatto culturale - che punta a tenere la sinistra in condizioni di minorità perenne, a pronunciare nei suoi confronti (qualunque sia la sinistra, e in qualunque epoca) un interdetto perenne, che rende artificialmente vivo il comunismo: se non come organizzazione (il che per fortuna è impossibile) almeno come fantasma zdanoviano in servizio permanente effettivo, naturalmente occulto.

In questo modo, sta andando a compimento un lavoro politico avviato dieci anni fa, certo più importante della capacità egemonica presunta di Fassino o di Prodi: si tratta della destrutturazione di alcuni valori fondanti di questa democrazia repubblicana che il furore anticomunista dei revisionisti italiani ha colpito, delegittimato e gettato al mare perché troppo contigui e funzionali alla storia del comunismo italiano. Penso all´antifascimo, all´azionismo, al costituzionalismo, allo stesso laicismo, demonizzati ideologicamente come strumento ideologico di parte.

In un Paese meno sventurato del nostro, si tratterebbe semplicemente di valori civili, anzi, civici, nemmeno "democratici" se il termine sembra giacobino, ma certo "repubblicani" frutto di un riconoscimento condiviso di una nazione che dopo la sconfitta della dittatura sente di avere una storia patria comune a cui fare riferimento al di là delle divisioni tra destra e sinistra.

No: noi non abbiamo valori repubblicani comuni. Come ha denunciato Bobbio, lo sforzo per equiparare l´anticomunismo all´antifascismo ha portato ad un abominio che sta diventando anch´esso senso comune: l´equiparazione tra fascismo e antifascismo. Aggiungiamo l´aggressione politica e intellettuale agli ultimi azionisti, l´irrisione a quella religione civile che sia pure in fortissima minoranza hanno testimoniato per sessant´anni. Pensiamo ad un Presidente del Consiglio che non ha mai sentito il dovere di essere presente alla festa della Liberazione (Fini, almeno, ha partecipato alla celebrazione di Matteotti) mentre il suo partito ha proposto addirittura l´abolizione del 25 aprile come se quella data non celebrasse la fine della dittatura fascista, cioè un accadimento storico, come se la storia italiana cominciasse nel 1994 con Berlusconi.

Ecco il contro-argomento per Galli Della Loggia. Nel nostro Paese c´è stato un cambio di egemonia culturale che è sotto gli occhi di chi non è ideologicamente accecato. E l´avvento di questa pseudocultura "rivoluzionaria" di una destra populista e moderna insieme, è stato possibile per l´opera costante di destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali che il revisionismo ha fatto in questi anni.

Sia chiaro: il revisionismo storico ha operato per fini propri, liberamente, senza alcun legame con questa destra berlusconiana. Ma è un fatto che la polemica sull´egemonia della sinistra arriva fin qui, è la cornice che ha fatto saltare il quadro repubblicano precedente e che oggi inquadra coerentemente - ecco il punto - il paesaggio berlusconiano. Solo così si spiega come la nuova destra si senta culturalmente legittimata, anzi revanscista, anche perché il pedagogismo che i revisionisti hanno esercitato (con fondate ragioni) ed esercitano a sinistra è completamente muto e paralizzato a destra.

Come se la destra italiana ? con il postfascismo appena sdoganato, la Lega che fatica a trattenere pulsioni o almeno espressioni razziste, Forza Italia ancora aliena alle istituzioni che guida e allo Stato che governa ? avesse già compiuto tutto il suo cammino con l´apparizione di Berlusconi agli italiani nel ´94. Questo strabismo, in realtà, è ideologismo. È un´operazione politica, quell´"ossessione" contro la sinistra denunciata da Scalfari. Perché se è giusto che la sinistra faccia i conti con la storia tragica del comunismo (visto che in Italia ne è fuoriuscita dopo la caduta del Muro, non prima) non si capisce come mai per certi intellettuali la destra operi invece nel secolo, fuori dalla storia e dai suoi rendiconti, come il ´900 che in Italia finisce da una parte sola, e si chiude zoppicando.

Eppure ci sarebbero molte domande da fare a questa destra anomala d´Italia, oggi che comanda, detiene il potere e costruisce una nuova egemonia di valori e di disvalori, e soprattutto di interessi. Ma i revisionisti se ne lavano le mani. Come Ponzio Pilato: non a caso duemila anni fa lo chiamavano proprio così: l´Egemone.

Lettera al Direttore

Eugenio Scalfari

11 agosto 2004

C aro direttore, la staffetta organizzata dal Corriere della Sera sul tema dell'epistolario Calvino-de' Giorgi e sull'egemonia culturale della sinistra, al suo terzo passaggio del testimone peggiora visibilmente di qualità. Paolo Di Stefano aveva dato conto di quell'epistolario intravisto dal buco della serratura con rischiosa destrezza di cronista condendolo di considerazioni più o meno appropriate; Ernesto Galli della Loggia ne aveva tratto spunto per riproporre l'ennesima puntata sul soffocante monopolio della sinistra sulla cultura italiana durante il primo cinquantennio repubblicano. Ieri è toccato ad Angelo Panebianco di rispondere ad alcune osservazioni da me sollevate, adottando la tecnica di mandare la palla in tribuna, cioè di trarsi d'impaccio parlando d'altro senza rispondere nel merito.

Avevo contestato al della Loggia una circostanza non oppugnabile in punto di fatto: nel cinquantennio repubblicano (che in realtà è ormai quasi un sessantennio) tutti gli strumenti e le infrastrutture culturali sono state possedute e controllate da gruppi e persone fieramente avversari della sinistra. Il sistema televisivo e radiofonico, la stampa d'informazione e quella d'intrattenimento, le case editrici, la produzione e distribuzione cinematografica, hanno avuto proprietari e gestori di marca democristiana e/o moderata con qualche rara eccezione di ispirazione liberale che conduceva vita grama e pressoché solitaria. La sinistra propriamente detta disponeva d'un paio di giornali di partito diffusi tra i suoi militanti e ovviamente privi di pubblicità.

L'egemonia culturale può essere di due tipi: c'è quella imposta o indotta dal possesso dell'"hardware", cioè delle infrastrutture e dei mezzi finanziari a disposizione; e c'è quella guadagnata con l'inventiva e le qualità del "software" cioè delle idee e della libera creazione di prodotti competitivi.

Ne consegue - dicevo contestando le tesi del della Loggia - che non possedendo né controllando gli strumenti culturali e le relative infrastrutture, l'eventuale egemonia della sinistra da altro non sarebbe derivata che dalla qualità dei prodotti culturali dovuti alla libera creatività di artisti, letterati, registi, giornalisti, che hanno lavorato in piena libertà conquistando e affezionando lettori e ascoltatori liberissimi a loro volta di dirigere altrove le loro scelte quando quelle effettuate non avessero più appagato i loro gusti.

A queste mie osservazioni di ovvio buonsenso e di non oppugnabile verità di fatto, il Panebianco non ha dato risposta alcuna, limitandosi a ribadire che quella famigerata e soffocante egemonia c'è invece stata ed ha strozzato le libere scelte del pubblico. Con una digressione finale di cui non so se ringraziarlo o riderne, ha poi sostenuto che Repubblica ha guidato di fatto la sinistra italiana e io personalmente ho preso il posto nel ruolo di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.

Quale sia il legame tra questi farnetichi e l'epistolario Calvino-de' Giorgi lascio ai lettori di giudicare e mi accomiato da un tema sul quale non mi pare ci sia altro da aggiungere. Se non questo: con contraddittori della forza di Panebianco e di della Loggia qualunque imbrattacarte può aspirare a scalare le vette dell'egemonia culturale senza soverchi meriti né bisogno di guardie rosse al proprio servizio.

Che vuol dire egemonia?

Nessuno poteva ragionevolmente pretendere che Silvio Berlusconi, da capo della maggioranza e del governo, facesse "motu proprio" quello che il centrosinistra non era riuscito a imporgli quando lui era all´opposizione. E cioè, scegliere tra gli affari e la politica, cedere la sua azienda o quantomeno separarne effettivamente la proprietà dalla gestione. Ma era lecito sperare che il presidente del Consiglio, mantenendo l´impegno assunto in campagna elettorale di risolvere il conflitto di interessi entro i «primi cento giorni», evitasse di favorire nel frattempo le sue reti televisive consolidando e ampliando il suo strapotere mediatico per arricchirsi ulteriormente, a danno di tutti i concorrenti e ancor più del pluralismo dell´informazione.

Oggi, dopo ben 1153 giorni di governo o di malgoverno, il centrodestra si ricorda finalmente di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Anzi, quando sono stati lasciati volontariamente scappare. Basti dire che il nostro beneamato premier, se questa legge-burla fosse stata approvata prima, non avrebbe potuto firmare il cosiddetto "decreto salva-reti" che gli ha consentito di sottrarre Retequattro al trasferimento sul satellite, disposto dalla legge antitrust e avallato dalla Corte costituzionale. Per quanto inadeguata e insufficiente, la burla in forma legislativa che porta il nome del ministro Frattini non avrebbe permesso al presidente del Consiglio e al suo governo neppure di presentare quell´altra legge-vergogna che reca la firma del ministro Gasparri.

Più che risolvere il conflitto di interessi, in realtà questo tardivo provvedimento lo legalizza: nel senso che conferisce una legittimità di facciata a una macroscopica e insanabile anomalia. Qui non si tratta, infatti, di proprietà private in senso stretto; né soltanto di beni materiali o immateriali, imprese, patrimoni immobiliari o finanziari. Nel caso specifico di Berlusconi, si parla di concessioni pubbliche, rilasciate temporaneamente dallo Stato su un bene collettivo come l´etere. E dunque, il presidente del Consiglio si ritrova nell´assurda situazione di essere controparte di se stesso, concedente e concessionario, locatore e locatario, padrone di casa (pro tempore, s´intende) e inquilino: tant´è che l´anno prossimo, quando scadranno le concessioni televisive assegnate nel ´99, lui o comunque il suo ministro delle Comunicazioni dovrà trattare le condizioni del rinnovo con i dirigenti in carica di Mediaset, dipendenti a tempo pieno del medesimo Berlusconi.

Sì, adesso legge-beffa di Frattini proibisce ai membri del governo di fare alcunché per favorire le proprie aziende. Ma che altro mai potrebbe fare il presidente del Consiglio in questo senso? Chiudere definitivamente la Rai? Impossessarsi di tutte le frequenze, analogiche e digitali, a disposizione? Il problema, piuttosto, è un altro: quello di impedire alle sue reti televisive di favorire lui, la sua maggioranza e il suo governo, com´è avvenuto finora. E magari, di evitare che il premier continui ad agitare il "manganello mediatico" contro l´opposizione e anche contro i partners riottosi, come ha fatto ancora nei giorni scorsi con il povero Follini.

Perfino la proprietà e la presidenza del Milan potrà tenersi ora Berlusconi, in forza di questo raggiro parlamentare che farà ridere il mondo del calcio e non solo quello. Una legge-barzelletta che non gioverà certamente alla sua immagine né tantomeno alla credibilità internazionale dell´Italia, sul piano politico ed economico prima che sul piano sportivo. Il vicepresidente rossonero continuerà tranquillamente a fare il presidente della Lega calcio. E il presidente del Consiglio nominerà il presidente dell´Authority che deve controllare i suoi atti e, direttamente o indirettamente, sceglierà anche il presidente della Rai che è la principale concorrente della sua azienda televisiva. Ciascuno può giudicare liberamente e magari ricordarsene alle prossime elezioni.

Quando una quindicina d´anni fa, prima ancora che fosse smantellato il muro di Berlino, le ideologie caddero e si infransero, le tanto evocate classi e le tanto celebrate masse uscirono di scena lasciando libero campo all´emergere dell´individuo e alla teorizzazione dell´individualismo, qualcuno si preoccupò. Si preoccupò dell´avvento del pensiero unico. Si preoccupò delle sorti del liberalismo e della democrazia. Si preoccupò della volubilità della folla, una summa occasionale di individui, privi di rapporti consapevoli tra loro e tenuti insieme da un "transfert" che avvince ciascuno di loro ad un punto di riferimento esterno, ad un capo, ad una stella filante che ne suscita le emotività e le guida laddove i suoi interessi e/o le sue visioni lo portano.

La folla e il capo. Quasi sempre anche il capo soggiace ad un transfert di natura narcisistica, si invaghisce di se stesso, sviluppa un rapporto ipertrofico con il proprio io. Fenomeni del genere si sono più volte ripetuti nel corso dei secoli. Anche nel Novecento tutte le volte che, al di sotto della crosta ideologica, si è materializzata l´immagine del capo carismatico e l´auctoritas ha ceduto il posto al culto della personalità.

L´esistenza di solide democrazie liberali ha impedito che le aberrazioni ideologiche e il totalitarismo del capo dilagassero; ha fatto argine, contrastando e infine sconfiggendo quella collettiva rinuncia alla libertà, all´eguaglianza, alla critica del giudizio.

Ma poi il male scacciato dalla porta è in parte rientrato dalla finestra, sia pure come farsa al posto della tragedia. Ed ora è con questa farsa che siamo alle prese. Democrazie guidate da opinioni pubbliche fragilissime, soggette all´impatto con tecnologie estremamente sofisticate e possedute da poche mani, usate con spregiudicata e spesso feroce determinazione.

Il terrorismo è nato in questo contesto. L´antiterrorismo crociato e fanatizzato idem. Si somigliano e si alimentano vicendevolmente. La democrazia è il loro comune nemico.

Per fortuna la cultura della libertà e le istituzioni della democrazia sono ancora largamente vigilanti e operanti. Dobbiamo, tutti quelli che sentono la loro appartenenza a questi ideali, essere consapevoli che siamo ad un punto importante di questo confronto planetario. Dobbiamo investire tutte le energie intellettuali delle quali disponiamo con razionalità e impegno civile. Non dobbiamo cedere allo sconforto che spesso ci prende, alla tentazione di assentarci di fronte alla stupidità montante e di isolarci nella solitaria testimonianza.

Questo è il momento dell´impegno e della passione civile, non dello sberleffo e del motteggio ai bordi del campo. Questo è il momento delle scelte, ponderate ma nell´interesse della società in cui viviamo, europea e italiana.

* * *

Il quadro dei rapporti interatlantici tra Usa ed Europa ha registrato in questi giorni una serie di modifiche e di importanti accelerazioni. La celebrazione dello sbarco in Normandia del 6 giugno del ?44, presenti su quelle spiagge tutti coloro che parteciparono a quella battaglia epocale di sessant´anni fa, da una parte e dall´altra del fronte di allora. La risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza dell´Onu sulla situazione del dopoguerra iracheno. La riunione quasi simultanea del Gruppo degli Otto a Sea Island.

Si tratta di eventi complessi che si prestano a essere variamente interpretati e difformemente raccontati. Sicuramente sono eventi strettamente interdipendenti. Sicuramente i rapporti interatlantici ne sono usciti migliorati. Una parvenza di autorità dell´Onu è stata recuperata. Il peso del tandem francotedesco come punto di gravità dell´Europa è stato rafforzato ed esplicitamente riconosciuto da Bush e dal governo Usa.

Direi che su questi esiti non c´è discussione: sono comunemente riconosciuti da tutti. Resta la domanda su chi abbia mutato atteggiamento, domanda non oziosa poiché può fornire indicazioni sull´evolversi della situazione nel prossimo futuro.

Bush doveva preparare una credibile strategia per uscire dalla trappola irachena: strategia indispensabile se vuole riguadagnare il consenso necessario per il suo secondo mandato presidenziale (prossimo novembre). Aveva bisogno dell´avallo del Consiglio di sicurezza, cioè di quelle potenze che si erano opposte alla guerra preventiva e solitaria degli angloamericani contro l´Iraq e alle non previste (da loro) conseguenze che ne sarebbero derivate.

A questo scopo Bush ha partecipato alla celebrazione del D-day in Normandia. Citerò il giudizio di un osservatore lucido e non partigiano che sintetizza icasticamente quanto è accaduto in quell´occasione (Sergio Romano sul Corriere della Sera del 7): «Dietro il sipario della retorica si sono svolti due eventi diversi: uno spettacolo sul proscenio in cui l´Europa ringraziava l´America per la sua generosità, e un altro nelle quinte in cui l´America chiedeva un prezioso aiuto politico ai rappresentanti di quei paesi che sessant´anni fa ha combattuto o liberato: Francia, Germania, Russia (all´Italia non aveva da chiedere nulla se non la continuazione di una presenza militare che Berlusconi non è comunque in grado di negargli)».

Così Sergio Romano, con il giudizio del quale interamente concordo.

* * *

Che cosa ha concesso Bush e che cosa ha ottenuto dalle potenze sopracitate? Bush ha concesso la rinuncia alle guerre preventive e solitarie; il riconoscimento del ruolo del Consiglio di sicurezza dell´Onu come luogo di mediazione e di legalizzazione dei conflitti internazionali; un calendario di scadenze per il trasferimento di sovranità ai «poteri forti» iracheni; una data limite nella permanenza delle truppe della Coalizione in Iraq (dicembre 2005); una conferenza internazionale sul riassetto dell´intera regione mesopotamica.

Bush ha ottenuto: la risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza che legalizza il governo transitorio di Bagdad; la presenza dell´Onu come consulente del predetto governo per la redazione di una legge elettorale e per l´effettuazione delle elezioni politiche da tenersi entro il gennaio 2005; il potere della Coalizione di gestire - d´accordo col governo transitorio iracheno - la sicurezza del Paese.

Inutile aggiungere che il manto dell´Onu legalizza un governo transitorio i cui componenti sono stati indicati e/o risultano graditi all´Amministrazione Usa e ai "poteri forti" iracheni che si riassumono nel nome dell´ayatollah Al Sistani, capo religioso dei moderati sciiti, ispirati a loro volta dalle autorità religiose iraniane.

Al lato di queste reciproche concessioni la Germania ha ottenuto l´appoggio Usa alla sua richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, dove entrerà anche il Giappone.

È stata una svolta? Per certi versi sicuramente sì. Per chi aveva subordinato la presenza militare in Iraq a un ruolo dirigente politico e militare dell´Onu, sicuramente no. Ciascuno si regoli come crederà opportuno, ma i fatti e i dossier dicono questo e non altro.

* * *

In aggiunta a queste vicende di portata internazionale la vigilia elettorale italiana ne ha registrata una più domestica ma carica di emotività in parte reale e in parte artificialmente eccitata: il rientro in patria dei tre ostaggi sequestrati nei sobborghi di Bagdad dopo cinquantasei giorni di prigionia.

Tralascio le modalità di quella liberazione, ancora largamente ignote. Il senso di sollievo e di gioia per essa è stato comunque unanime né poteva essere altrimenti.

Due circostanze comunque risultano chiare: sono tornati sani e salvi e il come importa poco; il loro ritorno ha avuto come effetto consequenziale la totale occupazione del sistema mediatico da parte di Berlusconi e, in misura minore ma significativa, di Gianfranco Fini.

Non sappiamo (lo sapremo domenica sera) se questa occupazione totalitaria avrà ripercussioni rilevanti sul voto di domani. Certo da parte di chi detiene il potere, tutto è stato fatto affinché quel rientro interferisse sul voto. In un´opinione pubblica volatile è possibile che qualche effetto vi sia.

Del resto Berlusconi sa che sta giocando una decisiva partita e perciò non bada ai mezzi. Vale sempre di più la massima che il mezzo è il messaggio.

Quando ci furono diciannove nostri militari uccisi a Nassiriya e quando, poco dopo, ancora un altro militare italiano morì nello scontro con le milizie di Al Sadr, il sistema mediatico cavalcò quei luttuosi avvenimenti per trarne vantaggio per il governo. Ora che gli ostaggi sono rientrati vivi e indenni l´uso in favore del governo è stato ancor più impudico. Che tornino morti o che tornino vivi, il mezzo mediatico piega il messaggio alle sue esigenze.

Questo è accaduto e continuerà ad accadere. Resta da capire quanti siano gli italiani consapevoli di questa realtà e quale sarà nelle urne la loro risposta.

* * *

Una risposta importante è intanto venuta dalla Gran Bretagna dove, insieme alle europee, si sono svolte elezioni amministrative in tutto il paese i cui risultati sono già noti. Il partito di Tony Blair ha subìto una cocente sconfitta che lo ha fatto scendere non solo al di sotto dei conservatori ma perfino dei liberali, da sempre partito di minoranza largamente indietro rispetto alle due formazioni maggiori.

Nel complesso dei venticinque paesi che voteranno domani sembra delinearsi una maggioranza di centrodestra che in parte accentua il peso degli Stati nazionali sulla visione federale dell´Europa e in parte esprime pulsioni reazionarie e populiste anti-europee.

Gli elettori italiani hanno dunque una doppia responsabilità: esprimere un voto utile sia per l´assetto federale dell´Europa sia per arginare la deriva della democrazia verso approdi dilettanteschi e avventurosi.

Auguri a tutti coloro che prenderanno su di sé questa doppia responsabilità.

Hanno ben ragione le giornaliste e le scrittrici del gruppo di Controparola che hanno firmato un appello di solidarietà a Tina Anselmi insultata con astio antico nella voce a lei dedicata del dizionario «Italiane» edito dalla presidenza del Consiglio e dal ministro per le Pari Opportunità. E hanno ben ragione le partigiane dell’Anpi che hanno duramente criticato le scelte di molti dei 247 ritratti femminili. «A queste donne tutti noi dobbiamo dire comunque grazie», scrive il ministro Stefania Prestigiacomo nella presentazione dei tre volumi. Anche a Rachele Mussolini, alla Petacci e a Luisa Ferida, l’attrice amante di Osvaldo Valenti, l’attore che faceva parte della banda Koch? Con sadico gusto assisteva anch’essa agli interrogatori dei torturati nella villa Triste di via Paolo Uccello a Milano. Mentre gli arrestati subivano atroci torture giocava davanti a loro con un cane lupo, lo faceva rizzare sulle zampe e gli dava per premio delle fette di prosciutto.

L’hanno raccontato le vittime sopravvissute e uno di loro, Mino Micheli, un partigiano socialista, nel ricordare quel passato, scoppiò a piangere durante le riprese di un documentario televisivo della Rai, «La repubblica di Salò», 1973.

Ma è Tina Anselmi, in questo dizionario, il vero test del tempo presente. Vincenzo Vasile ha già analizzato su l’Unità quelle paginette scritte da Pialuisa Bianco. La quale usa tutto il suo odio mascherato per tentare di ferire e di distruggere Tina Anselmi, donna coraggiosa, seria, intelligente.

«Ragazzina della Resistenza», scrive. Che per lei dev’essere un sommo insulto. (Fu una giovanissima staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti e del comandante regionale del Corpo volontario della libertà del Veneto). «Partigiana ciellenistica e consociativa». (Non sa che cosa fu la lotta partigiana. Le pratiche consociative arrivano decenni dopo. Anche il linguaggio è sbagliato).

Ma è sulla P2 - Tina Anselmi è stata dal 1981 al 1984, tra l’ottava e la nona legislatura, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 - che la scrivente distilla tutto il suo rozzo fiele. Tina Anselmi, nella sua vita politica, non si è occupata soltanto della loggia. Un dizionario dovrebbe essere completo e onesto. Il ministro Prestigiacomo avrà senz’altro letto il saggio di Virginia Wolf sull’arte della biografia. Tina Anselmi ha dedicato tutta la vita ai destini delle donne: nella scuola - laureata in lettere ha insegnato nelle scuole elementari - nel sindacato, nel movimento femminile della Dc, in Parlamento, deputato per sei legislature, ministro della Sanità, ministro del Lavoro, si deve a lei la legge sulle pari opportunità.

Ma quel che conta, per chi scrive la sua voce nel dizionario è soltanto la P2. La colpa incancellabile. I governanti sconnessi della destra che condonano e amnistiano ogni cosa, soprattutto se stessi, e hanno il vizio della dimenticanza, non scordano invece i nodi fondamentali del malaffare nazionale. La P2 è uno di questi. Tina Anselmi, secondo la scrivente, è «la Giovanna d’Arco che avrebbe dovuto trafiggere i mostri degli anni Ottanta». Tina Anselmi è un’espressione del «cattocomunismo», un’altra ossessione. Ecco come la biografia conclude il suo testo: «Era rimasto imprevedibile, e straordinario, che la furbizia contadina della presidente divenisse il controverso modello della futura demonologia politica nazionale, distruttiva e futile. I 120 volumi degli atti della commissione che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli della Anselmi’s List (che finezza!, ndr) infatti cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi».

Dove sono finite le «coordinate del rigore scientifico» reclamizzate dal ministro? Sarà utile rinverdire qualche notizia sulla P2. Gli allora giudizi istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone arrivano alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sull’assassinio ordinato da Sindona dell’avvocato Giorgio Ambrosoli a Milano, la notte dell’11 luglio 1979 e sulle minacce ricevute da Enrico Cuccia. Sindona, quell’estate, è arrivato nascostamente in Sicilia da New York e si dice vittima di un sequestro. Indagando su quel finto sequestro, Colombo e Turone scoprono un medico, Joseph Miceli Crimi, che ammette di aver ferito Sindona a una gamba dopo avergli praticato l’anestesia locale (per dar credito al finto sequestro). Nell’ottobre 1980 confessa di avere incontrato Gelli più volte durante quell’estate. Il 17 marzo 1980 avviene la famosa perquisizione in quattro posti differenti. Alla Giole, la ditta di Gelli ad Arezzo, i finanzieri di Milano scoprono le carte.

Svelano l’esistenza di un’associazione segreta in cui sono coinvolti tre ministri della Repubblica, il capo di stato maggiore della Difesa, i capi dei servizi segreti, 24 generali e ammiragli, 5 generali della Finanza, compreso il comandante, parlamentari (esclusi i comunisti, i radicali, il Pdup), imprenditori, il direttore del Corriere della Sera, il direttore del Tg1, banchieri, 18 magistrati. Non è il governo Forlani, che si dimetterà, a rendere pubbliche le liste, ma Francesco De Martino, presidente della commissione d’inchiesta sul caso Sindona.

È l’immondezzaio della Repubblica. La P2 ha gestito il caso Sindona con la mafia; è proprietaria del Banco Ambrosiano e controlla il Corriere della Sera; ha rapporti con la banda della Magliana e con i poteri criminali; è responsabile, tramite suoi affiliati, di gravi depistaggi sulla strage di Bologna del 1980 e sulla strage di Peteano. Ha usato influenza sul caso Moro, massicciamente presente nel comitato di crisi del Viminale. Scrive (ahimé) Tina Anselmi nella sua relazione sulla loggia: «Ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».

Davvero la Anselmi’s List cacciò «streghe e acchiappò fantasmi?» Davvero «stroncò Licio Gelli e i suoi amici?» Gelli sta benissimo nella sua villa di Arezzo. I suoi amici sono al governo. Il presidente del Consiglio Berlusconi aveva la tessera n. 1816 ed era affiliato alla P2 dal 26 gennaio 1978; il suo assistente Fabrizio Cicchitto aveva la tessera n. 2232 e si era affiliato un po’ più tardi, il 12 dicembre 1980. Le cose vanno a gonfie vele, come risulta da una recente intervista del maestro venerabile a la Repubblica. Riceve i postulanti tre volte alla settimana, a Pistoia, a Montecatini, a Roma. È soddisfatto. Il suo Piano di rinascita democratica ha fatto e fa da linea programmatica al governo.

Il capitalismo come fatto di natura irresistibile. Su questo sembra che siamo tutti d'accordo. A parole siamo anche tutti democratici, così pieni di democrazia che torniamo alle guerre per portarla anche a coloro che non la vogliono, e che, come avverte il rais egiziano Mubarak, cadrebbero per la loro povertà e ignoranza in dittature feroci più delle attuali.

Ma vogliamo chiederci a che punto è la nostra democrazia, la democrazia che vorremmo regalare agli afgani e agli iracheni e poi all'universo mondo? È una democrazia che nelle regioni meridionali è ancora legata al patto mafioso fra borghesia del sottogoverno e cosche criminali. Le cosche criminali e il loro controllo del territorio sopravvivono perché garantiscono la continuità di una borghesia che campa e cresce sui ricatti economici ed elettorali. I criminali della lupara sono necessari come lo sono nei paesi autoritari le polizie politiche, le Gestapo, la Ghepeu.

L'apparato mafioso criminal-borghese non è cambiato: come sempre ha per punto di riferimento il partito di governo, ieri la Democrazia cristiana, oggi Forza Italia e come sempre promuove a turno un partito minore che deve simulare il gioco democratico: liberali, socialdemocratici, repubblicani, craxiani, persino radicali e ora i cattolici berlusconiani. Nulla di sostanzialmente mutato nel pendolo fra mafia che uccide e mafia che fa affari. Se questa, dalla unità di Italia, è la democrazia di gran parte del Meridione e del sistema creditizio nazionale nel perenne riciclo del denaro sporco della mafia in denaro pulito delle banche, se non sappiamo come vincerlo, come sostituirlo, così sia. Ma stiamo zitti, almeno quando ci impanchiamo a maestri di democrazia nel mondo.

Il capitalismo è fuori discussione, il neocolonialismo globale è una necessità, la legge del Condor, cioè dell'imperialismo che nasconde i suoi cadaveri è, in fondo, accettata dalla massa dei privilegiati, le utopie comuniste sono tragicamente fallite: ma qual è la società che si è formata sotto la guida illuminata di Reagan e della Thatcher? È la società in cui 2 mila vip milanesi e decine di migliaia nel resto di Italia corrono, al modico costo di 500 euro a testa, ai pranzi elettorali dell'onorevole Gianfranco Fini, l'ultimo super-trasformista passato dal neofascismo all'antifascismo nel deserto delle idee e delle tradizioni, secondo la regola berlusconiana che questo è il paese in cui si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto l'unica cosa che conta è avere il controllo del pubblico denaro da spartire con la nuova classe padrona delle tecniche e dei nuovi consumi.

Non è sempre andata così? La Milano da bere in cui i craxiani facevano un miliardo di debiti solo al ristorante Savini, la Milano di Mani pulite sono state surclassate dai crack Parmalat e Cirio e simili: un saccheggio dei risparmiatori che il presidente del Consiglio giudica normale.

La società civile degli italiani civili non è scomparsa, ma accetta l'anarchia, non si scandalizza se i governanti invitano i cittadini ricchi a frodare il Fisco. Se rifiutano la legge eguale per tutti, se in un tripudio di illegalità e di impudenza giungono a desiderare maggioranze assolute, dittature democratiche, controllo dei mezzi di comunicazione, di persuasione, fino alla immonda ipocrisia della beneficenza di fronte a cui quella della Belle époque sembra francescana. Fra le sue colpe il fascismo ebbe quella di sperperare il pubblico denaro nelle imprese coloniali quando c'erano provincie italiane in miseria e con amministrazioni arretrate. Ma la nuova classe non è da meno: sta distruggendo lo Stato sociale, e ai produttori ha sostituito i parassiti e i venditori di fumo.

Caro Augias, l'uso del tu confidenziale va sempre più diffondendosi. Fino a poco tempo fa quasi tutti si davano del lei. Ora si danno del tu i colleghi di lavoro e i coetanei, anche se vecchi, anche se si conoscono appena. Si danno del tu gli occasionali compagni di viaggio, i vicini di casa, i compagni di partito e i compagni di briscola, talora i clienti e i camerieri (più spesso il cliente al cameriere). Gli extracomunitari poi danno del tu a tutti, e non mi pare affatto offensivo perché così la lingua diventa più semplice e meno difficile da apprendere. Credo che succeda un po' per tutti gli idiomi in tutto il mondo e non ci trovo nulla di riprovevole. Ben vengano le semplificazioni. Non le scrivo per questo. L'altro giorno, in una triste occasione, ho rivisto alcuni vecchi amici d'infanzia. Mi hanno detto solo: «Ciao, tu come stai?». Una frase banale, ma ho sentito che il loro «tu» era diverso da quello degli altri: era carico di affetto. Dunque è proprio vero che si può dare del tu a tutti (i Romani lo davano all'imperatore, gli uomini lo danno ai santi). Noi potremmo tranquillamente darlo - faccio per dire - a un eventuale giudice imparruccato che ci sta giudicando. Tanto non tutti i «tu» sono uguali: alcuni possono portare con sé un distacco più severo di un compassatissimo «lei».

Giovanni Sessa

Magenta g.sessa@tin.it

È vero che ci si dà del tu con molta più facilità e frequenza d'una volta. Del resto si è sempre dato del tu non solo ai santi ma anche a Dio, unico modo possibile di rivolgersi alla divinità. Restano però le diversità tra le lingue. In francese il passaggio al tu offre resistenze psicologiche più forti che in italiano. In inglese l'unico pronome "you" assume connotato familiare solo quando è accompagnato dal nome proprio della persona cui ci si rivolge oppure da un'intonazione dalla quale si capisca che si è passati a un ipotetico tu. Un paragone vicino è con lo spagnolo dove il ricorso al tu è frequente come da noi. Del resto noi siamo gli unici a poter scegliere fra tre pronomi, se vogliamo considerare anche l'antiquato voi che il fascismo cercò invano di imporre e che oggi sopravvive in particolari rapporti e in poche zone soprattutto al Sud. I giovani il tu se lo sono sempre dato. Cassola: «E smettetela di darvi del lei esclamò Ilio. Mi fate ridere, con questo lei. Tra i giovani il lei non usa». Il lei può denotare affettazione, ma un tu precoce può creare imbarazzo dal momento che passare al tu dev'essere decisione che sgorghi da un sentimento di reciproca familiarità. Giosuè Carducci: «Ve n'ha, ve n'ha di questi lustrissimi novelli/sbicati su dà cenci, sorti da' caratelli,/ che la passano liscia co' poveri plebei:/ gente a la buona e semplice che non sa dar di Lei/ a quelli con cui prima andavano a braccetto,/ scherzando, cicalando fumando il sigaretto». Del lei ha fatto uso altezzoso e spesso ridicolo la piccola borghesia rimpannucciata che lo esigeva da coloro che riteneva "inferiori". Non so francamente se dobbiamo dolerci del dilagare del tu, ennesimo mutamento del nostro costume relazionale. Denota certo un ulteriore abbandono delle forme. Ma rispetto a quello che succede, in quanto ad abbandono delle forme, mi sembra con tutta franchezza il minore dei mali, ammesso che un male sia.

Dividere unendo, o unire dividendo: ancora una volta Silvio Berlusconi ha invaso lo spazio politico, con un´operazione che mira a essere formalmente impeccabile, ma che in realtà è insidiosa e strumentalizzatrice. Perché è vero che contro Bin Laden e il radicalismo islamico l´unione rapresenta un valore: se l´attacco terroristico globale è un´aggressione alla democrazia, allo stile di vita occidentale, alla cultura che tutti respiriamo, alla nostra stessa civiltà, allora ogni manifestazione unitaria o bipartisan è benvenuta. Anche, s´intende, la manifestazione contro il terrorismo lanciata da Leonardo Domenici, presidente dell´Anci e sindaco di Firenze.

Naturalmente occorre avere chiaro che manifestazioni di questo genere non servono a unire dal basso il popolo della sinistra e della destra: certi eventi accadono soltanto nella terribile condizione in cui si è trovata la Spagna dopo gli apocalittici attentati di Madrid. Servono piuttosto a unire le rappresentanze, i partiti, le élite, le leadership. A dimostrare pubblicamente l´unità di un paese minacciato, e a trasmettere un´immagine di reciproca solidarietà a tutta l´opinione pubblica.

Con l´intervista che esce oggi sul Foglio, il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, Berlusconi conduce una spericolata acrobazia in parte sui territori dell´ovvio, e in parte sui terreni scivolosi della manipolazione politica. Dire che è necessario un «patto democratico» per impedire «l´uso politico di parte» del terrorismo significa rivendicare con enfasi un´ovvietà. Si ha notizia in Italia di qualcuno, partito o uomo politico, che usa politicamente il terrorismo? C´è qualche soggetto nella politica italiana che scherza col fuoco? No, evidentemente. E allora che cosa vuole dire il premier quando sostiene che bisogna «escludere con una dichiarazione comune il terrorismo dall´ambito delle questioni su cui si svolge il conflitto ordinario della democrazia italiana»?

Non si capisce bene, a meno che non voglia dire che sul terrorismo occorre essere sempre d´accordo con il governo. Oppure, peggio, che c´è qualcuno, si immagini in quale settore politico, che la tentazione di sfruttare politicamente il terrorismo ce l´ha. Difatti Berlusconi aggiunge subito dopo che «la sinistra deve decidersi, uscire dall´ambiguità». Ora, che la sinistra abbia un atteggiamento variegato rispetto all´intervento unilaterale in Iraq, e che al suo interno le posizioni sulla missione "Antica Babilonia" siano le più diverse è un fatto: ma sostenere che esista e si manifesti un´ambiguità rispetto al fenomeno terroristico non è nemmeno un insulto. È una torsione tanto velenosa della realtà da risultare insostenibile per tutti coloro a cui è rivolta.

In realtà la posizione di Berlusconi, apparentemente brillante sul piano polemico (in sintesi: «non si può essere contro il terrorismo a giorni alterni») sembra fatta apposta per incenerire ogni idea bipartisan, sulle prossime manifestazioni pubbliche ma soprattutto sulla linea politica del nostro paese. Perché da un lato il capo del governo invita all´unità nazionale, alla solidarietà di tutto il Paese, e dall´altro attacca gli «equivoci» del centrosinistra, la «contraddizione profonda» che segna il campo a lui avverso. A suo dire c´è un´Italia della pace vera, quella «che scese in piazza il 10 novembre 2001 per solidarietà con gli americani colpiti da Bin Laden, quella che il 19 aprile del 2002 manifestò il proprio amore per Israele colpito dalle stragi di civili dell´Intifada del terrorismo suicida».

Questa eccellente prova linguistica di Berlusconi si riferisce alle iniziative pubbliche promosse dal Foglio. Ma a osservare da vicino le sue espressioni, il senso del discorso è che esistono due Italie, l´una affidabile, vicina agli amici americani, cosciente della sfida terroristica di Al Qaeda e serenamente decisa a reagire; e un´altra Italia inaffidabile, caratterizzata da un pacifismo talmente ideologico o rinunciatario da non essere credibile perfino sul piano della sua lealtà democratica.

L´ossimoro di Berlusconi, dividere per unire, o viceversa, sembra incomprensibile ma è comprensibilissimo. Oggi i governi che hanno sostenuto l´intervento in Iraq sembrano i prossimi destinatari dell´ondata di rancore che si riverserà su di loro, sulle «destre delle bugie», come è appena avvenuto alle elezioni spagnole. Per questa ragione il capo del governo ha bisogno di distinguere, di separare, di identificare con un sigillo interlocutori e nemici. Per suddividere le responsabilità, per alleggerire la scelta tragicamente futile del sostegno alla politica angloamericana, per attribuire alle pattuglie della cattiva sinistra il perdurare dell´opposizione alla presenza italiana sul suolo iracheno.

A occhio, l´intervista di Berlusconi è il frutto di una stagione precedente, inavvertitamente passata. È una volontà assertiva che si presenta con le caratteristiche affascinanti e bizzarre del fuori moda. In realtà, non stiamo giocando alla politica. In realtà siamo sotto tiro, l´ha detto proprio Berlusconi. In realtà, proprio per tutto questo ci vorrebbe una consapevolezza diversa, anziché il disincanto cinico e la manipolazione contro gli avversari politici. Ma la consapevolezza, cioè lo spirito bipartisan o repubblicano, una generosità politica di fondo, non la possiede Berlusconi come non l´hanno avuta Aznar e i suoi ministri. Questa volta è possibile che il calcolo di Berlusconi, la croce gettata addosso ai suoi oppositori, sia stato un azzardo. Se è così, gli rimbalzerà addosso molto presto, e potrebbe fargli molto più male del male che ha voluto infliggere ai suoi avversari

Di mercificazione del corpo femminile è lastricata la storia dell'umanità, ma la cultura - chiamiamola così - azzurra made in Italy riesce ancora una volta a scartare la medietà e a eccellere in stupidità e cinismo. Nella brillante proposta di imporre una tassa progressiva sul secondo aborto e sui successivi firmata dal senatore Gentile non c'è solo l'ennesimo attacco al welfare, al principio di uguaglianza, a una legge dello Stato confermata da un referendum popolare, al primato delle donne nella procreazione. C'è un'idea generale dei delitti e delle pene che merita una menzione speciale per la sua volgarità: abortire è un crimine, passi per la prima volta, ma se c'è la recidiva si paga, e si paga ogni volta di più. Partorirai con dolore, abortirai con moneta. La libertà femminile è servita. Non servono argomenti moderati contro questo colpo d'ala di volgarità e non servono cifre ragionevoli. Lo sappiamo noi e lo sanno Gentile e Sirchia: gli aborti calano, la contraccezione funziona, il problema resta soprattutto per le fasce sociali meno istruite e per le immigrate, e dunque non c'è da modificare la 194 ma semmai da migliorarne il funzionamento. Non è questo il punto, perché l'aborto non è una questione di contabilità, né criminologica né sociologica. Non è una piaga sociale e non è un delitto: è una disgrazia e un lutto, rimedio estremo a una gravidanza indesiderata, che a sua volta è un imprevisto e un lapsus. Provate a monetizzare l'inconscio, e dell'alzata d'ingegno di Gentile sentirete subito il suono stridulo e ridicolo.

Non ci sono le condizioni politiche per portarla avanti, dice ora Sirchia dopo essersi a sua volta coperto di ridicolo ammiccandole col suo solito spirito pedagogico militante, che gli fa dimenticare l'obbligo istituzionale di applicare le leggi prima di attaccarle che compete a un ministro. No che non ci sono, le condizioni politiche. Non solo perché nella stessa Casa delle libertà s'è alzato il fuoco di sbarramento, e nell'opposizione la barriera dei no è (quasi) compatta. Non ci sono, perché il ritornante refrain contro la 194 che ogni tanto qualcuno intona come un grammofono sfiatato si infrange ogni volta contro il muro dell'indifferenza femminile. Non passa, perché non allarma. Non allarma, perché un ritorno indietro, sul terreno dell'aborto, è per le donne, italiane e non, semplicemente impensabile. L'aborto non è un diritto acquisito: è una tessera irrinunciabile di quel mosaico interiorizzato di responsabilità che si chiama primato sulla maternità.

Di questo mosaico la soap opera politica attacca ora questo ora quel pezzo. Ci prova e ci riprova da lustri con l'aborto, c'è riuscita di recente con la legge contro la procreazione assistita: per poco, perché il referendum si occuperà di vanificarla, e di mettere in soffitta quell'idea dell'embrione-persona che accomuna i divieti sull'uso della provetta e le tasse sull'interruzione di gravidanza. Non c'è far west procreativo, non c'è far west abortivo, non ci sono donne da sorvegliare e punire. Prima la soap politica ne prende atto meno fiato spreca: e la cosa non riguarda solo gli estremismi azzurri. Riguarda anche gli opportunismi confessionali che ogni volta agitano i petali della Margherita, ora procurando voti alle norme contro la fecondazione artificiale, ora procurando ammiccamenti alla revisione della 194.

Per una strano gioco della sorte, il senatore Gentile (non nuovo a questa e altre boutade, compresa la proposta di conferire il nobel per la pace a Berlusconi) viene da Cosenza, la stessa città che nei giorni scorsi ha visto la sua sindaca rivendicare la propria decisione di mettere al mondo un figlio anche senza sostegno paterno, contro ogni ombra di ipocrisia sociale e politica. Ammettiamo per gioco che volesse rincorrerla sulla scena mediatica e sullo stesso terreno. Solo che da una parte c'è una donna che agisce in libertà per affermare il suo desiderio di diventare madre, dall'altra c'è un uomo che lavora di repressione per punire il desiderio di altre donne di non diventarlo. Scarti della differenza sessuale nella procreazione, scarti della differenza di stile nella politica. Il desiderio non ha prezzo, e monetizzarlo non paga.

Sui quotidiani italiani, ieri mattina, il numero degli ospiti annunciati alla solenne Notte delle Tre Tavole variava, e non di poco: da un minimo di trentatré a un massimo di quarantatré, a conferma di quanto sia complicato, dopo anni di monocrazia assoluta, imparare di nuovo a fare i conti con la piccola e festosa folla della politica "collegiale". Prima bastava saper contare fino a uno?

L´unico elemento di continuità tra passato, presente e futuro era la presenza di una sola donna, la socialista Chiara Moroni, spersa in mezzo a una foresta di cravatte, copertura involontaria di un maschilismo ottuso e irriducibile, vero elemento anti-europeo, anzi extra-europeo, dell´Italia politica. Per il resto, quantità e qualità degli invitati (tra i quali spiccava, ovviamente, il trionfante De Michelis, riassunto al Tavolo dei Tavoli, quello dei leader) facevano intendere che, effettivamente, il famoso teatrino della politica aveva ufficialmente incorporato il famoso Berlusconi, venuto a Roma per spazzarlo via e divenuto il primo nome in cartellone.

Leggendo quella lista di segretari e sottosegretari, di esperti e consulenti, e il mormorio su tattiche e pretattiche, e le possibili mosse e contromosse, veniva spontaneo pensare, con sbalordimento, alla scena politica italiana di appena poche settimane fa, con Lui ritratto e replicato fino allo sfinimento, e tutti gli altri, amici e nemici, ridotti a commentarne le gesta non avendone di proprie. E viene da chiedersi perché mai questo paese debba sempre passare, come si dice classicamente, da un estremo all´altro: dall´ascesa travolgente e paurosa, a furor di popolo, di un miliardario demagogo che proclama di schifare la politica, e intende rimpiazzarla tutta quanta con il suo sorriso facilone, alla vendetta tardiva ma feroce, quasi sadica, della politica che lo costringe a piegarsi alle sue regole peggiori, quelle di una contrattazione mai limpida, di trattative mai chiuse, di patti sempre spergiurabili.

Possibile che, in mezzo, nell´immenso spazio vuoto che separa il Berlusconi semiduce, ossesso mediatico, padrone di tutto, dal Berlusconi di adesso, ostaggio dei suoi alleati, il centrodestra non abbia trovato un decente metodo per riconoscergli la leadership, però senza consegnarglisi mani e piedi? Perché, per esempio, i partiti di Follini e Fini hanno sempre votato (sapendo di votarli) leggi e decreti platealmente cuciti sulla silhouette personale del premier, sottoscrivendone gli atti più arroganti (come l´assoggettamento della Rai, che solo oggi, a cose ormai fatte, Follini pone come questione di principio), salvo poi denunciare un eccesso di potere personale che essi per primi hanno alimentato? Se dei paletti dovevano essere piazzati, e non in nome delle poltrone ma della democrazia, o perlomeno della decenza istituzionale di fronte al paese, perché non piazzarne neanche mezzo quando si era ancora in tempo, quando la vittoria elettorale (collegiale) della Casa delle Libertà era ancora fresca, e quando già si cominciava a capire che l´immodestia e l´estremismo del premier cominciavano a disgustare non solo gli elettori del centro moderato, ma perfino una parte consistente del suo stesso elettorato? E se questo, come si dice, è un paese moderato, come è possibile che sia riuscito a inscenare, in poco più di un decennio, prima la decapitazione simbolica (non del tutto) di un´intera classe dirigente, con Mani Pulite, poi la svendita all´ingrosso dell´intera scena politica all´uomo più ricco del paese, infine, storia di adesso, la minacciata restaurazione della prima Repubblica forse non tal quale ? ci mancherebbe ? ma comunque simile, con partitini di pochi etti che riescono a ribaltare la bilancia, decisioni di ogni ordine e grado impossibili da prendere, intere politiche economiche che franano sulla prima clientela ostile?

Che strano paese moderato, quello dove nemmeno i moderati sono moderati? Non lo sono stati quando hanno accettato di fare solo da codazzo plaudente a Berlusconi (a meno che "pavido" sia un accettabile sinonimo di moderato), si dubita che possano esserlo adesso, nel momento fatale in cui la crisi del Re mette a dura prova la moderazione e la lungimiranza dei cortigiani, finalmente con le mani libere.

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