loader
menu
© 2024 Eddyburg

"Abbiamo vinto", ha annunciato il comando americano da Falluja. Davvero? Migliaia di case distrutte, centinaia di migliaia di cittadini in fuga, un rapporto di 40 a uno dei morti iracheni rispetto agli americani e i conti finali non sono ancora stati fatti. Una vittoria o un massacro che danno una nuova feroce svolta alla guerra nel Medio Oriente?

Di certo Falluja rappresenta una svolta nella propaganda e nella retorica di questa guerra. Scompare uno dei grandi temi dell'intervento: la ricostruzione. Già difficile da capire alla vigilia della guerra, già paradossale, prometteva la ricostruzione di distruzioni che i ricostruttori si accingevano a compiere. E cercava di coprire i buoni affari che le ditte americane si ripromettevano di fare appaltando lavori. Lucrosi secondo le direttive degli esperti economici che seguivano l'armata.

La distruzione di Falluja, pare 50 mila edifici distrutti o danneggiati dai bombardamenti aerei e terrestri, dimostra che agli occhi del comando militare la distruzione è più importante della ricostruzione, dimostra che il futuro di una città di 300 mila abitanti conta meno che la lezione del terrore.

Questa svolta sul campo di battaglia apre interrogativi sul rapporto negli Stati Uniti fra politica ed esercito, fra la Casa Bianca e il Pentagono, che forse spiegano le dimissioni di Colin Powell, il generale che non amava la guerra. Ci si chiede se il massacro e la distruzione di Falluja siano stati imposti dal comando militare contro il parere del governo o se ormai il vero governo sia il gigantesco apparato di guerra che non sopporta di essere colpito e umiliato dalla ribellione.

Il no alla ricostruzione significa anche il no alla favola della democrazia che la virtuosa America voleva donare all'Iraq. Non è certo una tale barbara presentazione che può invogliare gli iracheni e in genere i popoli del Medio Oriente ad accettare un sistema politico e civile che gli è sconosciuto, ma che ostenta un totale disinteresse per le vite umane.

Falluja conferma agli occhi degli arabi e dell'Islam che i 'cristiani' d'America concepiscono la pace come una conquista, l'occupazione come un protettorato in cui l'occupante ha diritto di vita e di morte. Il primo ministro collaborazionista Ayad Allawi è andato oltre il comando militare americano nel giustificare il massacro, ha detto che a Falluja è stato ristabilito l'ordine mentre continua l'eliminazione dei superstiti sospetti di terrorismo, cioè di chi capita capita, cadaveri lasciati nelle strade perché su chi si avvicina sparano i cecchini con i fucili di alta precisione.

Falluja lascia il suo segno pesante anche sulla scelta politica del governo Bush appena rieletto e sui suoi rapporti con l'Europa. L'attacco a Falluja a lungo rinviato è scattato a rielezione avvenuta, segno che il potere politico si è allineato con quello militare per la continuazione di una politica aggressiva ed espansionista.

Lo conferma il rimpasto del governo da cui escono colombe come Powell e in cui entra un superfalco come Paul Wolfowitz e cresce la Condoleezza Rice, quella che alle obiezioni dei moderati risponde "me ne frego e tiro diritto". Una scelta che aumenta la distanza fra gli Stati Uniti e l'Europa, come dimostra il no parlamentare degli ungheresi al mantenimento del loro contingente.

Che dire di questa scelta che appare contraria a ogni ragione e che potrebbe aprire la strada a una catastrofe dell'umanità? Che la ragione non ha mai trattenuto gli aspiranti al dominio mondiale, non ha impedito a Napoleone di cacciarsi con la sua grande armata nei pantani spagnolo o russo, o l'imbianchino di Monaco di sfidare tutte le grandi potenze o al nostro Mussolini di entrare in guerra senza i soldati e i mezzi per farle. E non impedisce agli Usa di ripetere, a Falluja una pagina vergognosa.

Bianchi Bandinelli e la morte di Gentile

Luciano Canfora

la Repubblica del 12 agosto 2004

Caro Direttore, l´estate è sempre stata favorevole ai tormentoni parastoriografici. A volte ritornano gli stessi episodi, forse perché stimati più sapidi. La morte di Giovanni Gentile è uno dei preferiti. Così quest´anno abbiamo appreso (Corriere della sera dal 6 al 10 agosto) che Ranuccio Bianchi Bandinelli avrebbe da semplice «simpatizzante» del PCI, il 15 aprile del 1944, mandato nientemeno che un commando gappista, la più segreta delle organizzazioni militari comuniste nella Resistenza, ad ammazzare Gentile. (Solo vari mesi più tardi, il 7 settembre, Bianchi Bandinelli si candidò ad essere accettato nel partito). Che qualcosa del genere potesse accadere lo può credere chi sia del tutto ignaro della storia di quei mesi.

Quando Gentile fu ucciso, appunto il 15 aprile del ´44, tre professori furono presi in ostaggio «per rappresaglia»: Calasso (il padre dell´editore), Codignola e Bianchi Bandinelli. Furono rilasciati dopo circa un mese per intervento fermo ed efficace della famiglia Gentile. Il 10 maggio Bianchi Bandinelli, che era legato loro da antica data, scrisse a Federico Gentile questa lettera che solo un dietrologo alquanto banale può ritenere frutto dell´ipocrisia di un criminale incallito: «Caro Federico, nella tragedia acerbissima che si è abbattuta sulla vostra famiglia (e che posso ben valutare conoscendo quanto uniti tutti voi foste sempre a Vostro padre e quanto Egli vi dava di se stesso) unica notizia di qualche consolazione fu quella del tuo ritorno». (L´ha pubblicata, in un eccellente saggio sul grande archeologo, Marcello Barbanera, Skira, Milano, 2003, pag. 170: in fondo i libri è meglio leggerli).

Suisola, uno dei componenti il commando, dichiarò il 12 maggio 1981 al Giornale di Montanelli: «L´ordine di colpire Gentile ci venne via Radio dal comando alleato». Benedetto Gentile, figlio del filosofo, nel 1951 pubblicò un importante saggio sulla fine di suo padre, pieno di dignità e di concretezza, dove si legge (pag. 55): «Avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenute dopo l´arrivo delle truppe ?alleate´ in Firenze accennarono a istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza in Toscana». Non c´è nulla di più inedito dell´edito.

Chi si schierava, rischiava la morte" Simona Poli intervista Claudio Pavone

la Repubblica dell’11 agosto 2004, edizione di Firenze



Non era a Firenze durante i giorni della Liberazione. Il partigiano Claudio Pavone, classe 1920, in quell´agosto di lotta si trovava nel carcere di Castelfranco in Emilia, tra Bologna e Modena, poco distante dalla linea del fronte. Studioso del periodo bellico, autore di saggi e libri sulla Resistenza, già docente di Storia contemporanea all´università di Pisa, Pavone ricorda oggi che cosa significò per lui, chiuso in prigione, la notizia della liberazione di Firenze.

Quell´11 agosto pensò che la fine della guerra fosse più vicina?

«Sì, fu un passaggio importante perché Firenze poteva segnare una delle tappe finali dell´offensiva estiva che si doveva concludere nella valle Padana. Poi invece seguì la grande delusione, ci aspettavano altri mesi difficili. Alla fine di agosto riuscii ad uscire dal carcere e andai a Milano, quindi vissi quella fase altalenante tra speranze e disillusioni un po´ più da lontano».

Nei suoi scritti lei ha spesso sottolineato come la lettura degli eventi storici si arricchisca sempre di elementi diversi, di nuove interpretazioni. Come trasmettere allora la memoria di quei fatti senza tradire lo spirito che vi animava allora?

«E´ normale ed è anche giusto, direi, che l´interpretazione che si dà di grandi fatti storici cambi via via che ci si allontana da quegli eventi. I passaggi importanti sono quelli generazionali. Noi, testimoni e protagonisti della Resistenza, siamo ormai i nonni e quindi sarebbe assurdo pensare che le domande che ancora pone a noi la nostra memoria fossero le stesse di quelle che si pongono i giovani».

Rileggere la storia non sempre è un´operazione neutra.

«Certamente. Come esiste il rischio della mummificazione così esiste anche quello della revisione, realizzata non studiando i fatti ma capovolgendo i giudizi che sono stati dati. E´ bene mettere in luce episodi che erano stati taciuti ma senza per questo indurre a credere che in fondo le parti in lotta si equivalessero, quasi che ci fossero in campo due minoranze di faziosi che si combatteveno per le loro fedi. I morti vanno rispettati tutti ma da morti. Da vivi erano su fronti opposti».

Come nel resto d´Italia anche a Firenze la Resistenza fu vissuta, fiancheggiata, partecipata dalla gente.

«Questo è un aspetto importante, che è stato travisato e strumentalizzato. Non è vero che "la gente non stava da nessuna parte", che "il buon popolo italiano" non parteggiava né per i fascisti né per i partigiani. Si trattava di stare dalla parte della libertà, non esisteva solo la Resistenza armata di chi imbracciava il fucile. Non si può dimenticare quanti rischiarono la vita offrendo il loro aiuto e la loro opera senza armi in pugno. Questa sorta di "indifferenza della gente" è un modo offensivo di raccontare il popolo italiano, mentre in tutta l´Europa è stato valorizzato il concetto di Resistenza civile. Da resistente ho vissuto quella sensazione, sapevo che le probabilità di incontrare persone che non mi avrebbero denunciato era superiore a quella contraria».

Fascismo e comunismo sono due parole che non hanno più riferimenti concreti nell´attualità. Sarà più difficile per i ragazzi di domani capire cosa accadde in quegli anni?

«Forse sì, se si continua a pretendere di raccontare la storia di un popolo tutto in armi. Ma non se si farà comprendere la tragicità della situazione e le scelte dolorose di fronte a cui si trovarono gli italiani. Lasciando intatte nella ricostruzione tutte le sfumature di quel periodo, evitando di affondare in una gelatinosa uguaglianza sotto cui si introduce una rivalutazione della Repubblica Sociale. Ovviamente c´era una vasta varietà di atteggiamenti, molta gente non si esponeva e tirava a campare, anche questo scenario va rappresentato. Ma una domanda che i giovani potrebbero fare è: che cosa distingue la violenza dei fascisti dalla violenza partigiana? Bisognerà rispondere spiegando che da una parte c´era la libertà, dall´altra il nazifascismo. Nessuna pretesa di buona fede può essere tirata in ballo per chi si schierava a fianco di Hitler e Mussolini».

Eppure la decisione del Comune di Firenze di intitolare una strada a Bruno Fanciullacci, il partigiano che uccise il filosofo Gentile, ha suscitato molte proteste da parte di An.

«In una guerra civile - anche se questa definizione è stata bandita dalla sinistra -nessuno che si schieri con grande nettezza è immune dal rischio di essere ammazzato. Personalmente provo ripugnanza a credere che se si uccide un grande intellettuale si fa qualcosa di male mentre invece se si ammazza un qualsiasi ragazzo di diciotto anni non è così. Gentile si è schierato ed è morto di morte violenta come tanti altri. Ha torto chi condanna quell´uccisione».

L´Italia che nacque dalla Resistenza fu quella che aveva sognato?

«Chi aveva visto la Resistenza come un´utopia è sicuramente andato incontro a molte delusioni, ma non tutta la Resistenza è stata tradita, anche i moderati hanno combattuto e vinto. La scelta della Repubblica e la Costituente furono due conquiste gigantesche. Allora della nostra Costituzione ero incline a vedere i difetti, adesso che vogliono stravolgerla ne apprezzo tutti i pregi. Teniamocela cara quella Carta».

L´indicibile orrore della strage di bambini nella scuola di Beslan provoca tre diversi tipi di reazione: la rassegnazione, l´anatema e la chiamata alle armi, l´analisi dei fatti.

Prima di entrare nel merito di quanto è accaduto, del come e del perché dell´orrore e anche del che fare esattamente tre anni dopo l´11 settembre 2001, voglio esaminare quelle tre diverse reazioni che agitano l´animo di ciascuno e di tutti gli uomini e le donne che abitano il pianeta e che hanno il privilegio di poter sollevare la testa dalle ciotole di riso e dalla brocca d´acqua inquinata che sostentano la loro breve e devastata esistenza. Perché per quei due miliardi di dannati non c´è orrore che possa scuoterli dall´incombente agonia che grava su di loro e sui loro già condannati bambini.

La rassegnazione. E l´assuefazione. Chi vi dice che porteremo per sempre negli occhi le immagini di quei bambini seminudi, sporchi di sangue, con la morte negli occhi o già scomposti cadaveri ammucchiati l´uno sull´altro o feriti e gettati sui camion in corsa verso inesistenti ospedali come gli appestati buttati sulle carrette dei monatti; chi vi dice che non saranno mai dimenticati e che serviranno almeno da monito affinché i fatti orribili non si ripetano, mente e sa di mentire.

Anche l´orrore si cancella, anzi soprattutto l´orrore. Per sopravvivere la gente lo rimuove. Lo elabora. Lo digerisce. Lo dimentica. O ci si abitua.

Impara a conviverci. Chi pensa ancora ai morti di Hiroshima e Nagasaki? Chi ai lager staliniani? Chi ai forni dell´olocausto? La sera di venerdì, dopo le raccapriccianti immagini della strage dei bambini, le televisioni di tutto il mondo hanno cambiato registro e noi con esse. Varietà, serate estive al suono di cariocas o di languide canzoni. Da noi si discettava su questa o quella attricetta in transito a Venezia e Amadeus riproponeva con diligenza i suoi quiz demenziali.

L´orrore? Certo, ma a dosi omeopatiche. Se è fatale conviverci rassegniamoci perché contro la fatalità non c´è che opporre la rassegnazione.

Israele insegna. I palestinesi di Gaza insegnano. I superstiti di tutte le guerre insegnano. Dopo il mattatoio delle trincee esplode l´età del jazz. Così va il mondo. Bisogna pur sopravvivere, non è vero? L´anatema e la chiamata alle armi. Tutti insieme contro l´immonda, diabolica, disumana genia terrorista. «Li inseguiremo anche nei cessi e li stermineremo» ha detto Putin quando lanciò la seconda guerra cecena cinque anni fa. «Questa è la quarta guerra mondiale, durerà più delle altre, ma vinceremo anche questa» ha detto Bush alla sua folla plaudente. Le cose non stanno andando così, ma sono passati solo tre anni, siamo ancora al preludio, l´orchestra suona, i lutti e le stragi si moltiplicano, ma il sipario non si è ancora aperto. Dalle montagne afgane la metastasi del terrore globale si è diffusa in tutto l´universo musulmano. Può darsi che qualche errore sia stato commesso, ma ora bisogna guardare al futuro e chi non salta terrorista è. Si vuole forse cambiare il timoniere mentre infuria la tempesta? Noo. Più forte, non ho sentito. Noooo. Dunque avanti e senza quartiere. Verso dove? Non si sa.

Contro quale quartiere? Non si sa. È una guerra senza frontiere. Appunto.

Senza eserciti tranne quello attaccante. Appunto. Globale. Appunto. Il nemico può essere il tuo vicino di casa. Ma «non c´è uomo più capace di proteggerci tutti di mio marito»: parole di Laura Bush. Lei sì che se ne intende.

L´analisi dei fatti. Si può ancora avventurarsi su questo periglioso sentiero sempre più stretto? Si può ancora distinguere? Personalmente non sono mai stato favorevole al «senza se e senza ma» e neppure al punto di indifferenza del «né con questo né con quello». Mi piace sapere dove sto e con chi. E sto con la democrazia, con la libertà, con lo spirito critico. E sto per mia fortuna in buonissima compagnia. Sto con la ragione, perciò distinguo.

A Milano quando si vuol dare del matto a qualcuno si dice che la sua testa è andata insieme, cioè ha perso la capacità di distinguere.

Questo è lo spirito critico, liberale e democratico, da Montaigne a Voltaire, da Kant a Bertrand Russell. Una buona compagnia, non vi pare?

* * *

Il terrorismo nazionalistico è cosa diversa dal terrorismo ideologico e globale. Ha un obiettivo preciso e lotta per realizzarlo. Si deve presumere che se vi riuscisse si placherebbe. Le prove ci sono. In Algeria si placò quando la Francia si ritirò da quella terra che nel frattempo era diventata un dipartimento francese. In Irlanda si è placato, salvo reviviscenze sporadiche alimentate da fanatismo religioso e di clan. Nei paesi baschi forse si placherà se Zapatero riuscirà ad attuare il suo programma federale.

In Palestina non ci si è mai provato seriamente, non si è mai riusciti a vincere le resistenze dell´estrema destra israeliana e dei gruppi radicali palestinesi. L´ultimo tentativo fu quello della «roadmap» proposta da Usa, Europa, Onu. Ricordate Bush e Blair l´indomani dell´11 settembre? Spegnere l´incendio in Medio Oriente è la priorità numero uno dissero; prima ancora di dare inizio concreto alla guerra contro il terrorismo quella sarà la nostra prima preoccupazione.

Parole sagge, alle quali tutti consentirono con rinnovato entusiasmo e speranze. Parole che rimasero parole. La guerra scoppiò in Afghanistan e il governo talebano fu smantellato in un mese. Troppo poco e troppo debole militarmente il nemico per soddisfare il legittimo (?) desiderio di vendetta del popolo americano. Troppo poco politicamente per dare base duratura al consenso di massa conquistato da Bush sul cratere di Ground Zero.

Ci voleva una guerra vera, una guerra seria, anche se preventiva. Anzi, meglio se preventiva purché motivata da buone ragioni (che purtroppo si rivelarono inesistenti). E meglio se solitaria, insieme a qualche ascaro volenteroso, per dimostrare che l´Onu era un arnese arrugginito e inutile e che la vecchia Europa era un salotto pieno di tarli e di pretenziosi professori che spaccano il capello in quattro pur di non mettersi in riga e non battersi agli ordini del Presidente. Sissignore, signore.

Così ci fu la guerra irachena, che durò addirittura meno di quella afgana.

Miracolo. Ma anche guaio. Venti giorni di battaglia contro il nulla che guerra è? Con un paio di dozzine di morti tra le truppe americane e altrettanti uccisi da «fuoco amico». In compenso le perdite tra i civili iracheni furono qualche migliaio e tra loro parecchi bambini. I bombardamenti erano mirati ma qualche volta la mira era sbagliata. In compenso il comando americano chiedeva scusa. Non basta?

Il fatto non previsto fu una notevole ribellione diffusa nella popolazione.

Ringraziavano di essere stati liberati dal tiranno, ma non volevano essere terra d´occupazione. Volevano ricostruzione e sviluppo ma non i «Marines» tra i piedi. Invece ebbero i Marines ma pochissima ricostruzione e niente sviluppo. Qualcuno cominciò a innervosirsi, qualcun altro mise mano ai fucili (ce n´erano in abbondanza) alle mine, alle bombe.

I Marines fecero il loro mestiere che non è propriamente quello delle suore di San Vincenzo. Ma come sempre accade in simili frangenti, per ogni facinoroso ribelle ucciso ne sorgevano altri dieci. Si infiammò il problema sunnita. Si lacerò il fronte sciita. Apparvero bande di tagliaborse e di tagliagola.

Dalle frontiere colpevolmente incustodite arrivò un fiume di uomini di mano e di coltello e tra loro - oh, sorpresa - gli adepti di Bin Laden. Il resto è cronaca attuale. Signori della guerra in Afghanistan, signori della guerra in Iraq. Terrorismo globale intrecciato con terrorismo locale. Tirannia e ordine con Saddam, libertà (?) e disordine sotto Bremer, proconsole di Bush.

Governi-fantoccio a Kabul e a Bagdad. Due dopoguerra catastrofali. Scrivemmo allora: hanno scoperchiato il vaso di Pandora, hanno liberato i venti devastanti di Eolo.

Questo è accaduto e questo perdura. Uniamoci tutti, siamo tutti sulla stessa barca. Ma si vorrebbe anche sapere chi deve stare ai remi e chi al timone. «Non daremo deleghe per la sicurezza dell´America» parola di Bush.

Appunto. Kofi Annan l´ha capito subito, infatti da Bagdad se n´è andato e non mostra di volerci tornare. Per fare che cosa?

* * *

Il terrorismo di tipo Al Qaeda non ha ancora conquistato l´Iraq e non lo conquisterà perché gli iracheni sono orgogliosi come tutti gli arabi. Per di più sono in maggioranza sciiti, come gli iraniani, mentre Al Qaeda insegue il sogno del califfato sunnita e wahabita.

Però Al Qaeda è riuscita a costruire una sua piattaforma operativa in Iraq dalla quale condiziona non poco le vicende irachene. Allawi, il presidente del governo-fantoccio, fa il resto. Deve essere l´uomo forte per conto dell´America. Portare il paese alla democrazia entro due anni. Con la mano di ferro.

Dieci giorni fa ha toccato con mano che Al Sistani, la guida spirituale sciita, conta molto più di lui. E che Al Sadr, il ribelle da quattro soldi che l´ha tenuto in mano per settimane, ora vuole «scendere» in politica. In una democrazia «religiosa» non c´è posto per Allawi.

Bernardo Valli ha spiegato ieri perché i prigionieri francesi non sono ancora stati liberati. Perché Allawi non schiera la sua truppa per render sicura la strada che da Falluja porta all´aeroporto di Bagdad. Perché i soldati Usa stanno combattendo l´ennesima battaglia contro il fortilizio sunnita di Falluja. La Francia, appoggiata da tutta la sua comunità islamica, da tutti i governi moderati della regione, ma perfino dalle organizzazioni terroristiche palestinesi che non si vogliono confondere con Al Qaeda, perfino dai Fratelli musulmani egiziani e dagli Hezbollah libanesi, ha dimostrato di quale prestigio goda nel mondo arabo. La Francia non ha seguito gli Usa sul terreno iracheno, ma non ha ceduto di un palmo alle richieste ultimative dei sequestratori.

Perché mai Allawi dovrebbe facilitare il rilascio degli ostaggi francesi? Per lui sarebbe un´altra sconfitta. Risulterebbe che esiste un altro modo per combattere il terrorismo e non cedere ai suoi ricatti. Allawi non ha interesse a far risultare che esiste un altro modo. Neanche Bush ha interesse. E Putin?

* * *

Putin è un´altra cosa ancora. L´ha spiegato molto bene ieri su queste pagine Sandro Viola.

Putin ha legato la sua fortuna politica alla normalizzazione della Cecenia.

In una Russia democraticamente inesistente il potere di Putin si basa sul segreto irresponsabile. Di quel che fa non risponde a nessuno. I morti del teatro Dubrovka, i morti del sommergibile atomico nello stretto di Bering, i morti dei Tupolev fatti esplodere da due kamikaze cecene che avevano occultato l´esplosivo nelle vagine. Crimini orrendi dei terroristi. Insufficienza totale e disprezzo della vita degli ostaggi da parte delle squadre speciali Alfa e Beta.

Putin non parla, nessuno glielo impone né in Russia né nel mondo democratico. Bush solidarizza con lui e lo assolve da ogni errore e peccato.

Berlusconi segue a ruota. La Cecenia è un cimitero? Grozny è un ammasso di rovine? La tortura è prassi abituale delle truppe russe? La disoccupazione al 90 per cento?

Poco importa. Trecentoventi ostaggi ammazzati, di cui la metà ragazzi e bambini. «Li inseguiremo nei cessi».

Oggi Putin ha interesse ad accreditare la tesi che nella scuola di Beslan c´erano anche terroristi di Al Qaeda. Prove non ci sono, ma Bush gli crede sulla parola e rilancia. Se è Al Qaeda a perpetrare la strage dei bambini non si tratta più di Cecenia. La questione cecena viene cancellata dall´agenda.

Come accadrebbe se al posto di Hamas in Palestina ci fosse Bin Laden.

Putin vuole internazionalizzare la questione cecena ma riservare esclusivamente a sé il ruolo di timoniere. In Iraq non ci vuole andare neanche lui, ma è un assente giustificato. Infatti ha altro da fare.

ROMA - Giovanna Melandri è appena scesa dal palco girotondino. Alla platea ha parlato chiaro.

Più tasse per tutti.

«Più tasse e basta».

Più tasse.

«E´ ora di dire la verità: se vogliamo più Stato bisogna trovare i soldi per farlo funzionare».

I girotondini vogliono più Stato.

«La sinistra, l´Ulivo tutto dice: più welfare, più sanità, più scuola. I servizi costano e c´è bisogno che qualcuno paghi. Allora io penso che un minimo di serietà...».

Più tasse.

«Forse ho usato la parola sbagliata, ma il concetto mi sembra chiaro».

Berlusconi in genere usa dei sinonimi.

«Ma lui dice meno tasse per tutti!».

Suona più gradevole.

«Io non lo direi mai. Questi governi conservatori hanno fatto pagare il conto delle loro sciagurate decisioni ai ceti deboli, mortificando persino la fascia media della società. Meno scuola, meno sanità, meno ricerca. Solo i ricchi si sono fatti più ricchi».

Lei è eletta ai Parioli, vero?

«Roma centro è il mio collegio, ma conosco anche quella zona. E in molte famiglie si è vissuta questa contraddizione: il marito felice per il condono fiscale, la moglie disperata per l´abolizione del tempo pieno a scuola».

Lei portò fortuna all´Ulivo. Nel ?96, ammutolì Berlusconi nel programma televisivo con quell´accusa.

«...Volete privatizzare la sanità. Così dissi e documentai».

Quindi oggi rovesciando il concetto...

«Costa, sì costa tenere in efficienza le strutture pubbliche».

Basta essere chiari e dire le cose come stanno.

«Io non ho mai condiviso le decisioni di assecondare le richieste meno nobili della società civile».

Eppure il governo Amato, nell´ultimo anno di attività, ha tentato di assecondarle. Un poco, ma ha assecondato.

«E ché non lo so? Ero ministro e ho messo a verbale la mia contrarietà».

Infatti lei oggi, molto coraggiosamente, dice che bisogna darsi un pizzicotto sulla pancia.

«Se vogliamo investire nella ricerca e nell´istruzione, come giustamente diciamo, e vogliamo tenere alti i livelli di sostegno sociale nel lavoro, negli ospedali».

Il suo discorso fila.

«Mi sembra serio»

L´elettore capirà.

«Intendiamoci: bisogna naturalmente combattere l´elusione fiscale, l´evasione. Far pagare le tasse».

A tutti.

«A quelli che non le stanno pagando».

E´ un segno di equità e di moralità.

«Non so se mi sono spiegata».

(Un girotondino avvicina la Melandri: "´A Giova´, sta storia delle tasse nun me convince proprio").

«Senta, io vorrei essere chiarissima».

Ma lo è stata.

«Innanzitutto lotta all´evasione e lotta ai condoni. Mai più condoni».

Gli avvocati e gli ingegneri.

«Poi una contribuzione progressiva, è chiaro che io dico più tasse per alcuni ma meno tasse per altri».

Meno tasse.

«Non solo i ceti deboli, i più poveri. E mi sembra del tutto normale».

Sono già deboli di loro, lo dice la parola stessa.

«Ma anche la pancia dell´Italia, il ceto medio».

Meno tasse anche per loro.

«Sì, anche per loro».

Lascerebbe fuori solo....

«Io non arretro».

NEW YORK - Il nuovo Iraq nasce con 15 mani alzate nel consiglio di sicurezza dell'Onu a New York, tornato ad assumere rilevanza dopo oltre un anno in cui la crisi irachena era stata gestita quasi sempre lontano dal Palazzo di vetro. Con un voto unanime, i membri del consiglio hanno approvato la risoluzione 1546, messa a punto da Usa e Gran Bretagna, nella quale e' disegnato il futuro iracheno dal 30 giugno 2004 al gennaio 2006.

Il traguardo ha permesso al presidente americano George W. Bush di aprire il vertice del G8 a Sea Island, in Georgia, con in tasca un successo maturato soprattutto nel corso dei colloqui dei giorni scorsi a margine delle celebrazioni per il D-Day, avvenuti in un clima di rappacificazione atlantica. La risoluzione ''e' un momento importante'' che puo' costituire ''un catalizzatore per il cambiamento'' per l'intero Medio Oriente, ha detto Bush accogliendo gli ospiti del G8, senza mancare di sottolineare come ci fosse chi diceva ''che non ce l'avremmo mai fatta''.

L'accordo sulla quinta bozza messa a punto da Washington e Londra, e' stato raggiunto grazie a un compromesso raggiunto in tempo per il G8. La versione finale viene incontro alle residue riserve di Francia e Germania sul peso che il nuovo governo iracheno avra' in futuro nella gestione delle principali operazioni militari da parte della forza multinazionale (MNF) di 160 mila uomini, che restera' sotto il comando americano. Un paragrafo di nove righe ha permesso l'evoluzione verso una risoluzione che prevede un ampia cooperazione tra il governo iracheno e il comando della MNF, senza offrire un potere esplicito di veto a Baghdad sulle questioni militari. La risoluzione approvata alle 16:47 ora di New York (le 22:47 in Italia) nella sala del Consiglio di sicurezza non chiarisce cosa accadra' nel caso, per esempio, di un'offensiva militare americana contro Falluja o Najaf sulla quale il nuovo esecutivo iracheno sia in disaccordo.

Tra lunedi' sera e martedi', uno dopo l'altro da Parigi, Berlino, Mosca e Pechino sono arrivati i via libera al voto, pur senza nascondere le riserve. La Francia, ha detto il ministro degli Esteri Michel Barnier, non e' pienamente soddisfatta, ma ha deciso per il voto a favore ''per trovare in modo costruttivo una via d'uscita politica da questa tragedia''. L'ambasciatore tedesco all'Onu, Gunter Pleuger, ha riconosciuto che Usa e Gran Bretagna hanno avuto stavolta ''grande flessibilita' e accolto molte delle proposte che provenivano dall'approccio creativo e costruttivo di Francia e Germania''. Anche l'Algeria, unico membro arabo in consiglio, ha offerto il proprio appoggio, anche se avrebbe voluto un piu' chiaro potere di veto iracheno sul piano militare. L'Italia, con il ministro degli Esteri Franco Frattini, ha espresso ''viva soddisfazione'' per il traguardo. ''Il popolo iracheno - ha detto Frattini - puo' festeggiare per questo momento. La risoluzione recepisce in pieno i principi che l'Italia ha considerato essenziali per contribuire alla nuova fase della stabilizzazione dell'Iraq: effettivo trasferimento di poteri agli iracheni, ruolo centrale dell'Onu nella transizione politica, trasparenza nel rapporto tra Governo iracheno e forza multinazionale'' L'accordo segna una svolta all'Onu dopo un periodo difficile - cominciato alla fine del 2002 e culminato nella guerra - che il segretario generale Kofi Annan ha definito ''tra i momenti di maggior divisione all'interno del consiglio di sicurezza dalla fine della Guerra Fredda''. Al governo ad interim dell'Iraq viene riconosciuta la ''piena sovranita''' fin da quando il 30 giugno assumera' i poteri dagli americani. Da quel giorno, in teoria, il nuovo esecutivo in base alla risoluzione potrebbe anche chiedere alle forze straniere di andarsene. Ma non lo fara', ha spiegato a New York il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari, perche' le conseguenze in questa fase ''sarebbero catastrofiche''. C'e' il rischio, ha detto, di creare un vuoto ''che noi iracheni non siamo pronti a riempire: ci sarebbe la possibilita' che torni un Saddam junior''. La forza multinazionale, secondo la risoluzione, se ne andra' invece alla fine del processo politico che prendera' il via ora sotto l'egida dell'Onu e prevede l'elezione entro il 31 gennaio 2005 di un'Assemblea nazionale di transizione, che formera' un governo a sua volta di transizione e redigera' la Costituzione. Entro il 31 dicembre 2005 il primo governo eletto su base costituzionale prendera' il potere e dal primo gennaio 2006 la MNF non sara' piu' legittimata a restare, se nel frattempo non avra' gia' ricevuto la richiesta di andarsene dal governo di Baghdad. Usa e Gran Bretagna hanno cominciato alla fine di maggio a presentare bozze di risoluzione, ma la vera svolta e' arrivata nel fine settimana, con due lettere del primo ministro iracheno Iyad Allawi e del segretario di Stato americano Colin Powell, nelle quale sono indicati i termini della cooperazione militare tra l'Iraq e il comando della MNF. Lo strumento-chiave e' un nuovo organismo che nascera' a Baghdad, il Comitato ministeriale per la sicurezza nazionale, dove lavoreranno insime i vertici del governo iracheno, delle forze armate dell'Iraq, dell' intelligence di Baghdad e della MNF. Trasferire questo meccanismo dalle lettere di Allawi e Powell al testo della risoluzione, e' stata la 'magia' diplomatica che nella notte tra lunedi' e martedi' ha permesso l'accordo.

PENSACOLA, Florida - Robert e Schonn Passmore, lo scorso autunno, hanno portato i loro figli a Disney World e ne sono rimasti molto delusi. Da cristiani che rifiutano la teoria dell'evoluzione, i Passmore hanno disdegnato una delle attrazioni del parco, i dinosauri, che comprendono esemplari di brontosauri, branchiosauri e altre creature dell’era preistorica.

”I miei ragazzi hanno trovato molte imprecisioni nella presentazione”, dice la signora Passmore, di Jackson, in Alabama. “Tutta quella storia che milioni-di-anni-fa-i-dinosaùri-dominavano-la-terra. ..”.

Cosi, in aprile, i Passmore hanno scovato un posto meno conosciuto, in Florida: il Dinosaur Adventure Land, un parco e un museo a tema, ispirati al creazionismo, in cui si invitano i ragazzi “a scoprire la verità sui dinosauri”, con giochi che associano scienza e religione, trasmettendo il messaggio che è la Genesi, non la scienza, a raccontare la vera storia della creazione.

Kent Hovind, il religioso che nel 2001 ha aperto il parco, dice di voler diffondere il messaggio del creazionismo attraverso un classico della tradizione americana - i parchi a tema - anziché difenderlo nel corso di conferenze accademiche o nelle aule dei tribunali. L’obiettivo è di confutare tutti i centri scientifici e i musei di storia naturale che spiegano l’ evoluzione della vita attraverso la teoria di Darwin. Ci sono modelli di ossa di dinosauro accompagnati dalla spiegazione che Dio ha creato i dinosauri il sesto giorno della Creazione, come descritto nella Genesi, seimila anni fa.

Dinosauri creazionisti a Dinosaur Adventure Land

”Ci sono molti creazionisti veramente in gamba che sanno confutare bene gli intellettuali, ma i ragazzi si annoiano dopo 5 minuti”, dice Hovind. “Se si segue solo la strada del dibattito intellettuale, si perde il 98 per cento della popolazione”. Al Dinosaur Adventure Land non ci sono giostre meccanizzate, ma un discovery center, un museo e giochi all’aperto, ognuno dei quali ha, affisse accanto, una “lezione di scienze” e una “lezione spirituale”.

Eugenie Scott, direttrice responsabile del National Center for Science Education, afferma che i creazionisti tradizionali hanno ormai smesso da anni di cercare di costruirsi una qualche credibilità intellettuale: “Non mi sorprende che sponsorizzino gruppi di vacanze, parchi a tema e cose del genere”.

Kent Hovind dice di aver dato 700 conferenze all’anno e che il suo parco è stato visitato da 38.000 persone, che hanno pagato un biglietto di 7 dollari ciascuno. I Passmore sono venuti dall’Alabama con un gruppo formato da 8 minibus carichi di famiglie.

"Siamo stati nei musei e nei discovery center in cui devi stare lì seduto a sorbirti tutte quelle storie sulla teoria dell’evoluzione", dice il signor Passmore, “È stato bello poter ascoltare finalmente qualcosa che rafforza la tua fede”.

Solo per veri appassionati: il sito dei creazionisti italiani

Presentando le «aliquote della libertà» Silvio Berlusconi è raggiante. Dopo l’ultimo (ultimo?) vertice di maggioranza, il centrodestra avrebbe trovato la quadra sulle quattro aliquote Ire (ex Irpef), la mancia sull’Irap (500 milioni), le relative coperture e le relative poltrone di governo, che hanno avuto un ruolo importante in tutta la partita. Il premier annuncia una «svolta storica» un «fatto epocale» per il Paese: una diminuzione della presenza dello Stato che assicura all’individuo «più libertà economica, che equivale alla libertà politica e religiosa». Amen. Venerdì la proposta dovrebbe essere varata dal consiglio dei ministri, dove si profilano nuovi malumori da parte della Lega (sull’Irap) e forse di An sui pubblici. In contemporanea si dovrebbe varare la manovra-ter di fine anno.

I numeri più che a una liberazione somigliano a una condanna. Prima novità: in tre anni i dipendenti pubblici (escluso il settore scuola e sicurezza) saranno ridotti di 75mila unità «grazie» al blocco del turn-over. «Ogni cinque pensionati si assumerà un solo lavoratore», dichiara Berlusconi, entusiasta di tagliare posti di lavoro. «Il back office (cioè le spese di funzionamento, ndr) dello Stato è troppo pesante», spiega ancora il premier. Bella prospettiva di libertà. Seconda novità, scritta sulla bozza di emendamento ma taciuta in conferenza stampa: la scuola subirà una riduzione di organico del 2% (14mila unità) nei prossimi due anni scolastici. Tradotto: meno insegnanti, meno bidelli, meno personale per i servizi pubblici. Eppure il premier, spalleggiato dal fido Domenico Siniscalco, assicura: «Non si toccano i servizi pubblici». Della serie: quando la realtà supera la fantasia. Spetta a Siniscalco elencare le «macro-cifre». La manovra «costa» 6,5 miliardi di euro nel 2005, ma sono state reperite coperture (sulla carta) solo per 4,3 miliardi, cioè solo per la parte di cassa. La somma sale a 7,07 nel 2006 e a 6,89 nel 2007. Sembra un po’ poco se si vogliono recuperare i due miliardi mancanti dell’anno prossimo. Inoltre non si vede traccia dell’altro modulo di riforma annunciato da Berlusconi, che ha ssicurato mezzo punto di Pil di qui al 2008 (a elettori piacendo).

Chi pagherà tutto questo? A parte l’alto prezzo sociale delle strutture pubbliche, il resto si inscrive nel mondo delle buone speranze. Quasi la metà delle risorse per il 2005 (4,3 miliardi) arriva dalla proroga del condono edilizio (2 miliardi) e un’altra buona fetta (400 milioni) dall’autocopertura, voce «lafferiana» che convince solo il premier e Bush. «Io non avrei “bollinato” la manovra (il bollino è l’imprimatur della Ragioneria, ndr) - dichiara Vincenzo Visco - Non solo per l’autocopertura, ma anche per i tagli indicati, che sembrano tutti falsi». Invece la Ragioneria non ha avuto esitazioni a dare l’ok, assicurano Berlusconi e Siniscalco. Nessuna resistenza? «Nessuno ha usato violenza ad alcuno», interviene il titolare dell’Economia riferendosi a quei tecnici messi sotto accusa dalla Lega. La voce meno credibile è il taglio dei consumi intermedi, valutato in 600 milioni, mentre altri 400 milioni provengono dalla riduzione degli stanziamenti nelle tabelle della Finanziaria. Che tradotto vuol dire finanziamenti a leggi di spesa, come per esempio le erogazioni per la cassa integrazione (altroché non si toccano i servizi). L’unica cosa certa sono le maggiori tasse su bolli e concessioni per 550 milioni. Una vera beffa. Il blocco del turn over dei pubblici dipendenti non dovrebbe finanziare gli sgravi fiscali nel 2005, ma sarà «dirottato» sugli aumenti contrattuali. «Non si darà meno del 3,7%, ma non si arriverà al 5,1», ha spiegato Siniscalco. Secondo fonti di maggioranza, il governo sarebbe orientato verso il 4,8% in più.

Una spallata alle strutture pubbliche per ridisegnare le aliquote Ire: il 23% fino a 26mila euro, il 33% da 26.00 a 33.500, il 39% oltre quella soglia, un contributo di solidarietà del 4% (dunque un’aliquota al 43%) per i redditi oltre i 100mila euro. La «maggiorazione» per i ricchi è destinata a finanziare le deduzioni (non più detrazioni) per la famiglia.Saranno pari a 3.200 euro per il coniuge a carico e di 2.900 per ciascun figlio a carico. Saliranno a 3.450 euro per i figli con meno di 3 anni e a 3.700 euro per figli con handicap. Il loro valore calerà con l'aumentare del reddito fino ad azzerarsi a 78.000 euro. Di fatto per una famiglia con 2 figli a carico ci sarà un' esenzione dall' Irpef fino a 14.000 euro. Gli effetti medi della manovra saranno pari a un risparmio attorno ai 570 euro per chi guadagna 25.000 euro aunnui, per salire sui 860 euro per i redditi attorno ai 35.000 euro. Si prevede anche una deduzione specifica di 1.820 euro, decrescente al crescere del reddito, delle spese per la badante per i soggetti non autosufficienti.

Penalizzate su tutti i fronti escono le imprese, a cui è destinato un mini-sconto di 500 milioni sull’Irap. Tre gli interventi: la totale detassazione della spesa per i ricercatori; interventi per i neo assunti; il raddoppio degli sconti per i neo assunti al Sud

Le dimissioni di Lucia Annunziata segnano un punto di non ritorno. E’ vero che la Rai ha avuto molte crisi, molte dimissioni, e molti cambiamenti, anche in rapida successione, in passato. Che cosa c’è adesso di diverso? C’è l’idea che aveva avuto il Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, di sperimentare un accordo fra gentiluomini.

Consisteva in questo. Alla Rai c’è una maggioranza che occupa tutti gli spazi. Ma può esistere una occupazione capace di autolimitarsi, confrontandosi di volta in volta, di problema in problema, con un presidente di garanzia, la cui presenza vuol dire l’impegno ad ascoltare voci che la maggioranza non rappresenta. Il Consiglio di amministrazione invece si è comportato in modo incomprensibile, se si pensa alla reputazione e visibilità di due dei suoi componenti (Alberoni e Rumi).

Ha scelto di dare sempre e solo via libera al braccio armato della occupazione politica, un tal Cattaneo che, avendo diretto senza gloria, in una carriera non favolosa, soltanto un Ente Fiera, ha creduto di usare maniere dure, tipo “calci in culo” (è una citazione) per mettere in riga la radio e la televisione di Stato al solo scopo di sottometterla commercialmente all’azienda concorrente Mediaset e politicamente al padrone di quella stessa azienda Silvio Berlusconi.

Resterà la memoria di un Consiglio di amministrazione che assiste tranquillamente a liti e aggressioni volgari e anche violente, iniziate e portate a termine dal loro direttore generale contro Lucia Annunziata, la presidente di garanzia di quello stesso Consiglio di amministrazione, senza avere neppure un moto di cortesia formale. Ma tutto ciò è finito per sempre.

Il Consiglio di amministrazione che ha costretto l’Annunziata a dimettersi non ha più valore e deve andarsene subito. È quanto sostiene - a noi sembra con fondamento logico e legale - il presidente della Commissione di Vigilanza Petruccioli.

Non ci sono gentiluomini - e neppure persone legate a vaghe forme di buone maniere - nella Rai occupata. C’è solo occupazione e volontà di più occupazione. Quando Lucia Annunziata ha visto l’elenco un po’ ridicolo e fantasioso (ma anche dotato di chiare intenzioni persecutorie) dell’ultima lista di “nuove nomine” si è resa conto che il “mobbing” contro di lei stava diventando un vero e proprio attacco a lei e alla azienda, condotto in modo brutale e persino deliberatamente teatrale. Conseguenze? Le dimissioni.

Non erano evitabili perché sono l’ultima garanzia che Lucia Annunziata poteva tentare di offrire e anche l’ultimo avvertimento per quel che resta delle istituzioni italiane, il Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica. Ma c’è un avvertimento anche per tutto il centro-sinistra, per lo schieramento di coloro che si presentano alle trasmissioni televisive, dette di approfondimento giornalistico. È un appello all’intera opposizione. Una situazione di emergenza così grave - la completa espropriazione della Rai - deve essere resa ben visibile all’opinione pubblica italiana, attraverso la mancanza di ogni rappresentante del centro-sinistra e della sinistra in ogni trasmissione. Quella assenza sarà un messaggio poderoso. Sarà la più chiara testimonianza di ciò che sta accadendo, senza alcuna finzione di una normalità che non esiste.

Coloro che fossero incerti sulla necessità di una simile iniziativa (astenersi da ogni partecipazione in video almeno fino a che il Consiglio di amministrazione, ormai illegale, non si sarà dimesso) potranno trovare una evidenza drammatica dello stato di emergenza nelle dichiarazioni di personaggi come l’On. La Russa, l’On. Cè, l’On. Bondi. Essi salutano con insulti, maleducazione e sarcasmo, grida di “finalmente” le dimissioni di Lucia Annunziata, usando apertamente il gergo e le minacce dei regimi.

Noi crediamo di rappresentare l’opinione di tutti coloro che si oppongono in questo momento a Berlusconi non solo nell’arco del centro-sinistra e della sinistra, ma anche di molti che in passato hanno votato a destra, dicendo insieme: nessuno partecipi al gioco della televisione occupata fino a quando un minimo di legalità - attraverso nuove nomine - sarà stato restituito alla televisione di Stato.

La tenuta di San Rossore, quattromilaottocento ettari di pregiato bosco dentro il parco che da Viareggio si stende fino a Livorno, è il cuore di una disputa che schiera da una parte gli ambientalisti, dall´altra l´amministrazione comunale di Pisa. Due progetti tengono sulle spine le associazioni di tutela. Il primo riguarda un porto che dovrebbe ospitare cinquecento barche, con negozi, ristoranti e alberghi, più appartamenti per centocinquantamila metri cubi: sorgerebbe sulla foce dell´Arno, lungo i bordi del parco, in un lembo delicatissimo, soggetto a un´erosione che ha consumato centinaia di metri di arenile. Il secondo progetto riguarda invece l´ippodromo che da centocinquant´anni è in funzione nella tenuta. Ha strutture inadeguate, sostiene la società che lo gestisce, e ha bisogno di ampliamenti. E pazienza per gli alberi che verranno sacrificati e per gli ettari di terreno compromessi.

Per entrambe le vicende si sono mobilitate Legambiente, Wwf, Lipu e Lav. Sul porto il conflitto dura da alcuni anni. È stato costituito un coordinamento che ha raccolto un centinaio di firme (dal botanico Carlo Blasi al filosofo Remo Bodei, dagli storici dell´arte Lina Bolzoni, Antonio Pinelli e Giacinto Nudi agli storici Ernesto Galli della Loggia, Adriano Prosperi e Paolo Pezzino, dal soprintendente Antonio Paolucci agli urbanisti Pier Luigi Cervellati, Enrico Falqui, Francesco Indovina ed Edoardo Salzano). Ma il sindaco di Pisa, il diessino Paolo Fontanelli, non ha tentennamenti: «Nel mio programma elettorale il porto era un punto cruciale e la maggioranza dei pisani l´ha sostenuto».

La tenuta di san Rossore fino al 1995 era di proprietà della Presidenza della Repubblica, come fino all´Unità lo era stata dei Savoia e prima ancora dei Lorena (ora è della Regione ed è gestito da un Ente Parco). È un territorio paesaggisticamente compatto, celebrato da scrittori e poeti (da Montaigne a D´Annunzio), luogo di colture e di allevamenti biologici. Tutto il parco - che prende i nomi di san Rossore, Migliarino e Massaciuccoli - è dominato da enormi pini marittimi e pini domestici e solcato da cordoni paludosi, le lame, e poi da stagni, fossati e canali che si spingono fino alle dune e agli arenili. È percorso da daini, volpi, aironi cinerini e rossi e da duecento specie di uccelli.

Ma veniamo ai progetti. Il porto sostituirebbe il rudere di uno stabilimento industriale di proprietà della Fiat fino ad alcuni anni fa e poi passato di mano (attualmente è dell´immobiliarista Danilo Coppola). Le case si innalzerebbero alle spalle e intorno alle banchine - sono palazzi e villette - in un terreno che appartiene alla stessa società, dove resistono alcuni edifici bassi, ormai abbandonati. Il viale Gabriele D´Annunzio, che da Pisa porta a Marina di Pisa, verrebbe tagliato e passerebbe alle spalle dell´insediamento.

L´intervento è compatibile con il parco che lo lambisce? È possibile trovare soluzioni alternative? «No», è la risposta secca del sindaco di Pisa. «Il Comune non ha i soldi per espropriare l´area e dunque deve trovare un´intesa con i privati su una soluzione urbanisticamente accettabile, concordata con il Parco. D´altronde lo stabilimento diroccato è grande trecentocinquantamila ettari ed è in condizioni di degrado e di costante pericolo. Non possiamo restare con le mani in mano. E poi siamo convinti che lì un porto serva, se ne parla da decenni, riqualificherà l´area e attirerà più turismo». Il presidente del parco, Giancarlo Lunardi, è in carica da pochi mesi. Il suo predecessore, Stefano Maestrelli, aveva caldeggiato con fervore sia il porto che le case. Attirandosi l´ostilità delle associazioni di tutela e di buona parte della cultura pisana. Lo stabilimento diroccato inquieta anche gli ambientalisti, che sottolineano sia comunque obbligo della proprietà bonificare l´aera impregnata di scarichi nocivi. È il passaggio successivo che li trova contrari. «Il Comune fa dipendere l´opera di risanamento, che è urgente, da un intervento di carattere speculativo, il porto e le case, che produce profitti solo per i privati», sostengono gli esponenti del coordinamento.

La questione è una delle più delicate fra quelle che affollano la scena urbanistica. Non solo pisana, ovviamente. Cosa fare dei grandi stabilimenti dismessi, come recuperarli, come restituire loro una dignità architettonica e farne parte integrante di una città? Soldi i Comuni non ne hanno per acquisirli, e ne avranno sempre meno, si sente dire. Talvolta interviene la mano pubblica, le università per esempio, che acquista e ristruttura. Ma spesso le trasformazioni sono solo quelle più remunerative per la proprietà. E quindi: centri commerciali, residenze, alberghi, parcheggi. Con ingombranti carichi urbanistici.

A Boccadarno, sostengono Fausto Guccinelli e Tiziano Raffaelli, due esponenti del coordinamento, il paesaggio verrebbe sfigurato. Il colpo d´occhio della foce radicalmente alterato. Estensore, una decina d´anni fa, del piano territoriale del parco è stato Pier Luigi Cervellati, che aveva previsto una stazione marittima e non un porto. «Sono due cose molto diverse», spiega l´urbanista. «La stazione marittima deve servire il parco e ospitare solo barche con motori a tre cavalli per visitare il suo complesso sistema di acque. Il porto trasforma quel territorio in una villettopoli. Il parco rappresenta un plusvalore per il porto. Ma il porto è un disvalore per il parco».

Nell´aprile scorso, intanto, è stato presentato anche un progetto alternativo, curato da due architetti fiorentini, Luisa Trunfio e Lorenzo Tognocchi, coordinati da Enrico Falqui e Giorgio Pizziolo. Prevede di ristrutturare le parti pregiate dello stabilimento e di collocarvi un cinema, attività culturali, sportive, congressuali e commerciali. Ma il progetto del porto, superati molti passaggi, va avanti. Attualmente ne discute una conferenza di servizi a livello regionale. «Abbiamo fissato prescrizioni», assicura il sindaco Fontanelli, «vigileremo sulla qualità del progetto».

L´altra iniziativa che allarma gli ambientalisti, l´ampliamento dell´ippodromo, è a un punto cruciale. La società che lo gestisce, l´Alfea, ha preparato un progetto, accompagnato da uno studio di impatto ambientale, per ricostruire gli spalti, attrezzare una struttura sotterranea, ingrandire una curva, allestire una pista di ottocento metri che si spinge dentro il bosco. Il progetto è giunto sulle scrivanie del Comitato scientifico del Parco. Che a metà novembre ha emesso un verdetto negativo: i lavori provocherebbero la distruzione di circa quattro ettari di bosco e la compromissione di altri sette; disturberebbero la vita di molte specie animali; arrecherebbero danni agli ambienti umidi e ai boschi. Sarebbero insopportabili per un ambiente designato come Sito di Importanza Comunitaria e, dall´Unesco, come Riserva della biosfera. E che soffre già troppe aggressioni per poterne tollerare una di quella portata.

Sul Comitato scientifico si è scatenata una bufera (fra i più duri il sindaco Fontanelli). Ma i vertici del parco si sono schierati al suo fianco, e stavolta hanno aderito alle proteste degli ambientalisti bocciando gran parte del progetto, di cui hanno salvato solo l´ampliamento della curva e la ristrutturazione degli spalti. La partita non è conclusa. Fontanelli giudica quella del parco una scelta equilibrata, che consente all´ippodromo di migliorare le strutture e di tutelare «almeno un migliaio di persone che lavorano intorno all´ippodromo, un´attività storica per il territorio pisano». L´Alfea prende tempo. Mentre le associazioni di tutela giudicano positivamente la decisione del parco, ma non demordono: troppi quegli ettari di bosco, da sei a otto, troppi gli alberi sacrificati per la curva di un ippodromo.

A Isola Capo Rizzuto, dove perfino molte cappelle del cimitero sono abusive e le forze dell'ordine hanno appena sequestrato ( sulla carta) 250 nuove case fuorilegge tirate su nel 2004 nella scia del condono, qualcosa è stato demolito: la capanna del Bambin Gesù del presepio vivente. Buttata giù da chi voleva dire: qui gli abbattimenti li decidiamo noi. Tanto è vero che le gare per appaltare le 800 demolizioni già decise prima vanno a vuoto da anni.

Per carità, il centro calabrese è forse un caso limite. Fatto sta che, se gli altri due condoni avevano visto diluviare 5.000 domande ( nove su dieci ammuffite nei cassetti), stavolta le richieste non arrivano a 160. Su almeno 2.000 case abusive costruite dal ' 94, più migliaia di violazioni varie. Auguri.

Dice ottimista il sottosegretario Giuseppe Vegas che la prima rata del condono « ha prodotto incassi per 962 milioni di euro » . E che di questo passo l'obiettivo dei 3,1 miliardi, che dovrebbero per metà coprire i tagli alle tasse, sarà addirittura superato.

Dicono le opposizioni che non si tratta di numeri ma di auspici, che i dati in arrivo da tutto il Paese sono sconfortanti e che la prova del fallimento sta proprio nella scelta del governo d'impugnare, dopo quelle di Emilia Romagna e Toscana, non solo le leggi di Campania, Marche, Umbria ma anche di Veneto e Lombardia che certo « rosse » non sono e che ( come la Liguria) han cercato di contenere gli effetti perversi della legge sul loro territorio. Una scelta che per il lucano Erminio Restaino, coordinatore di tutti gli assessori regionali all'ambiente, « vuol dire una cosa sola: al Tesoro cercano una scusa per fare un'altra proroga » . Si vedrà.

Il braccio di ferro sul condono, col governo che contesta ad esempio all' Emilia del diessino Errani di essersi messa di traverso fissando un tetto condonabile dieci volte più basso dei parametri massimi statali ( 300 contro 3.000 metri cubi, ma addirittura 150 nei centri storici), è in realtà solo uno degli scontri tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome che inondano la Corte Costituzionale. La quale, dopo aver dato ragione all'una o agli altri sui casinò, la vivisezione o l'assegno ai secondogeniti, si trova alle prese con centinaia e centinaia di ricorsi sui conflitti di competenza che, a metterli in fila titolo dopo titolo, occupano complessivamente 97 pagine. Cosa possa voler dire, per la buona salute della Suprema Corte, è facile immaginare.

Ciò che appare scontato è che i conflitti, via via che il processo federalista andrà avanti, sono destinati ad aumentare. E ad assumere un peso sempre più politico in grado di condizionare l'agenda dei partiti, i lavori parlamentari ( come nel caso dell'abolizione del blocco del turnover nelle assunzioni), le strategie finanziarie del governo e quelle degli enti locali. Dopo di che, al di là delle questioni di principio sulle competenze, resterà comunque il tema di cui dicevamo: se è vero, come riconosceva solo due anni fa Sandro Bondi, che il condono è un atto forse ( forse) obbligato ma « profondamente immorale, destinato a premiare i comportamenti illegali e a scoraggiare quelli virtuosi » , può lo Stato passare all'incasso senza allo stesso tempo far rispettare la legge in quel pezzo di Paese dove una casa fuorilegge ha lo 0,97% di probabilità di essere abbattuta anche dopo una sentenza esecutiva? Quanto ai soldi, scrive il Sole- 24 Ore , su dati Legambiente, che solo in Sicilia sono state costruite in dieci anni 70.047 case abusive. Dalle quali dovrebbero arrivare ai Comuni, col condono, 770 milioni di euro contro spese in oneri d'urbanizzazione per un miliardo e 681 mila euro. La metà di quanto ( se va bene) sarà incassato in tutta Italia.

Se è così, proprio un affare.

La missione militare italiana in Iraq è stata presentata così il 15 aprile 2003 dal nostro ministro degli esteri Franco Frattini.

"Quella dell'Iraq è una missione che ha scopo emergenziale e umanitario"

E infatti il governo italiano finanzia un ospedale della Croce Rossa a Bagdad e invia ben 27 carabinieri per difenderlo...

... poi già che c'è invia altri 3000 militari a Nassiriya.

Ecco le cifre: l'ospedale a Bagdad costa...

21 milioni 554 mila euro.

Il nostro contingente a Nassiriya costa...

232 milioni e 451 mila euro.

La domanda è: ma perché il nostro intervento umanitario in senso stretto è a Bagdad e invece i nostri soldati e le nostre risorse stanno a Nassiriya? Che c'è lì di così tanto umanitario?

Il 22 ottobre 2003 i parlamentari italiani della commissione difesa vanno a Nassiriya.

Elettra Deiana, deputata di Rifondazione Comunista, faceva parte della delegazione e ha ascoltato uno strano discorso.

"Abbiamo incontrato l'ambasciatore presso il governo provvisorio di Bagdad Antonio Armellini, il quale ci ha detto che vi sono degli interessi italiani in gioco in questa vicenda"

Interessi in gioco!

"Di conseguenza il calcolo è che i benefici saranno all'altezza dell'impegno militare"

Benefici in cambio dell'impegno militare!

Ora in Iraq in generale e a Nassiriya in particolare ci sono importanti giacimenti di... benefici.

Ne sa qualcosa Benito Li Vigni, un'ex dirigente dell'Eni.

"Il governo iracheno accordò all'Eni lo sfruttamento di un giacimento sul territorio di Nassiriya, nel sud del Paese, con 2,5 / 3 miliardi di barili di riserve, un giacimento quinto per importanza tra i nuovi che l'Iraq voleva avviare a produzione. Nel suo territorio c'è una grande raffineria ed un grande oleodotto"

Guarda un po', l'Eni aveva contratti petroliferi con l'Iraq che riguardavano i pozzi proprio di Nassiriya! Che coincidenza!

Ancora Li Vigni.

"I contratti che regolavano i rapporti tra la parte pubblica e quella privata delle compagnie concessionarie, seguivano una formula che nel settore era considerata la più vantaggiosa di tutte, che di solito i Paesi produttori mediorientali fanno di tutto per evitare. E' un contratto che consente di considerare come propria riserva una quota della produzione. Di fatto la riserva accertata tra 2,5 e 3 miliardi di barili poteva essere iscritta in bilancio Eni"

Contratti vantaggiosi. Un peccato rinunciarvi!

In parlamento la senatrice Tana De Zulueta, del gruppo Occhetto - Di Pietro, ha presentato un'interrogazione proprio su questa vicenda.

"Il fatto è che quando i soldati italiani sono arrivati a Nassiryia, la loro prima base militare era ubicata proprio di fronte alla raffineria che consentirebbe all'Eni di poter raffinare proprio lì il petrolio estratto.

Altra condizione che si aggiunge a un contratto che in sé era estremamente vantaggioso.

Dico "era" perché quel contratto è in forse, nel senso che l'occupazione dell'Iraq e la caduta di Saddam Hussein hanno fatto sì che le tre grandi concessioni siano congelate. Noi abbiamo chiesto al governo se la scelta di mandare i nostri militari in Iraq fosse motivata da un desiderio di tutelare quella concessione, di garantircela per il futuro"

E noi ci siamo procurati la risposta del governo all'interrogazione della parlamentare.

"La nostra presenza in Iraq è frutto di prioritarie considerazioni di carattere politico e umanitario"

Prioritarie considerazioni di carattere politico e umanitario.

"La scelta di dislocare un contingente a Nassiriya non è stata in alcun modo legata agli interessi dell'Eni"

Ah, no?

"Le bozze di accordo per lo sfruttamento dei campi petroliferi a Nassiriya tra Eni e le autorità competenti irachene non sono mai state perfezionate attraverso la firma di un testo vincolante"

E intanto il governo ammette gli accordi. Il 23 febbraio 2003, un mese prima dell'invasione, l'agenzia Ansa dà notizia dell'esistenza di un dossier circa gli affari italiani in Iraq.

"L'Italia, che e' già presente con le iniziative dell'Eni ad Halfaya e Nassiriya, può giocare anch'essa un ruolo"

Ecco cosa dice l'amministratore delegato dell'Eni, un mese dopo la caduta di Saddam.

"L'amministratore delegato dell'Eni Vittorio Mincato ricorda agli azionisti come già nel passato il gruppo aveva messo gli occhi sull'area irachena di Nassiriya"

Nassiriya!

Il nostro dubbio a questo punto è il seguente: è un caso che i nostri soldati siano finiti a Nassiriya?

Ecco il sottosegretario alla difesa Filippo Berselli.

- Non posso essere d'aiuto, né confermando, né smentendo una notizia che non so.

- Allora posso chiederle quest'altra cosa, più in generale: perché siamo andati proprio a Nassiriya?

- Beh, a Nassiriya perché a Bagdad c'erano gli americani, c'erano delle aree d'influenza ed è stata scelta Nassiriya, sarà una coincidenza. Per quanto mi riguarda è assolutamente una coincidenza.

- Ah, una coincidenza.

Nel Guinness della Barbarie, recentemente aggiornato con la decapitazione islamica e le torture cristiane in Iraq, suggerirei di inserire anche la testa mozza, lo sparo in faccia e l´esecuzione in ambulanza, nuove delizie della criminalità nostrana. Vanno ad aggiungersi agli incaprettamenti, ai genitali recisi e ficcati in bocca al morto "infame", alle nostre piccole Due Torri (Falcone e Borsellino) rase al suolo col tritolo, ai bambini strozzati e sciolti nell´acido, ai parenti di secondo e terzo grado sgozzati per faida familiare (ah, la famiglia, che pilastro della società?).

Come sbudellano e arrostiscono, come uccidono e torturano la nostra mafia, camorra, ?ndrangheta, decine di migliaia di morti (sì, decine di migliaia) nell´ultimo mezzo secolo, ce lo siamo dimenticati. La prepotenza sordida, il possesso materiale di persone e vite umane, il ricatto, la violenza ripugnante, il disporre dei corpi come roba, delle anime come merce di scambio: tutto passato in secondo piano, da qualche anno. I famosi professionisti dell´antimafia, quei rompicoglioni politicizzati, sono stati tutti più o meno congedati. Ma via, almeno qualche contabile di Stato che continui a classificare i morti, e le maniere di morire, quello dovrebbero pure assumerlo, in qualche ministero.

L’espressione massima del lusso? Avere un tetto sopra la testa. Difficile descrivere altrimenti l’emergenza casa in Italia, dove l’affitto medio di un appartamento ha ormai raggiunto la parità con lo stipendio percepito dalla maggioranza dei lavoratori dipendenti. Tra il 2002 e il 2003 i canoni di locazione sono saliti del 17%, facendo schizzare a 1.025 euro la cifra media richiesta per un’abitazione. Più o meno quanto guadagna un qualsiasi operaio o impiegato.

L’allarme viene dall’ultima indagine del Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, che ha passato in rassegna gli andamenti del mercato immobiliare su tutto il territorio nazionale: Venezia, Milano e Roma si confermano le città più care, con affitti da 1.500 a 1.260 euro al mese, seguono Firenze e Bologna, intorno ai 1.150 euro, mentre si fermano sotto quota mille solo Torino, Genova e le città del sud, tra gli 800 e i 600 euro mensili.

Affitti d’oro o in nero

Cifre che salgono ulteriormente per metrature ampie o per appartamenti in zone centrali e che, anche per chi fosse di moderate pretese, non tengono conto di spese condominiali, riscaldamento ed elettricità che finiscono con l’assorbire la totalità di uno stipendio da lavoro dipendente. A questa situazione va poi aggiunto il dilagante fenomeno dei canoni in nero, che rappresentano ben il 50% di tutto il mercato delle locazioni: «Questo è l’unico dato che si è mantenuto costante nel tempo - ha affermato il segretario generale del Sunia, Luigi Pallotta - era il 50% prima della liberalizzazione ed è il 50% ora».

Il risultato è netto alquanto drammatico: solo le famiglie con redditi superiori ai 30mila euro all’anno possono serenamente accedere al mercato ed affittare una casa adeguata alle proprie necessità. Gli altri dovranno accontentarsi di piccole stanze sovraffollate. Per le fasce più basse, che guadagnano fino a 7.500 euro annui, il canone di un monolocale incide per l’81%, mentre bilocali o trilocali restano inaccessibili con livelli di onerosità dal 127% al 147%. Non va meglio per i redditi da 15mila euro: l’affitto di un monolocale incide per il 40%, tra il 63% e il 73% quello di bilocali e trilocali, oltre il 90% quello di tipologie maggiori.

Redditi così così…

La strada inizia a farsi più agevole solo per redditi medi intorno ai 22.500 euro annui: l’incidenza è inferiore al 30% per case piccole, varia dal 42% al 49% per quelle medie, ma balza fino al 75% per abitazioni con più di quattro stanze. Se la cavano senza preoccupazioni eccessive solo le famiglie con redditi elevati di 30mila euro annui, le uniche a potersi permettere un’abitazione ampia che non incida sul bilancio di casa oltre il 57%.

... e redditi bassi

Con un reddito medio-basso, invece, una coppia con due figli che scelga di vivere in periferia a Milano dovrà accontentarsi di un’unica camera da letto per tutti (l’onerosità di un bilocale è del 61%): perchè marito e moglie possano avere una stanza tutta per sè, ci vuole almeno un reddito medio (l’incidenza di un trilocale è del 66%). «Le persone normali - ha commentato Paola Modica, segretario confederale della Cgil - non ce la fanno a tirare a fine mese. L’affitto, i cui aumenti sono decisamente superiori all’inflazione, incide pesantemente sul reddito, che già si sta progressivamente spostando verso il basso come ha fatto notare la Banca d’Italia. Come movimento sindacale, e questa è una idea unitaria di Cgil, Cisl e Uil, riteniamo indispensabile rilanciare la politica abitativa modificando la legge sugli affitti, rilanciando l’edilizia pubblica e stanziando più risorse a sostegno del fondo sociale per gli affitti».

All’edilizia pubblica, che attualmente copre solo il 7-8% della richiesta d’affitto, dovrebbe invece essere stanziato almeno un miliardo di euro all’anno, mentre almeno 500 milioni dovrebbero essere destinati al fondo sociale per gli affitti. Secondo la Cgil è inoltre necessario modificare la legge sugli affitti prevedendo solo il canale del concordato ed abolendo la libera contrattazione.

E tu chiamali investimenti

«La casa è diventata sempre più un bene d’investimento e non d’uso - ha precisato Modica - visto che in questa fase di declino e di stagnazione l’unico settore che tira è quello immobiliare, dove si registrano rendite altissime e dove confluiscono parte delle risorse che potrebbero essere destinate ad investimenti produttivi. Tutto questo è il frutto della sciagurata politica del governo, che attraverso le cartolarizzazioni, la costituzione di Patrimonio Spa, la svendita del patrimonio pubblico ed i regali fiscali, si è dimostrato pronto a tagliare il welfare ed a consentire una crescita senza precedenti degli utili nel settore degli immobili».

«C’è poi il problema della terziarizzazione dei centri storici - ha concluso Paola Modica - in Parlamento è infatti in discussione una proposta sulla nuova legge urbanistica che toglie ai comuni la pianificazione per darla in mano ai privati. Dobbiamo recuperare il patrimonio edilizio che abbiamo adattandolo alle nuove esigenze».

Titolo originale Megachurches As Minitowns – traduzione di Fabrizio Bottini

Patty Anderson e suo marito, Gary, hanno trovato la fede dove meno se l’aspettavano: lui su una linea di tiri liberi, e lei fasciata in una tuta al corso di aerobica.

È successo nei 5.000 metri quadrati del centro di attività varie alla Southeast Christian Church, dove il sollevamento pesi e le lodi al signore vanno mano nella mano. Le offerte per le attività fisiche comprendono 16 campi da basket e un centro salute Cybex, gratis per i fedeli, dove la musica è cristiana e le regole proibiscono di imprecare, anche durante gli esercizi.

”A dire il vero io non avevo intenzione di entrare a far parte di una chiesa” ricorda Gary Anderson, professore di fisiologia alla Scuola di Medicina dell’Università di Louisville. Ma i lanci in questa megachiesa con 22.000 membri l’hanno portato verso il santuario. E dopo tre anni, dice, come un canestro da distanza “le prediche hanno fatto centro”.

La Southeast Christian è un esempio della nuova generazione di megachiese: servizio completo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in un villaggio suburbano, che offre molti dei servizi e annessi della vita secolare, avvolti attorno a un cuore spirituale. É possibile mangiare, fare shopping, andare a scuola, in banca, in palestra, fare arrampicata su roccia e pregare, tutto senza uscire dal villaggio.

Queste chiese stanno diventando un elemento civico in modi inimmaginabili, almeno da XIII secolo delle grandi città-cattedrali in poi. Non più semplicemente luoghi di preghiera, sono diventati in parte spazi per il tempo libero, in parte shopping mall, in parte famiglia estesa e in parte piazza cittadina.

A Glendale, Arizona, la Community Church of Joy, con 12.000 membri, scuola, spazio conferenze, libreria e camera mortuaria sui quasi 100 ettari della proprietà, si è impegnata in un progetto da 100 milioni di dollari per costruire un insediamento residenziale, albergo, centro congressi, spazi per il pattinaggio e i giochi acquatici, trasformando sé stessa in quello che il pastore decano Dr. Walt Kallestad chiama “ destination center”.

Queste chiese sono anche diventate possibilità alternative di lavoro. Alla Brentwood Baptist Church di Houston, tra un mese aprirà un McDonald’s, completo di servizio drive-in e piccoli archi dorati. Parte sei suoi obiettivi è di creare posti di lavoro per giovani e anziani, offrendo contemporaneamente a una congregazione soprattutto di middle-class nera un’occasione in più per stare negli spazi della chiesa.

Rendendo possibile abitare la chiesa dal mattino alla sera, dalla culla alla tomba, queste strutture a servizio completo possono attirare fedeli da “una società più ampia che appare insicura, imprevedibile e fuori controllo, caratterizzata dalle armi nelle scuole o dal terrorismo”, come dice il Dottor Randall Ballmer, professore di Religione Americana al Barnard College.

Se alcuni studiosi e città sono preoccupati per le enormi dimensioni di queste chiese, e le responsabilità civiche che si assumono, questi centri “24 su 24/7 su 7” riflettono un più ampio desiderio culturale di radicamento, agio, famiglia estesa. In vivo contrasto con i temi che attraversano le grandi chiese tradizionali, questi centri, in gran parte evangelici, offrono sollievo dallo stress della vita familiare americana, incluso lo sprawl suburbano, con i suoi lunghi tempi pendolari, e “droghe, crimini, e latre tentazioni giovanili”, nell eparole del Dottor Joe Samuel Ratliff, pastore battista di Brentwood. È stato lui a chiamare McDonald’s, come occasione di “creare uno spazio controllato e protetto per i nostri bambini”.

Le chiese esprimono un desiderio dei fedeli, per “un universo dove tutto, dalla temperatura alla teologia, è controllato e sicuro” dice il Dottor Ballmer. “Non devono preoccuparsi di trovare scuole, reti sociali, o un posto per mangiare. È tutto preconfezionato”

Nonostante molte di queste chiese, in gran parte al Sud e nel Midwest, siano impegnate nella predicazione, i loro fedeli possono isolarsi dal resto della comunità, e chiudersi in una specie di “bozzolo cristiano” afferma il Dottor Bill J. Leonard, decano e professore di storia della chiesa alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina.

Ma, come dicono i leaders delle chiese, lo scopo non è l’isolamento ma la ricerca della pace e tranquillità per famiglie inquiete. Con le tante possibilità di ingresso, dalle palestre ai caffè per persone sole, le chiese a servizio completo rendono semplice entrare, e restarci.

L’aspetto del restarci, è quello che si è dimostrato critico per le istituzioni religiose. I frequentatori adulti, in proporzione di uno su sei, sono frequentatori molto occasionali della chiesa, “in base ai bisogni del giorno”, dice David Kinnaman, vice presidente di Barna Research, una delle nuove imprese di consulenza che assistono queste chiese nel loro sviluppo. Un fedele su sette abbandonerà la chiesa entro un anno.

”La gente guarda alle chiese con lo spirito dell’analisi costi-benefici che userebbe per qualunque prodotto di consumo”, afferma Kinnaman. “C’è poca fedeltà al marchio. Molti cercano il più nuovo e il più grande”.

Dave Stone, assistente ministro della Southeast, chiama la sua chiesa, aperta tutti i giorni dalle 5,30 del mattino alle 11 di sera, “una stazione di rifornimento”

”Se possiamo far venire le persone alla nostra palestra” spiega “è solo questione di tempo, fargli visitare il nostro santuario”

La chiesa è stata deliberatamente progettata come uno shopping mall (il santuario funge da spazio anchor). Ingressi ampi quasi dieci metri con superfici curve enfatizzano “il flusso di persone”, afferma Jack Coffee, anziano della chiesa e presidente del comitato per la costruzione. Bambini in età prescolare pasticciano in uno spazio da gioco disneyano, con labirinti. C’è un’ala di tipo scolastico per lezioni sulla Bibbia, un atrio con dimensioni da sala concerto con ascensori di vetro, scale mobili incrociate e schermi giganti che elencano leofferte della giornata: incontri per aiutare a smettere di fumare, una mini-maratona di allenamento, corsi dedicati a bambini di sei mesi che insegnano a toccare la Bibbia.

Cose del genere, di solito, sono pagate dalla congregazione con campagne di sottoscrizione triennali, oltre il bilancio corrente che è spesso finaziato con le decime, dice Malcolm P. Graham, presidente della divisione chiese per la Cargill Associates, impresa di consulenze per il fund-raising. Uno studio dello Hartford Institute for Religion Research allo Hartford Seminary, ha calcolato le entrate annuali di una megachiesa 4,6 milioni di dollari. I contributi annuali alla Southeast Christian sono più di 20 milioni.

I fedeli della Southeast Christian sono una famiglia di 22.000 persone family, e i visitatori sono calcolati dalle statistiche: la caffetteria che serve 5.000 tazze l’ora, i 403 bagni. Le dimensioni stesse della Southeast Christian hanno generato l’invenzione della Greenlee Communion Dispensing Machine, progettata dal settantanovenne fedele Wilfred Greenlee. Puù riempire quaranta communion cups in due secondi.

Alla Fellowship Church di Grapevine, Texas, l’attirare giovani fedeli e riuscire a trattenerli ha aiutato a crescere, da 30 famiglie a 20.000 membri in dodici anni. Appartenere alla chiesa mette a disposizione un centro giovani di 4.000 metri quadrati con una palestra dir roccia, una galleria video, e si sta realizzando un lago per incoraggiare la pesca al persico in comune tra padri e figli.

La chiesa battista di Prestonwood di Plano, Texas, ha un centro giovani tanto elaborato che qualcuno l’ha chiamato “Preston World”: 15 campi da gioco, un ristorante stile anni Cinquanta e un fitness center, insieme ad aule e a un santuario con 7.000 posti a sedere. Si stanno aggiungendo una scuola da 19 milioni di dollari, un coffee shop, uno spazio sosta ristorazione, un centro di studi per giovani pastori, un edificio dedicato alla gioventù, una passeggiata all’aperto dedicata alla preghiera, una cappella e uno spazio comune modellato sulle forme di una strada principale di villaggio. “Non siamo una grande chiesa” afferma Mike Basta, pastore responsabile. “Siamo una piccola città”.

Anche la chiesa battista Brentwood di Houston offre una gamma completa di opzioni familiari, spesso fondate su criteri politici e sociali. Accanto ai corsi di canto corale e di studi biblici, ha spazi per pazienti malati di AIDS e il credito agevolato.

In questa chiesa formato gigante, il nuovo McDonald’s non è solo un investimento conveniente per la congregazione — che ha investito 100.000 dollari nel franchising — ma anche un modo per creare posti di lavoro e generare profitti da reinvestire in borse di studio e programmi comunitari (McDonald’s si prende il suo 4 per cento standard dei guadagni).

Non è certo per caso, se si dà una scusa ai crica 2.000 fedeli che vanno alla chiesa per oltre 80 attività ogni sera (teatro per bambini, corsi di computer per adulti) una scusa per restare nei paraggi. “Se devi tornare a casa per cena, certo poi non tornerai qui”, dice il pastore Ratliff, riferendosi ai vasti bacini di pendolarismo.

Ma alcuni studiosi e amministrazioni municipali sono preoccupate per la crescita del ruolo civico di queste chiese “24 su 24/7 su 7”. Stanno diventando “un universo parallelo cristianizzato”, nelle parole del Dottor Scott Thumma, sociologo delle religioni allo Hartford Institute.

Wade Clark Roof, professore di religione e società alla University of California di Santa Barbara, si preoccupa che queste chiese a servizio completo siano “una versione religiosa delle gated communities. È un tentativo di creare un mondo dove ci si rapporta con persone dello stesso orientamento. Si perde il dialogo con la cultura generale”.

Marci Hamilton, professore di diritto costituzionale alla Benjamin Cardozo Law School di New York, afferma che questa crescita delle chiese, e in certi casi l’espansione di mega-sinagoghe, templi Mormoni temples e altre congregazioni, è diventata localmente conflittuale, specialmente nei quartieri residenziali preoccupati per la “intensità d’uso”. Le chiese a servizio completo virtualmente non dormono mai, attirano macchine, folle, emanano raggi di luce brillante a tutte le ore di tutti i giorni.

Queste tensioni fra stato e chiesa sono state evidenziate dal Religious Land Use and Institutionalized Person Act, approvato dal Congresso due anni fa, che impedisce a organismi pubblici, compresi gli uffici urbanistici locali, di bloccare progetti di chiese a meno che siano in gioco prevalenti interessi di tipo pubblico. Le municipalità in tutto il paese stanno “districando il problema di cosa le nuove leggi consentano o impediscano di fare” dice Jim Schwab, ricercatore della American Planning Association di Chicago.

La città nella città proposta dalla Community Church of Joy nell’area suburbana di Phoenix consente ai fedeli di vivere costantemente su terre della Chiesa, e anche si essere sepolti lì, avventurandosi all’esterno solo per lavorare o fare qualche spesa. Anche il parco acquatico, parte di un centro di sport a dimensioni olimpiche, ha un tema cristiano, con immagini al laser che rappresentano Giona, la Balena, Davide e Golia. Il quartiere residenziale, che non è dedicato in esclusiva ai membri della chiesa, avrà un cappellano a tempo pieno. Nonostante non voglia imitare Disneyland, è un’utopia disneyana con motore cristiano.

”La gente vuole morale, valori, e principi etici” dice il Dottor Kallestad, “Non è isolamento. È vivere su un’isola”.

Nota: per chi è interessato, è scaricabile direttamente da Eddyburg il testo originale del Religious Land Use and Institutionalized Person Act (fb)

Quello che ho davanti, risalendo l'argine di un canale di bonifica, lungo un percorso vita che vorrebbe essere un tracciato naturalistico, è uno dei pochi resti di bosco planiziale ancora rimasti nella Pianura padana. Il relitto di quello che un tempo era la pianura ai piedi delle Alpi dopo l'ultima glaciazione. Nell'epoca postglaciale, la pianura era completamente occupata, parlo del periodo tra il XIV ed il X millennio avanti Cristo, da un'associazione forestale sub-artica, la cui lenta evoluzione è riconducibile al clima estremamente freddo. Pensate ad un paesaggio nordico di pino silvestre e betulle che perdura fino all'età del ferro, in pratica fino alla soglia dell'attuale epoca storica. Poi, a causa di ripetute oscillazioni climatiche, il manto forestale evolve: rovere e farnia con tiglio, olmo, carpino e frassino. L'arrivo della «civilizzazione» romana, con le centuriazioni ( 1) e i disboscamenti finalizzati alla coltivazione e al pascolo, ridimensiona in maniera sensibile la superficie forestale. I Longobardi e i Franchi, fino a circa l'anno 1000, riducono ulteriormente la superficie boscata. A partire dall'alto Medioevo, il paesaggio non cambia sostanzialmente fino ai primi dell'Otticento, grazie anche alla sapiente tutela da parte di Venezia e dell'Austria. Poi è il degrado, la riduzione e, oggi, la scomparsa.

Il progressivo disboscamento

Il bosco di Olmè, che mi sta davanti, collocato nell'area veneta tra Cessalto e Ceggia, a cavallo delle province di Venezia e Treviso, che aveva ancora una superficie di 60 ettari ai primi del Novecento, si riduce a non più di 30 ettari dopo la 2° guerra mondiale. Il disboscamento negli anni Sessanta, per far posto all'autostrada Venezia-Trieste, lo riduce ulteriormente a 24 ettari. Le strade sono la sua maledizione. Il bosco, che rappresenta una delle più significative espressioni del «querceto-carpineto», cioè della vegetazione forestale potenziale della bassa pianura veneto-friulana, oggi è minacciato da un nuovo tracciato stradale.

Si tratta indubbiamente di un bosco degradato. Il suo livello di equilibrio viene ipotizzato in una dimensione non inferiore ai 100-150 ettari ed è appunto dalla considerazione del suo degrado ambientale che parte la Valutazione di Incidenza (il sito è di Importanza Comunitaria-Sic e Zona di Protezione Speciale-Zps) per giustificare la fattibilità del raccordo tra Ceggia e l'Autostrada. Una valutazione che, se condotta ai fini delle tutela del bosco, avrebbe dovuto ipotizzare un piano per il suo recupero, mentre invece trova tutta una serie di scappatoie e dimostrazioni artificiose ai fini della sostenibilità dell'infrastruttura.

Se avevate ancora qualche dubbio sulla possibilità che la Valutazione di Incidenza, detta VInc.A, non fosse funzionale e giustificativa per qualsiasi intervento sul territorio, beh, fatevelo passare, perché la storia della nuova bretella di collegamento Ceggia-Cessalto-Autostrada Venezia-Trieste lo sta a dimostrare. A monte di tutta l'operazione sta la decisione dell'amministrazione di centrosinistra del comune di Ceggia, appoggiata dall'amministrazione di centro-sinistra della provincia di Venezia, di volere a tutti i costi la bretella per alleggerire il traffico di transito nel centro storico. Alla decisione degli amministratori cerca di contrapporsi il comitato «Cittadini per il Territorio di Ceggia» il quale, nel gennaio 2004, presenta un'analisi critica della valutazione di incidenza. La Commissione Tecnica Regionale, acquisito il rapporto del comitato nel mese di marzo di quest'anno, con una procedura del tutto inusuale in quanto il Ctr dovrebbe o approvare o bocciare la variante, chiede al comune di Ceggia integrazioni e indagini sui tracciati alternativi.

La vicenda mi viene raccontata da Annalisa Guiotto, insegnante, anima e sprone del Comitato: «Siamo nel periodo delle elezioni amministrative e i candidati della maggioranza rassicurano gli elettori. Cambieranno il tracciato. E infatti, la possibilità di un diverso tracciato viene inserita anche nel programma elettorale. La giunta di centrosinistra, dopo la vittoria alle elezioni, invia alla regione veneto una seconda versione della VInc.A, con il tracciato spostato di 90 metri, ma anche questa non va bene. Ai primi di luglio è la volta di una terza versione, con tracciato a 80 metri dal margine del bosco. Poi, ai primi di settembre si scopre che esiste un progetto esecutivo, con un tracciato della strada a 30 metri. In realtà, la Commissione Tecnica Regionale avrebbe approvato la strada a 80 metri. Ed ecco il colpo di scena: la Soprintendenza avrebbe espresso parere negativo.».

Valutazioni discordanti

Insomma, troppe valutazioni di impatto discordanti per una strada che sarebbe percorsa da almeno 12-20.000 veicoli al giorno, con sicuri effetti sia sulla vegetazione che sulla ornitofauna del bosco, ragion per cui la giunta regionale del Veneto, nel 1999, aveva deciso di tutelare il Bosco Olmè con una fascia di rispetto di almeno 150 metri. La regione Veneto ha ragione, come ha ragione la Soprintendenza. Per quanto si voglia o si possa mitigare l'impatto, lo stesso è irreversibile nei confronti del bosco e non basterà l'asfalto con qualità speciali di fonoassorbenza o l'impianto di illuminazione studiato per non attirare animali, per i quali sono previsti percorsi protetti. Gli argini di terrapieno verso il bosco con barriere fonoassorbenti rappresenteranno proprio quello che non ci vuole: la loro impenetrabile struttura lineare si andrà a scontrare con il modello frattale ed ecotonale, cioè di continua, rimodellata transizione, caratteristico dei margini di un bosco.

Nella sede della Soprintendenza, a palazzo Soranzo Cappello, sul Rio marin, a Venezia, sia il soprintendente, l'arch. Guglielmo Monti, che il suo collaboratore, l'architetto Luigi Crocchi, sono convinti che la strada avrebbe un impatto irreversibile sul paesaggio. Il ragionamento è semplice: il paesaggio della pianura, caratterizzato dalla presenza del bosco planiziale misto, deve essere valutato sulla base dei principi, sia dell'ecologia del paesaggio, che dell'ecologia urbana. Di queste analisi non si trova traccia nelle ben 4 valutazioni di incidenza con le quali gli amministratori hanno rilanciato. Dopo aver esaminato la documentazione, riconosco che, in un simile ambito, l'analisi doveva basarsi sulla biosemiotica e sui parametri dell'ecofield, quale sintesi tra abitata e nicchia ecologica, (a questo proposito consiglio la lettura dell'ultimo testo di Almo Farina, «Verso una scienza del paesaggio», pubblicato da Perdisa di Bologna), il che avrebbe consentito di valutare correttamente il valore del paesaggio legato ai resti del bosco planiziale e a una ben definita geografia del paesaggio agrario e urbano nel quale il bosco si integra.

Il valore del bosco relitto, in termini paesistici, non sta nella presenza di specie prioritarie come invertebrati, anfibi, rettili e uccelli, ma nel suo valore di ecofield, di ambiente soggettivo e di grande area ecotonale, i cui elementi si traducono parzialmente nel mosaico del paesaggio agrario. Ogni frattura, ogni elemento di frammentazione tra bosco e paesaggio agrario, come sarebbe la bretella tra Ceggia e l'Autostrada, se realizzata, porterebbe ad un impatto irreversibile, alla progressiva scomparsa del bosco stesso. Manca anche un'analisi del mosaico ambientale dell'area. L'adozione di barriere e di corridoi ai margini dell'infrastruttura non garantirebbero il mantenimento dell'attuale, precario equilibrio e i corridoi faunistici potrebbero rivelarsi un ulteriore appesantimento dell'opera. Le barriere verdi, in un simile contesto, non compensano la frattura dell'impermeabilizzazione e il monitoraggio lichenico, previsto per il controllo degli inquinanti atmosferici, non sarebbe che un fiore all'occhiello destinato ben presto ad appassire.

Un'opera sbagliata

L'opera, quindi, non può essere realizzata né a 30, né a 80, né a 90, né a 150 metri dal bosco. L'unica compensazione possibile starebbe nel progressivo aumento dell'area occupata dal bosco, se davvero vogliamo attuare una politica di conservazione e di valorizzazione delle risorse naturali, fino al raggiungimento del valore di omeostasi, inteso come capacità del bosco e dell'insieme del paesaggio agrario antropizzato, di mantenere costanti le proprie condizioni interne. Il risultato sarebbe raggiungibile solo con l'incremento dell'estensione boscata a 4-5 volte la superficie attualmente occupata, cioè 100-150 attari. Sarebbe questo il livello in cui l'omeostasi apre alla novità ontogenetica.

Annalisa Guiotto mi porta all'entrata del Bosco ai margini della zona industriale di Cessalto. Lì c'è un pannello esplicativo il quale dice che il bosco e tutta l'area contermine rientrano nel «percorso dei fiumi e dei vini», un progetto finanziato dalla Comunità europea, Fondo Fesr, Regione Veneto, Programma regionale leader 2, Gruppo di azione locale numero 5, comune di Cessalto. Mi conduce poi a occidente del bosco, dove dovrebbe passare la bretella e qui c'è un simbolo che, in legenda, viene indicato come «Elementi Morfologici e Paesaggi di Rilievo». Infervorata mi dice: «Vede, è un'area già riconosciuta di pregio, già tutelata dal comune e dall'Unione europea. Sono stati spesi fondi pubblici. Non si può ora distruggere tutto».

Il comitato ha ragione: niente bretella tra l'autostrada-Cessalto e Ceggia, se vogliamo salvare uno dei pochi lembi rimasti del nostro paesaggio della memoria.

( 1) Le centurazioni erano moduli di circa 720 metri utilizzate nella suddivisione della proprietà fondiaria, in genere il occasione di elargizioni di Roma ai propri soldati reduci da battaglie vittoriose.

Titolo originale: Array of Hope: Environmental leaders and thinkers on what comes next– traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Cosa facciamo adesso? È la domanda posta da un lettore che si alza presto al direttore di Grist, in una lettera scritta subito dopo i primi risultati delle elezioni. Di fronte ad altri quattro anni di amministrazione Bush (un’amministrazione ovunque denunciata come la più ambientalmente distruttiva nella storia nazionale) il nostro corrispondente si è chiesto: in che direzione dovranno rivolgersi le energie dell’ambientalismo per i prossimi quattro anni?

Anziché risponderci da soli, ci siamo rivolti agli ambientalisti di tutto il paese per sentire la loro opinione: scrittori, pensatori, membri del Congresso e leaders di associazioni, studiosi e ricercatori. [...]



Jim Jeffords (Senatore, membro del Senate Environment and Public Works Committee)

In qualunque dibattito e in qualunque momento, gli ambientalisti devono continuare a sostenere che una maggior protezione della salute pubblica e dell’ambiente è un fattore critico per tutti gli Americani, per l’economia, per le future generazioni. Devono continuare la loro vigilanza e ritenere responsabili i rappresentanti eletti di qualunque tentativo di modificare in negativo leggi e regolamenti. Devono contestare pubblicamente decisioni sbagliate e non scientifiche, e impegnarsi per rendere trasparente il processo decisionale. Allo stesso tempo, devono essere presenti anche all’interno dei partiti, coltivare nuove relazioni e rinforzarne di antiche, sviluppare nuove collaborazioni con qualunque gruppo impegnato in qualunque aspetto della vita americana. Se vale la lezione del passato, agli ambientalisti saranno necessarie tutte le risorse a disposizione nei prossimi quattro anni, anche solo per mantenere una sembianza di progresso in avanti, e assicurarsi di lasciare la nostra aria, le acque, la terra, in condizioni migliori di come le abbiamo trovate.

Yvon Chouinard (fondatore e finanziatore di 1% for the Planet programma dall’impresa alle associazioni ambientaliste di base)

Non starei ad aspettare che il Partito Democratico rimetta insieme le frattaglie per il prossimo round, perché credo che i risultati delle elezioni di questa settimana lo porteranno anche più a destra di dove sta ora.

Abbiate fede nella democrazia di base.

Nei giorni antichi del nostro paese, e fino alla fine del XIX secolo, c’erano tre potenti forze sociali: il governo federale, quello locale, la democrazia di base. Fra queste tre, la democrazia civica di base era di gran lunga la più potente. I suoi attivisti furono responsabili in primo luogo del distacco dalla Gran Bretagna. E pensiamo alle questioni ambientali: creare il parco nazionale di Yosemite non fu un’idea di Teddy Roosevelt, ma dell’attivista John Muir, che convinse Roosevelt a campeggiare fra le sequoie. Oggi, i cittadini canoisti e pescatori lavorano per tirar giù le dighe obsolete e lasciar scorrere i fiumi. I falconieri hanno ripristinato il falco pellegrino che era quasi estinto. I cacciatori di anatre hanno fatto il massimo per proteggere gli uccelli acquatici del Nord America.

Nol mondo, più di 100.000 organizzazioni non governative lavorano sui temi della sostenibilità ecologica e sociale. Il fatto che siano sorte indipendentemente è una formidabile affermazione di quanto sia estesa la crisi ambientale. Molte di queste organizzazioni di base sono molto più capaci di risolvere problemi di quanto non siano le autoreferenziali imprese multinazionali o le agenzie governative. La maggior parte sono gruppi locali che lavorano lunghe ore con risorse minime. E allora, dico io, più che mai abbiamo bisogno di incoraggiare la democrazia di base unendoci, facendo volontariato, o sostenendo finanziariamente questi gruppi. Possiamo ancora avere voce in fatto di democrazia.



Laurie David (membro del direttivo al Natural Resources Defense Council)

Superato l'ostacolo della rielezione, la cricca Bush e i suoi amici inquinatori porteranno la loro tresca ad un livello tale da fottere davvero il popolo americano. Sappiamo che questa amministrazione tenterà di nuovo l’assalto allo Arctic Refuge. Sappiamo che continuerà a cercare di indebolire il Clean Air Act; e sappiamo che torneranno contro le foreste e le zone naturali con spirito vendicativo.

La buona notizia è che ci siamo anche noi. La gente deve ricordare che queste elezioni non erano su temi ambientali. Gli americani sono ancora in grandissima maggioranza favorevoli alla tutela ambientale, e sono ancora infuriati per quanto il governo ha accettato dai lobbisti di impresa.

Non tollereremo che una pseudo-scienza detti le politiche americane. Non tollereremo che si continuino a mascherare orribili politiche con sotterfugi verbali. Dobbiamo unirci come non mai, per respingere un attacco frontale e diretto. Quando si arrivò al peggio delle iniziative di Bush nello scroso mandato, fu solo la muraglia di pietra dell’opinione pubblica ad ostacolarlo. Deve continuare a farlo.

I sostenitori delle questioni ambientali devono continuare a portare le proprie richieste ai governi statali, a Capitol Hill, e se necessario ai tribunali. Ma non possiamo giocare solo in difesa. Dobbiamo continuare la lotta per nuovi limiti al riscaldamento globale, e insistere sul fatto che è tempo di disintossicarsi dal petrolio del Medio Oriente.

John Passacantando (direttore operativo di Greenpeace USA)

Vedere Bush rieletto con la più netta maggioranza dai tempi della presidenza di suo padre, è uno choc emotivo. Sembra si sia assicurato un mandato pieno sull base delle politiche di guerra preventiva, guerra all’ambiente, capitalismo cieco, velato razzismo, omofobia, e un fondamentalismo che sarebbe l’orgoglio di un Talebano.

Che fare? Provare dolore. Se ascoltate il presidente Bush e vi sentite scoraggiati, avete la sensazione che il vostro governo non vi rappresenti, che questo non sembra più il vostro paese, assaporate questi sentimenti. Anche Gandhi, King, Lewis, Parks, Muir, Thoreau prima di fare le loro grandi cose, si sentivano tutti così. Lo sentivano, la cosa li faceva arrabbiare, poi li motivava. Ora è il nostro turno, di sentirci fottuti. E allora, insieme, lo trasformeremo in qualcos’altro.

La nostra è una causa giusta. Non possiamo permetterci la sconfitta, o di sentirci sconfitti. La postra è troppo alta. Il nostro pianeta. Il nostro futuro. E l’eredità che lasceremo ai nostri figli.

Carl Pope (direttore operativo del Sierra Club)

Per prima cosa: il Sierra Club ha ottenuto una grossa vittoria per l’ambiente, reclutando più di 12.000 nuovi volontari e mobilitando centinaia di migliaia di elettori attenti ai temi dell’ambiente. Comunque saranno quattro anni duri. Il primo istinto della Casa Bianca del rieletto Bush sarà di completare la distruzione della rete di sicurezza ambientale. Possiamo aspettarci più segretezza governativa, più soppressione di dati scientifici di base, anche tentativi di negare ai cittadini i diritti elementari di appellarsi a un tribunale per difendere se stessi e le proprie comunità dagli assalti all’ambiente.

Ma i nostri 750.000 membri, e questi nuovi volontari, non saranno scoraggiati: continueremo a ritenere responsabili l’amministrazione Bush e il Congresso. Il Congresso andrà al giudizio degli elettori fra due anni. E ancora due anni dopo, entrambi i partiti cercheranno di prendere la Casa Bianca. Il lavoro cominciato dal Sierra Club negli scorsi due anni, di ricostruire la comunità ambientalista del paese, è il lavoro giusto. Dobbiamo semplicemente farne di più, farlo meglio, spiegare al popolo americano come le politiche ambientali dell’amministrazione Bush stiano mettendo a rischio le loro famiglie.

Julia Butterfly Hill (famosa per aver vissuto tre anni su una sequoia)

Il sistema elettorale è logoro e corrotto, la vittoria di Bush è una farsa. Con i meccanismi di voto posseduti e controllati dai sostenitori di Bush, non sorprende che sia di nuovo presidente. Non viviamo in una vera democrazia. Se fosse così, avremmo una rappresentanza vera, e non semplicemente un sistema a due partiti. I grandi mutamenti storici nel mondo sono avvenuti quando la gente è scesa per le strade ad abbattere sistemi che sostenevano l’oppressione, costruendo contemporaneamente movimenti propositivi. Prego che queste elezioni siano il segnale di sveglia perché gli americani inizino a distruggere quello che non serve noi e il nostro mondo, e a costruire insieme una nuova visione rispettosa della gente e del pianeta.



Richard Nelson (antropologo)

Quando i politici operano per distruggere foreste e terre agricole, parlate. Quando mettono in pericolo l’aria e le acque, parlate. Quando minano il benessere dei nostri quartieri, parlate. Quando non rispettano i diritti umani, parlate. Quando disprezzano i principi di libertà e democrazia, parlate. Quando ignorano le responsabilità che si accompagnano ad un potere senza limiti, parlate. Quando mettono in pericolo le opportunità di pace, parlate. E soprattutto, quando loro chiedono il silenzio: parlate. Mai come ora, le speranze e promesse dell’America poggiano su un coro di voci irrefrenabile che sale: sussurram grida, proclama, protesta, difende, resite, canta, sostiene, celebra ... e perseverante: parla!

Rick Bass (scrittore)

Non arrendersi, non rinunciare. Prepararsi strategicamente al 2008 nei centri universitari, e rivolgersi al voto giovanile. Cominciare dagli studenti del primo anno per le elezioni del 2006 e 2008. Spingere per tutte le cose che avremmo chiesto a (e ci saremmo aspettati da) Kerry.

Emigrare in Canada non è una scelta. La patria deve essere difesa.

Terry Tempest Williams (scrittrice)

Tutti dovrebbero guardare Mosh, il video di Eminem, mettersi addosso casacche verdi, e stare a difendere il territorio, vigili e attenti.

David Orr (direttore per gli studi ambientali al l’Oberlin College)

Tanto per cominciare, diamo il giusto nome alle cose. L’elezione del 2004 conferma i peggiori incubi di James Madison: la conquista di tutti i rami del governo non solo da parte di un singolo partito, ma da parte di una frazione estremista di un partito.

In secondo luogo, dobbiamo essere chiari su dove stiamo andando. In quanto popolo, avermo più corruzione, più divisioni, più bugie, più terrorismo, più inquinamento, più agevolazioni per i ricchi, più fanatismo religioso, più sussidi alle grandi imprese, più bambini abbandonati, più famiglie in difficoltà, più debito pubblico sulle spalle dei nostri figli, più degrado urbano, più sciocche ideologie, e altri rinvii sulla questione dei potenziali catastrofici mutamenti del clima che si accumulano davanti a noi.

Al terzo posto, gli obiettivi di lungo termine, che sono chiari: restaurare la democrazia negli Stati Uniti eliminando il denaro dalla politica, ripristinando il controllo pubblico sulle telecomunicazioni, ricostruendo una stampa libera, a proprietà locale, ripristinando la caduta separazione fra stato e chiesa, e rieducando il popolo ad essere cittadino cosciente. Come possiamo fare queste cose? Nello stesso modo in cui si fanno le altre cose grandi e nobili: con pazienza, coraggio, energia, certezze, e padronanza dell’arte della strategie. Il ventre molle dell’impero Bush-Cheney-Rove è fatto di tutti i conservatori pensanti, disturbati dall’avventatezza, persone oneste offese dalla mendacità, veri Cristiani sufficientemente attenti per notare la discrepanza fra parole e vita, fra il nostro “Principe della Pace” e le nostre politiche interne e internazionali.

Non abbiamo forza, per la disperazione!

Scott Sanders (scrittore)

Dobbiamo resistere agli attacchi contro l’aria, il suolo, l’acqua e le aree naturali. Ma abbiamo anche bisogno di cambiare la nostra cultura, non solo i nostri leaders e le nostre tecnologie. Dobbiamo pronunciarci a agire per più conservazione, più sostenibilità, più pace, più pratica nelle case, posti di lavoro, scuole, pubbliche assemblee. Dobbiamo rifiutare il silenzio, la rinuncia, contro la cultura del consumismo industriale e una cultura di massa che ci spaccia la droga del divertimento. Dobbiamo articolare e dimostrare un modo più corretto e gioioso di vivere.



Bill McKibben (giornalista, scrittore, membro del consiglio direttivo di Grist)

Non c’è altro che scoraggiamento in questi risultati elettorali. Sarà dannatamente dura salvare lo Arctic National Wildlife Refuge con questo nuovo Senato, e sostanzialmente impossibile far passare niente di significativo riguardo ai mutamenti climatici (e probabilmente tutto il resto). Più che mai, giocheremo in difesa a livello nazionale e tenteremo di fare le cose vere a livello statale, almeno in quella striscia di stati colorati di blu sugli schermi TV. Ma siamo chiari: quello che è successo ieri sera garantisce che l’America non rientrerà nelle discussioni mondiali sui problemi dell’ambiente per anni.



Martha Marks (presidente di REP America, associazione ambientalista Repubblicana)

I conservazionisti devono intensificare la propria visibilità pubblica e trovare modi più efficaci per coinvolgere l’America media e il mondo dell’impresa. Per i prossimi quattro anni, i conservazionisti dovranno mantenere i contatti con Washington, ma orientare più energie verso il conseguimento di risultati dove l’ambiente è più ricettivo: a livello dei governi statali e locali.



Paul Hawken (direttore del Natural Capital Institute)

Premere per una radicale riforma dei meccanismi di campagna elettorale. Togliere il denaro delle imprese dalla politica. Depoliticizzare l’ambiente. Separare il Servizio Forestale dal Dipartimento dell’Agricoltura e collocare entrambi in un Dipertimento degli Interni che sia una struttura tecnica a fondamento scientifico. Fare della riduzione delle emissioni da carbonio una priorità internazionale. Creare un fiscalmente neutrale “ feebate system” per raddoppiare il chilometraggio del parco automobili americano. Rendere la conservazione e l’efficienza conveniente per il cittadino medio.

Peter Matthiessen (naturalista, scrittore)

Noi ambientalisti non dobbiamo perdere slancio o allentare gli sforzi nemmeno per un giorno, in questa lotta disperata per difendere la terra e la vita americane da altri quattro anni di spietato sfruttamento da parte dell’amministrazione Bush e dei suoi dirigenti di impresa. Dobbiamo riunire le forze per trovare sostegni: politici, finanziari e nei media. Una continua visibilità e l’inevitabile rabbia pubblica possono ispirare una rossa campagna di riforma finanziaria, e persuadere un presidente che non cerca più la rielezione a far brillare un po’ di più il bilancio ambientalmente più disgraziato che si ricordi, ripulendo dalla puzza di combustibili fossili, quella di Enron e Halliburton, la tristemente macchiata Casa Bianca; mettendo fine alla irresponsabile deregolamentazione e rimozione delle tutele ambientali nell’Arctic National Wildlife Refuge, nella Tongass National Forest, nel Rocky Mountain Front, e altrove; sostenendo uno standard di efficienza minima di 15 chilometri per litro di benzina; sollecitando l’impegno del congresso per le energie rinnovabili: in definitiva lavorare per conservare almeno un’apparenza di Beautiful America, per i nostri innocenti eredi.



Peggy Shepard (direttore operativo di WE ACT for Environmental Justice)

Ieri sera, prima che il Presidente Bush fosse dichiarato vincitore, alcuni sapientoni stavano prevedendo che le trivellazioni petrolifere nell’area dell’Arctic National Wildlife Refuge potessero cominciare presto. Questo dovrebbe dare il senso di quanto difficile sarà fare progressi su un’agenda ambientale forte, con un’altra amministrazione Bush.

Un modo di iniziare a prepararsi ai prossimi quattro anni, per ambientalisti e sostenitori delle cause ambientaliste, è quello di cominciare a concentrarsi su come articolare una visione del futuro che ispiri alleanze per: giustizia ambientale e mutamenti climatici globali; rafforzamento del Clean Air Act, costruzione di sostegni l principio di precauzione, miglioramento della qualità dell’acqua, sviluppo di una politica energetica sostenibile. Dobbiamo condividere prospettive e valori se dobbiamo costruire una coalizione politica vincente che possa riformare le politiche ambientali dello stato, migliorare la salute ambientale, mantenere l’impegno sui cambiamenti di clima, e fermare i tentativi dell’amministrazione Bush di tornare indietro sulla legislazione ambientale.



Christina Wong (laureanda in discipline ambientali a Berkeley)

Per i prossimi quattro anni, gli ambientalisti dovranno mantenere la pressione sull’amministrazione Bush attraverso tutti i canali, lavorando per bloccare qualunque indebolimento delle leggi ambientali attraverso lobbying e pressione legale.

Ma il nostro fuoco principale sarà alla base, al livello statale e locale, dove possiamo contrastare i danni di Bush incoraggiando la crescita del movimento e sviluppare iniziative statali come quella fondamentale della legge della California sui gas-serra. La comunità ambientalista ha bisogno di formare una coalizione più forte, visibile, attiva, per avere più sostegno e influenza. Dobbiamo mobilitare ed eucare il pubblico per creare una base che eserciti pressione sul governo per una più forte protezione dell’ambiente.



Alison Deming (autrice di Science and Other Poems)

Le speranze stanno nel pensiero e nell’azione locali, che non possono essere tarpati da menzogne, prepotenze, sfruttamento, avidità, che vengono spacciate per politica “pubblica” dalla dirigenza Bush/Cheney. Nella triste scia di queste elezioni dobbiamo concentrare l’energia degli attivisti sui piccoli buoni fatti che possono avere effetto sulla qualità ambientale locale e sulla giustizia sociale. Non è il momento di smorzare i fuochi dell’attivismo. Facciamo rumore, poesia, notizia. Come ha scritto W. H. Auden,

Per servire da paradigma

Ora, di quale possa essere un plausibile Futuro

È il motivo per cui siamo qui.

Nota: qui il sito del Grist Magazine, col testo originale, le facce degli intervistati e qualche informazione in più (fb)

I VALORI E LE SCELTE PER IL FUTURO DELLA CITTÀ

Bologna città di pace

La tradizione pacifica, solidale e democratica di Bologna, che ha trovato nella mobilitazione per la pace e contro la guerra in Iraq un'espressione così grande, merita un concreto impegno istituzionale, per lo sviluppo di una cultura di solidarietà e cooperazione tra i popoli, per una cultura di pace. Noi ci riconosciamo pienamente nell’articolo 11 della Costituzione e rifiutiamo la guerra: intendiamo promuovere e favorire anche a livello locale una rinnovata cultura della legalità internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni, soprattutto attraverso le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Le amministrazioni locali devono rendersi protagoniste di quella "diplomazia dal basso" che, grazie all'impegno di tante associazioni, di singoli cittadini e degli stessi enti locali, può rappresentare uno straordinario contributo alla crescita di una cultura di pace, di incontro fra identità diverse, di sviluppo della cooperazione internazionale, con lo scopo di prefigurare un nuovo modello di globalizzazione, che affermi i valori dell’equità sociale, della promozione dei diritti umani fondamentali, della pari dignità fra popoli e culture, del rispetto del diritto internazionale.

Bologna contro il terrorismo

Non ci deve essere spazio per la violenza e il terrorismo. Lo rifiutiamo e lo combattiamo qui, in Italia e nel mondo. È un dovere di tutti tenere viva la memoria storica delle stragi dell'Italicus, del 2 Agosto, di Ustica, del Rapido 904, della Uno Bianca e degli atti terroristici di cui è stata vittima Bologna, fino al recente assassinio di Marco Biagi e agli ultimi atti, inquietanti e simbolicamente gravi, che hanno colpito la nostra città.

Bologna città antifascista

L'antifascismo resta per noi un valore fondamentale, che rappresenta la nostra riconoscenza verso quelle donne e quegli uomini che con il loro sacrificio hanno conquistato libertà e democrazia per tutti gli italiani. È un valore che decliniamo respingendo i tentativi di attenuare le responsabilità storiche del fascismo e di delegittimare la Resistenza, ma anche nell'attualità della vita delle nostre comunità, opponendoci ad ogni forma di violenza, di intolleranza, di razzismo e di xenofobia, contribuendo così all’affermazione dei valori fondanti della nostra Repubblica espressi nella prima parte della Costituzione.

Bologna città dei diritti

Libertà, giustizia, solidarietà, diritti e doveri, equità, opportunità e responsabilità sociale sono i nostri valori di riferimento per il governo democratico della società. Il diritto alla salute e all'ambiente, alla mobilità, alla casa, alle prestazioni sociali, all’istruzione e alla formazione, alla cultura e alla conoscenza, il diritto al lavoro e nel lavoro, all'accesso alle nuove tecnologie, alla creatività, all'informazione sono inalienabili e come tali devono essere considerati esigibili da tutti, trovando il necessario riscontro nell’esercizio dei corrispettivi doveri. In particolare i diritti fondamentali della persona devono trovare nelle istituzioni democratiche gli strumenti della loro garanzia universale per tutte e per tutti, indipendentemente dal titolo giuridico della loro presenza sul territorio. La laicità delle istituzioni è garanzia per tutti i cittadini di poter essere ugualmente partecipi della vita pubblica.

Bologna ha urgente bisogno di un grande investimento in democrazia. La partecipazione democratica deve diventare il fondamento di un nuovo modo di governare, anche attraverso strumenti quali il bilancio partecipativo e l'urbanistica partecipata. Un obiettivo che vogliamo perseguire, anche alla luce della recente pronuncia del Consiglio di Stato sullo Statuto del Comune di Forlì per ciò che riguarda i Quartieri, è quello di una legge nazionale per il diritto di voto dei migranti alle elezioni amministrative.

Bologna città dei servizi e della solidarietà

I servizi agli anziani, all'infanzia, alla famiglia, sanitari, per l'accoglienza, per l'handicap, per il diritto alla casa e alla sicurezza, devono ridiventare centrali nel progetto di vita comune della nostra città. La nostra azione di governo dovrà innanzitutto essere orientata verso l’obiettivo di rilanciare il welfare locale come motore per lo sviluppo della città. La spesa sociale non è un inutile “fardello” che è possibile scaricare dai bilanci degli enti locali: un forte investimento pubblico è necessario per garantire a tutte le cittadine e i cittadini le prestazioni essenziali, per dare sicurezza agli anziani, opportunità ai più giovani, benessere e qualità alla vita di tutti. Una città con un forte investimento sociale, con migliori condizioni di benessere è una città più ricca: lo sviluppo economico, le imprese, hanno bisogno di un buon welfare locale per crescere. Uno stato sociale maturo è ciò che ha consentito alle donne della nostra città di lavorare fuori dalle mura domestiche, di conquistarsi autonomia, ma anche produrre ricchezza e, più in generale, superare svantaggi e promuovere integrazione. Vogliamo favorire una “partecipazione dal basso”: questo significa chiamare ai tavoli della programmazione le forze sociali e sindacali, il terzo settore, le associazioni, il volontariato, con l’obiettivo comune di leggere insieme i bisogni, indicare le priorità e scegliere le modalità organizzative più idonee per assicurare il servizio. Il principio della sussidiarietà va adeguatamente valorizzato nell’ambito delle autonomie locali, non potendo essere l’ente pubblico autosufficiente nel dare risposte alla multiformità delle problematiche sociali che si presentano; l'intervento privato nel campo dei servizi sociali di base deve mantenere un ruolo integrativo e non sostitutivo della gestione pubblica. Il ruolo del privato sociale deve essere valorizzato per la capacità di raccogliere quella fondamentale risorsa che è il volontariato.

Bologna città del futuro

Un progetto di sviluppo e di crescita di lungo respiro, per tornare ad essere una città importante in Italia e in Europa: di questo ha bisogno Bologna. Il programma delle infrastrutture per l’economia e i trasporti deve essere in grado di tessere relazioni, di regolare e incentivare reti con soggetti istituzionali a livello regionale, europeo e internazionale. Intendiamo costruire, insieme alla Provincia e ai Comuni bolognesi un chiaro itinerario di governo, un programma per l'area metropolitana all'altezza delle sfide che il nostro territorio dovrà affrontare. La città si trasforma, sotto la spinta dei cambiamenti di questa epoca globale. I cambiamenti vanno affrontati e governati, proprio per essere all’altezza della migliore tradizione della storia di Bologna. Il futuro va pensato, progettato e percorso. Allora bisogna affrontarlo con coraggio e generosità, avere fiducia nelle capacità intellettuali e professionali dei giovani, offrire loro una grande opportunità: tornare protagonisti del destino della città. L'economia bolognese richiede un forte investimento sulla ripresa di una moderna e avanzata imprenditorialità, della quale abbiamo avuto esempi concreti anche a Bologna, che passa attraverso la consapevolezza del ruolo sociale dell’imprenditore che vuol dire anche un nuovo impulso alla competitività, alla innovazione, alla produzione di un sempre maggiore valore aggiunto delle idee e dei progetti imprenditoriali, anche attraverso la ricerca da incrementare sia da parte del privato che da parte del pubblico. La flessibilità del mercato del lavoro è un fenomeno complesso, con aspetti positivi e negativi, che caratterizza questa fase storica. Gli enti locali devono e possono costituire un riferimento fondamentale per contrastare la tendenza ad una progressiva precarizzazione del mercato del lavoro, promuovendo attività economiche altamente qualificate, di ricerca, innovazione e sviluppo, ed in questo favorendo le iniziative di imprenditoria giovanile, sapendo che è sulla qualità che si gioca il nostro futuro. Gli enti locali sono chiamati ad una gestione equilibrata della propria organizzazione, puntando sulla valorizzazione delle professionalità interne ed evitando il massiccio, continuo e alternativo ricorso a consulenze e incarichi esterni. L’utilizzo indiscriminato ed ingiustificato di lavoro precario e irregolare devono costituire titoli di sfavore per le imprese che richiedono sovvenzioni e contributi o che intendono avere rapporti di fornitura con le pubbliche amministrazioni e le loro aziende.

Bologna città dell’ambiente

I territori, con le loro diversità ambientali, culturali, di capitale sociale e umano, non devono più essere sottomessi a processi che distruggono le risorse e le diversità senza più riprodurle. La qualità dell’ambiente in cui viviamo è la misura fondamentale della qualità della vita del contesto urbano. E’ prioritaria una ristrutturazione ecologica della città, muovendosi in una logica di area vasta, con un reale governo del territorio, dove i temi del verde, delle infrastrutture, della mobilità, dell'urbanistica, dei servizi pubblici locali e dell’arredo urbano trovino una organica concordanza di obiettivi. La tutela dell'ambiente, l'accesso alle risorse di vita essenziali, la godibilità dei beni artistici e del paesaggio costituiscono un diritto di ogni individuo, per le generazioni presenti e future. Per contrastare l'involuzione sociale e urbanistica della città nella sua dimensione metropolitana occorre assumere l'obiettivo e il vincolo della sostenibilità con queste coordinate di fondo: fermare il consumo di territorio nel cuore urbano, ricreare le condizioni ambientali di tutela della salute dei cittadini, ripensare il modello di mobilità. Il sistema attuale di mobilità congestiona gravemente il traffico rendendo la città a tratti invivibile, producendo dati drammatici sull'inquinamento atmosferico ed acustico. Più in generale, il crescente consumo di energia contribuisce all’aumento dell'effetto serra e dell’inquinamento: per questo abbiamo bisogno di una politica energetica che fornisca risposte adeguate anche da questo punto di vista, facendo scelte a favore dell’utilizzo di energie alternative e di risparmio e recupero energetico.

Bologna città di scuole e di cultura

Bologna ha sempre prodotto sapere: dalla più antica Università del mondo fino all'eccellenza dei suoi nidi e delle sue scuole dell'infanzia.

Innovazione, formazione, ricerca: sono questi i settori determinanti per definire il progresso di una città, sono risorse odierne e future. Il sistema scolastico e formativo deve garantire quell'uguaglianza di diritti e opportunità che sta alla base della crescita di ogni Paese democratico avanzato, nel rispetto del dettato costituzionale. La forte crescita della domanda di quantità e qualità dei percorsi educativi deve trovare fin dall'asilo nido una risposta adeguata nel sistema pubblico di istruzione: qui vanno concentrate le risorse, per sostenere il diritto all'istruzione per tutti.

Bologna ha bisogno di una programmazione culturale alta, capace di intrecciare la complessità sociale, l'innovazione tecnologica e la potenzialità culturale che le è propria. La cultura e la formazione sono settori strategici su cui c'è bisogno di un forte investimento. In particolare la qualità della scuola e la capacità di promozione dell’innovazione dell’università e del mondo della ricerca, sono un elemento imprescindibile per la qualità sociale, la crescita culturale e lo sviluppo economico di Bologna. La nostra città deve diventare uno dei centri di produzione più significativi. Ci impegniamo a tutelare e promuovere i produttori di idee, di sapere, di immaginario.

Bologna città accogliente, affettuosa e sicura

La città di tutti i giorni è più ampia di quella formata dai residenti: la mobilità interna all’area metropolitana è molto accentuata anche dalla presenza di studenti universitari fuori sede e da pendolari di altre province.

In sostanza la città reale non corrisponde alla “città burocratica” per cui l’esigenza di un governo di area vasta rimane uno dei temi di fondo per Bologna. Occorre riaffermare che l’intera comunità sarà più forte e più sicura se saprà affrontare le sfide del nuovo millennio affermando valori di solidarietà, dialogo fra le culture, garanzia per tutti di uguali diritti e doveri. Le politiche di inclusione e di accoglienza, soprattutto dei cittadini migranti, dovranno fondarsi sul riconoscimento della persona come portatrice di pari diritti e doveri e di opportunità di accesso ai servizi. La legge Bossi-Fini rappresenta un contesto estremamente negativo per le politiche di accoglienza e di incontro delle diverse culture ed identità; la politica degli enti locali bolognesi, pur nelle competenze limitate che la normativa assegna a Comuni e Provincia, deve concretamente dimostrare una visione alternativa a quella della destra, operando per il superamento del CPT di via Mattei, individuando soluzioni alternative che ne permettano la chiusura. La sicurezza e la serenità delle cittadine e dei cittadini sono un "bene pubblico", cui il governo locale deve dedicare tempo ed energie. La vita quotidiana dei bolognesi è pervasa dal senso di insicurezza, dal timore di trovarsi abbandonati a se stessi di fronte a un ambiente ostile e inadeguato ai propri bisogni, rispetto ai fenomeni di criminalità diffusa. Partendo dal presupposto che la criminalità deve trovare risposta sicura e certa, da parte delle Forze dell’Ordine e della Magistratura, pensiamo ad un impegno che dovrà coinvolgere le Istituzioni, le associazioni, la cooperazione sociale, il volontariato, i supporti sanitari e psicologici, tutti coordinati tra loro per sviluppare iniziative anche a carattere preventivo e nell'intento di creare con serietà ed efficacia i percorsi di rieducazione, riabilitazione e accompagnare i soggetti nel reinserimento nel tessuto sociale e lavorativo.

Bologna città che valorizza il punto di vista delle donne

Il punto di vista delle donne sarà sempre presente e visibile, con atti precisi e scelte concrete, responsabili e condivise.

Vogliamo attuare una politica di pari opportunità che veda le donne non più un gruppo sociale svantaggiato, da tutelare e sostenere, bensì un elemento di dinamismo e di innovazione nella società.

L’Amministrazione comunale intende sviluppare una nuova idea di pari opportunità: non tra donne e uomini, ma per donne e uomini.

[...]

LA CITTA’ IN CUI CI PIACE VIVERE: “IL GOVERNO DEL TERRITORIO, LA QUALITA’ DELLA VITA E DELL’AMBIENTE”

C.1 Sostenibilità ambientale

C.1.1 Linee programmatiche

L'aria, l'acqua, lo spazio, il silenzio, il territorio, la forma urbana, la biodiversità sono beni primari indispensabili per i cittadini, il cui utilizzo è subordinato all'interesse collettivo, e quindi irriducibile alle pure logiche del profitto. La città si sviluppa ed evolve non in quanto cresce la sua dimensione fisica, ma in quanto distribuisce in modo equilibrato le sue funzioni, accresce la quantità e la qualità dei suoi servizi, migliora la qualità dell'ambiente urbano: insomma la cifra dello sviluppo è la qualità per tutti. In questo quadro si auspica l’attuazione di una strategia complessiva di riduzione del costo della casa e degli affitti, che sviluppi l’incontro tra domanda e offerta. Lo spazio urbano storicamente consolidato non può contenere al suo interno oggetti la cui crescita dimensionale tende all'infinito: da questo punto di vista il tema del decentramento, che deve anch’esso rispondere a precisi criteri di sostenibilità, è concreto ed urgente, e deve essere affrontato ridistribuendo in maniera armoniosa sul territorio vecchie e nuove centralità, produttive e dei servizi, tenendo presente che le relazioni fra i problemi e le proposte per la loro soluzione coinvolgono l’assetto della città, la riqualificazione delle periferie e la capacità di fare sistema dei Comuni dell’area metropolitana bolognese.

La trasversalità del tema ambientale ha orientato tutta la costruzione di queste linee programmatiche, facendola diventare una vera e propria chiave interpretativa delle politiche pensate per la città. In questo capitolo intendiamo sottolineare solo un aspetto specifico, quello legato al risparmio energetico. Molto si dovrà fare in materia di trasporti e mobilità, nella promozione di fonti energetiche rinnovabili, nell’educazione al contenimento dei consumi. Intendiamo assumere una iniziativa diretta per ciò che riguarda i consumi energetici propri dell’Amministrazione, convinti di generare uno spirito emulativo che coinvolga progressivamente il tessuto sociale e produttivo della città.

[…]

C.2 La scelta dell’area vasta in un progetto urbanistico partecipato

C.2.1 Linee programmatiche

Gli scenari demografici e ambientali per i prossimi venti anni dicono con chiarezza che a Bologna, da subito servono politiche forti per attrarre nuovi residenti, in particolare giovani. Questo solo per mantenere la popolazione adeguata a far fronte alla domanda di lavoro del nostro sistema economico e per garantire la ricchezza necessaria a sostenere il nostro welfare e un aumento notevole della popolazione anziana.

Servono case in affitto o in proprietà agevolata insieme ad una rete di servizi pensata per una società sempre più multietnica e sempre più orientata alla ricerca, alla qualità del lavoro e della conoscenza.

Proponiamo un’idea forte di governo del territorio, un progetto costruito per l’area metropolitana, che realizzi un processo di decentramento e di riequilibrio territoriale. Nel tessuto urbano consolidato, l’attuale situazione di disordine va affrontata con scelte nette e chiare. Proponiamo una nuova cultura della città, della qualità sociale, dell’abitare, che si fonda sulla partecipazione dei residenti, degli studenti, dei lavoratori e delle lavoratrici che abitano in città senza risiedervi.

La programmazione edilizia va orientata verso scelte di regolazione e riqualificazione.

Sul versante ambientale la lettura dei dati, ma soprattutto la vita quotidiana di ognuno, conferma che non possiamo più permetterci l’attuale inquinamento acustico e atmosferico e la ormai generalizzata congestione del traffico. Se vogliamo restare protagonisti attivi e vitali in Europa dobbiamo essere capaci di fare una città accogliente e amica per la qualità dell’aria e del verde, per l’arredo urbano, per l’accessibilità ai servizi e agli spazi, per l’efficacia del nostro sistema di mobilità.

Dunque qualità urbana e nuova coesione sociale.

C.2.2 Azioni

Una pianificazione urbanistica che torni a fare scelte forti e strategiche di lungo periodo con regole per attuarle e procedure democratiche per definirle. La concertazione è uno strumento importante se inserito in un contesto di scelte e di regole, capace di coinvolgere l’insieme dei soggetti sociali e non solo i soggetti privati di mercato. L’urbanistica partecipata è perciò la condizione per ottenere risultati efficaci. Per questo va costruito un processo innovativo di partecipazione con regole e procedure condivise, attraverso una proposta specifica.

Il superamento della separazione tra il Comune capoluogo e i Comuni del territorio provinciale su tutte le materie ormai affrontabili solo a scala sovracomunale. Va costruita una rete di municipalità, tra Comune e Quartieri dove le opportunità di sviluppo siano concertate e equamente distribuite, le specificità locali valorizzate e integrate nel sistema territoriale, così da superare anche un’idea di policentrismo inteso come proliferazione incrementale degli stessi servizi e interventi ovunque, che già ha prodotto un consumo insostenibile del territorio e dell’ambiente. Attraverso specifici accordi territoriali sovracomunali, va attuata una pratica di perequazione compensativa tra i Comuni interessati e verso i soggetti privati per l’attuazione concreta delle scelte.

In questo modo sarà possibile perseguire l’obiettivo della qualità del sistema-territorio, insieme alla convenienza della singola amministrazione, a decidere se e dove dislocare insediamenti.

Il decentramento: i poli del territorio con funzioni di eccellenza hanno bisogno di decentrarsi lungo le direttrici del trasporto collettivo e insieme di integrarsi efficacemente nel territorio regionale. Si tratta, da una parte, di qualificare e razionalizzare gli insediamenti esistenti e, dall’altra, di prevedere che i nuovi impianti da programmare siano decentrati negli ambiti adeguati del territorio metropolitano, mentre nuove attività siano integrate e concordate con il sistema regionale.

Occorre combattere la rendita fondiaria speculativa, che rappresenta oggi il vero freno alla trasformazione del territorio, e perciò destinare prioritariamente il patrimonio immobiliare e fondiario di proprietà pubblica alla realizzazione di residenze a basso costo. A questo si dovrà aggiungere una politica di acquisizione di aree strategiche per la realizzazione di quanto il mercato spontaneamente non produce (oltre alle residenze a basso costo, anche servizi ed aree a verde), in modo da riequilibrare e indirizzare positivamente lo sviluppo urbanistico del territorio e perseguire l’obiettivo di accogliere nuovi residenti. E’ indispensabile un grande piano di allargamento e collegamento del patrimonio verde dentro e intorno a Bologna, attraverso la conferma della tutela della collina, la destinazione a verde di quote delle grandi aree soggette a trasformazione (come le ex aree militari), il completamento dei parchi fluviali lungo il Savena, il Navile e il Reno.

Le aree dismesse da attività produttive e le politiche per attrarre investimenti e nuove attività localizzate in città non devono essere separate, ma integrarsi con i temi della riqualificazione urbana, sociale e del marketing territoriale. Per questo è necessario, insieme ad un sistema di monitoraggio e valutazione preventiva delle dismissioni e dell’opportunità di nuove attività, fissare con certezza gli obiettivi da perseguire con la trasformazione urbanistica delle aree dismesse, in una visione d’insieme. In questo contesto, lo strumento dei piani di valorizzazione commerciale non può essere utilizzato al di fuori o in parallelo alle scelte di pianificazione urbanistica, ma in queste inserirsi in modo coerente.

Riteniamo importante valorizzare il ruolo delle attività agricole, non solo come attività economiche private, ma come agenzie diffuse di tutela del territorio, di cura del paesaggio, di custodia di valori, culture e tradizioni importanti per tutta la collettività.

All'interno del territorio comunale, occorre superare la logica del diritto edificatorio come legato indissolubilmente al singolo lotto, ed avviarsi verso una nuova logica perequativa che valuti indici, carichi urbanistici e diritti edificatori sul complesso del territorio comunale. Occorre insomma dotare il Comune di strumenti che permettano di rivolgersi ai proprietari offrendo alternative alla pura e semplice riedificazione nelle aree di proprietà, il tutto rigorosamente all'interno di un quadro chiaro di pianificazione e di regole negoziali. La combinazione di pianificazione strutturale, iniziativa pubblica e interventi di perequazione permetterà di governare meglio la trasformazione del territorio, contenendo all'origine la pressione della rendita, indirizzando l'espansione edilizia o le ricostruzioni laddove il territorio presenta effettiva capacità insediativa.

Il Piano Strutturale permetterà di dare significato nuovo e più rigoroso alla Riqualificazione Urbana, evitando che diventi nome di copertura per interventi caso per caso, a macchia di leopardo, che tendono a massimizzare la rendita edilizia e a saturare tutti gli spazi. Vanno individuati ambiti da riqualificare e relativi obiettivi di riqualificazione, attraverso prestazioni e standard di qualità urbana e ambientale e carichi insediativi da realizzare, ai fini della necessaria verifica di sostenibilità. La Riqualificazione Urbana può darsi solo a valle di una visione generale e di parte pubblica del territorio, con piena assunzione di responsabilità davanti ai cittadini sull'individuazione dei bisogni e l'indicazione degli obiettivi di tale riqualificazione. Solo all'interno di un quadro così definito i privati, in quanto portatori di interessi legittimi ma parziali, potranno utilmente essere coinvolti per apportare il loro contributo ideativo, propositivo e realizzativo, con risultati positivi non solo sul singolo lotto, ma per l'intera collettività attraverso il Piano Operativo Comunale.

Per quanto riguarda il sostegno alla qualità urbana, tre indicazioni: incentivare l’edilizia sostenibile, le bioarchitetture, premiare la qualità architettonica e valutare ogni intervento anche sotto il profilo della coesione sociale e della sicurezza.

Ai Quartieri, nella prospettiva di nuove municipalità, va assegnato un ruolo essenziale nella promozione di una urbanistica partecipata (Laboratori di Quartiere) e autonomia di poteri e risorse nella definizione degli interventi in materia di cura della città intesa come nuovo servizio alle persone in ordine all’arredo urbano, alla manutenzione del verde, degli edifici e degli spazi pubblici.

Urbanistica partecipata e Laboratori di Quartiere

La partecipazione dei cittadini alla “gestione” del territorio li rende protagonisti e favorisce una cura dei luoghi che solo chi li vive può realizzare.

Un elemento chiave di tutto il processo diventa la comunicazione. Occorre predisporre modalità di comunicazione chiare (grafica, simulazioni, immagini virtuali) che aiutino per esempio ad immaginare spazi non ancora realizzati, utilizzando il supporto delle nuove tecnologie.

Va prevista la predisposizione di un percorso di partecipazione che preveda occasioni di coinvolgimento dei Quartieri e dei cittadini in diversi momenti delle scelte urbanistiche nonché la revisione dei percorsi amministrativi di approvazione di progetti urbanistici ed edilizi

Realizzazione di un percorso di coinvolgimento degli abitanti di un’area nella definizione di criticità ed opportunità da inserire nel piano urbanistico (Piano Strutturale Comunale);

Migliorare la conoscenza dei cittadini sui progetti in corso che interessano la città o il quartiere;

Stabilire in quali momenti del percorso amministrativo e per quali specifici progetti è prevista la consultazione dei cittadini.

Rete di Comuni e sistema territoriale di area vasta

L’attività tecnica di istruttoria sarà basata sull’individuazione dei temi metropolitani su cui le Amministrazioni di Bologna e dei Comuni dell’area metropolitana attiveranno congiuntamente percorsi di risoluzione.

Tali temi comprendono i poli funzionali della città (fiera, aeroporto, stazione, sistema sanitario, università,) ed alcune delle criticità rilevate dalle attività di confronto svolto e relative a:

L'accessibilità all’area urbana e la decongestione del traffico;

L’accessibilità e il collegamento delle aree produttive;

La realizzazione dei parchi fluviali e della rete ecologica;

Il riequilibrio dei servizi di rango urbano.

Attraverso il coinvolgimento dell’istituzione della Conferenza Metropolitana si arriverà alla sottoscrizione di accordi territoriali, specifici con i Comuni interessati che prefigurano percorsi e modalità con cui i diversi temi saranno affrontati.

Tali accordi coinvolgeranno la Provincia di Bologna dando atto agli indirizzi contenuti nel PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale).

Il lavoro svolto contemplerà anche il tema del decentramento e del riequilibrio sul territorio delle funzioni di eccellenza in attuazione degli indirizzi del PTCP. L’attività di concertazione riguarderà in particolare:

il riequilibrio sul territorio dei servizi di rango urbano (istruzione superiore e formazione professionale, servizi sanitari);

il sistema produttivo manifatturiero;

la programmazione delle attività universitarie;

la messa in rete dei poli funzionali della città.

Definizione di obiettivi e strumenti per la riqualificazione urbana

Attraverso l’analisi svolta nel Piano dei Servizi e gli esiti del percorso partecipato di indagine nei Quartieri saranno definiti gli obiettivi per la riqualificazione della città oltre all’individuazione delle principali criticità da risolvere a livello locale e opportunità per interventi di riqualificazione.

Il lavoro svolto andrà a confluire nel nuovo Piano Strutturale Comunale.

Tali obiettivi terranno conto anche della promozione della compatibilità ambientale degli edifici, della valorizzazione del patrimonio storico e della qualità architettonica, e dei temi legati alla promozione della coesione sociale.

Saranno successivamente messi a punto gli strumenti e i percorsi atti a conseguire il miglior raggiungimento degli obiettivi individuati, coinvolgendo nella loro definizione enti e associazioni portatori di interesse.

I progetti di riqualificazione saranno oggetto di percorsi istruttori partecipati nei Quartieri della città.

Progetti per la qualità urbana

Una opportunità per il miglioramento della qualità urbana dei Quartieri si realizza attraverso l’arricchimento dei luoghi con una equilibrata dotazione di servizi di base (scuola, negozi, accessibilità a trasporti pubblici efficienti), di punti di riferimento, con una vitalità data dalla ricchezza di opportunità di incontro, di aggregazione e socialità anche nel verde.

Definire una dimensione di vicinato da valorizzare presso gli abitanti (ridotta rispetto al quartiere ma non limitata da criteri di omogeneità sociale) può contribuire a rafforzare la coesione: le aree di vicinato individuate possono diventare l’unità di base per la valutazione della qualità urbana.

Nel percorso partecipato verso progetti a dimensione locale esistono alcuni passaggi che possono essere realizzati con un impiego di risorse limitato.

Nuove centralità

Ogni porzione urbana dovrebbe essere dotata di un “centro”, uno o più luoghi di riferimento per la comunità. Nelle aree di vicinato più carenti in termini di centralità, di luoghi di incontro e riferimento, vengono individuati progetti che contribuiscano a fare assumere questo ruolo a luoghi che ne hanno la potenzialità.

Centralità può essere un giardino molto frequentato, un sistema scuola-giardino-biblioteca di Quartiere ben collegati, lo stesso Centro di Quartiere se ospita attività di fruizione frequente da parte degli abitanti.

Un progetto per il vicinato (un progetto per ogni area di vicinato da scegliere con procedure partecipate)

Realizzare un programma di interventi che veda nel tempo del mandato amministrativo la realizzazione di un progetto per ogni area di vicinato.

I progetti possono avere dimensioni ed impegno differenti ma nessuna area urbana dovrebbe essere dimenticata; possono riguardare il tema dei servizi, dei percorsi pedonali e ciclabili, del verde e andrebbero scelti attraverso il percorso di partecipazione descritto.

[...]

Il testo che segue tocca un tema nuovo per Eddyburg, ma complementare e speculare a quello – abbastanza ampiamente trattato - del grande commercio suburbano: la privatizzazione virtuale di grandi aree pubbliche urbane centrali, attraverso le associazioni di commercianti e proprietari denominate Business Improvement District. In questo senso, almeno, si propone ai lettori di Eddyburg, anche se ovviamente l’articolo ha contenuti molto più complessi e articolati. Basta pensare ad esempio al fatto che si parte dalle consolidate e antiche riflessioni di Jane Jacobs, per poi ribaltarne per molti versi la logica: dal commercio come luogo di interazione sociale parallelo ad altri, all’impresa commerciale come “istituzione parallela”. Sono state omesse per motivi di spazio (è già piuttosto lungo) le parti della cluster analysis sulle variazioni delle attività criminali (che è lo specifico tema su cui si focalizza il saggio). Il senso e le tesi generali, comunque, dovrebbero essere piuttosto chiari, almeno in una logica di introduzione del tema, e di articolazione delle riflessioni sugli spazi del commercio contemporanei. Voglio ricordare qui solo una sottolineatura, che purtroppo il saggio limita a una frase buttata lì verso la fine: le associazioni di commercianti non hanno in alcun modo “fini” pubblici; semplicemente, alcuni effetti collaterali dei loro investimenti promozionali sul territorio possono sommarsi all’azione pubblica. Un aspetto da tener sempre presente. (fb)

Titolo originale Collecting Private Funds for Safer Public Spaces: an Empirical Examination of the Business Improvement District Concept – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Introduzione

Anche se non ne esiste una definizione standard, la maggior parte degli studiosi e dei professionisti descrivono i business improvement districts (BIDs) come meccanismi di finanziamento autoimposti, praticati dalle attività e proprietari immobiliari a scopo di intervento locale, e specificamente per il miglioramento dei servizi pubblici. Nei fatti, i managers usano lo slogan “ clean and safe” (pulito e sicuro n.d.t.) per descrivere l’oggetto centrale di interesse della maggior parte dei BIDs, e praticano un ampio raggio di servizi per aumentare sia la percezione che la realtà di pulizia e sicurezza. Questo approccio è comune, e operatori e proprietari ritengono “che per essere competitivi, ci sia bisogno degli stessi strumenti specifici di finanziamento e gestione di uno shopping center regionale, o di un complesso di uffici, o di un parco a tema”.

Pagando per servizi supplementari come disinfezione e sicurezza, i partecipanti ai BIDs urbani si aspettano di creare spazi puliti e sicuri che attirino più clienti e investitori. Nonostante la mancanza di riscontri pratici, c’è poca discussione sul fatto che i BIDs abbiano o meno un’influenza diretta e positiva sugli ambienti entro cui operano. Sono in genere visti con favore dai mezzi di informazione. In più, tipicamente i managers dei BIDs forniscono resoconti positivi dei propri casi sulle newsletters specializzate e su internet; ad ogni modo, il marketing rivolto ai consumatori è un elemento fondamentale di gestione dei BIDs e questo tipo di promozione per i managers significa semplicemente “fare il proprio mestiere”.

Se c’è sovrabbondanza di libri, opuscoli, siti web che spiegano “come fare” ai leaders comunitari interessati alla costruzione di un BID, esiste invece un vuoto in termini di letteratura che indipendentemente, sistematicamente,e obiettivamente esamini i programmi di sicurezza dei BIDs e i loro potenziali impatti. Questo studio esplora il ruolo dei BIDs come fornitori di servizi supplementari, esamina l’impatto dei servizi di sicurezza e pulizia sull’andamento delle attività criminali, e discute la sinora non provata affermazione secondo cui i BIDs “funzionano”.

Puntelli teorici

Gli interessi commerciali in tutta America iniziarono ad attivare organizzazioni BID negli anni Settanta, per migliorare l’uso pedonale nelle aree commerciali centrali. Il loro approccio nasceva da più di un secolo di teorie sociali legate agli effetti dell’ambiente urbano. Il lavoro di Robert Park e Louis Wirth racconta le conseguenze dell’urbanesimo, e fornisce la base teorica per studiosi di urbanesimo e criminologia come Jane Jacobs, Oscar Newman e George Kelling, che esaminano le correlazioni fra spazio pubblico e comportamenti umani. Il concetto di BID scaturisce da queste idee; queste idee informano il progetto dei managers di BIDs, la promozione, la difesa dei loro programmi.

La giornalista Jane Jacobs in La vita e la morte delle grandi città americane, e l’architetto Oscar Newman in Defensible Space, mettono in luce nuove e importanti prospettive riguardo al comportamento umano nell’ambiente urbano. Jacobs fa riferimento a idee precedenti per distinguere fra spazi urbani. Sostiene che quando la cittadinanza che è “naturale proprietaria della strada” è attratta negli spazi pubblici si incrementa “il numero di occhi attivi sulla strada”. Mette in pratica le norme sociali e regola i comportamenti umani negli spazi pubblici. In modo simile, Newman suggerisce che il disegno fisico dell’ambiente possa aumentare il controllo sociale e fare da deterrente a comportamenti devianti. Insieme, Jacobs e Newman promuovono due credenze simili e comunemente accettate. Che sono: la supervisione degli spazi pubblici scoraggia l’attività criminale, e il progetto fisico degli spazi pubblici influenza l’attività criminale. Infine, i professori di diritto penale James Q. Wilson e George R. Kelling scrivono nel 1982 un saggio fondativo, intitolato “Finestre rotte”. In breve, la teoria delle “finestre rotte” suggerisce che con l’incremento dei comportamenti incivili fisici e sociali, si attenua il controllo sociale informale, e aumenta la paura. Con l’aumento della paura, si incrementa la possibilità di invasione criminale; lo stesso produce il disordine, che pure conduce all’aumento di crimini gravi. In definitiva, tutte queste teorie sostengono che l’ordine sulla strada è un bene pubblico, mantenuto attraverso una serie di procedure standard che vanno dalla progettazione degli spazi, alla pulizia, alla visibilità di persone in uniforme.

Contesto di studio

Philadelphia, nel Commonwealth di Pennsylvania, è la quinta più grande città del paese. Nonostante sia collocata nel cuore del corridoio più densamente popolato d’America, continua a subire un costante declino demografico. Secondo l’Ufficio Censimento, la popolazione di Philadelphia superava il milione nel 1900. Continuò a crescere, e al 1950 superò i due milioni. Anche se molti urbanisti prevedevano un futuro dove il numero dei residenti avrebbe continuato ad aumentare, le loro proiezioni non si realizzarono mai. Come mostra la Tabella 1, il numero di abitanti entro il confine urbano iniziò a scendere fra il 1950 e il 1960. Contemporaneamente, il numero di residenti al di fuori dei limiti continuava a crescere. La ricerca urbana di oggi ci spiega che l’esodo di imprese e famiglie verso le zone suburbane è il risultato cumulativo di una varietà di politiche federali e di altri interventi. Verso il 1950 apparvero gli shopping malls suburbani, e contribuirono all’esodo sia delle attività commerciali del centro, sia della middle class bianca, verso la periferia. Gli spostamenti demografici ed economici erano molto vivaci, e i gruppi d’affari del centro risposero con sforzi di ristrutturazione urbanistica come il noto Pittsburgh Renaissance.


Tabella 1: Tendenze demografiche per la città di Philadelphia, 1940-2000

1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000
Zona interna 1.931.334 2.071.605 2.002.512 1.948.609 1.688.210 1.585.577 1.517.550
Zona esterna 1.268.303 1.599.443 2.340.385 2.869.305 3.028.608 3.597.210 3.869.857

Fonte: Ufficio Censimento degli Stati Uniti

Questa tendenza porta con sé alcune ramificazioni per Philadelphia, come la diminuzione netta della domanda di terreni e un incremento nelle quote di spazio commerciale e residenziale inutilizzato, che hanno impatti profondi sulle attività locali. Per esempio, le attività commerciali della città lottano per sopravvivere, come evidenziato da un aumento delle vendite del solo 1,2% dal 1974 al 1980, mentre le contee circostanti sperimentano una enorme crescita economica con vendite aumentate del 90% nello stesso periodo. Oggi, molti sindaci negli USA mirano a contrastare il declino attraverso investimenti strategici per trasformare le proprie municipalità in destination cities, ovvero costruendo centri congressi, complessi per l’intrattenimento, strutture per l’accoglienza. In più, questi sindaci spesso sostengono la creazione di BIDs per ripristinare il vantaggio competitivo del centro città.

Come in molte città, la percezione e la realtà del crimine sono ostacoli significativi alla rivitalizzazione economica di Philadelphia. In una recente analisi condotta sugli operatori commerciali, il crimine era immediatamente dopo le tasse negli aspetti più preoccupanti del trattare affari in città. Le aree commerciali più vecchie all’interno delle municipalità e della relativa zona fiscale, trovano difficile competere con la controparte suburbana. Per diventare più concorrenziali, molti operatori e proprietari immobiliari si uniscono, a formare organizzazioni pubblico-private con una struttura centrale di gestione. I BIDs (conosciuti anche come Special Service Ditricts) sono un concetto di sviluppo economico piuttosto noto a Philadelphia, dove se ne sono formati nove in meno di nove anni, e molti sono attualmente in fase di studio.

BIDs a Philadelphia

Questo studio esamina nove BIDs entro la municipalità di Philadelphia. Da ovest verso est lungo la Market Street – la principale arteria ovest-est della città – coprono questa parte i BIDs di Mercy Health-West Philadelphia, University City, Center City, Old City.

Tranne il South Street Headhouse District, appena a sud di Market Street, non ci sono BIDs nella parte meridionale o sud-est della città. Anche la porzione nordorientale superiore è senza un’organizzazione di tipo BID. In più, i BIDs di Frankford e Germantown sono isolati: uno nella parte nordorientale inferiore e l’altro a nord-ovest; i distretti di Manayunk e City Avenue stanno lungo la fascia periferica; insieme iniziano a coprire la parte occidentale del margine urbano.

Come mostra la Tabella 2, i BIDs di Philadelphia variano considerevolmente in quanto al periodo dall’istituzione, bilancio, e dimensioni. Per esempio il Center City District (CCD), il primo BID della città, ha iniziato ad agire nel 1991, mentre l’organizzazione che fa capo al Mercy Health-West ha lanciato il suo programma nel 1999. In più, riguardo alle dimensioni, il BIDS di Philadelphia variano da soli tredici e ben duecentocinquanta isolati. Infine, i bilanci annuali variavano da 89.000 dollari a 8.700.000 dollari nel 1999.


Tabella 2: Business Improvement Districts di Philadelphia (bilancio in migliaia di dollari)
Nome Inizio attività Bilancio Dimensioni (isolati)
Center City District (CCD) Marzo 1991 $ 8700 100
South Street Headhouse District (SSHD) Maggio 1993 $ 380 13
Germantown Special Services District (GSSD) Settembre 1996 $ 110 32
Frankford Special Services District (FSSD) Febbraio 1997 $ 226 19
Manayunk Special Services District (MSSD) Giugno 1997 $ 89 24
University City District (UCD) Agosto 1997 $ 3800 252
Old City District (OCD) Luglio 1998 $ 447 26
City Avenue Special Services District (CASSD) Marzo 1999 $ 825 76
Mercy Health-West Philadelphia Special Services District (MHWPSSD) Marzo 1999 $ 511 172
TOTALI $ 15088 714

Fonte: elaborazioni di Lorlene Hoyt, 2001

Fondamenti

I BIDs nelle grandi città spesso forniscono una varietà di servizi specificamente orientati alla diminuzione delle attività criminali, e Philadelphia non fa eccezione. Nonostante esistano parecchi metodi di verifica dell’efficacia, tali da consentire uno studio sull’effetto dei BID (tasso di occupazione, rilevazioni sulla clientela, volume delle vendite, calcolo degli accessi pedonali ecc.), questo lavoro esamina le attività criminali perché ognuno dei nove BIDs della città cita la deterrenza al crimine come uno degli obiettivi importanti dell’iniziativa.

Servizi di sicurezza e di pulizia privati

Alcuni dei managers dei BIDs di Philadelphia basano le proprie azioni sulle già menzionate teorie “ clean and safe”, offrendo servizi di sicurezza e pulizia. Il primo aumenta le attività di sorveglianza formale, mentre il secondo non solo comporta la rimozione dei segni di trascuratezza, ma aumenta anche la sorveglianza informale. Per esempio, i BIDs cercano di migliorare la sorveglianza formalizzata degli spazi pubblici attivando ronde di sicurezza e coordinando gli sforzi con la polizia locale. Tipicamente, i BIDs che utilizzano personale di sicurezza in uniforme, lo istruiscono ad osservare e riferire attività criminali sospette. I BIDs assegnano il proprio personale a zone determinate, dette “ beats”, e lo forniscono di strumentazione radio o telefonica che consenta di comunicare con la polizia. In questo modo le squadre di sicurezza non armate – sia a piedi che in bicicletta – sono supplementari al lavoro di tutela dell’ordine cittadino. I responsabili dichiarano che questa co-produzione di sicurezza riduce il tempo di risposta della polizia, e scoraggia efficacemente il crimine. In più, alcuni BIDs hanno attivato geographic information systems per localizzare l’attività criminale, o ospitano sottostazioni di polizia locale negli edifici di gestione del BID, effettuano interventi congiunti fra personale di polizia e sicurezza privata BID, e partecipazione del personale BID alle riunioni periodiche della polizia. È convinzione diffusa che queste attività addizionali di prevenzione del crimine spesso superino gli sforzi fatti da altri distretti commerciali, dando a commercianti e proprietari all’interno del BID un vantaggio competitivo.

Contro le conseguenze materiali del disordine sociale, la gestione dei BIDs sostiene massicce campagne di riparazione di strade e marciapiedi, o pulizia dei graffiti. Per esempio, gli spazzini all’interno dei BIDs rimuovono bottiglie di bibite e cartocci di dolciumi vuoti dai marciapiedi, togliendo così i segni di abbandono che richiamano il crimine. Si coordina anche la rimozione dei graffiti e quella degli altri segni di degrado rimorchiando via auto abbandonate, sigillando edifici inutilizzati. Detto semplicemente, l’insieme dei servizi BID manda il messaggio che qualcuno si occupa della zona. In più, è possibile che il personale di pulizia in uniforme del BID partecipi indirettamente alla deterrrenza anticrimine. Contribuendo alla supervisione collettiva degli spazi pubblici, la loro presenza spinge i potenziali aggressori a valutare con maggiore attenzione le opportunità di reato, diminuendo i rischi. In aggiunta, alcuni BIDs formano e istruiscono il personale delle pulizie a riferire di comportamenti illegali alla sicurezza privata o alla polizia locale. Nonostante la loro funzione principale sia quella di rimuovere i rifiuti dalle strade, essi fungono anche da guardiani dello spazio pubblico.

Quadro generale e questioni della ricerca

Essenzialmente, questo studio si confronta con due questioni distinte. Primo, le organizzazioni BID, attraverso i loro servizi, hanno effetti sulle attività criminali? In altre parole, i BIDs fanno diminuire i crimini? Per porre questa questione, faremo un semplice confronto fra i crimini che hanno luogo in zone commerciali con una struttura BID (aree BID) e i crimini in zone commerciali prive di strutture di tipo BID (aree non-BID). Dopo una breve rassegna delle tendenze, porremo domande aggiuntive. Per esempio: se i BIDs fanno diminuire il crimine, quali servizi BID hanno effetti sulle attività criminali?

[...]

I BIDs fanno diminuire i crimini?

Per vedere se i servizi BID hanno effetti sulle attività criminali, compariamo quattro anni di avvenimenti criminosi dentro le aree BID a quelli di aree non-BID. La percentuale dei crimini contro la proprietà riportata per le aree BID è scesa a un tasso del 5% dal 1998 al 2001. Parallelamente, le aree non-BID hanno pure visto un decremento dei crimini, ma il tasso è solo del 2,3%.

Dunque, i crimini contro la proprietà nelle aree BID sono diminuiti ad un ritmo più che doppio di quello delle corrispondenti non-BID. Ora, con qualche prova che le strutture BID hanno qualche tipo di effetto deterrente sulle attività criminali, proviamo una analisi più rigorosa. Dato che i BID si concentrano sul “ clean and safe”, è logico proseguire con una analisi delle relazioni fra i servizi offerti e il crimine. Questo approccio pone le seguenti questioni: quali servizi BID hanno effetti sulle attività criminose? I servizi di pulizia fanno diminuire i crimini? I servizi di sicurezza fanno diminuire i crimini?

[...]

Raccomandazioni

Il BID è un nuovo soggetto operante per rivitalizzare gli spazi pubblici urbani e fissare standards più elevati per le zone commerciali di tutto il pianeta. Dunque, è importante riconoscere che chi partecipa a un BID fa qualcosa di più che lanciare lo slogan “ clean and safe”: lo vive. Per esempio, in media i BIDs di Philadelphia destinano due terzi del proprio bilancio operativo annuale alla fornitura di servizi di sicurezza e pulizia. In concreto, i BIDs di Philadelphia hanno speso nel 1999 più di ottomila dollari a isolato, per complementare i servizi di pulizia e sicurezza pubblici. Di sicuro, non è stato invano.

Nascono sempre nuove strutture di tipo BID; dunque è indispensabile non solo sviluppare modelli più sofisticati di valutazione degli impatti dei loro servizi, ma anche analizzare il loro contributo alla vita pubblica. Modelli di questo tipo si aggiungerebbero a quello descritto qui [e non riportato in questa versione n.d.t.] sia fornendo variabili omesse, sia inserendo fattori esogeni (per esempio i cambiamenti nell’occupazione, tendenze economiche ecc.) nel tentare di attribuire gli effetti desiderati (per esempio una riduzione nei crimini) agli interventi (per esempio l’uso di personale di sicurezza e pulizia). In più, i managers dei BIDs e le loro strutture di appartenenza dovrebbero prendere in considerazione l’uso di metodi di analisi unificati, come quello spazio-temporale per analizzare gli andamenti del crimine come descritti qui, per monitorare in modo continuativo l’efficacia delle proprie organizzazioni e delle decisioni operative.

In secondo luogo, le controversie associate alla istituzione di BIDs meritano una indagine. I BIDs pagano servizi supplementari di pulizia e sicurezza entro confini territoriali chiaramente definiti, e questo solleva preoccupazioni sull’iniquità determinata nella fornitura di servizi pubblici. Basandosi su un’analisi della letteratura disponibile, è probabile che i BIDs si formino nelle aree a maggior reddito, e che i partecipanti abbiano migliori servizi non solo perché sarebbero disponibili a pagarli, ma perché possono pagarli. I sostenitori dei BIDs respingono questa idea, dichiarando che a parte gli accordi base per i servizi con le pubbliche amministrazioni, una volta che operatori e proprietari cominciano a pagarsi i servizi supplementari, i governi locali diminuiscono il servizio pubblico nelle zone BID. In più, si argomenta che se i BIDs consentono la diminuzione nel tempo dei servizi pubblici nelle proprie zone, le municipalità possono ricollocare i servizi inutilizzati verso le aree più povere. Per contro, i critici dei BIDs affermano che chi vi partecipa è troppo organizzato e ambizioso per consentire una diminuzione dei servizi municipali. Con i mezzi per potersi permettere i servizi di buoni avvocati, continuano i critici, i BIDs riescono a ricevere più servizi municipali delle altre aree commerciali.

Formatisi a volte come risposta al livello inadeguato dei servizi di sicurezza e pulizia, i BIDs mettono in luce l’incapacità dei governi municipali di rispondere adeguatamente alle domande della cittadinanza. In città come New York, Los Angeles, Toronto, Vancouver, Cape Town e Johannesburg, molte, se non tutte, le grosse aree commerciali hanno organizzazioni BID: cosa accadrà alle aree più piccole nei quartieri a reddito modesto o basso, dove i commercianti semplicemente non sono in grado di pagarsi servizi aggiuntivi? Il commercio con più mezzi economici si rilocalizzerà in ambienti più puliti, sicuri, attraenti? Cosa si lascerà dietro, come effetto, la fuga di alcune attività? Se si trasferisce il commercio, lo faranno anche i residenti?

Infine, funzionari pubblici, professionisti e studiosi dovrebbero considerare l’operatività di molti BIDs in una singola municipalità. Nelle città dove i BIDs proliferano, si manifestano aree interstiziali, vuoti fra le zone BID. Per esempio, in circa quindici minuti un turista che fa shopping a Philadelphia e si dirige a nord lungo la Second Street passerà attraverso il South Street Headouse District, per entrare in una zona commerciale non gestita da alcun BID, e poi passeggiare verso lo Old City District. Queste aree interstiziali, come quelle attraversate dal turista, si formano perché le municipalità raramente coordinano le autorizzazioni per un BID. Sono zone problematiche? Per esempio, le attività criminali traboccano verso queste aree di confine? Se si, le amministrazioni locali dovrebbero offrire servizi addizionali alle zone interstiziali, nello sforzo per riallineare la griglia di partenza? Dovrebbero, le amministrazioni, richiedere alle strutture BID di coordinare i propri confini di competenza? E dovrebbero, le organizzazioni BID, contabilizzare i propri impatti negativi sui quartieri confinanti?

Conclusioni

Le questioni riportate sopra vanno oltre gli scopi di questo scritto, e restano valide linee per future ricerche sui BIDs. Concludendo, i BIDs non sono servizi di portineria, o sicurezza. Sono organizzazioni pensate per rendere più competitive le zone commerciali, e la maggior parte del managers BID partono dalla pulizia e dalla sicurezza, perché sono i principali ostacoli alla competitività.

Quando le attività e i proprietari sostengono i BIDs, la loro disponibilità a spendere non dimostra un solido spirito civico. Detto semplicemente, rappresenta un investimento di lungo termine nei propri affari e nelle proprie proprietà. Motivazioni a parte, essi hanno risorse – finanziarie e umane – che utilizzano per migliorare l’ambiente pedonale urbano. Dunque funzionari pubblici, urbanisti e studiosi di cose urbane, dovrebbero considerare attentamente il BID, come importante variabile in qualunque equazione formulata per rivitalizzare le zone commerciali.

Nota: la versione originale e integrale del testo, è reperibile - oltre che sulla rivista – anche al sito dedicato ai BIDs, o insieme ad altri materiali nell’ambito del corso di urbanistica di Lorlene Hoyt al MIT.

Una lottizzazione di 560 mila metri cubi, un altro borgo per ricchi al mare, le case in riva agli stagni, i pontili davanti alle ville. È l'assalto di Berlusconi immobiliarista, anzi, della figlia, a quel che resta della costa gallurese, a sud di Olbia. Il consiglio comunale della città è riunito da due giorni, alle prese con le spinte della società intestata a Marina Berlusconi perché sia consentita la cementificazione di Capo Ceràso, la campagna di Multa Maria, alla quale hanno cambiato nome, da 20 anni, da quando l'hanno comprata a pezzetti dai contadini, dai caprari. Ora si chiama Costa Turchese (all'inizio era Olbia 2). Un sistema di zone umide, piccoli stagni in collegamento con il mare, in una penisola rimasta intatta, protesa verso Tavolara: piccole spiagge e insenature accessibili da sentieri sterrati, frequentata da campeggiatori, giovani, coppie, molti sardi respinti da quella che è diventata la costa «glamour» a nord della città gallurese, insopportabile, espropriata. Un capraro c'è ancora, dominatore solitario di questa distesa di acque interne e di cisti. Ha casa in uno stazzo ristrutturato, iscritto alla organizzazione agricola di sinistra, la Cia, alle prese con i problemi della vendita del formaggio, delle carni, tutto svenduto a poco prezzo, costretto a sognare una sistemazione magari da guardiano dei cantieri. I cantieri verranno aperti, presto. La maggioranza di centrodestra ha già concesso ai Berlusconi di costruire, sia pure un insediamento di 260mila metri cubi. D'accordo l'opposizione, dai Ds alla Margherita, a una indipendente candidata con le liste di Soru alle prossime regionali e nonostante la durezza delle posizioni del nuovo leader del centrosinistra sardo in materia di Sardegna svenduta, espropriata, di costa lottizzata. La sinistra si giustifica rivendicando il merito di avere fatto ridurre le volumetrie, drasticamente con il passare degli anni.

Ma non riesce a fare in Gallura il discorso che ha fatto a Cagliari, in consiglio regionale, pur con molte titubanze, votando e difendendo una legge di tutela della costa dell'isola nella fascia dei 300 metri dall'acqua, che è stata il solo ostacolo al dilagare dell'edilizia lungo tutto il perimetro della Sardegna nell'ultimo decennio. L'assalto di Berlusconi è senza pudore. In piena campagna elettorale per le regionali sarde e le europee, l'altro giorno, alla vigilia della seduta del consiglio comunale che doveva esaminare le osservazioni della società immobiliare contro la riduzione delle volumetrie, la figlia del capo del governo ha presentato ricorso al tribunale amministrativo regionale. Chiede che la variante al piano di fabbricazione del comune di Olbia attribuisca ai terreni di papà più metri cubi per ogni metro quadro. Fa valere concessioni elargite nel corso dei vent'anni di questa storia di speculazione costiera. La pretesa ha un minimo di fondamento storico: nel 1987 una giunta democristiana concede alla Edilnord allora intestata a Paolo Berlusconi 750mila metri cubi di volumetria realizzabile. È meno del milione e 200mila metri cubi consentiti da una giunta di centrosinistra a guida Psi (assessore un indipendente vicino al Pci) nel 1983, ma sempre un'enormità. Ai Berlusconi non basta, ma entra in vigore in quegli anni la legge di tutela della costa che permette le grandi lottizzazioni al mare sulla base di accordi di programma fra regione e impresa. Così fra il 1987 e il 1991 la dimensione dell'insediamento si riduce ancora, a 560mila metri cubi. Solo che il cemento del cavaliere invade la costa e si insinua sino a dentro gli stagni salmastri di Multa Maria. Nemmeno la maggioranza di centrodestra, nemmeno il sindaco della città, di Forza Italia, che concesse a Berlusconi la cittadinanza onoraria, così amico da subire con il sorriso le corna fatte dal presidente sulla sua testa, a un comizio in piazza per la campagna elettorale delle ultime amministrative, ha potuto aderire a ogni pretesa del capo. Ieri provavano a resistere a queste pressioni, ma concedendo tutto quel che si può, in fretta, prima che vinca le elezioni.

«Se avessimo dovuto farlo ora, non avremmo abbattuto niente, nessuna villetta, nessun abuso». Lo sguardo di Gerardo Rosanìa, sindaco di Eboli, si spegne nel vuoto, vaga sulle pareti del suo ufficio, poi torna a fissare un punto. «Quella stagione si è esaurita. E poi oggi chi me li darebbe i soldi per le ruspe e per alloggiare i militari?».’

Non è passato tanto tempo da quando i Caterpillar si avviarono verso la pineta di Eboli per demolire le prime 72 villette abusive che deturpavano il litorale. Ma sembra un secolo. La pineta è lunga otto chilometri e in alcuni punti è profonda anche 250 metri. Alle spalle corre la strada, davanti ha una spiaggia bianchissima e poi luccica il mare. Era il settembre del 1998. Ci vollero tre giorni per sbriciolare il cemento e il ferro. Le altre 328 casette vennero giù nel volgere di due anni. Fu girato un video che la sera venne proiettato sulla piazza di Eboli davanti a trecento persone. Molti applaudivano, si levò qualche fischio, forse indirizzato alle ruspe, forse a chi aveva violato con il cemento la quiete di quei pini, che erano di tutti. Altri stettero zitti e covarono i rancori nelle viscere.’

Eboli è un paese conosciuto dappertutto, nonostante il fatto che Carlo Levi, nel suo libro, non si sia occupato di Eboli, estremo lembo del mondo moderno, bensì di quello che c’era dopo. Rosanìa ha 45 anni, è alto, agita le lunghe braccia e si aggiusta il ciuffo che i capelli arruffati fanno scendere sugli occhi. E’ iscritto a Rifondazione comunista e guida un centrosinistra travagliato - e travagliate sono tutte le storie della sinistra qui nella piana del Sele, zona di bonifica, di agricoltura ricca e di miseria contadina, di boschi e di aree umide, di speranze industriali che si infrangevano, di lotte e di rivolte.’

Dopo aver abbattuto le quattrocento villette abusive è lui il custode della pineta. L’ha ripulita dai calcinacci, ha divelto le ultime palizzate, e ora sta avviando il risanamento. Hanno sistemato i pali della luce e attrezzato una pista ciclabile che dalla foce del Sele, dieci chilometri più a sud, porta fino a Salerno. In alcuni angoli sorgeranno oasi naturali, fazzoletti umidi dove ricondurre la fauna - uccelli, anfibi e persino pesci. Dopo una estenuante trattativa con la Regione Campania sono arrivati 18 miliardi di vecchie lire (ma Rosanìa ne aveva chiesti 40), e con questi si potrà ripascere la pineta, piantare nuovi alberi, attrezzare piccole strutture sportive.’

La pineta segna il limite tra il mare e la pianura. Come altre pinete costiere in Italia, racconta Maria Bellelli, un’agronoma che a lungo l’ha studiata, anche questa che scorre da Paestum fino a Pontecagnano fu impiantata negli anni Cinquanta «per stabilizzare le dune impedendo che avanzassero e per proteggere dai venti marini e dalla salsedine le colture agricole che sono all’interno». Questa striscia di verde brunito è dunque un bosco artificiale, prodotto di quelle imponenti opere di manutenzione di cui l’ingegneria italiana si vantava, prima di cercare la gloria solo attraverso cavalcavia e autostrade. La pineta segnava il compimento di un’altra immane opera, la bonifica realizzata negli anni Trenta sotto la direzione di Arrigo Serpieri – bonifica integrale, venne definita, perché oltre a prosciugare le paludi, fissò nuove forme del paesaggio rurale. La pineta chiudeva verso il mare questo gioiello dell’ingegneria idraulica e a sua volta veniva protetta da una duna che sfilava lungo la spiaggia e che tratteneva la salsedine.’

Con il passare degli anni, racconta Bellelli, la pineta venne abbandonata. E qui, dove le piante non venivano diradate e mentre il sottobosco si riduceva, costruirono le villette. Proprietà del demanio e cioè di tutti, quindi di nessuno e, come accade spesso in queste contrade, di chi per primo se l’accaparra. Quattrocento villette, alcune di buona fattura, la gran parte baracchette indegne di ospitare gli attrezzi agricoli. Qualche ristorante, lo spaccio, la bottega con le mozzarelle di bufala della piana.’

L’assalto iniziò negli anni Sessanta. Arrivarono da Napoli, da Salerno e dall’entroterra. Ma le occupazioni furono incessanti dopo che Eboli divenne il teatro della Grande Rivolta. Accadde nel maggio del 1974. Una faida interna alla Dc aveva dirottato verso l’Irpinia, lo stabilimento della Fiat-Iveco che doveva essere installato nella piana del Sele. Gli ebolitani bloccarono l’autostrada e i binari ferroviari. Per Rosanìa fu il battesimo politico: anche lui era sulle barricate, alla testa degli studenti liceali. Una nuova promessa, quella di collocare altri stabilimenti, li riportò alla calma. Ma nessuna industria si stabilì da quelle parti. La Dc perse onore e voti a vantaggio del Psi, che contava su uomini scaltri e intraprendenti. I socialisti crebbero in misura straordinaria, trasformando l’intera provincia in uno dei centri di irradiazione del craxismo (nel '57 avevano l’8 per cento, nell’’80 raggiunsero il 31; la storia della città è narrata da Gabriella Gribaudi in un libro del 1990, esemplare nel suo genere fra antropologia, sociologia e politica: si intitola A Eboli). Nel '76 Rosanìa si trasferì a Modena, dove si laureò in Economia. «In quegli anni scomparvero tanti antichi mestieri», ricorda, «sparirono falegnami, artigiani del rame, ferrai, ciabattini. Eboli perse il suo rapporto con la piana, gli ebolitani non lavorarono più la terra. I fondi agricoli servirono per costruirci le villette e dopo il terremoto dell’’80 il centro storico si svuotò». Rosanìa ritornò in paese nel 1982. Ma se ne ripartì quasi subito per la provincia di Bergamo, dove trovò un posto da segretario comunale. Eboli era cambiata. Alcuni si erano arricchiti e molti sognavano di seguirli. Gli ebolitani avevano scoperto il mare e con il mare avevano scoperto quant’era bella la pineta. Furono quelli gli anni delle occupazioni incessanti. Arrivò anche la camorra. Racconta Rosanìa che nella casa del boss Pasquale Galasso a Poggiomarino venne sequestrata una copia del piano regolatore di Eboli e lo stesso Galasso, che poi è diventato un pentito, si era costruito una villa intonacata di bianco, con i portici e gli archi. La villa è ancora qui, con il cancello sulla strada che porta a Battipaglia. Adesso ospita il Centro per la legalità Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Pochi a Eboli ritennero che quelle case fossero illecite. Ma una svolta si ebbe nel 1996, quando Rosanìa si candidò a sindaco appoggiato da una lista civica e da Rifondazione comunista. Suo avversario era l’Ulivo. In testa ai suoi programmi mise gli abbattimenti delle ville. E vinse. Partirono gli ordini di demolizione e vennero indette le gare d’appalto. Tutte le gare andarono deserte. Una volta concorse una sola impresa, offrendo un ribasso irrisorio, lo 0,05. Ma qualche tempo dopo il titolare telefonò al sindaco, sfoderò una solenne faccia tosta e disse: «Scordatevelo che veniamo a demolire».’

Rosanìa fu colto dallo sconforto. Le villette erano state sequestrate da un magistrato di Salerno, Angelo Frattini. Ma i proprietari continuavano ad abitarle. Uno spiraglio venne aperto dal prefetto che tutti consideravano una persona perbene, Natale D’Agostino: le demolizioni le avrebbe fatte l’esercito. Un primo intervento (siamo arrivati al maggio 1998) venne bloccato perché nel frattempo era franata la montagna sopra Sarno. Poi D’Agostino morì, ma anche il suo successore, Efisio Orru, era persona tenace. E così il 28 settembre del '98, all’alba, le ruspe militari arrivarono nella pineta e buttarono giù le prime ville. In piazza si festeggiò quando tutto era finito. Ma il sudore freddo di quei giorni Rosanìa sente scorrerlo al solo rievocarli. Intanto l’esercito demolisce, bontà sua. Ma le case le vuole trovare sgombre di tutti gli arredi. E del trasloco dovette occuparsi il Comune, che scovò un magazzino per sistemare mobili, tavoli e sedie a sdraio. Trovò gli alberghi dove alloggiare i soldati. Fece una convenzione coi ristoranti per fornire pranzi e cene. E alla fine, dissanguandosi, dovette pagare solo all’esercito un conto di 600 milioni.’

Per alcune ore non si ebbe notizia di una signora di settant’anni. Qualcuno sussurrò che poteva trovarsi sotto i calcinacci. Vera o falsa che fosse (falsa, per fortuna, la signora era nella sua casa di Battipaglia), la voce servì a tenere il sindaco sulla graticola, a fargli capire quale scarto separasse la gloria dalla galera. L’ultimo gruppo di case fu demolito in fretta e furia nel 2000: si sapeva che alle politiche avrebbe vinto Berlusconi e allora addio ruspe.’

Eboli sembrava avesse retto nello slancio degli abbattimenti. Ma poi i partiti si sono sfaldati, la maggioranza ha perso alcuni suoi pezzi. «Non so se arriveremo al 2005, quando scadrà il nostro mandato», confessa Rosanìa. Sono riemersi i rancori nascosti quella sera davanti al filmato delle ruspe. Nel nuovo piano regolatore, realizzato da Vezio De Lucia, si è bandito il cemento sul lido: gli stabilimenti devono avere solo strutture in legno. Si è indetta una gara perché chi aveva già uno stabilimento demolisse quello vecchio: in cambio avrebbe ottenuto la concessione per uno nuovo, ma in legno. Alcuni si sono opposti. Sono andati alla Procura della Repubblica e hanno denunciato Rosanìa per abuso d’ufficio e hanno persino insinuato che lui abbia favorito qualcuno a scapito di altri. Ora l’indagine è in corso. Tutte le sentenze della giustizia amministrativa hanno dato ragione al sindaco, che però si è visto perquisiti gli uffici dalla Guardia di Finanza. «Se dovessi abbattere ora non potrei più farlo», ripete Rosanìa, che per fortuna sua e della pineta, seppe cogliere l’attimo.

(2 - continua)

Titolo originale: Ga. landowners work to draw line on sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

PALMETTO, Georgia — Steve Nygren e sua moglie, Marie, stavano vivendo il sogno americano. Lui aveva venduto il suo impero economico (34 ristoranti in otto Stati) e la coppia aveva aperto un bed & breakfast in una vecchia fattoria nel profondo dei boschi di conifere a sud di Atlanta.

La fattoria, 30 minuti a sud-est dal centro, era circondata da campi rigogliosi e colline a boschi. Era parte della più vasta regione di terreni non edificati nell’area di Atlanta. C’erano migliaia di ettari di foreste e campagna non ancora inghiottiti in una zona dove si asfaltano in media 20 ettari al giorno.

Poi la bolla scoppiò. Nygren un giorno di cinque anni fa stava facendo jogging quando vide che stavano abbattendo degli alberi sulla proprietà di un vicino. “Mi spaventò, perché pensavo che si trattasse di costruire case” ci racconta il cinuantottenne Nygren.

Si sbagliava: il suo vicino stava solo costruendo una pista d’atterraggio per il suo piccolo aereo. Ma l’allarme di Nygren su cosa avrebbe potuto fare, alla sua fetta di paradiso rurale, un’edificazione incontrollata, lo portò comunque a lanciare una campagna di base per evitare che le ultime grandi foreste dell’area metropolitana di Atlanta fossero inghiottite da un’ondata di lottizzazioni, strade e centri commerciali.

Nygren e i suoi alleati pensano di aver trovato la formula del successo: non fermare la crescita, ma incanalarla verso poche determinate aree, attraverso una strategia che conservi la maggior parte delle aree boscose circostanti.

Con le aree metropolitane del paese che si espandono sempre più, foreste e campagne ai loro margini stanno rapidamente scomparendo. Dal 1982 al 2001, la quantità di aree urbanizzate negli USA è aumentata del 45%, fino a 43 milioni di ettari, secondo il Department of Agriculture e la Brookings Institution, un istituto di ricerca di Washington. Si tratta di circa il 6% della superficie totale nazionale.

Più o meno il 70% dell’edilizia residenziale e commerciale si realizza ancora dove esistono boschi e aree rurali, anziché in zone già urbanizzate.

Contemporaneamente, gli acquirenti di case esprimono sempre più un desiderio di vivere in modi che proteggano il paesaggio naturale, e i costruttori stanno rispondendo. Uno dei settori in più rapida crescita dell’industria edilizia sono le conservation subdivisions, che utilizzano solitamente lotti compatti, concentrati, e ampi spazi aperti condivisi da tutti i proprietari. Questi quartieri sono progettati per ospitare il maggior numero possibile di abitazioni, proteggendo contemporaneamente molte delle risorse adiacenti in termini di zone rurali e naturali.

La Chattahoochee Hill Country Alliance, il gruppo che Nygren ha collaborato a formare, sta cercando di applicare questi principi su larga scala. Il programma comprende circa 250 kmq di zone rurali: una superficie pari a quella della Napa Valley in California. Il gruppo spera di salvaguardare almeno due terzi di questa superficie concentrando l’urbanizzazione in tre centri, di circa 2,5 kmq ciascuno.

”È un modello molto interessante, il modo in cui le città di tutto il paese stanno cercando di dare una risposta alla domanda: come possiamo ridurre lo sprawl?” ci racconta Jo Allen Gause, direttore per l’edilizia residenziale allo Urban Land Institute, organizzazione non-profit di ricerca e divulgazione. “È un modello che potrebbe funzionare, in alcune aree”.

La chiave per costruire lo hill country plan è lo strumento legale inconsueto sostenuto da Nygren: il trasferimento dei diritti edificatori. Consente ai proprietari di vendere il diritto di costruire case sulle proprie fattorie o ranch. In cambio della tutela permanente del terreni, possono avere benefici fiscali e continuare a risiedere sulla proprietà.

I costruttori, per parte loro, acquistano i diritti edificatori. Ma invece di usarli sui terreni agricoli, trasferiscono il numero di case che avrebbero teoricamente potuto realizzare qui, verso terreni vicini, dove lo zoning consente un’edificazione più intensiva.

Hill country plan

Lo hill country plan incoraggia circa 100 coltivatori e 530 altri proprietari a vendere i propri diritti a edificare sui propri terreni. Più diritti venduti, più terreni conservati.

Resta da vedere se Nygren (che sta edificando parte dell’area per profitto) e i suoi colleghi riusciranno. I meridionali di campagna hanno un legame profondo, quasi spirituale, con la propria terra. Ha mantenuto le loro famiglie. È il posto dove crescono le messi e si caccia la selvaggina, dove sono nati, si sono sposati, e saranno sepolti. La terra tradizionalmente si trasmette di generazione in generazione.

Rinunciare al controllo della propria terra non è qualcosa che si possa fare a cuor leggero.

”La maggior parte delle fattorie qui sono state delle stesse famiglie per cent’anni” dice J. Wayne Stradling, capo dell’ufficio agricoltura della Fulton County meridionale, dove si trova molta della superficie interessata. “Personalmente, mi piace (il piano di Nygren). Credo che funzionerà. Ma molti dicono di no. La chiave di tutto è farli capire”.

Circa 30 proprietari hanno già manifestato interesse a cedere i propri diritti, afferma Stacy Patton, presidente della Chattahoochee Hill Country Alliance. “La gente sta aspettando di capire quanto è difficile l’operazione.

Alcuni hanno venduto i propri diritti ai costruttori per 9.000 dollari l’ettaro, ci dice ancora J. Wayne Stradling. È circa la metà del valore di mercato dei terreni in zona.

”La questione principale si misura in dollari e centesimi – ci dice – se vogliono tenersi la terra per sé e i figli, è la cosa migliore anche cedere i diritti per un pezzo di pane. Ma se qualcuno non ha figli, potrebbe volerla vendere al prezzo più alto”.

I trasferimenti di diritti edificatori sono stati tentati raramente nel Sud, e mai in Georgia sinora. Lo strumento della pianificazione degli usi del suolo è stato usato altrove, e in particolare nella Montgomery County, Maryland, nel suburbio di Washington, dove si sono preservati così più di 20.000 dal 1980, e nelle New Jersey Pinelands (12.000 ettari dal 1981).

I trasferimenti sono usati anche, su scala minore, in New Hampshire, negli stati di New York, Washington, Idaho, Colorado, Nevada, Wyoming and California. Il governatore del New Jersey James McGreevey afferma di voler inserire questo strumento nelle proprie politiche ambientali.

Gli esperti dicono che la procedura ha successo soprattutto per conservare piccole zone in area urbana. A Seattle si consentono trasferimenti da siti per case popolari ad altri in centro destinati a uffici e alberghi. Si sono salvate così della demolizione (e sostituzione con progetti orientati al mercato privato) centinaia di abitazioni per famiglie a basso reddito.

Ma Randall Arendt, urbanista e progettista di conservation subdivisions, dice che sarà difficile per l’associazione ambientalista georgiana proteggere 20.000 ettari di zone rurali usando lo strumento dei trasferimenti. “Si è dimostrata una proposta molto difficile da mettere in pratica” dice. Il problema, continua, è che “la gente non vuole accettare nuova edificazione da altre aree, se questo significa più gente nel proprio cortile”.

Segnali dai costruttori

Molti dei panorami, nella Chattahoochee Hill Country, sono mozzafiato. La luce pomeridiana gioca sul terreno fra mormoranti corsi d’acqua. L’area è a venti minuti di macchina dall’aeroporto più affollato del mondo, ma passare davanti ad una fattoria dopo l’altra può dare al visitatore la sensazione di essere trasportato in un’altra epoca.

Per vent’anni, la gente che vive qui ha visto lo sviluppo suburbano andarsene altrove. Alcuni stavano aspettando il momento giusto, quando i costruttori avrebbero iniziato a corteggiarli per cedere la terra con grossi profitti.

Nygren saperva di non poter fermare le ruspe. Ma non voleva vedere il tipo di suburbanizzazione che aveva caratterizzato il resto di Atlanta. E con un piccolo gruppi di vicini per prima cosa si è rivolto a chi possedeva almeno 80 ettari.

”Al nostro primo incontro queste 36 persone si divisero in due gruppi: chi si abbracciava agli alberi e chi era favorevole a costruire” ci dice. “C’è gente qui che è proprietaria di terre da sei generazioni. E c’è gente che pensa sia arrivato il momento di incassare. Altri amavano la terra, e volevano che non succedesse niente”.

In dozzine di incontri sono stati coinvolti piccoli e grandi proprietari, ambientalisti e costruttori, per decidere dove si sarebbe dovuto edificare. Dopo mesi di assembleee spesso conflittuali, il gruppo ha prodotto un piano per concentrare le case e altre attività in tre insediamenti ad alta densità, e altre aree più piccole. La Fulton County, che contiene la maggior parte delle aree collinari, lo scorso anno ha rivisto le proprie norme di zoning per adeguarle a questo piano e approvarlo.

I tre villaggi avranno 30 unità residenziali per ettaro. Saranno raccolti attorno a un green e progettati in modo che gli abitanti possano raggiungere le varie località e servizi a piedi o in bicicletta. I costruttori dovranno destinare almeno il 10% dei terreni a spazi aperti. Nei villaggi saranno utilizzati sistemi fognari innovativi, eliminando la necessità di costose connessioni con reti lontane.

I progettisti prevedono a regime da 30.000 a 100.000 abitanti per l’area collinare (dalle poche centinaia di oggi). Non ci saranno gated communities, e il 10% delle abitazioni sarà destinato a tipi per bassi redditi. Questa case non costeranno più di 130.000 dollari, rivolti a famiglie fino a quattro persone con un reddito pari all’80% di quello medio dell’area metropolitana di Atlanta.

La lottizzazione di Nygren, Serenbe, sarà progettata come un quartiere di artisti. Le persone abiteranno in case poste sopra i propri spazi di lavoro, in modo molto simile ai vecchi centri città. Ma qui saranno circondati dai boschi. È un tipo di idea che ha successo: Nygren racconta che 32 delle prime 40 case rese disponibili si sono vendute in fretta, a prezzi da 190.000 a 800.000 dollari. E invita i visitatori nella vecchia fattoria che ha rinnovato insieme alla moglie, scavalcando un cane bianco dei Pirenei di nome Georgia che sonnecchia sulla soglia. All’interno, Nygren ha dedicato una stanza alla proiezione del suo Power Point sull’area delle colline.

Poi si passa a un ex fienile utilizzato come ufficio. Qui si trovano mappe e opuscoli col progetto del quartiere.

”Tutti parlavano di quello che non avrebbero voluto vedere, qui. Ora abbiamo deciso cosa vogliamo.

Nota: per un confronto, si veda anche la descrizione dell'esperienza del New Jersey raccontata dal New York Times e riportata in questa stessa sezione di Eddyburg (fb)

Titolo originale: Wal-Mart adapts to communities.New Palm Bay store follows requested style– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il progetto di Wal-Mart per il Supercenter di Palm Bay Supercenter ha tutto quello che un cliente si aspetta dalla catena commerciale più grossa del paese: un’enorme scelta, un supermercato e un centro giardino che sembra una piccola foresta pluviale.

Ma ci sarà una grossa differenza, e sarà nell’aspetto esteriore dell’edificio.

Mancherà la costruzione di cemento grigia, sottolineata dallo sfondo blu e scritta bianca, che per più di vent’anni ha caratterizzato le facciate dei negozi Wal-Mart in tutti gli Stati Uniti. La città di Palm Bay ha richiesto alcune modifiche prima di rilasciare il permesso di costruire il nuovo punto vendita.

A Palm Bay, chi va a far spesa troverà un negozio di 10.000 metri quadrati con una facciata in stile Florida vernacolare, completa di finto tetto a falde e persiane apribili.

”Ho il piacere di annunciarvi che non vedrete più grosse scatole blu e grigie” dice Glen Wilkins, portavoce della Wal-Mart a Bentonville, Arkansas.

Wal-Mart non è la sola ad adattare la propria architettura esterna per andare incontro ai desideri delle città. Lentamente, parecchie delle principali catene commerciali nazionali stanno accorgendosi – in certi casi forzate – che i progetti di cubi squadrati devono iniziare ad avere qualcosa di più per accontentare le esigenze locali.

A Palm Bay, commercio e terziario che desiderano localizzarsi in certe zone devono utilizzare lo stile denominato “Florida vernacolare” o “ cracker”.

A Viera, nella Brevard County, i costruttori devono adeguarsi ad uno stile delle facciate più Mediterraneo.

In entrambe queste aree, tutte e due in forte crescita, i commercianti hanno un’alternativa: adattarsi a questo rigido “vocabolario visivo” oppure perdere milioni di dollari di vendite, perché non gli sarà consentito di edificare e aprire il negozio.

Una grossa domanda aperta, è se gli altri commercianti e costruttori seguiranno Wal-Mart.

”Devono svegliarsi, se la cosa ha senso economico” ci dice Ed d’Avi, architetto con studio a Suntree e membro della sezione Space Coast dell’American Institute of Architects. “Se le città dicono: ‘No, non lo accettiamo’ saranno obbligati”.

”Evidentemente stanno tentando di identificarsi maggiormente con le città, in qualche modo, e diminuendo la dimensione di questi edifici a forma di grossa scatola” continua d’Avi. “Fino ad un certo punto, riescono meglio di altri”.

La Walgreen Co., impresa commerciale con base a Deerfield, Illinois, abitualmente segue linee ben definite nella costruzione dei suoi negozi. Ma circa cinque anni fa, la pressione della comunità ha forzato la maggior catena nazionale nel settore drugstore retail ad installare una facciata in stile Florida vernacolare all’angolo fra la U.S. 1 e Montreal Avenue, per adattarsi all’area storica Eau Gallie.

Vernacolare, certo, ma è senza dubbio ancora un negozio Walgreen. Chi abita vicino, ad ogni modo, sembra apprezzare questa particolare scelta estetica.

”Avendo appena completato un profondo rinnovo degli elementi più riconoscibili della zona centrale, possiamo apprezzare altri soggetti che lavorano per il miglioramento estetico del distretto storico della città” afferma Jack Platt, socio dello studio legale Platt, Jacobus, Fielding & Torres, che si è trasferito di recente in un edificio vicino al negozio Walgreen.

”Piccoli ritocchi, come quelli effettuati da Walgreen, fanno la differenza nell’aspetto generale e nella percezione della zona” dice Platt.

Le motivazioni di Wal-Mart non sono certo altruistiche, sottolineano gli esperti del settore. Per molti anni le città hanno barattato la propria anima pubblica per ospitare una delle grandi catene commerciali, a causa del gettito fiscale che generava e dei posti di lavoro creati.

Quando il grande operatore ha cominciato a far uscire dal mercato le attività più piccole e indipendenti, le città hanno iniziato a irrigidirsi rispetto a Wal-Mart e altri, chiedendo alcuni adeguamenti a standard locali.

È stato allora che la Wal-Mart di Durango, Colorado, ha adottato uno stile da villaggio Pueblo. Un negozio vicino a San Francisco ha invece uno stile di tipo industriale, con soffitti alti e strutture d’acciaio.

A Viera, si è convinto Wal-Mart a adottare per il suo Supercenter un aspetto Mediterraneo, con parecchie piante di palma.

”Molte di queste richieste venivano dalla comunità, e Wal-Mart ha capito che avremmo tutti tratto beneficio dalal costruzione di un negozio che si adattava alla città” dice il portavoce Wilkins. “Dà agli abitanti un senso di proprietà, dato che è così caratteristico”.

Palm Bay ha adottato una delle politiche più restrittive della zona riguardo alla progettazione, e il direttore dell’ufficio urbanistica Chris Norton , anche se dice di capire le critiche a questo atteggiamento, non chiede scusa a nessuno. Dice che Palm Bay sta crescendo in fretta, e i funzionari pubblici devono avere un maggior peso nelle questioni della forma urbana.

”I padri della città sapevano che Palm Bay avrebbe continuato a svilupparsi” continua Norton. “E nel tentativo di inziare un processo di ‘marchio’ ebbero l’idea di usare un tema architettonico. Quando si abita qui, o si viene in visita, lentamente si vede emergere lo stile Florida vernacolare. Poi ci si ricorda, quando si torna di nuovo in città, o se ne parla”.

La signora Mary Genna, di Palm Bay, ha guardato il disegno dell’artista che rappresentava il nuovo Wal-Mart e ha detto: “Penso che sarà bello. Sarà completamente moderno”.

La vicina della signora Genna, Marlene Cogar, anche se non è una gran appassionata di Wal-Mart, né entusiasta della decisione di farne uno vicino a casa sua, ammette che questo nuovo progetto è migliore dei soliti negozi a forma di cubo.

”Sembrerà una cosa più urbana” dice la signora Cogar. “Mi piace”.

Il portavoce di Wal-Mart, Wilkins, afferma che questi nuovi aprticolari progetti – ce ne sono circa 10 in tutti gli Stati Uniti – costano più soldi all’impresa “ma si tratta di qualcosa che Wal-Mart capisce di dover fare, come prezzo per continuare la propria attività. E ne trae anche beneficio”.

Ma non tutti sono contenti dell’ordinanza di Palm Bay sugli edifici commerciali.

Bruce Wechsler, candidato al consiglio municipale per il Libertarian Party, definisce controproducenti le regole di progettazione, un freno allo sviluppo economico.

”È semplicemente un tentativo goffo, tutta la faccenda. Lo stile Florida vernacolare non è stato pensato per gli edifici commerciali. Era caratteristico delle piccole case”.

Se anche l’ordinanza fosse una buona idea, solo il 15 per cento della superficie di Palm Bay destinata al commercio è disponibile per l’edificazione – prosegue Wechsler. Chiedere di adeguarsi allo stile Florida vernacolare ora, non avrà effetti visibili.

”Palm Bay è troppo grande, troppo diffusa”.

Un ristorante della catena KFC ha rinunciato a costruire a Palm Bay a causa dei vincoli di progetto, specificando in una lettera ai funzionari di ritenere che l’ordinanza aggiungesse troppi costi.

Wechsler dice che ci sono probabilmente altre attività colpite, anche se non lo comunicano ufficialmente alla città.

”Semplicemente, la gente lo sa, e decide di non venire qui” dice Wechsler. “Non ne vale la pena. Non è che ti telefonano per dire stavamo pensando di venire e poi abbiamo deciso di no”.

Per alcuni progetti commerciali, l’ordinanza ha rappresentato una sfida particolare.

Steve Oktela, che vuole costruire una concessionaria Harley-Davidson allo svincolo di Palm Bay Road con la Interstate 95, dice che ha dovuto spendere circa 150.000 dollari per adeguarsi alle caratteristiche dello stile Florida vernacolare.

La cosa difficile è fondere l’immagine Harley-Davidson con questo stile.

”Cercavamo un aspetto singolare, e abbiamo tentato di incontrarci a metà strada con i funzionari pubblici” dice Oktela. “E devo dire che l’ufficio urbanistica ha lavorato insieme a noi. Potete vederlo nei disegni, che anche se c’è l’aspetto Florida vernacolare, ce n’è anche uno molto, molto industriale di tipo Harley.

”È un segno forte. Certamente non è una casa di marzapane”.

Nota: qui il link a Florida Today col testo originale e qualche immagine; di interesse tecnico anche le pubblicazioni (linee guida ecc.) dell'ufficio urbanistica di Palm Bay, scaricabili in PDF dal sito ufficiale (fb)

Titolo originale Is This Land Our Land? – traduzione di Fabrizio Bottini (L’articolo in una versione precedente è stato pubblicato anche dal Washinton Post nella sezione domenicale “Outloook”, il 24 giugno 2001)

Come molti americani, non ho badato molto al programma federale chiamato “Fee Demo” - ufficialmente, Recreation Fee Demonstration Project – fino a quando non mi hanno chiesto di pagare.

In vacanza in Oregon, sono tornato a percorrere un vecchio sentiero nella Three Sisters Wilderness, dove avevo prestato servizio come ranger forestale anni prima. Ci ho trovato un cartello che mi chiedeva di pagare cinque dollari per il parcheggio, o rischiare una multa fino a cento dollari. Dato che l’unico modo disponibile per raggiungere questa remota testa di sentiero è l’auto, sostanzialmente mi stavano chiedendo di pagare per camminare.

La somma era modesta, ma il mutamento nella politica di gestione delle terre pubbliche che rappresenta non lo è: va contro qualunque idea di spazio pubblico.

Fino a cinque anni fa, tariffe del geenre erano espressamente proibite (con poche e piccole eccezioni) sulla maggior parte dei terreni pubblici gestiti a livello federale, e c’erano severe limitazioni sulle attività ricreative di tipo privato. Ma il programma Fee Demo approvato nel 1996 ha temporaneamente eliminato questi di vieti. Se fosse reso permanente secondo il progetto ora in esame al Congresso, si apalancherebbe la porta a una diffusa e distruttiva commercializzazione di territori che sono parte del patrimonio nazionale.

Non confondete questi posti con gli spazi gestiti dei Parchi Nazionali, con le loro strutture e comodità, ai quali gli americani hanno pagato l’ingresso per quasi un secolo. La Three Sisters Wilderness non è un parco, ma un parte del più esteso sistema di terre pubbliche a gestione federale, che tradizionalmente hanno offerto libero accesso, e un minimo di intrusione commerciale. Il sistema comprende oltre 100 milioni di ettari gestiti dal Servizio Forestale, una quantità più o meno equivalente gestita dal Bureau of Land Management, 40 milioni dal Fish and Wildlife Service e 5 milioni dal Genio Militare (i militari controllano circa 60 milioni di ettari). I terreni del Servizio Forestale, da soli, sono il triplo dei 34 milioni di ettari del sistema nazionale dei parchi.

Tradizionalmente questi spazi pubblici sono mantenuti dalla fiscalità generale, e tutti gli americani hanno diritto di libero accesso. Il concetto è stato rafforzato dal Land and Water Conservation Fund Act del 1965, una legge che proibisce esplicitamente a qualunque agenzia federale di far pagare l’accesso ai terreni pubblici, con l’eccezione dei Parchi Nazionali e delle strutture attrezzate per nautica o campeggio.

Ma nell’ambito del movimento per le privatizzazioni degli anni Novanta, il Congresso tagliò i fondi per il mantenimento dei terreni pubblici. Ad esempio, il bilancio per le attività di tempo libero del Servizio Forestale fu ridotto di più di un terzo fra il 1994 e il 1999. In questa crisi creata artificialmente, entra la American Recreation Coalition, un consorzio di grosse imprese e loro sostenitori, che traggono profitto dalle attività motorizzate e gestiscono concessioni, campeggi, marine e strutture simili.

Sostenendo che le tariffe degli utenti potevano controbilanciare i tagli dei finanziamenti, la ARC ha esercitato un’intesa pressione per eliminare le restrizioni sulle attività commerciali e promuovere “collaborazioni pubblico/privato”. Dopo essere stato respinto ad una prima votazione, Fee Demo è stato infilato in un voto di commissione bilancio nel 1996, e approvato senza consapevolezza pubblica e discussione. Si autorizzava ciascuna delle quattro maggiori agenzie di gestione delle terre ad applicare tariffe in 100 località non specificate, e 400 località complessivamente. Ora queste tariffe di accesso sono applicate in migliaia di luoghi.

Originariamente concepita come un test di due anni, la legge è stata prorogata fino al settembre 2004. Dal luglio 2002, ci sono almeno tre progetti per renderla permanente.

Questo presenta una nuova e seria minaccia. Sinché Fee Demo era temporanea, era poco probabile che qualcuno si lanciasse in costosi progetti edilizi. Se le protezioni dallo sfruttamento privato sono rimosse in modo definitivo, non solo le tariffe per gli utenti saranno garantite, ma l’industria del tempo libero tenterà di espandersi in attività che prima d’ora le erano precluse.

Inevitabilmente, chi gestisce i terreni pubblici sposterà le proprie priorità dalla protezione degli ecosistemi ad assicurarsi una sopravvivenza, raccogliendo denaro. Nel 1999 Francis Pandolfi, a quell’epoca responsabile operativo del Servizio Forestale (ed ex amministratore delegato dei Times Mirror Magazines), stava già esortando la propria agenzia his agency ad “esaminare a fondo la miniera d’oro delle opportunità per il tempo libero di questa nazione e gestirla come fosse un marchio di prodotti di consumo”.

Nella sua “Recreation Partnerships Initiative”, cugina prossima della Fee Demo, il Genio Militare afferma senza alcun imbarazzo che “ L’intento [della collaborazione pubblico/privato] è di incoraggiare lo sviluppo privato delle strutture per la pubblica ricreazione quali: marine, complessi di hotel/motel/ristoranti, centri congressi, aree a campeggio, campi da golf, parchi tematici, zone per il divertimento con negozi, ecc.”.

Il presidente della American Recreation Coalition Derrick Crandall descrive quello che di solito succede quando l’impresa privata contratta per la gestione di strutture pubbliche, in una intervista al Motorhome Magazine del 1998: “Se si hanno tre campeggi da quaranta posti in un distretto, si vede immediatamente che vanno chiusi, e che va realizzato un nuovo sito a campeggio per 120 posti realizzato con gli standards di oggi”. Si sta parlando, ora, di efficienza e profitto.

La ARC sostiene le tariffe per gli utenti come supplemento ai finanziamenti federali, ma i fatti mostrano qualcosa di diverso. Le entrate hanno semplicemente consentito ulteriori tagli nei finanziamenti. La Deschutes National Forest in Oregon ha raccolto 175.400 dollari di tariffe nel 1998, e poi ha avuto tagli al bilancio per il tempo libero di 175.800 nel 1999. È un fatto ricorrente.

Una pubblicità del Servizio Forestale dichiara che l’80 per cento degli introiti Fee Demo va direttamente di nuovo alla terra, ma non è vero. I concessionari privati si prendono una quota dai molti pagamenti della gente a campeggi e teste di sentiero. Ad esempio, la maggior parte degli ingressi Fee Demo alla “Enterprise Forest” in California sono venduti dai privati, che prendono una quota del 20 per cento. Un addizionale 19 per cento è investito nella raccolta tariffe e vigilanza. In tutto, almeno la metà delle tariffe della Enterprise Forest se ne va via, e anche con la minaccia di multe fino a 100 dollari, a malapena la metà del pubblico paga.

...

Fee Demo è solo il primo passo. Misure più costose e danno se per l’ambiente – e con tariffe più elevate – seguiranno, a meno che il programma si fermato.

Per fortuna, sta crescendo la consapevolezza della minaccia, e quattro stati hanno approvato risoluzioni che si oppongono al progetto. Una consapevole disapprovazione si sta diffondendo, e si sono formati diversi gruppi espressamente per combattere queste tariffe ingiustificate.

Il fatto di pagare l’accesso alle teste di sentiero per tutto il paese forse fa perdere di vista l’effetto principale di Fee Demo: l’abolizione dei limiti rigorosi alla commercializzazione, che hanno mantenuto la maggior parte dei terreni pubblici un’oasi per il godimento della natura incontaminata, e garantito la conservazione di un habitat per migliaia di specie.

Preservare le terre pubbliche, o sfruttarle per il profitto privato, sono scopi fondamentalmente in conflitto. Il Congresso dovrebbe mettere fine a Fee Demo, e ripristinare quanto è stato tolto al bilancio generale.

Se si consentirà a Fee Demo di estendersi nel tempo, ci saranno scarse possibilità di eliminarla. Dopo aver pagato per anni una tassa d’uso, molti americani dimenticheranno che le terre pubbliche erano intese per una accessibilità libera da parte di tutti: un diritto fondamentale da proteggere, non un servizio disponibile solo a chi può permetterselo.

Nota: La versione originale del pezzo è disponibile anche su Eddyburg in formato PDF direttamente scaricabile qui sotto
corporatizing public lands. Il link al sito Reclaim Democracy (Restoring Citizen Authority Over Corporations)

ROMA - Sì al condono edilizio, ma a decidere come e quando devono essere le Regioni, il che comporta implicitamente uno slittamento del termine per le domande attualmente fissato al 31 luglio.

La Corte Costituzionale si è pronunciata oggi sulla serie di ricorsi presentati da diverse regioni sul condono 2003 e ha giudicato costituzionalmente ammissibile il provvedimento statale solo in linea di principio. La Consulta ha confermato, cioè, la piena legittimità dello Stato a determinare il provvedimento in linea generale e sul piano delle responsabilità penali, ma ha sottolineato la competenza regionale sul versante amministrativo facendo così, di fatto, slittare il termine previsto per la fine di luglio.

La Corte ha stabilito che sono illegittime diverse disposizioni del testo di Tremonti, perché intervenivano su materia di competenza, appunto, delle Regioni. Diventa così inevitabile lo slittamento del termine di presentazione delle domande di condono. L'organo costituzionale ha infatti deciso che alla sua pronuncia dovrà far seguito una nuova legge dello Stato che determini alcuni indispensabili termini per far funzionare il nuovo tipo di condono.

"Il legislatore dovrà provvedere a ridefinire i termini previsti per gli interessati (ciò ovviamente facendo salve le domande già presentate)", ha scritto la Consulta, che ha aggiunto: "E' peraltro evidente che la facoltà degli interessati di presentare la domanda di condono dovrà essere esercitabile in un termine ragionevole a partire dalla scadenza del termine ultimo posto alle Regioni per l'esercizio del loro potere legislativo". Rinvio, quindi, a data da destinarsi.

Al di là dei termini temporali, le tre sentenze della Corte comunque parlano chiaro: il provvedimento straordinario sugli abusivismi edilizi è appannaggio dello Stato ma la determinazione dei tetti massimi (nei limiti fissati a livello centrale), quali tipologie possono essere condonate e per quali volumetrie lo devono stabilire le amministrazioni locali. Pena: la incostituzionalità del provvedimento statale.

La decisione arriva grazie ai ricorsi presentati da moltissime Regioni (Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Toscana e Umbria) e valorizza senza mezzi termini l' autonomia degli enti locali rispetto al potere centrale. Importante soprattutto la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che sottraeva agli enti locali il potere di far eseguire le demolizioni degli edifici illegalmente costruiti.

© 2024 Eddyburg