Titolo originale: The New American Dream Looks Familiar – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il new urbanism sta prendendo piede a St. Louis, con nuovi progetti che riecheggiano temi delle città tradizionali.
Dall’ex campagna di St. Charles all’affollato Brentwood Boulevard, fino al vecchio centro di Kirkwood, i costruttori fanno a gara ad adottare i principi new urbanism.
L’idea, abbozzata negli anni ’80 come alternativa allo sprawl suburbano, è diventata la moda del momento. E gli esperti che osservano queste trasformazioni affermano che la tendenza è in crescita, sia qui che a livello nazionale.
Il concetto generale è quello di capitalizzare quanto c’era di meglio nei quartieri tradizionali.
Pensare a spazi compatti, con case vicine le une alle altre e alle strade, con vicoli di servizio e parcheggi posti sul retro, marciapiedi alberati che portano verso parchi, negozi, chiese, biblioteche, scuole.
”Se solo la gente prendesse in considerazione quello che c’è nei loro vecchi quartieri, capirebbe” ci dice Marina Khoury, project manager dello studio Duany Plater-Zyberk & Co. di Miami.
Questo studio di architettura e urbanistica, noto come DPZ, è stato pioniere del concetto di new urbanism, e ha collaborato a tre progetti nella regione di St. Louis.
Ma gli esperti stanno ancora dibattendo su quanto davvero certi progetti col marchio new urbanism rafforzino il nucleo tradizionale dell’area regionale, e frenino lo sprawl.
A St. Louis e altrove, costruttori che si autodefiniscono new urbanists stanno strappando foreste e ricoprendo terre agricole, e ci costruiscono nuove strade e fognature per i propri progetti.
A Richmond Heights, un’impresa vuole demolire un vecchio quartiere, spostando gli abitanti, per fare spazio a un insediamento new urbanism progettato per attirare nuovi residenti.
Ci sono anche degli ibridi. WingHaven a O’Fallon, Missouri, ha un centro cittadino e altri elementi new urbanism. Ma nella stessa città ci sono anche sistemi di strade a cul-de-sac, case di stile suburbano, e altre caratteristiche che i puristi aborriscono.
”Qualche volta si vedono progetti dove si è fatta metà della strada, usando alcuni elementi di new urbanism” dice Stephen Filmanowicz, portavoce del Congress for the New Urbanism a Chicago.
”Ma è comunque meglio del classico sprawl”, aggiunge. E anche se sta su spazi aperti consuma meno terreni, se la gente può andare a lavorare o a fare shopping a piedi ... fa parte dei nostri scopi”.
La vera questione
Due dei più grossi progetti in corso nell’area di St. Louis sono degli ibridi: i 600 ettari di WingHaven, della McEagle Development, con altri progetti da 150 per la vicina BaratHaven, o quello da un miliardo di dollari and su 900 ettari a Belleville.
La Tamar Properties sta realizzando la prima fase del quartiere di Belleville, Reunion, con alcune case in stile new urbanist vicino a un lago, con percorsi pedonali e ciclabili. Ma la maggior parte delle case sono di tipo classicamente suburbano.
New Town a St. Charles, su 320 ettari a nord della zona storica, è una faccenda diversa. L’ha progettata lo studio DPZ e la Whittaker Homes la sta costruendo come autentica comunità new urbanism.
”Non ci sono cul-de-sacs” ci diceil vice presidente della Whittaker, Tim Busse. “Mescoliamo le abitazioni per i vari livelli di reddito, e il 90 per cento degli abitanti starà ad un raggio di cinque minuti a piedi da un centro servizi di quartiere.
Come Seaside, Florida, il celebrato modello di centro new urbanism progettato da DPZ nei primi anni ’80, anche New Town a St. Charles si sta realizzando su aree libere.
E come Seaside, non è progettata per essere più densa dei soliti suburbi. Le case sono raccolte in gruppi attorno a centri di tipo urbano con negozi, uffici e servizi.
DPZ ha anche dotato New Town di un sistema di 95 laghi e canali a contenere lo scolo dell’acqua piovana, ed essere un carattere distintivo della zona. Alcune case si affacciano sull’acqua, con moli per barche in stile veneziano. Tutte le case, con prezzi da circa 100.000 a 500.000 dollari, sono al massimo ad una distanza di due isolati da un lago o da un canale.
Khoury della DPZ afferma che New Town è di gran lunga più efficiente del solito quartiere suburbano, che ha insediamenti separati, e poi centri per il commercio, e per gli uffici, e obbliga la gente ad usare l’auto per andare ovunque.
Busse ci dice che lui e il suo presidente alla Whittaker, Greg Whittaker, hanno discusso di come tentare un progetto del genere per anni.
”Ammiravamo Seaside” dice “e abbiamo avuto la sensazione che i tempi fossero a St. Charles, particolarmente coi prezzi dei terreni che andavano alle stelle ... Volevamo anche costruire qualcosa di diverso e più sostenibile”.
Busse ci racconta che quasi tutte le case del primo lotto (400 su 600) sono vendute. E il gruppo degli acquirenti è misto, e comprende “gente da Soulard e University City, che non pensavano avrebbero mai attraversato il fiume (per entrare nella St. Charles County) a comprarsi una nuova casa.
In-Fill
Nel frattempo, altri costruttori hanno portato il new urbanism ai vecchi quartieri. Stanno riempiendo spazi in aree degradate o in zone vuote, aggiungendo una varietà di nuove case, negozi, ristoranti e altre amenità.
L’obiettivo – un elemento importante per i nuovi urbanisti – è quello di rivitalizzare i vecchi quartieri.
”Non siamo contro l’edificazione in aree nuove, ma penso che in generale i nostri membri siano più soddisfatti di praticare lo infill” nei vecchi quartieri, ci dice John Norquist, un ex sindaco di Milwaukee, ora presidente del Congress for the New Urbanism.
La MLP Investments ha quattro progetti di questo tipo, in corso o pronti a partire, per l’area di St. Louis.
Chris Ho, vice presidente di MLP per il settore costruzioni, dice che il primo esempio di intervento è Station Plaza, nel cuore di Kirkwood. Lavorando con architetti di Suttle Mindlin a St. Louis, e con la Parker Associates di Tulsa, Oklahoma, la MLP sta costruendo 215 condomini ad appartamenti, 24 townhouses, negozi al livello strada e un ristortante affacciato su una piazza. I garages sono nascosti sul retro. Il quartiere si sta realizzando in una zona morta: il sito di un ex punto vendita Target, di fronte a City Hall.
A Florissant, MLP prevede altre abitazioni in stile new urbanism e negozi al pianterreno per rivitalizzare la storica arteria commerciale. A Creve Coeur, una cittadina senza un vero e proprio centro di tipo urbano, la MLP sta costruendo King's Landing. Situato ad un isolato dal municipio, avrà appartamenti con negozi al pianterreno. I marciapiedi metteranno in collegamento con la zona del municipio e gli altri negozi e ristoranti della zona.
A Brentwood, MLP pensa ad un insediamento più grosso, nella parzialmente abbandonata Hanley Industrial Court. Ci saranno “veri isolati urbani” dice Chris Ho, “residenze e uffici sopra negozi, un’arteria principale, ristoranti, piazze”. Sono previsti una multisala a diciotto schermi e altri negozi in un secondo tempo. Ho aggiunge che sta per arrivare una stazione del MetroLink, in modo che gli abitati possano “saltar su e andare a Clayton per lavoro, all’aeroporto, in centro”
Nella vicina Richmond Heights, la THF Realty ha proposto di rimpiazzare circa 200 case con un quartiere di abitazioni più alte, negozi, un albergo e uffici. È progettato in stile new urbanism attorno a un percorso attrezzato a verde, con vicoli di servizio dietro alle abitazioni. La municipalità ha chiesto ad altri costruttori di presentare proposte alternative.
Norquist, del Congress for the New Urbanism, dice che l’idea di abbattere un quartiere per realizzarne uno nuovo deve essere valutata attentamente, “specialmente visto che St. Louis ha già avuto abbondantemente la sua parte di demolizioni, di case di valore”. La demolizione “sembra controproducente ... ma potrebbe non esserlo se l’insediamento new urbanist aggiungesse valore alla città”.
Un progetto a sé stante
La Pace Properties Inc. sta lavorando a un progetto isolato, a Richmond Heights, di fronte alla St. Louis Galleria. Nella prima fase, Boulevard-St. Louis avrà un magazzino Crate & Barrel, Bombay Co. e altri negozi, un garage parcheggio e 74 appartamenti. Il terreno sta lungo Brentwood Boulevard, ma il progetto sarà affacciato verso l’interno, con una strada commerciale, una piazza, fontane e alberature.
Rob Sherwood, direttore operativo della Pace Properties, afferma che le corsie laterali aggiunte lungo Brentwood e la Galleria Parkway miglioreranno il traffico.Più tardi si aggiungeranno anche uffici, altri appartamenti, e forse un albergo.
Sherwood dice che la Pace segue i principi new urbanism. Questo insediamento dovrebbe rivitalizzare anche altri quartieri, ed è “un modo efficiente di utilizzare terreni di valore”.
John Hoal, professore alla School of Architecture della Washington University, ci dice che il progetto della Pace sembra più un insediamento commerciale con componenti residenziali, che un vero quartiere new urbanism.
Ma anche così “Stanno realizzando una ottima miscela di funzioni, un ottimo ambiente stradale ... e bisogna rispettare i costruttori che seguono qualcuno dei principi new urbanism”.
Caratteristiche del NEW URBANISM:
Nota: qui il testo originale (con un utile elenco delle imprese costruttrici sedicenti new urbanist) (fb)
Dato che si tratta di un testo piuttosto lungo, chi fosse interessato alla fine troverà anche (per una volta) il file PDF della traduzione scaricabile direttamente da Eddyburg, oltre al solito link con la collocazione dell'originale al sito del Boston Globe (fb)
Titolo originale: Closed for Business. Energy Bill a special-interests triumph – traduzione di Fabrizio Bottini
WASHINGTON - Robert Congel ha grandi piani, e una visione chiara per il suo complesso commerciale nel nord dello stato di New York. Etichettato come il più grande mall del mondo, l’ancora da costruire DestiNY USA ospiterà 400 negozi di varie dimensioni, migliaia di stanze d’albergo, un parco di 30 ettari chiuso in un involucro di cristallo, e poi una parete di roccia e ghiaccio da scalare, o un teatro in grado di ospitare gli spettacoli di Broadway.
E se i suoi sostenitori nel Congresso troveranno il modo, il mega-mall sarà parzialmente finanziato dall’Energy Bill federale, che fornirà 100 milioni di dollari di denaro pubblico. La febbrile campagna di lobbying condotta da Congel paga i suoi dividendi a Capitol Hill. Quando i membri dell’assemblea legislativa lo scorso inverno hanno votato l’aumento dei prezzi della produzione di petrolio interna, hanno anche votato per aiutare Congel a costruire il suo mall gigante, attraverso le “obbligazioni verdi” - greenbonds - esentasse.
L’iniziativa dei greenbonds – chiamati così perché i progetti che finanziano dovrebbero essere energeticamente efficienti – è stata una delle numerose aggiunte cacciate dentro all’ energy bill da legislatori che si incontravano a porte chiuse. Questi provvedimenti non hanno sostenitori ufficiali, e non facevano parte della documentazione originale approvata da camera e Senato, ma sono state aggiunti più tardi da mani sconosciute, quando le 816 pagine del documento sono state redatte in riunione segreta.
Pensato per delineare un apolitica energetica nazionale per la prima volta in più di dieci anni, lo energy bill è diventato una cuccagna di finanziamenti per gli interessi legati alle imprese, dentro e fuori il campo energetico. Il progetto, fermo per una serie di manovre al Senato ma ancora in cima alle priorità legislative del Presidente Bush, prevede iniziative per incoraggiare la produzione di energia da fonti esistenti e nuove. Ma è anche diventato un simbolo, spesso quanto un elenco telefonico, del modo attuale di fare le leggi a Washington, dove la politica è indirizzata da chi ha soldi, potere, e accesso ad un gruppo relativamente ristetto di decisori.
Un’analisi condotta dal Boston Globe su migliaia di pagine delle pratiche di lobbying mostra che i vari soggetti con interessi consolidati nelle politiche energetiche hanno speso in attività di lobbying 387.830.286 dollari a Washington lo scorso anno. Hanno anche pagato decine di migliaia di dollari in contributi elettorali agli incaricati che hanno costruito il documento tra la Casa Bianca e Capitol Hill.
L’analisi del Globe dimostra che le grandi corporations e altri, comprese alcune Università, sono stati premiati dal progetto di legge attraverso riduzioni fiscali, progetti di costruzione, deroghe ai regolamenti che risparmieranno loro molto più di quanto non abbiano speso per rendere note al governo le proprie esigenze.
In alcuni casi, i beneficiari sono specifiche compagnie come Home Depot, che ha speso 240.000 dollari in lobbying nella speranza di guadagnarne decine di milioni in risparmi. Home Depot – il cui PAC ha contribuito il massimo di 5.000 dollari alla campagna di Bush del 2004, e i cui dipendenti ne hanno versati 226.400 a Bush e al Republican National Committee – è beneficiata da una sezione in due paragrafi del progetto di legge, che elimina le tariffe sui ventilatori da soffitto cinesi. Questa modifica farà risparmiare a Home Depot a ad altre compagnie un totale di 48 milioni, secondo i calcoli del bipartisan Joint Committee on Taxation.
Detto in altre parole, gruppi di imprese hanno investito milioni di dollari in poressioni per ottenere miliardi in finanziamenti governativi e in deregulation.
L’industria nucleare, che ha speso ben 71.405.955 in lobbying a Capitol Hill, avrà 7,37 miliardi fra tasse e progetti, compresi finanziamenti federali per costruire un impianto nucleare da un miliardo in Idaho. Questo impianto, che sarà il primo commissionato in decenni, avrà anche ripercussioni benefiche sull’industria dei carburanti all’idrogeno, dato che l’installazione nucleare dovrà produrli.
Parecchie grandi compagnie in campo energetico, che hanno speso decine di milioni in lobbying, hanno ottenuto una storica deregulation nel proprio campo, che toglierà di mezzo controlli che risalgono all’epoca della Depressione, su come spendono i propri soldi, e consentirà loro di diventare conglomerate – con poche possibilità di recupero per i piccoli investitori se gli investimenti speculativi delle compagnie andranno male.
I principali sostenitori di Bush guadagneranno profumatamente dall’ energy bill. Sessanta dei 400 cosiddetti Pioneers e Rangers – quelli che si sono impegnati a raccogliere rispettivamente almeno 100.000 o 200.dollari per sostenere la rielezione di Bush-Cheney – saranno beneficiati dalle riduzioni fiscali, dai sussidi, dal ridimensionamento di regole e controlli, secondo un calcolo del Sierra Club.
La Massey Energy del West Virginia – il cui direttore, James H. “Buck” Harless, è uno dei principali raccoglitori di fondi per Bush – avrà centinaia di milioni di dollari in prestiti garantiti per un impianto di gasificazione del carbone. Harless ha lavorato nella squadra per la trasformazione energetica del Presidente Bush, che ha preceduto la Energy Task Force del Vice President Dick Cheney, la quale a sua volta ha sviluppato il progetto centrale del progetto di legge a Capitol Hill.
”Il problema è che tutto si sta trasformando in un progetto di interessi particolari”, dice Charlie Coon, esperto in questioni energetiche alla Heritage Foundation, think tank conservatore. “Il problema di base, è che non risolverà il problema di fornire l’energia necessaria alle attività economiche, o perché la gente possa accendere la luce. Si sta trasformando tutto in una farsa”.
La costruzione del progetto di legge riflette il modo in cui sono condotti gli affari a Washington nel 2004. Coi Repubblicani che godono del controllo di entrambe le Camere, più la Casa Bianca, i leaders del Grand Old Party mettono insieme enormi programmi dietro porte chiuse, escludendo il partito di minoranza e schiacciando il dissenso da parte di Repubblicani moderati e lobbisti i cui programmi non coincidono con gli scopi del partito, a parere di membri di entrambi gli schieramenti e ex parlamentari.
E anche se altri progetti hanno avuto la loro parte di programmi privilegiati e distribuzione di risorse a varie imprese o gruppi di interesse, lo energy bill è considerato dai gruppi ambientalisti e dalle associazioni dei consumatori uno degli esempi più estremi di eccesso nella distribuzione ai privati.
”La cosa davvero sorprendente è come una combinazione di persone dell’industria energetica, del gas e petrolio, dei grandi servizi pubblici, del carbone, attraverso un’ampio raggio di decisioni politiche (che siano la Environmental Protection Agency o l’energy bill) ottengano letteralmente miliardi di dollari come pagamento in cambio di milioni di dollari” in contributi e spese di lobbying, afferma Mark Longabaugh, vice presidente anziano per le questioni pubbliche della League of ConservationVoters.
Il progetto di legge ha iniziato a definirsi dapprima come prodotto collaterale della task force sull’energia di Cheney, un comitato di funzionari di Washington che si incontrava in provato per redigere un documento di politica energetica nazionale, poco dopo che Bush era stato eletto.
Uno studio dello scorso anno dell’indipendente General Accounting Office ha rilevato che la task force sull’energia era informata da “interessi energetici” di tipo privato, principalmente imprese legate al petrolio, carbone, nucleare, gas naturale, industrie elettriche. Il rapporto afferma che non si è stati in grado di determinare l’estensione dell’influenza di queste imprese sulle decisioni politiche, a causa delle limitate informazioni messe a disposizione del General Accounting Office.
Ma altri documenti, forniti dietro ordine di un tribunale, mostrano come quindici soggetti connessi al campo energetico abbiano avuto contatti con la task force, contatti che si sono risolti in provvedimenti di politica energetica a proprio favore.
Lo Edison Electric Institute, che aveva avuto contatti con la task force 14 volte, spendendo 12 milioni in lobbying a Washington lo scorso anno, si è assicurata una storica deregulation riguardo all’impresa energetica che gli analisti calcolano di un valore di miliardi di dollari.
Il Nuclear Energy Institute, che ha ottenuto miliardi in riduzioni fiscali e progetti, aveva avuto 19 contatti con la task force, e sborsato1.280.000 dollari in azioni di lobbying nel 2003. Anche l’industria nucleare trarrà beneficio dall’estensione e ampliamento, nello energy bill, del Price Anderson Act, che blocca la solvibilità finanziaria di un impianto di energia nucleare in caso di incidente. Anche se non è stato commissionato alcun nuovo impianto nucleare in decenni, il progetto prospetta una rinascita di questa discussa fonte di energia.
La Southern Company, impresa elettrica che ha speso 990.000 dollari in lobbying, trarrà beneficio da regole più lasche sull’emissione di mercurio, sostanza tossica rilasciata dagli impianti energetici. Il vice presidente della Southern e un lobbista si sono incontrati con la task force, secondo documenti messi a disposizione a seguito di una citazione in giudizio del Natural Resources Defense Council. La Environmental Protection Agency, che deve emanare i regolamenti definitivi il prossimo anno, stima che la deregulation sulle emissioni di mercurio farà risparmiare agli impianti energetici degli USA un totale di 2,7 miliardi.
L’American Petroleum Institute, che ha avuto contatti con la task force sei volte, e ha speso 3.140.000 in lobbying lo scorso anno, avrà miliardi di riduzioni fiscali e sussidi per incoraggiare la produzione interna.
Gli ambientalisti, esclusi dalla task force, hanno ottenuto poco nel pacchetto definitivo, dopo aver speso una piccolissima parte di quanto speso dall’industria energetica in lobbying. La League of Conservation Voters, per esempio, ha speso 46.516 dollari in lobbying l’anno scorso; il Natural Resources Defense Council 920.000, e la Union of Concerned Scientists 150.000, come emerge dai rapporti sulle attività di lobbying.
Le imprese che avevano contatti con la task force di Cheney ottenevano vantaggi strategici, afferma Larry Noble, analista del Center for Responsive Politics, perché potevano sostenere le proprie ragioni già dalle prime fasi di sviluppo delle politiche energetiche.
”Hanno ottenuto quello che volevano sin dal primo giorno” dice Noble. “Tutti i lobbisti sanno quanto sia importante essere presenti quando si preparano i documenti, prima che si scrivano le leggi. Quando il progetto di legge è pronto, è tardi. Si gioca solo in difesa”.
Dopo che la task force di Cheney aveva redatto le sue raccomandazioni, il compito di stendere il progetto di legge passò a camera e Senato, dove i membri della maggioranza Repubblicana mantennero immutate molte delle proposte. Poi, nella speranza di realizzare un accordo fra Camera e Senato, i leaders nominarono un comitato congiunto.
Ma questo comitato cominciò ad aggiungere parti che non erano mai comparse in nessuna versione del progetto. E i lobbisti subissavano i membri di richieste per includere qualcosa o qualcuno, compreso il mall di Congel, nella legge.
L’aggiunta di progetti del genere fa rizzare particolarmente il pelo dei cani da guardia degli sprechi governativi. Anche se DestiNY USA prometteva di essere un modello di efficienza energetica, i critici si chiedevano cosa avesse a che fare un centro commerciale con la definizione di una politica energetica nazionale.
L’iniziativa dei greenbonds non faceva parte dei progetti originali di camera e Senato passati attraverso udienze pubbliche e la discussione in aula. Era stata aggiunta dal comitato congiunto, un gruppo che aveva escluso i Democratici del tutto, salvo per due delle riunioni di redazione del documento. La massiccia versione definitiva fu resa pubblica un sabato, lasciando ai Democratici e a quei Repubblicani non inseririti all’interno dei gruppi di negoziazione a malapena tre giorni per studiarsela, prima che fosse chiesto di votarla in aula.
Il deputato Edward Markey, Democratico di Malden veterano dello Energy and Commerce Committee, racconta che fu obbligato a seguire gli sviluppi del documento del suo comitato parlandone coi lobbisti di Washington.
”Non potevamo stare dietro a quello che stava succedendo” dice Markey. “Tutto quello che avevamo erano fughe di notizie. Quello che hanno fatto su questo disegno di legge per l’energia non ha precedenti. Non hanno avuto rispetto per i Democratici, ma - cosa più importante – nemmeno dei gruppi ambientalisti e di consumatori del paese.
Congel è un costruttore, di successo anche se discusso, il cui valore economico è stimato dalla rivista Forbes di circa 700 milioni. Congel e la sua impresa, la Pyramid Management, sono stati citati a giudizio nel 2000 da ex soci in affari per frode, e il caso è ancora aperto. La Pyramid ha ripagato più di 800.000 dollari a un’impresa affittuaria, la Limited, che affermava come si fossero gonfiate le cifre delle bollette telefoniche. Gli organi giudiziari statali e federali non hanno ritenuto di procedere nei confronti dell’impresa.
Sia Congel che la DestiNY USA non hanno risposto a ripetute richieste di commentare questo fatto.
Altri tre progetti di centri commerciali - uno in Georgia, uno in Louisiana (patria di un ex presidente dello House Energy and Commerce Committee, il deputato Repubblicano Billy Tauzin), e uno in Colorado – trarranno benefici dalle proposte dei greenbonds, anche se ci vuole qualche capacità speciale per capirlo dal linguaggio del progetto di legge.
Chiamata “programma dimostrativo per i siti industriali inquinati, per edificazione ambientalmente qualificata e progetti a orientamento sostenibile”, la sezione greenbonds del programma non fa menzione di particolari progetti o stati. Ma le linee guida si adattano esattamente a questi, sia secondo i rappresentanti del Congresso, sia secondo i gruppi di osservatori che hanno studiato il documento.
”Non sono nominati, ma tutti sanno quali sono, basandosi sul linguaggio” dice Keith Ashdown, vice presidente per le questioni politiche al Taxpayers for Common Sense. “Un senatore Repubblicano scherzava sul fatto che il documento avrebbe potuto anche richiedere che uno dei progetti fosse collocato in un luogo il cui nomignolo è Cajun State”, a sottolineare come uno di questi casi particolari stia a Shreveport.
Congel è stato aggressivo sostenitore dei finanziamenti pubblici al suo progetto. Ha formato un comitato di azione politica, il Green Worlds Coalition Fund, che ha raccolto 82.897 dollari, la maggior parte dei quali sono andati a contributo della campagna elettorale di Bush, e dei deputati nei posti chiave riguardo allo energy bill. In più Congel, la sua famiglia, e i dipendenti di DestiNY USA e della Pyramid, hanno contribuito con altri 69.084 dollari a campagne per il Congresso e per Bush, secondo le analisi dell’indipendente Center for Responsive Politics.
I proponenti del progetto hanno fatto anche grossi investimenti in lobbying, spendendo 140.000 dollari lo scorso anno e 60.000 quest’anno per convincere il Congresso – che ha già dato a DestiNY USA 1,7 miliardi l’anno scorso per la trasformazione delle aree circostanti il sito del progetto – ad approvare la proposta dei greenbonds.
Nel frattempo, Congel lavorava per aiutare alcuni decisori chiave. Lui, la sua famiglia, i suoi soci, hanno dato molto al deputato Bob Beauprez, una matricola del Colorado che vorrebbe anche assistenza finanziaria per un progetto di costruzione nel suo distretto. Congel ha anche ospitato un’iniziativa di raccolta fondi a cui ha partecipato Cheney.
Anche se la gran parte dei contributi elettorali di Congel e di DestiNY USAsono andati ai Repubblicani, i sostenitori del progetto non hanno trascurato i senatori Democratici di New York, Hillary Rodham Clinton and Charles Schumer, i quali entrambi hanno ricevuto contributi da Green Worlds e dallo stesso Congel.
Schumer, secondo una tattica apparentemente contraddittoria piuttosto comune a Washington, ha lottato decisamente per inserire i greenbonds nello energy bill, anche se stava anche lottando per la sconfitta del progetto nel suo insieme.
”Pensavo che fosse una buona iniziativa” ha detto Schumer a proposito dei 2,2 miliardi di dollari a DestiNY USA, che i costruttori affermano porterà più di 100.000 posti di lavoro fissi legati al turismo, nell’area di crisi economica del nord New York.
Schumer afferma anche di essersi opposto allo energy bill perché liberava dalla responsabilità i produttori di un additivo della benzina che ha avvelenato le acque sotterranee a New York e in altri stati.
Sul versante dei deputati, James Walsh, Repubblicano di Syracuse, è stato un campione nel sostegno al progetto DestiNY, localizzato nel suo distretto. Walsh, che dice di essere stato compagno di scuola di Congel al liceo, difende il progetto coma valido prototipo di come si possa realizzare un mall sostenuto da energie rinnovabili come quella solare.
E aggiunge che i posti di lavoro sarebbero importanti nel suo distretto.
”È l’unica persona che bussa alla mia porta e vuole spendere due miliardi” dice Walsh.
Ma i deputati che stanno all’erta contro gli sprechi, e gli ambientalisti, si chiedono perché mai il governo federale dovrebbe aiutare un costruttore multimiliardario a realizzare un complesso commerciale e turistico.
”È evidente che l’unico verde a cui è mai stato interessato Bob Congel è quello che sta nelle sue tasche” dice Chuck Porcari, direttore per le comunicazioni alla League of Conservation Voters.
Quando lo energy bill era fermo a dicembre, Pete Domenici, Repubblicano del New Mexico a capo del Senate Energy and Natural Resources Committee, l’ha modificato per renderlo più accettabile a un Senato poco convinto. Una diversa versione, che ufficialmente non ha rimpiazzato il bill originale, non comprende l’istituto dei greenbonds.
Ma con l’aiuto di Schumer, DestiNY USA può dare un altro morso alla torta dei fondi federali. Schumer e il Senatore Zell Miller, un Democratico il cui stato – la Georgia – è in corsa per un progetto da greenbonds, hanno inserito un emendamento che accorpa i progetti a un disegno di legge per le tasse di impresa, con più alta probabilità di guadagnarsi l’approvazione. Un comitato congiunto inizierà la stesura del progetto da oggi.
”È come un’arma a testate multiple. Proviamo con il progetto di legge sull’energia, o quello sui trasporti, o quello sugli stanziamenti. Se spariamo tutte queste testate, riusciremo a colpire qualcosa” commenta David Williams, dell’indipendente Coalition Against Government Waste.Far ingrassare un documento
Il progetto di Congel non è stato l’unico a trovarsi un nuovo veicolo di finanziamento, nonostante il blocco del disegno di legge.
Il Senatore Charles Grassley, Repubblicano dello Iowa a capo del Senate Finance Committee, e il cui sostegno allo energy bill era critico per le questioni fiscali, voleva 50 milioni di dollari per una foresta pluviale artificiale nel suo stato coltivato a granturco. I sostenitori dicevano che il progetto sarebbe stato educativo, ma è stato cancellato prima che lo energy bill andasse alla discussione in aula.
Ma Grassley ha avuto quello che voleva in gennaio, quando il suo progetto è stato fatto scivolare in un decreto omnibus di spesa per il finanziamento di azioni delle agenzie federali per il 2004. “La maggior parte dei progetti straordinari, se sostenuti da politici potenti, hanno nove vite” dice Ashdown.
I sostenitori dell’ energy bill riconoscono che sia stato imbottito di programmi locali, ma dicono che queste inclusioni spesso ernao necessarie per cucire insieme una coalizione di voto. “È una delle funzioni del processo di formazione delle leggi” afferma Frank Maisano, un lobbista dell’industria energetica per il marchio Brace and Patterson.
E la battaglia sul pacchetto energetico certamente ha aspetti filosofici. Quelli che lo appoggiano sostengono che la nazione deve produrre più energia da sola per liberare il paese dalla dipendenza dal petrolio estero. Alle imprese devono essere offerte riduzioni fiscali e sussidi, affermano uomini delle imprese e alcuni politici e analisti, perché la ricerca e sviluppo di nuove fonti energetiche è una cosa costosa.
Anche se agli ambientalisti piace demonizzare i profitti dell’industria petrolifera, dice Maisano, queste imprese hanno bisogno di incentivi finanziari per cercare nuove riserve in zone inesplorate. Per esempio ci sono potenziali riserve petrolifere particolarmente costose, perché stanno ad alta profondità; senza riduzioni fiscali, la maggior parte delle imprese non si prenderà il rischio finanziario di trivellare in quei luoghi.
Ma i critici, tra cui anche parecchi Repubblicani conservatori in fatto di tasse, insieme ai Democratici, insistono nel sostenere che le riduzioni sono sfuggite di mano nel corso delle riunioni a porte chiuse, con moltissimi beneficiari ridotti di fatto a singole imprese. Una volta finita, la versione originale dell’ energy bill conteneva circa 20 miliardi fra crediti fiscali e sussidi all’industria energetica.
Ma gli analisti ritengono che il principale colpo per le aziende siano i provvedimenti di deregulation, per assicurarsi i quali le compagnie energetiche hanno speso centinaia di milioni di dollari.
Il primo punto sulla lista delle cose da fare era l’eliminazione di una vecchia regola, chiamata Public Utility Holding Company Act. Poco conosciuta al di fuori del mondo energetico e finanziario, è una questione critica per l’industria elettrica, la cui vasta squadra di lobbisti è riuscita a persuadere i negoziatori al Congresso a rimuovere quella legge. Nelle centinaia di memorie dei lobbisti inoltrate per tentare di influenzare i lavoro sullo energy bill, la necessità di togliere di mezzo le regole sull’industria elettrica compare 98 volte.
Gli interessi legati all’elettricità hanno investito milioni di dollari nel tentativo di abbattere quella legge.Lo Edison Electric Institute, che rappresenta l’industria elettrica, ha speso 12.540.000 dollari per una squadra di 35 lobbisti nei propri uffici e in dodici altre imprese per fare pressioni sul Congresso, la Casa Bianca, e le agenzie federali, contro il Public Utility Holding Company Act e su altre questioni energetiche. Singole imprese del settore, insieme ad altre contrarie a questa legge fondamentale, hanno sborsato altri 56.420.670 in lobbying lo scorso anno, secondo i documenti archiviati dagli uffici di camera e Senato.
E l’industria non è stata spilorcia nemmeno nei contributi elettorali. Dirigenti e responsabili delle industrie elettriche hanno dato un totale di 7.733.941 dollari per la tornata elettorale del 2004, facendo del settore il 19° maggior contribuente, secondo i calcoli del Center for Responsive Politics. Tauzin, potente ex presidente dello House Energy and Commerce Committee, è stato particolarmente beneficiato, ricevendo più di 150.000 dollari per la sua campagna dall’industria dell’energia nel suo complesso, compresi i circa 76.000 dal solo settore elettrico.
Lo sforzo ha avuto successo: passaggi tesi ad abbattere la legge spartiacque di regolamentazione sono inclusi in tutte le versioni dello energy bill presenti ora a Capitol Hill. Se il disegno diventerà legge, sia i favorevoli che gli oppositori prevedono un’esplosione negli investimenti nel settore energetico.
Ma là dove i finanzieri vedono opportunità di investimenti, i difensori dei consumatori vedono futuri casi Enron in via di costruzione, perché quella legge era stata approvata per isolare gli impianti di produzione dal tipo di scambi nel settore energetico che hanno causato il crollo della Enron di Houston, con la più grossa bancarotta della storia. Liberatevi delle regole che limitano gli investimenti incrociati delle compagnie, dicono i rappresentanti dei consumatori, e il paese si troverà di fronte a una crisi energetica e finanziaria molto simile a quella che ha portato all’approvazione del Public Utilities Act.
La radici di questa legge stanno nell’era della Grande Depressione e della crisi del 1929. L’allora nascente induatria elettrica era in gran parte di proprietà di un piccolo gruppo di holdings, che utilizzavano i proventi delle vendite di energia per investire in modi più rischiosi.
Quando quegli investimenti iniziarono a vacillare, le holdings implosero, e 53 imprese elettriche andarono in bancarotta; questo collasso rese più grave la Grande Depressione. Il consolidamento del settore consentì anche alle compagnie di manipolare il mercato e scaricare prezzi più alti sui consumatori.
Dopo un’indagine e una serie di audizioni, il Congresso approvò le norme del Public Utility Holding Company Act nel 1935, imponendo controlli senza precedenti sulle holdings energetiche. Ma ora, dicono i portavoce dell’impresa energetica, quella legge è superata, e così onerosa da scoraggiare gli investitori dal mettere risorse nell’elettricità.
”Si tratta di un settore capital-intensive. L’abolizione del PUHCA servirà a incoraggiare potenzialmente i capitali a tornare a scorrere verso il merecato dell’energia” afferma Pete Sheffield, portavoce della Duke Energy, impresa che aveva tra i suoi dipendenti Andrew Lundquist, direttore della task force sull’energia di Cheney, a fare lobbying per la soppressione della legge.
Le amministrazioni Clinton e Bush hanno già indebolito alcune regole, consentendo alle imprese di aggirare alcuni punti del PUHCA. Ma l’eliminazione completa della legge potebbe avere effetti catastrofici sia sui mercati finanziari che sui consumatori, osservano i critici.
”È l’unica cosa che sta tra noi e un monopolio” dice Lynn Hargis, ex avvocato della Federal Energy Regulatory Commission, che ora lavora per il gruppo di osservatori Public Citizen.
Cancellare il PUHCA dal corpo delle leggi metterà in gioco una cifra stimata in un trilione di dollari energy in titoli elettrici, continua la signora Hargis, con implicazioni enormi sia per il settore energetico in particolare che per i mercati finanziari in generale.
La deregulation, prevede, consentirà altri episodi come il caso dello scandalo Enron, dato che le compagnie potranno muovere capitali in ogni direzione, e mettere a rischio la solidità finanziaria dei fornitori di energia.
Ma i lobbisti degli interessi energetici sono riusciti ad andare anche oltre l’allentamento delle regole finanziarie.
L’attuale progetto di legge auspica una deregulation anche delle norme che proteggono la qualità dell’aria. Una delle proposte allenterebbe i limiti sull’ozono, che produce smog. Questi passaggi, che non si trovavano in nessuno dei progetti originali usciti da camera o Senato, non solo abbasserebbero gli standards del Clean Air Act per la produzione di ozone, ma allungherebbero i tempi a disposizione dell’industria per adeguarsi. Queste modifiche, inserite in sede di comitato congiunto, andrebbero a grosso vantaggio delle raffinerie.
Sono stati inseriti nel progetto anche passaggi che esentano le imprese di prospezione per gas e petrolio da alcune regole del Clean Water Act; secondo queste modifiche, le imprese non potrebbero essere accusate di contaminare acque pubbliche. Sarebbe fornito alle compagnie del settore gas e petrolio un “ free pass” che le liberi dalle leggi sull’acqua, rendendole le uniche imprese non soggette a queste regole, come osserva Bob Filner, deputato Democratico della California.
I lobbisti energetici hanno anche convinto l’amministrazione Bush ad allentare i controlli sul mercurio, un agente tossico rilasciato nell’atmosfera dagli impianti di produzione elettrica a carbone. Le nuove regole proposte alzerebbero o limiti delle emissioni, dando anche più tempo agli impianti per adeguarsi: nell’insieme una combinazione – dicono gli ambientalisti – che non fa molto per proteggere la gente dall’inquinamento da mercurio di acque e pesci.
Il punto di vista dell’amministrazione Bush sui pericoli da mercurio è molto più tranquillo di quello dei suoi predecessori.
Quando sotto la presidenza Clinton l’EPA emanò un comunicato nel dicembre 2000 annunciando che per la prima volta sarebbero state richieste riduzioni alle emissioni di mercurio, la sostanza veniva descritta come “nociva”, che “è stata associata a danni sia neurologici che allo sviluppo degli esseri umani. Il feto in fase di crescita è il più sensibile agli effetti del mercurio, che comprendono danni alla formazione del sistema nervoso”.
Ma l’EPA della presidenza Bush ha assunto un punto di vista più rilassato, e sul suo sito web descrive il mercurio come “elemento naturale ampiamente diffuso nell’ambiente”. Anche se l’esposizione a mercurio deve essere “trattata seriamente” prosegue il sito “i problemi di salute causati dipendono da come entra nei corpi, quanto si resta esposti, quale è la risposta degli individui”.
Gli interessi energetici e i loro sostenitori al Congresso affermano che il nuovo progetto di legge emerge da questioni filosofiche, non da pressioni di lobbying; i portavoce dell’industria dicono che troppe regole mettono pastoie finanziarie alle imprese e rendono più difficile aggiornare i processi con strumenti più efficaci rispetto all’ambiente. Ma chi aveva accesso agli ambienti del Congresso è entrato molto nella formazione del pacchetto, secondo le nostre analisi dei fascicoli di lobbying, contributi elettorali, e dibattito legislativo.
A Capitol Hill, leggi complicate come l’ energy bill tendono ad essere redatte da più gruppi di lavoro, che a loro volta possono rivolgersi a persone esterne all’ambito governativo per consulenze sul linguaggio legale, ci dice un senatore Repubblicano che chiede di restare anonimo. Gli specialisti sono di solito lobbisti, dicono i rappresentanti dei consumatori, il che crea una situazione dove essi hanno un’influenza accresciuta sulla formazione delle leggi.
Gli specialisti esterni, lobbisti o meno, spesso sono dotati di valide capacità. Il prblema, dicono alcuni lobbisti e legislatori, è che il processo tende a favorire coloro che hanno già entrature alla Casa Bianca, sia perché ci hanno già avuto qualche incarico, sia perché hano raccolto denaro per la campagna elettorale Bush-Cheney.
I lobbisti dell’industria energetica dicono che non è un problema di ripagare i favori, ma solo una situazione in cui gli ambientalisti si stanno scontrando con una maggioranza democraticamente eletta che non ha particolarmente a cuore i loro interessi. Gli ambientalisti – proseguono i lobbisti – dovrebbero essere più flessibili e riconoscere di aver a che fare con un’amministrazione che desidera aumentare la produzione energetica.
”Penso che i gruppi ecologisti si siano emarginati da soli, al punto di non avere l’effetto che potrebbero invece ottenere, concentrandosi solo sugli attacchi a Bush” afferma Maisano. “Non sono interessati al tipo di politiche, sono solo contrari alla persona”.
I lobbisti ad orientamento ambientalista, da parte loro, dicono di scontrarsi con porte chiuse quando cercano di pare pressioni su Capitol Hill. Se riescono a incontrare qualche legislatore favorevole al loro punto di vista, va a finire che questa prospettiva è schiacciata dalla maggioranza Repubblicana che vuole solo vedere più ricerche e produzione nel campo del petrolio, gas, energia nucleare.
”Sul versante della Casa Bianca, la situazione è decisamente Orwelliana” ci dice Marchant Wentworth, lobbista della Union of Concerned Scientists. “I rappresentanti Repubblicani mi hanno detto in faccia che semplicemente non si confronteranno col presidente su nessun punto. Non ho mai visto niente del genere”.
Nota: qui il link alla versione originale dell'articolo di Susan Milligan, sul sito del Boston Globe. Qui il file PDF scaricabile della mia traduzione (fb).
closed for business
MILANO. All’OM facevano i camion. All’Innocenti le Mini. Alla Falck l’acciaio. A Pero raffinavano la benzina. Era la Milano della grande industria. La Milano che non esiste più. E che ha lasciato alle sue spalle aree gigantesche, distese sterminate di capannoni, di altoforni, di catene di montaggio inghiottiti dalla ruggine e dal degrado. Su queste aree si gioca ora una i partita che ha sul tavolo una posta di centinaia di milioni di euro. Una partita dove le regole non sono chiare. Anzi, dove l’unica regola sembra essere la mancanza di regole.
Basta con i lacci e i lacciuoli dell’urbanistica programmata, utopia degli anni Sessanta e i Settanta. Libertà di affari, libertà di mattone. A rivendicarle sono, con toni simili, due protagonisti di questa strana stagione della rinascita milanese. Uno è Paolo Caputo, architetto, professore, divenuto improvvisamente il più richiesto progettista di Milano: «Una città che ha perso vent’anni: dieci per colpa di Mani pulite, dieci per colpa di un piano regolatore sbagliato». E, di sponda Giuseppe Pasini, costruttore, che ha in mano i destini della vecchia Falck di Sesto San Giovanni: «I piani regolatori sono uno strumento del passato. Troppo lento per stare dietro alla realtà. Ora che arriva un piano regolatore, i bisogni sono già cambiati». A Giorgio Oldrini, sindaco di Sesto, che cerca di impedire in qualche modo che sulla vecchia fabbrica sbarchi il cemento di un gigantesco quartiere dormitorio, Pasini manda a dire senza tanti giri di parole: «Se uno vuole il verde, può andare a cercarlo in campagna». La storia della Falck è esemplare, per capire il caos che regna nel settore. La vecchia acciaieria occupava più di un milione di metri quadrati, Pasini la comprò sicuro di convincere Banca Intesa a trasferire qui i suoi uffici, un insediamento terziario che avrebbe portato con sé soldi, verde, qualità del tessuto urbano. Ma Banca Intesa ci ha ripensato. E adesso l’intera operazione non si capisce più dove andrà a finire, Pasini è oberato dai debiti, ha cestinato il progetto dell’architetto Mario Botta e pretende di costruire 750 mila metri cubi di case dove il vecchio piano ne prevedeva la metà. Libertà di affare, libertà di mattone: questo è l’unico slogan che risuona nelle vecchie aree industriali di Milano. Se si va a curiosare, area per area, si scopre uno schema quasi sempre uguale. La vecchia fabbrica viene comprata da questo o quell’imprenditore, famoso od oscuro. L’imprenditore dà l’incarico per la progettazione a un big dell’architettura: i Foster, i Fuksas, i Pei. Poi, però, a gestire i progetti arrivano, associati ai big, professionisti meno blasonati. Un esempio per tutti: quello della “Città della Moda”, il colosso che sorgerà dopo decenni di abbandono sul vecchio terrapieno delle ferrovie Varesine. A firmare il progetto, per conto del colosso americano Hines, è il grande Cesar Pelli. Ma a lavo rare con Pelli si dice che arriverà Alessandro Foresti, collega di Gianni Verga, assessore all’Urbanistica del Comune di Milano. Lo stesso accade alla OM, dove al posto dei capannoni nasce un nuovo quartiere firmato da Fuksas. Accanto spuntano i nuovi dormitori dell’Università Bocconi: li firma il giovane Saverio Valsasnini, che insieme al suo collega Marco Cerri è l’architetto “di riferimento” del vero soggetto forte di questa stagione del mattone: la Compagnia delle Opere, l’associazione imprenditoriale che è diretta emanazione di Comunione e liberazione. È la Compagnia che con i suoi uomini controlla alcuni passaggi chiave di questa stagione. Primo tra tutti, quello che ruota intorno alla Fiera.
Intorno alla Fiera si giocano due partite decisive. Una è la realizzazione del nuovo polo , espositivo sull’area della vecchia raffineria di Pero. Il secondo, parallelo, è la riconversione ad edilizia residenziale della vecchia, preziosa area storica della Fiera. In vista di questa partita, Cl ha occupato con due suoi uomini l’ufficio chiave dell’Ente Fiera, l’ufficio tecnico. Il progetto della nuova fiera è già andato a Fuksas, progettista assai amato dalla Compagnia. Ad assegnare l’incarico per il recupero della vecchia fiera sarà invece una commissione che coincide con il consiglio d’amministrazione della società Sistema Sviluppo Fiera. Anche qui, qualcuno si era preoccupato di piazzare l’uomo giusto al posto giusto: Maurizio Filotto, ex brigadiere dei Carabinieri, personaggio enigmatico legato tanto a o quanto all’universo dei servizi segreti, nominato ai vertici del la Fiera su designazione non si sa bene di chi. Peccato che Filotto sia finito in galera per corruzione una manciata di setti mane fa. E molti, a Milano, dicono che la sua uscita di scena potrebbe riaprire i giochi. Al punto di mettere in discussione l’esito della gara che veniva considerato fino all’altro ieri scontato: la vittoria del progetto della cordata Risanamento Chestfield-Astaldi, firmato da Norman Foster.
Chi oggi, in un giorno qualunque, percorresse le tangenziali che circondano Milano vedrebbe a occhio nudo le gru, le impalcature, gli scheletri di cemento armato che sono il segno concreto del nuovo che avanza. Dietro, ci sono cervelli vecchi e nuovi. A Rogoredo, nella piccola città disegnata da Paolo Caputo insieme con Norman Foster che sorgerà sulle vecchie aree della Montedison, pochi sapranno che dietro c’è il genio finanziario di Giuseppe Garofano, detto “il Cardinale”, già protagonista dell’epopea dei Ferruzzi e di Raul Gardini, diventato il regista degli affari di Luigi Zunino, piccolo costruttore piemontese divenuto uno dei nuovi ras del mattone meneghino. E ancora meno, tra i nuovi inquilini dell’area Innocenti, sapranno che a progettare le loro case era stato Andrea Balzani, grande vecchio dell’Urbanistica socia lista negli anni Ottanta, l’epoca della “Milano da bere”.
«I grandi architetti, vengono catapultati qui quasi per caso», raccontava Balzani a Repubblica poco prima di morire, «Il dramma vero è che dietro a tutto quello che sta nascendo non c’è un progetto complessivo. E il dramma nel dramma è che questa è un’occasione irrimediabilmente persa».
Da Nord a Sud il recupero è d’oro
È grande 90 milioni di metri quadrati la fetta d’Italia in cerca di un nuovo futuro. A tanto ammontano le aree industriali dismesse, intorno alle quali si muovono interessi poderosi e partite senza esclusione di colpi. A Torino, per esempio, è stato abbastanza semplice recuperare un’area tutto sommato ridotta come il Lingotto. Ma sul futuro dell’area ben più vasta della Fiat Avio, quando tra due anni saranno smantellate le installazioni delle Olimpiadi Invernali del 2006, lo scontro è aperto. Scontro già aperto anche a Genova, sul domani dell’acciaieria di Cornigliano: posizione strategica, di fronte al mare. Appartiene al demanio, ma Emilio Riva, l’imprenditore che ha rilevato I’ltalsider dallo Stato, punta a impadronirsene a titolo definitivo. Qui il business riguarda la logistica portuale. Alcune operazioni di recupero sono già avviate sulla buona strada. Come quella dello stabilimento Montedison di Mori, in Trentino, capolavoro di archeologia industriale. O della “Darsena di città” di Ravenna. Ma ci sono grandi aree sul cui futuro il buio è ancora fitto: come quella del Porto Vecchio di Trieste, 600 mila metri quadrati che hanno visto bocciare un progetto dopo l’altro. E aree su cui aleggia persino un po’ di mistero: è il caso dell’insediamento della Marina Militare a Taranto, trasferitasi da Mare Piccolo a Mare Grande. I pacifisti dicono che starebbero per arrivare 500 milioni di dollari per portare sull’area una base militare americana, che ingloberebbe anche la stazione di ascolto Echelon, oggi a San Vito dei Normanni.
Il governo, per ora, ha smentito.
"Governare la città, rilanciare la modernità", questo il tema di un seminario promosso a Roma dalla Facoltà di Architettura-Valle Giulia e dal Comune e che ha visto la partecipazione di alcuni fra i maggiori urbanisti italiani ed europei. Da noi questa disciplina è entrata in crisi con il venir meno dell´afflato innovatore del primo centrosinistra, quando il "Progetto ´80" (elaborato dall´équipe della Programmazione, diretta da Giorgio Ruffolo con Antonio Giolitti come ministro e Giuliano Amato tra i principali collaboratori), che disegnava gli sviluppi programmatici dell´Italia prossima ventura, venne riposto e bollato come un libro dei sogni, lasciando campo libero a una deregulation selvaggia e irrazionale del territorio, cui si è contrapposta non la razionalità riformista ma il fondamentalismo agitatorio di stampo massimalista, tutto incentrato sulla conservazione immobilistica dell´esistente. L´urbanistica italiana, ripiegata, tranne qualche eccezione, a studiare le realizzazioni che da Barcellona a Siviglia, da Parigi all´asse Rotterdam-Amsterdam dimostravano che in Europa essa restava vitale, ha cercato con il seminario di Roma di riproporsi alle istituzioni come asse portante di una politica riformistica delle città.
Anche se molto schematicamente val la pena elencare alcuni temi che ho potuto cogliere.
1) La contrapposizione non è più quella degli anni ´50 e ´60 tra chi difendeva gli interessi della rendita fondiaria e chi, invece (legge Sullo) voleva piani urbanistici obbligatori, resi possibili dal diritto pubblico di esproprio generalizzato.
2) Oggi lo spartiacque passa in primo luogo all´interno della sinistra, tra riformisti, propugnatori di una "città possibile", frutto di una "perequazione" tra interesse pubblico e interessi privati, e i fondamentalisti della conservazione a oltranza, abbarbicati, laddove accettano si costruisca qualcosa, all´esercizio dell´esproprio. In questo braccio di ferro paralizzante si è inserito Berlusconi con la nuova legge sulle grandi opere, in bilico tra progetti indispensabili da riavviare e sprechi mostruosi quanto inutili e dannosi come il ponte sullo Stretto.
3) La legge sulla elezione diretta dei sindaci ha, peraltro, ridato spazio e tempo a una progettazione urbanistica che, dove la cultura riformista ha prevalso, può vantare risultati straordinari. Il caso più esemplare è Genova, una città ieri depressa dalla crisi delle aziende Iri e del porto e che, dalle Colombiadi del ´92 al Vertice del G8 nel 2001, al Festival della Scienza e alla proclamazione di capitale europea della cultura per il 2004, è riuscita a cambiare radicalmente volto, a «riconquistare il mare» con le opere di Renzo Piano, la trasformazione dei magazzini del cotone, la costruzione dell´Acquario, dei musei della Navigazione e dell´Antartide, a riqualificare una buona parte del suo splendido centro storico, a proiettarsi verso il futuro con il progetto Leonardo e annesso Tecnology Village e l´annunciato Istituto italiano di Tecnologia. La passione di un bravissimo sindaco, Giuseppe Pericu, e del suo assessore all´urbanistica, il prof. Bruno Gabrielli che sulla base di un «piano strategico» hanno saputo infondere la loro «visione» alla cittadinanza, ha reso possibile il miracolo.
L´altro grande esempio, richiamato nel dibattito, è Roma. Nella Capitale sia la giunta Rutelli che quella Veltroni hanno operato un riuscito rilancio dell´immagine culturale della città (musei, mostre, recuperi e restauri ecc.). Ma il punto forse più qualificante è stato il varo del nuovo piano regolatore che si articola, da un lato, sull´idea delle «nuove centralità» nelle periferie e su una rete di trasporti che prevede 4 linee di metro e 3 di ferrovie urbane, dall´altro, su un compromesso «perequativo» con i privati che in cambio dei permessi di edificabilità, secondo progetti urbani definiti, in talune zone, cedono gratuitamente al comune grandi spazi verdi dove, a loro spese, vengono creati nuovi parchi o altre infrastrutture di interesse generale. Su questa base, in cambio di una zona edificabile oltre l´Eur, sono in fieri due grandi parchi sulla Cassia e al Nomentano. I fondamentalisti del «tutto o niente» che, assieme ai riformisti, fanno parte della maggioranza, hanno però imposto ultimamente l´accantonamento della «perequazione», sostenendo che si deve procedere per esproprio, senza nulla concedere. Non spiegano, però, dove si possono reperire i 4000 miliardi di vecchie lire occorrenti per gli eventuali espropri. È evidente, quindi, che il nucleo del piano regolatore si gioca sul ripristino di questa premessa. La rosa riformista ha molte spine.
SARÀ UNA BELLA DOMENICA. Nostro figlio Pietro e la sua bella moglie Paola con gli adorati nipotini Luisa e Carlo ci hanno invitato a un pranzo in campagna, a Truccazzano, fra Melzo e Gorgonzola. Fuori le mura, che oggi sono i bastioni ferroviari con i loro sottopassaggi, dove incominciano le code, che poi proseguono all’infinito sulla Rivoltana o sulla Paullese, dove ogni cento metri c’è un semaforo, sempre rosso. È la domenica della società del disagio. Siamo quelli che la televisione intervista quasi ogni giorno: «Da quanto siete in coda?». «Un’ora da Piazza Duomo». «Tre ore da Varese». Sguardo rassegnato ma con una punta di compiacimento. I figli trentenni si agitano, inutilmente, ma si agitano. Ciascuno con il suo telefonino, e un portafogli gonfio di tessere, come la reclame delle pagine gialle, telefonano al ristorante di Truccazzano, all’Automobil club, alle informazioni sul tempo, gli dicono che pioggia e nebbia sono assicurati, sembrano confortati. Chi resiste bene sono i nipotini, leggono i fumetti o guardano gli album delle bestie feroci, bevono gazzosine, si addormentano di traverso con la testa appoggiata a un finestrino; resiste bene anche il nonno, che sarei io, trasportato come un pacco attraverso la orrenda metropoli che ha sommerso la campagna, divorato i filari dei gelsi, nascosto le abbazie di Chiaravalle e di Vimodrone.
I BAMBINI E IL NONNO resistono anche quando il pulmino giapponese si rompe e i coniugi freneticamente con i loro telefonini cercano taxi e carri attrezzi che arriveranno dopo quaranta minuti, giusto il tempo per far riparare i bambini e il nonno nel bar di un ipermercato olandese. I bambini che guardano i fumetti, il nonno che guarda la televisione gigante dove c’è Mike Bongiorno che dopo mezzo secolo fa ancora i quiz e chiede a bambini ipernutriti quando è nato Napoleone o è stata scoperta l’America, la trasmissione si chiama Genius. Arrivano anche una birretta che sa di ammoniaca e delle piadine color rosa cerotto, precotte con ripieno di prosciutto stracotto e di una salsina bianca come la coccoina. Serve una camerierina arrivata da Capo Verde per conoscere i paesi del benessere. Abita con otto familiari in due stanzine del piano servizi interrato dell’ipermercato. Arriva il carro attrezzi, arriva il taxi, rientriamo a Milano dopo tre ore di avventura, i nipoti leggono i fumetti o dormono di traverso, i figli sono soddisfatti dei loro telefonini, forse in frigorifero c’è una scatoletta di tonno e in televisione Buona Domenica di Costanzo.
“De Luca lo volle, De Luca non lo vuole più”: così si può sintetizzare lo scontro in atto a Salerno. Il sindaco De Luca, diessino, uno dei personaggi più in vista e più impegnati nella politica urbana, aveva chiamato Oriol Bohigas a fare il PRG. Il piano, molto discusso, era stato varato e ampiamente discusso. Improvvisamente, l’ex sindaco (ma ancora dominus incontrastato dell’establishment locale) De Luca, e con lui il nuovo sindaco De Biase, avevano deciso che il piano, sebbene costruito sulla base di “progetti”, avrebbe comunque impedito di decidere caso per caso su questo o quest’altro intervento. L’assessore all’urbanistica Fausto Martino, aveva dato le dimissioni per protesta. Alla sua si è aggiunta la protesta di numerosissimi esponenti del mondo della politica e della cultura. Sostenitori e critici del “piano Bohigas” si sono trovati concordi nel difendere la pianificazione come metodo non rinunciabile per governare uno sviluppo democratico della città: le procedure del PRG consentono comunque di correggerne i difetti, e di proseguire la discussione di merito su un terreno costruttivo e trasparente.
Inserisco di seguito un intervento di Vezio De Lucia all’affollata assemblea che si è tenuta a Salerno il 9 gennaio 2004, tratto dal sito della Sinistra ecologista Campania. In calce, il collegamento all'appello, dal medesimo sito.
1. Mi sembra opportuno cominciare inquadrando la crisi repentina dell’esperienza salernitana – esperienza ripetutamente presentata come molto innovativa – nel panorama dell’urbanistica nazionale. In questo periodo si fronteggiano in Italia tre linee di tendenza.
1.1 La prima è quella della deregulation esplicitamente praticata. Capofila è il comune di Milano. A Milano non c’è più il Prg come lo intendiamo noi. E’ diventato una specie di catasto dove si registrano gli accordi fra il comune e la proprietà fondiaria. Il comportamento di Milano non è illegale. Coerente con gli istituti dell’urbanistica contrattata, che utilizzano l’accordo di programma come procedura di deroga agli strumenti di pianificazione. Programma di recupero, di riqualificazione, contratto d’area, patto territoriale, Prusst, sportello unico, eccetera. Con l’aggravante che, spesso, gli atti della deregulation sono approvati al riparo dalle osservazioni dei cittadini (garanzia prevista fin dalla legge del 1942) e spesso non sono nemmeno discussi nei consigli comunali, cui spetta solo la ratifica della firma del sindaco.
La linea milanese non è a favore del mercato, né della concorrenza, né della privatizzazione. Interlocutori dell’amministrazione non sono le imprese ma la proprietà fondiaria. E’ una linea regressiva. E’ un possente rilancio della speculazione fondiaria, mistificata come modernizzazione, con le conseguenze che si possono immaginare dal punto di vista della questione morale e della trasparenza.
1.2 La seconda linea è diametralmente opposta a quella milanese. Comprende le regioni e i comuni dove continua a praticarsi un corretto governo del territorio. La Toscana (ma potrei ricordare tutte e tre le ex regioni rosse, il Veneto, la Liguria, le Marche, eccetera). In Toscana, la pratica degli strumenti urbanistici è rigorosa ed estesa a tutti comuni. A meno di 10 anni dall’approvazione della legge 5/1995, tutti comuni hanno completato o stanno completando la formazione dei piani di nuova generazione (piano strutturale e regolamento urbanistico). La qualità dell’esperienza è evidente a chiunque, e basta pensare all’incanto della campagna toscana, dov’è sostanzialmente inibita ogni trasformazione non direttamente connessa alla produzione agricola. In Toscana, non mancano certo errori e incongruenze, basta citare l’insistenza della regione per l’insensata soluzione autostradale del corridoio tirrenico in Maremma.
Questa seconda linea di tendenza comprende Napoli che, almeno finora, seppure non senza fatica, ha perseguito la formazione di un nuovo Prg. Certamente, la vicenda della Coppa America ha posto in luce la fragilità della situazione napoletana. Ma tant’è.
In netta controtendenza con l’esperienza del capoluogo è quella della provincia di Napoli. La vicenda della recente contestazione del Ptcp è straordinaria e dovrebbe raccontarla Antonio Di Gennaro, alla cui indignazione e determinazione è dovuto in larga misura il successo della protesta. Ha giovato certo il ruolo della stampa, a partire dall’intervento su la Repubblica di Giovanni Valentini.
La stessa cosa non si può dire a proposito dell’auditorium di Ravello, caso nel quale la stampa è quasi tutta a favore dell’intervento e mistifica le posizioni di chi è contrario. Senza entrare nel merito, a Italia nostra e a chi vi parla non interessa – per ora – la questione dell’architettura. Interessa una cosa che viene prima della qualità architettonica: la legalità. Se si realizzasse, l’auditorium di Ravello sarebbe un’opera abusiva. Non basta una firma importante a sanare un’opera illegale. Anche per gli scempi di Punta Perotti a Bari si pensò di mettere tutto a tacere con la firma di Renzo Piano. Ma non è tutto. Nel tentativo di legittimare l’intervento, si è fatto ricorso a un’inverosimile interpretazione delle norme vigenti che consentirebbe in tutti i comuni della Costiera Amalfitana e della Penisola Sorrentina sforniti, come Ravello, di Prg, di costruire – fuori dei centri abitati – 1.000 mc a ettaro. Sarebbe cancellato, obliterato, uno dei paesaggi più celebri del mondo].
1.3 La terza linea dell’urbanistica nel panorama nazionale. Quella dell’ipocrisia: dichiararsi a favore del piano, con tanti se e tanti ma. E’ il caso del comune di Roma e della sua formula del “pianificar facendo”. Tuttavia, un anno fa, il comune di Roma ha adottato il nuovo Prg, ora in fase di controdeduzioni.
A questa linea appartiene, ahimè, anche la vicenda bolognese. Bologna, ex capitale dell’urbanistica progressista, ancor prima del sindaco Guazzaloca, ha imboccato la strada della contrattazione. Esiste in proposito un’esauriente documentazione raccolta dalla cosiddetta Compagnia dei Celestini. Speriamo in Cofferati.
Concludo sul panorama dell’urbanistica nazionale, raccomandando il libro di Francesco Erbani, L’Italia maltrattata, e il sito di Edoardo Salzano, eddyburg. In entrambi trovate un quadro aggiornato e ben illustrato su fatti e misfatti dell’urbanistica nazionale.
2. Prima di riprendere il discorso su Salerno, bisogna qui chiarire subito e bene che non si tratta di difendere il piano regolatore come se fosse un valore in sé. Il Prg è uno strumento, una procedura amministrativa, in larga misura indifendibile. Siamo i primi a dirlo. E da molti lustri. Chi vi parla lo dice da una vita. Non si deve perciò spacciare la nostra come una posizione passatista o formalista.
Il problema è un altro: si tratta di non buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino. Qui il bambino è rappresentato dalla tutela di fondamentali interessi pubblici che, con l’urbanistica contrattata, sono disattesi. Un vero e proprio principio della civiltà europea è il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo. Proprio dalla consapevolezza di questo principio, e dalla sua necessità, nasce la disciplina urbanistica.
Che l’urbanistica contrattata disattenda questi principi lo dimostra in modo illuminante proprio la vicenda salernitana.
3. Non ho dubbi sul fatto che il caso di Salerno appartenga al blocco dell’ipocrisia. Sulla stessa lunghezza d’onda dell’urbanistica romana, ma peggio. Evidentemente al peggio non c’è limite.
Il Prg di Salerno è un piano che non condivido. Il pensiero dichiaratamente anti-urbanistico di Oriol Bohigas si è rivelato un formidabile e micidiale paravento al riparo del quale ha operato chi rifiuta qualsivoglia disegno unitario per il futuro della città, sapendo che ciò porrebbe un freno all’esercizio disinvolto del potere.
Certe spregiudicate e accattivanti proposizioni di Bohigas hanno fatto strage. Sono autorizzato da Alfonso De Nardo a leggere alcune righe di una sua lucida autocritica – come si diceva una volta:
“Per un bel po’ di tempo ho guardato con attenzione all’esperienza di Salerno, per nulla preoccupato delle conseguenze della teorizzata inversione del rapporto tra piano e progetto. Che ci sarà mai di male – pensavo – se, durante l’attesa dell’elaborazione e dell’approvazione del PRG (che da queste parti, come si sa, richiede almeno 10 anni) il sindaco riesce ad attuare interventi reali di trasformazione urbana? Mica può lavorare solo per i suoi successori! E per un po’ il ragionamento teneva. Teneva per i primi anni del sindacato, magari per tutto il primo sindacato. Teneva finché gli interventi reali erano la Lungoirno, il parco Mercatello, la metropolitana, i concorsi per le carceri vecchie, per la stazione marittima, per il palazzetto dello sport. E mettiamoci pure l’albergo nell’area del vecchio cementificio, che era passata agli occhi dei più come delocalizzazione del Jolly. Ma sono fatti che assumono tutt’altro significato dopo 10 anni e quando agli interventi di chiara valenza pubblica si succedono ormai, in reiterazione parossistica, le proposte d’iniziativa privata e di interesse prevalentemente privato”.
Non è questa la sede per sviluppare una critica circostanziata al Prg. Mi limito solo a riprendere fra gli argomenti già illustrati dallo stesso De Nardo, quelli che mi sembrano di importanza decisiva. In particolare:
a. il piano è molto sovra-dimensionato, la crescita demografica è smentita dalla realtà (nell’ultimo decennio la popolazione è diminuita di circa 10.000 abitanti);
b. il piano disconosce la drammaticità della cosiddetta “città compatta”, che vive una condizione di saturazione e congestione insostenibile da decenni. L’ipotesi della sua riqualificazione, a partire dall’eliminazione dei vuoti urbani, non può tradursi in un disastroso aggravamento della saturazione. L’inverosimile funzione calmieratrice conferita alla costruzione di nuove residenze nelle aree urbane più centrali è un alibi che non può convincere neanche i profani;
c. il piano considera, insomma, in maniera distorta il rapporto con la periferia e con i comuni limitrofi, destinati a vedere aggravata la loro sudditanza alla aree centrali.
Allora, che facciamo? Sono stato sempre convinto che un Prg non buono vada rifatto. Ma ciò non significa che ci si debba schierare con chi semplicemente non vuole il piano, per avere mano libera nello sfruttamento della città. Significa invece che ci dobbiamo sporcare le mani e pretendere che il piano prosegua nel suo iter, facendo tutto il possibile per migliorarlo. Sono pienamente d’accordo con l’appello promosso dalle associazioni ambientaliste e da altri, e lo sottoscrivo. E sono del tutto solidale con Fausto Martino. Ha sostenuto in passato posizioni che non condivido. Ma la limpidezza del suo comportamento è fuori discussione.
Non mi sottraggo a valutazioni politiche. Mai come in questo caso va ricordato che l’urbanistica è politica e il rinnovamento dell’urbanistica è impensabile se non coincide con il rinnovamento della politica.
Riconosco all’ex sindaco Vincenzo De Luca il merito di un netto miglioramento della qualità della vita nella sua città, ma ciò non autorizza a porre le basi per un inevitabile futuro peggioramento di quelle stesse condizioni di vita con operazioni sconsiderate.
Qui a Salerno, si è costituito un movimento unitario, qualificato, consapevole e agguerrito. Tanto più importante, questa novità, perché viene da una città del Mezzogiorno. Dove, in generale, la partecipazione alle questioni relative al governo del territorio è sempre stata scarsa, o meglio, limitata a proteste contro la localizzazione di impianti dannosi (discariche e simili), ma raramente attenta a problemi di più generale e meno immediato interesse pubblico.
4. Concludo con una citazione. Dopo la sconfitta dell’amministrazione di sinistra del 1985, intervenne Italo Insolera, con una memorabile intervista all’Unità: “Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell’abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì. Credo sia questo il punto da cui è necessario ricominciare”.
La Campania continua a consumare i suoi suoli, e quindi il suo futuro, con vorace e irresponsabile accanimento. I risultati di una recente ricerca condotta per conto delle associazioni Coldiretti, Italia Nostra e WWF, evidenziano come le superfici urbanizzate campane siano più che quadruplicate nel quarantennio 1960-2000, passando da 22.500 a poco meno di 94.000 ettari, a fronte di un incremento demografico dell’ordine del 21%. In altri termini, la crescita della città è oramai totalmente svincolata da quella della popolazione. I dati tendenziali relativi all’ultimo decennio mostrano come i processi incontrollati di consumo di suolo siano tutt’ora fortemente attivi: nel periodo 1990-2000 l’incremento netto delle superfici urbane è stimabile in circa 13.000 ettari, una superficie urbanizzata pari a una volta e mezzo quella presente nel comune di Napoli. E’ come se nel corso di due soli lustri la Campania si fosse arricchita di un paio di nuove grandi città.
A fronte di questo preoccupante scenario, è veramente sorprendente constatare come, scorrendo le oltre mille pagine della Proposta di Piano territoriale regionale presentata di recente, non sia possibile rinvenire alcun dato circostanziato relativo alle dinamiche di consumo di suolo e, soprattutto, alla preoccupante tendenza dell’ultimo decennio. Si tratta di una incomprensibile omissione, che si accompagna all’assenza di ogni riferimento stringente alle misure regolative proposte dall’Unione europea per la tutela del territorio rurale ed aperto, imperniate sul riuso delle aree urbane esistenti.
Questa impostazione di tipo "debole" espone il territorio campano a rischi inimmaginabili. Così come attualmente formulati, gli obiettivi indicati dal Piano territoriale, di decongestionamento delle aree urbane a maggiore densità, e di riqualificazione delle periferie, adeguando gli standard urbanistici deficitari (servizi, attrezzature), rischiano inevitabilmente di attivare una domanda di suolo addirittura crescente. Proprio come si proponeva di fare il tanto contestato Piano territoriale di coordinamento provinciale di Napoli, che perseguiva l’obiettivo di riqualificazione urbana sacrificando 25.000 ettari di aree agricole pregiate, quasi la metà del territorio rurale ancora presente.
Insomma, la strada proposta dal piano regionale potrebbe essere definita di riequilibrio espansivo e rappresenta di fatto una contraddizione in termini (per migliorare la città, facciamola crescere ancora). Un colpo al freno ed uno all’acceleratore, dunque, in una di quelle politiche arrischiate che tanto piacciono al governo nazionale (meno tasse ma niente tagli alle prestazioni sociali), ma anche a quello regionale, che per la zona rossa del Vesuvio, prevede simultaneamente incentivi sia per chi va che per chi viene.
Altrettanto debole appare la scelta del Piano regionale di affidare la tutela ambientale e del paesaggio alla definizione della rete ecologica regionale, comprendente le aree montane, insieme agli spazi agricoli limitrofi con funzione di aree cuscinetto, ed ai corridoi ecologici di collegamento. Infatti, lo studio sulle trasformazioni territoriali in Campania, citato in precedenza, evidenzia come, per ogni 100 ettari di aree rurali che si urbanizzano, circa 96 siano costituiti da aree agricole altamente produttive, e solo 4 da aree boschive. Insomma, la difesa del territorio rurale nella sua interezza, non può privilegiare più di tanto la tutela delle aree a maggiore naturalità, che ricadono in prevalenza in quel 26% del territorio regionale già tutelato da aree protette e parchi. La battaglia si combatte altrove, nelle pianure e nelle aree vulcaniche, dove si localizza il 75% della crescita urbana dell’ultimo quarantennio. In tali contesti, la strategia proposta dal piano presenta un carattere ambiguamente flessibile, tecnicamente inadeguato a contenere l’espansione della città con misure regolative stringenti. A conferma di ciò, il famigerato Ptcp di Napoli denominava corridoi ecologici i lacerti residui di spazio rurale, fortunosamente scampati alla trasformazione urbana.
Insomma, se realmente la Regione intendesse basare su simili approcci la revisione dei piani paesistici, giudicati senza mezzi termini dal Piano superati ed eccessivamente vincolistici, si aprirebbe per il paesaggio campano una stagione difficile e carica di incertezze.
Infine, un altro aspetto che caratterizza il Piano territoriale, probabilmente il suo vero "motore", va ricercato nei 43 sistemi territoriali locali, che rappresentano il principale riferimento per le politiche regionali di sviluppo. La loro definizione è stata operata "… seguendo ‘dal basso’ la geografia dei processi di autoriconoscimento e di autorganizzazione presenti nel territorio". Più semplicemente, si tratta della perimetrazione dei patti territoriali, contratti d’area, piani integrati e quant’altro, in una sorta di catasto a scala regionale della programmazione negoziata. Anche qui, appare irta di incognite la scelta operata dal Piano di riconoscere un ruolo strutturale ad iniziative locali che, nell’ultimo quindicennio, hanno invece manifestato una propensione difficilmente contenibile allo spontaneismo, alla spinta derogativa rispetto agli strumenti ordinari di pianificazione urbanistica che le amministrazioni hanno faticosamente tentato di darsi. Contribuendo per di più in maniera insoddisfacente alla crescita regionale forse perché, come ricorda l’ultimo rapporto dell’Osservatorio economico regionale coordinato dal professor Giannola "… l’articolazione locale della contrattazione programmata, non annulla ma postula un indirizzo di politica industriale, della ricerca e dell’innovazione" e, ci sentiremmo di aggiungere, del territorio.
In conclusione, la strada indicata dal Piano territoriale – quella cioè di barattare ancora un po’ di consumo territoriale con l’aspettativa, in verità piuttosto indefinita, di un po’ più di sviluppo – appare francamente superata, ed esige un ripensamento. Come testimoniato anche dalla sfavorevole coincidenza, che vede la Campania contemporaneamente al vertice della classifica dei consumi di suolo, ma ancora malinconicamente al fondo di quella dei redditi regionali, recentemente stilata dall’ISTAT.
A proposito del PTC della Provincia di Napoli: un eddytoriale e molti articoli nella cartella S.O.S. - Campania Felix
Malpensa – per dirla con Enrico IV - val bene una messa? Un aeroporto, cioè, vale un Parco naturale, il suo sacrificio, la sua distruzione? Per quanto importante possa essere un “hub”, un centro, un fulcro, insomma uno scalo internazionale, conta di più di un’area protetta, di un’oasi irriproducibile, del polmone verde di una regione intossicata come la Lombardia?
Con l’inizio dei lavori per la costruzione della bretella Boffalora-Malpensa, s’è riacceso il falò delle vanità e delle polemiche che arde fin dall’apertura del nuovo aeroporto nel 1998. Un rumore cupo e sinistro, come la colonna sonora di un thriller, ha accompagnato il taglio di alcuni ettari di bosco fitto e pregiato, coperto da centinaia di querce di alto fusto. E soprattutto, lo scavo di una trincea profonda più di 10 metri per una larghezza di circa 40, ha inferto una ferita profonda destinata ad attraversare il Parco del Ticino per oltre 18 chilometri. Uno sfregio del paesaggio, una frattura del territorio, impossibile da rimarginare o da ricomporre. Uno scempio per l’eternità.
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Quei “rompiscatole” degli ambientalisti, i “soliti verdi” , sono scesi ovviamente sul piede di guerra. Anche perché all’orizzonte si profila una minaccia ancora più grossa, quella della terza pi sta che segnerebbe davvero la fine del Parco e viene considerata comunque superflua: a pochi chilometri c’è infatti l’aeroporto torinese di Caselle e in Lombardia si potrebbero utilizzare meglio quello milanese di Linate, di Orio al Serio (Bergamo) e di Montichiari (Brescia). Ma è possibile mai che questi signori non si rendano conto della necessità di ampliare lo scalo della Malpensa, di migliorare i collegamenti e i servizi? Se fosse stato per loro, non si sarebbero mai costruite strade, auto strade, ponti, porti e aeroporti ...
Già, l’esercito degli ambientalisti. Qualcuno forse se li immagina come un popolo di cavernicoli, coperti da pelli di leopardo e armati di clave o bastoni, pronti a combattere contro il progresso e la mitica civiltà, a opporsi a qualsiasi progetto, a dire sempre “no”. E invece a volte sono anche realisti e ragionevoli, spesso perseguono obiettivi praticabili, addirittura propongono soluzioni alternative. Studiano i problemi, leggono libri, scrivono relazioni e molti parlano perfino l’inglese.
La verità è che qui ci stiamo giocando un tesoro di valore inestimabile. Una miniera di verde e di aria pulita, un “serbatoio di biodiversità”, con varie specie di fauna e di flora. Un grande museo all’aperto, attraversato dal “fiume azzurro”: 96 mila ettari a cavallo tra la Lombardia e in piccola parte il Piemonte, su un fronte di 105 chilometri dal Po al lago Maggiore. In tutto, 46 Comuni e tre Province (Milano, Varese e Pavia). Se la Padania non esiste soltanto nelle fantasie di Bossi e della Lega, questo allora è il suo cuore, il suo codice genetico, la sua memoria storica.
A una quindicina di chilometri in linea d’aria da Milano, per la capitale lombarda e per il suo hinterland è davvero un miracolo che il Parco del Ticino sia ancora in piedi. Ma questo è anche uno dei più Importanti corridoi naturali di collegamento tra il nord e il sud Europa. Non per niente l’Unesco gli ha attribuito il marchio del Mab, “Man and biosphere”, uomo e biosfera, con tutti i vincoli ambientali e paesaggistici che ne conseguono. E non a caso il Wwf, il Fai e Italia Nostra sollecitano da tempo un “sistema di tutela transnazionale Italia-Svizzera”.
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Ora è mai possibile che tutto questo non conti o comunque conti meno della bretella per Boffalora, un borgo medioevale di 4mila anime che con tutto il rispetto è pur sempre un paesotto? È vero che la nuova arteria fungerebbe opportunamente da circonvallazione, per evitare l’attraversamento di diversi centri abitati. Ma è proprio indispensabile costruire una dozzina di svincoli in 18 chilometri, tre per ciascun paese, con uscite Nord-Centro-Sud, come se fossero delle metropoli?
La revisione del progetto è adesso l’obiettivo minimo degli ambientalisti. Ogni svincolo, infatti, è un gigantesco quadrifoglio di asfalto e cemento che sottrae un’altra fetta di terreno al Parco. Restano, però, tutti i dubbi e le riserve sulla funzionalità complessiva dell’opera, nonostante che si riconosca generalmente l’esigenza di un migliore collegamento verso sud.
Di fronte a tante resistenze, e sotto la pressione politica del governo centrale, qualche amministratore non esita ad agitare lo spettro dell’isolamento dell’aeroporto. Ma come assicura l’ esperto del Wwf, Maurizio Rivolta, “tra le comunità locali e la popolazione cresce la consapevolezza che questa arteria stradale è decisamente sovradimensionata”. Le previsioni sulla “bretella della discordia” non superano in realtà la soglia dei diecimila veicoli al giorno, cor rispondènti al 15-20% del traffico che quotidianamente dovrebbe transitare su una strada a doppia carreggiata per renderla utile più di quanto non costi alla collettività.
A tutt’oggi, in forza della Legge quadro per le Aree protette e grazie all’impegno di quei “rompiscatole” degli ambientalisti, siamo riusciti almeno a salvaguardare un decimo del territorio nazionale. Ma già nel 1920 fu un liberale come Benedetto Croce, auspicando la costituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, a dire che le aree protette bisognava “costituirne là dove meglio convenga”. A quasi un secolo di distanza, noi rischiamo invece di distruggerle là dove fortunatamente ancora resistono.
link: Il dossier dei Verdi lombardi su Malpensa (fb)
Tutto cominciò mezzo secolo fa, nel 1953, a Novara, negli anni in cui si avviava a conclusione la ricostruzione e si avvicinava il boom. Fu allora che Vittorio Gregotti, fresco di laurea, fondò con Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino lo studio Architetti Associati. Oggi la Gregotti Associati - di cui fanno parte, con lo stesso Gregotti, Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi più una sessantina tra architetti e collaboratori - è il primo studio italiano che appare nella lista di "World Architecture" che statuisce i duecento maggiori studi del mondo e che da soli, complessivamente, impiegano oltre ventimila architetti.
Ovviamente ha lasciato Novara, opera da Milano come racconta attraverso progetti e immagini Gregotti Associati 1953-2003 (Skira-Rizzoli, pagg. 355, euro 39), il libro scritto da Guido Morpurgo, che dello studio è collaboratore e che presenta 150 lavori degli oltre mille realizzati. In copertina uno progetti più recenti, quello per la nuova Banca lombarda di Brescia perché, dice Vittorio Gregotti, «non voglio una commemorazione. Il libro non vuole essere una pietra tombale». E´ solo una tappa di un cammino brillante - l´ultima impresa è in Cina, seguita giorno dopo giorno da Augusto Cagnardi - a volte contestato, costellato di polemiche. Ma sempre sotto il segno dell´architettura. E sempre con un filo di ironia e una punta di amarezza. Racconta Gregotti: «Quando ho cominciato l´architettura non aveva una grande popolarità. Non ce l´ha nemmeno adesso ma oggi gli architetti si sono trasformati in qualcosa che somiglia al modo di essere dei calciatori o dei cantanti. Cercano di conquistare il pubblico, la massa. L´architettura è diventata più popolare ma nei suoi aspetti più estetici e più esteriori».
Solo spettacolo...
«Oggi il pubblico è più sensibile alle cose di moda. Ma non è più interessato di ieri all´architettura. E´ l´atteggiamento che hanno anche i mass media. Parlano architettura solo per il grande scandalo o per il grande palazzo. Come è avvenuto, ad esempio, in occasione dell´apertura del Guggenheim di Bilbao».
Eppure nel tempo qualcosa è cambiato.
«Sono cambiati i processi, è cambiato il modo di produzione dell´edilizia, è aumentata la committenza privata ed è diminuita quella pubblica. Si è aperta una discussione sull´eredità del moderno, si sono affacciati i postmoderni. Ma è passato anche questo. Adesso non c´è una tendenza imperante. Oggi come nelle arti visive si rappresentano le opinioni della maggioranza. Non c´è più una critica di fondo ma semplicemente estetica. C´è stato un periodo in cui il grande tema dell´arte era la rottura delle regole. Il compito dell´avanguardia odierna è la ricostruzione delle regole».
L´irrompere della committenza privata dunque ha modificato lo stato delle cose.
«Nel nostro paese la committenza privata è meglio di quella pubblica. Quest´ultima non solo si è trasformata in modo speculativo ma addirittura salta completamente la cultura italiana. Negli ultimi anni tutti i concorsi pubblici sono stati vinti da architetti stranieri. In questo modo la committenza cerca di evitare la discussione e il confronto. Lavora con lo star system internazionale invece che affrontare le questioni. Da noi c´è un curioso esotismo. Questo non avviene negli altri paesi europei».
Esterofili...
«E´ così. Se vince un concorso Foster, ad esempio, si superano di colpo tutti gli architetti e non ci sono proteste».
Forse è colpa degli architetti italiani. Sono sempre in litigio tra loro.
«Litigi... Un tempo l´architetto portava pochi progetti nella società che venivano guardati e discussi con attenzione. Ora gli architetti sono migliaia. Questo è il guaio. In Italia ci sono sessantamila studenti di architettura, in Francia tredicimila. Sul resto... Aggiungo che purtroppo oggi c´è un grande interesse per l´oggetto non per il disegno urbano. Quello che si vede è design ingigantito».
Design ingigantito?
«Design ingrandito, questo è uno dei risultati dell´architettura odierna. Nel nostro paese il design è una delle attività che si è più deformata».
Allora è giusto avere una legge sulla qualità dell´architettura.
«Può servire per dimostrare un certo interesse verso l´architettura, per distribuire del lavoro ai giovani. Ma chi decide la qualità? La qualità imposta per legge poteva esistere quando c´era un´accademia».
Parla di sistema e di regola. Anche i suoi interventi sono stati contestati: lo stadio di Genova, detto per non vendenti, e il quartiere Zen di Palermo.
«Il progetto del quartiere Zen lo rifarei uguale. Non è mai stato finito. Non è mai stato completato. Non ci sono servizi, energia elettrica. E´ rimasta un´idea, che ancor oggi è valida. Come tessuto urbano è infinitamente migliore dei quartieri speculativi di Palermo. Si è creata una leggenda metropolitana intorno allo Zen. E´ come il Corviale di Roma dove non sono mai stati portati i servizi. Io lo difendo. Quanto a Genova... Abbiamo lavorato in condizioni pessime, il presidente della Sampdoria voleva ricattare l´amministrazione. E´ uno slogan inventato dai media. Non è vero che c´è una zona dove non si vede. E´ rimasta l´etichetta».
Non è mai colpa degli architetti, le responsabilità sono sempre esterne. E´ un refrain...
«Non si può parlare di architetti in generale. E´ una categoria che non esiste e in cui non mi riconosco. Ognuno è responsabile del proprio lavoro. Noi riflettiamo su quello che facciamo, abbiamo una grande passione per questo mestiere. Su molte cose la vera responsabilità è delle istituzioni. Dipende da loro, dal sistema. Il grande problema italiano sono le istituzioni».
Lei è stato amico di celebri architetti, dei padri dell´architettura. Qual è quello a cui si sente più legato?
«Ho conosciuto molto bene e sono stato molto amico di Walter Gropius. Incarnava anche fisicamente la cultura europea degli anni Venti, era una persona straordinaria capace di avere grandi contatti personali, un genio assoluto, capace di farti capire che quello della modernità non è più un problema tecnico ma che quello che conta è il significato e la finalità».
Anche se piuttosto recente e per molti versi attualissimo, il testo che riportiamo di seguito è già “vecchio”, perché il parlamento ha ormai definitivamente approvato l’istituzione della Provincia di Monza e della Brianza, relegando nell’ambito dell’esercitazione accademica buona parte delle ragionevoli riflessioni prodotte in passato e auspicabili in futuro sulla principale area metropolitana del paese (e forse anche, per riflesso, su altre). E stavolta non è proprio il caso di prendersela col centrodestra, anche se il capofila dei proponenti la nuova provincia è Umberto Bossi: il centro sinistra, locale e non, è stato parte attiva in questa battaglia di retroguardia.
Comunque finisca la contesa elettorale per la Provincia di Milano, quella della nuova amministrazione brianzola è una ipoteca bella e grossa piazzata sul futuro del coordinamento territoriale, proprio mentre avanzano moltiplicati i grandi progetti (lontanissimi, loro, dai particolarismi). Resta solo la speranza che la nuova entità non inizi da subito particolarissime “strategie territoriali” di scala sovracomunale, che a qualche centinaio di metri dal confine del comune di Milano sembrerebbero davvero piuttosto incongrue. La speranza è l’ultima a morire, come si dice. E si spera, appunto. (fb)
Valentino Ballabio, Vincere e convincere alla Provincia di Milano. Un programma metropolitano per cercare di non ripetere stessi errori e sconfitte
La città infinita
La Triennale di Milano propone una singolare mostra, intitolata “la città infinita”, centrata su di una grande tavola, che copre tutto l’impiantito ed una parete laterale, la quale riporta il cosiddetto “aereofotogrammetrico” del nord Milano, dalla Martesana sino alle Prealpi, dal Ticino alle valli bresciane. Il visitatore può quindi spostarsi “a piedi” nella parte superiore del territorio metropolitano, riprodotto in scala apprezzabile e soprattutto fedele. La mega-fotografia del territorio consente pertanto di valutare nel suo insieme l’espansione caotica ed “a macchia d’olio”, accelerata dalla “deregulation” degli anni Ottanta e Novanta, esplosa al di fuori di ogni pianificazione e razionale destinazione d’uso del suolo.
L’effetto in scala reale di tale insensata cementificazione si riscontra nelle chilometriche code in tangenziale, nella insufficienza della rete del trasporto pubblico, nell’inquinamento acustico ed atmosferico, nel rischio alluvione ad ogni pioggia un po’ più intensa. D’altra parte se sia le funzioni residenziali che quelle produttive vengono polverizzate, disseminando “palazzine immerse nel verde” e anonimi capannoni-parallelepipedo tra le campagne ed i boschi residuali, il risultato – oltre che spreco e improvvida impermeabilizzazione del suolo – consiste nella irraggiungibilità mediante mezzo pubblico e inevitabile moltiplicazione del mezzo privato.
Col “senno di poi” le cose avrebbero potuto andare diversamente.
Negli anni Sessanta e Settanta, quando Milano ed i comuni della provincia avevano dato vita al P.I.M. (Piano Intercomunale Milanese), una lungimirante attenzione all’interesse pubblico aveva precocemente intuito la questione della pianificazione di ampia area. Purtroppo questa illuminata intenzione si è chiusa assai presto, offuscata dalle urbanistiche contrattate dei Berlusconi, dei Ligresti, dei Cabassi e simili, assecondate dalla politica della “Milano da bere”, insofferente a lacci e laccioli, e ovviamente alla rigidità dei vincoli edificatori, ma sensibile ad appalti, affari e rendita immobiliare. Il risultato e sotto gli occhi di tutti.
Il piano territoriale provinciale
Negli anni Novanta si è tuttavia presentata una nuova buona occasione per invertire la tendenza e cercare di chiudere la stalla prima che i buoi fossero tutti scappati: la Legge 142 del 1990 affidava infatti alle province il compito di redigere i piani territoriali di coordinamento, ovvero disegnare la maglia all’interno della quali i comuni avrebbero organizzato il proprio territorio autonomamente ma in modo appunto “coordinato”. La stessa legge prescriveva inoltre (entro sei mesi!) l’istituzione delle città metropolitane. Doppia occasione d’oro, si direbbe, per il centro-sinistra già allargato a Rifondazione che avrebbe governato la provincia di Milano dal 1995 al 1999. Tuttavia purtroppo occasione mancata, perché la Giunta Tamberi ha improvvidamente rinunciato a mettere a frutto entrambe le opportunità, col risultato di riconsegnare la provincia al centro-destra, che avrebbe a sua volta approvato un piano finto, privo di efficacia ed utilità. Dunque non basta “vincere” (esistono anche le vittorie di Pirro): la vittoria elettorale ha senso se intesa come mezzo per restituire in termini di buon governo la fiducia ottenuta dagli elettori, non un fine in sé ossia mera occupazione pro-tempore di poltrone, poltroncine ed auto blu. Ovvio ma non scontato!
In realtà la mancata adozione del piano territoriale da parte del centro-sinistra, malgrado l’ottimo studio al riguardo elaborato da Giuseppe Boatti, é dovuta a due cause: una secondaria ed una principale. Quella secondaria consiste nella sciagurata decisione di modificare lo statuto provinciale (approvata alla quasi unanimità tranne un voto) nel senso di moltiplicare il numero degli assessori. Tale astuta trovata ha comportato lo sdoppiamento dell’assessorato al territorio, per inventarne uno nuovo alla viabilità (come se la viabilità non insistesse sul territorio), creando ovviamente attriti e dissonanze nonché disorientamento tra tecnici e funzionari.
La causa principale è tuttavia l’altra: l’atteggiamento del comune di Milano che, attraverso una lettera dell’allora assessore Lupi, diffidò esplicitamente Tamberi a procedere sul piano territoriale con un argomento che, tradotto dal burocratichese, si può riassumere nel seguente concetto “non hai capito che qui comando io!”. Tamberi e compagni alzarono subito bandiera bianca ed affrontarono la campagna elettorale non con l’argomento forte di chiamare l’elettorato a legittimare il Piano, bensì con quello debole della “provincia che ha fatto strada” moltiplicando le rotatorie agli incroci. Un lavoretto da geometri!
Il risultato di questa assenza di idee chiare e indirizzi precisi (“riformisti”, per carità!) è stato di consegnare l’Ente Provincia per un quinquennio alla signora (in rosso, per colmo della beffa) per una manciata di voti.
Per amor di verità occorre anche dire che l’insofferenza verso un piano sovracomunale, capace di imporre vincoli e di prevedere infrastrutture di rete non sempre gradite a livello locale, non si è manifestata solo da parte del comune di Milano, bensì anche da parte di molti sindaci portati inevitabilmente a pensare, e non solo agire, localmente. Il che è legittimo da parte loro. Tuttavia un governo metropolitano vero deve aver la capacità di affrontare i problemi con una visione d’insieme, evitando di appiattirsi sui comuni, compresi quelli di segno politico amico. L’area metropolitana si configura come sistema territoriale, economico e sociale unitario, e come tale merita di essere governato, fatte salve le competenze precipuamente locali da affidarsi tutte al livello municipale.
Resta il fatto che la difficoltà di governare le tematiche aventi dimensione metropolitana è dovuta all’improprio strapotere del Palazzo Marino, ed alla complementare debolezza strutturale di un Palazzo Isimbardi ridotto ad un ruolo subalterno e sostanzialmente superfluo.
Il nuovo ordine costituzionale
Tuttavia l’avvento del millennio ha comportato una nuova eccellente opportunità: l’approvazione, con un colpo d’ala del morente governo di centro-sinistra, del Titolo V° della Costituzione, confermato con referendum popolare.
Finalmente alle città metropolitane viene conferita dignità costituzionale. Un’altra occasione d’oro per i Riformisti di vario marchio e formato? Purtroppo niente di tutto questo. L’iniziativa politica e (sub)culturale sul terreno delle “riforme” istituzionali, nel senso degli eccessi disgregatori e segregatori della “devoluscion”, tornano ben presto in mano alla rozza e retriva demagogia di Bossi.
Il centro-sinistra (almeno milanese, perché alla città di Roma sembra risuoni tutt’altra musica) continua a mancare le occasioni per una politica ed un programma validi e coerenti. Se ne è ben guardato dal sostenere il disegno di legge presentato al Senato da Antonio Pizzinato (un ottimo testo proteso a dare attuazione al Titolo V° nella realtà milanese), pressoché ignorato e vilipeso ancorché co-firmato da altri nove senatori tra DS, Margherita, SDI, Verdi e PdCI. Al contrario ha dato corda e copertura all’assurda “secessione” di Monza e (un pezzo) di Brianza in autonoma provincia, non opponendosi ed anzi assecondandone l’istituzione, già passata in un ramo del Parlamento! Senza capire che la città metropolitana, imponendo il decentramento spinto del capoluogo in autonome municipalità, farebbe venir meno il ruolo di “asso pigliatutto” dell’Albertini di turno, ovvero il principale motivo che ha spinto i monzesi ad illudersi di separarsi erigendo una barriera del tutto virtuale verso Sesto, Cinisello e Cologno Monzese! Senza capire le potenzialità di un sviluppo policentrico che trasferisce la cultura, l’università e la ricerca sulle aree ex Pirelli e Falck, e dunque promuove l’hinterland, vecchia frontiera periferica, a nuova cerniera urbana.
Probabile invece che la frammentazione, la confusione e la contraddittorietà dell’architettura istituzionale, propria delle scomposte iniziative e delle sciatte idee prevalenti, comporterà ulteriore degrado e devastazione del territorio, nonché complessivo indebolimento e perdita di capacità competitiva dell’area milanese rispetto alle altre metropoli europee.
Sarà ancora possibile far tesoro dell’esperienza e modificare la prospettiva in vista delle imminenti e vincenti elezioni provinciali? Date le premesse, di metodo e di programma, francamente chi scrive ne dubita. Tuttavia, benché la valutazione pessimistica circa la levatura della politica milanese sia ormai divenuta senso comune, non si deve del tutto disperare. Sotto la pelle di una società all’apparenza avvilita e disanimata, sia pure disperse ed isolate, pensano ed agiscono forze civili e culturali riflessive ed impegnate. Il miracolo di un decollo a cavalcioni di scope alate non si è ripetuto a tutt’oggi. Ma sperare non è vietato!
Nota: link al sito della rivista Il Ponte
Con il placet della Giunta, la nuova legge toscana sul governo del territorio comincia il suo cammino «parlamentare». Non è e non sarà un evento istituzionale di poco momento. Si tratta di definire come continuare e come innovare cultura, principi e metodi cui debbono ispirarsi e attenersi Comuni, Province e Regione nell´amministrare la maggiore ricchezza di cui disponiamo e che più ci identifica e accomuna come toscani.
La nuova legge regionale sviluppa principi e regole della legge 5 del 1995 - una delle leggi in materia più apprezzate e studiate in Italia - e ne dà aggiornamento sia al mutato quadro costituzionale (il nuovo titolo V) sia a quanto nel frattempo avvenuto nel territorio toscano. Inoltre, aggrega al suo interno l´insieme delle disposizioni normative regionali vigenti nella disciplina urbanistica ed edilizia, proponendosi come il «codice» di riferimento per amministratori e operatori. I profili valoriali legati al come, quanto e perché pianificare l´uso del territorio e delle sue risorse non sono nuovi. Ma vi vengono declinati con maggiore nettezza. A cominciare da una nozione di «sviluppo sostenibile» che pur gravido di significati molteplici ed evocativi, è comunque ancorato ad una chiara tipologia di beni pubblici non negoziabili o comunque da garantirsi quali che siano le buone ragioni dell´innovazione territoriale. A questo servono quelle «invarianti strutturali» alla cui definizione è tenuto ogni governo locale quando disegna nuovi interventi insediativi o di trasformazione territoriale: che mai possono ridurre «...in modo significativo e irreversibile» (art. 3, coma 3) aria, acqua suolo ed ecosistemi della fauna e della flora; città e sistemi insediativi; paesaggio e documenti materiali della cultura; sistemi infrastrutturali e tecnologici. E mai lo possono fare non come salvaguardia di un bene collettivo nella sua formale o statica preesistenza. Ma come tutela di beni fruiti dalla collettività per la sua crescita e che debbono continuare ad esserlo.
Tuttavia, per nutrire simili ambizioni di governo, valori, principi e auspici non bastano. Occorrono strumenti. Se non vogliamo altre villette a schiera sui crinali delle colline o aree industriali a macchia di leopardo nei territori di comuni limitrofi. Questi strumenti la nuova legge toscana li individua non in nuove gerarchie tra potere regionale, potere provinciale e potere comunale.
Che la Costituzione del nuovo titolo V ha immolato sull´altare della sussidiarietà verticale. Bensì in quella che Dante Alighieri chiamava governazione e che noi - solerti meticci - chiamiamo governance.
In una parola: differenti ma analoghe missioni tra a) quello che è il governo del territorio a livello regionale (la «grande visione» di ciò che almeno si vuole non accada nell´insieme del territorio regionale, per incanalare entro visioni condivise di medio e lungo andare le sollecitazioni al cambiamento e alla trasformazione cui è perennemente sottoposto il suo tessuto); b) quanto di analogo compete alle Province sulla propria scala territoriale di riferimento e nella propria capacità di coordinamento tra le opzioni e le compatibilità delle scelte municipali; e c) quanto spetta decidere ai singoli Comuni, a più diretto contatto con chi materialmente costruisce, consuma e trasforma. Il tutto, però, non su basi autoritarie bensì mediante un intenso e costante lavorìo di confronto e concertazione tra analisi, programmi e strategie in cui ciascuna istituzione reca il contributo della propria capacità di visione e del proprio impegno di aggregazione e rappresentanza. L´immagine complessiva è quella di un grande cantiere che privilegia, piuttosto che specifiche capacità di comando, una regìa regionale costruita attorno a valori condivisi con le amministrazioni locali e a standard conoscitivi elevati circa i fenomeni territoriali da governare. Una regìa, dunque, che immagina la possibilità di prevenire i conflitti tra istituzioni mediante procedimenti duttili e articolati nella formazione degli strumenti e degli atti di governo del territorio e attraverso una complessiva omologazione nei criteri.
Può bastare? Più che altro «deve» bastare. Siamo il paese europeo in cui i Comuni hanno sovranità garantita circa le proprie opzioni urbanistiche finali.
Per cui una regione che non si diverta a lanciare inerti proclami non ha strade di altro tipo. La legge comunque prevede strumenti di arbitrato sui conflitti tra istituzioni di governo che appaiono innovativi e potenti, almeno sul piano della loro capacità di political suasion regionale, come la «Conferenza paritetica istituzionale». O strumenti di coordinamento consensuale e integrazione preventiva tra strategie pianificatorie di enti diversi, come gli «Accordi di pianificazione». Anch´essi legati alle risorse di argomentazione politica di chi li promuova e di chi vi partecipi. Inoltre va anche rammentato che la nuova legge entrerà in vigore con una situazione normativa, pianificatoria e operativa già abbondantemente strutturata. Il lavoro essenziale dei prossimi anni consisterà nel mettere coerentemente in opera opzioni già in gran parte consolidate e nel correlarle a quelle politiche di sviluppo e innovazione, in una pluralità di settori (dall´impresa alle infrastrutture) dell´azione regionale, che la legge in modo corretto e innovativo riassorbe nei doveri regionali di governo del territorio. Per questo le chances di successo di questa legge dipendono, forse ancor più di sempre, dai modi con cui si regoleranno e adopreranno strumenti analitici e tecniche conoscitive (e dunque, prima di tutto, che uso ne faranno dirigenti, tecnici, esperti - a cominciare dai «responsabili dei procedimenti» - e non solo i politici dei vari enti) che essa attiva per governare sapientemente il territorio e per dare gambe al suo disegno di governance.
Tra queste, cruciale è una nozione di «valutazione integrata» che meritoriamente la legge delinea come istituto necessario e pregiudiziale alla formazione degli strumenti del governo del territorio. Dove «integrata» sta per consapevole degli effetti anche ambientali, economici, sociali oltre che territoriali delle opzioni di governo: anche di quelle che attengono a politiche non propriamente territoriali o urbanistiche ma che un impatto territoriale ce l´hanno comunque. Ed è proprio su questo snodo, su questa capacità di innestare, sul pernio della valutazione, politiche di segno diverso ma accomunate da una comune «pre-occupazione» territoriale, che si gioca gran parte della partita che la nuova 5 ha voluto ingaggiare. Come dare a tale nozione una concettualizzazione operativa e sistematica, per evitare che essa diventi un mero adempimento procedurale, è altro capitolo. In gran parte da scrivere
Volete guidare l'auto del futuro? E' giapponese o, forse, americana. Volete un miracoloso ritrovato della nuova medicina, che ripari il vostro Dna? Il rimedio è svizzero, inglese, americano, magari belga. Credete nel futuro dell'infinitamente piccolo e vi incuriosisce un nanomotore, grande quanto una molecola, capace di alzare pesi e di lavorare in squadra con altre nanomacchine? Vi può capitare di leggere l'annuncio della scoperta in italiano, ma, per vederla realizzata, meglio guardare alla California. A casa nostra, facciamo, invece, raffinati vasi di plastica o scarpe con i buchi per non far sudare i piedi. Roba buona, a volte geniale, che spesso si vende benissimo, ma che si copia in un baleno o che dura sul mercato solo finché la sorregge l'ispirazione. Low-tech, come si dice, perché di nuovo, che gli altri devono imparare, c'è poco. Ovvero, per usare il gergo degli economisti, il contrario di quei settori di alta tecnologia, "a forte processo di apprendimento - spiega Mario Pianta, docente di Economia dell'Innovazione a Urbino - che assicurano rendimenti crescenti e balzi di produttività". E che sono, nel mondo di oggi, dove la parola d'ordine del futuro è "knowledge economy", economia della conoscenza, la ricetta che rende (e fa restare) ricchi.
Una recente ricerca di una società inglese di consulenza, la Robert Huggins Associates, annuncia che, nei prossimi anni, in tutte le regioni italiane (nessuna esclusa, neanche la Lombardia e il Nord Est) il reddito pro capite perderà terreno rispetto alla media europea: anche chi oggi sta sopra quella media, vedrà ridursi il suo vantaggio. Se i dati daranno ragione alla Huggins, sarà il sigillo dell'inesorabile scivolare dell'Italia nella serie B dell'economia planetaria.
Qualsiasi economista, ormai, predice che, per sola forza d'inerzia, i numeri della crescita economica di giganti come la Cina, l'India, il Brasile, ci spintoneranno, più prima che poi, fuori dal G7, i Sette Grandi, il club dei ricchi del mondo. Ma già oggi siamo fuori da qualsiasi G7 della ricerca e dell'innovazione: la Cina, nel 2002, ha speso 60 miliardi di dollari per la ricerca. Solo Usa e Giappone hanno speso di più. L'India ne ha investiti 19 miliardi ed è fra i primi dieci al mondo. L'Italia, che pure ha un prodotto nazionale più grande dell'una e dell'altra, ha speso per la ricerca 10 miliardi di dollari, meno dell'anno prima. Il problema è che, fra questa classifica e annunci come quelli della Robert Huggins, c'è un rapporto e anche stretto. La serie B, come qualsiasi appassionato di calcio, ormai esperto di Borsa e di plusvalenze di bilancio, sa benissimo, non è solo un problema di prestigio, ma un colpo di scure sulle prospettive di incassi e di investimenti.
Da tre anni, l'economia italiana è in panne. Francia e Germania, come non si stancano di ripetere i ministri del governo Berlusconi, non stanno meglio: la crisi apertasi con gli attentati dell'11 settembre 2001 vale per tutti. Ma c'è una differenza. Fra il 2000 e il 2004, la Germania, nonostante la crisi, ha aumentato le esportazioni del 15 per cento. La Francia del 12 per cento. In Italia sono diminuite del 7 per cento. Perché tanta sensibilità alla congiuntura? Proviamo a guardare le statistiche dall'altro lato. I settori più dinamici del commercio mondiale, negli ultimi dieci anni sono stati: farmaceutica, elettronica di consumo, computer, macchinari elettrici, strumenti di precisione, aerei. Insieme, costituiscono ormai un quarto di tutto l'interscambio. Sono i beni che le statistiche definiscono high-tech, tranne i macchinari elettrici, che rientrano nei beni a media tecnologia e sono anche gli unici in cui l'Italia abbia una presenza significativa.
Nei beni ad alta tecnologia, la quota italiana del commercio mondiale si era già ridotta di un quarto fra il 1996 e il 2000, dal 2,20 all'1,64 per cento. Ormai ce la battiamo con la Spagna. Fra la trentina di paesi dell'Ocse, l'organizzazione dei paesi industrializzati, solo Polonia, Grecia e Turchia stanno peggio. Sono questi, ormai, lontani da qualsiasi zona Champions o Uefa, confinati nella parte bassa della classifica, i nostri avversari. Francia e Germania contano nell'economia globale dell'alta tecnologia per il doppio di noi, la Gran Bretagna per il triplo. La stessa Ocse produce ogni anno una sorta di pagellone della scienza e della tecnologia, che classifica i paesi industrializzati secondo 200 diversi indicatori. Nella stragrande maggioranza, i risultati ci inchiodano nella zona retrocessione. Il primo indicatore, ad esempio, misura gli "investimenti in sapere", dove i ricercatori Ocse sommano la spesa per la ricerca, la spesa per l'istruzione superiore, la spesa per il software. Fra il 1992 e il 2000, gli anni in cui è esplosa la "knowledge economy", il tasso di aumento di questi investimenti, che ne sono il motore fondamentale, è stato in Italia il più basso di tutto il mondo sviluppato. Peraltro, l'unica cosa che è davvero aumentata è la spesa per software: le altre due voci - ricerca e istruzione - sono, di fatto, diminuite. Anche la Republica Slovacca investe in sapere una quota maggiore dell'Italia del prodotto nazionale. Portogallo, Polonia, Messico e Grecia partono più indietro di noi, ma i loro investimenti in conoscenza aumentano dell'8 per cento l'anno, i nostri dell'1,8 per cento. E' solo questione di tempo, perché ci raggiungano.
La conferma viene da quello che gli inglesi chiamerebbero "votare con i piedi". Dove vanno gli agenti portatori della economia della conoscenza: gli studiosi e i ricercatori, che sono il fattore più globalizzato della "knowledge economy" che, a sua volta, è il settore più globalizzato dell'economia globale? Il numero di laureati stranieri che lavora nelle università italiane è pari all'1 per cento del personale universitario di ricerca, come in Messico e in Corea. I laureati stranieri sono il 33 per cento nelle università di Svizzera, Gran Bretagna e Belgio, il 27 per cento negli Usa, il 18 per cento in Danimarca. La strada, del resto, è indicata per primi dai laureati italiani. Il 3-4 per cento di loro, ogni anno, va a studiare e a lavorare all'estero, dove ha più prospettive di ricerca e di carriera, oltre a stipendi che sono, di solito, il triplo di quello che avrebbero in Italia. La stessa percentuale è dell'1 per cento nel resto d'Europa. Non va meglio nel privato: nell'industria italiana ci sono 3 ricercatori ogni mille addetti In Spagna sono 4, la media europea è 5, in Usa, Giappone e Svezia stiamo fra 9 e 10.
Eppure, l'asfissia della ricerca italiana non è (ancora) compiuta. Se si va a vedere il numero di pubblicazioni scientifiche - ad esempio, ma non solo, in un settore nuovissimo come le nanotecnologie (un nanometro è un milionesimo di millimetro: così si misurano i transistor dei chip nei computer) - l'Italia occupa una posizione rispettabile. Anzi, per blandire l'orgoglio nazionale, se si guarda al numero di citazioni - che misurano la risonanza di una ricerca - la classifica italiana è decisamente buona. I guai cominciano dopo. "E infatti - dice Giancarlo Salviati, che lavora all'Imem, l'Istituto Materiali per Elettronica e Magnetismo del Cnr - ci invitano ai convegni, a tenere relazioni, ci pubblicano. Poi, cominciano i problemi. Io, Salviati, posso essere bravo quanto un collega belga, ma se lui ha la macchina e io no, il progetto va a lui. E le macchine costano: in optometria, una macchina per misurare costa 2 milioni di euro e quella per verificare cosa c'è che non funziona ne costa uno. Dopo di che, c'è solo da sperare che non si rompano. Il risultato è lavorare con roba obsoleta: il mio microscopio elettronico ha la bella età di 18 anni". Nei mesi scorsi, l'università di Bologna ha messo a rumore il mondo scientifico, inventando il nanospider, un aggeggio grande quanto una molecola, con tre gambe e tre anelli, capace di sollevare un peso tre miliardi di volte superiore al suo. L'hanno inventato all'università di Bologna, ma, per realizzarlo in concreto, hanno dovuto rivolgersi ai colleghi dell'università di California. C'è un modo per misurare questo scollamento fra scoperta e realizzazione: i brevetti. "Da molti anni - dice Luciano Gallino, l'autore de "La scomparsa dell'Italia industriale" - acquistiamo molti più brevetti di quanti ne produciamo. Inoltre, i nostri sono, per lo più, a basso contenuto tecnologico. Solo il 10 per cento può essere definito high-tech. E' una brutta pagella".
Guardiamo più da vicino. "Dieci anni fa - osserva Mario Pianta - la letteratura scientifica italiana era ancora tutta concentrata su fisica, ingegneria, chimica. Invece americani, svedesi, inglesi, francesi, tedeschi, giapponesi si erano già lanciati sulle scienze della vita - biologia, genetica, medicina - che sono il boom di questi anni". Scontiamo ancora questo ritardo: solo il 2 per cento delle pubblicazioni sulle riviste internazionali di biotecnologia è italiano. Giapponesi e inglesi sono al 10 per cento, francesi e tedeschi al 6, gli spagnoli al 2,6 per cento. E anche nei nostri supposti settori forti, "oggi la Corea vale l'Italia per i brevetti nelle tecnologie intermedie, ma è molto più avanti, ad esempio, su elettronica e computer". Insomma, aggiunge Pianta, "oggi scopriamo di essere arrivati alla stazione con l'accelerato, anziché con l'Eurostar e, così, abbiamo perso la coincidenza. Intanto, però, era arrivata la corriera con i coreani e gli indiani che, quel treno, l'hanno preso". (1-continua)
LA POLITICA fiscale appare allo stato dei fatti il terreno su cui si giocherà la partita decisiva. Berlusconi, di fronte al sentore di una possibile sconfitta è riuscito a imbastire una controffensiva che sarebbe sciocco sottovalutare o irridere. Se è vero che la "svolta epocale" contrabbanda una patacca poiché gli sgravi corrispondono o a tagli niente affatto indolori alla spesa o ad entrate aleatorie, è anche evidente che l´effetto d´annuncio un qualche risultato lo ha raggiunto. Innanzi tutto perché quei "pochi, maledetti e subito" che i contribuenti, chi più chi meno, si troveranno in tasca costituiscono, pur tuttavia, la riprova di una volontà politica imposta dal premier agli alleati riluttanti e all´Europa diffidente.
In secondo luogo il premier, grazie anche al dominio mediatico e ad una soggezione culturale dei suoi avversari, è riuscito ad imporre un disvalore che il centrosinistra farebbe bene, invece, a rovesciare: quello secondo cui la spesa pubblica equivale in toto a spreco e a denaro mal speso.
Non si può purtroppo affermare che l´opposizione si sia dimostrata finora capace di difendere la natura universalistica del Welfare, di proporre le riforme per assicurarne la compatibilità economica, di affermarne il valore unificante e redistributivo del reddito in una società altrimenti frammentata e marcata da ingiustizie accentuate. Il terzo successo che la destra potrebbe incamerare risiede nello slogan appioppato al centro sinistra di "partito delle tasse", che Berlusconi ha cominciato a far rimbombare.
Risposta troppo debole appare quella di suggerire un taglio fiscale, analogo per dimensione a quello berlusconiano ma diversamente modulato, così che un vantaggio differenziale si rifletta sui ceti deboli. Non apparirà mai credibile una opposizione che insegua, pur con qualche correzione, la maggioranza sul suo stesso terreno.
Solo se è in grado di prospettare una strada alternativa il centrosinistra sarà in grado di competere con una credibilità convincente. Prima di ogni altra cosa va riproposto il valore etico della tassazione progressiva e proporzionale, del significato che essa ha per un Paese che aspiri ad educare i suoi cittadini, curarne il diritto alla salute, garantirne la vecchiaia, amministrarne la giustizia, assicurarne l´ordine pubblico, esaltarne il ruolo internazionale e la sua sicurezza, proteggerne la natura e il patrimonio artistico. Tutto questo implica una spesa - la spesa pubblica, appunto - cui corrisponde il contributo fiscale le cui dimensioni e suddivisioni sono democraticamente decise dal Parlamento.
Frasi di scontata retorica repubblicana, potrà dire qualcuno e forse un tempo avrebbe avuto ragione. Ma quella retorica, quelle frasi scontate si son fatte ormai desuete e difficili da pronunciare. Sconciate prima da Tangentopoli, che piegò la spesa pubblica a fini clientelari e corruttivi, svillaneggiate poi dal finto liberismo berlusconiano, esse son finite fuori corso, quasi inavvertitamente. Con la conseguenza che il centrosinistra, assieme alle parole si è lasciato sfuggire i valori che vi corrispondevano, senza più distinguere tra le critiche indispensabili ai difetti e alle storture che si erano sviluppati nella spesa pubblica e nel Welfare e la campagna distruttiva che mira a sradicarli. Così si sono assimilate parole e concetti che non le appartenevano: "aziendalizzazione" quale metro di misura di sanità e scuola; oppure "federalismo" in luogo di "unità nazionale".
È, dunque, indispensabile che l´universo riformista recuperi anche nel linguaggio e nei contenuti le proprie radici e i propri valori. La spesa pubblica vi appartiene di diritto. L´etica fiscale ne deriva. Faccio un esempio.
Gli pseudoliberisti e i loro emuli di sinistra si affannano a ripetere che la spesa sanitaria pubblica è eccessiva e fuori controllo. A Porta a Porta sere orsono Bruno Vespa ha ripetuto senza che nessuno lo contraddicesse che in questo campo si consumano sprechi enormi. Si può convenire su alcune e specifiche voci ma nell´assieme non è così. La spesa pubblica in questo settore rientra nella fascia media dei paesi europei (poco più del 6% del Pil) e lo squilibrio finanziario che essa genera va misurato avendo ben presente che lo stanziamento è in partenza troppo basso in rapporto alle esigenze. I veri mali di cui soffre il nostro Servizio sanitario risalgono al controllo partitocratico della sua gestione, ai tagli nei magri bilanci e alla mancanza cronica di fondi. La "malasanità" costituisce l´eccezione che fa notizia, non la regola del giorno per giorno. Se la sinistra non si fosse innamorata dell´"aziendalizzazione" dovrebbe porre al centro del suo operare un rilancio forte della sanità pubblica allargandola alla sua maggiore carenza: il sostegno e l´assistenza quotidiana agli anziani non autosufficienti il cui numero cresce esponenzialmente con il prolungarsi dell´età media e che oggi gravano in grandissima parte sulle famiglie. Uno schieramento politico che si ponesse questo obbiettivo potrebbe chiedere ai cittadini la reintroduzione motivata di una imposta per la salute, proporzionale al reddito. Ecco cosa intendo per recupero di una etica fiscale riformista.
Per contro non posso nascondere il timore che prevalga nel centrosinistra la proposta di inserire nel programma elettorale una imposta patrimoniale e il recupero di quella sull´eredità. Anche esiziale sarebbe il lasciare la questione in sospeso tra il sì e il no, rinviando la decisione a dopo l´eventuale vittoria. Sol che in questo caso la sconfitta sarebbe scontata in partenza tale il giustificato timore della stragrande maggioranza delle famiglie di venir colpite non nel reddito prodotto, come è giusto, ma attraverso una taglieggiamento che impoverirebbe anno per anno il patrimonio e i risparmi, con la prospettiva della stangata finale ai figli cui tutti aspirano lasciare i frutti di una vita.
Se questa idea fosse solo di Bertinotti essa mi preoccuperebbe per il permanere in una frazione non trascurabile della sinistra di una visione della società italiana, fossilizzata e irrigidita nelle strutture uscite dal XIX secolo: una stragrande maggioranza di proletari, braccianti e contadini poveri che possiedono solo le loro braccia, da un lato, un sottile strato di borghesia impiegatizia e professionale in mezzo e, dall´altro capo della piramide, lor signori (agrari, industriali, finanzieri) dediti allo sfruttamento delle plebi e all´accumulo di ricchezza. Così non è più. Secondo il dato più recente (Rapporto Censis 2004) l´83% delle famiglie vive in casa di proprietà. La corsa all´acquisto si è accentuata negli ultimi anni ad un ritmo superiore alle 800.000 abitazioni all´anno in rapporto anche alle incertezze del risparmio in titoli. Inoltre, "stante la criticità degli affitti, la spinta all´acquisto, diffusa fra i ceti medi, tende ad allargarsi verso le fasce più basse. Più della metà dei 4 milioni di famiglie indebitate lo è per mutui accesi a questo fine".
Orbene la patrimoniale mira a colpire gli immobili, i risparmi in titoli, depositi, azione, gli eventuali beni di consumo durevoli (auto, barche, ecc.). Va tenuto presente che questi beni, quando sono dichiarati (se non lo sono continuerebbero a restare esenti di fatto), vengono già gravati di imposta, sia di tipo patrimoniale (Ici, spazzatura) sia per il reddito prodotto (per es. gli affitti, i dividendi, i profitti sui titoli, i depositi in c/c sono anche tassati, se pur in modo difforme). Inoltre mentre le singole proprietà sono individuabili e valutabili attraverso il catasto, le grandi proprietà immobiliari fanno capo a società per azioni in genere non quotate e tassate in quanto tali. Mi sembra evidente che una patrimoniale suonerebbe come persecutoria per la stragrande maggioranza del popolo italiano. Sarebbe devastante per i ceti medio bassi, irrilevante e di scarso peso per i veri ricchi, ininfluente per chi già evade il fisco. Analogo il discorso sulla reintroduzione d´una imposta ereditaria che, con la rivalutazione degli estimi catastali, cadrebbe anche su chi lascia tre camere e cucina. Oltre al portafoglio verrebbero colpiti anche i sentimenti più profondi e radicati degli italiani.
Vi è, peraltro, chi, come Eugenio Scalfari, suggerisce di introdurre la patrimoniale non certo per vetero classismo ma in seguito al fatto che l´incremento dei valori avrebbe creato una ricchezza patrimoniale statica.
Di qui l´esigenza di "prelevarne una quota". Sono quasi sempre d´accordo con Scalfari ma questa volta mi corre l´obbligo di esprimere una profonda perplessità, sia per le obiezioni già esposte (sono beni già tassati e di larghissima fruizione), sia perché non sono affatto convinto che la diffusione della proprietà edilizia non produca effetti produttivi sia diretti (quand le bâtiment va tout va) sia indotti, dagli elettrodomestici all´arredamento.
Comunque se simili idee seguiteranno ad aleggiare attorno ai programmi del centrosinistra i primi a rallegrarsene saranno - come ha scritto un´agenzia economica svizzera - i banchieri elvetici che vedranno i capitali italiani riprendere la via delle Alpi.
Esiste un´altra strada per alimentare le finanze pubbliche: colpire l´evasione e colmare la macroscopica divaricazione tributaria tra paese apparente e paese reale.
È stato Tremonti che recentemente ha ricordato come in Italia risultino solo 1181 persone che dichiarano un reddito pari o superiore ad un milione di euro (2 miliardi di lire) e solo 16.000 (per l´esattezza 15.953) con un reddito di 300mila euro (600 milioni di lire). Una cifra ridicola, paragonata, ad esempio, alla immatricolazione lo scorso anno di 220.000 grandi imbarcazioni da diporto e superstrada di grossa cilindrata.
L´Agenzia delle entrate valuta che sfuggano al fisco almeno 100 miliardi di euro. Ci si potrebbe chiedere se questa macroscopica evasione costituisca un fenomeno della natura contro cui i governi imprecano ma nulla possono. In realtà, poiché la fuga dal fisco si colloca nel grande bacino delle cosiddette attività autonome, basterebbe attivare almeno i controlli sulle dichiarazioni compilate in base agli "studi di settore", inventati da Augusto Fantozzi, quando era ministro delle Finanze di centrosinistra, per contrastare efficacemente l´evasione. Si tratta di un metodo di calcolo incrociato del rapporto tra fatturato, magazzino, numero dei dipendenti, metri quadri, vetrine, energia consumata, collocazione dell´esercizio od ufficio.
Su questa base il contribuente, inserendo i dati nel computer, ricava il "reddito lordo congruo" da cui dedurre le spese documentate. Se, però, i dati che inserisce non rispondono al vero, il reddito risulta più basso. Qui scatterebbe l´obbligo di controlli di massa, facilitati dalla computerizzazione, ad opera della Guardia di Finanza.
Il peso politico delle categorie interessate a una applicazione distratta degli "studi di settore" è però tale che la destra preferisce abbondare in condoni e predicare il taglio delle tasse, mentre la sinistra lascia libera circolazione a minacce di patrimoniale, tasse sulle "grandi ricchezze", imposte sulle successioni ed altri armamentari di varia demagogia.
Nell´iconografia tardomedievale una nave dei matti scioglie le vele al vento. Tale l´Italia berlusconiana. Basta dire i nudi fatti e viene fuori una versione italiana delle arringhe contro Filippo il Barbaro (Demostene, Atene 349-340 a.C.): l´aspetto originale sta nell´impasto d´ilare e macabro; cose da ridere se fosse una pantomima, ma è reality show dove un paese tira le cuoia. Nel salotto televisivo l´affarista conquistatore mugolava meraviglie cum figuris: imposte lievi, al diavolo l´austerità, opere pubbliche quali non sognavano i Faraoni, difendere i deboli, largo ai giovani; ciarle da fiera. Il destino baro vuole che 3 italiani su 10 le bevano: seguono 38 mesi d´inedia; aspettavano vacche grasse, le vedono fameliche, pell´e ossa. L´unico che s´arricchisca ancora, vertiginosamente, è lui, signore dell´illusione televisiva. Le urne lo puniscono. Due alleati su tre, usciti più o meno bene dalla prova, gli saltano addosso intavolando l´odiosa questione del debito pubblico. Venerdì 2 luglio presenta sul piatto la testa del Gran Visir d´economia virtuale; i soliti cantori intonano salmi: viva il nuovo corso aperto al pensiero collegiale. Domenica 4 riesplode l´egomania: prende lui il ministero vacante, un mostro a 5 teste; lo terrà fino a quando abbia riassestato i conti tagliando le imposte, due obiettivi assai poco compatibili. Nella nuova veste l´indomani vola a Parigi, annuncia che raschierà 7.5 miliardi, ottiene l´ovvio rinvio dell´early warning e torna vincitore, applaudito dai musicanti. Lunedì batte il pugno sul tavolo quando uno dei due alleati obliqui, mite democristiano in servizio permanente effettivo, ventila l´uscita dal governo: un ultimatum?; attento, così perde mezzo partito (id est, lui se lo compra). Ventiquattr´ore dopo appare remissivo: starà solo qualche giorno al ministero Moloch; ma l´ira traspare dalla minaccia d´andare alle urne sterminando i ribelli; e convoca un summit non stop da domenica sera, come nelle crudeli gare di ballo d´una volta, finché i meno resistenti cadano esanimi.
Giovedì 8 il governatore della Banca d´Italia nota quale suicidio sia ridurre le imposte gonfiando il debito pubblico, e lui non fiata. L´avvenimento interessante va in scena alla Camera. Bisognava discutere un ddl votato da Palazzo Madama sul conflitto d´interessi. Questione capitale. L´ammettono persino i finti ragionatori neutrali: è molto abnorme avere al governo, con poteri ignoti alla storia parlamentare, il padrone delle televisioni commerciali, egemone della Rai, arcieditore, banchiere, mercante, assicuratore, mani in pasta dovunque corrano soldi; classica situazione da óstracon, il coccio sul quale gli ateniesi scrivevano il nome della persona che fosse prudente escludere dalla contesa politica; l´unico antidoto sono le incompatibilità, ma il Centrosinistra al governo, traviato da cabale stupido-furbesche, non se n´è occupato. Questione insoluta, né era pensabile che la risolvesse lui, reinsediato una seconda volta dalle reti Mediaset: ha mascelle da caimano; e non è ragionevole aspettarsi una signorile astinenza dai caimani. Il ddl n. 1707D, infatti, modula l´idea sbalorditiva che il dominus d´un impero economico, quasi monopolista dei media, sia idoneo agl´incarichi governativi, purché non figuri negli organigrammi societari: quattro letture (28 febbraio e 4 luglio 2002, 22 luglio 2003, 10 marzo u.s.) apportano varianti cosmetiche; e arriva a Montecitorio l´8 luglio. La Cdl l´ha sempre votato militarmente. Stavolta coup de scène: è deserto il banco del governo; nemmeno un sottosegretario, tutti irreperibili; e trattandosi d´un disegno governativo, i regolamenti impongono il rinvio. Perché l´augusto interessato non vuole che diventi legge? Gliel´avevano cucito addosso, uno dei tanti doppiopetti. La risposta discende dall´art. 6: l´Antitrust sorveglia; accerta effetti distorsivi; applica pene pecuniarie; riferisce al Parlamento. Funzioni innocue se, qual è ora, non avesse un difetto. Lo dicono insensibile al vento d´Arcore: B. non se ne fida; e siccome il mandato scade tra sei mesi, la creatura resti nell´utero fino ad allora. L´art. 7 attribuisce analoghi poteri al garante delle comunicazioni. Qui Re Sole, anzi Lanterna (magica), corre minori rischi. Nel rapporto annuale, 9 luglio, il presidente diverte l´uditorio: Mediaset e Rai rastrellano l´86.5% della pubblicità; inutile dire chi sia il leone, ed era notorio che la soglia massima (30% rispetto al singolo operatore) fosse allegramente superata da sei anni; insomma, ventila ipotetiche sanzioni verso la fine del corrente mese; quali, non sappiamo, dall´innocuo biasimo in su; dipende dalle «precedenti istruttorie», al lume delle nove norme, essendo ormai in vigore la malfamata l. Gasparri, talmente fuori del quadro costituzionale da essere rinviata alle Camere, il cui secondo voto l´ha ritoccata pro forma. I vecchi oratori usavano dire «risum teneatis».
Domenica sera una cena chic apre il torneo a Palazzo Chigi. L´ormai insopportabile alleato democristiano chiede anche che il conflitto d´interessi sia presto risolto (rectius nascosto). L´anfitrione l´accoglie schiumando: sia meno ipocrita; sa benissimo perché gli elettori hanno risposto male; bisognava abrogare l´infausta l. 22 febbraio 2000 n. 28 che impone alle emittenti televisive una relativa par condicio nelle campagne elettorali; chi l´ha impedito?; lui; continui e subirà vendette Mediaset («le mie televisioni»). Invano quel mellifluo ciambellano venuto dalla più profonda seconda Repubblica, Talleyrand italiota, s´affanna a diluire l´effetto funesto. Nelle cronache del dialogo dietro le quinte («Corriere della Sera») l´epilogo è ancora più edificante. Non era una minaccia politica, spiega Sua Maestà, ridiventato affabile: sei milioni d´elettori democristiani guardano la tv, possibili clienti delle imprese che fanno pubblicità «sulle mie reti»; come può pensare che se li alieni? L´argomento interessa Antitrust e garante delle comunicazioni. Nell´uditorio del predetto rapporto sedeva l´ex-filosofo della scienza già fautore della ghigliottina Mani pulite, poi folgorato dal sole d´Arcore, furioso antigiustizialista, ora presidente del Senato, e in sorridente chiave dottorale rileva quanto poco influiscano gli schermi sulle scelte elettorali; col suo permesso, preferiamo l´analisi berlusconiana: ha influito la maledetta par condicio. Meno politico del macedone, l´odierno Filippo ha un punto debole nei fiotti verbali: governa l´Italia sull´ipotesi d´un virtuoso disinteresse negli affari Mediaset (ipotesi assurda, come se postulassimo Attila convertito in san Francesco: esistono limiti alle metamorfosi che Freud chiama Reaktionsbildungen); e davanti a testimoni afferma d´essere l´autentico imprenditore. Manca poco che salti il tavolo. Nella seconda seduta, lunedì 13, riazzanna Biancofiore: «gli spacco il partito»; «vuol distruggermi ma lo distruggo prima io». L´alleato infìdo post-Msi rifiuta inorridito il ministero dell´economia. Sua Maestà guarda torvo: troverà qualcuno; e medita stanziamenti monstre, se no «sarebbe una flebo al cadaverino» (riconosciamogli l´estro verbale), più i tagli Irpef senza i quali sarebbe infallibilmente sconfitto (diagnosi sua); non sa che anche i re taumaturghi soggiacciono al 2+2=4? Martedì 13 persiste lo stallo nel negoziato: diventa norma lo schernevole pastiche sul conflitto d´interessi; l´Istat segnala l´ennesimo scatto del debito pubblico. La nave dei folli imbarca acqua.
Nelle elezioni di ieri c’è uno sconfitto ed è Berlusconi. Si dirà che queste sono elezioni europee. Ma queste europee, per gli italiani, sono due volte politiche. Perché eleggono il primo Parlamento dell’Europa allargata, e perché il voto contro Berlusconi annulla il fitto lavorìo di Berlusconi contro l’Europa, riattiva una dignitosa presenza dell’Italia nell’Unione Europea. Dunque elezioni che cambiano le carte in tavola. E tagliano nettamente la dimensione e la rilevanza di Berlusconi-padrone.
Questa non è una vicenda normale, non è l’oscillazione del pendolo di cui parla Arthur Schlesinger nella sua teoria dell’alternanza. Questo è un Paese esasperato da tre anni di finzioni, disastro, teatro e bugie. Il Paese è stato lacerato, la Costituzione offesa, ogni punto di raccordo tra cittadini - la nazione, la Patria, i soldati, la pace ma anche la scuola, il sentimento religioso, la scienza - tutto è stato spaccato per mettere italiani contro italiani, per creare sospetto, sfiducia, caccia all’avversario, pregiudizio, la più grande campagna di cinismo e di cattiveria mai lanciata nell’Italia dopo la Resistenza. Inclusa la negazione della Resistenza e la evocazione di un mostro comunista da buttare addosso ad ogni avversario. Forse è stata educativa ed esemplare la vicenda degli ostaggi. L’Italia avrebbe voluto unirsi alle famiglie degli scampati e al dolore del giovane ucciso. Ma lo spazio era occupato dalla cascata di bugie, vanagloria e contraddizioni di un presidente del Consiglio e dei due suoi principali ministri.
Essi, con versioni diverse e sviste clamorose di luogo, tempo e personaggi, hanno voluto occupare tutto lo spazio, tutti i media, hanno reclamato tutto il merito e si sono voluti vantare di aver guidato magistralmente l’azione a distanza, ore dopo il rilascio.
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Questa non è una vicenda normale in cui ciascuno dice la sua e poi il Paese decide. Il tema era l’Europa, ma l’Europa è la bestia nera di questo governo. Il rapporto Berlusconi-Europa è immortalato per sempre da quel primo giorno del semestre italiano in cui Berlusconi insulta il deputato tedesco Schultz. Il rapporto Berlusconi-Europa è nel comportamento da pessimo attore senza copione con cui Berlusconi ha condotto l’umiliante semestre italiano che - purtroppo - ha divertito il resto del mondo, e ridato vita ai peggiori cliché di tante barzellette anti italiane. Il rapporto Berlusconi-Europa è nella festosa definizione della Unione Europea come Forcolandia (Bossi) e nel tenace rifiuto a ogni cooperazione col sistema europeo della Giustizia «perché se no ci arrestano tutti» (il ministro Castelli).
Il rapporto Berlusconi-Europa è nell’avere prontamente schierato l’Italia in una guerra rifiutata da grandi maggioranze sia in Italia che in Europa, impedendo, insieme a quell’Aznar ormai scomparso dall’orizzonte politico, un vero rispettoso dialogo fra Europa e Stati Uniti. E mettendo l’Italia - adesso percepita come nemica - nelle condizioni di non poter partecipare in modo credibile a un progetto di pace in Iraq.
Intanto lui ha trasformato quel che resta della libera stampa italiana in regime, occupa i media fino a renderli ciechi, impone sulla vicenda guerra una censura e una invenzione di notizie che non si ricordava dal 1940. Nega persino ai soldati italiani, che in ogni istante rischiano la vita in combattimento, la definizione di “guerra” per la loro tremenda avventura, impedendo che tale possa risultare nel loro curriculum militare, dal quale si desumerà - invece - che stavano a Nassiriya in tranquille condizioni di pace.
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L’Ulivo - faticosamente e laboriosamente - ha fatto la cosa giusta: ha lavorato nelle città, grandi e piccole, nelle piazze, nel vero porta a porta che è il contatto quotidiano, dal Sud al Nord, da un capo all’altro della penisola, con i cittadini. Ha coinvolto i cittadini e i movimenti, ha individuato persone come Cofferati per conquistare Bologna, Lilli Gruber per andare in Europa (con l’esperienza europeista nuova di Bersani e Berlinguer e quella collaudata e solida di Pasqualina Napoletano). Ha fatto spazio alle candidate donne, ha votato in modo chiaro e semplice (tre righe di mozione) contro la guerra. Quella mozione è l’atto costitutivo e il simbolo di una azione politica nuova e più vasta: tutta l’opposizione per la pace.
Tutta l’opposizione per l’Europa e dunque per una politica estera che torni a dare dignità al Paese, fiducia agli italiani verso il nostro ruolo e il nostro futuro. Fiducia di tutti verso di noi cominciando dal nostro stare in Europa. Non siamo più il Paese del miliardario umorale che ormai l’opinione pubblica del mondo stenta a distinguere dal sultano del Brunei (i due ammassi di ricchezza sono vicinissimi).
Si traccia oggi un percorso politico i cui punti fondamentali sono il ritorno alla Costituzione nata dalla Resistenza, il rispetto per i diritti, lo sviluppo nella pace e che fa riferimento al nome e alla garanzia di Prodi, e prefigura un governo.
A Hollywood intitolerebbero “L’alba del nuovo giorno”. Noi preferiamo dire, guardando agli altri europei con un po’ di orgoglio: «Abbiamo scaricato Berlusconi».
GEORGE BUSH is famously loyal to those closest to him. But that loyalty came under perhaps its greatest ever strain this week, as calls mounted for the resignation or dismissal of Donald Rumsfeld, the secretary of defence, over the torture and humiliation of prisoners at the Abu Ghraib prison in Iraq. The president has so far resisted these calls. He scolded Mr Rumsfeld on Wednesday May 5th, saying he should have known more, sooner, about the abuses. But on Thursday he called Mr Rumsfeld “a really good secretary of defence” and said he would remain in the cabinet.
Mr Rumsfeld has many enemies. He won grudging admiration from the press and many Americans for his straight-talking briefings during the Iraq war, even though he was never exactly shy about refusing to answer questions. He looked smart when American-led forces routed the Iraqi army even faster than expected. Since the war’s end, however, he has come under increasing fire for his perceived failure to plan sufficiently for peacekeeping and rebuilding. He had expected to reduce the number of American troops in Iraq to mere tens of thousands by late 2003, anticipating that grateful Iraqis would shoulder the burden of security. This turns out to have been wildly optimistic. Some 135,000 Americans are still stationed in the country.
Within the administration, too, he is a divisive figure. He is one of the closest advisers to Mr Bush (alongside Condoleezza Rice, the national security adviser, and Dick Cheney, the vice-president). But his differences with Colin Powell, the secretary of state, are well known. Mr Powell urged Mr Bush to seek United Nations backing for the Iraq war, while Mr Rumsfeld disdained such a move. When “senior administration officials” criticise the Pentagon anonymously in newspapers, they are believed often to be from the State Department, and occasionally Mr Powell himself.
Rivalries between the diplomats at the State Department and the warriors of the Pentagon are nothing new. And despite setbacks in Iraq, most Americans approved of the Bush administration’s handling of the Iraq war until recently. But during the disasters of April, in which more American soldiers were killed than during the main fighting of the war in 2003, poll numbers slipped. And after pictures of the Abu Ghraib abuses came to light, they slipped further—according to a new Gallup poll, 55% of Americans now disapprove of Mr Bush’s handling of the situation in Iraq, with only 42% approving. What had long seemed the president’s biggest political strength—his role as a war leader—may be becoming a liability. (Meanwhile, strong jobs numbers for April released on Friday, coming on top of good figures for March, may make what had been the president’s biggest liability—the economy—his biggest hope. It will be scant comfort to Mr Rumsfeld, but if he is fired, he will be rejoining a relatively buoyant labour market.)
The decision not to sack Mr Rumsfeld is a gamble. Ditching one of the president’s closest advisers would be a sign of weakness and defeat just six months before an election, something Mr Bush is understandably keen to avoid. But keeping the tainted Mr Rumsfeld could be just as dangerous, both at home and abroad. The media smell blood: the influential New York Times has called for Mr Rumsfeld’s head (as has The Economist—see article).
Moreover, by offering words but not deeds, Mr Bush may appear to the Muslim world to be showing only false contrition. In two interviews with Arabic television stations on Wednesday, he called the goings-on at Abu Ghraib “abhorrent” but did not apologise, a fact not lost on media commentators. The next day, Mr Bush changed tack, telling reporters he had said the magic word, “sorry”, in a meeting with King Abdullah of Jordan.
But in the electrified political atmosphere of an election year, “sorry” alone may not be enough. Predictably, John Kerry, Mr Bush’s Democratic rival in November’s election, has called for Mr Rumsfeld’s resignation, as has the leader of the Democrats in the House of Representatives, Nancy Pelosi. Republican congressmen, naturally, have been more circumspect. But many are said to be furious that they did not learn about Abu Ghraib before the press, given that the first accusations of abuse had been made in January.
When Mr Rumsfeld appeared before a Senate panel on Friday, the legislators’ own wounded pride at being kept in the dark was evident, with the defence secretary being put through some aggressive questioning—most notably from fellow Republican John McCain. Mr Rumsfeld offered a clear apology, as did the military men seated with him. He also accepted full personal responsibility, but gave no indication that he planned to resign. He referred repeatedly to ongoing military investigations into the abuse of prisoners, suggesting that he and his colleagues wanted to get to the bottom of the accusations as much as the committee did.
For opponents of the war and of the United States around the world, the treatment of prisoners at Abu Ghraib fits into a pattern. Just before the revelations of abuse in Iraq, the Bush administration found itself before the Supreme Court defending its stance in other cases involving prisoners. Several hundred men captured in Afghanistan remain in prison at Guantánamo Bay in Cuba, and the administration claims they have no right to a trial. More controversially for Americans, two American citizens, José Padilla (the alleged “dirty bomber”) and Yaser Hamdi, captured in Afghanistan, have been declared enemy combatants and held incommunicado without trial for over a year. The Supreme Court will rule on all of these cases this summer.
Mr Bush insists that the abuses of Abu Ghraib do not represent America’s soul, but for many, both at home and abroad, they are not as isolated as he would like to believe. If the outcry is sustained, or if new lurid details emerge—the chairman of the Joint Chiefs of Staff, General Richard Myers, said at Friday's hearing that there are photos and videos yet unseen—offering up Mr Rumsfeld may be the president’s only choice.
IN UNA guerra anomala come quella contro il terrorismo e nell´altra che s´incrocia e s´accavalla con la prima, com´è la guerra contro la guerriglia irachena, c´è un assioma preliminare che per chiarezza va ripetuto: con i terroristi e con quanti ne assumano i metodi non si tratta. Non ci si fa condizionare dai loro ultimatum, non si cede alle loro richieste anche se in gioco ci sono vite umane, ostaggi in pericolo, ricatti di qualsiasi genere che mettono in discussione la linea politica d´uno Stato.
Quest´assioma è chiarissimo e accettato da tutti: dal governo americano a Chirac, dal governo inglese a Zapatero, da Berlusconi a Schröder, da Prodi ad Annan, da Fini a Bertinotti. Perfino il Papa e tutta la Chiesa condividono questa posizione intransigente e pregano affinché i terroristi si ravvedano, nel qual caso potranno contare sulla misericordia divina.
Ma se si scende dal generale al particolare e dall´astratto al concreto, ecco che l´assioma della fermezza diventa inevitabilmente meno chiaro perché è evidente (e accettato da tutti) che bisogna fare il possibile e perfino l´impossibile per salvare le vite in pericolo; tanto più vero nel caso d´ostaggi minacciati di morte. Non si tratta ma si cercano intermediari in grado di trattare. Con chi? Offrendo e minacciando che cosa? I mediatori possono offrire ai terroristi che usano gli ostaggi come arma di pressione un salvacondotto d´impunità, o denaro, o tregua nella guerra di guerriglia. Al limite possono perfino offrire, oltre al perdono, un riconoscimento nella struttura politica che prima o poi dovrà governare l´Iraq, ammesso che si riesca a far uscire quello sventurato Paese dal marasma in cui è precipitato a causa della tragica catena d´errori del tandem Bush-Blair. Del resto non sarebbe una novità: uno dei più grandi errori commesso in Kosovo ? anche lì per pressione e volontà americana ? è stato quello d´aver riconosciuto un ruolo dominante all´organizzazione politico-militare dei combattenti antiserbi; un´organizzazione cui è stata appaltata la "sicurezza" e il governo del territorio e che si è rapidamente trasformata in una centrale di contrabbando e di traffico di droga in combutta con le mafie turca, bulgara, ucraina, russa, greca.
L´Occidente purtroppo non è nuovo a errori di questa natura, quando entra in contatto con popolazioni tribali, signori della guerra, boss mafiosi, che alternano l´efferatezza del crimine con la doppiezza politica e con l´uso spregiudicato del nazionalismo etnico e del fanatismo religioso. Misture esplosive quando si combinano con vecchi e nuovi imperialismi camuffati da portatori di doni democratici e di benessere economico.
I mediatori dunque hanno ampio campo per mediare, ma rimane il rebus degli interlocutori, volti e sigle ignoti, molteplici, mutanti. Nel caso specifico non si sa se siano sunniti o sciiti, se riconoscono come capo lo sceicco al Sadr o lo sceicco al Sistani o il Consiglio degli sciiti iracheni o il Consiglio degli Ulema sunniti o bin Laden e i suoi luogotenenti o addirittura nessuno salvo se stessi e i loro capetti barbuti e mascherati che si passano gli ostaggi tra loro come fa la ?ndrangheta con i rapiti per depistare la polizia. Un giorno uccidono, il giorno dopo rapiscono ancora, poi liberano e infine di nuovo uccidono. È un truce e mortale gioco di gente usa al mestiere della morte altrui e della propria? Dove sono? Chi può convincerli o costringerli alla ragione? Questo, anche questo, ma non solo questo è l´Iraq di oggi. Poi trovi di tanto in tanto l´imbecille che ti domanda: stavano meglio con Saddam o stanno meglio oggi? L´imbecille è convinto con questa domanda di stringerti in angolo, ma la sola risposta che può ottenere è racchiusa in una sola parola: dipende. A Falluja stavano meglio. A Sadr City stavano meglio. A Ramadi stavano meglio. Forse anche a Nassiriya stavano meglio. In cento altri siti alcuni stavano meglio e altri molto peggio. Con quali prospettive per il futuro?
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Ma prima d´affrontare per l´ennesima volta questa domanda cruciale torniamo ancora sui nostri ostaggi, i tre ostaggi italiani sospesi tra vita e morte mentre il quarto ha già pagato il suo debito agli assassini schiaffeggiandoli con la frase che ormai sta incisa nella coscienza nazionale insieme a tante altre frasi analoghe: «Vi farò vedere come muore un italiano».
Si è aperta una discussione se quel povero ragazzo, arrivato in Iraq a cercar fortuna, sia un eroe oppure no, se gli italiani debbano assumerlo tra i simboli della storia patria come Sciesa, Enrico Toti, Cesare Battisti, Luciano Manara, i fratelli Cairoli, i soldati della Folgore a El Alamein, Leone Ginzburg e le vittime delle Fosse Ardeatine, oppure no.
Discussione oziosa perché prima bisognerebbe definire che cosa si voglia significare con la parola eroe nei tempi moderni. Nei tempi dell´epica antica il senso di quella parola era chiaro: l´eroe era un uomo prescelto dagli dei per condurre eccezionali imprese, protetto da un dio e suo intermediario in terra. Era meno d´un dio ma più di un uomo. Spesso era il frutto d´un congiungimento tra un mortale e un immortale. Odisseo fu l´ultimo e chiuse la serie. Ma molto dopo fecero la loro comparsa gli eroi moderni. Fu il romanticismo a tenerli a battesimo, ma il senso di quella parola non era più lo stesso e l´intera questione diventò terribilmente complicata.
L´eroe moderno è qualcuno che, arrivato ad un certo punto della vita, abbandona le comodità, le abitudini mentali e i piccoli egoistici obiettivi dell´esistenza quotidiana e si vota ad una causa che lo sovrasta andando consapevolmente incontro a privazioni, pericoli, sofferenze per sostenere quella causa. Spesso anche se non necessariamente vi perde la vita. Nel concetto moderno dell´eroe entra cioè un contenuto e una scelta morale che ne diventa l´aspetto fondamentale. Si può dar prova di coraggio senza alcun contenuto morale. Per esempio chi gioca alla roulette russa. Chi sfida il destino correndo a rompicollo in automobile su strade accidentate. Chi sceglie il mestiere e l´avventura delle armi per dar prova d´essere un coraggioso. Ma nessuno di questi entra nel Pantheon degli eroi nazionali.
Infine tra l´eroe che muore per una causa e il coraggioso che muore per gli incerti della scelta fatta, esiste una terza categoria, quella degli eroi per caso.
L´altra sera, in una melensa quanto breve trasmissione televisiva il regista Mario Monicelli è stato interrogato sulla frase certamente eroica del povero Quattrocchi. Monicelli è stato il regista di quel bellissimo film sulla "Grande Guerra", quella del ?15-18, nel quale i due protagonisti, Vittorio Gassman e Alberto Sordi, interpretano le vicende di due soldati presi prigionieri dagli austriaci che chiedono notizie militari su movimenti di truppe. I due conoscono quei movimenti e dopo alcune esitazioni decidono di rivelarli per aver salva la vita. Mentre l´interrogatorio è in corso e i due stanno per confessare il segreto che rischia di compromettere la sorte dell´offensiva italiana insieme a migliaia di vite, l´ufficiale austriaco si lascia andare ad una frase insultante rivolta ai due soldati i quali se ne sentono sanguinosamente feriti. Uno dei due reagisce, dichiara che non rivelerà un bel niente e insulta a sua volta l´ufficiale chiamandolo «faccia di merda». Viene immediatamente fucilato e l´armata italiana sarà salva.
È stato un eroe? Ha chiesto più volte a Monicelli il conduttore della trasmissione. E ogni volta Monicelli ha risposto ostinatamente: eroe per caso.
«Gli italiani - ha aggiunto - non hanno la stoffa degli eroi perché difficilmente sacrificano la propria vita per una causa che sovrasti il loro particolare. Ma se vengono feriti nell´individuale personalità, allora reagiscono come leoni».
La trasmissione si è chiusa lì, il regista si era intestardito nella sua visione dell´eroe per caso mentre ciascuno di noi aveva dinanzi agli occhi la terribile immagine di quel giovane costretto in ginocchio dinanzi al suo carnefice con la canna fredda della pistola già puntata sulla sua tempia, che cerca di liberarsi dal cappuccio che gli copre il volto e grida la frase eroica della sua irata disperazione.
Questo è quanto è accaduto ed è terribile. Ci dice a che punto è arrivato il mattatoio. Nelle stesse ore, a pochi chilometri di distanza, centinaia di donne bambini vecchi e innocenti cadevano sotto i bombardamenti degli F15 e sotto il cannoneggiamento dei tank americani tra le rovine d´una città spettrale ammorbata dal puzzo dei cadaveri insepolti.
Questo è il mattatoio e questo l´eroismo per caso dei tempi del ferro e del fuoco.
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Prospettive? Speriamo migliori, se è vero che la speranza è l´ultima a morire.
Ma le previsioni non sono esaltanti. L´America si è convinta d´aver bisogno dell´Onu per impedire che la coalizione dei volenterosi si sfarini e il suo isolamento politico si accresca mentre il mattatoio iracheno e quello israeliano-palestinese continuano a macinare cadaveri.
L´America ha bisogno dell´Onu come di una vivandiera portatrice d´acqua gregaria. Ma è fin troppo chiaro che a queste condizioni non l´avrà e perfino se il Consiglio di sicurezza fosse unanime su una seconda risoluzione "vivandiera" l´arrivo dell´Onu risulterebbe del tutto inutile. Del resto che Bush e Blair perseverino su questa linea risulta evidente dopo il via libera data al piano Sharon per la Palestina. La scelta è stata ancora una volta quella della forza e dell´unilateralismo, come dimostra l´uccisione del nuovo leader di Hamas, appena succeduto allo sceicco Yassin, e colpito come lui a morte dai missili israeliani. Il "domino" virtuoso che doveva intrecciare i destini di Gerusalemme con quelli di Bagdad si è trasformato in un "domino" perverso di cui tutti - colpevoli e non colpevoli - pagheremo le conseguenze.
Un´altra opzione esiste: ristabilire l´ordine con le armi e arrivare ad un accordo con gli sciiti di al Sistani, sempre che lo sceicco moderato sia in grado di sopportare ancora per molto la mattanza in corso, il che sembra altamente improbabile.
Se comunque l´accordo con Sistani sarà infine raggiunto, avremo un Iraq guidato dalle tribù sciite, dai mullah coranici addestrati a Teheran, dalla fine del riformismo iraniano, dall´ammaina-bandiera dei famosi valori democratici da far vivere anche in Medio Oriente e nelle terre mesopotamiche.
La politica è regno di compromessi. Questo comunque sarebbe di bassissimo livello, tanto più che non arresterebbe affatto il terrorismo e la guerra per bande. Il governo italiano in questa situazione potrebbe avere, sol che lo volesse, un ruolo di rilievo, quello al quale lo spinge quasi quotidianamente il presidente Ciampi con i suoi continui e incalzanti richiami ad un ruolo non subalterno dell´Onu. Potrebbe (dovrebbe) il nostro governo dire chiaramente all´alleato americano che la soluzione di un´Onu portatrice d´acqua non soddisfa e non risolve e che, se questa sarà la scelta, dovremmo andarcene anche noi insieme agli spagnoli e ai portoghesi. In una coalizione che dà segni evidenti di sfaldamento l´influenza italiana può essere determinante. Ma questa ipotesi purtroppo non vale un soldo. Un "bookmaker" avveduto la darebbe a uno contro centomila. Non avverrà.
Purtroppo i carabinieri di Nassiriya sono morti invano e il grido patriottico di Quattrocchi è stato inutile. Poteva servire per far chiudere le porte del mattatoio. Se resteranno aperte questi morti saranno stati soltanto un tristissimo e dolorosissimo incidente di percorso, un sangue inutilmente sparso da un giovane eroe per caso e da diciannove soldati «usi a morir tacendo» sui quali è stata spalmata retorica a piene mani.
Oggi si discute in Senato il rifinanziamento della nostra missione in Iraq e quindi la permenenza o meno delle truppe italiane in quel Paese. È probabile, per non dire sicuro, che il decreto del governo, favorevole alla permanenza, sarà approvato per passare poi al vaglio della Camera.
Ci sia concesso finché si è ancora in tempo, di dissentire. La situazione è radicalmente cambiata da quando un anno fa mandammo i nostri soldati. Gli Stati Uniti, con la presa di Bagdad e la fuga di Saddam Hussein, avevano dichiarato finita la guerra e chiesto l'intervento dei nostri soldati per coadiuvare l'attività di ricostruzione dell'Iraq. Ma si erano sbagliati. La guerra era tutt'altro che finita, in un certo senso si può dire che era appena cominciata. Quando cinquanta uomini armati di tutto punto e ben organizzati assaltano ed espugnano una stazione di polizia, e questo segue una infinita serie di attacchi alle forze occupanti e alle loro basi militari e di attentati condotti in modo sistematico, non si può più parlare di terrorismo. È guerra, sia pure guerra di guerriglia, com'è sempre quella di una resistenza contro un esercito occupante e militarmente molto superiore. Oltretutto, non si può nemmeno dire che si tratti di azioni di residuali seguaci di Saddam destinate a spegnersi con la cattura o la morte del rais, perché Hussein è stato preso, e nelle condizioni per lui più umilianti e delegittimanti, ma la guerriglia è continuata con maggiore intensità di prima. Saddam e il vecchio regime dittatoriale non c'entrano se non molto marginalmente, il fatto è che una parte molto consistente della popolazione irachena non considera gli americani come dei liberatori ma come degli invasori e gli fa la guerra.
Ora, l'anno passato, al momento dell'invasione dell'Iraq, l'Italia, pur appoggiando politicamente gli americani, aveva deciso, a differenza di altri alleati, come la Gran Bretagna, la Spagna e la Polonia, di non partecipare alla guerra.
Non si vede perché debba rimanervi coinvolta adesso, con truppe che sono state mandate in Iraq con altre intenzioni, con altre regole di ingaggio e con un altro tipo di preparazione che non la partecipazione, diretta o indiretta di combattimenti (si pensi alla massiccia presenza dei carabinieri).
A chiudere il discorso ci dovrebbe essere poi la Costituzione che all'articolo II, vieta in modo esplicito all'Italia di partecipare a guerre se non difensive. E non si capisce assolutamente che tipo di offesa ci abbia portato l'Iraq, che non possedeva "armi di distruzione di massa" e non poteva non dico attaccare ma nemmeno minacciare né noi né i nostri alleati.
WASHINGTON — La guerra globale apre il suo fronte in Europa con il massacro di Madrid. E la capitale Usa medita la nuova strategia. Eta? Al Qaeda? Militanti Eta rinnegati, in contatto con fondamentalisti islamici? Il primo degli attacchi contro i Paesi che hanno appoggiato il presidente George W. Bush, Italia, Gran Bretagna, Polonia o la faida basca?
Capire la cultura del nemico è il solo modo per prevederne razionalmente i disegni e su questo rompicapo gli esperti americani spenderanno il primo, di tanti week end.
«L'Eta non ha legami conosciuti con Al Qaeda e non ci sono prove credibili di collaborazione tra le reti terroristiche. Nel novembre del 2001 otto agenti Al Qaeda sono stati arrestati in Spagna e uno era vicino a Batasuna, l'ala politica basca. Secondo il giudice Garzon, parte del blitz dell' 11 settembre è stata organizzato in Spagna. Terroristi Eta si sono addestrati in Libia e Algeria. Ma il disegno di Patria Basca e Libertà è laico, il disegno di Al Qaeda, la Base, è religioso» , dice uno dei cervelli incaricati di capire come la mattanza di Madrid cambi la guerra al terrore. «Siamo ancora alle ipotesi. Esplosivo basco, indizi islamici, l'Eta che smentisce a un giornale basco simpatizzante, Gara, la comprensibile prudenza del governo» .
Conversazioni, analisi e nuovi documenti ci anticipano la prima, approssimativa, reazione americana: «Contrariamente a voi europei, noi siamo persuasi, dopo averla combattuta in mezzo mondo, che Al Qaeda non sia un'organizzazione terroristica come le Br, l'Ira o Azione Diretta.
Condensiamo per i nostri uomini l'opera del sociologo spagnolo Manuel Castells, oggi docente a Berkeley, La nascita della società in rete ( tradotto dalla Bocconi). Castells spiega il concetto di “rete”, la società non cresce più a piramide, un mattone dopo l'altro come nell'antico Egitto, ma a nodi, uno dopo l'altro, del tutto estranei ma che insieme rafforzano la ragnatela del presente. Aziende, governi e Al Qaeda funzionano così. Un gruppo basco può avere fatto un patto, magari per soldi, con operativi islamici, senza input diretti da Osama Bin Laden» spiegano a Washington.
Un esercito di lillipuziani che marcia diviso, per colpire unito il nemico.
Per anticiparne le mosse, militari, intelligence e leadership politica prendono atto che non è più possibile operare sull'assunto del professor Samuel Huntington di uno «scontro di civiltà», Islam contro Cristianità (il saggio è tradotto da Garzanti). L'idea di Huntington è smentita dall'ordine di battaglia di Al Qaeda dopo l'11 settembre: i veri nemici di Osama sono i «rinnegati» , arabi che cercano il dialogo con l'Occidente, l'ambasciata giordana a Bagdad, la polizia irachena, i quartieri residenziali in Arabia Saudita.
Combattere la guerra secondo il canone Huntington sarebbe deleterio, malgrado non siano mancate le tentazioni in questo senso al Pentagono e alla Casa Bianca. Alla luce degli attacchi di Madrid, la nuova interpretazione della guerra al terrorismo passa attraverso lo studio di un volume ancora inedito, che gli studiosi Ian Buruma, del Bard College, e Avishai Margalit, della Hebrew University di Gerusalemme, pubblicheranno da Penguin Books. Che un ponderoso tomo accademico possa diventare arma contro il terrorismo e chiave delle stragi in Europa è solo l'ennesimo, misterioso, capitolo della guerra globale. Il saggio s’intitolerà Occidentalism,
Occidentalismo, e prende lo spunto dall' opera del critico di origine palestinese della Columbia University Edward Said, da poco scomparso,
Orientalismo (Feltrinelli). Per Said «orientalismo» è il modo occidentale di guardare all'Oriente, una lente deformata di pregiudizi, paternalismo, colonialismo, proiezione di se stessi sugli altri, inferiori, immaginati languidi, sensuali, violenti e primitivi.
Buruma e Margalit argomentano che esiste però un parallelo «occidentalismo» , la confusa visione del mondo sviluppato da parte degli orientali, che nella visione militante di Al Qaeda diventa offensiva militare e culturale. L'interesse dell'approccio di Buruma e Margalit per gli strateghi militari sta nel loro contrapporsi a Huntington. Non solo non c'è scontro tra le civiltà, ma anzi l'odio che smuove Al Qaeda e le sue ragioni adotta argomenti, temi, idee nati in seno al mondo occidentale. «Gli 'occidentalisti' vedono l'Occidente come disumano, una brutale macchina efficiente ma senza anima, a cui ci si deve opporre con la violenza». Israele, e gli alleati degli Stati Uniti nella guerra all'Iraq, «sono simbolo del male, idolatri, arroganti, immorali, un cancro che solo la morte può estirpare».
«Dall'analisi di Huntington, crociata di odio Oriente contro Occidente, scaturiva un modello militare da trincea, noi contro loro. Ma dall'analisi di Buruma è evidente che i fondamentalisti usano contro di noi un arsenale di ragionamenti che spesso prende in prestito concetti e comportamenti diffusi in Occidente. E allora ecco che Al Qaeda può colpire in Spagna, come a Bali, New York, Bagdad e Riad, odiando i dittatori laici musulmani come lo Scià di Persia o Saddam Hussein al pari di Bush e Aznar» . L'origine dell' «occidentalismo», il risentimento contro la civiltà occidentale, ha ramificazioni, secondo Buruma e Margalit, nelle teorie del nazifascismo, nello stalinismo, nella Conferenza di Kyoto del 1942 che propose «la guerra per battere la modernità». Lo scrittore ungherese Aurel Kolnai, già negli anni Trenta, parlava di «Guerra contro l'Occidente» e l'intellettuale iraniano Jalal al- e Ahmad coniò il neologismo «Ovestossine» , per deprecare la velenosa influenza euroamericana nei paesi in via di sviluppo. Ma al-e Ahmad nutre la sua propaganda di idee occidentali: da Hitler ai romantici tedeschi, perfino Robespierre e Saint Just.
«La strage di Madrid, sia di matrice domestica o internazionale, costringe a rivedere la strategia militare, dalla guerra di posizione a Kabul e Bagdad alla guerra di movimento in tre continenti». Il fronte non passa più tra Ovest ed Est, ma tra tolleranza e intolleranza, tra chi, in Occidente e nei Paesi arabi, accetta il dialogo e chi invece sceglie la violenza come unico strumento politico. «Da questo punto di vista — conclude l'analista che ha accettato di dialogare con il Corriere — l'inchiesta che dirà se si tratta di Eta o di Al Qaeda è importante per la polizia, ma meno per noi dell'antiterrorismo.
Perché la percezione dell'opinione pubblica mondiale, i titoli «Ground zero a Madrid» , inglobano già la strage nei parametri di guerra all'Occidente. L'immagine che scava le coscienze è una Al Qaeda europea, o una nuova Eta che ha scelto la scala terroristica 11 settembre». Se l'analisi di Buruma&Margalit è corretta, e la prima guerra globale diventa anche in Europa guerra civile tra tolleranza e intolleranza, sarà bene non dimenticare un concetto che gli esperti militari non sottolineano: «Se il nemico ci ruba idee e cultura non possiamo assomigliargli... nell'equilibrio tra sicurezza e libertà civili, non bisogna mai sacrificare la libertà... né opporre al loro fondamentalismo il nostro. La sopravvivenza delle nostre libertà dipende dalla volontà di difenderci contro il nemico esterno, resistendo alla tentazione dei nostri leader di usare la paura per distruggere le libertà».
L’egemonia culturale di Ponzio Pilato
Ezio Mauro
12 agosto 2004
NON so nulla delle lettere di Italo Calvino a Elsa de´ Giorgi e il tema non mi affascina. La questione mi sembra chiusa: il Corriere della Sera ha pubblicato un ampio servizio su quel carteggio (già rivelato anni fa da Epoca), ne ha ricavato qualche ipotesi romanzesca e qualche suggestione letteraria, come se quelle lettere contenessero la svolta intellettuale di tutta l´opera di Calvino. È sembrato troppo ad Alberto Asor Rosa, è sembrato ridicolo a Chichita Calvino, che hanno risposto su Repubblica. Il caso può finir qui. Aggiungo soltanto che a mio parere i giornali ovunque pubblicano le carte di personaggi pubblici, quando le giudicano di interesse generale, perché i giornali rispondono a quell´interesse. Con l´avvertenza, magari, di non presentare per inedito ciò che inedito non è, e con la licenza di romanzare un po´: soprattutto d´estate.
Qui potrebbe finire la storia, in sé minima. Ma se ne apre un´altra, formidabile. Perché Ernesto Galli Della Loggia è saltato a piedi giunti sul caso Calvino, ha ignorato la lunga intervista di Chichita e ha immediatamente imbastito un processo a Repubblica custode del sigillo sacro della sinistra e alla sinistra che detiene dagli anni Cinquanta ad oggi l´egemonia culturale e decide ciò che può essere detto e ciò che deve essere taciuto. Gli ha risposto Eugenio Scalfari, denunciando l´"ossessione" di Galli nei confronti della sinistra, che vede agire sotterraneamente e dovunque per subornare la pubblica opinione, e ricordando che nel lungo dopoguerra italiano i giornali, la radio e la televisione sono stati sempre nelle mani dei partiti di governo e dei poteri cosiddetti forti (allora lo erano davvero) che quei partiti fiancheggiavano con vigore.
Sono rimasto anch´io stupefatto per l´ideologismo ormai quasi meccanico che ha innescato questa discussione. Si parla delle lettere d´amore di Calvino ed ecco una scomunica integrale alla sinistra, detentrice ? secondo l´accusa ? perenne e immobile delle chiavi del politicamente corretto, ora e sempre: solo un automatismo ideologico può far discendere da quella causa questo effetto. Ma voglio provare a discutere sul serio con Galli Della Loggia, lasciando perdere l´occasione polemica per prendere il merito dei suoi argomenti.
E aggiungere un controargomento, per me di importanza capitale. In un paese democratico, come il nostro, l´egemonia culturale è in gioco tra i diversi poli di pensiero e i diversi gruppi di riferimento. Voglio dire che è contendibile, per fortuna. E può cambiare di segno, come a mio parere è avvenuto nell´ultimo decennio.
Galli ha ragione quando dice che un´egemonia culturale di sinistra ha contato nel nostro Paese, più o meno fino al collasso della Prima Repubblica, o a guardar meglio fino all´avvento del craxismo. Ma Galli ha torto, secondo me, quando traduce tutto questo nella categoria del "comunismo", come un perfetto fatturato politico della strategia togliattiana. Ha torto per due motivi, che accenno soltanto: prima di tutto quell´egemonia, come ha spiegato Scalfari, nasceva nella cultura, non nella politica, ma nell´opera individuale di registi, scrittori, intellettuali, orientati ? questo sì ? a sinistra, ma non longa manus di un partito; e poi, quell´egemonia ha travalicato il mondo della creazione artistica e dell´opera intellettuale ed è diventato politica diffusa dopo il Sessantotto, con la spinta e il nuovo linguaggio dei movimenti e delle forze extraparlamentari, che come è noto portavano in sé una forte carica di contestazione proprio nei confronti del Pci e del suo mondo.
Tuttavia su questo punto storico specifico Galli ha a mio parere più ragione che torto. Perché se la cultura orienta una società nei suoi valori e disvalori pre-politici, non c´è dubbio che la cultura del dopoguerra guardava a sinistra in un Paese politicamente moderato. E non c´è dubbio, nemmeno, che a sinistra chi più si è giovato di questo clima intellettuale è stato il Pci, gramscianamente (prima e più di Togliatti) educato a cogliere quei frutti.
Poiché non tutto è ideologismo, però, bisogna aggiungere che la cultura di sinistra (ripeto: in gran parte una libera cultura di sinistra, da Bobbio a Pasolini) in un´Italia democristiana è stata uno degli ingredienti della modernizzazione e della crescita di questo Paese, una sorta di correzione laica, di bipartitismo culturale in un Paese che non poteva portare il suo sistema politico a compimento per la presenza del più forte Partito comunista occidentale in anni di guerra fredda. Questo è un dato di fatto: così come è un dato di fatto che l´egemonia culturale di sinistra ha perpetuato alcuni "blocchi" nel dibattito italiano, come la lettura di una Resistenza incentrata sui comunisti, un´ipocrisia o peggio una mistificazione nei confronti dei crimini del comunismo, in Urss e negli altri Paesi dov´era andato al potere. Nella convinzione colpevole che «la verità ? come dice Martin Amis ? poteva sempre essere posticipata».
Ma oggi che il Pci non c´è più, è finito il comunismo, e si è dissolta l´Urss e con il sovietismo anche la divisione in blocchi e la guerra fredda, ha senso riprodurre quello schema, sostituendo al termine "comunista" il termine "sinistra", come se nel 2004 e in Italia fossero la stessa cosa? Non si può non vedere che una delle caratteristiche della sinistra italiana contemporanea è la debolezza identitaria, non la sua forza. Di quale egemonia culturale terribile sarà mai capace una sinistra che non sa da quali culture è lei stessa composta, quali sono le sue radici culturali spendibili oggi, chi sono i suoi ilari e i suoi penati superstiti dopo che - in ritardo, in gravissimo ritardo - ha scoperto che il tabernacolo comunista era vuoto?
Per il resto, l´Einaudi fa parte dell´universo berlusconiano, nel cinema italiano i Visconti hanno lasciato il posto a Vanzina, i giornali - ad eccezione di pochissimi - sono concretamente omogenei alla destra, tanto da essere ogni volta sorpresi e surclassati dalle reazioni della grande stampa europea davanti ad ogni nuova anomalia berlusconiana.
Tutto ciò mentre l´establishment in questo Paese che ha smarrito ogni sua missione è ormai fatto da pseudo-imprenditori che in realtà sono concessionari di lusso, post-imprenditori che devono gestire il loro declino, smart-imprenditori, indifferenti ad ogni idea civile del Paese, pur di spartirselo, visto che è facile, incapaci di qualsiasi opzione politica, perché costa e divide il fascio indistinto di popolarità conquistata nel grande rotocalco italiano e scambiata per consenso. Resta la tv, vera falciatrice di quel substrato materiale di egemonia culturale che è il senso comune. E la tv - tutte le tv, in Italia - è di destra ancor prima d´accenderla, è intrinsecamente berlusconiana con il catalogo modernissimo e regressivo di idee che veicola ogni giorno ad ogni ora.
Dunque, cerchiamo di essere intellettualmente onesti anche qui, davanti a questa evidenza. Che senso ha, che scopo ha, parlare oggi di egemonia (culturale?) della sinistra in Italia? È solo un riflesso condizionato? Credo di no. Penso anzi che si tratti di un´operazione tutta ideologica e politica - nient´affatto culturale - che punta a tenere la sinistra in condizioni di minorità perenne, a pronunciare nei suoi confronti (qualunque sia la sinistra, e in qualunque epoca) un interdetto perenne, che rende artificialmente vivo il comunismo: se non come organizzazione (il che per fortuna è impossibile) almeno come fantasma zdanoviano in servizio permanente effettivo, naturalmente occulto.
In questo modo, sta andando a compimento un lavoro politico avviato dieci anni fa, certo più importante della capacità egemonica presunta di Fassino o di Prodi: si tratta della destrutturazione di alcuni valori fondanti di questa democrazia repubblicana che il furore anticomunista dei revisionisti italiani ha colpito, delegittimato e gettato al mare perché troppo contigui e funzionali alla storia del comunismo italiano. Penso all´antifascimo, all´azionismo, al costituzionalismo, allo stesso laicismo, demonizzati ideologicamente come strumento ideologico di parte.
In un Paese meno sventurato del nostro, si tratterebbe semplicemente di valori civili, anzi, civici, nemmeno "democratici" se il termine sembra giacobino, ma certo "repubblicani" frutto di un riconoscimento condiviso di una nazione che dopo la sconfitta della dittatura sente di avere una storia patria comune a cui fare riferimento al di là delle divisioni tra destra e sinistra.
No: noi non abbiamo valori repubblicani comuni. Come ha denunciato Bobbio, lo sforzo per equiparare l´anticomunismo all´antifascismo ha portato ad un abominio che sta diventando anch´esso senso comune: l´equiparazione tra fascismo e antifascismo. Aggiungiamo l´aggressione politica e intellettuale agli ultimi azionisti, l´irrisione a quella religione civile che sia pure in fortissima minoranza hanno testimoniato per sessant´anni. Pensiamo ad un Presidente del Consiglio che non ha mai sentito il dovere di essere presente alla festa della Liberazione (Fini, almeno, ha partecipato alla celebrazione di Matteotti) mentre il suo partito ha proposto addirittura l´abolizione del 25 aprile come se quella data non celebrasse la fine della dittatura fascista, cioè un accadimento storico, come se la storia italiana cominciasse nel 1994 con Berlusconi.
Ecco il contro-argomento per Galli Della Loggia. Nel nostro Paese c´è stato un cambio di egemonia culturale che è sotto gli occhi di chi non è ideologicamente accecato. E l´avvento di questa pseudocultura "rivoluzionaria" di una destra populista e moderna insieme, è stato possibile per l´opera costante di destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali che il revisionismo ha fatto in questi anni.
Sia chiaro: il revisionismo storico ha operato per fini propri, liberamente, senza alcun legame con questa destra berlusconiana. Ma è un fatto che la polemica sull´egemonia della sinistra arriva fin qui, è la cornice che ha fatto saltare il quadro repubblicano precedente e che oggi inquadra coerentemente - ecco il punto - il paesaggio berlusconiano. Solo così si spiega come la nuova destra si senta culturalmente legittimata, anzi revanscista, anche perché il pedagogismo che i revisionisti hanno esercitato (con fondate ragioni) ed esercitano a sinistra è completamente muto e paralizzato a destra.
Come se la destra italiana ? con il postfascismo appena sdoganato, la Lega che fatica a trattenere pulsioni o almeno espressioni razziste, Forza Italia ancora aliena alle istituzioni che guida e allo Stato che governa ? avesse già compiuto tutto il suo cammino con l´apparizione di Berlusconi agli italiani nel ´94. Questo strabismo, in realtà, è ideologismo. È un´operazione politica, quell´"ossessione" contro la sinistra denunciata da Scalfari. Perché se è giusto che la sinistra faccia i conti con la storia tragica del comunismo (visto che in Italia ne è fuoriuscita dopo la caduta del Muro, non prima) non si capisce come mai per certi intellettuali la destra operi invece nel secolo, fuori dalla storia e dai suoi rendiconti, come il ´900 che in Italia finisce da una parte sola, e si chiude zoppicando.
Eppure ci sarebbero molte domande da fare a questa destra anomala d´Italia, oggi che comanda, detiene il potere e costruisce una nuova egemonia di valori e di disvalori, e soprattutto di interessi. Ma i revisionisti se ne lavano le mani. Come Ponzio Pilato: non a caso duemila anni fa lo chiamavano proprio così: l´Egemone.
Lettera al Direttore
Eugenio Scalfari
11 agosto 2004
C aro direttore, la staffetta organizzata dal Corriere della Sera sul tema dell'epistolario Calvino-de' Giorgi e sull'egemonia culturale della sinistra, al suo terzo passaggio del testimone peggiora visibilmente di qualità. Paolo Di Stefano aveva dato conto di quell'epistolario intravisto dal buco della serratura con rischiosa destrezza di cronista condendolo di considerazioni più o meno appropriate; Ernesto Galli della Loggia ne aveva tratto spunto per riproporre l'ennesima puntata sul soffocante monopolio della sinistra sulla cultura italiana durante il primo cinquantennio repubblicano. Ieri è toccato ad Angelo Panebianco di rispondere ad alcune osservazioni da me sollevate, adottando la tecnica di mandare la palla in tribuna, cioè di trarsi d'impaccio parlando d'altro senza rispondere nel merito.
Avevo contestato al della Loggia una circostanza non oppugnabile in punto di fatto: nel cinquantennio repubblicano (che in realtà è ormai quasi un sessantennio) tutti gli strumenti e le infrastrutture culturali sono state possedute e controllate da gruppi e persone fieramente avversari della sinistra. Il sistema televisivo e radiofonico, la stampa d'informazione e quella d'intrattenimento, le case editrici, la produzione e distribuzione cinematografica, hanno avuto proprietari e gestori di marca democristiana e/o moderata con qualche rara eccezione di ispirazione liberale che conduceva vita grama e pressoché solitaria. La sinistra propriamente detta disponeva d'un paio di giornali di partito diffusi tra i suoi militanti e ovviamente privi di pubblicità.
L'egemonia culturale può essere di due tipi: c'è quella imposta o indotta dal possesso dell'"hardware", cioè delle infrastrutture e dei mezzi finanziari a disposizione; e c'è quella guadagnata con l'inventiva e le qualità del "software" cioè delle idee e della libera creazione di prodotti competitivi.
Ne consegue - dicevo contestando le tesi del della Loggia - che non possedendo né controllando gli strumenti culturali e le relative infrastrutture, l'eventuale egemonia della sinistra da altro non sarebbe derivata che dalla qualità dei prodotti culturali dovuti alla libera creatività di artisti, letterati, registi, giornalisti, che hanno lavorato in piena libertà conquistando e affezionando lettori e ascoltatori liberissimi a loro volta di dirigere altrove le loro scelte quando quelle effettuate non avessero più appagato i loro gusti.
A queste mie osservazioni di ovvio buonsenso e di non oppugnabile verità di fatto, il Panebianco non ha dato risposta alcuna, limitandosi a ribadire che quella famigerata e soffocante egemonia c'è invece stata ed ha strozzato le libere scelte del pubblico. Con una digressione finale di cui non so se ringraziarlo o riderne, ha poi sostenuto che Repubblica ha guidato di fatto la sinistra italiana e io personalmente ho preso il posto nel ruolo di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.
Quale sia il legame tra questi farnetichi e l'epistolario Calvino-de' Giorgi lascio ai lettori di giudicare e mi accomiato da un tema sul quale non mi pare ci sia altro da aggiungere. Se non questo: con contraddittori della forza di Panebianco e di della Loggia qualunque imbrattacarte può aspirare a scalare le vette dell'egemonia culturale senza soverchi meriti né bisogno di guardie rosse al proprio servizio.
Nessuno poteva ragionevolmente pretendere che Silvio Berlusconi, da capo della maggioranza e del governo, facesse "motu proprio" quello che il centrosinistra non era riuscito a imporgli quando lui era all´opposizione. E cioè, scegliere tra gli affari e la politica, cedere la sua azienda o quantomeno separarne effettivamente la proprietà dalla gestione. Ma era lecito sperare che il presidente del Consiglio, mantenendo l´impegno assunto in campagna elettorale di risolvere il conflitto di interessi entro i «primi cento giorni», evitasse di favorire nel frattempo le sue reti televisive consolidando e ampliando il suo strapotere mediatico per arricchirsi ulteriormente, a danno di tutti i concorrenti e ancor più del pluralismo dell´informazione.
Oggi, dopo ben 1153 giorni di governo o di malgoverno, il centrodestra si ricorda finalmente di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Anzi, quando sono stati lasciati volontariamente scappare. Basti dire che il nostro beneamato premier, se questa legge-burla fosse stata approvata prima, non avrebbe potuto firmare il cosiddetto "decreto salva-reti" che gli ha consentito di sottrarre Retequattro al trasferimento sul satellite, disposto dalla legge antitrust e avallato dalla Corte costituzionale. Per quanto inadeguata e insufficiente, la burla in forma legislativa che porta il nome del ministro Frattini non avrebbe permesso al presidente del Consiglio e al suo governo neppure di presentare quell´altra legge-vergogna che reca la firma del ministro Gasparri.
Più che risolvere il conflitto di interessi, in realtà questo tardivo provvedimento lo legalizza: nel senso che conferisce una legittimità di facciata a una macroscopica e insanabile anomalia. Qui non si tratta, infatti, di proprietà private in senso stretto; né soltanto di beni materiali o immateriali, imprese, patrimoni immobiliari o finanziari. Nel caso specifico di Berlusconi, si parla di concessioni pubbliche, rilasciate temporaneamente dallo Stato su un bene collettivo come l´etere. E dunque, il presidente del Consiglio si ritrova nell´assurda situazione di essere controparte di se stesso, concedente e concessionario, locatore e locatario, padrone di casa (pro tempore, s´intende) e inquilino: tant´è che l´anno prossimo, quando scadranno le concessioni televisive assegnate nel ´99, lui o comunque il suo ministro delle Comunicazioni dovrà trattare le condizioni del rinnovo con i dirigenti in carica di Mediaset, dipendenti a tempo pieno del medesimo Berlusconi.
Sì, adesso legge-beffa di Frattini proibisce ai membri del governo di fare alcunché per favorire le proprie aziende. Ma che altro mai potrebbe fare il presidente del Consiglio in questo senso? Chiudere definitivamente la Rai? Impossessarsi di tutte le frequenze, analogiche e digitali, a disposizione? Il problema, piuttosto, è un altro: quello di impedire alle sue reti televisive di favorire lui, la sua maggioranza e il suo governo, com´è avvenuto finora. E magari, di evitare che il premier continui ad agitare il "manganello mediatico" contro l´opposizione e anche contro i partners riottosi, come ha fatto ancora nei giorni scorsi con il povero Follini.
Perfino la proprietà e la presidenza del Milan potrà tenersi ora Berlusconi, in forza di questo raggiro parlamentare che farà ridere il mondo del calcio e non solo quello. Una legge-barzelletta che non gioverà certamente alla sua immagine né tantomeno alla credibilità internazionale dell´Italia, sul piano politico ed economico prima che sul piano sportivo. Il vicepresidente rossonero continuerà tranquillamente a fare il presidente della Lega calcio. E il presidente del Consiglio nominerà il presidente dell´Authority che deve controllare i suoi atti e, direttamente o indirettamente, sceglierà anche il presidente della Rai che è la principale concorrente della sua azienda televisiva. Ciascuno può giudicare liberamente e magari ricordarsene alle prossime elezioni.
Quando una quindicina d´anni fa, prima ancora che fosse smantellato il muro di Berlino, le ideologie caddero e si infransero, le tanto evocate classi e le tanto celebrate masse uscirono di scena lasciando libero campo all´emergere dell´individuo e alla teorizzazione dell´individualismo, qualcuno si preoccupò. Si preoccupò dell´avvento del pensiero unico. Si preoccupò delle sorti del liberalismo e della democrazia. Si preoccupò della volubilità della folla, una summa occasionale di individui, privi di rapporti consapevoli tra loro e tenuti insieme da un "transfert" che avvince ciascuno di loro ad un punto di riferimento esterno, ad un capo, ad una stella filante che ne suscita le emotività e le guida laddove i suoi interessi e/o le sue visioni lo portano.
La folla e il capo. Quasi sempre anche il capo soggiace ad un transfert di natura narcisistica, si invaghisce di se stesso, sviluppa un rapporto ipertrofico con il proprio io. Fenomeni del genere si sono più volte ripetuti nel corso dei secoli. Anche nel Novecento tutte le volte che, al di sotto della crosta ideologica, si è materializzata l´immagine del capo carismatico e l´auctoritas ha ceduto il posto al culto della personalità.
L´esistenza di solide democrazie liberali ha impedito che le aberrazioni ideologiche e il totalitarismo del capo dilagassero; ha fatto argine, contrastando e infine sconfiggendo quella collettiva rinuncia alla libertà, all´eguaglianza, alla critica del giudizio.
Ma poi il male scacciato dalla porta è in parte rientrato dalla finestra, sia pure come farsa al posto della tragedia. Ed ora è con questa farsa che siamo alle prese. Democrazie guidate da opinioni pubbliche fragilissime, soggette all´impatto con tecnologie estremamente sofisticate e possedute da poche mani, usate con spregiudicata e spesso feroce determinazione.
Il terrorismo è nato in questo contesto. L´antiterrorismo crociato e fanatizzato idem. Si somigliano e si alimentano vicendevolmente. La democrazia è il loro comune nemico.
Per fortuna la cultura della libertà e le istituzioni della democrazia sono ancora largamente vigilanti e operanti. Dobbiamo, tutti quelli che sentono la loro appartenenza a questi ideali, essere consapevoli che siamo ad un punto importante di questo confronto planetario. Dobbiamo investire tutte le energie intellettuali delle quali disponiamo con razionalità e impegno civile. Non dobbiamo cedere allo sconforto che spesso ci prende, alla tentazione di assentarci di fronte alla stupidità montante e di isolarci nella solitaria testimonianza.
Questo è il momento dell´impegno e della passione civile, non dello sberleffo e del motteggio ai bordi del campo. Questo è il momento delle scelte, ponderate ma nell´interesse della società in cui viviamo, europea e italiana.
* * *
Il quadro dei rapporti interatlantici tra Usa ed Europa ha registrato in questi giorni una serie di modifiche e di importanti accelerazioni. La celebrazione dello sbarco in Normandia del 6 giugno del ?44, presenti su quelle spiagge tutti coloro che parteciparono a quella battaglia epocale di sessant´anni fa, da una parte e dall´altra del fronte di allora. La risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza dell´Onu sulla situazione del dopoguerra iracheno. La riunione quasi simultanea del Gruppo degli Otto a Sea Island.
Si tratta di eventi complessi che si prestano a essere variamente interpretati e difformemente raccontati. Sicuramente sono eventi strettamente interdipendenti. Sicuramente i rapporti interatlantici ne sono usciti migliorati. Una parvenza di autorità dell´Onu è stata recuperata. Il peso del tandem francotedesco come punto di gravità dell´Europa è stato rafforzato ed esplicitamente riconosciuto da Bush e dal governo Usa.
Direi che su questi esiti non c´è discussione: sono comunemente riconosciuti da tutti. Resta la domanda su chi abbia mutato atteggiamento, domanda non oziosa poiché può fornire indicazioni sull´evolversi della situazione nel prossimo futuro.
Bush doveva preparare una credibile strategia per uscire dalla trappola irachena: strategia indispensabile se vuole riguadagnare il consenso necessario per il suo secondo mandato presidenziale (prossimo novembre). Aveva bisogno dell´avallo del Consiglio di sicurezza, cioè di quelle potenze che si erano opposte alla guerra preventiva e solitaria degli angloamericani contro l´Iraq e alle non previste (da loro) conseguenze che ne sarebbero derivate.
A questo scopo Bush ha partecipato alla celebrazione del D-day in Normandia. Citerò il giudizio di un osservatore lucido e non partigiano che sintetizza icasticamente quanto è accaduto in quell´occasione (Sergio Romano sul Corriere della Sera del 7): «Dietro il sipario della retorica si sono svolti due eventi diversi: uno spettacolo sul proscenio in cui l´Europa ringraziava l´America per la sua generosità, e un altro nelle quinte in cui l´America chiedeva un prezioso aiuto politico ai rappresentanti di quei paesi che sessant´anni fa ha combattuto o liberato: Francia, Germania, Russia (all´Italia non aveva da chiedere nulla se non la continuazione di una presenza militare che Berlusconi non è comunque in grado di negargli)».
Così Sergio Romano, con il giudizio del quale interamente concordo.
* * *
Che cosa ha concesso Bush e che cosa ha ottenuto dalle potenze sopracitate? Bush ha concesso la rinuncia alle guerre preventive e solitarie; il riconoscimento del ruolo del Consiglio di sicurezza dell´Onu come luogo di mediazione e di legalizzazione dei conflitti internazionali; un calendario di scadenze per il trasferimento di sovranità ai «poteri forti» iracheni; una data limite nella permanenza delle truppe della Coalizione in Iraq (dicembre 2005); una conferenza internazionale sul riassetto dell´intera regione mesopotamica.
Bush ha ottenuto: la risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza che legalizza il governo transitorio di Bagdad; la presenza dell´Onu come consulente del predetto governo per la redazione di una legge elettorale e per l´effettuazione delle elezioni politiche da tenersi entro il gennaio 2005; il potere della Coalizione di gestire - d´accordo col governo transitorio iracheno - la sicurezza del Paese.
Inutile aggiungere che il manto dell´Onu legalizza un governo transitorio i cui componenti sono stati indicati e/o risultano graditi all´Amministrazione Usa e ai "poteri forti" iracheni che si riassumono nel nome dell´ayatollah Al Sistani, capo religioso dei moderati sciiti, ispirati a loro volta dalle autorità religiose iraniane.
Al lato di queste reciproche concessioni la Germania ha ottenuto l´appoggio Usa alla sua richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, dove entrerà anche il Giappone.
È stata una svolta? Per certi versi sicuramente sì. Per chi aveva subordinato la presenza militare in Iraq a un ruolo dirigente politico e militare dell´Onu, sicuramente no. Ciascuno si regoli come crederà opportuno, ma i fatti e i dossier dicono questo e non altro.
* * *
In aggiunta a queste vicende di portata internazionale la vigilia elettorale italiana ne ha registrata una più domestica ma carica di emotività in parte reale e in parte artificialmente eccitata: il rientro in patria dei tre ostaggi sequestrati nei sobborghi di Bagdad dopo cinquantasei giorni di prigionia.
Tralascio le modalità di quella liberazione, ancora largamente ignote. Il senso di sollievo e di gioia per essa è stato comunque unanime né poteva essere altrimenti.
Due circostanze comunque risultano chiare: sono tornati sani e salvi e il come importa poco; il loro ritorno ha avuto come effetto consequenziale la totale occupazione del sistema mediatico da parte di Berlusconi e, in misura minore ma significativa, di Gianfranco Fini.
Non sappiamo (lo sapremo domenica sera) se questa occupazione totalitaria avrà ripercussioni rilevanti sul voto di domani. Certo da parte di chi detiene il potere, tutto è stato fatto affinché quel rientro interferisse sul voto. In un´opinione pubblica volatile è possibile che qualche effetto vi sia.
Del resto Berlusconi sa che sta giocando una decisiva partita e perciò non bada ai mezzi. Vale sempre di più la massima che il mezzo è il messaggio.
Quando ci furono diciannove nostri militari uccisi a Nassiriya e quando, poco dopo, ancora un altro militare italiano morì nello scontro con le milizie di Al Sadr, il sistema mediatico cavalcò quei luttuosi avvenimenti per trarne vantaggio per il governo. Ora che gli ostaggi sono rientrati vivi e indenni l´uso in favore del governo è stato ancor più impudico. Che tornino morti o che tornino vivi, il mezzo mediatico piega il messaggio alle sue esigenze.
Questo è accaduto e continuerà ad accadere. Resta da capire quanti siano gli italiani consapevoli di questa realtà e quale sarà nelle urne la loro risposta.
* * *
Una risposta importante è intanto venuta dalla Gran Bretagna dove, insieme alle europee, si sono svolte elezioni amministrative in tutto il paese i cui risultati sono già noti. Il partito di Tony Blair ha subìto una cocente sconfitta che lo ha fatto scendere non solo al di sotto dei conservatori ma perfino dei liberali, da sempre partito di minoranza largamente indietro rispetto alle due formazioni maggiori.
Nel complesso dei venticinque paesi che voteranno domani sembra delinearsi una maggioranza di centrodestra che in parte accentua il peso degli Stati nazionali sulla visione federale dell´Europa e in parte esprime pulsioni reazionarie e populiste anti-europee.
Gli elettori italiani hanno dunque una doppia responsabilità: esprimere un voto utile sia per l´assetto federale dell´Europa sia per arginare la deriva della democrazia verso approdi dilettanteschi e avventurosi.
Auguri a tutti coloro che prenderanno su di sé questa doppia responsabilità.
Hanno ben ragione le giornaliste e le scrittrici del gruppo di Controparola che hanno firmato un appello di solidarietà a Tina Anselmi insultata con astio antico nella voce a lei dedicata del dizionario «Italiane» edito dalla presidenza del Consiglio e dal ministro per le Pari Opportunità. E hanno ben ragione le partigiane dell’Anpi che hanno duramente criticato le scelte di molti dei 247 ritratti femminili. «A queste donne tutti noi dobbiamo dire comunque grazie», scrive il ministro Stefania Prestigiacomo nella presentazione dei tre volumi. Anche a Rachele Mussolini, alla Petacci e a Luisa Ferida, l’attrice amante di Osvaldo Valenti, l’attore che faceva parte della banda Koch? Con sadico gusto assisteva anch’essa agli interrogatori dei torturati nella villa Triste di via Paolo Uccello a Milano. Mentre gli arrestati subivano atroci torture giocava davanti a loro con un cane lupo, lo faceva rizzare sulle zampe e gli dava per premio delle fette di prosciutto.
L’hanno raccontato le vittime sopravvissute e uno di loro, Mino Micheli, un partigiano socialista, nel ricordare quel passato, scoppiò a piangere durante le riprese di un documentario televisivo della Rai, «La repubblica di Salò», 1973.
Ma è Tina Anselmi, in questo dizionario, il vero test del tempo presente. Vincenzo Vasile ha già analizzato su l’Unità quelle paginette scritte da Pialuisa Bianco. La quale usa tutto il suo odio mascherato per tentare di ferire e di distruggere Tina Anselmi, donna coraggiosa, seria, intelligente.
«Ragazzina della Resistenza», scrive. Che per lei dev’essere un sommo insulto. (Fu una giovanissima staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti e del comandante regionale del Corpo volontario della libertà del Veneto). «Partigiana ciellenistica e consociativa». (Non sa che cosa fu la lotta partigiana. Le pratiche consociative arrivano decenni dopo. Anche il linguaggio è sbagliato).
Ma è sulla P2 - Tina Anselmi è stata dal 1981 al 1984, tra l’ottava e la nona legislatura, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 - che la scrivente distilla tutto il suo rozzo fiele. Tina Anselmi, nella sua vita politica, non si è occupata soltanto della loggia. Un dizionario dovrebbe essere completo e onesto. Il ministro Prestigiacomo avrà senz’altro letto il saggio di Virginia Wolf sull’arte della biografia. Tina Anselmi ha dedicato tutta la vita ai destini delle donne: nella scuola - laureata in lettere ha insegnato nelle scuole elementari - nel sindacato, nel movimento femminile della Dc, in Parlamento, deputato per sei legislature, ministro della Sanità, ministro del Lavoro, si deve a lei la legge sulle pari opportunità.
Ma quel che conta, per chi scrive la sua voce nel dizionario è soltanto la P2. La colpa incancellabile. I governanti sconnessi della destra che condonano e amnistiano ogni cosa, soprattutto se stessi, e hanno il vizio della dimenticanza, non scordano invece i nodi fondamentali del malaffare nazionale. La P2 è uno di questi. Tina Anselmi, secondo la scrivente, è «la Giovanna d’Arco che avrebbe dovuto trafiggere i mostri degli anni Ottanta». Tina Anselmi è un’espressione del «cattocomunismo», un’altra ossessione. Ecco come la biografia conclude il suo testo: «Era rimasto imprevedibile, e straordinario, che la furbizia contadina della presidente divenisse il controverso modello della futura demonologia politica nazionale, distruttiva e futile. I 120 volumi degli atti della commissione che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli della Anselmi’s List (che finezza!, ndr) infatti cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi».
Dove sono finite le «coordinate del rigore scientifico» reclamizzate dal ministro? Sarà utile rinverdire qualche notizia sulla P2. Gli allora giudizi istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone arrivano alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sull’assassinio ordinato da Sindona dell’avvocato Giorgio Ambrosoli a Milano, la notte dell’11 luglio 1979 e sulle minacce ricevute da Enrico Cuccia. Sindona, quell’estate, è arrivato nascostamente in Sicilia da New York e si dice vittima di un sequestro. Indagando su quel finto sequestro, Colombo e Turone scoprono un medico, Joseph Miceli Crimi, che ammette di aver ferito Sindona a una gamba dopo avergli praticato l’anestesia locale (per dar credito al finto sequestro). Nell’ottobre 1980 confessa di avere incontrato Gelli più volte durante quell’estate. Il 17 marzo 1980 avviene la famosa perquisizione in quattro posti differenti. Alla Giole, la ditta di Gelli ad Arezzo, i finanzieri di Milano scoprono le carte.
Svelano l’esistenza di un’associazione segreta in cui sono coinvolti tre ministri della Repubblica, il capo di stato maggiore della Difesa, i capi dei servizi segreti, 24 generali e ammiragli, 5 generali della Finanza, compreso il comandante, parlamentari (esclusi i comunisti, i radicali, il Pdup), imprenditori, il direttore del Corriere della Sera, il direttore del Tg1, banchieri, 18 magistrati. Non è il governo Forlani, che si dimetterà, a rendere pubbliche le liste, ma Francesco De Martino, presidente della commissione d’inchiesta sul caso Sindona.
È l’immondezzaio della Repubblica. La P2 ha gestito il caso Sindona con la mafia; è proprietaria del Banco Ambrosiano e controlla il Corriere della Sera; ha rapporti con la banda della Magliana e con i poteri criminali; è responsabile, tramite suoi affiliati, di gravi depistaggi sulla strage di Bologna del 1980 e sulla strage di Peteano. Ha usato influenza sul caso Moro, massicciamente presente nel comitato di crisi del Viminale. Scrive (ahimé) Tina Anselmi nella sua relazione sulla loggia: «Ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Davvero la Anselmi’s List cacciò «streghe e acchiappò fantasmi?» Davvero «stroncò Licio Gelli e i suoi amici?» Gelli sta benissimo nella sua villa di Arezzo. I suoi amici sono al governo. Il presidente del Consiglio Berlusconi aveva la tessera n. 1816 ed era affiliato alla P2 dal 26 gennaio 1978; il suo assistente Fabrizio Cicchitto aveva la tessera n. 2232 e si era affiliato un po’ più tardi, il 12 dicembre 1980. Le cose vanno a gonfie vele, come risulta da una recente intervista del maestro venerabile a la Repubblica. Riceve i postulanti tre volte alla settimana, a Pistoia, a Montecatini, a Roma. È soddisfatto. Il suo Piano di rinascita democratica ha fatto e fa da linea programmatica al governo.
Il capitalismo come fatto di natura irresistibile. Su questo sembra che siamo tutti d'accordo. A parole siamo anche tutti democratici, così pieni di democrazia che torniamo alle guerre per portarla anche a coloro che non la vogliono, e che, come avverte il rais egiziano Mubarak, cadrebbero per la loro povertà e ignoranza in dittature feroci più delle attuali.
Ma vogliamo chiederci a che punto è la nostra democrazia, la democrazia che vorremmo regalare agli afgani e agli iracheni e poi all'universo mondo? È una democrazia che nelle regioni meridionali è ancora legata al patto mafioso fra borghesia del sottogoverno e cosche criminali. Le cosche criminali e il loro controllo del territorio sopravvivono perché garantiscono la continuità di una borghesia che campa e cresce sui ricatti economici ed elettorali. I criminali della lupara sono necessari come lo sono nei paesi autoritari le polizie politiche, le Gestapo, la Ghepeu.
L'apparato mafioso criminal-borghese non è cambiato: come sempre ha per punto di riferimento il partito di governo, ieri la Democrazia cristiana, oggi Forza Italia e come sempre promuove a turno un partito minore che deve simulare il gioco democratico: liberali, socialdemocratici, repubblicani, craxiani, persino radicali e ora i cattolici berlusconiani. Nulla di sostanzialmente mutato nel pendolo fra mafia che uccide e mafia che fa affari. Se questa, dalla unità di Italia, è la democrazia di gran parte del Meridione e del sistema creditizio nazionale nel perenne riciclo del denaro sporco della mafia in denaro pulito delle banche, se non sappiamo come vincerlo, come sostituirlo, così sia. Ma stiamo zitti, almeno quando ci impanchiamo a maestri di democrazia nel mondo.
Il capitalismo è fuori discussione, il neocolonialismo globale è una necessità, la legge del Condor, cioè dell'imperialismo che nasconde i suoi cadaveri è, in fondo, accettata dalla massa dei privilegiati, le utopie comuniste sono tragicamente fallite: ma qual è la società che si è formata sotto la guida illuminata di Reagan e della Thatcher? È la società in cui 2 mila vip milanesi e decine di migliaia nel resto di Italia corrono, al modico costo di 500 euro a testa, ai pranzi elettorali dell'onorevole Gianfranco Fini, l'ultimo super-trasformista passato dal neofascismo all'antifascismo nel deserto delle idee e delle tradizioni, secondo la regola berlusconiana che questo è il paese in cui si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto l'unica cosa che conta è avere il controllo del pubblico denaro da spartire con la nuova classe padrona delle tecniche e dei nuovi consumi.
Non è sempre andata così? La Milano da bere in cui i craxiani facevano un miliardo di debiti solo al ristorante Savini, la Milano di Mani pulite sono state surclassate dai crack Parmalat e Cirio e simili: un saccheggio dei risparmiatori che il presidente del Consiglio giudica normale.
La società civile degli italiani civili non è scomparsa, ma accetta l'anarchia, non si scandalizza se i governanti invitano i cittadini ricchi a frodare il Fisco. Se rifiutano la legge eguale per tutti, se in un tripudio di illegalità e di impudenza giungono a desiderare maggioranze assolute, dittature democratiche, controllo dei mezzi di comunicazione, di persuasione, fino alla immonda ipocrisia della beneficenza di fronte a cui quella della Belle époque sembra francescana. Fra le sue colpe il fascismo ebbe quella di sperperare il pubblico denaro nelle imprese coloniali quando c'erano provincie italiane in miseria e con amministrazioni arretrate. Ma la nuova classe non è da meno: sta distruggendo lo Stato sociale, e ai produttori ha sostituito i parassiti e i venditori di fumo.