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«Se avessimo dovuto farlo ora, non avremmo abbattuto niente, nessuna villetta, nessun abuso». Lo sguardo di Gerardo Rosanìa, sindaco di Eboli, si spegne nel vuoto, vaga sulle pareti del suo ufficio, poi torna a fissare un punto. «Quella stagione si è esaurita. E poi oggi chi me li darebbe i soldi per le ruspe e per alloggiare i militari?».’

Non è passato tanto tempo da quando i Caterpillar si avviarono verso la pineta di Eboli per demolire le prime 72 villette abusive che deturpavano il litorale. Ma sembra un secolo. La pineta è lunga otto chilometri e in alcuni punti è profonda anche 250 metri. Alle spalle corre la strada, davanti ha una spiaggia bianchissima e poi luccica il mare. Era il settembre del 1998. Ci vollero tre giorni per sbriciolare il cemento e il ferro. Le altre 328 casette vennero giù nel volgere di due anni. Fu girato un video che la sera venne proiettato sulla piazza di Eboli davanti a trecento persone. Molti applaudivano, si levò qualche fischio, forse indirizzato alle ruspe, forse a chi aveva violato con il cemento la quiete di quei pini, che erano di tutti. Altri stettero zitti e covarono i rancori nelle viscere.’

Eboli è un paese conosciuto dappertutto, nonostante il fatto che Carlo Levi, nel suo libro, non si sia occupato di Eboli, estremo lembo del mondo moderno, bensì di quello che c’era dopo. Rosanìa ha 45 anni, è alto, agita le lunghe braccia e si aggiusta il ciuffo che i capelli arruffati fanno scendere sugli occhi. E’ iscritto a Rifondazione comunista e guida un centrosinistra travagliato - e travagliate sono tutte le storie della sinistra qui nella piana del Sele, zona di bonifica, di agricoltura ricca e di miseria contadina, di boschi e di aree umide, di speranze industriali che si infrangevano, di lotte e di rivolte.’

Dopo aver abbattuto le quattrocento villette abusive è lui il custode della pineta. L’ha ripulita dai calcinacci, ha divelto le ultime palizzate, e ora sta avviando il risanamento. Hanno sistemato i pali della luce e attrezzato una pista ciclabile che dalla foce del Sele, dieci chilometri più a sud, porta fino a Salerno. In alcuni angoli sorgeranno oasi naturali, fazzoletti umidi dove ricondurre la fauna - uccelli, anfibi e persino pesci. Dopo una estenuante trattativa con la Regione Campania sono arrivati 18 miliardi di vecchie lire (ma Rosanìa ne aveva chiesti 40), e con questi si potrà ripascere la pineta, piantare nuovi alberi, attrezzare piccole strutture sportive.’

La pineta segna il limite tra il mare e la pianura. Come altre pinete costiere in Italia, racconta Maria Bellelli, un’agronoma che a lungo l’ha studiata, anche questa che scorre da Paestum fino a Pontecagnano fu impiantata negli anni Cinquanta «per stabilizzare le dune impedendo che avanzassero e per proteggere dai venti marini e dalla salsedine le colture agricole che sono all’interno». Questa striscia di verde brunito è dunque un bosco artificiale, prodotto di quelle imponenti opere di manutenzione di cui l’ingegneria italiana si vantava, prima di cercare la gloria solo attraverso cavalcavia e autostrade. La pineta segnava il compimento di un’altra immane opera, la bonifica realizzata negli anni Trenta sotto la direzione di Arrigo Serpieri – bonifica integrale, venne definita, perché oltre a prosciugare le paludi, fissò nuove forme del paesaggio rurale. La pineta chiudeva verso il mare questo gioiello dell’ingegneria idraulica e a sua volta veniva protetta da una duna che sfilava lungo la spiaggia e che tratteneva la salsedine.’

Con il passare degli anni, racconta Bellelli, la pineta venne abbandonata. E qui, dove le piante non venivano diradate e mentre il sottobosco si riduceva, costruirono le villette. Proprietà del demanio e cioè di tutti, quindi di nessuno e, come accade spesso in queste contrade, di chi per primo se l’accaparra. Quattrocento villette, alcune di buona fattura, la gran parte baracchette indegne di ospitare gli attrezzi agricoli. Qualche ristorante, lo spaccio, la bottega con le mozzarelle di bufala della piana.’

L’assalto iniziò negli anni Sessanta. Arrivarono da Napoli, da Salerno e dall’entroterra. Ma le occupazioni furono incessanti dopo che Eboli divenne il teatro della Grande Rivolta. Accadde nel maggio del 1974. Una faida interna alla Dc aveva dirottato verso l’Irpinia, lo stabilimento della Fiat-Iveco che doveva essere installato nella piana del Sele. Gli ebolitani bloccarono l’autostrada e i binari ferroviari. Per Rosanìa fu il battesimo politico: anche lui era sulle barricate, alla testa degli studenti liceali. Una nuova promessa, quella di collocare altri stabilimenti, li riportò alla calma. Ma nessuna industria si stabilì da quelle parti. La Dc perse onore e voti a vantaggio del Psi, che contava su uomini scaltri e intraprendenti. I socialisti crebbero in misura straordinaria, trasformando l’intera provincia in uno dei centri di irradiazione del craxismo (nel '57 avevano l’8 per cento, nell’’80 raggiunsero il 31; la storia della città è narrata da Gabriella Gribaudi in un libro del 1990, esemplare nel suo genere fra antropologia, sociologia e politica: si intitola A Eboli). Nel '76 Rosanìa si trasferì a Modena, dove si laureò in Economia. «In quegli anni scomparvero tanti antichi mestieri», ricorda, «sparirono falegnami, artigiani del rame, ferrai, ciabattini. Eboli perse il suo rapporto con la piana, gli ebolitani non lavorarono più la terra. I fondi agricoli servirono per costruirci le villette e dopo il terremoto dell’’80 il centro storico si svuotò». Rosanìa ritornò in paese nel 1982. Ma se ne ripartì quasi subito per la provincia di Bergamo, dove trovò un posto da segretario comunale. Eboli era cambiata. Alcuni si erano arricchiti e molti sognavano di seguirli. Gli ebolitani avevano scoperto il mare e con il mare avevano scoperto quant’era bella la pineta. Furono quelli gli anni delle occupazioni incessanti. Arrivò anche la camorra. Racconta Rosanìa che nella casa del boss Pasquale Galasso a Poggiomarino venne sequestrata una copia del piano regolatore di Eboli e lo stesso Galasso, che poi è diventato un pentito, si era costruito una villa intonacata di bianco, con i portici e gli archi. La villa è ancora qui, con il cancello sulla strada che porta a Battipaglia. Adesso ospita il Centro per la legalità Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Pochi a Eboli ritennero che quelle case fossero illecite. Ma una svolta si ebbe nel 1996, quando Rosanìa si candidò a sindaco appoggiato da una lista civica e da Rifondazione comunista. Suo avversario era l’Ulivo. In testa ai suoi programmi mise gli abbattimenti delle ville. E vinse. Partirono gli ordini di demolizione e vennero indette le gare d’appalto. Tutte le gare andarono deserte. Una volta concorse una sola impresa, offrendo un ribasso irrisorio, lo 0,05. Ma qualche tempo dopo il titolare telefonò al sindaco, sfoderò una solenne faccia tosta e disse: «Scordatevelo che veniamo a demolire».’

Rosanìa fu colto dallo sconforto. Le villette erano state sequestrate da un magistrato di Salerno, Angelo Frattini. Ma i proprietari continuavano ad abitarle. Uno spiraglio venne aperto dal prefetto che tutti consideravano una persona perbene, Natale D’Agostino: le demolizioni le avrebbe fatte l’esercito. Un primo intervento (siamo arrivati al maggio 1998) venne bloccato perché nel frattempo era franata la montagna sopra Sarno. Poi D’Agostino morì, ma anche il suo successore, Efisio Orru, era persona tenace. E così il 28 settembre del '98, all’alba, le ruspe militari arrivarono nella pineta e buttarono giù le prime ville. In piazza si festeggiò quando tutto era finito. Ma il sudore freddo di quei giorni Rosanìa sente scorrerlo al solo rievocarli. Intanto l’esercito demolisce, bontà sua. Ma le case le vuole trovare sgombre di tutti gli arredi. E del trasloco dovette occuparsi il Comune, che scovò un magazzino per sistemare mobili, tavoli e sedie a sdraio. Trovò gli alberghi dove alloggiare i soldati. Fece una convenzione coi ristoranti per fornire pranzi e cene. E alla fine, dissanguandosi, dovette pagare solo all’esercito un conto di 600 milioni.’

Per alcune ore non si ebbe notizia di una signora di settant’anni. Qualcuno sussurrò che poteva trovarsi sotto i calcinacci. Vera o falsa che fosse (falsa, per fortuna, la signora era nella sua casa di Battipaglia), la voce servì a tenere il sindaco sulla graticola, a fargli capire quale scarto separasse la gloria dalla galera. L’ultimo gruppo di case fu demolito in fretta e furia nel 2000: si sapeva che alle politiche avrebbe vinto Berlusconi e allora addio ruspe.’

Eboli sembrava avesse retto nello slancio degli abbattimenti. Ma poi i partiti si sono sfaldati, la maggioranza ha perso alcuni suoi pezzi. «Non so se arriveremo al 2005, quando scadrà il nostro mandato», confessa Rosanìa. Sono riemersi i rancori nascosti quella sera davanti al filmato delle ruspe. Nel nuovo piano regolatore, realizzato da Vezio De Lucia, si è bandito il cemento sul lido: gli stabilimenti devono avere solo strutture in legno. Si è indetta una gara perché chi aveva già uno stabilimento demolisse quello vecchio: in cambio avrebbe ottenuto la concessione per uno nuovo, ma in legno. Alcuni si sono opposti. Sono andati alla Procura della Repubblica e hanno denunciato Rosanìa per abuso d’ufficio e hanno persino insinuato che lui abbia favorito qualcuno a scapito di altri. Ora l’indagine è in corso. Tutte le sentenze della giustizia amministrativa hanno dato ragione al sindaco, che però si è visto perquisiti gli uffici dalla Guardia di Finanza. «Se dovessi abbattere ora non potrei più farlo», ripete Rosanìa, che per fortuna sua e della pineta, seppe cogliere l’attimo.

(2 - continua)

Titolo originale: Ga. landowners work to draw line on sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

PALMETTO, Georgia — Steve Nygren e sua moglie, Marie, stavano vivendo il sogno americano. Lui aveva venduto il suo impero economico (34 ristoranti in otto Stati) e la coppia aveva aperto un bed & breakfast in una vecchia fattoria nel profondo dei boschi di conifere a sud di Atlanta.

La fattoria, 30 minuti a sud-est dal centro, era circondata da campi rigogliosi e colline a boschi. Era parte della più vasta regione di terreni non edificati nell’area di Atlanta. C’erano migliaia di ettari di foreste e campagna non ancora inghiottiti in una zona dove si asfaltano in media 20 ettari al giorno.

Poi la bolla scoppiò. Nygren un giorno di cinque anni fa stava facendo jogging quando vide che stavano abbattendo degli alberi sulla proprietà di un vicino. “Mi spaventò, perché pensavo che si trattasse di costruire case” ci racconta il cinuantottenne Nygren.

Si sbagliava: il suo vicino stava solo costruendo una pista d’atterraggio per il suo piccolo aereo. Ma l’allarme di Nygren su cosa avrebbe potuto fare, alla sua fetta di paradiso rurale, un’edificazione incontrollata, lo portò comunque a lanciare una campagna di base per evitare che le ultime grandi foreste dell’area metropolitana di Atlanta fossero inghiottite da un’ondata di lottizzazioni, strade e centri commerciali.

Nygren e i suoi alleati pensano di aver trovato la formula del successo: non fermare la crescita, ma incanalarla verso poche determinate aree, attraverso una strategia che conservi la maggior parte delle aree boscose circostanti.

Con le aree metropolitane del paese che si espandono sempre più, foreste e campagne ai loro margini stanno rapidamente scomparendo. Dal 1982 al 2001, la quantità di aree urbanizzate negli USA è aumentata del 45%, fino a 43 milioni di ettari, secondo il Department of Agriculture e la Brookings Institution, un istituto di ricerca di Washington. Si tratta di circa il 6% della superficie totale nazionale.

Più o meno il 70% dell’edilizia residenziale e commerciale si realizza ancora dove esistono boschi e aree rurali, anziché in zone già urbanizzate.

Contemporaneamente, gli acquirenti di case esprimono sempre più un desiderio di vivere in modi che proteggano il paesaggio naturale, e i costruttori stanno rispondendo. Uno dei settori in più rapida crescita dell’industria edilizia sono le conservation subdivisions, che utilizzano solitamente lotti compatti, concentrati, e ampi spazi aperti condivisi da tutti i proprietari. Questi quartieri sono progettati per ospitare il maggior numero possibile di abitazioni, proteggendo contemporaneamente molte delle risorse adiacenti in termini di zone rurali e naturali.

La Chattahoochee Hill Country Alliance, il gruppo che Nygren ha collaborato a formare, sta cercando di applicare questi principi su larga scala. Il programma comprende circa 250 kmq di zone rurali: una superficie pari a quella della Napa Valley in California. Il gruppo spera di salvaguardare almeno due terzi di questa superficie concentrando l’urbanizzazione in tre centri, di circa 2,5 kmq ciascuno.

”È un modello molto interessante, il modo in cui le città di tutto il paese stanno cercando di dare una risposta alla domanda: come possiamo ridurre lo sprawl?” ci racconta Jo Allen Gause, direttore per l’edilizia residenziale allo Urban Land Institute, organizzazione non-profit di ricerca e divulgazione. “È un modello che potrebbe funzionare, in alcune aree”.

La chiave per costruire lo hill country plan è lo strumento legale inconsueto sostenuto da Nygren: il trasferimento dei diritti edificatori. Consente ai proprietari di vendere il diritto di costruire case sulle proprie fattorie o ranch. In cambio della tutela permanente del terreni, possono avere benefici fiscali e continuare a risiedere sulla proprietà.

I costruttori, per parte loro, acquistano i diritti edificatori. Ma invece di usarli sui terreni agricoli, trasferiscono il numero di case che avrebbero teoricamente potuto realizzare qui, verso terreni vicini, dove lo zoning consente un’edificazione più intensiva.

Hill country plan

Lo hill country plan incoraggia circa 100 coltivatori e 530 altri proprietari a vendere i propri diritti a edificare sui propri terreni. Più diritti venduti, più terreni conservati.

Resta da vedere se Nygren (che sta edificando parte dell’area per profitto) e i suoi colleghi riusciranno. I meridionali di campagna hanno un legame profondo, quasi spirituale, con la propria terra. Ha mantenuto le loro famiglie. È il posto dove crescono le messi e si caccia la selvaggina, dove sono nati, si sono sposati, e saranno sepolti. La terra tradizionalmente si trasmette di generazione in generazione.

Rinunciare al controllo della propria terra non è qualcosa che si possa fare a cuor leggero.

”La maggior parte delle fattorie qui sono state delle stesse famiglie per cent’anni” dice J. Wayne Stradling, capo dell’ufficio agricoltura della Fulton County meridionale, dove si trova molta della superficie interessata. “Personalmente, mi piace (il piano di Nygren). Credo che funzionerà. Ma molti dicono di no. La chiave di tutto è farli capire”.

Circa 30 proprietari hanno già manifestato interesse a cedere i propri diritti, afferma Stacy Patton, presidente della Chattahoochee Hill Country Alliance. “La gente sta aspettando di capire quanto è difficile l’operazione.

Alcuni hanno venduto i propri diritti ai costruttori per 9.000 dollari l’ettaro, ci dice ancora J. Wayne Stradling. È circa la metà del valore di mercato dei terreni in zona.

”La questione principale si misura in dollari e centesimi – ci dice – se vogliono tenersi la terra per sé e i figli, è la cosa migliore anche cedere i diritti per un pezzo di pane. Ma se qualcuno non ha figli, potrebbe volerla vendere al prezzo più alto”.

I trasferimenti di diritti edificatori sono stati tentati raramente nel Sud, e mai in Georgia sinora. Lo strumento della pianificazione degli usi del suolo è stato usato altrove, e in particolare nella Montgomery County, Maryland, nel suburbio di Washington, dove si sono preservati così più di 20.000 dal 1980, e nelle New Jersey Pinelands (12.000 ettari dal 1981).

I trasferimenti sono usati anche, su scala minore, in New Hampshire, negli stati di New York, Washington, Idaho, Colorado, Nevada, Wyoming and California. Il governatore del New Jersey James McGreevey afferma di voler inserire questo strumento nelle proprie politiche ambientali.

Gli esperti dicono che la procedura ha successo soprattutto per conservare piccole zone in area urbana. A Seattle si consentono trasferimenti da siti per case popolari ad altri in centro destinati a uffici e alberghi. Si sono salvate così della demolizione (e sostituzione con progetti orientati al mercato privato) centinaia di abitazioni per famiglie a basso reddito.

Ma Randall Arendt, urbanista e progettista di conservation subdivisions, dice che sarà difficile per l’associazione ambientalista georgiana proteggere 20.000 ettari di zone rurali usando lo strumento dei trasferimenti. “Si è dimostrata una proposta molto difficile da mettere in pratica” dice. Il problema, continua, è che “la gente non vuole accettare nuova edificazione da altre aree, se questo significa più gente nel proprio cortile”.

Segnali dai costruttori

Molti dei panorami, nella Chattahoochee Hill Country, sono mozzafiato. La luce pomeridiana gioca sul terreno fra mormoranti corsi d’acqua. L’area è a venti minuti di macchina dall’aeroporto più affollato del mondo, ma passare davanti ad una fattoria dopo l’altra può dare al visitatore la sensazione di essere trasportato in un’altra epoca.

Per vent’anni, la gente che vive qui ha visto lo sviluppo suburbano andarsene altrove. Alcuni stavano aspettando il momento giusto, quando i costruttori avrebbero iniziato a corteggiarli per cedere la terra con grossi profitti.

Nygren saperva di non poter fermare le ruspe. Ma non voleva vedere il tipo di suburbanizzazione che aveva caratterizzato il resto di Atlanta. E con un piccolo gruppi di vicini per prima cosa si è rivolto a chi possedeva almeno 80 ettari.

”Al nostro primo incontro queste 36 persone si divisero in due gruppi: chi si abbracciava agli alberi e chi era favorevole a costruire” ci dice. “C’è gente qui che è proprietaria di terre da sei generazioni. E c’è gente che pensa sia arrivato il momento di incassare. Altri amavano la terra, e volevano che non succedesse niente”.

In dozzine di incontri sono stati coinvolti piccoli e grandi proprietari, ambientalisti e costruttori, per decidere dove si sarebbe dovuto edificare. Dopo mesi di assembleee spesso conflittuali, il gruppo ha prodotto un piano per concentrare le case e altre attività in tre insediamenti ad alta densità, e altre aree più piccole. La Fulton County, che contiene la maggior parte delle aree collinari, lo scorso anno ha rivisto le proprie norme di zoning per adeguarle a questo piano e approvarlo.

I tre villaggi avranno 30 unità residenziali per ettaro. Saranno raccolti attorno a un green e progettati in modo che gli abitanti possano raggiungere le varie località e servizi a piedi o in bicicletta. I costruttori dovranno destinare almeno il 10% dei terreni a spazi aperti. Nei villaggi saranno utilizzati sistemi fognari innovativi, eliminando la necessità di costose connessioni con reti lontane.

I progettisti prevedono a regime da 30.000 a 100.000 abitanti per l’area collinare (dalle poche centinaia di oggi). Non ci saranno gated communities, e il 10% delle abitazioni sarà destinato a tipi per bassi redditi. Questa case non costeranno più di 130.000 dollari, rivolti a famiglie fino a quattro persone con un reddito pari all’80% di quello medio dell’area metropolitana di Atlanta.

La lottizzazione di Nygren, Serenbe, sarà progettata come un quartiere di artisti. Le persone abiteranno in case poste sopra i propri spazi di lavoro, in modo molto simile ai vecchi centri città. Ma qui saranno circondati dai boschi. È un tipo di idea che ha successo: Nygren racconta che 32 delle prime 40 case rese disponibili si sono vendute in fretta, a prezzi da 190.000 a 800.000 dollari. E invita i visitatori nella vecchia fattoria che ha rinnovato insieme alla moglie, scavalcando un cane bianco dei Pirenei di nome Georgia che sonnecchia sulla soglia. All’interno, Nygren ha dedicato una stanza alla proiezione del suo Power Point sull’area delle colline.

Poi si passa a un ex fienile utilizzato come ufficio. Qui si trovano mappe e opuscoli col progetto del quartiere.

”Tutti parlavano di quello che non avrebbero voluto vedere, qui. Ora abbiamo deciso cosa vogliamo.

Nota: per un confronto, si veda anche la descrizione dell'esperienza del New Jersey raccontata dal New York Times e riportata in questa stessa sezione di Eddyburg (fb)

Titolo originale: Wal-Mart adapts to communities.New Palm Bay store follows requested style– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il progetto di Wal-Mart per il Supercenter di Palm Bay Supercenter ha tutto quello che un cliente si aspetta dalla catena commerciale più grossa del paese: un’enorme scelta, un supermercato e un centro giardino che sembra una piccola foresta pluviale.

Ma ci sarà una grossa differenza, e sarà nell’aspetto esteriore dell’edificio.

Mancherà la costruzione di cemento grigia, sottolineata dallo sfondo blu e scritta bianca, che per più di vent’anni ha caratterizzato le facciate dei negozi Wal-Mart in tutti gli Stati Uniti. La città di Palm Bay ha richiesto alcune modifiche prima di rilasciare il permesso di costruire il nuovo punto vendita.

A Palm Bay, chi va a far spesa troverà un negozio di 10.000 metri quadrati con una facciata in stile Florida vernacolare, completa di finto tetto a falde e persiane apribili.

”Ho il piacere di annunciarvi che non vedrete più grosse scatole blu e grigie” dice Glen Wilkins, portavoce della Wal-Mart a Bentonville, Arkansas.

Wal-Mart non è la sola ad adattare la propria architettura esterna per andare incontro ai desideri delle città. Lentamente, parecchie delle principali catene commerciali nazionali stanno accorgendosi – in certi casi forzate – che i progetti di cubi squadrati devono iniziare ad avere qualcosa di più per accontentare le esigenze locali.

A Palm Bay, commercio e terziario che desiderano localizzarsi in certe zone devono utilizzare lo stile denominato “Florida vernacolare” o “ cracker”.

A Viera, nella Brevard County, i costruttori devono adeguarsi ad uno stile delle facciate più Mediterraneo.

In entrambe queste aree, tutte e due in forte crescita, i commercianti hanno un’alternativa: adattarsi a questo rigido “vocabolario visivo” oppure perdere milioni di dollari di vendite, perché non gli sarà consentito di edificare e aprire il negozio.

Una grossa domanda aperta, è se gli altri commercianti e costruttori seguiranno Wal-Mart.

”Devono svegliarsi, se la cosa ha senso economico” ci dice Ed d’Avi, architetto con studio a Suntree e membro della sezione Space Coast dell’American Institute of Architects. “Se le città dicono: ‘No, non lo accettiamo’ saranno obbligati”.

”Evidentemente stanno tentando di identificarsi maggiormente con le città, in qualche modo, e diminuendo la dimensione di questi edifici a forma di grossa scatola” continua d’Avi. “Fino ad un certo punto, riescono meglio di altri”.

La Walgreen Co., impresa commerciale con base a Deerfield, Illinois, abitualmente segue linee ben definite nella costruzione dei suoi negozi. Ma circa cinque anni fa, la pressione della comunità ha forzato la maggior catena nazionale nel settore drugstore retail ad installare una facciata in stile Florida vernacolare all’angolo fra la U.S. 1 e Montreal Avenue, per adattarsi all’area storica Eau Gallie.

Vernacolare, certo, ma è senza dubbio ancora un negozio Walgreen. Chi abita vicino, ad ogni modo, sembra apprezzare questa particolare scelta estetica.

”Avendo appena completato un profondo rinnovo degli elementi più riconoscibili della zona centrale, possiamo apprezzare altri soggetti che lavorano per il miglioramento estetico del distretto storico della città” afferma Jack Platt, socio dello studio legale Platt, Jacobus, Fielding & Torres, che si è trasferito di recente in un edificio vicino al negozio Walgreen.

”Piccoli ritocchi, come quelli effettuati da Walgreen, fanno la differenza nell’aspetto generale e nella percezione della zona” dice Platt.

Le motivazioni di Wal-Mart non sono certo altruistiche, sottolineano gli esperti del settore. Per molti anni le città hanno barattato la propria anima pubblica per ospitare una delle grandi catene commerciali, a causa del gettito fiscale che generava e dei posti di lavoro creati.

Quando il grande operatore ha cominciato a far uscire dal mercato le attività più piccole e indipendenti, le città hanno iniziato a irrigidirsi rispetto a Wal-Mart e altri, chiedendo alcuni adeguamenti a standard locali.

È stato allora che la Wal-Mart di Durango, Colorado, ha adottato uno stile da villaggio Pueblo. Un negozio vicino a San Francisco ha invece uno stile di tipo industriale, con soffitti alti e strutture d’acciaio.

A Viera, si è convinto Wal-Mart a adottare per il suo Supercenter un aspetto Mediterraneo, con parecchie piante di palma.

”Molte di queste richieste venivano dalla comunità, e Wal-Mart ha capito che avremmo tutti tratto beneficio dalal costruzione di un negozio che si adattava alla città” dice il portavoce Wilkins. “Dà agli abitanti un senso di proprietà, dato che è così caratteristico”.

Palm Bay ha adottato una delle politiche più restrittive della zona riguardo alla progettazione, e il direttore dell’ufficio urbanistica Chris Norton , anche se dice di capire le critiche a questo atteggiamento, non chiede scusa a nessuno. Dice che Palm Bay sta crescendo in fretta, e i funzionari pubblici devono avere un maggior peso nelle questioni della forma urbana.

”I padri della città sapevano che Palm Bay avrebbe continuato a svilupparsi” continua Norton. “E nel tentativo di inziare un processo di ‘marchio’ ebbero l’idea di usare un tema architettonico. Quando si abita qui, o si viene in visita, lentamente si vede emergere lo stile Florida vernacolare. Poi ci si ricorda, quando si torna di nuovo in città, o se ne parla”.

La signora Mary Genna, di Palm Bay, ha guardato il disegno dell’artista che rappresentava il nuovo Wal-Mart e ha detto: “Penso che sarà bello. Sarà completamente moderno”.

La vicina della signora Genna, Marlene Cogar, anche se non è una gran appassionata di Wal-Mart, né entusiasta della decisione di farne uno vicino a casa sua, ammette che questo nuovo progetto è migliore dei soliti negozi a forma di cubo.

”Sembrerà una cosa più urbana” dice la signora Cogar. “Mi piace”.

Il portavoce di Wal-Mart, Wilkins, afferma che questi nuovi aprticolari progetti – ce ne sono circa 10 in tutti gli Stati Uniti – costano più soldi all’impresa “ma si tratta di qualcosa che Wal-Mart capisce di dover fare, come prezzo per continuare la propria attività. E ne trae anche beneficio”.

Ma non tutti sono contenti dell’ordinanza di Palm Bay sugli edifici commerciali.

Bruce Wechsler, candidato al consiglio municipale per il Libertarian Party, definisce controproducenti le regole di progettazione, un freno allo sviluppo economico.

”È semplicemente un tentativo goffo, tutta la faccenda. Lo stile Florida vernacolare non è stato pensato per gli edifici commerciali. Era caratteristico delle piccole case”.

Se anche l’ordinanza fosse una buona idea, solo il 15 per cento della superficie di Palm Bay destinata al commercio è disponibile per l’edificazione – prosegue Wechsler. Chiedere di adeguarsi allo stile Florida vernacolare ora, non avrà effetti visibili.

”Palm Bay è troppo grande, troppo diffusa”.

Un ristorante della catena KFC ha rinunciato a costruire a Palm Bay a causa dei vincoli di progetto, specificando in una lettera ai funzionari di ritenere che l’ordinanza aggiungesse troppi costi.

Wechsler dice che ci sono probabilmente altre attività colpite, anche se non lo comunicano ufficialmente alla città.

”Semplicemente, la gente lo sa, e decide di non venire qui” dice Wechsler. “Non ne vale la pena. Non è che ti telefonano per dire stavamo pensando di venire e poi abbiamo deciso di no”.

Per alcuni progetti commerciali, l’ordinanza ha rappresentato una sfida particolare.

Steve Oktela, che vuole costruire una concessionaria Harley-Davidson allo svincolo di Palm Bay Road con la Interstate 95, dice che ha dovuto spendere circa 150.000 dollari per adeguarsi alle caratteristiche dello stile Florida vernacolare.

La cosa difficile è fondere l’immagine Harley-Davidson con questo stile.

”Cercavamo un aspetto singolare, e abbiamo tentato di incontrarci a metà strada con i funzionari pubblici” dice Oktela. “E devo dire che l’ufficio urbanistica ha lavorato insieme a noi. Potete vederlo nei disegni, che anche se c’è l’aspetto Florida vernacolare, ce n’è anche uno molto, molto industriale di tipo Harley.

”È un segno forte. Certamente non è una casa di marzapane”.

Nota: qui il link a Florida Today col testo originale e qualche immagine; di interesse tecnico anche le pubblicazioni (linee guida ecc.) dell'ufficio urbanistica di Palm Bay, scaricabili in PDF dal sito ufficiale (fb)

Titolo originale Is This Land Our Land? – traduzione di Fabrizio Bottini (L’articolo in una versione precedente è stato pubblicato anche dal Washinton Post nella sezione domenicale “Outloook”, il 24 giugno 2001)

Come molti americani, non ho badato molto al programma federale chiamato “Fee Demo” - ufficialmente, Recreation Fee Demonstration Project – fino a quando non mi hanno chiesto di pagare.

In vacanza in Oregon, sono tornato a percorrere un vecchio sentiero nella Three Sisters Wilderness, dove avevo prestato servizio come ranger forestale anni prima. Ci ho trovato un cartello che mi chiedeva di pagare cinque dollari per il parcheggio, o rischiare una multa fino a cento dollari. Dato che l’unico modo disponibile per raggiungere questa remota testa di sentiero è l’auto, sostanzialmente mi stavano chiedendo di pagare per camminare.

La somma era modesta, ma il mutamento nella politica di gestione delle terre pubbliche che rappresenta non lo è: va contro qualunque idea di spazio pubblico.

Fino a cinque anni fa, tariffe del geenre erano espressamente proibite (con poche e piccole eccezioni) sulla maggior parte dei terreni pubblici gestiti a livello federale, e c’erano severe limitazioni sulle attività ricreative di tipo privato. Ma il programma Fee Demo approvato nel 1996 ha temporaneamente eliminato questi di vieti. Se fosse reso permanente secondo il progetto ora in esame al Congresso, si apalancherebbe la porta a una diffusa e distruttiva commercializzazione di territori che sono parte del patrimonio nazionale.

Non confondete questi posti con gli spazi gestiti dei Parchi Nazionali, con le loro strutture e comodità, ai quali gli americani hanno pagato l’ingresso per quasi un secolo. La Three Sisters Wilderness non è un parco, ma un parte del più esteso sistema di terre pubbliche a gestione federale, che tradizionalmente hanno offerto libero accesso, e un minimo di intrusione commerciale. Il sistema comprende oltre 100 milioni di ettari gestiti dal Servizio Forestale, una quantità più o meno equivalente gestita dal Bureau of Land Management, 40 milioni dal Fish and Wildlife Service e 5 milioni dal Genio Militare (i militari controllano circa 60 milioni di ettari). I terreni del Servizio Forestale, da soli, sono il triplo dei 34 milioni di ettari del sistema nazionale dei parchi.

Tradizionalmente questi spazi pubblici sono mantenuti dalla fiscalità generale, e tutti gli americani hanno diritto di libero accesso. Il concetto è stato rafforzato dal Land and Water Conservation Fund Act del 1965, una legge che proibisce esplicitamente a qualunque agenzia federale di far pagare l’accesso ai terreni pubblici, con l’eccezione dei Parchi Nazionali e delle strutture attrezzate per nautica o campeggio.

Ma nell’ambito del movimento per le privatizzazioni degli anni Novanta, il Congresso tagliò i fondi per il mantenimento dei terreni pubblici. Ad esempio, il bilancio per le attività di tempo libero del Servizio Forestale fu ridotto di più di un terzo fra il 1994 e il 1999. In questa crisi creata artificialmente, entra la American Recreation Coalition, un consorzio di grosse imprese e loro sostenitori, che traggono profitto dalle attività motorizzate e gestiscono concessioni, campeggi, marine e strutture simili.

Sostenendo che le tariffe degli utenti potevano controbilanciare i tagli dei finanziamenti, la ARC ha esercitato un’intesa pressione per eliminare le restrizioni sulle attività commerciali e promuovere “collaborazioni pubblico/privato”. Dopo essere stato respinto ad una prima votazione, Fee Demo è stato infilato in un voto di commissione bilancio nel 1996, e approvato senza consapevolezza pubblica e discussione. Si autorizzava ciascuna delle quattro maggiori agenzie di gestione delle terre ad applicare tariffe in 100 località non specificate, e 400 località complessivamente. Ora queste tariffe di accesso sono applicate in migliaia di luoghi.

Originariamente concepita come un test di due anni, la legge è stata prorogata fino al settembre 2004. Dal luglio 2002, ci sono almeno tre progetti per renderla permanente.

Questo presenta una nuova e seria minaccia. Sinché Fee Demo era temporanea, era poco probabile che qualcuno si lanciasse in costosi progetti edilizi. Se le protezioni dallo sfruttamento privato sono rimosse in modo definitivo, non solo le tariffe per gli utenti saranno garantite, ma l’industria del tempo libero tenterà di espandersi in attività che prima d’ora le erano precluse.

Inevitabilmente, chi gestisce i terreni pubblici sposterà le proprie priorità dalla protezione degli ecosistemi ad assicurarsi una sopravvivenza, raccogliendo denaro. Nel 1999 Francis Pandolfi, a quell’epoca responsabile operativo del Servizio Forestale (ed ex amministratore delegato dei Times Mirror Magazines), stava già esortando la propria agenzia his agency ad “esaminare a fondo la miniera d’oro delle opportunità per il tempo libero di questa nazione e gestirla come fosse un marchio di prodotti di consumo”.

Nella sua “Recreation Partnerships Initiative”, cugina prossima della Fee Demo, il Genio Militare afferma senza alcun imbarazzo che “ L’intento [della collaborazione pubblico/privato] è di incoraggiare lo sviluppo privato delle strutture per la pubblica ricreazione quali: marine, complessi di hotel/motel/ristoranti, centri congressi, aree a campeggio, campi da golf, parchi tematici, zone per il divertimento con negozi, ecc.”.

Il presidente della American Recreation Coalition Derrick Crandall descrive quello che di solito succede quando l’impresa privata contratta per la gestione di strutture pubbliche, in una intervista al Motorhome Magazine del 1998: “Se si hanno tre campeggi da quaranta posti in un distretto, si vede immediatamente che vanno chiusi, e che va realizzato un nuovo sito a campeggio per 120 posti realizzato con gli standards di oggi”. Si sta parlando, ora, di efficienza e profitto.

La ARC sostiene le tariffe per gli utenti come supplemento ai finanziamenti federali, ma i fatti mostrano qualcosa di diverso. Le entrate hanno semplicemente consentito ulteriori tagli nei finanziamenti. La Deschutes National Forest in Oregon ha raccolto 175.400 dollari di tariffe nel 1998, e poi ha avuto tagli al bilancio per il tempo libero di 175.800 nel 1999. È un fatto ricorrente.

Una pubblicità del Servizio Forestale dichiara che l’80 per cento degli introiti Fee Demo va direttamente di nuovo alla terra, ma non è vero. I concessionari privati si prendono una quota dai molti pagamenti della gente a campeggi e teste di sentiero. Ad esempio, la maggior parte degli ingressi Fee Demo alla “Enterprise Forest” in California sono venduti dai privati, che prendono una quota del 20 per cento. Un addizionale 19 per cento è investito nella raccolta tariffe e vigilanza. In tutto, almeno la metà delle tariffe della Enterprise Forest se ne va via, e anche con la minaccia di multe fino a 100 dollari, a malapena la metà del pubblico paga.

...

Fee Demo è solo il primo passo. Misure più costose e danno se per l’ambiente – e con tariffe più elevate – seguiranno, a meno che il programma si fermato.

Per fortuna, sta crescendo la consapevolezza della minaccia, e quattro stati hanno approvato risoluzioni che si oppongono al progetto. Una consapevole disapprovazione si sta diffondendo, e si sono formati diversi gruppi espressamente per combattere queste tariffe ingiustificate.

Il fatto di pagare l’accesso alle teste di sentiero per tutto il paese forse fa perdere di vista l’effetto principale di Fee Demo: l’abolizione dei limiti rigorosi alla commercializzazione, che hanno mantenuto la maggior parte dei terreni pubblici un’oasi per il godimento della natura incontaminata, e garantito la conservazione di un habitat per migliaia di specie.

Preservare le terre pubbliche, o sfruttarle per il profitto privato, sono scopi fondamentalmente in conflitto. Il Congresso dovrebbe mettere fine a Fee Demo, e ripristinare quanto è stato tolto al bilancio generale.

Se si consentirà a Fee Demo di estendersi nel tempo, ci saranno scarse possibilità di eliminarla. Dopo aver pagato per anni una tassa d’uso, molti americani dimenticheranno che le terre pubbliche erano intese per una accessibilità libera da parte di tutti: un diritto fondamentale da proteggere, non un servizio disponibile solo a chi può permetterselo.

Nota: La versione originale del pezzo è disponibile anche su Eddyburg in formato PDF direttamente scaricabile qui sotto
corporatizing public lands. Il link al sito Reclaim Democracy (Restoring Citizen Authority Over Corporations)

ROMA - Sì al condono edilizio, ma a decidere come e quando devono essere le Regioni, il che comporta implicitamente uno slittamento del termine per le domande attualmente fissato al 31 luglio.

La Corte Costituzionale si è pronunciata oggi sulla serie di ricorsi presentati da diverse regioni sul condono 2003 e ha giudicato costituzionalmente ammissibile il provvedimento statale solo in linea di principio. La Consulta ha confermato, cioè, la piena legittimità dello Stato a determinare il provvedimento in linea generale e sul piano delle responsabilità penali, ma ha sottolineato la competenza regionale sul versante amministrativo facendo così, di fatto, slittare il termine previsto per la fine di luglio.

La Corte ha stabilito che sono illegittime diverse disposizioni del testo di Tremonti, perché intervenivano su materia di competenza, appunto, delle Regioni. Diventa così inevitabile lo slittamento del termine di presentazione delle domande di condono. L'organo costituzionale ha infatti deciso che alla sua pronuncia dovrà far seguito una nuova legge dello Stato che determini alcuni indispensabili termini per far funzionare il nuovo tipo di condono.

"Il legislatore dovrà provvedere a ridefinire i termini previsti per gli interessati (ciò ovviamente facendo salve le domande già presentate)", ha scritto la Consulta, che ha aggiunto: "E' peraltro evidente che la facoltà degli interessati di presentare la domanda di condono dovrà essere esercitabile in un termine ragionevole a partire dalla scadenza del termine ultimo posto alle Regioni per l'esercizio del loro potere legislativo". Rinvio, quindi, a data da destinarsi.

Al di là dei termini temporali, le tre sentenze della Corte comunque parlano chiaro: il provvedimento straordinario sugli abusivismi edilizi è appannaggio dello Stato ma la determinazione dei tetti massimi (nei limiti fissati a livello centrale), quali tipologie possono essere condonate e per quali volumetrie lo devono stabilire le amministrazioni locali. Pena: la incostituzionalità del provvedimento statale.

La decisione arriva grazie ai ricorsi presentati da moltissime Regioni (Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Toscana e Umbria) e valorizza senza mezzi termini l' autonomia degli enti locali rispetto al potere centrale. Importante soprattutto la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che sottraeva agli enti locali il potere di far eseguire le demolizioni degli edifici illegalmente costruiti.

Fu Thomas Jefferson, uno di quei padri fondatori per i quali i dirigenti politici americani trovano sempre un posticino anche nei discorsi che accompagnano o motivano (?) le loro occasioni di belligeranza, ad assumere, nel 1784, il compito di riorganizzare amministrativamente il territorio americano. Con una deliberazione varata dal Congresso il 20 maggio 1785, si addivenne alla decisione di rettangolarizzare il paese dividendolo in unità di sei miglia quadrate (candidate a costituire le townships) e procedendo a una ulteriore suddivisione e redistribuzione per favorire l'insediamento della popolazione.

Gli Stati del sud protestarono, rivendicando il diritto di rispettare già esistenti sezioni irregolari, spesso aderenti a linee o confini naturali; quelli del nord, mentre lo stesso Jefferson predicava prudenza e proponeva di non procedere con l'accetta, classificarono queste unità messe lì alla rinfusa come «indiscriminate locations». Prevalsero quelli del nord, ma ciò che più conta è che si attinse, in quella circostanza, a un esprit géométrique che radicalizzava il paradigma palladiano di figure regolari e ingessatamente proporzionali, con l'aggravante di una sovrana indifferenza per il paesaggio.

L'atteggiamento fu quello, prometeico, del geometra puro che impone modelli astratti alla nuda terra. L'atteggiamento opposto, per insistere sui plessi mitici, sarebbe stato quello di Anteo, che trae la sua forza dal contatto con Gea, la terra, e che infatti viene ucciso da Ercole solo perché questi lo tiene sollevato dal suolo: lo depotenzia perché lo smaterializza. In famiglia, l'alternativa sarebbe stata data da Epimeteo, il fratello fesso di Prometeo: se quest'ultimo è colui che impara prima e che si butta senza tanti complimenti allo sbaraglio, l'altro è famoso per il digraziato autogoal con il quale aprì il vaso di Pandora liberando tutti i mali, ma in realtà è colui che impara dopo e che riconosce i dati e i percorsi dell'esperienza. Le complicazioni, a ogni buon conto, non tardarono ad affiorare: l'Ohio sgusciava da tutte le parti, perché con la presenza del fiume omonimo a est le unità di sei miglia quadrate si troncavano in zone irregolari, e una geometria geomorfica, o fortemente legata a modelli isomorfici, faceva resuscitare quelli che i Romani chiamavano subseciva: ritagli, avanzi dei terreni rimasti fuori nella divisione delle campagne ai veterani, e comunque residui o rimasugli da risistemare e da riattribuire. Quando non furono i fiumi, a opporre resistenza furono le montagne o, più insidiosamente, la divergenza tra il nord polare e quello magnetico o le difficoltà di misurazione indotte dalla curvatura della terra. Come se non bastasse, i territori abitati da nativi americani ostili venivano, come si direbbe oggi, monitorati in modo congetturale e imponevano di prendere atto delle vicende di una storia tribale, lontana parecchie miglia dalle asettiche stilizzazioni della razionalità moderna. Ciò che si verificò fu una egemonizzazione della geografia da parte della geometria, come ricostruisce con dovizia di argomenti il lavoro di uno studioso americano (Edward S. Casey, Representing Place, Minneapolis 2002) reduce da puntigliose ricerche di filosofia dello spazio.

Come sembra fosse già accaduto per gli urbanisti di scuola pitagorica che avevano progettato le città dell'Italia meridionale, la geometrizzazione rimosse tutto ciò che ad essa recalcitrava: il rilevamento topografico rettangolare diede pienezza icastica e letterale al termine inglese survey, che corrisponde al tedesco Überblick: uno sguardo dall'alto, di chi sta sopra come il sovrano e che può escludere le asimmetrie della topografia naturale a favore delle regolarità della geometria.

Storicamente, il problema non aveva sembianze molto diverse da quelle della rappresentazione bidimensionale di un'entità tridimensionale, in uno sforzo plurisecolare che aveva visto all'opera già i Greci e che aveva trovato un momento forte nella proiezione planisferica di Gerardo Mercatore del 1569. Come sostiene oggi in Germania Peter Sloterdijk, è lì che si consuma l'ascesa delle carte a spese del mappamondo, ancora protagonista in epoca colombiana, è lì che la bidimensionalità trionfa sulla tridimensionalità, è lì che l'immagine vince sul corpo: i planisferi tendono ad eliminare il ricordo di una terza dimensione non padroneggiata dal rappresentare, puntano alla cancellazione della profondità spaziale reale. Fu un tripudio di schiacciamento e di appiattimento universalistico e astratto, nel quale il titolo di oggetto di conquista spettò solo a ciò che era riducibile a una sola dimensione e nel quale l'imperialismo assunse le fattezze della planimetria applicata, dell'arte di restituire le sfere su una superficie piana.

Malinconicamente, l'Atlante che regge sulle spalle il globo terrestre diventò col tempo un volume: un rotolo, come dice la parola, o più modestamente un insieme di fogli sovrapposti. Proliferano così le tecniche e i modi di rappresentazione, perché se da un lato non c'è una forma perfetta di proiezione planisferica che possa evitare ogni distorsione nell'impatto con la sfericità terrestre, dall'altro lato danno cattiva prova di sé anche le mappe prive di proiezione: i cosiddetti portolani, discendenti dai périploi greci, manuali di navigazione - o meglio: di circumnavigazione - che fornivano istruzioni scritte per procedere lungo la costa da un punto a quello successivo, si specializzano perciò nel mostrare la configurazione delle linee costiere, perché lì, su dimensioni ridotte, è relativamente ininfluente la convergenza dei meridiani. Tutto questo appartiene a saperi super-collaudati e anche istituzionalizzati, giacché le mappe e le carte geografiche sono quanto di meno privato si possa immaginare, se non altro per la loro immediata ricaduta strategico-militare. Per capire che cosa, di questi terreni molto arati, possa destare un nuovo interesse non meramente storiografico, occorre presentificarsi una lunga sequenza che si inaugura con la descrizione omerica dello scudo di Achille nel diciottesimo libro dell'Iliade: la terra, il mare, il sole, la luna e le stelle al centro dello scudo, attorno una città in pace e una in guerra, e infine, sul bordo esterno, quel «fiume Oceano» che i Greci ritenevano circondasse l'ecuméne, la terra abitata e conosciuta.

All'altro estremo cronologico è, per diffuso accordo, Heidegger, che già negli anni trenta del secolo scorso rileggeva la scienza moderna alla luce del potenziale di razionalizzazione in dotazione alla rappresentazione. Strabone, morto nei primi anni del primo secolo dopo Cristo, era uno che sarebbe rimasto disgustato dall'odierna campagna di discredito e di diffamazione a danno delle scienze umane e che adulava la corporazione alla quale appartengo: a suo dire la geografia, come quasi tutto il resto, è una faccenda che riguarda i filosofi. Per carità, troppo buono, vien fatto di dire che peggio del re-filosofo c'è solo il filosofo che fa il cartografo. Fatto sta, tuttavia, che, anche a voler rimanere nei confini della parrocchia occidentale (ma l'Oriente era tutt'altro che scientificamente inerte), tra Omero e Heidegger si snoda, con il Timeo di Platone a fungere da stazione di smistamento di mille suggestioni, una pletora di documenti che alludono unitariamente ad esigenze di disciplinamento descrittivo e di misurazione scientificamente inattaccabile. Come segnala Casey e come era largamente prevedibile, una costellazione specifica è quella che accoglie il giovane Edmund Burke, prima studioso del sublime, poi caposcuola del conservatorismo politico europeo, e il Kant della Critica del giudizio, impegnato appunto, lui che aveva studiato i terremoti e che aveva tenuto per tutta la vita lezioni di geografia, a riannodare anche gli irrinunciabili fili politici del sublime. Strada facendo è dato incontrare, per affinare gli strumenti interpretativi, la semiotica di Peirce e, ancor più vicino a noi, l'analisi della percezione in Merleau-Ponty e l'ermeneutica di Gadamer.

La parte del leone spetta comunque, anche per ragioni di cesura cronologica proto-moderna, alla pittura olandese del XVII secolo. Cartesio, unanimemente considerato il malfattore originario che geometrizzò il mondo radendo al suolo le peculiarità e le idiosincrasie dei luoghi specifici, scrisse le sue opere maggiori quando era in Olanda, ma non è questa l'unica traccia. Già in termini sociologicamente materiali, cartografi e pittori convergevano, quando non collaboravano direttamente: le mappe erano prodotte in formati così sontuosi, e con decorazioni così ricche, da far bella mostra di sé sulle pareti delle case di cittadini abbienti. Qualcuno dei lavori emersi da quell'officina di pensiero sfida ogni classificazione disciplinare: la mappa si confonde con il paesaggio, e un'opera come la Veduta di Delft di Vermeer segna una svolta eloquente. Vermeer va anche oltre: nell'Arte della pittura, nella quale il pittore compare «riflessivamente» di spalle mentre è al lavoro, una mappa sulla parete occupa il centro del quadro e ospita, oltre alla firma dell'autore, la parola-chiave descriptio. Ciò di cui parla l'opera è in effetti la rappresentazione dello spazio pittorico concepita sul modello della scrittura, cioè sul modello di una superficie piana - più propriamente di una tabula - sulla quale sono inserite sia immagini che parole.

Si scrive di qualcosa e su qualcosa. Vale lo stesso per le mappe, le cui superfici bidimensionali accolgono elementi tanto raffigurativi quanto verbali. Con la magia del graphein, dello scrivere, si arriva al cuore del problema. Sarebbe un errore pensare che la finalità della rappresentazione politica sia solo quella di organizzare lo spazio sistemando i tasselli nel senso della parola latina ordo. Questo schierare la realtà va bene al massimo, e non per sempre, finché la domanda è di carattere strettamente militare ed evoca uno dei significati originari di ordo, ma si impantana quando l'esigenza è quella della scrittura politica. Qui bisogna avere una progettualità più lungimirante, che consenta a chi scrive di muoversi in totale autonomia da un oggetto che, pure, deve avere i requisiti dell'esattezza matematica. Mentre noi siamo abituati a pensare alla crisi odierna della rappresentanza politica come a un deficit di inquadramento, a un fallimento delle strategie di ingabbiamento di una realtà diventata troppo complessa e sfuggente e di una soggettività fattasi troppo indisciplinata, dovremmo pensare invece a un blocco della scrittura. Si scrive infatti, anche agli esordi della logica moderna della rappresentazione, in presenza di un orizzonte, ed è quello che oggi manca all'appello. La scrittura funziona quando tutto milita a favore dell'aperto, dell'indeterminato, dell'insaturo, quando insomma la posta in gioco è l'appropriazione, materiale e immateriale, di terre sconosciute.

A noi che abbiamo censito ogni centimetro della terra, però, la sola idea di terre sconosciute provoca il sorriso, e per vederla realizzata tocca andare su Marte: il che significa che la rappresentazione politica forte, quella che riscrive il territorio, è condannata a balbettare, perché dei dati passati e presenti non sa che farsene: il suo motore è, heideggerianamente, la conquista, il suo tempo è il futuro, il suo strumento è lo sporgersi o lo spingersi avanti della proiezione. Il progettare, appunto. Noi europei, peraltro, questa schedatura ossessiva del territorio l'abbiamo messa in cantiere anche per ragioni terra terra (è il caso di dire): perché era al servizio della stabilizzazione razionale della fiscalità, senza la quale la modernità non avrebbe potuto decollare. Le tasse hanno bisogno di certezze catastali, e pare che già nell'antichità dettagliate mappe catastali a carattere regionale coesistessero con la raffigurazione di uno spazio cosmico transoceanico.

È comunque nel vero chi pensa che la semantica della terra incognita abbia avuto la funzione di un propellente insostituibile: si trattava di mettere a punto, dopo Colombo, un sistema di coordinate ideologiche che anticipasse, e poi affiancasse, l'ovvietà e la naturalità di un processo di colonizzazione e di rapina. La terra sconosciuta è quell'altrove che magari delude quanto a ricchezze materiali, ma che non può fare a meno di recare l'impronta di chi l'ha inscritta nel proprio universo. Si dice spesso che tutti gli schemi geopolitici stanno saltando per effetto del processo di globalizzazione. Sarà anche vero, ma i quadri concettuali geofilosofici sono più lenti e macchinosi e magari fanno bene a non squagliarsi sotto la pressione delle novità. Se il mondo viene concepito come immagine - ed è questo l'unico passaggio decisivo -, il soggetto che rappresenta è uno che, come un pittore, lascia la firma ed è sempre coinvolto nel dramma della rappresentazione: è interno alla sua azione teatrale. L'osservazione e l'imitazione possono lasciare il soggetto all'esterno di ciò che viene osservato e imitato, ma chi rappresenta è riportato a forza dentro quell'immagine che è il mondo stesso. In termini politici, potremmo registrare anche un serio indietreggiamento della sovranità, se i poteri sovrani hanno la pretesa di collocarsi fuori dei pezzi di realtà che controllano.

Ma non sarebbe impossibile assistere a un ripiegamento della sovranità accompagnato dal moltiplicarsi delle vie di fuga mediatiche della rappresentazione, che infatti si toglie da sempre lo sfizio di dare alla politica lezioni di umiltà e di dimostrarle che si può far politica anche per vie cosmologiche o cosmografiche. Il mondo potrebbe diventare, se non è già diventato, una superficie non solo nel senso che si sono assottigliati nessi causali e trame storiche una volta agevolmente ricostruibili, ma nel senso che la sua faccia è quella su cui si scrivono ad arbitrio i destini dell'umanità. La rinuncia alla profondità è l'ultimo stadio del sacrificio della tridimensionalità: libera le mani, scavalca le montagne, ignora i fiumi, aggira gli ostacoli, velocizza le operazioni. Molti materiali si stanno chiudendo a tenaglia per illuminare i dispositivi della rappresentazione moderna, e sono in parecchi casi materiali ben noti, ma ripescati e quasi rivitalizzati a fini diversi da quelli di una cultura umanistica classica. Si tratta comunque, sia detto questa volta con ammirazione, di una grande narrazione. Altre pur nobilissime vicende arruolate nelle fila di chi ha rifiutato la rappresentanza - istanze micro-identitarie da piccole patrie, logiche regionali, resistenze federalistiche al destino imposto dallo Stato centralizzato - rischiano di non incrociare luoghi decisivi di formazione dell'Europa, dai quali dovremmo invece ricavare gli attrezzi per una critica immanente della rappresentanza nei suoi punti più ambiziosi e aggressivi.

La mappa è una normale mappa catastale. Ma fuori dal suo codice burocratico sembra un giochino di quelli che compaiono sulla Settimana Enigmistica: tanti quadratini, circa duemila, e dentro i quadratini un numeretto. «Questa era la lottizzazione della Sterpaia, ogni quadratino un lotto, ogni lotto una villetta, una baracca, un prefabbricato. D’estate arrivavano alla Sterpaia diecimila persone. Avevano costruito strade e portato l’acqua. Ma era tutto abusivo. Forse il più grande abuso mai compiuto da queste parti».

La voce di Massimo Zucconi è rotonda. Moderata l’inflessione toscana. Siamo sull’arenile bianco e di polvere sottile del golfo fra Piombino e Follonica e nell’aria aleggia la minaccia di un nuovo condono edilizio, il terzo nella triste storia delle sanatorie italiane (il secondo patrocinato da Silvio Berlusconi). Di fronte, nell’evanescenza della foschia, si scorge l’Elba che sovrasta il mare colore del cobalto. In lontananza le ciminiere, il più vistoso lascito della grande speranza industriale di questo lembo della Maremma - erano 12 mila gli operai una decina di anni fa, adesso sono 3 mila.

Zucconi è architetto ed è il presidente della società che gestisce i sei parchi della Val di Cornia, quello archeologico di Baratti e Populonia, quello archeominerario di San Silvestro, quelli naturali di Montioni e di Poggio Neri e quelli costieri di Rimigliano e, appunto, della Sterpaia. Per molti anni Zucconi ha diretto il dipartimento di Urbanistica del Comune di Piombino ed è stato l’artefice di un evento che, in quelle dimensioni e per la data in cui prese le mosse - il 1983 - , era un esordio nella storia d’Italia: la demolizione di tutti i manufatti abusivi, le duemila casette allineate in quella mappa. A partire da allora, e terminati gli abbattimenti a metà degli anni Novanta, Zucconi ha preso ad occuparsi del risanamento dei milleottocento ettari della Sterpaia, un bosco popolato da aceri campestri e aceri trilobi, da frassini, olmi e ornielle e da maestose querce, presenti in varie specie - farnie, cerro e roverella - e molte delle quali «capitozzate», cioè tagliate a un’altezza fra i due e i tre metri in modo che la pianta potesse crescere più in larghezza che in altezza.

Adesso la Sterpaia fronteggia una spiaggia sinuosa e lucente. E con essa forma un sistema ambientale complesso, composto dalle dune, dalle aree umide che si assiepano dietro di esse, da radure agricole e da aree boscate. Pochi gli stabilimenti balneari, alcune aree di parcheggio, piccoli chioschi, qualche ristorante, lunghissimo l’arenile libero: il bosco della Sterpaia è stato restituito a un turismo rispettoso e sobrio. Ma dietro la sua serenità si cela una storia di travagli umani e politici.

Fin dal Medioevo la pianura attraversata dal fiume Cornia era dominata dalle paludi che si alternavano a boschi e a qualche sparuto appezzamento coltivato. E le paludi, infestate dalla malaria, tenevano lontani gli uomini e le loro attività. Il paesaggio era quello scoraggiante e selvatico di una landa, segnata solo dalle torri di avvistamento contro le incursioni saracene e da qualche raro ricovero di pastori. I primi interventi di bonifica risalgono alla fine del Cinquecento, ma la sistemazione idraulica su larga scala fu avviata, come in tutta la Maremma, negli anni Venti dell’Ottocento dal granduca Leopoldo II. Il lago di Rimigliano e le paludi interne vennero prosciugate dirottando l’acqua in numerosi canali di scolo, mentre l’acquitrinio di Piombino venne interrato con materiali trascinati dal Cornia che formarono una vastissima colmata.

La storia più recente della Sterpaia (una storia che viene rievocata in un libro curato per Legambiente da Edoardo Zanchini e pubblicato da Franco Angeli: Dall’abusivismo al parco) inizia trent’anni fa. Nel 1971 un’agenzia immobiliare di Piombino rilevò i centottanta ettari della Sterpaia dall’ultimo dei suoi proprietari, il barone Ostini. Sul bosco il Comune di Piombino aveva imposto, negli anni Sessanta, un divieto assoluto di edificabilità, rinforzato da un vincolo paesaggistico del ministero della Pubblica Istruzione. Per la verità il piano regolatore di Piombino prevedeva insediamenti turistici che avrebbero chiuso in gabbia la Sterpaia, lasciando che fosse circondata da un mare di cemento. Fu il ministero dei Lavori Pubblici, nel '71, a esigere la tutela anche delle aree a Est e a Ovest del bosco (e fu sempre il ministero, alla cui direzione generale dell’Urbanistica sedeva un intransigente galantuomo, Michele Martuscelli, a sventare uno sciagurato villaggio di quasi due milioni di metri cubi nientemeno che sul promontorio di Populonia, a ridosso della necropoli etrusca).

Il divieto di costruire era stato confermato da un piano urbanistico redatto dall’architetto Carlo Melograni per tutti i quattro comuni dell’area (oltre a Piombino, San Vincenzo, Campiglia Marittima e Suvereto). Ma nonostante i vincoli, l’agenzia immobiliare che aveva comprato la Sterpaia divise la proprietà in piccoli lotti da 500, 1.000 e 2.000 metri quadrati e, così frazionata, la vendita non poteva che preludere a un’imponente speculazione: il terreno, acquistato a poche centinaia di lire al metro quadrato, veniva ceduto a quindici, anche ventimila. I compratori non erano benestanti: la gran parte proveniva da ceti medio-bassi, quando non proprio operai dell’acciaieria, che realizzavano il sogno della casetta per la villeggiatura.

Poco dopo aver messo piede nell’Ufficio abusivismo del Comune, Zucconi aprì un armadio e trovò decine di delibere con le quali l’amministrazione ordinava la demolizione degli illeciti. Era il 1983, ma nessuna ruspa si era mai avventurata alla Sterpaia, che nel frattempo era diventata una fungaia di cemento. «Mi dissero che non si era proceduto perché i proprietari erano ricorsi al Tar e che il Tar non si era ancora pronunciato. Risposi che si poteva comunque demolire. Mi ribatterono che il Comune non voleva accollarsi i danni patrimoniali casomai il Tar gli avesse dato torto».

Era la verità. Ma era vero anche che una parte del Pci, da sempre al governo di Piombino, non era insensibile agli interessi di chi aveva costruito alla Sterpaia. Una delegazione di abusivi si era fatta persino ricevere da Enrico Berlinguer (ma il segretario del Pci non assicurò nessun appoggio). In un estremo tentativo conciliatorio il Comune aveva offerto a chi avesse demolito l’abuso una casa in due villaggi turistici ai bordi del bosco. Ma accettarono solo 190 proprietari («e fu una fortuna», commenta ora Zucconi, «altrimenti si sarebbe generalizzato il principio che un abuso possa essere sì abbattuto, ma poi indennizzato»).

Non fu semplice per Zucconi forzare la mano. Ma convinto a demolire era anche il nuovo sindaco di Piombino, Paolo Benesperi (che adesso è assessore regionale), e le ruspe si misero in movimento a dicembre dell’83 proprio mentre il Tar cominciava a dar ragione al Comune. A casa di Zucconi arrivarono un paio di lettere contenenti un proiettile. Ma si andò avanti lo stesso. E anzi la giunta diede incarico a Italo Insolera di redigere un piano particolareggiato del parco, che fu pronto nel 1985. Un gruppo di lottisti si presentò dal ministro dell’Ambiente Alfredo Biondi. «Subito dopo andammo anche noi dal ministro», racconta Zucconi. «Ci ricevette dicendo che aveva appena parlato con "quelli di Piombino": credo che non gli fosse sufficientemente chiara la differenza fra noi e loro».

I terreni liberati dalle case furono riacquistati dal Comune. Ma non più come se fossero edificabili, bensì a prezzo agricolo (furono di fatto espropriati). Nuovo ricorso dei proprietari alla giustizia amministrativa. Nuova vittoria del Comune. E così le ultime case furono abbattute dagli stessi abusivi, che evitarono altri addebiti di spesa. La Sterpaia tornava a respirare. Ma altri anni di lavoro furono necessari per ripristinare la qualità della sua vegetazione, la densità delle piante. Le querce sono tornate a dominare con le loro chiome ultracentenarie e in alcune zone si è deciso di imporre un regime da riserva integrale (vale a dire che non sono frequentabili se non con un permesso del parco e con la guida).

Accanto alle querce – Zucconi le mostra con contenuto orgoglio – spuntano piante non autoctone – filari di tamerici, pitosfori ed eucalipti, ma anche palme di vario genere e dimensione. Sono sistemati su brevi segmenti, poi disegnano un angolo retto, un altro ancora e infine si chiudono a quadrato. «Erano le recinzioni dei lotti abusivi, abbiamo deciso di lasciarle perché attestano la storia naturale di questo bosco e delle sue traversie».

(3 - continua)

Titolo originale: For New Jersey Towns, an Experiment: Putting Growth Here, Not There – Traduzione di Fabrizio Bottini

CHESTERFIELD, N.J. - Larry Durry è un coltivatore del New Jersey, e come tutti gli altri coltivatori era contrario al piano per limitare l’edificazione nella sua città. Dopo tutto, l’edilizia di solito è l’ultimo e più conveniente raccolto che un coltivatore suburbano come Mr. Durry può cavare dai suoi campi.

Ma dopo generazioni di sforzi e fallimenti nel controllo dello sviluppo, lo stato diventato sinonimo di sprawl sta sperimentando un piano che promette di salvaguardare le zone agricole, rispondere alla domanda di nuove abitazioni, e riuscire anche a pagare la “liquidazione” che si aspettano i coltivatori come Mr. Durry. E ora, lui è uno dei più convinti sostenitori dei nuovi regolamenti di zoning, anche se non compariranno sulle sue terre nuove case.

”Volevo solo essere sicuro che fosse una soluzione giusta” ci dice “e lo è stata”.

Il programma che ha convinto Mr. Durry ha un nome che fa venire sonno: il sistema di trasferimento dei diritti edificatori, anche se sarebbe meglio dire vendita dei diritti edificatori. Come la vecchia pratica di trasferire diritti aerei, o quelli sui limiti di altezza dagli edifici alti a quelli bassi di New York City, questo sistema consente alle municipalità di decidere dove avverrà la crescita edilizia. I costruttori in questo modo possono aumentare il numero di alloggi nei propri progetti (e i propri profitti) trasferendo i crediti edificatori assegnati agli spazi aperti, come i terreni di Mr. Durry, comperati da proprietari le cui aree stanno al di fuori della zona destinata alla crescita.

Con la popolazione statale in crescita prevista fra 750.000 e un milione di persone entro la prossima generazione, gli urbanisti ritengono che la pressione edificatoria consumerà tutti i terreni disponibili. I primi successi nel trasferimento di diritti edificatori a Burlington County vengono guardati come possibile modello per una politica dei suoli da estendere alle aree rurali residue dello stato, e in particolare per le cittadine delle Highlands, zona di campagna collinare a nord-ovest.

Nella Burlington County, dove gli anelli sempre più esterni dello sprawl da New York City e Philadelphia hanno cominciato a sovrapporsi, i comuni di Chesterfield e Lumberton stanno operando secondo un sistema di trasferimento dei diritti autorizzato con legge statale speciale, emanata nel 1989. I primi segni di successo hanno sostenuto il Governatore James E. McGreevey nella sua vittoriosa campagna anti- sprawl lo scorso mese, con l’approvazione di un provvedimento che consente l’estensione dei trasferimenti di diritti edificatori a tutto lo stato.

”La cosa compresa dall’amministrazione McGreevey, è che stiamo terminando i terreni disponibili” ha affermato Bill Dressell, direttore della New Jersey League of Municipalities, in un’intervista di due settimane fa. “E a meno di cominciare ad annetterci qualche pezzo degli stati di Pennsylvania o New York, o di interrare la costa dell’Atlantico, saremmo destinati a restare senza spazio”.

Per zone ancora rurali come Chesterfield, il modo tradizionale di controllare la crescita è stato l’azzonamento per lotti di grosse dimensioni (2-3 ettari per abitazione) ci racconta Susan E. Craft, esperta di conservazione rurale della Burlington County. Ma ora ci sono tante persone che vogliono comprare quegli enormi scatoloni su zone piatte senza alberi, e la politica dei grossi lotti non ci tutela più. Gli spazi aperti in contee rurali di questi tipo, stanno scomparendo in fretta.

Ma è anche sbagliato tentare di costringere l’edificazione attraverso l’azzonamento a lotti di grosse dimensioni – aggiunge Miss Craft – creando una classe di proprietari privilegiati perché hanno i propri terreni destinati all’edificazione, e frustrando le speranze di quelli che si vedono esclusi.

”È il problema dello zoning – dice Miss Craft – Con un colpo di penna un proprietario diventa miliardario, e l’altro tizio è cancellato”.

Lo zoning tradizionale, tra l’altro, tende a diventare insostenibile. Un’amministrazione può imporre le proprie scelte, ma è un lavoro che spesso viene demolito da quella successiva. Il comune di Chesterton ha organizzato il proprio sistema di trasferimenti sul calcolo di 1.200 case possibili, secondo le regole dello zoning correnti, per lotti di grandi dimensioni. Anziché acquisire i terreni, o aspettare che quelle case riempissero il paesaggio, la città ha creato una “ receiving area” di circa 250 ettari, entro cui concentrare tutto il nuovo sviluppo.

Questo consentiva di lasciare quasi tutta la restante “ sending area”, oltre 54 kmq, inedificata.

Il piano risolve il problema di equità, che un sistema del genere normalmente porrebbe rispetto ai proprietari, assegnando ad essi un credito per ciascuna abitazione potenziale teoricamente consentita dal vecchio zoning. Così un proprietario di 20 ettari edificabili in un’area di lotti da 4 ettari riceve 5 crediti vendibili, spesso con l’aggiunta di frazioni concesse per spazi minori.

I costruttori interessati alla “ receiving area” acquistano questi crediti, ciascuno dei quali da’ il diritto di edificare uno o più alloggi addizionali in zona, secondo le dimensioni della casa.

”Il trasferimento dei diritti edificatori porta ad equilibrio lo scenario di colpi di fortuna e disastri dello zoning tradizionale – dice Miss Craft – perché il sia proprietario della “ sending area” che quello della “ receiving area” hanno qualcosa da vendere.

La municipalità di Chesterfield sta usando questo sistema per realizzare un nuovo insediamento coi “ritagli”. Lumberton, nella Burlington County meridionale, si è invece concentrata nell’indirizzare la nuova edilizia, in maggioranza fatta da case unifamiliari, verso zone già urbanizzate, dove strade e collegamenti alle fognature sono più facili ed economici.

Nonostante il paesaggio di Lumberton sia quello di qualunque città in crescita – una miscela di nuova edilizia e campi – il signor Dewitt Pennypacker, consigliere municipale, può indicare quali di quei campi non saranno mai costruiti.

”Abbiamo conservato 400 ettari senza alcun costo: l’hanno pagato i costruttori” ci racconta. “Altre città qui intorno hanno dovuto chiedere in prestito milioni di dollari per fare la stessa cosa acquistando i terreni”.

Una sezione della proprietà agricola di Mr. Durry a Chesterfield valeva 6,25 crediti, che lui ha venduto per circa 23.000 dollari ciascuno (ora i prezzi dei crediti sono aumentati sin quasi a 30.000 dollari, dopo che si sono realizzate le prime case nel nuovo quartiere di Old York Village). Quei crediti sono stati spesi nel nuovo insediamento da 400 case che si realizzerà nella “receiving zone” su iniziativa della K. Hovnanian Companies, il più grosso costruttore di residenze del New Jersey.

Bradley N. Haber, direttore per l’acquisto di terreni della Hovnanian, dice di aver ancora qualche perplessità rispetto al trasferimento dei diritti, per esempio alla possibilità che i crediti possano scarseggiare (nel caso i proprietari se li tengano).

Ma Mr. Haber ha anche scoperto con sorpresa la possibilità di cooperazione nel quadro di una pianificazione generale comunale, che è l’elemento chiave del sistema di trasferimento dei diritti. Normalmente, il primo costruttore in un grosso progetto si accolla il costo di strade e parcheggi, ad esempio, e poi tenta di rifarsi su chi arriva più tardi. Invece col nuovo sistema, quei costi sono suddivisi su ciascuna unità residenziale sin dal principio.

La municialità di Chesterfield ha anche provveduto a reti idriche e fognatura per lo Old York Village sin dal principio, eliminando uno dei guai principali dei costruttori.

Il progetto dell Old York Village, dello studio Clarke Caton Hintz di Trenton, ha vinto un premio dello American Planning Council per lo stile New Urbanism, con case su piccoli lotti realizzate vicine l’una all’altra, molte con vicoli di servizio sul retro per le auto e la raccolta dei rifiuti in sede non stradale. Ci saranno un centro per il commercio e i servizi, e poi parchi, chiese, una scuola elementare raggiungibile a piedi da molti alunni.

”E ogni volta che si costruisce una casa nello Old York Village, sai che ci sono due o tre ettari di zona agricola salvati – ci dice Philip B. Caton, capo della sezione urbanistica. Ha previsto che il villaggio sarà completato e popolato nel giro di 5-10 anni, a seconda del mercato edilizio. Oltre a salvaguardare spazi aperti, la progettazione compatta rende più economica la gestione municipale.

”Se sai in che aree ci sarà sviluppo, puoi prevedere strade e altri servizi (acqua, scuole, stazione di polizia)” dice Mr. Dresel, direttore della League of Municipalities. Il costo della raccolta rifiuti per abitazione diminuisce se tutti abitano nello steso posto”.

Ma come sottolineano i critici, l’acquisizione dei terreni agricoli, per quanto costosa, almeno consente alle municipalità di bloccare la crescita. Lasciare che i proprietari trasferiscano i diritti si limita a governarla.

”Si risolve il problema di protezione degli spazi rurali, ma non si controlla la popolazione, o le tasse e il traffico connessi all’urbanizzazione” dice Richard Amper, direttore esecutivo della Long Island Pine Barrens Society, un gruppo ambientalista. È stato utilizzato un sistema di trasferimenti proprio per salvare parte dei Pine Barrens.

”Qui a Long Island, non importa quali siano gli scopi sociali – conservare le terre agricole, aumentare le case a buon mercato o tutelare le acque – la soluzione dei costruttori è comunque: costruiamo più case” continua Mr. Amper. “Beh, qualche volta è l’eccesso di edificazione che ha creato tutti questi problemi, e non li si risolve continuando a lasciar costruire nuove case”.

Nota: per unconfronto con esperienze simili, si veda il pezzo pubblicato da USA Today sul caso di Atlanta, proposto in questa stessa sezione di Eddyburg (fb)

Titolo originale: Sleep in the City. Study Examines Relationship Between Sleep and Happiness– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini (estratto)

Un nuovo studio svela quali sono le migliori e le peggiori città d’America per godersi un sonno riposante. Minneapolis è classificata come il posto migliore, Detroit quella dove è meno probabile svegliarsi riposati. New York City è famosa per essere “la città che non dorme mai”, e forse per questo motivo si classifica sesta fra le peggiori città per dormire.

Lo studio Sleep in the City è stato condotto dall’esperto nazionale in questo tipo di ricerche, Bert Sperling, ben conosciuto per i suoi lavori sui Best Places, in collaborazione con Ambien, un farmaco che aiuta il sonno. La ricerca si basa su dati recenti dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), del Bureau of Labor Statistics e dell’ufficio censimento USA.

I posti migliori e quelli peggiori per dormire

Lo studio Sleep in the City ha classificato le cinquanta aree metropolitane più popolose d’America secondo cinque criteri: il numero di giorni dell’ultimo mese in cui secondo i residenti non si è dormito o riposato abbastanza, la lunghezza media degli spostamenti pendolari, il tasso di divorzi, quello di disoccupazione, e un indice generale di felicità. Questo indice di felicità si ricava da domande sulla salute fisica, psichica, emotiva.

Nelle città classificate meglio nella classifica del sonno, la ricerca ha rilevato punteggi più alti per la felicità e il minor tasso di disoccupazione, che sono legati ad un più alto numero di notti di buon sonno. Le città che si sono classificate in basso in termini di notti di buon sonno avevano pochi punti per quanto riguarda l’indice di felicità, e sono le peggiori per dormirci. Secondo la ricerca, Detroit si è guadagnata il titolo di peggior posto per dormire, a causa del basso numero di notti di buon sonno, dell’alto tasso di disoccupazione e del basso indice di felicità. Minneapolis è stata identificata come la città dove gli abitanti fanno meno fatica a farsi una notte di sonno riposante. I residenti riferiscono di avere circa 23 notti di buon sonno in un mese medio. Altri fattori che aiutano Minneapolis a tenersi il titolo sono un alto punteggio per l’indice di felicità, un breve tempo di pendolarismo medio, e bassa disoccupazione.


Le migliori città per dormire Le peggiori città per dormire
1. Minneapolis , MN 1. Detroit, MI
2. Anaheim, CA 2. Cleveland, OH
3. San Diego, CA 3. Nashville, TN
4. Raleigh-Durham, NC 4. Cincinnati, OH
5. Washington, DC 5. New Orleans, LA
6. Northern NJ 6. New York, NY
7. Chicago, IL 7. Las Vegas, NV
8. Boston, MA 8. Miami, FL
9. Austin, TX 9. San Francisco, CA
10. Kansas City, MO 10. St. Louis, MO

Nota: qui il link al sito Sperling’s Best Places, col testo integrale e altro (fb)

Titolo originale: Suburbia's Just another Name for Fat City - traduzione di Fabrizio Bottini

Le comunità che si allargano sul territorio allargano anche il giro-vita? Assolutamente, secondo un nuovo studio che si aggiunge a quelli esistenti, confermando che la vita suburbana rende le persone grasse.

”Tutti pensavano che costruendo insediamenti suburbani la gente vivesse in modo più sano, ma non è così” afferma l’autore della ricerca Russ Lopez, professore associato di igiene ambientale.

Esaminando i dati del censimento degli Stati Uniti per il 2000, Lopez ha ideato una formula che misura il livello di sprawl in 330 aree metropolitane. Seguendo questa formula, le comunità ricevono un punteggio più alto quando le persone vivono più distanziate le une dalle altre. Non sono incluse le aree rurali.

Aree metropolitane con alti livelli di sprawl comprendono le zone di Dolan, Alabama, Raleigh-Durham-Chapel Hill, North Carolina, Tyler, Texas, and la regione di Atlanta. Zone urbane come Boston, Honolulu, Los Angeles, e in particolare New York City, hanno punteggi molto più bassi perché sono densamente popolate.

Utilizzando statistiche da uno studio sanitario federale del 2000, Lopez ha tentato di verificare se più alti livelli di sprawl contribuivano all’obesità. I risultati sono stati pubblicati nel numero di settembre dell’ American Journal of Public Health.

I tassi di obesità crescono man mano il livello di sprawl si avvicina a quota 100, afferma Lopez. Anche quando si aggiustano le cifre per rimuovere qualunque influenza dovuta a differenze nella composizione demografica (in altre parole per essere sicuri che i dati si riferiscano a tipologie comparabili) i residenti della diffusa regione di Atlanta hanno il 17% di probabilità in più di essere soprappeso, di quelli che vivono nella più affollata area di Boston.

Perché la vita suburbana fa sì che le persone mettano su più chili? In parte la colpa è delle strade poco adatte ai pedoni, che obbligano la gente a usare le automobili, dice Lopez. Ma pensa anche che le comunità sparpagliate creino altri problemi.

”La tassa sullo sprawl si paga in termini di tempo” dice. “Diventa più difficile comprare il latte al negozio, lasciare i figli a scuola, ritirare i vestiti in tintoria. È questa la connessione vera fra sprawl e obesità. Quando la gente ha meno tempo, ha meno tempo anche per essere fisicamente attiva e cucinare”.

Tom Schmid è coordinatore del gruppo di lavoro dei Centers for Disease Control and Prevention's Active Community Environments (ACES), che promuove l’attività fisica per migliorare la salute. Afferma che questi nuovi risultati di ricerca si collocano coerentemente in una serie di studi che rivelano quanto la vita in comune influenzi la nostra salute.

Perché i quartieri incoraggino l’attività fisica, devono mescolare abitazioni e luoghi di attività, dice. Devono anche consentire alle persone di muoversi facilmente da un luogo all’altro.

”In uno spazio tradizionale ci sono isolate accessibili sui Quattro lati; per andare da un posto all’altro ci sono moltre strade” dice. “Ma nei suburbi ci sono molte strade senza uscita. Si vive magari a qualche centinaio di metri in linea d’aria, ma per coprire quella distanza a volte bisogna percorrere chilometri”. Al contrario nelle zone urbane “per andare da un posto A al luogo B devi camminare. È semplicemente più comodo.

Lopez vuole che cittadini e urbanisti municipali capiscano i benefici della vita in un insediamento più denso. “Spero che un giorno la gente dica ‘se non costruiamo in modo più denso, finirà male per la nostra salute”.

Nota: qui l'articolo in originale. Per le critiche sia a questa posizione che al movimento per la smart growth in generale, c'è abbondanza di contributi sul sito di destra della Heritage Foundation(per chi ama il genere, ma anche per cogliere alcune debolezze della posizione ambientalista). Una versione dello studio di Russ Lopez descritto nell'articolo è scaricabile anche qui da Eddyburg in PDF (fb)

In una bellissima canzone di una trentina d’anni fa, Neil Young cantava la storia di Sugar Mountain, una grande fiera colorata dove si va sempre accompagnati da mamma e papà, si mangia lo zucchero filato e “non si può avere vent’anni”. Sembra, a ben vedere, la fotocopia delle centinaia (letteralmente) di testimonianze raccolte dal sito “deadmalls”, dove immancabilmente le luci al neon magicamente si illuminano dei colori della nostalgia. Luci al neon ormai spente sui piazzali vuoti e invasi dalle erbacce, e che con commovente ingenuità e fatalismo orde di ex bambini rimpiangono. E non in una prospettiva adulta, ovvero magari come servizio, macché: questi vogliono che si ripeta la magia, magari un po’ più in là nell’area metropolitana, con qualche insegna più grande, un’offerta di involtini al salmone più conveniente, un nuovo pavimento a fibre ottiche colorate ...

Naturalmente non rappresentano l’intera società. Ci sono molti, moltissimi altri che hanno ben capito cosa sta nascosto dietro e sotto le cupole di luce al neon, e provano a fare qualcosa. Ma questa è un’altra storia, e per ora lasciamo la parola ai bambini cronici, Ne hanno diritto, no? (fb)

Estratti dalle testimonianze del sito "deadmalls" - estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

University Mall, Little Rock, Arkansas

Testo spedito il 23 aprile 2004 da Jarred Long

Lo University Mall di Little Rock è uno dei più vecchi centri commerciali “introversi” dell’Arkansas centrale. Ha una storia interessante. I miei primi ricordi risalgono ai primi anni Ottanta. Era un centro a un piano, con un grande magazzino J.C. Penney su due livelli, un Montgomery Ward’s, e una catena locale chiamata M.M. Cohn (due livelli). In questo periodo c’erano circa 40 negozi.

Questo centro aveva un concorrente giusto dall’altra parte della strada, chiamato Park Plaza Mall. Il Plaza era un centro commerciale aperto, con Dillard’s (su due livelli) a fare da anchor. Sull’altro lato una parete con una cascata d’acqua che cadeva in una piscina al pianterreno. Dato che si trattava di un mall all’aperto, non mi ricordo di averci visto mai molta gente tutta in una volta. È interessante ricordarlo per come era fatto, visto che non sono mai stato da allora in un altro che fosse uguale. Tutti i negozi sbucavano su un passaggio pedonale e dal secondo livello si poteva raggiungere una balaustra, e guardare giù proprio come si fa in tanti centri commerciali oggi, solo che questo non aveva il tetto.

Lo University Mall era sempre completamente occupato da negozi, nei primi Ottanta. Con la fine del decennio, la concorrenza del Park Plaza stimolò uno sforzo di ampliamento allo University Mall. Nel 1988 il Park Plaza chiuse completamente, con l’eccezione del grande magazzino Dillard. L’area del centro commerciale fu ristrutturata con un interno su tre livelli ricoperto da un tetto di vetro. Con questa trasformazione in corso, lo University Mall decise di aggiungere un altro livello, con una food-court (spazio ristorazione n.d.t.). Mi ricordo ancora la costruzione del nuovo livello. Tutti i negozi del primo livello rimasero aperti per molta, se non tutta, la durata dei lavori. I passaggi pedonali per raggiungerli erano stretti, con pareti di assi che impedivano di vedere il cantiere.

Poi il Plaza riaprì, con folle sciamanti e vocianti. Era il primo centro commerciale di questo tipo nella nostra zona, e piaceva a tutti. Tutti i negozi di classe si trasferirono lì, insieme ad un secondo Dillard’s all’estremità. Anche lo University Mall completò i lavori, e iniziò a far concorrenza alle folle del Park Plaza. Brulicò di attività e buoni affari per parecchi anni.

Il tempo passava e il Plaza manteneva le sue folle. Lo University Mall iniziò a soffrire per i clienti che passavano al Plaza. La clientela, inoltre, iniziò a diventare di ceto inferiore, e ci fu una crescita dei crimini all’interno del centro commerciale. I negozi andavano e venivano, e molti venivano rimpiazzati da altri di livello inferiore. All’inizio del 2000 se ne andò il grande magazzino Montgomery Ward’s.

Sono stato a vedere entrambi i centri commerciali nell’aprile del 2004. Il Park Plaza è ancora in pieno boom di affari, e lo University Mall soffre di depressione. Nella food-court ci sono un locale Sbarro e un Cinese. Tutti gli altri otto spazi disponibili, sono chiusi con assi inchiodate. Il centro è occupato da negozi per circa il 40 per cento, e di quelli aperti molti sono filiali secondarie di negozi locali. M.M. Cohn ha la maggior parte delle merci al primo livello. Sembra che stiano per chiudere tra poco tempo il secondo. J.C. Penney sembra sopravviva solo perché è l’unico J.C. Penney nell’area metropolitana di Little Rock. Ci sono progetti per un centro commerciale molto più grosso a parecchi chilometri di distanza. Se e quando questo si costruirà, lo University Mall si spegnerà lentamente nella polvere.

Testo spedito il 23 aprile 2004 da Matthew Thompson

Lo University Mall è stato costruito come struttura enclosed probabilmente nei tardi anni Sessanta o primi Settanta. Era esattamente come ve lo sareste aspettato: una striscia dritta di cemento, cupa, brutta, e di un certo successo commerciale. Il negozio anchor principale allora era J.C. Penney. Ad un certo punto, forse anche al momento della costruzione, si aggiunsero M.M. Cohns e Ward’s.

Letteralmente dall’altra parte della strada c’era uno shopping center aperto detto Park Plaza. Mi ricordo di averlo visto, da bambino, per via delle piccole cascate e dei molti pesci rossi. Il negozio principale era Dillards.

Alla metà degli anni Ottanta lo University Mall subì una massiccia ristrutturazione. Quasi una vera e propria ricostruzione. Il centro originale era su un piano, con un livello più basso per gli uffici. In qualche modo, riuscirono a fare la ristrutturazione restando aperti la maggior parte del tempo. Mi ricordo che ci si andava a fare la spesa, e le aree comuni erano sostituite da stretti passaggi di assi di legno davanti alle vetrine dei negozi. La riapertura fu un grosso successo. La caratteristica più audace era il tetto della nuova area comune e per la ristorazione. Era una copertura a due sostegni di materiale simile a stoffa (come quello usato per l’aeroporto di Denver). Molto avanzato per Little Rock, all’epoca.

Dopo molto poco tempo, il Park Plaza mostrava un modello del nuovo centro commerciale, e iniziò a costruire la struttura che esiste oggi. Aprì, credo, attorno al 1986 o 87. È interessante. Dillard’s (impresa con base a Little Rock) che era uno dei sostenitori del nuovo progetto, e credo anche fosse il proprietario dell’immobile che occupava, rimase l’unico anchor del nuovo centro commerciale. A ciascuna estremità del centro, c’è un Dillard di grosse dimensioni. Il sito è a circa sei chilometri dalla sede centrale della Dillard’s Corp. Su un lato il grande magazzino contiene il reparto femminile, i casalinghi, l’arredamento. Il negozio all’altra estremità gli articoli Uomo e Bambino. Sembra strano, ma è davvero un’idea notevole: quasi chiunque visiti Dillard, è obbligato ad attraversare tutto il centro commerciale.

Il nuovo Mall ha negozi su due piani, più un piano terreno (tre piani totale) con una food-court e lo spazio per un cinema a sette sale. La copertura dell’area comune è in vetro con struttura portante in alluminio. Anche se non c’è niente di particolare dal punto di vista architettonico, questo tetto di vetro fa tutta la differenza. Il cinema ha chiuso un paio di anni fa per motivi legati alla crisi finanziaria della United Artists. Hanno chiuso di colpo una domenica, e non hanno più riaperto. La UA ha dovuto abbandonare molti esercizi relativamente marginali o non attivi.

Entrambi i centri commerciali hanno convissuto (senza sovrapposizioni, compresa la food-court). È stato sempre evidente che il Plaza era di livello superiore, e che potesse attirare nuovi negozi se necessario. Nei primi anni Novanta lo University iniziò a declinare velocemente. Gli affittuari uscivano, e non ne entravano dei nuovi. Le grandi catene iniziarono ad abbandonare lo spazio ristorazione (Mac Donald’s, Taco Bell) e gli spazi ora sono o vuoti, o riempiti da esercizi a gestione familiare. Se Penney’s e Cohn’s restano, ci sono ancora poche catene importanti presenti nel centro. In negozio Wards ha chiuso insieme a tutto il gruppo. Molti di quelli restanti non potrebbero nemmeno essere definiti negozi di serie B. Parecchi spazi sono stati occupati anche da uffici reclutamento delle forze armate.

Il grande cambiamento in arrivo, è il nuovo Summit Mall, progettato molto più a ovest (fra 9 e 12 chilometri) dei due esistenti. Dovrebbe essere un grosso regional mall, costruito dal gruppo proprietario del Park Plaza. Devo aggiungere che a me piace molto, il Plaza, e che aspetto con ansia il nuovo Summit Mall. Come ci si può immaginare, parecchi gruppi sono contrari al nuovo centro commerciale, compresi i residenti nell’area attorno a quelli esistenti. Se ci fate caso, potrete sentire una gran propaganda su quello che potrebbe succedere alla zone degli attuali centri commerciali se si apre quello nuovo. Come avrete già capito questo non farà morire lo University Mall, perché è già morto da solo. Ma non lo sa ancora. È stato detto che non si lascerà che il nuovo mall danneggi la zona dello University. Non credo che nessuno pensi possa restare del tutto un centro commerciale, ma potrebbe essere un ottimo complesso per commercio e uffici. Il Park Plaza è una faccenda del tutto diversa. Non so cosa succederà al PP. La prima vittima è stato il negozio Disney, che se ne è andato invece di rinnovare il contratto di affitto a lungo termine. La Disney vuole stare nel nuovo centro commerciale, e non può mantenere un negozio in entrambi. Invece di restare incastrati al PP, hanno deciso di uscirne completamente. Questo è sempre stato un posto molto movimentato. Dillards ha già detto che costruirà sul nuovo sito, ma credo sia difficile che esca da PP.

Spero che troviate queste informazioni abbastanza interessanti. So che ci sono buchi e discontinuità in quello che so, ma questo potrebbe essere un buon caso studio su come un mall muore, e su cosa gli succede poi.

Nota: il sito di aficionados dei centri commerciali morti o morenti da cui sono tratte queste due testimonianze su University Mall/Park Plaza è raggiungibile a http://deadmalls.com (fb)

Per chi segue le vicende della conflittualità diffusa fra popolazioni locali, più o meno organizzate, e grandi operatori commerciali, il testo che segue riveste certo un notevole interesse, configurandosi come una specie di “manuale”, che nella breve rassegna di casi proposti percorre un ampio spettro di temi e situazioni. L’altro elemento di interesse è la focalizzazione su un solo tipo di insediamento, quello big-box, ben distinto dalla tipologia del centro commerciale, di cui rappresenta addirittura una involuzione e spesso un temibile concorrente. In definitiva un testo utile soprattutto per l’incrocio fra le ragioni e gli strumenti della società civile, quelle dell’amministrazione ai vari livelli, e non ultima quella degli operatori, almeno quando si comportano secondo le regole. Peccato che questo accada molto di rado. (fb)

Constance E. Beaumont, Leslie Tucker, “L’espansione dei big-box: come controllarla”, Municipal Lawyer, marzo-aprile 2002 (traduzione di Fabrizio Bottini)

”La gente adora quello che c’è dentro ai superstores. Ma odia quello che ci sta fuori”. Con queste parole Edward T. McMahon, esperto nazionale di smart growth, riassume il rapporto di amore-odio degli americani per i big-box.

È impossibile negare la popolarità di Wal-Mart, Target, Home Depot, Lowe’s o dei loro molti imitatori. Come sottolinea la stessa Wal-Mart “Tutti i consumatori apprezzano un buon servizio, prezzi bassi, e una vasta scelta”. I 200 miliardi di dollari di vendite nel 2001, e il ruolo di Wal-Mart di leader mondiale nel settore, parlano da soli. La cosa si conferma con la rapida crescita di imprese come Home Depot, Target e Lowe’s, le cui vendite hanno raggiunto rispettivamente i 45, 29 e 18 miliardi di dollari nel 2000. Ma nonostante questo, centinaia di organizzazioni di base in tutto il paese stanno lottando con le unghie e coi denti per tenere questi mastodonti commerciali fuori dalle loro comunità. “È proprio il peggio del suburbio, il meglio che possiamo aspettarci?” si chiede un volantino distribuito dai cittadini di New Orleans, che contestano un proposto punto vendita Wal-Mart di ventimila metri quadri nel distretto storico di Lower Garden. “Non stiamo guadagnando un negozio, ma perdendo una comunità”, si lamenta un gruppo di Decorah, Iowa, in un annuncio a pagamento su USA Today. Gli oppositori a un progettato Home Depot di Mountain Valley, California, hanno aperto un proprio ufficio, stipato di cartelli, letteratura specializzata, e petizioni, per combattere il negozio gigante. “Non compro da Sprawl-Mart” recita un adesivo a Greenfield, Massachusetts. Un gruppo che si chiama Main Street Defense Fund ha citato in giudizio la municipalità di Northfield, Minnesota, per aver approvato un punto vendita Target all’esterno del centro abitato.

Cosa c’è, dietro a queste battaglie? Secondo molti, i negozi big-box implicano costi indiretti, che non compaiono nei cartellini dei prezzi dei prodotti in vendita: traffico congestionato; scomparsa di alberi, spazi aperti, terreni agricoli; fallimento di piccole imprese commerciali; sostituzione di posti di lavoro in grado di mantenere una famiglia, con altri a stipendi ridotti, che non lo consentono; inquinamento dell’acqua e dell’aria; centri città in decadenza con edifici vuoti; centri commerciali tradizionali pure abbandonati; un senso comunitario ridimensionato; e sprawl. La lista dei problemi legati ai big-box è lunga. Che uno li ami o no, questi big-box, è indiscutibile che i loro effetti siano significativi, e di lungo periodo. Gli amministratori locali devono ai loro elettori almeno la valutazione di questi effetti, e l’acquisizione degli strumenti disponibili per attenuarli, prima di approvare l’insediamento di un punto vendita big-box. Tali strumenti comprendono le valutazioni di impatto, standard di progetto, moratoria urbanistica, limiti alla dimensione dei negozi, accordi interamministrativi, e l’abolizione dei sussidi per chi favorisce lo sprawl commerciale.

Valutazioni di Impatto

L’idea che sta dietro al concetto di “valutazione di impatto” è semplice: le comunità devono poter capire quali saranno gli effetti dei grandi progetti commerciali sulle loro città, ed attenuare quando possibile i potenziali danni. Se da un lato le valutazioni di impatto ambientale sono ormai uno standard per i grandi progetti, sono meno comuni gli studi sull’impatto economico, nonostante i grossi insediamenti commerciali possano devastare la vitalità economica di un centro città o di una arteria commerciale. Arthur Frommer, noto per aver lanciato la diffusa collana di guide turistiche, ha osservato a questo proposito:

”La distruzione delle zone centrali delle città americane è avvenuta in tutto il paese, come risultato diretto della realizzazione di mastodontici negozi del tipo Wal-Mart. Oltre a degradare le zone esterne, essi hanno spinto al fallimento tutte le principali categorie di commercio tradizionale”.

Per comprendere come una valutazione di impatto economico può aiutare a proteggere il carattere di una comunità, vediamo l’esperienza di Lake Placid, New York. Quando Wal-Mart propose di costruire un negozio di 8.000 metri quadri, circondato da quattro ettari di asfalto in una zona di tutela paesistica, sui margini di questa cittadina turistica, i residenti reagirono. Tra le altre cose, temevano che l’espansione dell’insediamento big-box tipicamente innescata da Wal-Mart potesse rendere Lake Placid meno attraente per il turismo, elemento portante dell’economia locale. “La gente viene in questa valle per rigenerarsi, per allontanarsi dalle pressioni della vita urbana”, spiega un residente. “Con quelle architetture da commercio autostradale, i semafori, le migliaia di alberi strappati per un parcheggio più grande da solo di tutti quelli del centro messi insieme, Wal-Mart sfregia il panorama della Whiteface Mountain. Il volume d’affari necessario a sostenere un negozio di questa mole minaccia tutta Lake Placid, e i villaggi vicini”.

I progetti di trasformazione urbanistica di Lake Placid sono di competenza dell’amministrazione municipale di North Elba, il cui regolamento di zoning recita: “deve essere evitato qualunque impatto indebito sulle risorse naturali, fisiche, sociali ed economiche del Villaggio o Cittadina”. In questo caso, l’ufficio urbanistica respinge il progetto di superstore perché il suo impatto economico negativo minacciava di danneggiare i caratteri comunitari di Lake Placid. Lo studio di impatto economico condotto sul progetto di Wal-Mart raccontava che ci sarebbero voluti fino a quattordici anni per sostituire le attività e riempire gli spazi lasciati cronicamente vuoti a causa della realizzazione del superstore: “questi vuoti cronici ... si tradurrebbero quasi inevitabilmente in meno turisti a visitare la zona, il che a sua volta provocherebbe una diminuzione generale delle vendite, che avrebbe come risultato una spirale discendente riguardo alle caratteristiche e condizioni psicologiche, visive, economiche del centro città ... Questi potenziali impatti avrebbero significativi e non attenuabili effetti negativi sulle caratteristiche e la cultura della comunità, con numerosi vuoti commerciali sul fronte strada, e una perdita di “massa critica” dell’area centrale”.

Wal-Mart citò in giudizio l’ufficio urbanistica per aver negato l’autorizzazione a costruire, ma nel febbraio 1998 il tribunale confermò la validità della delibera. Altre amministrazioni hanno respinto negozi big-box, o posto condizioni per approvarli a seguito dei risultati dello studio di impatto. In Vermont, per esempio, l’ufficio ambiente statale ha negato a un costruttore il permesso per un superstore fuori St.Albans, dopo che uno studio di impatto aveva valutato come i 10.000 metri quadrati di negozio sarebbero costati al contribuente locale 3 dollari per ogni dollaro di beneficio pubblico. La catena commerciale fece appello alla Corte Suprema di stato del Vermont, ma nel 1996 la Corte confermò la decisione dell’ufficio ambiente. Nella sentenza si osservava: “La capacità di un’amministrazione locale di sostenere i servizi pubblici dipende dalla sua base fiscale, ovvero l’accertato valore delle proprietà sottoposte alle tasse. Considerato che l’impatto di un nuovo insediamento sulle attività commerciali esistenti influenza in modo negativo i valori delle proprietà, tale impatto danneggia la pubblica salute, sicurezza e benessere”.

A Bozeman, Montana, ora viene richiesto uno studio di impatto economico, di traffico, e ambientale, per ogni nuovo punto vendita con superficie superiore ai 5.000 metri quadrati. Quando un operatore di big-box richiese di ampliare il negozio esistente, da 12.000 a 20.000 metri quadri, la municipalità commissionò un’analisi di impatto economico. Lo studio raccomandò di chiedere al commerciante il sostegno economico a un servizio di trasporto pubblico navetta dal superstore al centro città, e di contribuire a una campagna promozionale che interessasse sia il superstore che gli altri negozi.

Standard di progetto

Un’altro motivo dell’opposizione dei cittadini ai negozi big-box è il loro aspetto: indescrivibili, enormi, cacciati chissà dove al centro di un mare di asfalto, senza finestre, senza la forma di un tetto, senza nessun tentativo di rispettare le caratteristiche architettoniche di un luogo. Migliaia di amministrazioni hanno approvato standards progettuali per migliorare l’aspetto degli insediamenti commerciali. Cathedral City, California; Evanston, Wyoming; Cape Cod, Massachusetts, sono solo alcune delle molte città che hanno usato questi regolamenti per migliorare le caratteristiche dei big-box.

Gli standards di progetto, a Evanston nascono da una serie di udienze pubbliche condotte durante una moratoria temporanea sui negozi big-box, dopo che un operatore aveva annunciato il progetto di lasciare un edificio esistente, e realizzarne un altro più grande. La città respinse la richiesta del commerciante in base ad una articolo di ordinanza che limitava la dimensione dei negozi a 3.000 metri quadrati, e successivamente adottò rigidi standards di progetto per garantire che il nuovo negozio, e con lui tutti i futuri big-boxes, fosse compatibile con le caratteristiche dell’architettura tradizionale della città. Queste regole chiedono che tutti i punti vendita con superficie superiore ai 2.500 metri quadrati utilizzino “mattoni rossi, o mattoni finti, arenaria grigia, pietra locale, pietra lavorata o legno almeno sul 30 per cento della facciata principale (il calcestruzzo è vietato sulle facciate); si utilizzino per le facciate toni naturali anziché colori sgargianti; si interrompano le facciate monotone degli edifici con marcapiano e dettagli architettonici”.

A Cape Cod, i negozi con una superficie coperta di oltre 5.000 metri quadri devono essere progettati con, o comunque schermati da vegetazione, per evitare un impatto negativo sull’ambiente circostante; la costruzione lungo il filo stradale è vietata, i parcheggi devono quando possibile essere collocati di fianco o sul retro degli edifici. Gli “insediamenti di impatto regionale” – progetti che superano i 10.000 metri quadri sono soggetti ad una attenzione particolare e devono dimostrare alla Cape Cod Commission che i benefici sono superiori ai danni. Secondo nuove regole in corso di approvazione a breve termine, la dimensione dei negozi sarà limitata ad un massimo di 1.500 metri quadri, a meno che siano collocati in “zone a crescita incentivata”, o siano totalmente schermati.

Degrado da big-box, Saturazione commerciale, Limiti alla dimensione dei negozi

Molte comunità condividono l’opinione di Cape Cod, secondo cui lo sprawl commerciale è “inefficiente e insostenibile”. Come spiega il piano regionale dell’area di Cape Cod, “L’eccesso di esercizi commerciali sia a livello locale che nazionale indica che un generale sovradimensionamento non si aggiunge all’insieme dell’economia della regione. Finisce per danneggiare le attività più piccole, di proprietà locale, generando degrado quando gli edifici commerciali esistenti vengono lasciati vuoti per cessazione dell’attività”. Negli Stati Uniti al 1980 c’erano 0,5 metri quadrati di spazio commerciale pro capite; oggi la cifra è salita a 2 metri quadrati.

Costruttori e catene di distribuzione hanno saturato oltre il limite i suburbi, generando disservizio nelle città”, afferma Burt Flickinger III, direttore generale della Reach Marketing di Westport, Connecticut. Nonostante Wal-Mart abbia lasciato vuoti 426 dei propri negozi, la compagnia prevede di realizzare 4,6 milioni di nuovi metri quadrati commerciali entro l’anno.

I commercianti chiudono i negozi più vecchi e piccoli, e ne aprono di nuovi sempre più grandi, sempre più lontano nella campagna. Così nascono termini come “tombe del commercio” o “zone grigie”, per descrivere il crescente problema dei superstores abbandonati. Gli amministratori locali sono preoccupati che questi spazi possano fare da culla a criminalità e vandalismo, deprimere il valore delle proprietà confinanti, e caricare le municipalità di costi finanziari e legali. Snellville, Georgia, ha tre negozi big-box che se ne stanno lì vuoti. A Bardstown, Kentucky, un vecchio Wal-Mart costruito proprio sull’altro lato della strada di fronte al My Old Kentucky Home, un parco statale e un’importante attrazione turistica, è rimasto vuoto per quasi dieci anni. A Hagerstown, Maryland, un big-box di prodotti per l’edilizia si è trasferito in una nuova struttura, ma ha lasciato vuota la vecchia dall’altra parte della strada negli ultimi cinque anni. Con un’azione preventiva contro il potenziale degrado da big-box, la Buckingham Township, Pennsylvania, ha approvato un’ordinanza che richiede ai costruttori di depositare determinate somme in un conto cauzionale, a coprire i costi di demolizione nel caso in cui i superstores edificati possano un giorno rimanere vuoti. A Peachtree City, Georgia, si richiede che i contratti fra proprietari degli immobili e gestori dell’impresa commerciale specifichino che quest’ultimo non può lasciare libero l’edificio, e che il proprietario non può affittare a un altro inquilino. Secondo un accordo siglato a Evanston, Wyoming, nel 2001, un operatore big-box deve aiutare l’amministrazione a reperire un altro occupante per l’edificio che dovesse abbandonare, per evitare che esso resti semplicemente inutilizzato.

Le limitazioni alla grandezza dei negozi offrono un metodo sempre più diffuso per prevenire un eccesso di costruzioni, che spesso sommerge le comunità di spazi commerciali molto più ampi di quanto possano effettivamente assorbire. Da Walpole, New Hampshire, dove i negozi devono stare sotto la soglia dei 5.000 metri quadri, a Coconino County, Arizona, dove sono limitati a 7.000 metri quadri, città in tutto il paese hanno adottato limiti alla dimensione dei big-box. Un altro approccio promettente è quello di limitare la superficie coperta dei nuovi negozi. Gaithersburg, Maryland, con una sua ordinanza consente negozi più grandi, ma limita la superficie coperta a 8.000 metri quadrati. Questa politica ha prodotto parecchi edifici big-box su due piani. Egualmente, si possono trovare strutture commerciali big-box multipiano a New York City, Chicago, Seattle, Pasadena e altre città.

Accordi interamministrativi

Una delle sfide principali per le comunità, si profila quando gli operatori big-box mettono le amministrazioni locali l’una contro l’altra. Molte città temono che imponendo qualunque condizione all’insediamento di superstores, i negozi semplicemente si sposteranno nella circoscrizione confinante, dove non ce ne sono. Il vicino si prende tutti i benefici fiscali del commercio e delle tasse sugli immobili, e loro si prendono il traffico. La legge statale può aiutare le città ad evitare di essere pedine in una guerra interamministrativa di offerte.

Applicando la politica statale dell’Oregon, Hood River (una piccola città del Columbia River Gorge in Oregon) ha sottoscritto un Urban Management Agreement con la Contea di Hood River, che richiede alla contea di adottare regolamenti simili a quelli della città. L’ordinanza cittadina sui big-box comprende piantumazioni di alberi per interrompere l’aspetto da “mare di asfalto” dei parcheggi, e un divieto per negozi con una superficie coperta di oltre 5.000 metri quadrati. Come avviene anche altrove in Oregon, la città proibisce ampliamenti delle reti fognarie al di fuori dei limiti definiti di crescita urbana, tranne nei casi in cui esiste un pericolo di ordine sanitario. Ad evitare uno sviluppo leap-frog (a salto di rana, ovvero casuale e su aree inedificate), Hood River intende consentire l’urbanizzazione solo in terreni contigui alla città.

Moratoria urbanistica

Un certo numero di municipalità hanno messo in pratica una moratoria temporanea sulle costruzioni, per dare agli uffici locali il tempo di sviluppare nuove regole di progettazione, localizzazione, dimensione per i negozi big-box. Un esempio è Fort Collins, Colorado, che nel 1994 ha adottato una moratoria di sei mesi su tutti i negozi superiori a 8.000 metri quadrati. Preoccupati che questa pratica potesse avere “irreversibili impatti negativi” sulla città, gli amministratori di Fort Collins, hanno attivato una speciale task-force composta di costruttori, cittadini, urbanisti e altri, con lo scopo di studiare linee guida di progetto per i superstores. Le linee che alla fine sono state effettivamente adottate:

Abolizione dei sussidi per chi favorisce lo sprawl dei negozi big-box

Kenneth Stone, economista alla Iowa State University, che ha studiato per anni il fenomeno dei superstores, è esterrefatto dal numero di amministrazioni locali che ha materialmente sostenuto operazioni di questo tipo. In uno studio del 2001 si chiede: “È giusto dare denaro dei contribuenti a grandi corporations, che lo useranno per mettere fuori gioco i piccoli operatori esistenti?”, riferendosi al “gioco a somma zero” praticato da amministrazioni cittadine che distribuiscono incentivi finanziari ai negozi big-box. “È un vicolo cieco per i commercianti locali, nessuno parla a loro favore”. Nell’ambito della sua politica di smart growth, il Maryland ha deciso che non ha più senso obbligare i contribuenti a sovvenzionare un’edificazione dispendiosa e inefficiente, e dunque lo Stato non sosterrà più la realizzazione di nuove strade o reti idriche o fognarie sparpagliate nello sprawl, “in mezzo al nulla”; invece i finanziamenti statali verranno diretti verso “Priority Funding Areas”, ovvero insediamenti esistenti e zone in cui la nuova crescita è pianificata dall’ente locale.

Una questione di “classe”

Ci si lamenta spesso di come gli operatori dei big-box tentino di mettere una classe sociale contro l’altra, nei loro sforzi per far approvare i progetti più discussi e discutibili, e con argomenti che suonano più o meno così: è “elitario” opporsi ai negozi big-box, che sono di grande beneficio per le fasce a basso reddito, a cui vengono offerti beni di alta qualità ad un prezzo minimo. Questo argomento suonerebbe meno vuoto se questi commercianti non avessero, di fatto, tagliato completamente fuori i centri tradizionali, dove vivono moltissimi cittadini a basso reddito. L’argomento sarebbe forse più credibile se i negozi big-box fossero più propensi a localizzarsi in posti accessibili dai mezzi di trasporto che si possono permettere i ceti a basso reddito. Al momento, la maggior parte dei superstores sono lontani dalle città, completamente inaccessibili a chiunque sia troppo povero, troppo giovane, o troppo vecchio per guidare un’auto.

Ad ogni modo, non sempre si verifica questa situazione. Bisogna fare credito alla volontà di Target di riusare un grande magazzino vuoto disponibile, nella zona centrale di Pasadena, California. Ciò dimostra che gli operatori di questo tipo di negozi possono fare profitti anche collocandosi in siti accessibili per clienti a piedi, in autobus o in automobile. E a Rutland, in Vermont, Wal-Mart ha suscitato le lodi dei conservazionisti decidendo di riciclare un negozio più piccolo del normale (un ex magazzino Kmart di 7.500 metri quadri in centro) invece di asfaltare una fattoria e metterci sopra un negozio extraurbano che avrebbe danneggiato l’economia del centro città.

Scelte che salvano le città

Possiamo avere negozi a prezzi bassi e con un aspetto community-friendly? Naturalmente si può. Le comunità hanno i mezzi per farlo. Possono seguire politiche che aumentino la loro capacità negoziale per il tipo di sviluppo che desiderano, oppure adottare un atteggiamento “mi va bene qualunque cosa”, ed essere alla mercé di chiunque arrivi. Anche le catene di distribuzione hanno diverse possibilità di scelta. Possono insistere con il loro big-box sprawl sempre uguale a sé stesso ovunque si costruisca, o possono rispettare i desideri specifici delle comunità, di conservare le vedute panoramiche, i luoghi storici, e i centri città che la gente ama.



Nota: questo articolo del Municipal Lawyer è reso disponibile online sul sito di una associazione di amministrazioni locali, la League of Wisconsin Municipalities, che offre anche altra documentazione sui vari temi tipici della smart growth , in particolare dal punto di vista di Comuni e Contee. (fb)

Premessa – di Fabrizio Bottini

Gli ingredienti della ricetta outlet, così come abbiamo ormai imparato a riconoscerla, sembra ci siano tutti: il bacino di utenza da capogiro, i “servizi esclusivi” (qualsiasi cosa voglia dire), l’idea rivoluzionariamente innovativa e meditata a lungo in viaggi qui e là per paesi lontani ed esotici, eccetera eccetera. Alla fine, pare di capire, il solito baraccone con architetture in stile di fianco a uno svincolo autostradale, fra due anni o giù di lì.

Naturalmente i comunicati ufficiali, e le intenzioni (anche le migliori) parlano tutt’altro linguaggio. A partire dalla Espansione Commerciale di Modena, uno dei partners di punta dell’impresa Capri Due, che modestamente nella sua brochure di presentazione esordisce: “Grazie a Dio il mondo cambia ogni giorno ... Così anche i Centri commerciali cambiano”. E quindi grazie a dio l’evoluzione della specie produce centri commerciali periferici, urbani, regionali, parchi commerciali, centri di divertimento, sempre però “consapevoli che la fantasia deve diventare tutt’uno con la redditività”. Ci consola, alla fine della ricchissima brochure, la promessa di qualcosa fatto “Con la passione della prima volta e l’esperienza dell’ultima”. L’ultima di una lunghissima serie, se si guarda alla mappa dei centri commerciali e altri interventi (come l’ampliamento dell’aeroporto di Bologna) di cui è letteralmente ricoperta la penisola, con una piccola ma significativa appendice sulle lontane spiagge del Baltico.

Il tutto per chiarire, senza drammi ma anche senza aspettative fuori luogo, che un outlet village fuori dalla retorica pubblicitaria è – né più né meno – un centro commerciale. Certo cambia qualcosa in superficie, ma gli elementi ci sono tutti: dall’impatto sul traffico, allo spostamento di interessi per esempio dal centro storico, all’effetto attrattivo su altre attività varie e a relative potenziali pressioni per lo sviluppo di altri simili insediamenti e fonti di ulteriore congestione. Insomma tutto il catalogo di temi che in altre parti di Eddyburg è stato sviluppato nelle varie declinazioni “locali”. Una declinazione locale che, puntualmente, sembra ripresentarsi anche a Marcianise negli interventi degli amministratori, tesi a descrivere una occasione di sviluppo particolarissima (cosa che, ripetiamo, non é) e innovativa (cosa che è solo localmente). E ancora secondo un copione già visto sembrano delinearsi le aspettative per la crescita di attività che sappiano sostituire quelle tradizionali (dalla fabbrica al terziario, commerciale e non), con un pizzico di attenzione all’ambiente pur nella lodevole preoccupazione per il potenziale sovraccarico in termini di traffico e indotta domanda di nuove infrastrutture. Basta dare un’occhiata alla pagina web del sindaco di Marcianise, dove si descrive la conferenza dei servizi che lo scorso gennaio 2004 ha espresso parere favorevole a Capri Due, o al numero del 14 marzo della rivista locale “ Procope” dove piuttosto logicamente si coniugano outlet e rilancio generale dell’area, ma il “glossario” su questo tipo di insediamento sembra ricopiato dalle pagine patinate dei promotori, anziché frutto di qualche autonoma riflessione o ricerca. Un consiglio, per gli amministratori centrosinistri di Marcianise: una visita al sito web del settore commercio della Regione Piemonte, e allo studio di impatto su Serravalle. O meglio ancora una gita, in un pomeriggio di week-end qualunque, a Serravalle o in qualunque altro dei mitici “ fashion design outlet” che punteggiano ormai la Penisola. Mica per fare del terrorismo a buon mercato: solo per avere un’idea di quello che ci aspetta, dietro la patinatura e gli inebrianti vapori comunicativi del sistema moda.

La “notizia” più curiosa trovata per ora online, su questo Cugino di Campania, è una sanguinosa polemica sull’uso spregiudicato del nome Capri, manco l’outlet fosse un panino per la pausa pranzo degli impiegati. La si trova, questa polemica, su un periodico “specializzato” che si chiama News & Gossip dalla Piazzetta di Capri.

In attesa di altre notizie su questo clone della ormai patriarcale ed estesa famiglia degli outlet, per ora tanti auguri agli amici di Marcianise e di tutta la catchment area: benvenuti nel meraviglioso nuovo mondo plastificato. I commenti, alla sostanza e alla forma della prosa sottostante, come al solito sono lasciati ai lettori.

Outlet di qualità – Capri Due, tra i più grandi in Italia, nasce a Marcianise in Campania (inserzione pubblicitaria sulle pagine economiche di Repubblica, 29 aprile 2004)

Le Pubbliche Relazioni sono affidate allo Studio GM di Beppe Modenese. La commercializzazione è a cura di “Espansione Commerciale”, azienda di Modena leader nella organizzazione di centri commerciali. L’imprenditore di riferimento è Gianni Carità.

160.000 mq. di estensione di cui 28.600 destinati ad attività commerciali.

200 unità commerciali, tutte destinate a negozi monomarca di grandi firme.

Un grande hotel, gestito da una catena alberghiera internazionale di grande qualità.

2.600 posti auto, diverse aree ristorative, un’area giochi per bambini e un’ampia serie di servizi accessori in grado di soddisfare piacevolmente tutte le esigenze della clientela. Con un bacino di utenza di oltre 5 milioni di persone, Capri Due si estenderà sull’asse strategico dell’intreccio autostradale che collega Napoli, Caserta, Frosinone, Roma, Avellino, Benevento, Salerno, Bari e le province confinanti, in prossimità di località d’arte che generano importanti flussi turistici tutto l’anno. Ben visibile già dall’autostrada, che costeggia per un lungo tratto, l’outlet è raggiungibile in 90 minuti da tutta la Campania, oltre che altrettanto facilmente da Roma e da tutto il centro e sud d’Italia. Una piacevole continuità di strade pedonali, piazze ed edifici realizzati con materiali e colori tipici dell’architettura mediterranea caratterizzerà l’outlet village.

Stile esclusivo, Partner di alta immagine, Architettura Mediterranea e Servizi all’avanguardia sono dunque i punti di forza della iniziativa voluta da Gianni Carità.

Beppe Modenese: “Sono stato affascinato dal progetto, che già prevedo di grande successo. Conosco da tempo Gianni Carità de ho avuto modo di apprezzarne le doti imprenditoriali e la grande determinazione. Da parte mia mi impegnerò a portare a Capri Due il meglio della moda italiana”.

”La mia esperienza alla presidenza del Tarì ha fatto sì che il gruppo di imprenditori che sono fautori dell’iniziativa mi abbiano designato come amministratore. È da anni che studio sulla realizzazione di questa idea, nata dai viaggi in America. Mi sono dato i tempi necessari per la verifica e per la cura di tutti i dettagli” dichiara Carità. “Nulla è lasciato al caso, a cominciare dal nome. Ero alla ricerca di una identificazione che richiamasse alla mente un’idea di grande qualità e che nello stesso tempo appartenesse alla cultura meridionale. Mi sembra che Capri Due sappia evocare entrambe le cose”.

Suggestioni mediterranee, dunque, per il sapiente mix di solarità, qualità e servizi al cliente che saranno concretizzati nell’arco di due anni. Con un grande beneficio, tra l’altro, per il territorio, che per la sua localizzazione è certamente strategico e sta assistendo in questi anni a uno sviluppo straordinario, grazie al progressivo insediamento di una serie di realtà imprenditoriali di grande importanza.

Potete leggere le polemiche per il "plagio del nome" citate nell'introduzione, su News & Gossip dalla Piazzetta di Capri

Dev'esser stato per uno scherzo del destino (anche se non è chiaro da qualeparte stia) se il melodrammatico oscuramento che ha "messo in ginocchio" l'Italia, mentre questa per la più parte ronfava in attesa del dì di festa, è intervenuto a poco più di un giorno di distanza dalle feroci e accanite invettive lanciate all'indirizzo generico degli "ambientalisti" dal noto Giuliano Ferrara e dalla meno sospettabile Barbara Palombelli, nel corso di una puntata di "otto e mezzo" dedicata al libro dell'ambiguo danese Bjorn Lomborg, L'ambientalista scettico (Mondadori, 522 pagine, 26 euro, sottotitolo: Non è vero che la terra è in pericolo, per saperne di più - ma dalla parte sbagliata -, http://www.ragionpolitica.it/testo.1376.html

Sempre per lo stesso gioco del destino, le prime parole del Ministro Marzano ad un'Italia al buio, in cui chi aveva da qualche parte un vecchio transistor raccontava sui pianerottoli le notizie a stuoli terrorizzati d'inquilini, non sono state di rassicurazione, di impegno a fare tutto quanto in suo potere per ripristinare una situazione di normalità, e poi per accertare con trasparenza le cause. No; il Ministro Marzano ha immediatamente condannato gli ambientalisti, e il veto da questi ultimi opposto alla realizzazione di nuove centrali, e anche (naturalmente) all'impiego dell'energia nucleare.

Le ore successive hanno avuto un che di surreale; sembrava che nessuno avesse mai visto (sic!) la luce mancare: esperti di ogni sorta, ordine e grado, erano interpellati per dirci se sono più affidabili le torce elettriche oppure le candele; biochimici nutrizionisti per dire alle madri di famiglia - udite, udite - che il latte quando puzza di rancido è andato a male, che dura più a lungo il parmigiano della mozzarella, "disaster managers" invocati per confermare che quando manca la luce è meglio non prendere l'ascensore.

Questa mattina - 29 settembre, non riesco a ricordare se è il compleanno di Berlusconi o se era ieri, dovevo stare più attenta a Emilio Fede - addirittura su RaiTre qualcuno si è spinto a invitare a "non andare al lavoro" - mentre i comunicati ufficiali e "tecnici" si diffondevano sull'albero ticinese, e - come la Maschera della Morte Rossa aleggiava su tutto - su tutto si alzava il monito incauto e affrettato del Presidente Ciampi, ahinoi, anche lui convinto, come un bambino nel buio, che il problema fossero le nuove centrali: non ci si può opporre, ha detto senza mezzi termini a regioni ed enti locali, perfino a nuove centrali di tipo tradizionale!

E l'irresponsabilità di Marzano si è trovata di colpo legittimata, corroborata, sacrosanta: individuare il colpevole è diventato l'affare più urgente, e possibilmente un colpevole che non avesse niente a che fare con chi l'energia elettrica in questo paese eroga, vende, distribuisce, amministra. Gli "ambientalisti" i primi colpevoli - declassati la sera prima al rango di caricaturali cassandre dagli esegeti nostrani di Bjorn Lomborg, a costo di dover rinnegare con loro l'intera comunità scientifica internazionale, che ha più volte smentito il citato Lomborg in molte sedi autorevoli; del resto, le recenti tristi vicende della ricerca in questo paese sono eloquenti: l'Italia non ha alcun interesse a prender parte a quella comunità.

L'italiano canta canzoni e gesticola, lo sanno tutti, e StrisciaLaNotizia è pronta con il suo specchio: un improbabile primo ministro che gigioneggia sconcio e rigonfio, mezzano di segretarie e necroforo d'occasione. Che volete che importi la comunità scientifica internazionale?, è così che si diventa uno degli uomini più ricchi del mondo!, specchiatevi, gente, specchiatevi: non siete onesti?, non lo sono nemmeno io!, avete ragione, ho fatto le leggi solo per me, ma che volete, era l'entusiasmo dei primi tempi; tranquilli, che ora è il momento vostro, tre condoni in un colpo, prendi tre paghi due, arraffi adesso e la prima rata all'inferno. Ma forse anche gli "ambientalisti", intendo quelli italiani, erano troppo vicini; la Francia allora, la Svizzera ancora meglio, e poi, anche se si arrabbia, è un paese neutrale...

L'unico - gli va dato atto - ad accorgersi e a segnalare nella tragicomica giornata di ieri che forse era un problema di distribuzione e gestione della rete, che a quell'ora tra il sabato e la domenica anche qualche dozzina di centrali in più non avrebbe fatto la differenza, è stato Romano Prodi, che anzi ha avuto un attimo di visbile fastidio quando gli si è parlato di sovraccarico.

Oggi (29 settembre, come cantava l'Equipe 84 qualche decennio fa), con il senno di poi, finita l'ubriacatura da vigili del fuoco e protezione civile, è possibile reperire questo brandello di "controinformazione" anche sulla carta stampata: il problema non sta nell'energia prodotta, ma nella sua gestione e distribuzione; ma oggi è oggi e ieri era ieri. Il danno - mediatico, d'informazione - è fatto, e i cocci son difficili da recuperare. Un danno legittimato dalla Presidenza della Repubblica: come andrà secondo voi quando Marzano porrà la questione di fiducia sulla legge sblocca-centrali?, e quante altre copie vederà il libro di Bjorn Lmborg, che tocca già le tirature di un best-seller?

E infine, guardando il buio negli occhi, il Presidente firmerà la legge Gasparri?

Titolo originale The Autonomist Manifesto (Or, How I Learned to Stop Worrying and Love the Road) – traduzione di Fabrizio Bottini

Se entrate a San Diego dalla Interstate 15, potete vedere la strada del futuro. A dire il vero, ne potete vedere due versioni diverse, sulle medesime corsie.

Al centro di ciascuna delle corsie veloci ci sono delle chiazze nerastre, con un diametro più o meno di cinque centimetri, spaziate a intervalli di 1,2 metri. Sotto ciascuna chiazza, sta una pila di magneti. Un’automobile con l’equipaggiamento adatto può percorrere la strada da sola, guidata dai magneti e dal radar che segue le macchine vicine. Qui c’è, finalmente, la strada automatica promessa per tanto tempo dai futuristi. Qui c’è la strada “controllata da raggi” che i “Meccanici Popolari” avevano tratteggiato in un fantasioso articolo del 1940, sulla scampagnata di un giorno di una famiglia da Washington, D.C., in visita a Zia Lillian in California. Quando gli ingegneri di San Diego hanno spedito una file di otto Buicks sulla Interstate 15 a cento all’ora, la mano ferma dei computers al volante le ha tenute distanti giusto cinque metri l’una dall’altra. Strizzando tre volte tante auto sulle strade, questa tecnologia potrebbe migliorare drasticamente la congestione da traffico: se solo gli ingegneri riuscissero a trovare il modo di far comprare a milioni di automobilisti il sistema. Per adesso, il controllo stradale a raggi sta ancora nel futuro.

Nel frattempo, una tecnologia molto più semplice sta già eliminando gli ingorghi sulla I-15: un sistema di controllo computerizzato dei caselli di ingresso, che addebita somme variabili per l’accesso alle corsie veloci, alzando o abbassando il pedaggio ogni sei minuti, a seconda di quanti automobilisti accettano l’offerta. Se computers del genere addebitassero pedaggi variabili di questo tipo in altre città, si potrebbe non solo alleviare la congestione, ma anche generare finanziamenti per pagare nuove strade. Gli americani, liberati da un traffico a distanza di paraurti, potrebbero riscoprire rediscover la gioia di guidare: e questo, paradossalmente, è uno dei motivi per cui sarebbe tanto politicamente difficile installare effettivamente questa tecnologia in tutto il paese. Qualunque politica che incoraggiasse gli automobilisti a usare i propri semiassi del male appare sospetta in questo momento.

Gli americani amano ancora la loro auto, ma hanno la nausea di quelle degli altri. All’automobile si da la colpa di tutto, dal surriscaldamento globale alla guerra in Iraq, alla trasformazione dell’America in una terra di centri commerciali e lottizzazioni suburbane senz’anima piene di abitanti grassi e soli. Al Gore ha definito l’automobile una “minaccia mortale” addirittura “più mortale di qualunque nemico militare”. Le città di tutto il paese, con l’incoraggiamento di Washington, stanno adottando politiche di “ smart growth” per scoraggiare gli spostamenti in auto, e promuovere il trasporto pubblico. Tra anni fa, alla cerimonia del taglio di nastro per una nuova autostrada fuori Los Angeles, il Governatore Gray Davis ha dichiarato che sarebbe stata l’ultima ad essere costruita nello stato. Guardando alla culla della cultura automobilistica, diceva che era tempo di trovare altri modi per spostare le persone.

Personalmente simpatizzo con questi critici, dato che non amo nemmeno la mia, di macchina. Per la maggior parte della mia vita adulta non ne ho neppure posseduta una. Vivevo a Manhattan, e mi facevano pena gli abitanti suburbani che vanno in macchina al centro commerciale. Quando mo sono trasferito a Washington e sono entrato nei loro ranghi, ho preso casa in un paradiso della smart-growth, con una pista ciclabile e una fermata della metropolitana lì vicino. Per la maggior parte dei giorni, vado in centro coi pattini o in bicicletta, piano di legittimo Schadenfreude mentre filo via davanti agli automobilisti bloccati nel traffico. Per il resto, di solito prendo la sotterranea, e le poche volte che uso la macchina, detesto guidare.

Ma non credo più che i miei gusti debbano diventare politiche pubbliche. Sono STAto convertito da una scuola di pensiero rinnegata, che si può chiamare degli autonomisti, perché magnifica l’autonomia resa possibile dalle automobili. Questa scuola di pensiero comprende ingegneri e filosofi, scienziati della politica come James Q. Wilson, ed economisti trita-dati come Randal O’Toole, autore del manifesto di 540 pagine The Vanishing Automobile and Other Urban Myths. Questi pensatori riconoscono i problemi sociali e ambientali provocati dall’auto, ma sostengono che essi non si risolveranno – di fatto saranno in gran parte peggiorati – dalle proposte dei critici dell’automobile. Definiscono la “ smart growth” un’idea assai poco smart, risultato non di pianificazione razionale, ma di un atteggiamento snob e classista, di arroganza intellettuale. Essi preferiscono promuovere lo “ smart driving”, che sta a significare più pedaggi, più strade, e certo: più macchine.

Traendo spunto da un gruppo di autori che va da Aristotele a Walt Whitman, gli autonomisti sostengono che l’auto non è semplicemente una comodità, ma una delle maggiori forze benefiche della storia, un’invenzione che ha liberato i poveri dai quartieri degradati, i lavoratori dalla città-fabbrica, ha sfidato il comunismo, dato potere ai movimenti per i diritti civili, liberato le donne dal lavoro domestico. I loro argomenti mi hanno fatto guardare con più rispetto al mio mini-van. Continua a non piacermi guidarlo, ma ora quando l’impianto stereo suona Thunder Road (“ queste due corsie ci porteranno ovunqueeee”) penso che Bruce Springsteen l’abbia detta giusta. C’è redenzione, sotto quel cofano sporco.

Magnifico Sprawl

Supponiamo che dobbiate scegliere tra due case di prezzo simile. Una è un’abitazione di città a distanza pedonale da negozi e trasporti pubblici, l’altra è nei suburbi e da lì bisogna guidare per andare ovunque. Quale prendereste?

Se scegliete l’abitazione di città, siete in netta minoranza. Solo il 17 per cento degli americani l’ha votata, in un sondaggio nazionale sponsorizzato dalle associazioni di costruttori e promotori immobiliari residenziali. L’altro 83 per cento preferiva i suburbi, il che non ha sorpreso glia genti immobiliari o altri che passano il loro tempo nelle lottizzazioni. Con tutta la cattiva stampa accumulata dai suburbi, in libri come The Geography of Nowhere il cui autore, James Kunstler, chiama l’America “uno slum di automobili”, i sondaggi ripetutamente mostrano che la grande maggioranza degli abitanti suburbani è felice dei propri quartieri.

Potreste sostenere che gli americani sono delusi perché non gli viene data una ragionevole alternativa. I sostenitori della smart-growth affermano che i suburbi hanno prosperato a spese delle città a causa delle politiche governative che promuovevano benzina a buon mercato, autostrade a lunga percorrenza e costruzione di case in aree non urbanizzate. Cosa sarebbe successo se la pubblica amministrazione, invece di devastare i quartieri urbani facendoci passare attraverso autostrade veloci, avesse elargito denaro in trasporti pubblici e imposto alte tasse sui carburanti in modo da scoraggiare gli spostamenti in auto?

A dire il vero, quell’esperimento è già stati condotto in Europa, con un effetto sorprendentemente piccolo. Ai turisti americani che prendono la metropolitana nelle ben conservate vecchie città queste politiche sembrano aver funzionato. Ma poi si scopre che la gente che ci vive non è così diversa dagli americani. Anche con un prezzo di 5 dollari per un gallone di benzina, numero di automobili pro capite in Europa è cresciuto più velocemente che negli USA negli ultimi decenni, mentre la percentuale dei pendolari che utilizzavano i trasporti collettivi diminuiva. Cresceva il suburbio, e anche le città d’Europa perdevano abitanti. Parigi è una gran posto da visitare, ma nell’ultimo mezzo secolo ha perso un quarto della sua popolazione.

”Le città si stanno espandendo praticamente ovunque nel mondo, nonostante tutte le misure anti- sprawl”, afferma Peter Gordon, professore della School of Policy, Planning and Development alla University of Southern California. “Appena la gente ha abbastanza soldi, vuole la propria auto”.

Naturalmente, il solo fatto che gli individui desiderino le macchine, non vuol dire che esse siano una buona cosa per la società. Jane Holtz Kay, autrice di Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How We Can Take It Back, riassume bene l’ansia diffusa riguardo al costo ambientale e sociale dell’automobile, quando scrive: “Una nazione ingorgata dal suo stile di vita auto-centrico, un ambiente soffocato dai gas di scarico, un paesaggio saccheggiato dalle autostrade, hanno turbato così tanto gli americani che anche questa nazione, tanto orientata allo sviluppo, sta mettendo cartelli “ No Growth” sui nuovi insediamenti, da costa a costa”. Kay ha ragione quando dice che gli americani si oppongono a nuove costruzioni vicino alle proprie case, e temono il traffico che questo porterà, ma potrebbero pensarla diversamente sullo sprawl, se lo capissero meglio.

Prendiamo in esame qualcuna delle convinzioni prevalenti:

Lo sprawl intrappola gli automobilisti nell’inferno del traffico. È vero che le strade sono diventate sempre più congestionate, ma il traffico peggiore tende ad essere nelle aree urbane densamente popolate, dove non sono state costruite nuove strade, come New York e Chicago: il tipo di posti auspicati dagli urbanisti smart growth, ma che sono evitati dalle imprese che cercano posti adatti per collocare uffici. Durante gli anni ’90 il numero di lavoratori suburbani ha superato quello degli abitanti in centro. Questi pendolari trovano anche loro ingorghi, ma dato che non sono diretti al centro riescono ad arrivare ragionevolmente in fretta. La durata media degli spostamenti, che ora è di circa 25 minuti, è salita di soli 40 secondi negli anni ’80, e di circa 2 minuti nei ’90. Lo sprawl non ha intrappolato gli automobilisti: ha offerto una via di fuga.

La cultura automobilistica suburbana intrappola le donne. I critici lamentano che le madri dei suburbi sono condannate a lunghe ora da autista dei propri bambini ai centri commerciali, a giocare a pallone, a lezioni di piano, le quali cose richiedono tutte, davvero, l’automobile. Ma è lo stesso per la maggior parte delle loro attività. Nel suo libro Edge City, lo scrittore Joel Garreau individua l’epoca d’oro dello sprawl nell’ascesa delle donne verso il lavoro extradomestico negli anni ‘70 e ‘80, quando ilo numero di automobili d’America raddoppia, e i costruttori si affrettano a realizzare parchi di uffici e centri commerciali per donne che non hanno tempo di prendere l’autobus per il centro. L’unico modo di star dietro a tutte le loro responsabilità era di comperare un’auto e trovarsi un lavoro vicino ai negozi, e alle scuole, e agli asili vicino casa.

Lo sprawl sfregia il paesaggio americano. Se con “paesaggio” si intende il pascolo o il bosco vicino alla propria abitazione, che è stato ricoperto da cemento e asfalto, allora lo sprawl sembra un abominio. Chi non preferirebbe, essere circondato dal verde, specialmente quando non si pagano tasse sugli immobili per questo?

Ma se si guarda al quadro generale, l’America non sta asfaltando il Paradiso. Più del 90 per cento degli Stati Uniti continentali sono ancora spazi aperti e campi coltivati. La principale modifica nell’uso del suolo, negli ultimi decenni, è stato l’aumento di 30 milioni di ettari di terre allo stato naturale: più di quanto ora sia occupato da città, suburbi, esurbi, secondo Peter Huber, autore di Hard Green: Saving the Environment From the Environmentalists. Visto che l’agricoltura è diventata più efficiente, i coltivatori hanno abbandonato ampi tratti di terreni che sono tornati allo stato naturale, e le zone rurali hanno perso popolazione con i giovani che migravano verso le città. Vi possono non piacere le case che si sono costruiti ai margini del vostro paese, ma se la vostra priorità è la conservazione dei grandi ecosistemi e dell’habitat della fauna selvatica, meglio concentrare la gente nei suburbi ed esurbi piuttosto che sparpagliarla per remote campagne.

Il trasporto collettivo è la cura per la congestione stradale. I treni pendolari e le metropolitane hanno senso a New York, Chicago e qualche altra città, e ci sono altre forme di trasporto pubblico, come gli autobus veloci, che possono fare la differenza altrove (i pulmini che offrono un servizio porta-a-porta sono una manna per gli anziani e chi non ha l’auto). Ma per la maggioranza degli americani, il trasporto collettivo è poco pratico e irrilevante. A partire dal 1970, i sistemi di trasporto pubblico hanno ricevuto più di 500 miliardi di dollari in sussidi, (calcolati in dollari di oggi), ma la gente ha continuato a votare per il volante. I mezzi pubblici hanno perso quote di mercato a favore dell’auto e ora trasportano solo il 3 per cento dei pendolari urbani fuori da New York City. È facile capire perché da una cifra: la media dei pendolari su trasporto pubblico impiega il doppio del tempo della media di chi usa il mezzo privato.

Anthony Downs, economista della Brookings Institution favorevole a dare maggiori sussidi ai trasporti pubblici, afferma che questi sostegni hanno benefici sociali (come l’aiuto a gente senza macchina), ma avverte che faranno poca differenza in termini di congestione stradale. O’Toole e Wendell Cox, espero di trasporti alla Heritage Foundation, stimano che anche nel caso il Congress miracolosamente triplicasse il sussidio annuale per i trasporti pubblici, la media dei tempi di pendolarismo per gli automobilisti si ridurrebbe di un totale generale di 22 secondi.

Gli automobilisti viaggiano gratis. È vero, il governo spende molti più soldi in strade che non in trasporti pubblici, ma la maggior parte di quel denaro viene dalle tasche degli automobilisti. Se si sommano i costi generali dell’automobile (quelli del proprietario e quelli pubblici di costruzione e manutenzione di strade statali e locali, o i salari delle polizie responsabili) si ottengono circa 12 centesimi al chilometro per passeggero, e l’automobilista paga 11 di quei centesimi, secondo Cox. Un viaggio su un autobus locale o treno pendolare costa circa quattro volte tanto, e il contribuente sopporta tre quarti di quel costo.

Gli automobilisti evitano di pagare alcuni costi indiretti delle proprie macchine, come le conseguenze sanitarie dell’inquinamento da scarichi. Uno dei tentativi più approfonditi di misurare questi costi sociali è stato fatto da Mark Delucchi, un analista costi-benefici della University of California, Davis, che ha tenuto conto di fattori di ogni tipo, dalle spese nel Golfo Persico ai costi di urbanizzazione connessi ai parcheggi. Gli Autonomisti lamentano che abbia sovrastimato i costi delle auto, ma anche così i suoi calcoli mostrano che paragonati i costi sociali del trasporto pubblico (come i sussidi pubblici sostenuti dai contribuenti generali, o il rumore degli autobus) l’auto è almeno due volte più economica per chilometro/passeggero.

Le nuove strade peggiorano solo la situazione. Ambientalisti e urbanisti smart-growth affermano che più strade creano semplicemente più problemi, a causa della “domanda indotta”, conosciuta anche come teoria del “se-le-fai-arriveranno”. Essi sosotengono che qualunque nuovo tratto di strada si riempirà in fretta dato che gli automobilisti ne scoprono nuovi modi d’uso. Aggiungere nuove corsie o strade può migliorare il traffico temporaneamente, ma alla fine saremo condannati a diventare come Los Angeles.

Una nuova freeway in effetti attira nuovi automobilisti, ma questo non significa che non valga la pena di costruirla. A parte i benefici per gli utenti (il che non è poco) allenta la tensione su tutta la rete stradale. La relazione di quest’anno del Texas Transportation Institute conferma altre ricerche, mostrando che tenendo conto della crescita di popolazione, la congestione da traffico è aumentata più rapidamente nelle città che non hanno costruito strade. La ragione del pantano di traffico a Los Angeles sta nel non aver costruito freeways a sufficienza, per quanto incredibile possa sembrare. Il principale luogo simbolo dello sprawl non è proprio quello che appare, se si paragona con altre città utilizzando la definizione statistica di “area urbanizzata”, che arriva fino al limite dell’aperta campagna. Secondo questa definizione, Los Angeles è la città più densamente popolata degli USA, con 2.700 persona per chilometro quadrato di area urbana. Il suo traffico è terribile perché si è costruita solo la metà delle freeways originariamente previste, e ora ci sono meno strade veloci per abitante che in qualunque altra grande città.

I politici di Los Angeles non decideranno tanto presto di realizzare le freeways mancanti, ma questo non significa che non possano imparare a sbloccare quelle che ci sono. Tutto quello che devono fare è guidare un paio d’ore sulla Interstate 15, verso sud.

Una parola che comincia per “P”

Gli automobilisti fermi in un ingorgo fuori San Diego di solito guardavano con odio la fascia centrale della I-15: corsie preferenziali per il car-pool senza nessuna macchina con gruppo di occupanti a percorrerle. Quelle corsie erano così vuote che gli ingegneri hanno deciso di lasciar entrare anche automobilisti soli, a pagamento, come si legge su cartelli luminosi agli accessi. Un computer calcola quante auto accettano l’offerta, e ricalibra il prezzo ogni sei minuti, alzando il pedaggio se troppe macchine accettano, abbassandolo se non sono abbastanza.

La mattina in cui guardavo io, il computer ha fissato un prezzo di 1,25 dollari alle 7 e 10, l’a alzato a 1,50 sei minuti dopo, poi è schizzato a 2,25 alle 7 e 22, aggiungendo un altro quarto alle 7 e 28. Il pedaggio di due dollari e mezzo apparentemente ha spaventato gli automobilisti, e il computer ha reagito facendo crollare i pedaggi a 1 e 75, e a questo punto il traffico è aumentato e pure il pedaggio è risalito fino a 2 dollari. Col passare dell’ora di punta, il pedaggio è calato rapidamente, e per le 8 e 20 il computer voleva far entrare automobilisti nelle corsie preferenziali per un dollaro. Chi pagava poteva entrare a San Diego senza rallentare, nemmeno per pagare il pedaggio. Era raccolto attraverso trasmittenti radio collocate in alto, in grado di leggere il FasTrak transponder di ciascuna auto (la versione californiana di un telepass) a velocità fino a 190 chilometri l’ora.

Quando è iniziato questo esperimento nel 1996, alcuni critici sostenevano che non era corretto creare “corsie preferenziali per le Lexus”. Ma ora, anche gli automobilisti che non pagano il pedaggio hanno iniziato ad apprezzare le corsie, dato che deviano il traffico dalla strada principale. E anche se sono gli automobilisti più ricchi quelli che probabilmente pagheranno il conto, le indagini mostrano che c’è gente di tutti i redditi ad usare quelle corsie. La maggior parte di quelli che ho intervistato erano pendolari a reddito medio che facevano i loro conti, e che usavano se possibile il percorso gratuito. Ma quando il traffico si faceva pesante, consideravano conveniente pagare il pedaggio.

”Non vale la pena, spendere un paio di dollari per passare mezz’ora in più con la famiglia?” si chiede T.J. Zane, consulente politico con una Volkswagen Jetta del 1997. “È quello che spendevo di solito per una tazza di caffè da Starbucks. Adesso mi porto il caffè da casa, e uso i soldi per il pedaggio”.

Queste corsie a pagamento sono diventate così popolari, da essere state prolungate di venti chilometri fuori città, e il concetto di pedaggio variabile è diventata la soluzione preferita degli ingegneri autostradali, per risolvere problemi di ingorghi. Dopo decenni di lavoro su tecnologie fisse, come le strade controllate da raggi, si sono convertiti ad un approccio di economia elementare. Adesso considerano gli ingorghi qualcosa come l’equivalente delle file per il pane nell’Unione Sovietica: una conseguenza del monopolio senza immaginazione gestito da politici restii ad applicare un prezzo di mercato a un servizio di valore. Per essere onesti nei confronti dell’Unione Sovietica, se non altro loro non davano la colpa al pubblico per i problemi che creavano. Non proponevano “ smart-diete” per incitare la gente a mangiare meno pane.

Le strade a pagamento erano comuni negli Stati Uniti, fino alla decisione nel 1950 di finanziare il sistema di arterie Interstate con le tasse sulla benzina, che era attraente dal punto di vista politico: una tassa poco appariscente al posto degli odiati caselli dei pedaggi, un’illusione di eguaglianza perché ciascuno paga la stessa quota. Ma un automobilista sulla Long Island Expressway all’ora di punta pone un elemento di tensione sul sistema Interstate molto più consistente, poniamo, di un abitante del Montana sulla Interstate 90 a mezzogiorno. Quando il traffico raggiunge una massa critica, gli automobilisti rallentano tanto che una strada veloce a quattro corsie ha una capacità pari a una di tre corsie in condizioni di traffico fluido. Se ci fosse un computer a gestire i pedaggi a Long Island, ci sarebbero più autobilisti a muoversi velocemente all’ora di punta.

In trucco sta nel convincerli a pagare. Gli abitanti di Long Island abituati all’autostrada gratis resisteranno, non importa quanti economisti dicano loro quanto il tempo perso in ingorghi valga più del prezzo del pedaggio. I progettisti autostradali dotati di sensibilità politica non usano nemmeno quella “parola-che-comincia-per-P”: lo chiamano value pricing. Ma il traffico è diventato così insopportabile che anche gli antichi oppositori dei pedaggi, come A.A.A. e imprese di autotrasporti, ora sostengono i pedaggi su nuove strade e corsie preferenziali, se non altro perché non c’è altro modo di finanziarle. Si stanno inaugurando o realizzando strade a pedaggio in più di una dozzina di città, e ci sono proposte per coprire intere aree metropolitane con una rete di quanto si chiama corsie HOT (High Ocupancy Toll), come quelle di San Diego, gratuite per autobus e pulmini di pendolari, ma aperte ad automobilisti soli paganti. Alcune di queste nuove strade saranno corsie per il car-pool riconvertite, altre strade nuove o allargate, come le tangenziali attorno a Washington e Atlanta.

”Le corsie a pagamento della California sono il prototipo per il futuro” afferma Robert Poole della Reason Foundation, che ha avuto l’idea delle corsie HOT dieci anni fa. “Invece di affrire a tutti gli automobilisti lo stesso servizio di livello miserabile, ci saranno corsie preferenziali con garanzie di qualità per automobilisti, e particolari percorsi per i veicoli pesanti con una superficie più resistente e curve e pendenze graduali”.

Questo Premium service è già offerto sulle corsie veloci della Route 91, realizzato da una compagnia privata vicino ad Anaheim, California, e che è probabilmente la strada più intensamente monitorata al mondo. Se un automobilista rallenta in qualunque punto del percorso, i sensori nella pavimentazione istantaneamente allertano i tecnici nella sala controllo, e le telecamere poste lungo la strada ruotano per inquadrare l’auto. Quando c’è un problema, la gestione della strada garantisce l’arrivo di aiuti entro cinque minuti. Si mantengono in costante stato di allerta due squadre di servizio, pronte ad accorrere sul posto a cambiare una gomma, una cinghia della ventola, o rimorchiare un veicolo, il tutto senza costi per l’automobilista. Questo servizio extra si paga mantenendo il traffico fluido e attirando clienti, in particolare donne che si dicono disposte a pagare un pedaggio per sentirsi più tranquille sulla strada.

È difficile immaginarsi un traffico fluido, a New York, ma i tecnici affermano che qualunque cosa è possibile, pagando. Peter Samuel, direttore della rivista Tollroadsnews, ha proposto di toglere i campion dalla strada costruendogli un tunnel dal New Jersey a Brooklyn, e trasformando alcuni tratti di ferrovia a Brooklyn in corsie per autocarri. Samuel I. Schwartz, che ha coniato il termine “ gridlock” quando era ingegnere capo al Department of Transportation cittadino, immagina gallerie sotto le strade e autostrade per creare nuovi percorsi, e vuole sbloccare le vie di Manhattan imponendo pedaggi, come ha fatto il sindaco di Londra Ken Livingston con le sue strade.

Alcuni politici obbiettano, ancora, che i pedaggi sono iniqui per i poveri, ma si tratta di un’opposizione che appare tentennante. I Democratici al Congresso si sono uniti ai Repubblicani nel votare modifiche alle leggi autostradali per incoraggiare nuove corsie a pagamento. “Se vogliamo aumentare la capacità stradale per una popolazione in crescita, dobbiamo contare sui pedaggi” dice Robert Atkinson del Progressive Policy Institute, legato al centrista Democratic Leadership Council. Vede i pedaggi come un sistema fiscale progressivo: gli automobilisti più agiati pagano le nuove corsie preferenziali, mentre i meno agiati traggono benefici dal fatto che le strade esistenti diventano meno congestionate, e gli utenti di autobus utilizzano le nuove corsie veloci senza pagare.

Anche gli ambientalisti sostengono i pedaggi ma in genere con un atteggiamento fatalista. Piace l’uso dei pedaggi sulle strade esistenti per ridurre la congestione, perché meno auto significa meno benzina bruciata e meno inquinamento atmosferico. Il gruppo Environmental Defense ha partecipato in prima fila alla battaglia vinta per ridurre la congestione sugli attraversamenti del fiume Hudson aumentando i pedaggi all’ora di punta. Il Sierra Club sostiene la conversione di parte della Washington Beltway a corsie HOT. Ma proponete di costruire nuove strade a pedaggio (quelle più accettabili da politici e automobilisti) e potete aspettarvi citazioni in giudizio e una pubblica sollevazione sul degrado dell’ambiente.

Per i tecnici autostradali, queste obiezioni sono ragionevoli, ma non ostacoli insormontabili. Nonostante l’enorme incremento degli spostamenti in auto degli ultimi decenni, l’aria è diventata notevolmente più pulita nella maggior parte delle analisi e nella maggior parte dei posti, perché le auto emettono molto meno inquinanti, e continueranno a diventare più pulite. Il rumore piò essere diminuito; le strade si possono costruire con più cura, senza distruggere gli ecosistemi.Gli Autonomisti insistono sul fatto che ci può essere tutela e garanzie di livelli minimi di qualità dell’aria e di rumore per la gente vicino alle nuove strade, ma non hanno guadagnato molto spazio contro ai loro nemici, perché questa guerra ha a che vedere con molto più che non l’ambiente. È una guerra fra due visioni della Ville Radieuse.

La Guerra alla Cultura dell’Auto

”incoraggeranno semplicemente la gente comune a muoversi senza alcuna necessità” (Il Duca di Wellington, a proposito delle prime ferrovie a vapore)

Il Senatore John Kerry ora sconfessa la tassa di 50 centesimi al gallone che un tempo ha sostenuto, ma si tratta di un’idea che potrebbe unire amici e acerrimi nemici dell’automobile. Una tassa sui carburanti piace non solo agli ambientalisti, ma anche a molti economisti, che ci vedono il metodo più efficiente per ridurre il consumo di benzina, e insieme un modo semplice per far pagare agli automobilisti i costi sociali delle loro vetture. Non è politicamente realistico, data l’avversione Repubblicana a nuove tasse, ma non si potrebbe almeno escogitare un ipotetico accordo? Sono andato da almeno una dozzina di leaders di entrambi i lati dello schieramento nel dibattito sull’auto con un compromesso di massima: penalizzare glia utomobilisti con una nuova tassa da cinquanta centesimi, magari anche un dollaro, sulla benzina, e in cambio gli ambientalisti potrebbero sostenere nuove corsie e strade a pagamento utilizzabili senza pedaggio da pulmini di pendolari e autobus.

La prima reazione degli Autonomisti è stata di orrore: in parte per il prezzo pagato dagli automobilisti, ma soprattutto al pensiero di tutte le entrate a disposizione dei legislatori federali, ansiosi di spenderle in monorotaie suburbane. Gli autonomisti non volevano che nessun soldo andasse a Washington, anche se la maggior parte del denaro avrebbe pagato nuove strade, che loro preferiscono finanziare coi pedaggi.Ma qualcuno di loro alla fine ha acconsentito alla tassa sul carburante, se tutto il ricavato tornerà al pubblico sotto forma di tagli fiscali, crediti fiscali e altri strumenti. In questo modo chi non guida molto vedrebbe restituito più di quanto pagato in tasse sui carburanti. Le persone a reddito minore tendono a spostarsi in auto meno della media, e in questo modo ne uscirebbero avvantaggiati, e ci potrebbero essere ulteriori aiuti ai poveri sotto forma di buoni viaggio da usarsi sia per biglietti del trasporto pubblico che per spese legate all’auto.

Ma quando ho proposto l’accordo all’altra parte, non ho trovato sostegno. “Credo nel non fare più nuove strade, dal punto di vista intellettuale e ambientalista” afferma Jane Holtz Kay, l’autrice di Asphalt Nation. Altri dicono di non essere necessariamente contro qualunque nuova asfaltatura, ma pongono tante precondizioni (nuovi progetti ferroviari, nuovo smart-growth zoning, intere nuove città di nuovo tipo) che le strade non potrebbero essere realizzate per decenni, o mai.

”Il nostro primo ordine del giorno è di dar forma alle città e regioni e offrire alternative valide all’automobile” dice Peter Calthorpe, architetto “ new urbanist” e leader del movimento smart-growth. “Solo a quel punto si può iniziare a utilizzare le tasse per contruire un sistema di incentivi che metta su un piano di parità”. Neha Bhatt, coordinatrice della campagna del Sierra Club intitolata Challenge to Sprawl, dubita che una tassa sui carburanti possa fare qualcosa di buono. “La gente pagherebbe per continuare a guidare” dice, “perché la dura realtà in America oggi è che devi muoverti su lunghe distanze. Dobbiamo avere un approccio di programmazione più olistico”.

Ma se la gente è disposta a pagare per continuare a guidare, perché loro e le loro automobili devono contare meno dei comuni cittadini che offendevano il Duca di Wellington, col loro desiderio di andare in treno? Il disgusto degli intellettuali per automobili e suburbi, il loro amore per i viaggi in treno e le città, sono una curiosa variante dei vecchi atteggiamenti aristocratici. I sobborghi erano piuttosto di moda quando solo e classi alte potevano permettersi di viverci. I riformatori sociali del diciannovesimo secolo sognavano di mandare i cittadini sovraffollati fuori verso salubri spazi verdi. Ma quando i lavoratori dei ceti medi ci sono riusciti, prima sono stati derisi per le loro “scatolette fatte di pezzi appiccicati”, e più tardi per le cosiddette McMansions. Land Rover e auto sportive erano chic se guidate verso tenute di campagna, poi sono diventate antisociali tracannatrici di benzina quando sono comparse nei quartieri di villette.

”Gli atteggiamenti aristocratici verso la mobilità di massa non sono davvero cambiati dai tempi del Duca di Wellington a quelli della duchessa di Huffington”, ci dice Sam Kazman del Competitive Enterprise Institute, riferendosi a Arianna Huffington, una dei ricchi attivisti di Hollywood dietro al Detroit Project, che ha trasmesso messaggi pubblicitari contro le auto ad alto consumo. (lei e una sua collega in questa campagna per risparmiare energia, Laurie David, moglie del comico Larry David, hanno ispirato un nuovo termine: Gulfstream liberal, in onore del jet che usa il loro gruppo sociale. I critici amano ricordare che un viaggio con questo aereo attraverso il paese brucia dieci volte più carburante per passeggero di un mezzo di linea, e il doppio di un fuoristrada Hummer).

Gli Autonomisti hanno perso la guerra delle pubbliche relazioni, ma stanno cercando di contrattaccare. O’Toole hya fondato la American Dream Coalition per dare battaglia a quello che chiama la “ congestion coalition”, il suo termine per indicare chi si oppone a nuove strade. Gli autonomisti raccolgono casi di problemi provocati dalla smart growth, e in particolare da Portland, Oregon, che è diventata la città immagine degli urbanisti costruendo linee di metropolitana leggera, evitando le nuove strade, e limitando drasticamente lo sviluppo suburbano. Ma quasi il 90 per cento dei suoi pendolari si muove ancora in macchina, e la congestione stradale a Portland è aumentata più che in qualunque altra città americana nei quindici anni dopo l’apertura della prima linea di metropolitana leggera. Nel frattempo, i prezzi delle abitazioni sono saliti vertiginosamente, facendo di Portland una delle città meno accessibili per chi intende comprare casa.

Ma gli autonomisti vogliono fare qualcosa di più che non giocare in difesa. Vogliono che gli americani tornino ad amare le automobili. Citano il Walt Whitman di Fili d’Erba: “Orsù, anima! Non vedesti tu il disegno di Dio sin dal principio?/Tutta la terra percorsa, legata da una rete”. Citano storici come Macaulay, che ha osservato nel XIX secolo “”ogni miglioramento dei mezzi di locomozione è di beneficio all’umanità, moralmente, intellettualmente e materialmente”. Celebrano il ruolo dell’automobile nel famoso boicottaggio degli autobus di Montgomery, quando i neri evitarono il sistema pubblico razzialmente segregato appoggiandosi alle automobili collettive e a un servizio informale di taxi. La polizia, aiutata dai lavoratori dei trasporti messi in crisi, tentò di fermarli applicando strettamente alcune regole di codice stradale (Martin Luther King fu arrestato perché andava a cinquanta all’ora in un tratto dove c’era il limite a quaranta) ma gli automobilisti continuarono, e trionfarono. L’automobile privata diventò anche popolare simbolo di liberazione oltre la Cortina di Ferro. Quando i dirigenti comunisti importarono il film Furore! per illustrare i mali del capitalismo, il pubblico imparò una lezione rivoluzionaria diversa. Guardando gli agricoltori impoveriti andare verso la California, furono sorpresi dal fatto che anche gli americani disoccupati potessero muoversi in automobile dove volevano a cercare lavoro.

In un saggio intitolato Autonomy and Automobility, Loren E. Lomasky, professore di filosofia politica alla University of Virginia, invoca il concetto aristotelico di “auto-movente” per sostenere che la capacità di muoversi e vedere il mondo è la distinzione cruciale fra le forme di vita superiori e quelle di rango inferiore, ed è la fonte di quello che Kant più tardi avrebbe chiamato autonomia morale umana: “L’automobile, sostenibilmente, rivaleggia solo con la stampa (e forse nel giro di qualche anno col microchip) come elemento tecnologico potenziante l’autonomia” scrive. Gli urbanisti decisi a domare lo sprawl, sostiene Lomasky, sono gli eredi intellettuali di Platone e del suo concetto di re-filosofo che dovrebbe imporre l’ordine alle masse non illuminate.

Se non altro, sono gli eredi di Le Corbusier, l’architetto che sognava di stipare milioni di cittadini in una schiera di enormi torri, in una città meticolosamente pianificata che chiamava la Ville Radieuse. I suoi particolari progetti ora sono fuori moda, ma non la sua propensione alla pianificazione generale. Gli entusisti della smart growth vogliono autorità regionali o statali a regolamentare l’uso del suolo. Il loro obiettivo di restaurare i vecchi quartieri urbani suona nobile, ma quei vecchi quartieri e i loro sistemi di mobilità non sono stati costruiti da urbanisti che attraverso autorità regionali imponevano la propria visione di come la gente dovesse vivere e muoversi. Furono realizzati da costruttori di case, e compagnie di tram o metropolitane che rispondevano al desiderio dei propri clienti, in un’era in cui i politici si accontentavano di indirizzare l’urbanizzazione attraverso semplici regole di zoning. Fu solo più tardi, alla metà del XX secolo, che l’urbanistica diventò una professione burocratizzata, con ampie ambizioni, come i progetti di “ urban renewal” degli anni ‘60e ’70, che sono serviti soprattutto ad accelerare la fuga dei cittadini verso i suburbi. Ora che gli urbanisti li hanno seguiti nelle regioni suburbane, gli americani si stanno spostando verso centri più piccoli, negli esurbi. La loro idea di città “radiosa” è quella che si irraggia oltre la portata dei pianificatori generali.

Molti di quelli che se ne sono andati, come me, l’hanno fatto con riluttanza. Essi capiscono il fascino dei portici, dei negozi all’angolo, del tornare a casa a piedi per il pranzo. Alcuni di loro, specialmente i giovani e chi è senza figli, stanno muovendosi di nuovo verso le città, e una volta ancora ci sono costruttori privati pronti a venire incontro ai loro desideri, che ora si orientano verso i loft e le case di città storiche fornite di cucine moderne. Ma nel caso della maggior parte delle famiglie medie, l’ideale della vita urbana confligge con la realtà delle loro vite. Anche se volessero stare senza giardino, come potrebbero permettersi di vivere in un quartiere decente con la possibilità di andare facilmente al lavoro? Come potrebbero fare la spesa in un giorno di pioggia portandosi dietro un bambino? Dove andrebbero a scuola i figli?

Se sono abbastanza determinati, o hanno abbastanza denaro, o nonni con la voglia di fare servizio di doposcuola, possono stare in città. Altrimenti andranno nei suburbi, o più lontano. Una volta trovata casa, probabilmente firmeranno petizioni per fermare lo sprawl, ma faranno spesa da Target. Quando sono bloccati nel traffico, col sedile di pelle reclinato ad ascoltare un ritornello di Lou Reed o passaggi da Bergdorf Blondes,possono anche diventare nostalgici della vita urbana. Fermi dietro una Chevy Suburban, possono anche dimenticare la calca della metropolitana nell’ora di punta, e sentirsi intrappolati in quel national automobile slum. Ma se qualcuno gli desse un’autostrada aperta, metterebbero su Thunder Road e capirebero, ancora una volta, che è stata l’automobile a renderli liberi.

Nota: qui il file PDF scaricabile
Autonomist Manifesto

Intervista a Guglielmo Epifani di Pierluigi Sullo

Guglielmo Epifani era già impegnato nel braccio di ferro con il governo a proposito del Documento di programmazione economica e finanziaria [Dpef], quando gli abbiamo chiesto di fare questa conversazione sulla proposta di una serie di Camere del lavoro, le organizzazioni di base e territoriali del sindacato. L'«autunno sarà caldo», aveva fatto sapere la Cgil, una volta ascoltati i propositi del governo Berlusconi e all'indomani del taglio del dieci per cento delle spese dei comuni. Dunque, il momento era delicato, e il tempo scarso.

Eppure, come si può leggere in queste pagine, Epifani ha scelto di discutere a fondo le tesi delle Camere del lavoro. Un paio di anni fa, quando in un'altra intervista gli chiedemmo cosa pensasse del reddito di cittadinanza, Epifani rispose «per la mia cultura, al centro resta il lavoro, però capisco che è un tema sul quale bisogna discutere». L'apertura è un metodo, dunque.

Ma in più, certamente, il sistematico taglio, da parte del governo delle destre, della spesa sociale, al centro come nelle città, la «riforma» delle pensioni e così via, c'entrano molto, con la discussioni sulle vertenze locali che le Camere del lavoro propongono, e con la partecipazione cittadina.

Pare ci sia del nuovo, nel sindacato. L'inizio di «un progetto nazionale di rapporti diretti tra le Camere del lavoro» - come lo chiama Cesare Melloni, segretario della Cgil di Bologna - propone una innovazione nella struttura stessa della Confederazione: si pensa a un sindacato «a rete», «orizzontale», e non più solo «verticale» e centralizzato. È così?

É utile avviare una sperimentazione di rapporti diretti fra le strutture sindacali territoriali nella stessa misura in cui nella realtà produttiva e sociale si sono di fatto avviate molteplici relazioni fra i sistemi territoriali.

Le filiere produttive, così come i processi migratori, mettono in rapporto le strutture sindacali di categoria e confederali per gestire «situazioni di fatto», spesso a «valle» di decisioni già assunte dalle imprese o dalle istituzioni. Nel nostro caso, l'innovazione che si vorrebbe adottare con la sperimentazione di rapporti diretti fra strutture territoriali riguarda la possibilità di co-progettare una linea di intervento sindacale quando ancora è possibile incidere sulle decisioni dei diversi attori. Insomma un sindacato «a rete», più «orizzontale», può, in molti casi, essere molto efficace nello svolgere meglio la funzione sociale alla quale è chiamato.

Nelle intenzioni di chi propone quel progetto, si tratta di «ridare forza e progettualità al lavoro» affrontando lo squilibrio di potere tra capitale e lavoro «dal lato - cito da una delle relazioni al convegno di Sasso Marconi - del sistema territoriale e nella forma urbana». Che nesso vede, il segretario generale della Cgil, tra mondo del lavoro e «forma urbana»?

La forma urbana riproduce, mediato, nello spazio della città, gerarchie sociali che sono imposte direttamente nel rapporto di lavoro.

Questo fatto è diventato di immediata evidenza nel corso di questi anni, quando si sono indebolite le funzioni di riequilibrio sociale delle politiche di welfare e sono emersi bisogni e domande che si scaricano sulla condizioni di lavoro.

Il caso più eclatante è costituitoo dalla legge Bossi-Fini, che pone in carico al datore di lavoro di mettere a disposizione un alloggio per il lavoratore-migrane, il quale si trova così ad essere subalterno in azienda e ricattato come cittadino, proprio perché subalterno nelprapporto di lavoro.

In forma meno evidente, anche le politiche di incentivazione degli asili aziendali o della mutualità integrativa aziendale ripropone un doppio legame fra sfera del lavoro e sfera della cittadinanza, con effetti di «fidelizzazione del lavoratore che fanno leva sulla dipendenza nel rapporto di lavoro.

La iniziativa sindacale sul territorio deve, perciò rilanciare la necessità di investimenti per politiche di welfare locale, anche come sostegno alla partecipazione al lavoro e come strumento sociale di redistribuzione del reddito, svincolata dalla condizione e dal rapporto di lavoro.

La «forma» urbana riproduce la diseguaglianza e la gerarchia sociale anche nella distanza crescente fra centro urbano, sempre più «vetrina» affluente ed esclusiva, da una parte, e periferia anonima, sempre più sinonimo di marginalità sociale e di ghettizzazione etnica, dall'altra.

In sintesi, si può dire che la convergenza di interessi e di valori fra figura del lavoratore e la figura del cittadino i ichiede una cultura ed una pratica sindacale capaci di cogliere le diverse e complesse dimensioni della condizione umana nell'epoca della globalizzazione.

II punto di partenza delle Camere dei lavoro è la critica dello sviluppo. Sembra, dice Dino Greco, segretario della Cgil di Brescia, che basti mettere il segno «più» davanti a «Pil», e tutto o quasi è risolto. La mia impressione è che la Cgil, quando parla di «declino industriale» del paese, sembri alludere a un problema soprattutto quantitativo; poi, basta aggiungere l'espressione «di qualità», pensando soprattutto alla competizione globale, e l'obiezione è respinta. Sbaglio?

La Cgil, e certamente le sei Camere del lavoro impegnate in questo percorso, hanno come punto di partenza non una critica generica allo sviluppo, ma una critica specifica e argomentata a una forma di sviluppo attenta per l'appunto solo all'aspetto quantitativo [il segno «più» davanti al Pil] e che passa fatalmente per la sostanziale subordinazione del lavoro e dei diritti ad una logica tutta costruita sull'impresa. Si tratta, in sostanza, della storia di questi anni, scritta a quattro mani dall'ex presidente di Confindustria, D'Amato, e dal presidente del consiglio: attacco ai diritti del lavoro e dei lavoratori [vedi la legge 30; la legge Bossi-Fini sui lavoratori-migranti; la pratica degli accordi separati ...], sistema di incentivi finalizzati a finanziare le imprese senza alcuna priorità né selezione, rottura del sistema concertativo, attacco frontale al sistema dei servizi. È proprio questa impostazione che non poteva che portare al declino del Paese, amplificando gli effetti di una crisi più generale ed alimentando l'incapacità di cogliere le opportunità di ripresa.

Per la Cgil, battaglia contro il declino, industriale e non solo, è innanzitutto quindi battaglia per la qualità dello sviluppo, che vuol dire innovazione, non solo del sistema produttivo ma anche del prodotto; ricerca tecnologica; formazione e qualificazione; coesione sociale come valore aggiunto per il sistema Paese nel suo complesso; scommessa su un sistema che preveda, tra i principali fattori di sviluppo, la valorizzazione dell'apporto del lavoro. E ovviamente, un sistema di relazioni industriali che faccia del confronto e della ricerca di soluzioni condivise, il suo perno di riferimento.

Le parole «locale» e «comunità», non molto amate dal linguaggio tradizionale della sinistra, tornano spesso nel discorso delle Camere del lavoro. Che dicono: non solo la tutela e lo sviluppo di un welfare che voglia ricucire la società, ma la stessa qualità della produzione industriale, devono modellarsi sulle società locali, pena cadere nelI'anomia dell'omologazione imposta dalla globalizzazione, i cui modelli di produzione e consumo sono già dati. Cosa ne pensi?

Credo sia giusto, per le Camere del lavoro che operano sul territorio, e perciò complessivamente per la Cgil, porre il tema della qualità dello sviluppo in chiave innanzitutto «territoriale». In una fase in cui i processi di globalizzazione rischiano di produrre la sostanziale estraniazione delle comunità, ma anche delle istituzioni locali e della società corrispondente, dai livelli decisionali, è strategico porre con forza il tema della definizione di condizioni che consentano di stare nella competizione come sistema territoriale strutturato che offra coesione sociale, lavoro qualificato ed esperto e garantito, infrastrutture all'altezza, trasporti e reti di ricerca e innovazione.

In questo senso, trovo legittimo e positivo sostenere che la qualità e le caratteristiche della produzione industriale devono tenere conto della società locale, anche per definire modelli di produzione e di consumo innovativi. Penso, ad esempio, a come collegare ricerca, innovazione tecnologica ad un nuovo modo di «vivere bene», riservato non solo a ricchi e dintorni e che perciò arricchisca complessivamente la comunità e il suo territorio.

È plausibile, secondo te, un modello di vertenza territoriale come quello che le Camere del lavoro propongono e che punterebbe a creare un «fondo sociale» locale? Può, questo modello, coesistere con gli altri livelli di attività sindacale?

Certo che sì. Il problema delle risorse disponibili sul territorio è ormai a livello di guardia e, con l'attuale impostazione di politica finanziaria seguita dal governo, che mortifica le autonomie locali, rischiamo davvero situazioni difficili per la tenuta dei servizi. Del resto, come si diceva prima, sono sempre più evidenti i nessi tra cittadinanza, lavoro, politiche di sviluppo territoriale, che comprendano i temi della partecipazione e della responsabilità sociale del sistema delle imprese.

La proposta di costituire un «fondo di sostegno alla qualità dello sviluppo e della coesione sociale» prova a costruire una modalità innovativa per drenare nuove risorse, finalizzarne l'utilizzo a priorità sociali condivise, quelle che costituiscono [se non risolte] elementi forti di strozzatura del sistema e della sua stessa competitività: la casa, i servizi all'infanzia, la non autosufficienza...

Non mi pare ci possa essere un problema di compatibilità di questo percorso con il resto dell'attività sindacale; viceversa qui si tenta di dare una parte di orizzonte comune alla contrattazione aziendale e di secondo livello e alla contrattazione che si svolge sul territorio e che, in alcune delle Camere del lavoro impegnate in questa iniziativa, è particolarmente diffusa e regolarmente praticata.

In sostanza, si può produrre una nuova, feconda integrazione tra i diversi ambiti negoziali che li rafforza e li valorizza entrambi e che guarda esplicitamente al modello di sviluppo ed alla sua qualità: la proposta del «fondo» può in qualche modo rappresentare un possibile strumento di tutto questo.

Nelle ultime elezioni amministrative, molti hanno notato, ad esempio Sergio Cofferati, che le alleanze opposte alle destre hanno avuto maggior successo quando hanno saputo creare «coalizioni» con le nuove forme di partecipazione cittadina. Non ti sembra che l'iniziativa delle Camere del lavoro sia in sintonia con questa tendenza? E cosa pensi dei progetti «neomunicipali», cioè appunto della sperimentazione democratica a livello locale?

Farei intanto un osservazione. Nelle elezioni amministrative si è andati meglio laddove si è riusciti a tenere insieme le due cose: da una parte gli schieramenti politici e di partito, che hanno svolto la

loro parte, dall'altra ìl mondo vario e complesso della partecipazione cittadina. Bologna è stato un po' l'emblema di tutto questo: una alleanza politica che ha visto insieme in modo convinto tutte le componenti di partito [e che ha retto anche rispetto alla formazione delle giunte comunale e provinciale], ìn una logica, però, e con la capacità di coinvolgere tutto il mondo dell'associazionismo. Se non sbaglio, Cofferati ha potuto contare sull'appoggio dei partiti, da Di Pietro a Rifondazione, e, nello stesso tempo, di 82 associazioni locali.

L'iniziativa delle Camere del lavoro si inscrive in qualche maniera, e in modo sostanzialmente originale, dentro questo nuovo modo di fare la politica sul territorio. Anche qui il caso Bologna è emblematíco: la Camera del lavoro ha messo in piedi un proprio percorso programmatico sulla città, prima ancora che fosse avanzata la candidatura Cofferati, costruendo una proposta precisa e articolata, frutto di una serie di confronti pubblici ai quali ha partecipato una parte consistente dell'associazionismo, del mondo universitario, della società civile. Quella proposta [«Un'altra idea di città»] ha rappresentato un punto importante di riferimento per il programma, ma anche per la campagna elettorale del candidato sindaco.

Quanto ai progetti «neomunicipali», credo siano esperienze da costruire e seguire con attenzione: c'è una voglia di ritorno ad essere partecipi, a stare nelle discussioni, a «uscire dal guscio», che va sostenuta e consolidata. Definire forme di partecipazione democratica che aiutino in questa direzione può essere utile e interessante: il bilancio partecipato è il primo strumento che si potrebbe utilizzare, sapendo che le persone non vogliono essere solo informate, ma vogliono poter incidere sulle scelte che rícadono sulla propria vita. Allora bisognerà approfondire, analizzare e poi progettare, definendo procedure e metodi adeguati ed efficaci. Si farà più fatica, ma siamo convintì che nulla potrà essere più efficace e produttivo, per amministrare bene le città e le province.

Nel suo ultimo articolo, Tom Benetollo ha scritto che si deve difendere l'«autonomia del sociale» dalle «spire» della politica dei partiti. In caso di ritorno al governo dei centrosinistra, e con la nuova direzione di Confindustria, la Cgil potrebbe tornare alle forme di «concertazione» del decennio scorso?



La concertazione per la Cgil è sempre stata un metodo e mai un fine, la condivisone di obiettivi e la messa in comune di volontà. Senza obiettivi condivisi, la concertazione non può esistere. La concertazione invoca la presenza, accanto alle parti sociali, del governo e delle istituzioni locali. In Italia esistono centinaia di accordi di concertazione ogni anno, e nessuno ha nulla da ridire.

La concertazione, quindi, non annulla l'autonomia delle parti sociali: in questo quadro, anzi, solo il mantenimento di un autonomo punto di vista critico delle parti può portare ad un pratica concertativi corretta. Quando si polemizza con la concertazione, si pensa ad un punto di vista specifico e ben preciso [gli accordi del 1992 e 1993]: anche su questo i giudizi della Cgil sono ampiamente conosciuti e non vale la pena di ripeterli.

La Cgil concerterà quando ci saranno le condizioni, ricorrerà al conflitto quando sarà necessario, con l'obiettivo di governare i processi reali, partendo dalla rappresentanza degli interessi e dei bisogni reali che rappresentiamo, senza mai smarrire la mappa dei propri valori fondamentali.

Il sito di

Il sommario del numero speciale

Nel bilancio dei paesi civili non c’è un’entrata che riguarda i condoni edilizi. Più che reati sono considerati veri e propri oltraggi ai patti di convivenza tra cittadini. E condannati dal senso comune. Nell’Italia delle case in libertà questa infrazione è non solo utile per colmare disavanzi, ma indicata, al pari di altre, come pratica “liberale”, nel senso che ognuno a casa sua fa ciò che gli torna più comodo. Come nelle caricature di Corrado Guzzanti.

La proroga del condono edilizio è un favore inammissibile a quanti in questi anni hanno prodotto danni notevoli ai luoghi della Sardegna.

Berlusconi non solo dichiara con i suoi atti di governo la condiscendenza verso questa deprecabile violazione delle leggi di tutela paesistica(che in Sardegna sono il frutto faticoso dell’Autonomia). Ma offre direttamente un brutto esempio, eludendo i controlli su ciò che succede sulle rive sotto casa sua, in Sardegna appunto. Qualunque statista di un qualsiasi Paese progredito si sarebbe premurato di rendere pubbliche le carte invece di autocertificare nei comizi la liceità e la bellezza delle “migliorie”, fornendo versioni contraddittorie apponendo il segreto che fa sospettare anche al più fedele fan chissà quali violazioni.

Ancora non sappiamo esattamente che cosa nascondano i teloni che avvolgono il cantiere in Gallura. Filtrano immagini e notizie, per il diritto di cronaca esercitato nonostante il cordone di guardie private e pubbliche, e che hanno richiamato l’attenzione della stupefatta stampa estera. Mentre nessuna delle istituzioni locali che reclamano contro lo Stato centralista (specie a proposito della tutela ambientale) ha detto una parola per disapprovare questo imbarazzante spettacolo.

Si discuterà a lungo per accertare se il segreto di Stato apposto da Lunardi sia coerente con gli obiettivi della legge. Se si tratti di abuso edilizio e di potere, se le opere riconducibili alla sicurezza nazionale (?) possano eludere le regole regionali sulla tutela del paesaggio, se le date delle varie autorizzazioni coincidano, eccetera.

Si daranno un gran daffare gli avvocati del premier per confutare e minimizzare. Ma non riusciranno a eliminare l’impressione che poca o nessuna protezione potranno assicurare al presidente e ai suoi ospiti un approdo e una piscina a fronte di temuti attentati che, come è noto, violano ben altre difese.

L’idea insomma è che si tratti di lavori per privatissime necessità (di riservatezza e comodità di un ricco imprenditore) che niente hanno a che vedere con le questioni della sicurezza delle istituzioni di competenza di Sismi, Sisde, Cesis.

Si osserverà che una coltura di cactus o di agrumi esotici, un anfiteatro, un laghetto con papere e rocce che simulano barche in secca, e altri interventi esecrabili sul piano del gusto, c’entrano poco con lo scenario della ruvida macchia gallurese. Ma di brutte case e corredi e addobbi insolenti, spesso autorizzati, è piena la Sardegna litoranea: ogni villeggiante villano reclama la sua dose di ritocchi da apportare a spiagge e scogliere. E Berlusconi offre un esempio altolocato, sublimato dallo sfarzo autocelebrativo. In grado di influire (ancora e autorevolmente) su quella catena di figure tipiche del mercato delle vacanze, che echeggiano codici diversi confusamente conglobati: Capri e Disneyland, Ibiza e Beautifool, Miami e Porto Cervo ecc.

Il presidente è sinceramente convinto di essere nel giusto. E non stupisce l’ultima dichiarazione (prima delle elezioni a Sassari) riguardo alle “migliorie” travisate e che soddisferanno - a suo dire - le curiosità scientifiche di numerose scolaresche. Meta ambita di gite scolastiche venture la collezione di mille e più piante esotiche nel parco di Punta Lada: alternativa conclamata a Versailles, Boboli, Capodimonte, Stupinigi e via dicendo.

Il nuovo governo della Regione avrà tante cose da fare nei prossimi mesi e potrebbe scegliere di trascurare il caso nonostante l’alto significato simbolico. Sarebbe invece opportuno che svolgesse fino in fondo il proprio compito istituzionale, che facesse valere le prerogative regionali nella materia della tutela del paesaggio anche contestando, con i mezzi che la legge offre, il segreto di Stato; almeno per andare a vedere come stanno esattamente le cose nei documenti custoditi nei propri uffici.

(Mi spiegano la fretta con la quale si portano avanti i lavori, specie dell’anfiteatro che dovrà essere inaugurato attorno a Ferragosto. Una serata per la pace. Secondo i bene informati il ricco programma prevede in apertura Gianni Baget Bozzo, solo nella cavea, che legge brani tratti dal “De bello gallico”. Sembra uno scherzo).

Villa Certosa è documentata qui

Ce lo insegnano quasi tutte le esperienza, recenti o meno, che comportano qualche tipo di innovazione. Se la cosa è in qualche modo "governata", partecipata, discussa sin dall'inizio, i conflitti sono se non altro articolati e in qualche modo portano sempre ad un avanzamento. Se le cose sono calate dall'alto si genera quasi sempre e solo la protesta reazionaria, che non porta da nessuna parte e al massimo si limita a spostare la questione nel tempo o nello spazio (fb)

Un meccanismo perverso di produzione che rischia di schiacciare il commercio: capi difettati, scontati fino al settanta per cento, realizzati ad hoc per una nuova, preoccupante rete distributiva.

È la denuncia lanciata nel corso della tavola rotonda su “Factory Outlet: un nuovo trend di consumi” tenuta presso la sede dell'Ascom di Napoli dall'associazione dettaglianti tessili-abbigliamento e pelletteria della provincia di Napoli presieduta da Paola Borriello. All’incontro erano presenti, tra gli altri, Cosimo Capasso, presidente onorario dei Tessili; Vittorio Mori, presidente Assarco; Giovanni Gagliardi, presidente del Gruppo Moda; Renato Tarallo, presidente del centro commerciale “Spirito Santo”; Giuseppe Giancristofaro, presidente del centro commerciale “Via Toledo”.

Al centro della discussione, il fenomeno degli outlet appunto, i grandi centri commerciali ufficialmente sorti per smaltire l’invenduto dell’abbigliamento e che oggi, però, rischiano di annullare il sistema tradizione della vendita al dettaglio. Sotto accusa l’industria nazionale della moda che, in questo periodo di interminabile crisi, sta invadendo il mercato con un’offerta di gran lunga superiore alla domanda. Ecco così nascere un circuito viziato di produzione, pensato fin dall’origine per il sistema delle cittadelle degli sconti e supportato dalle grandi firme della moda, le quali, nel centro delle città, impongono ai negozi i capi griffati da vetrina, rifornendo contemporaneamente gli outlet.

Risultato: la svalutazione immediata degli abiti esposti dai dettaglianti. Nel corso dell’incontro è stato pure presentato un rapporto di Federmoda sui nuovi insediamenti di factory outlet, nati originariamente come spacci aziendali e trasformati in vere e proprie cittadelle dello shopping con strutture per il tempo libero. Durante la tavola rotonda si è discusso non solo delle dinamiche di questo allarmante fenomeno, ma anche delle problematiche giuridiche e degli effetti socio-economici a esso connessi.

Gli outlet non sono più spacci aziendali monomarca che sorgono nelle adiacenze delle industrie; adesso si tratta di veri e propri centri commerciali la cui esistenza dovrebbe ricadere nella competenza delle Regioni, con tanto di analisi delle ricadute del problema sul territorio. Se, da una parte, l’enorme diffusione degli outlet potrebbe far pensare a uno sviluppo positivo dell’imprenditoria del terziario, dall’altra si rischia di dare vita a un mercato drogato sin dalla sua nascita. Inoltre, non solo le griffe arrivano a svalutare se stesse con tali produzioni mirate, ma la stessa catena distributiva risulta compromessa, con la vendita, da parte dell’industria, direttamente nei centri degli sconti e con il salto conseguente degli agenti di commercio e dei distributori all’ingrosso. Per capire l’entità del problema nel nostro paese, basta considerare alcuni numeri. Nella sola Italia sono presenti 12 outlet, a fronte dei 22 di tutta la restante parte d’Europa. Per ogni centro commerciale, inoltre, da noi si trovano in media 130 negozi contro i 68 europei. Iniziatrice di tale esperienza sul nostro territorio nazionale, la società inglese Mc Arthur Glen con il "Designer outlet di Serravalle Scrivia, apertosi nel 2000 e soprannominato “la Disneyland dei saldi”. Si è continuato poi con Valmontone, Conselve, Noventa di Piave, Barberino, Rodengo, Albano di Sant’Alessandro, Santhia, Fidenza, Foiano della Chiana, Molfetta, Bagnolo San Vito. Il fenomeno, pertanto, ha avuto la sua principale diffusione nel nord Italia. A preoccupare i commercianti napoletani è anche l’annunciata apertura a Marcianise di “Capri due”.

Tra le soluzioni principali proposte nel corso della tavola rotonda dei tessili, la nascita di un marchio dell’abbigliamento napoletano e il rafforzamento del potere contrattuale della categoria. Due soluzioni non in contrasto tra di loro e che sole possono garantire la sopravvivenza dei negozianti di qualità nella battaglia contro i colossi dell’outlet.

Nota: Oltre ai pezzi sul tema della sezione Megalopoli, anche sull'Outlet Capri Duedi Marcianise Eddyburg aveva pubblicato poco tempo fa una breve nota

"Italia Nostra" da quando è nata nel 1955, sotto la presidenza del senatore a vita Zanotti Bianco, per difendere il patrimonio storico, artistico e naturale, fino ad oggi, sotto la presidenza di Desideria Pasolini dall´Onda, ha sempre svolto encomiabili battaglie contro gli scempi urbanistici e paesaggistici. Alcune le ha anche vinte ma, soprattutto, è riuscita, ben prima che nascessero i "verdi", a sensibilizzare l´opinione pubblica sui temi della difesa ambientale. Basti ricordare le pluridecennali azioni condotte da una delle sue dirigenti storiche, Teresa Foscari Foscolo, per la salvaguardia di Venezia. Ciò detto reputo che talvolta il pregiudizio ideologico conduca anche "Italia Nostra" a prendere posizioni dettate dal rifiuto contro qualsivoglia progetto innovativo. La difesa di tutto ciò che esiste, si tramuta allora in conservatorismo cieco che riesce a impedire a un buono o anche eccellente progetto di attuarsi.

La opposizione alla edificazione a Ravello di un auditorium progettato da uno dei più grandi architetti del mondo, il brasiliano Oscar Niemeyer, mi appare frutto di questa chiusura cieca che reputa non si debba più costruire nulla a prescindere da ogni criterio culturale e persino da ogni valutazione estetica. Il progetto che il creatore di Brasilia ha offerto gratuitamente all´amministrazione di Ravello e alla Regione campana, contro cui si oppongono in sede Tar sia "Italia Nostra" sia i proprietari del terreno che vorrebbero edificarci un garage, ha ricevuto l´appoggio caloroso di 150 personalità della cultura e dell´arte, da architetti e urbanisti come Fuksas, De Seta, Portoghesi, Alison, Gravagnuolo ed altri a musicisti e musicologi di grande prestigio come Vlad, Sciarrino, Gergev e ai direttori di Santa Cecilia, Cagli, della Scala, Meli, di San Pietro a Majlella, De Gregorio. E di tanti altri, da Massimo Cacciari a Remo Bodei. Persino Legambiente diretta da Ermete Realacci si è pronunciata a favore, mentre il Wwf, che inizialmente si era unito a "Italia Nostra", si è ritirato dal giudizio, convertendosi all´iniziativa. Il progetto di Niemeyer, una elegante costruzione semisferica di ridotte dimensioni (409 posti a sedere), non rappresenterebbe solo un arricchimento al profilo paesaggistico così come, a loro tempo, il Duomo o villa Rufolo, ma anche consoliderebbe la vocazione musicale di Ravello. Non riesumo in questo caso la favola metropolitana secondo cui Wagner avrebbe composto qui il Parsifal (in realtà solo la scenografia originaria del giardino incantato di Klingsor nel II atto si ispirò ai giardini di villa Rufolo che il grande musicista tedesco aveva visitato) ma al prestigioso festival wagneriano che da cinquant´anni vi si svolge e che da due anni è stato inserito in una più ampia programmazione musicale con una presenza anche di altri autori e una suddivisione tematica che spazia dalla musica da camera al film musicale.

Questo festival, cui partecipano maestri, orchestre e solisti di prestigio internazionale presenta oggi tutti i vantaggi e gli svantaggi di svolgersi all´aperto. Così da un lato se il tempo è bello gli spettatori godono anche la vista della costiera amalfitana, mentre quando piove lo spettacolo salta con perdite di centinaia di milioni per l´amministrazione pubblica (Comune e Regione) che lo sovvenziona. Questa la ragione prima - assieme alla possibilità di svolgere edizioni anche nei mesi freddi - che ha spinto la giunta Bassolino a stanziare i fondi per costruire un auditorium per il quale già sono stati ottenuti tutti i permessi e le autorizzazioni (Sovrintendenza, impatto ambientale, commissione edilizia, parere di conformità col piano urbanistico territoriale della penisola sorrentina). Ora la parola spetta al Tar: dare ascolto alle patofobie naturistiche e ai più concreti appetiti degli aspiranti garagisti oppure concedere l´ultimo decisivo placet a una iniziativa culturale di tutto rispetto?

Non per pessimismo inveterato ma per esperienza storica vorrei ricordare che negli anni Cinquanta due grandissimi architetti proposero di offrire a Venezia edifici che l´avrebbero solo arricchita: Wrigth voleva fare una piccola, splendida casa sul Canal Grande al posto di un anonimo edificio ottocentesco, mentre Le Corbusier aveva progettato un nuovo ospedale. Ma il partito di chi non voleva (e ancora oggi non vuole) spostare neppure una pietra - come se Venezia fosse stata costruita, perfetta, in un solo giorno della Storia - l´ebbe vinta anche allora. Auguriamoci che il tempo sia più propizio per l´offerta di Niemeyer.

“Quando l’ingegnere, ci avverte Bourdieu, parla di case è un tecnico, ma un ingegnere che critica pubblicamente la politica del governo diventa un intellettuale”. Quando ingegneri e architetti si occupano di città - come tecnici e come intellettuali- diventano urbanisti. Si è urbanista ( per fortuna) in modo differente; per formazione, esperienza, collocazione- certo - ma soprattutto per la propria capacità di leggere quello che nelle città avviene e, conseguentemente, declinare i singoli elementi della sua trasformazione. Cercare di capire come gli urbanisti (e le urbaniste) oggi leggono la città è un buon metodo per comprendere, anche, come il sapere di cui queste persone sono portatrici riesca, o meno, ad intercettare pratiche e comportamenti di altre persone (i cosiddetti movimenti) che hanno fatto della città il campo principale del loro agire. Abbiamo così pensato di interrogare alcuni colleghi per scoprire se esistono altre possibilità di comprendere, accompagnare e raccontare l’abitare la città come, per dirla con Marx, sogno di una cosa. Le domande sono state montate in modo volutamente ambizioso, a partire dal convincimento che spesso noi urbanisti, con il pretesto della verità delle norme e delle procedure tecniche, stronchiamo desideri ed esigenze concrete della moltitudine che rinomina la città a partire da inedite forme di progettualità sociale.

Organizzate intorno a tre ambiti problematici - la relazione tra urbanistica e città, tra abitare e costruire, tra piano e risarcimento sociale - altrettante domande sono state poste a quattro urbanisti (e urbaniste) che sappiamo costantemente impegnati a riflettere sull'intreccio di competenza tecnica e tensione politica che compone la loro pratica professionale, dentro le amministrazioni come nelle università, tracciando piani come scrivendo libri, seduti accando ai sindaci come in mezzo alle assemblee cittadine. Le loro risposte si configurano come un'apertura di dibattito, un dispiegamento di questioni su cui riflettere insieme. L'urbanistica, certo, è politica; ma come definiamo la politica? L'urbanistica è progetto di città; ma con chi e/o per chi lo disegniamo? L'urbanistica è un sapere tecnico; ma i suoi strumenti sono adeguati al nostro progetto? e quali strumenti per quale progetto? Insomma, non abbiamo cercato l'ennesimo decalogo dell'urbanista di sinistra e, per fortuna, non lo abbiamo trovato. Ciò che invece ci viene offerto è una direzione di lavoro. Non per un’ altra città, ma o ltre questa città.

1. L'Urbanistica e la Città

Desideri e necessità reali di chi abita la città, giorno dopo giorno, sembrano aver finalmente ritrovato la parola. Le città sono oggi attraversate da movimenti -e conseguentemente da pratiche- che pongono concretamente il problema del diritto alla città a partire da quello della cittadinanza. L’urbanistica, con il pretesto della legittimità, sanziona tutto questo. Quale, allora, lo spazio disciplinare dell’urbanistica nei processi di democrazia partecipativa?



Giancarlo Paba - Ciò che chiamiamo convenzionalmente “urbanistica” è da sempre due cose insieme (talvolta separate, talvolta mescolate): disciplina e immaginazione, regolazione e utopia, tecnica e sogno. Credo che in questa fase storica il pensiero e la pratica dell’urbanistica debbano recuperare il versante irrequieto, radicale, alternativo, “politico” della propria tradizione. Ritornare ad essere – come è positivamente capitato in passato – una cultura di opposizione e uno strumento di promozione delle cittadinanze diminuite, difettive, differite (dagli stranieri ai bambini), per le quali la vita non è una quieta condizione di partenza ma un progetto, e la città è ancora un orizzonte, una speranza, un obiettivo.

Anna Marson - Troppo spesso l’urbanistica trascura, in quanto considerati in qualche modo secondari rispetto alla città delle funzioni economiche, problemi evidenziati dai movimenti: la disponibilità di spazi pubblici vivibili e non soggetti a funzioni rigidamente predefinite, un ambiente costruito che sappia accogliere persone con progetti di vita e disponibilità economiche diverse, il diritto di accesso all’acqua, all’aria, a spazi non edificati. Si tratta di temi sui quali la disciplina urbanistica è nata, a cavallo fra ‘800 e ‘900, e che sembravano essere stati resi obsoleti dal “progresso”. I nuovi movimenti urbani ci ricordano che non è così, e che il progetto della modernità occidentale sembra oggi pesantemente fallito rispetto alle illusioni di qualche decennio fa.

Diversa è la questione della democrazia partecipativa, domanda che ha trovato nuova energia a partire da Porto Alegre. Rispetto al problema procedurale di “come” partecipare, è emersa un’esperienza abbastanza diffusa e consolidata di pratiche in campo urbanistico: contratti di quartiere, contratti di fiume, città dei bambini, piani partecipati, progetti integrati di sviluppo locale, agende 21 ecc. E’ sviluppando queste esperienze che l’urbanistica può concorrere alla diffusione dei processi di democrazia partecipativa..

Vezio De Lucia - E’ bene chiarire subito che non esiste l’urbanistica come corpo disciplinare concluso, una volta per sempre. L’urbanistica non è una scienza esatta. L’urbanistica è politica. Il bello dell’urbanistica, se così posso dire, è che la sua modesta base tecnica è adattabile a ogni situazione politica. Perciò, ogni partito, ogni amministrazione esprime, più o meno consapevolmente, una sua politica urbanistica. Importante è saper costruire quella politica.

Dino Borri - L’urbanistica è stata come “disciplina” – sono un po’ riluttante a usare questo termine, per un campo di saperi e di pratiche di cui ho sempre preferito il lato meno strutturato e più utopistico e insorgente – innovata sensibilmente negli ultimi anni dall’ampliarsi della partecipazione sociale. Ne è testimonianza ad esempio la rilevanza ormai acquisita dal “sapere comune” nell’allestimento di piani e progetti urbanistici, spesso in contrapposizione a un “sapere esperto” né efficiente né efficace e soprattutto incapace di misurarsi con le sfide sociali e ambientali emergenti. Ne è testimonianza anche l’attenzione sociale per la qualità dell’”azione” sempre più affiancata quella tradizionale e tecnica per la qualità della “decisione”.

L’urbanistica può d’altra parte essa stessa contribuire, con la promozione di migliori ambienti di vita non solo urbani, al dispiegarsi di forme migliori di consapevolezza civica e ambientale, può contribuire a processi di educazione ambientale, in un rapporto interattivo tra expertise e senso comune. In fondo, anche se forse con un po’ di retorica e di mitologia, guardiamo da sempre alle sapienti costruzioni e alle bellezze di luoghi e città dove più la democrazia si è inverata, dove conflitti sociali anche aspri sono rientrati nel complesso fluire istituzionale delle politiche, di un coordinamento di azione sociale e azione individuale.

2. L'Abitare e il Costruire

I movimenti non sembrano pensare ad un’altra città quanto, piuttosto, attraverso pratiche di progettualità sociale, a costruire forme di resistenza e, in alcuni casi, di esodo dalla città in cui siamo costretti a vivere. Come e in che misura l'urbanista potrà intrecciare i suoi saperi con quelli di questi nuovi protagonisti insorgenti per far sì che la città diventi il luogo dove l’abitare preceda il costruire?



Giancarlo Paba - Come architetti e urbanisti possiamo incidere sui rapporti tra desideri e opportunità (per riprendere un ragionamento di Jon Elster). Nei processi partecipativi, e nelle pratiche dirette di costruzione del proprio spazio di vita, i nuovi abitanti selezionano i propri modelli di abitazione tra le opportunità a disposizione, utilizzano le tecniche conosciute, adattano i propri desideri alle possibilità concrete esistenti e standardizzate. Noi possiamo allargare il campo delle opportunità a disposizione degli abitanti, disseminando le innovazioni, facendo circolare da un’esperienza all’altra le soluzioni migliori, facendo precipitare nelle pratiche partecipative gli stessi risultati innovativi della ricerca (bioarchitettura e biopianificazione). Tornare a fare gli architetti e gli urbanisti, non i “facilitatori”.

Anna Marson - Ogni disciplina è tuttavia fatta di persone, oltre che di un sapere condiviso sedimentato nel tempo: urbanisti (e urbaniste) con idee implicite sul ruolo del tecnico e del rapporto fra sapere tecnico e società a volte molto diverse. Intrecciare i propri saperi con quelli dei nuovi protagonisti insorgenti richiede:

- il riconoscimento dell’importanza dell’interazione diretta con i più diversi portatori di interesse collettivo (versus l’interesse al diritto privato), non delegabile a un qualsivoglia partito;

- la pratica del metodo dell’ascolto, e l’interesse a riconoscere energie sociali utili per la costruzione di scenari alternativi finalizzati al benessere degli abitanti;

- la legittimazione della ‘conoscenza comune’, non tecnica, come conoscenza specifica e situata degna di essere considerata con attenzione e pari dignità delle conoscenze disciplinari.

Tutto ciò non è così facile: in particolare, i partiti sono onnipresenti alle spalle dei committenti (assessori o altro) delle azioni di pianificazione pubblica, e sono generalmente interessati a vietare o limitare il ruolo dell’interazione diretta tra urbanisti e diversi portatori d’interesse, per riservare a sé l’esclusiva della mediazione.

Vezio De Lucia - Mi pare che ci sia in questa domanda un pregiudizio contro la città. Se è così, non sono d’accordo. Perché esodo dalla città? Già nei secoli scorsi si diceva che la città rende liberi. Secondo me, il problema, oggi, è la conservazione o la rivendicazione della dimensione pubblica della città, compromessa dall’esasperazione privatistica, dalla logica dei padroni in casa propria, dal condono, dall’accantonamento dello stato sociale, eccetera. Qui non è possibile approfondire il tema della periferia portato all’attualità dalla tragedia di Rozzano. Credo che non sia sfuggito ai lettori dell’Insostenibile l’allineamento acritico e generalizzato di tanti intellettuali alla campagna contro l’edilizia pubblica. Un brutto segno.

Dino Borri - Preoccupa l’incapacità collettiva di rielaborare la città contemporanea per adeguarla alle complesse sfide socioambientali che la investono. Dalla megalopoli al villaggio si è di fronte a modelli in crisi, per le tante povertà, i tanti inquinamenti, le tante violenze solo in parte visibili. Senza pensare a una palingenesi, è realistico mettere in conto il fatto che città e campagne – dove ancora ne esistono – debbano cambiare fortemente, intrecciare meglio artificio e natura, rigenerarsi, essere capaci di preservare le diversità, attrezzarsi a convivere con gravi problemi di carenza di risorse e di conflitti socioculturali.

I saperi tecnici possono e devono essere stimolati a una più complessa progettualità (non quella delle soluzioni illusoriamente definitive ma quella di più adeguate rappresentazioni dei problemi con cui si deve convivere creando via via anche piccoli spazi di azione) da queste forme di resistenza sociale, che il più delle volte rivendicano maggiore giustizia sociale e ambientale, una vita più semplice, meno distruttiva, tutte cose che migliorano la qualità dei processi urbani e che devono informare ogni tecnica per non renderla inconsapevole e devastante.

L’abitare precede il costruire dove una vita leggera si fa strada, dove rappresentazioni e esigenze del mondo meno materiali delle attuali si fanno strada e le persone che lavorano in vario modo alla organizzazione delle città sanno farsene intrigare.

3. Piano e Risarcimento Sociale

Nella città contemporanea assistiamo a fenomeni sempre maggiori di costruzione di nuove culture dell’abitare. Tali culture, attraverso continui processi costituenti, concretizzano un ideale di comunità aperta e solidale che tende alla costruzione dell’alternativa come risarcimento sociale. Ha ancora senso pensare al piano urbanistico come opportunità per costruire l’alternativa e vendicare le forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale?

Giancarlo Paba - È in atto uno scontro tra città fortezza e città aperta, tra recinzione e apertura dello spazio pubblico, tra strategie di securizzazione e sorveglianza da una parte e reinvenzione della dimensione collettiva della città dall’altra parte. Come sempre possiamo scegliere di stare da una parte o dall’altra: progettare case protette e blindate o nuove residenze collettive, trasformare le fabbriche abbandonate in un recinto commerciale o riprogettarlo come struttura aperta alle nuove culture e ai nuovi stili di vita, immaginare soluzioni urbanistiche per una città permeabile e aperta o progettare gated communities, abbandonarci ad una “sociologia ed estetica della constatazione” della città diffusa (come ha scritto efficacemente Gregotti su Repubblica una paio di giorni fa) o provare di nuovo (come ha sempre tentato di fare l’urbanistica di opposizione) a trasformare la città esistente.

Anna Marson - Il piano urbanistico non è mai stato uno strumento per “costruire l’alternativa”, anche se l’idea di città promossa era diversa da quella prodotta dallo sviluppo edilizio selvaggio. Il piano si è (quasi) sempre posto il problema di come mitigare le domande di rendita privata con la produzione di una serie di beni collettivi liberamente fruibili e con indici di edificazione tali da garantire condizioni di vita decenti.

Rispetto alle “forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale” alcuni piani recenti propongono la rivalutazione e la salvaguardia del patrimonio territoriale locale come forma di resistenza e di autonomizzazione, nella produzione di ricchezza, dall’omologazione dilagante. Non più quindi un semplice “risarcimento sociale”, ma una progettualità, anche sociale, alternativa.

Vezio De Lucia - Allo stato delle cose non vedo alternative al piano urbanistico come strumento fondamentale per la difesa degli interessi collettivi e degli strati sociali sfavoriti. Non è certo un caso che, con il pretesto della modernizzazione, della semplificazione, eccetera, sono proprio i portatori degli interessi fondiari a patrocinare il superamento dell’urbanistica tradizionale. Da questo punto di vista, mi sembra esemplare l’azione condotta a Bologna dalla Compagnia dei Celestini, un’associazione formata da giovani urbanisti che ha denunciato i gravi difetti dell’urbanistica bolognese, anche prima di Guazzaloca. I Celestini hanno puntualmente dimostrato che i nuovi strumenti d’intervento (accordi di programma, piani di recupero, eccetera), che avevano l’obiettivo di migliorare la condizione urbana, hanno invece determinato un suo sistematico e netto peggioramento. Così è dovunque. Attenti perciò a non favorire un’oggettiva convergenza dei movimenti antagonistici con le strategie degli energumeni del cemento armato, come li chiamava Antonio Cederna.

Dino Borri - Le culture contemporanee dell’abitare sono plurali, com’è stato d’altra parte sempre, fatte di una pluralità che riguarda anche risorse, diritti. Si va da modi opulenti nelle città del nord del mondo a modi di povertà estrema nelle megalopoli del sud diseredato le cui baraccopoli sono terribili forse più degli affamati villaggi rurali che le hanno per fuga generate. Spesso proprio nelle forme di abitare più difficili e povere, alle periferie di immense città dalle impressionanti storie, comunità si creano continuamente, vitali e in qualche misura solidali pur nelle difficoltà e conflittualità che le percorrono per le tante durezze.

Il piano urbanistico tradizionale, costruito sulla città sociale moderna, non ha più molto da dire a queste realtà e deve sostituirsi con politiche e progettualità assai più sensibili, plurali, fragili, incerte. D’altra parte il vecchio piano, se è in crisi nella megalopoli povera la cui crescita e il cui sviluppo sono profondamente diversi da quelli della città industriale europea che quel piano tradizionale ispirò, è pure in crisi nella città opulenta del nord del mondo dove il dilagare di una appropriazione capitalistica degli spazi e dei luoghi e di una massiccia deregolazione domandano nuove forme di controllo e progetto, nuove relazioni tra spiriti pubblici e spiriti privati.

Non più valore da tutelare, ma merce su cui speculare. E' questa l'evoluzione che ha subito il patrimonio ambientale della regione Lazio sotto la guida del governatore Francesco Storace (An). Dopo aver tagliato con l'accetta 18 mila ettari di parchi e riserve naturali regionali, la giunta di centro-destra ha scardinato anche la legge sui piani paesistici (Ptpr). Ossia la normativa che regola e coordina tutti gli strumenti legislativi di tutela ambientale. All'una e mezza della scorsa notte, dopo 12 ore e passa di discussione, il consiglio regionale del Lazio ha infatti approvato la modifica della legge sulla Pianificazione paesistica attualmente in vigore (la n. 24 del 1998). Uno scempio che demolisce le tutele ambientali della regione - e apre la porta alle speculazioni edilizie - passato a colpi di maggioranza con l'astensione di Ds e Margherita e il voto contrario di Verdi, Rifondazione e Comunisti Italiani. «Il provvedimento - denunciano Angelo Bonelli e Salvatore Bonadonna, capigruppo in regione rispettivamente di Verdi e Prc - è il peggior attacco all'ambiente messo in pratica dalla giunta Storace». Di «legge pessima» parla anche Alessio D'Amato, capogruppo Pdci in consiglio regionale. Assai più misurato, invece, il giudizio dei Ds, che pur non condividendo l'impianto generale della legge, sono soddisfatti per la conquista di alcune «modifiche di grande rilievo», come quella che consente l'acquisizione al patrimonio pubblico delle aree private dei parchi. Una posizione morbida che, insieme a quella della Margherita, ha suscitato scandalo e «sconcerto» tra gli ambientalisti. Una polemica tutta interna al centro sinistra, che la maggioranza non ha mancato di sottolineare. Tutte le denunce sul testo di legge liquidato, invece, il centrodestra le respinge al mittente. Anzi rilancia. «Le modifiche - dichiara infatti Maria Annunziata Luna, capogruppo della lista Storace - garantiscono valorizzazione e sviluppo ai territori sottoposti a vincolo».

Sta di fatto, però, che grazie ai nuovi Ptpr sarà possibile realizzare nuove edificazioni e sanare gli abusi edilizi (sicuramente quelli fatti fino al 1985) sulle fasce costiere marittime, di fiumi e laghi, il tutto in deroga al vincolo nazionale di protezione. La fascia di tutela sugli argini di fiumi e corsi d'acqua, inoltre, si riduce dagli attuali 150 metri ad appena 50. Tra le novità più eclatanti del provvedimento c'è anche la deroga al vincolo statale nei territori boschivi, che consentirà di costruire sopra i 1.200 metri. Con la nuova normativa arriva anche il via libera all'aperura di nuove cave in aree vincolate. Come se non bastasse, in tutti i casi in cui viene liquidato l'uso civico si elimina anche il vincolo paesistico, mentre non è prevista alcuna autorizzazione per i tagli culturali dei boschi. Una voltra approvato, il Ptpr potrà essere modificato dalla regione ogni due anni e anche i comuni potranno proporre cambiamenti per esigenze di sviluppo. La nuova legge, inoltre, prevede una serie di programmi di intervento sui quali sarà possibile applicare deroghe ai piani territoriali paesistici e perfino al ptpr: cioè operare anche in difformità ai piani di tutela ambientale. Con lo stesso meccanismo (la deroga al Ptpr), la regione potrà individuare nuovi parchi archeologici e culturali, o paesaggi protetti.

Le sovrintendenze archeologiche, invece, sono state completamente esautorate dal controllo del territorio. Le uniche segnalazioni ad avere efficacia, infatti, saranno quelle del ministero dell'ambiente e della regione. Dulcis in fundo, l'articolo 35 bis del testo approvato concede la sanatoria a tutti gli abusi realizzati su aree vincolate da leggi statali o regionali, purché ricadenti in piani urbanistici attuativi (strumenti assai diffusi sul territorio regionale).

A legge approvata rispuntano fuori vecchi progetti imprenditoriali, come quelli che prevedono la realizzazione di 200 house boat per usa turistico sul lago di Paola ( in pieno parco nazionale del Circeo) e l'abbattimento di 5.000 alberi sul versante nord del Terminillo per far posto a una nuova pista da sci.

Intanto, a meno di 24 ore di vita del provvedimento, Italia nostra, Legambiente, Wwf e Sole che ride promettono battaglia. Per gli ambientalisti, infatti, la nuova legge «dimostra una volontà di smantellamento sistematico di ogni valore e livello di tutela». La prima mossa, dunque, sarà una lettera indirizzata al presidente Ciampi, garante della Costituzione. Poi toccherà alla mobilitazione di piazza.

Nel 2000 è avvenuta una svolta nella storia del pianeta. Una svolta al termine di un processo che potrebbe essere cominciato sessanta secoli fa. Ma anche centoventi. Gli esseri umani che vivono in città hanno superato quelli che vivono in campagna. Nessun festeggiamento, nessuna cerimonia. Ma è da qui che parte Guido Martinotti, sociologo urbano, professore all´Università di Milano-Bicocca, di cui è anche prorettore, nella sua riflessione sullo stato di salute della città, sulla sua forma e sulle sue trasformazioni, sulle città che si ingrandiscono e su quelle che si rimpiccioliscono, su come ci si vive e su come ci si muove o, soprattutto, su come ormai non ci si muove più. Tutto questo è al centro della terza edizione di «Mobility Venice», un forum internazionale che si è aperto ieri a Venezia (vedi il box in questa stessa pagina).

Martinotti constata l´avvento di una nuova forma di città, che procede contemporaneamente al successo della dimensione urbana nel confronto durato molti secoli con la campagna: è nata la "meta-city", la "città-oltre", una concentrazione territoriale che supera non solo l´antica città cui i millenni ci hanno abituato, ma anche la stessa, recentissima, area metropolitana. Un urbanista, Francesco Indovina, la chiama "città diffusa". È un agglomerato edilizio e di strade che giorno dopo giorno consuma ettari di suolo, porzioni irriproducibili di paesaggio. Non è abusivismo: stando al censimento, la superficie agricola totale che nel 1990 arrivava a 23 milioni di ettari, nel 2000 non superava i 19 milioni 700 mila ettari. Questa marmellata edilizia accorpa città un tempo distanti, si slabbra senza confini amministrativi, sembra una nebulosa, ma è pur sempre un oggetto concreto, visibile a occhio nudo, governato non si capisce da chi, certo non da organismi rappresentativi come il Comune o la Regione.

Professore, si può parlare ancora di città?

«È un termine insufficiente, perché non rende le modifiche degli ultimi cinquant´anni almeno, tutte orientate in un´unica direzione, l´enorme ampliamento dell´urbano».

Al sostantivo va necessariamente abbinato un aggettivo: città storica, metropolitana, densa, spontanea, diffusa, ecc.?

«Questi e altri ancora. I tentativi terminologici procedono incessanti: non-luogo, urban realms, edge city, metropolitan fringe?»

Eppure, stando ai dati statistici, le città perdono abitanti. Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino al censimento del 2001 contavano gli stessi residenti di venti, trenta, persino cinquant´anni prima. E lo stesso accade a Detroit o a Lipsia?

«È vero. Milano ha pochi più abitanti del 1936. Ma queste misurazioni si riferiscono alla città di notte, quella che dorme. Non a quella che di giorno si satura di persone e di auto. Una volta le due entità si sovrapponevano. Ora non più. Ed è per questo che in sociologia si è introdotta l´espressione city users».

Com´è una città che perde residenti?

«È una città che invecchia. Milano ha quasi il 29 per cento di ultrasessantenni, una quota in crescita continua. Detto questo, pur restando ai dati dei censimenti, la nostra resta un´epoca di urbanizzazione».

Quali dati?

«In Europa, in America e in Asia il 70 per cento delle persone vive in città. In Italia questa percentuale è di poco superiore alla metà. Ma già in Francia è superiore. Fino a trent´anni fa crescevano solo le città occidentali, ora si dilatano quelle cinesi o africane. E tenga conto che l´espulsione dalle campagne è agevolata dalle multinazionali dei semi geneticamente modificati, che impongono immense estensioni e pochissima manodopera».

Ed è in questa fase, lei dice, che avviene nel mondo il sorpasso delle città rispetto alle campagne.

«Sono stime delle Nazioni Unite. L´urbanizzazione è un cammino che procede dalla fondazione di Gerico in Palestina, le cui mura risalirebbero a diecimila anni prima di Cristo, di Ugarit in Siria o di Uruk, la città sumera con i suoi bastioni, un´organizzazione sociale e persino un hinterland».

Ma proprio nel momento in cui raggiunge l´apice del suo sviluppo, la città cambia completamente la sua forma. È così?

«La città è un organismo vivente. Per sessanta e più secoli ha fronteggiato in condizione di minorità il mondo rurale. Da due secoli la situazione è andata via via mutando, fino a ribaltarsi. Ma nel frattempo la forma della città è radicalmente mutata».

E si arriva così a quella che lei chiama "meta-city". Vogliamo vederla più da vicino?

«Volentieri, ma devo partire dagli anni Venti del Novecento, quando si affaccia, soprattutto sulla scena americana, una prima generazione di città moderna, la città fordista, largamente dominata dall´industria pesante e dall´incipiente diffusione dell´automobile privata».

Cui è seguito che cosa?

«È seguita una seconda generazione, dal dopoguerra fino a tutti gli anni Sessanta. La chiamerei the car-happy city».

La città dove si è felici di usare la macchina?

«Esattamente. Ne era simbolo una celebre canzone di Charles Trenet. Oppure il film Il sorpasso. È la città che si espande, la città della ricostruzione e dello sviluppo capitalistico, così in Occidente come in Asia. L´auto serve a muoversi dalla periferia verso il centro e la città è costruita sul concetto della mobilità, che è determinato anche dal valore dei suoli. Chi ha più soldi vive in centro, chi ne ha meno, va in periferia».

E la terza fase?

«È quella in cui la città si è dilatata, tracimando oltre i propri confini, comprese le periferie tradizionali. Fortunatamente è anche emersa la consapevolezza del fenomeno, dovuta agli alti costi sopportati da chi vive in questi agglomerati, costi energetici, costi di congestione e di inquinamento. In termini molto ottimistici si può definire questa come la fase della conservationist city».

Eccoci arrivati a quello che oggi è diventata la città.

«La società periurbana, chiamiamola così, è un territorio di primaria importanza per capire la nuova città. Dal punto di vista morfologico è composta di varie forme insediative: aeroporti, centri commerciali, quartieri residenziali, infrastrutture per il tempo libero, ma anche semplici agglutinazioni di diverso tipo intorno a strade, autostrade, caselli autostradali, ferrovie. Provi ad andare lungo il corridoio che scivola da Piacenza a Forlì: non c´è più uno spazio libero».

Perché non include anche gli stabilimenti industriali?

«Non perché siano scomparsi. Le fabbriche hanno perso l´originaria funzione di ordinamento del territorio che avevano un tempo».

È un processo ineluttabile?

«Nulla lo è. Certamente quegli insediamenti sono favoriti dallo sviluppo tecnologico legato ai modi dell´abitare».

Che vuol dire?

«Le case devono diventare molto più comode e anche più grandi perché si riempiono di macchine. Ecco perché esplode la tipologia della villetta. Un tempo le macchine erano time saving, aiutavano a risparmiare tempo - la lavatrice, la lavastoviglie, che da anni però non registrano significative innovazioni. Adesso le macchine servono a consumare il tempo risparmiato: la tv e il computer fondamentalmente. E non solo. Contribuiscono a trasferire dentro casa, in una specie di agorà privata, ciò che prima era collettivo».

In Italia il fenomeno ha le stesse caratteristiche di altri paesi europei?

«Alla fine del secolo scorso oltre metà della popolazione francese viveva nel periurbain. E questa è una tendenza che, con qualche differenza, si generalizza in tutta Europa. In Italia la proporzione è leggermente inferiore perché resiste un fitto insediamento di città medio-piccole».

La città diffusa, quella, per esempio, che si è propagata nel Nord Est, è molto onerosa. Quel modello economico è in affanno. Quali sono i principali costi?

«Ne parlavamo prima: l´inquinamento nell´area padana è fra i più elevati del mondo, simile a quello nel triangolo fra Chicago, Boston e Washington. La città diffusa o quella che si distribuisce lungo corridoi stradali non può essere coperta da un sistema di trasporto collettivo, che se dovesse rincorrere i brandelli sparsi di città avrebbe oneri pazzeschi. È il dominio delle auto private, che faranno lievitare il costo del petrolio a cento dollari il barile. Ed è il dominio della congestione».

Titolo originale: The 21st Century Comprehensive Plan, traduzione di Fabrizio Bottini

[...] Ho iniziato a pensare al futuro, a quale forma potranno prendere la pianificazione e i piani nel secolo che arriva. Nonostante siano senza dubbio molti, i fattori che influenzeranno e daranno forma all’urbanistica, voglio concentrarmi su cinque modi in cui i piani urbani stanno già iniziando a cambiare mentre ci avviciniamo al nuovo secolo.

1 - Orientamento a una “visione” – La pianificazione generale ha sperimentato un boom dopo la seconda guerra mondiale. Infatti, molte città hanno iniziato a sviluppare i loro land use plans durante gli anni Cinquanta. Uno sguardo in prospettiva a quei piani mostra, in generale, un approccio orientato ai problemi. Venivano identificati problemi e questioni, e proposte soluzioni. Questo orientamento ai problemi prosegue fino al giorno d’oggi, ma con una nuova tendenza. Anziché iniziare il processo di piano con una lista di questioni e problemi, le città, con un esercizio di visione in prospettiva, costruiscono un’immagine o idea di cosa lo spazio locale intende fare di sé stesso, cosa vuole realizzare e diventare. Una volta sviluppata e adottata, questa visione prescelta diventa il punto di convergenza o meta da perseguire. Il processo di piano che ne risulta delinea la sequenza di eventi e azioni che la comunità dovrà intraprendere per realizzare la visione.

2 – Una base tematica – Le tradizioni in urbanistica cambiano lentamente. Ad esempio, prendete in considerazione il vostro piano regolatore generale e i suoi contenuti. Posso tentare di indovinare che il vostro piano sia organizzato per capitoli o punti dedicati alla casa, ai trasporti, ai servizi urbani, e simili. Come risultato di questo stile organizzativo, il lettore, e allo stesso modo la città, talvolta percepiscono ciascun capitolo o punto come indipendente dagli altri. Come sanno molti planning commissioners, si tratta di una percezione sbagliata, Per superare questo schema mentale, i piani stanno cominciando a riflettere uno stile “tematico”. Anziché avere distinti capitoli dedicati a singoli argomenti, i piani si concentrano su tematiche ampie, come la crescita equilibrata, la conservazione dei caratteri rurali, l’accresciuta vitalità economica, e via di seguito. Questo stile di pianificazione integrata aiuta il lettore a comprendere le interdipendenze e correlazioni esistenti nella città.

3 – Uno sforzo di collaborazione – Perché la pianificazione abbia davvero un significato, i cittadini devono essere coinvolti nel processo. Gli urbanisti, indipendentemente dal loro talento e capacità, se lavorano in modo isolato e lontano dai destinatari del piano, non saranno in grado di costruire piani che la comunità possa sentire propri. Un processo di collaborazione offre una modalità più aperta, inclusiva, di coinvolgere i cittadini nel quadro generale della strategia di piano.

4 – Focalizzazione sulla scala sovracomunale Per la maggior parte di questo secolo, i piani generali urbani sono stati sviluppati mostrando scarsa considerazione per la regione circostante. Nell’ultimo decennio, comunque, le trasformazioni del sistema economico, tecnologico, finanziario, e nelle politiche statali e federali che influiscono sull’uso dello spazio, hanno reso chiaro come i sistemi locali siano interdipendenti. In quanto tali, le città sono sempre più consapevoli di dover lavorare insieme a risolvere problemi comuni. L’inserimento nel quadro di un bilancio regionale, o di una sezione dedicata alle strategie di impatto a questa scala nei piani locali, - insieme a più ampi sforzi per assicurare che i piani di comunità confinanti siano coerenti l’uno all’altro – diventerà indubbiamente una pratica più comune negli anni a venire.

5 – Oltre la carta – I piani del ventunesimo secolo rifletteranno anche l’era dell’informazione. Negli anni recenti, molte città hanno fato uso delle televisioni locali per familiarizzare un pubblico più vasto con la pianificazione urbana. Allo stesso modo, molte comunità stanno iniziando a utilizzare internet per mostrare bozze di parte dei propri piani, o l’elaborato finale. Nel futuro, le immagini di realtà virtuale e le simulazioni al computer dei cambiamenti di uso del suolo diventeranno di uso comune, consentendo alle persone di “vedere” davvero come potrebbe cambiare l’aspetto fisico delle proprie città in seguito a diverse scelte generali.

In definitiva, l’urbanistica non resterà immobile nella transizione al nuovo secolo. Un nuovo secolo che promette di essere un’epoca stimolante. Sarà nostro compito assicurare che anche i nostri piani si mantengano dinamici e efficaci.

Nota: qui, al sito del Planning Commissioners Journal, la versione originale, insieme a molti altri saggi (fb)

Ci risiamo: negli spazi già intasati della grande distribuzione entra un’altra attività, e di tipo piuttosto “pesante”. Pesante certamente per gli aspetti ambientali specifici, come chiunque può ben capire trattandosi di carburanti, ulteriore pavimentazione e impermeabilizzazione ecc. ecc. Pesante, perché da un lato riafferma la centralità automobilistica dei centri commerciali, dall’altro perché avrà ripercussioni sul tipo e distribuzione del servizio probabilmente simili a quelle note sugli altri settori commerciali: desertificazione, vuoti, dismissioni.

Naturalmente, e come forse è ovvio nel suo mestiere, la giornalista saluta l’abbassamento dei prezzi. Ma come da tempo ci avvertono dal resto del mondo, ci sono “prezzi diversi”, che si pagano in altri modi e tempi. E li pagheremo cari, e li pagheremo tutti, in particolare se la cosa sarà gestita male, in modo semplificato, magari come l’ennesima lotta corporativa fra vecchi benzinai avidi e un po’ unti, e qualche bellezza nazionalpopputa in tacchi a spillo che ci ammalia “risparmia fino a 4 euro per ogni pieno”. Salvo pagarne una ventina in altri costi fissi più o meno indotti. In questo continuo drive-through che, anche per un automobilista scorazzatore appassionato come il sottoscritto, sta diventano troppo obbligatorio. (fb)

Lucca, a ottobre la Conad aprirà una stazione di servizio

E' la prima di un gruppo italiano. Ogni rifornimento, meno 4 euro

Dopo la spesa, ecco il distributore

Arriva il pieno all'ipermercato

di LUISA GRION



ROMA - Risparmiare sulla benzina si può. Più o meno 4 euro al pieno. E magari se ne può approfittare per fare la spesa della settimana. Tutto sta nel scegliere una stazione di servizio che stia a ridosso di un ipermercato e che sia rigorosamente gestita dall'ipermercato stesso. Negli altri paesi europei lo fanno in molti, in Italia no. Perché le stazioni di servizio così organizzate - oggi - sono solo 4. Per risparmiare, bisogna per forza andare a Nichelino (provincia di Torino), Portoguaro (Venezia), Massa o Bussolengo (Verona). Tutti ipermercati di matrice francese: Carrefour i primi tre, Auchan l'altro. Da ottobre però ci sarà una possibilità in più: Lucca, dove per la prima volta un gruppo italiano, Conad, alleato con i francesi della Leclerc, aprirà una stazione di servizio a marchio suo assicurando sconti di 6-7 centesimo al litro.

Il mercato del "pieno" italiano si divide infatti in tre fasce: quella delle stazioni di servizio direttamente gestite dalla compagnie petrolifere (circa 23 mila impianti); quella delle stazioni gestiti dalle compagnie, ma aperti a ridosso di un ipermercato (sono una ottantina e garantiscono sconti di 2-3 centesimi al litro) e infine le stazioni che gli ipermercati aprono in proprio, garantendo sconti fra i 5 e 7 centesimi. Negli altri paesi europei le proporzioni sono completamente diverse: in Francia il 50 per cento della benzina consumata è venduta presso gli ipermercati. In Italia la quota "scontata" è dell'1,4 per cento, quella "superscontata" è irrisoria.

Il carburante, dunque, per la grande distribuzione italiana, resta un miraggio. Rispetto agli altri paesi europei le restrizioni all'apertura di stazioni di servizio sono enormi. Il potere di concedere o meno le autorizzazioni è gestito dalle Regioni che subiscono pressioni dai benzinai e dai gruppi petroliferi.

La liberalizzazione - introdotta da un decreto voluto dall'ex ministro Bersani - non è mai decollata. Mentre Francia, Spagna e Belgio non pongono limiti, da noi ogni regione può fissare vincoli: si va da quelli che riguardano la superficie di vendita, a quelli che determinano la distanza minima dal distributore più vicino, all tetto di "quote" invalicabili. Ogni Regione decide da sola: ci sono quelle più "aperte" come la Toscana, e quelle più "chiuse" come Lombardia (dove i gruppi francesi hanno sì sfondato, ma rilevando stazioni già aperte) o la Puglia. "Le carte per aprire a Lucca sono pronte da un anno e mezzo - dice Francesco Pugliese, direttore generale della Conad - ma entro l'anno speriamo di fornire di un distributore gli altri nostri 14 ipermercati ed entro il 2005 anche i nuovi 16 punti che inaugureremo. La benzina Conad non sarà il nostro core-business per cui potremo permetterci margini di guadagno più bassi. Tanto più che la partnership con il gruppo Leclerc che raffina direttamente e conta su 45 depositi petroliferi di proprietà ci garantisce rifornimenti a prezzi contenuti".

Molta voglia di espandersi ce l'avrebbe anche Carrefour: "Vorremmo vendere benzina scontata in tutti nostri centri, anche nei negozi di vicinato - dice Cesare Magni, direttore sviluppo per la rete italiana - i primi a subire gli effetti di questa chiusura sono i consumatori". Stessa linea alla Auchan: "Il nostro obiettivo - dice Patrick Espasa, direttore generale - è di aprire quante più stazioni possibili"

E la grande distribuzione italiana? Conad a parte, è un po' spaventata dalla "palla al piede" rappresentata dalla burocrazia. Ma non sembra intenzionata a battere in ritirata tanto presto di fornte a quello che si preannuncia come un buon affare. Tanto è vero che anche la Coop sta mettendo a punto i suoi piani, giunti a una fase che si definisce già "avanzata".

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