Nel Guinness della Barbarie, recentemente aggiornato con la decapitazione islamica e le torture cristiane in Iraq, suggerirei di inserire anche la testa mozza, lo sparo in faccia e l´esecuzione in ambulanza, nuove delizie della criminalità nostrana. Vanno ad aggiungersi agli incaprettamenti, ai genitali recisi e ficcati in bocca al morto "infame", alle nostre piccole Due Torri (Falcone e Borsellino) rase al suolo col tritolo, ai bambini strozzati e sciolti nell´acido, ai parenti di secondo e terzo grado sgozzati per faida familiare (ah, la famiglia, che pilastro della società?).
Come sbudellano e arrostiscono, come uccidono e torturano la nostra mafia, camorra, ?ndrangheta, decine di migliaia di morti (sì, decine di migliaia) nell´ultimo mezzo secolo, ce lo siamo dimenticati. La prepotenza sordida, il possesso materiale di persone e vite umane, il ricatto, la violenza ripugnante, il disporre dei corpi come roba, delle anime come merce di scambio: tutto passato in secondo piano, da qualche anno. I famosi professionisti dell´antimafia, quei rompicoglioni politicizzati, sono stati tutti più o meno congedati. Ma via, almeno qualche contabile di Stato che continui a classificare i morti, e le maniere di morire, quello dovrebbero pure assumerlo, in qualche ministero.
L’espressione massima del lusso? Avere un tetto sopra la testa. Difficile descrivere altrimenti l’emergenza casa in Italia, dove l’affitto medio di un appartamento ha ormai raggiunto la parità con lo stipendio percepito dalla maggioranza dei lavoratori dipendenti. Tra il 2002 e il 2003 i canoni di locazione sono saliti del 17%, facendo schizzare a 1.025 euro la cifra media richiesta per un’abitazione. Più o meno quanto guadagna un qualsiasi operaio o impiegato.
L’allarme viene dall’ultima indagine del Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, che ha passato in rassegna gli andamenti del mercato immobiliare su tutto il territorio nazionale: Venezia, Milano e Roma si confermano le città più care, con affitti da 1.500 a 1.260 euro al mese, seguono Firenze e Bologna, intorno ai 1.150 euro, mentre si fermano sotto quota mille solo Torino, Genova e le città del sud, tra gli 800 e i 600 euro mensili.
Affitti d’oro o in nero
Cifre che salgono ulteriormente per metrature ampie o per appartamenti in zone centrali e che, anche per chi fosse di moderate pretese, non tengono conto di spese condominiali, riscaldamento ed elettricità che finiscono con l’assorbire la totalità di uno stipendio da lavoro dipendente. A questa situazione va poi aggiunto il dilagante fenomeno dei canoni in nero, che rappresentano ben il 50% di tutto il mercato delle locazioni: «Questo è l’unico dato che si è mantenuto costante nel tempo - ha affermato il segretario generale del Sunia, Luigi Pallotta - era il 50% prima della liberalizzazione ed è il 50% ora».
Il risultato è netto alquanto drammatico: solo le famiglie con redditi superiori ai 30mila euro all’anno possono serenamente accedere al mercato ed affittare una casa adeguata alle proprie necessità. Gli altri dovranno accontentarsi di piccole stanze sovraffollate. Per le fasce più basse, che guadagnano fino a 7.500 euro annui, il canone di un monolocale incide per l’81%, mentre bilocali o trilocali restano inaccessibili con livelli di onerosità dal 127% al 147%. Non va meglio per i redditi da 15mila euro: l’affitto di un monolocale incide per il 40%, tra il 63% e il 73% quello di bilocali e trilocali, oltre il 90% quello di tipologie maggiori.
Redditi così così…
La strada inizia a farsi più agevole solo per redditi medi intorno ai 22.500 euro annui: l’incidenza è inferiore al 30% per case piccole, varia dal 42% al 49% per quelle medie, ma balza fino al 75% per abitazioni con più di quattro stanze. Se la cavano senza preoccupazioni eccessive solo le famiglie con redditi elevati di 30mila euro annui, le uniche a potersi permettere un’abitazione ampia che non incida sul bilancio di casa oltre il 57%.
... e redditi bassi
Con un reddito medio-basso, invece, una coppia con due figli che scelga di vivere in periferia a Milano dovrà accontentarsi di un’unica camera da letto per tutti (l’onerosità di un bilocale è del 61%): perchè marito e moglie possano avere una stanza tutta per sè, ci vuole almeno un reddito medio (l’incidenza di un trilocale è del 66%). «Le persone normali - ha commentato Paola Modica, segretario confederale della Cgil - non ce la fanno a tirare a fine mese. L’affitto, i cui aumenti sono decisamente superiori all’inflazione, incide pesantemente sul reddito, che già si sta progressivamente spostando verso il basso come ha fatto notare la Banca d’Italia. Come movimento sindacale, e questa è una idea unitaria di Cgil, Cisl e Uil, riteniamo indispensabile rilanciare la politica abitativa modificando la legge sugli affitti, rilanciando l’edilizia pubblica e stanziando più risorse a sostegno del fondo sociale per gli affitti».
All’edilizia pubblica, che attualmente copre solo il 7-8% della richiesta d’affitto, dovrebbe invece essere stanziato almeno un miliardo di euro all’anno, mentre almeno 500 milioni dovrebbero essere destinati al fondo sociale per gli affitti. Secondo la Cgil è inoltre necessario modificare la legge sugli affitti prevedendo solo il canale del concordato ed abolendo la libera contrattazione.
E tu chiamali investimenti
«La casa è diventata sempre più un bene d’investimento e non d’uso - ha precisato Modica - visto che in questa fase di declino e di stagnazione l’unico settore che tira è quello immobiliare, dove si registrano rendite altissime e dove confluiscono parte delle risorse che potrebbero essere destinate ad investimenti produttivi. Tutto questo è il frutto della sciagurata politica del governo, che attraverso le cartolarizzazioni, la costituzione di Patrimonio Spa, la svendita del patrimonio pubblico ed i regali fiscali, si è dimostrato pronto a tagliare il welfare ed a consentire una crescita senza precedenti degli utili nel settore degli immobili».
«C’è poi il problema della terziarizzazione dei centri storici - ha concluso Paola Modica - in Parlamento è infatti in discussione una proposta sulla nuova legge urbanistica che toglie ai comuni la pianificazione per darla in mano ai privati. Dobbiamo recuperare il patrimonio edilizio che abbiamo adattandolo alle nuove esigenze».
Titolo originale Megachurches As Minitowns – traduzione di Fabrizio Bottini
Patty Anderson e suo marito, Gary, hanno trovato la fede dove meno se l’aspettavano: lui su una linea di tiri liberi, e lei fasciata in una tuta al corso di aerobica.
È successo nei 5.000 metri quadrati del centro di attività varie alla Southeast Christian Church, dove il sollevamento pesi e le lodi al signore vanno mano nella mano. Le offerte per le attività fisiche comprendono 16 campi da basket e un centro salute Cybex, gratis per i fedeli, dove la musica è cristiana e le regole proibiscono di imprecare, anche durante gli esercizi.
”A dire il vero io non avevo intenzione di entrare a far parte di una chiesa” ricorda Gary Anderson, professore di fisiologia alla Scuola di Medicina dell’Università di Louisville. Ma i lanci in questa megachiesa con 22.000 membri l’hanno portato verso il santuario. E dopo tre anni, dice, come un canestro da distanza “le prediche hanno fatto centro”.
La Southeast Christian è un esempio della nuova generazione di megachiese: servizio completo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in un villaggio suburbano, che offre molti dei servizi e annessi della vita secolare, avvolti attorno a un cuore spirituale. É possibile mangiare, fare shopping, andare a scuola, in banca, in palestra, fare arrampicata su roccia e pregare, tutto senza uscire dal villaggio.
Queste chiese stanno diventando un elemento civico in modi inimmaginabili, almeno da XIII secolo delle grandi città-cattedrali in poi. Non più semplicemente luoghi di preghiera, sono diventati in parte spazi per il tempo libero, in parte shopping mall, in parte famiglia estesa e in parte piazza cittadina.
A Glendale, Arizona, la Community Church of Joy, con 12.000 membri, scuola, spazio conferenze, libreria e camera mortuaria sui quasi 100 ettari della proprietà, si è impegnata in un progetto da 100 milioni di dollari per costruire un insediamento residenziale, albergo, centro congressi, spazi per il pattinaggio e i giochi acquatici, trasformando sé stessa in quello che il pastore decano Dr. Walt Kallestad chiama “ destination center”.
Queste chiese sono anche diventate possibilità alternative di lavoro. Alla Brentwood Baptist Church di Houston, tra un mese aprirà un McDonald’s, completo di servizio drive-in e piccoli archi dorati. Parte sei suoi obiettivi è di creare posti di lavoro per giovani e anziani, offrendo contemporaneamente a una congregazione soprattutto di middle-class nera un’occasione in più per stare negli spazi della chiesa.
Rendendo possibile abitare la chiesa dal mattino alla sera, dalla culla alla tomba, queste strutture a servizio completo possono attirare fedeli da “una società più ampia che appare insicura, imprevedibile e fuori controllo, caratterizzata dalle armi nelle scuole o dal terrorismo”, come dice il Dottor Randall Ballmer, professore di Religione Americana al Barnard College.
Se alcuni studiosi e città sono preoccupati per le enormi dimensioni di queste chiese, e le responsabilità civiche che si assumono, questi centri “24 su 24/7 su 7” riflettono un più ampio desiderio culturale di radicamento, agio, famiglia estesa. In vivo contrasto con i temi che attraversano le grandi chiese tradizionali, questi centri, in gran parte evangelici, offrono sollievo dallo stress della vita familiare americana, incluso lo sprawl suburbano, con i suoi lunghi tempi pendolari, e “droghe, crimini, e latre tentazioni giovanili”, nell eparole del Dottor Joe Samuel Ratliff, pastore battista di Brentwood. È stato lui a chiamare McDonald’s, come occasione di “creare uno spazio controllato e protetto per i nostri bambini”.
Le chiese esprimono un desiderio dei fedeli, per “un universo dove tutto, dalla temperatura alla teologia, è controllato e sicuro” dice il Dottor Ballmer. “Non devono preoccuparsi di trovare scuole, reti sociali, o un posto per mangiare. È tutto preconfezionato”
Nonostante molte di queste chiese, in gran parte al Sud e nel Midwest, siano impegnate nella predicazione, i loro fedeli possono isolarsi dal resto della comunità, e chiudersi in una specie di “bozzolo cristiano” afferma il Dottor Bill J. Leonard, decano e professore di storia della chiesa alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina.
Ma, come dicono i leaders delle chiese, lo scopo non è l’isolamento ma la ricerca della pace e tranquillità per famiglie inquiete. Con le tante possibilità di ingresso, dalle palestre ai caffè per persone sole, le chiese a servizio completo rendono semplice entrare, e restarci.
L’aspetto del restarci, è quello che si è dimostrato critico per le istituzioni religiose. I frequentatori adulti, in proporzione di uno su sei, sono frequentatori molto occasionali della chiesa, “in base ai bisogni del giorno”, dice David Kinnaman, vice presidente di Barna Research, una delle nuove imprese di consulenza che assistono queste chiese nel loro sviluppo. Un fedele su sette abbandonerà la chiesa entro un anno.
”La gente guarda alle chiese con lo spirito dell’analisi costi-benefici che userebbe per qualunque prodotto di consumo”, afferma Kinnaman. “C’è poca fedeltà al marchio. Molti cercano il più nuovo e il più grande”.
Dave Stone, assistente ministro della Southeast, chiama la sua chiesa, aperta tutti i giorni dalle 5,30 del mattino alle 11 di sera, “una stazione di rifornimento”
”Se possiamo far venire le persone alla nostra palestra” spiega “è solo questione di tempo, fargli visitare il nostro santuario”
La chiesa è stata deliberatamente progettata come uno shopping mall (il santuario funge da spazio anchor). Ingressi ampi quasi dieci metri con superfici curve enfatizzano “il flusso di persone”, afferma Jack Coffee, anziano della chiesa e presidente del comitato per la costruzione. Bambini in età prescolare pasticciano in uno spazio da gioco disneyano, con labirinti. C’è un’ala di tipo scolastico per lezioni sulla Bibbia, un atrio con dimensioni da sala concerto con ascensori di vetro, scale mobili incrociate e schermi giganti che elencano leofferte della giornata: incontri per aiutare a smettere di fumare, una mini-maratona di allenamento, corsi dedicati a bambini di sei mesi che insegnano a toccare la Bibbia.
Cose del genere, di solito, sono pagate dalla congregazione con campagne di sottoscrizione triennali, oltre il bilancio corrente che è spesso finaziato con le decime, dice Malcolm P. Graham, presidente della divisione chiese per la Cargill Associates, impresa di consulenze per il fund-raising. Uno studio dello Hartford Institute for Religion Research allo Hartford Seminary, ha calcolato le entrate annuali di una megachiesa 4,6 milioni di dollari. I contributi annuali alla Southeast Christian sono più di 20 milioni.
I fedeli della Southeast Christian sono una famiglia di 22.000 persone family, e i visitatori sono calcolati dalle statistiche: la caffetteria che serve 5.000 tazze l’ora, i 403 bagni. Le dimensioni stesse della Southeast Christian hanno generato l’invenzione della Greenlee Communion Dispensing Machine, progettata dal settantanovenne fedele Wilfred Greenlee. Puù riempire quaranta communion cups in due secondi.
Alla Fellowship Church di Grapevine, Texas, l’attirare giovani fedeli e riuscire a trattenerli ha aiutato a crescere, da 30 famiglie a 20.000 membri in dodici anni. Appartenere alla chiesa mette a disposizione un centro giovani di 4.000 metri quadrati con una palestra dir roccia, una galleria video, e si sta realizzando un lago per incoraggiare la pesca al persico in comune tra padri e figli.
La chiesa battista di Prestonwood di Plano, Texas, ha un centro giovani tanto elaborato che qualcuno l’ha chiamato “Preston World”: 15 campi da gioco, un ristorante stile anni Cinquanta e un fitness center, insieme ad aule e a un santuario con 7.000 posti a sedere. Si stanno aggiungendo una scuola da 19 milioni di dollari, un coffee shop, uno spazio sosta ristorazione, un centro di studi per giovani pastori, un edificio dedicato alla gioventù, una passeggiata all’aperto dedicata alla preghiera, una cappella e uno spazio comune modellato sulle forme di una strada principale di villaggio. “Non siamo una grande chiesa” afferma Mike Basta, pastore responsabile. “Siamo una piccola città”.
Anche la chiesa battista Brentwood di Houston offre una gamma completa di opzioni familiari, spesso fondate su criteri politici e sociali. Accanto ai corsi di canto corale e di studi biblici, ha spazi per pazienti malati di AIDS e il credito agevolato.
In questa chiesa formato gigante, il nuovo McDonald’s non è solo un investimento conveniente per la congregazione — che ha investito 100.000 dollari nel franchising — ma anche un modo per creare posti di lavoro e generare profitti da reinvestire in borse di studio e programmi comunitari (McDonald’s si prende il suo 4 per cento standard dei guadagni).
Non è certo per caso, se si dà una scusa ai crica 2.000 fedeli che vanno alla chiesa per oltre 80 attività ogni sera (teatro per bambini, corsi di computer per adulti) una scusa per restare nei paraggi. “Se devi tornare a casa per cena, certo poi non tornerai qui”, dice il pastore Ratliff, riferendosi ai vasti bacini di pendolarismo.
Ma alcuni studiosi e amministrazioni municipali sono preoccupate per la crescita del ruolo civico di queste chiese “24 su 24/7 su 7”. Stanno diventando “un universo parallelo cristianizzato”, nelle parole del Dottor Scott Thumma, sociologo delle religioni allo Hartford Institute.
Wade Clark Roof, professore di religione e società alla University of California di Santa Barbara, si preoccupa che queste chiese a servizio completo siano “una versione religiosa delle gated communities. È un tentativo di creare un mondo dove ci si rapporta con persone dello stesso orientamento. Si perde il dialogo con la cultura generale”.
Marci Hamilton, professore di diritto costituzionale alla Benjamin Cardozo Law School di New York, afferma che questa crescita delle chiese, e in certi casi l’espansione di mega-sinagoghe, templi Mormoni temples e altre congregazioni, è diventata localmente conflittuale, specialmente nei quartieri residenziali preoccupati per la “intensità d’uso”. Le chiese a servizio completo virtualmente non dormono mai, attirano macchine, folle, emanano raggi di luce brillante a tutte le ore di tutti i giorni.
Queste tensioni fra stato e chiesa sono state evidenziate dal Religious Land Use and Institutionalized Person Act, approvato dal Congresso due anni fa, che impedisce a organismi pubblici, compresi gli uffici urbanistici locali, di bloccare progetti di chiese a meno che siano in gioco prevalenti interessi di tipo pubblico. Le municipalità in tutto il paese stanno “districando il problema di cosa le nuove leggi consentano o impediscano di fare” dice Jim Schwab, ricercatore della American Planning Association di Chicago.
La città nella città proposta dalla Community Church of Joy nell’area suburbana di Phoenix consente ai fedeli di vivere costantemente su terre della Chiesa, e anche si essere sepolti lì, avventurandosi all’esterno solo per lavorare o fare qualche spesa. Anche il parco acquatico, parte di un centro di sport a dimensioni olimpiche, ha un tema cristiano, con immagini al laser che rappresentano Giona, la Balena, Davide e Golia. Il quartiere residenziale, che non è dedicato in esclusiva ai membri della chiesa, avrà un cappellano a tempo pieno. Nonostante non voglia imitare Disneyland, è un’utopia disneyana con motore cristiano.
”La gente vuole morale, valori, e principi etici” dice il Dottor Kallestad, “Non è isolamento. È vivere su un’isola”.
Nota: per chi è interessato, è scaricabile direttamente da Eddyburg il testo originale del Religious Land Use and Institutionalized Person Act (fb)
Una forzatura al giorno, a volte due, una continua mortificazione del Parlamento da parte del governo e della maggioranza. Ieri l'altro, la decisione di mandare in aula al Senato la riforma dell'Ordinamento giudiziario, senza nemmeno attendere la conclusione dell'esame in commissione, ieri quelle di modificare il calendario, anteponendo, sempre a Palazzo Madama al decreto sulla Bossi-Fini, per discuteree subito, l'esame del maxi emendamento che riscrive, in negativo, l'articolato del ddl delega sulla legislazione ambientale, approvato alla Camera, e di porre sul testo la questione di fiducia a tempi contingentati. Cosa che il ministro Carlo Giovanardi ha fatto immediatamente, qualche minuto dopo che il vicecapogruppo di Fi, Lucio Malan, aveva chiesto e ottenuto l'inversione dell'odg.
Un maxiemendamento che è peggiore, se possibile, di quello che l'opposizione temeva. "Praticamente - commenta Fausto Giovanelli, capogruppo ds in commissione Ambiente - ci troviamo di fronte al quarto condono edilizio, dopo che la Corte costituzionale aveva demolito il terzo, il primo nelle aree a tutela paesistica". E di "condono edilizio a tutti gli effetti" parla anche Giuseppe Vallone della Margherita. Il tutto, come ricorda il capogruppo Ds, Gavino Angius, annunciando il voto contrario all'inversione dell'odg, "in quattro e quattr'otto", con una fretta sospetta, che nasce probabilmente dalla necessità non solo di condonare abusi niente di meno che dal 1939 al 30 settembre di quest'anno, ma anche qualcosa che riguarda direttamente il Presidente del Consiglio. "Una sanatoria perpetua - incalza il verde Sauro Turrone - a cui si è messo un poco di belletto".
Il testo, giunto alla quarta lettura, tra Camera e Senato, era stato modificato a Montecitorio, con l'introduzione di una norma che sanava le costruzioni abusive nelle zone paesistiche del Paese. Norma che aveva sollevato dure critiche, tanto da costringere la commissione Ambiente del Senato a cercare di modificare l'articolo, decisione che provocava però, forti dissensi tra i gruppi della maggioranza, tanto da costringere il relatore a chiedere continui rinvii del dibattito in aula, per trovare un qualche accordo nella Cdl. Dissensi (ancora ieri il relatore An, Giuseppe Specchia dichiarava che lui il condono non ,lo avrebbe fatto) coperti, infine, come ormai avviene molto spesso, con il voto di fiducia. Ieri, però, come sottolinea Angius "all'ultimo momento, dopo una serie di ripensamenti e il silenzio totale alla conferenza dei capigruppo, piove la fiducia su un provvedimento vergognoso, che non ha niente a che fare con la semplificazione e il riordino della legislazione del settore". Di fatto si condonano, nelle aree protette, comprese i parchi nazionali e regionali, le coste entro i 300 metri e le costruzioni oltre i 1.200 metri, gli aumenti di cubatura e tutto il resto, per quel che riguarda il passato, mentre per il futuro si permette di tutto, anche i cambi di destinazione d'uso nelle aree protette e a tutela paesistica, tranne l'aumento di cubatura. È evidente - per Giovanelli - la volontà di condonare villa Certosa di Berlusconi.
Ma se il premier - ironizza - aveva questo problema, si poteva fare una norma ad hoc per la sua villa sarda, non c'era bisogno di approvare una norma che devasterà tutto". Con la fiducia, come rammenta Angius, "il Senato non ha alcuna possibilità di discutere nel merito di questo provvedimento, che incoraggia l'illegalità e lo scempio dell'ambiente: tutto il lavoro finora svolto dalla commissione viene così azzerato". "Siamo di fronte ad un'altra legge vergogna-conclude- all'ennesimo schiaffo al ruolo e alla dignità del Senato, ridotto a terminale telefonico di Palazzo Grazioli: non è pensabile che qualunque bizzarria venga pensata a Palazzo Grazioli o a Palazzo Chigi, diventi poi oggetto di procedimento legislativo inusuale". Esponenti di centrodestra si stanno vantando delle norme del maxiemendamento che prevedono l'abbattimento degli ecomostri, compresa la famosa Punta Perotti di Bari, dimenticando però di ricordare che erano state le amministrazioni locali, anche quelle di centrodestra, a chiedere queste misure e che il comuni e di centrosinistra di Bari ha già pubblicato il bando di gara, pere l'affidamento delle opere di demolizione dell'ecomostro. "Belletto", "foglia di fico, "patetico tentativo di coprire la messa a regime di una norma che prevede sanatorie e abusi importanti" così dal centrosinistra risponde a chi si vanta delle norme sui grossi abusi, dimenticando - lo segnala Vallone - che "attraverso le integrazioni del maxiemendamento all'art.181 del codice Urbani il governo getta finalmente la maschera: dopo aver sostenuto da sempre che non avrebbe mai condonato gli abusi sulle aree protette, introduce un comma che condona gli abusi senza alcun limite, addirittura per materiali impiegati in difformità dall'autorizzazione paesistica, come, per esempio, è capitato per l'anfiteatro di villa Certosa". Proteste contro il maxiemendamento sono state sollevate anche Italia Nostra e il Wwf
Ricordate la villa abusiva di Berlusconi? Eccola qui
LAS VEGAS - Nella parte sud del Las Vegas Boulevard, ben oltre lo skyline della città disegnato dai casinò, c’è un hotel a tre piani, raramente frequentato da turisti. Il parcheggio è disseminato di camion di traslochi e roulotte. Davanti al gabbiotto c’è la fermata di uno scuolabus. Un cartello sul prato promette sconti per soggiorni di una settimana o più. Le camere disadorne (coperte e lenzuola si pagano a parte) vedono regolarmente messe alla prova le promesse di un nuovo inizio offerte da questa città nel deserto.
Questo frequentatissimo hotel e gli altri appartenenti alla catena Budget Suites of America sono l’ equivalente in calcestruzzo delle carrozze disposte in cerchio del vecchio West : una comunità di sognatori; pionieri e individui in lotta per sopravvivere, in breve sosta lungo il cammino verso qualcosa di migliore.
“Quando siamo arrivati ho dormito avvolta nelle camicie di mio papà”, racconta Jamie Rose Galloway, trapiantata qui dalla California, che ha recentemente festeggiato con la famiglia il suo diciassettesimo compleanno in un alloggio di due stanze sul retro. È avvezza alle difficoltà: “Siamo stati anche peggio. Un tempo eravamo senza tetto e vivevamo nel camion di mio padre”.
Molti al loro arrivo a Las Vegas utilizzano i Budget Suites in attesa di trovarsi un alloggio in questa insidiosa città, occhio di un ciclone demografico che negli ultimi trent’ anni ha trasformato il deserto americano da frontiera dimenticata a terra del desiderio. La metamorfosi non ha mutato solo l’arido paesaggio (Las Vegas e i suoi sobborghi nella Contea di Clark si estendono oggi su seicento chilometri quadrati di deserto, contro i 100 del 1970); ha comportato anche un costo sociale che molti nuovi arrivati giudicano insostenibile.
L’ufficio delle imposte stima, sulla base delle dichiarazioni dei redditi, che lo scorso anno circa 55.000 persone hanno rinunciato al sogno di vivere nel sud del Nevada trasferendosi altrove. Uno studio condotto nel 2003 dal Fordham Institute for Innovation in Social Policy ha definito il Nevada e i confinanti Arizona e New Mexico stati oggetto di “recessione sociale” perché afflitti da problemi cronici come criminalità, povertà infantile, suicidi tra adolescenti e anziani, uso di droghe e alte percentuali di abbandono dell’istruzione obbligatoria.
“Questa città sta crescendo troppo rapidamente”, commenta Sarah S., barista 25enne del Missouri, in sosta al Budget Suites diretta a Dallas insieme al marito e alla figlioletta di sei anni, dopo due anni trascorsi a Las Vegas.
“Non do il nostro cognome a nessuno L’ho imparato vivendo qui”.
Aspettando la ricchezza
Al Budget Suites non ti chiedono di esibire contratti né carte di credito.
Se questo significa poco per gli ospiti dotati di risorse finanziarie, spalanca però le porte a legioni di americani che non hanno accesso al credito. Arrivano con l’unico desiderio di trovare un buon lavoro e una casa, incuranti degli ostacoli incontrati sulla strada che li ha portati qui.
“La gente una volta era solo di passaggio qui, adesso sono sempre più quelli che restano”, spiega Hal K. Rothman, docente di storia all’Università del Nevada di Las Vegas, autore di numerosi saggi sulla città. “Chi viene qui in maggioranza ha in programma di andarsene, la considera una sosta. Ma che cosa succede quando questa città ti ama, e ti mette davanti un furgone portavalori lasciandoti prendere tutto ciò che vuoi”?
La madre di Jamie Rose, Lori Galloway, quel furgone lo sta ancora aspettando. Lei è l’eterna ottimista della famiglia, quella che vede per loro un futuro rose e fiori, benché abbia collezionato una disavventura dopo l’altra.
In un momento particolarmente duro della loro vita in California si infilava sotto la camicetta salsicce e formaggio, quando andava all’ alimentari a comprare il pane. “Che cosa avrebbe fatto lei se i suoi figli avessero avuto fame?”, chiede senza mezzi termini. “Potevo permettermi solo il pane”.
Le cose qui vanno già meglio. Lori riesce a mettere un pasto in tavola facendo il giro delle mense gestite dalle chiese e i frequentando i buffet a basso costo dei casinò. Ha recuperato le semplici stoviglie bianche rovistando nelle discariche, i suoi figli lo considerano un gioco. “Credo che i miei figli avranno una vita migliore”, dice. “A Jamie Rose piace cucinare e qui c’è un’ottima scuola per cuochi”.
Lori, 44 anni, si lascia andare alle recriminazioni solo sul fatto che continua ad ingrassare per via della medicina che prende per il cuore, e che il governo non sembra granché interessato ad aiutare le famiglie come la sua, anche se ogni due settimane la donna riscuote un assegno di invalidità. Ma si frena subito.
“Certo mi piacerebbe un alloggio un po’ più grande”, dice e aggiunge poi in tono più allegro: “Siamo più di una famiglia qui”.
Denny Cowie, che ha preso una stanza nell’edificio dietro i Galloways dopo un divorzio, guarda con cinismo alle centinaia di migranti sognatori che ha incontrato. Dice che neanche a lui è mai capitato di trovare il metaforico furgone portavalori dispensatore di facili al ricchezze.
Molti sogni qui si infrangono, spiega Cowie tra un sorso di birra e l’altro fuori dalla sua stanza al secondo piano, e i suoi vicini inevitabilmente vengono a elemosinare -alcool, sigarette, cibo e denaro. La spirale negativa può diventare pericolosa, spiega.
“Non c’è niente di peggio che tornare a casa dal lavoro e vedere una macchina della polizia nel parcheggio che preleva qualcuno”, racconta Cowie, lui stesso immigrato qui dall’Iowa.
Sedotti e abbandonati
Ma Cowie, 63 anni, nasconde un lato tenero. Nell’angolo cottura della sua stanza ha un armadietto colmo di scatole di pasta e di salsa di pomodoro che distribuisce agli altri ospiti dell’hotel quando sono a corto di cibo.
“Si può finire sbranati in questa città”, commenta Cowie, impiegato in una tipografia che stampa volantini pubblicitari per l’industria pornografica, distribuiti agli angoli delle strade.
“Chi si ferma qui magari è in cerca di casa o di un appartamento oppure in fuga da qualcosa. Chissà, non c’è modo di scoprirlo”. Questa è Las Vegas, dopo tutto, un luogo di seduzione e disillusione che premia i residenti al pari dei visitatori, coronando i sogni di alcuni e rifiutando ostinatamente di mantenere le sue promesse nei confronti di un infinità di altri.
Jeff Hardcastle, demografo dello stato del Nevada, afferma, basandosi sulle stime di alcuni studi, che dei nuovi arrivati a Las Vegas e nella contea di Clark, uno su due riparte. “Gente che viene, gente che va”, commenta. Non importa. Sono comunque di più quelli che vengono, da tutti gli angoli degli Stati Uniti, in maggioranza con l’unico scopo di comprare casa.
“In questa città c’è da far soldi”, spiega Rita Pina, 46 anni, di Oakland, California, che si è stabilita in un Budget Suites vicino all’aeroporto di Las Vegas nord con il marito Israel. “L’idea è di trovarci tutti e due un lavoro e, nel giro di due anni, comprarci una casa”.
Le legioni di speranzosi coloni sono talmente numerose che gli amministratori hanno difficoltà a tenere il conto. Una previsione ufficiale elaborata dal demografo dello statoJeff Hardcastle vuole la popolazione del Nevada in crescita di 1,3 milioni di unità nell’arco dei prossimi vent’anni, per arrivare a 3,6 milioni di abitanti.
I nuovi residenti sono solo gli ultimi di una processione umana che si snoda da decenni, molto più estesa di Las Vegas. Più di sette milioni di persone si sono trasferite in quattro stati dell’arido sud ovest dal 1970, trasformando dune sabbiose in cemento urbano da Tucson a St. George, Utah.
Una casa ogni 20 minuti
Las Vegas e i suoi sobborghi sono diventati una destinazione privilegiata a causa dell’abbondanza di lavoro legata all’industria del gioco d’azzardo e ad una riserva in espansione di alloggi a basso costo. I casinò dello Stato hanno ricavato dal gioco d’azzardo 930 miliardi nel mese di marzo, battendo il record stabilito nel gennaio 2001.
Intanto ogni venti minuti qui viene costruita una nuova casa ma non basta ancora a tenere il passo con il convoglio di camion dei traslochi che entra in città. Ma una generazione di immigrazione ha infranto molte illusioni circa i costi del patto col deserto. La gente trova ancora case e posti di lavoro qui ma anche aria inquinata, densa di polvere di cantiere, una rete idrica sovraccarica, servizi sanitari carenti, traffico impossibile, un tasso di suicidi tra gli adolescenti e di abuso di stupefacenti in rapida crescita, e una cultura di gioco d’ azzardo e sesso ventiquattrore su ventiquattro che dalla Strip filtra all’esterno, considerata alla fine intollerabile da molti nuovi arrivati con figli.
Niente illusioni qui
“Nessun genitore di buon senso che desidera un futuro per i suoi figli vuole restare qui”, dice Ann Sheets, 31 anni, madre single di tre bambine in procinto di tornare nel Michigan, dove è cresciuta.
Un’analisi economica realizzata per il governatore del Nevada nel 2002 , mostrava che i nuovi arrivati tendenzialmente versavano in condizioni economiche peggiori rispetto agli altri cittadini dello stato. Lo studio evidenziava che il reddito lordo dei nuovi arrivati era del 30% inferiore a quello degli altri residenti.
Secondo le stime del Centro per la ricerca economica e imprenditoriale dell’Università del Nevada di Las Vegas, più di un quarto dei nuovi ingressi nella Contea di Clark dispone di un reddito familiare inferiore ai 25.000 dollari l’anno.
Intanto i prezzi delle case si sono impennati, con aumenti del 20% sulle nuove costruzioni e del 30% su quelle già esistenti nei primi tre mesi di quest’anno, rispetto ai dati relativi allo stesso periodo nel 2003.
“Non ho idea del perché la gente continui a venire”, commenta Ann Sheets. “Io ho tentato per tre anni, facendo anche due lavori insieme. Non c’è spazio per i sogni qui. Vedo la gente al lavoro con addosso gli stessi vestiti del giorno prima”.
Ann Sheets occupa una stanza al terzo piano del Budget Suites fino a tutto luglio, quando, finita la scuola, potrà andarsene per sempre. È stata lei a mandare la seconda delle sue figlie, Amber, 11 anni, a portare ai Galloway due coperte. Non li conosceva ma aveva sentito parlare di loro e delle speranze che riponevano in questa città, speranze che lei ormai aveva abbandonato.
“Sa qual è il mio sogno?”, dice la signora Galloway nella stanza occupata dalla sua famiglia al Budget Suites. “Vorrei poter andare al supermercato e non dover rinunciare a nessun acquisto”.
“Io vorrei una stanza e un letto tutti per me”, si inserisce Jamie Rose.
“Una casa con un giardino intorno da curare”, aggiunge la madre.
Poco dopo la signora Galloway, rassettata la scolorita maglietta di cotone senza maniche, chiede un passaggio in macchina fino ad una chiesa nei pressi dell’aeroporto che quel giorno distribuisce zuppa, carne in scatola e riso. Continua a parlare di quanto sia grata di poter iniziare una nuova vita, ma per tutto il viaggio non fa che piangere.
Per più di tre anni, da quando Silvio Berlusconi è ritornato al potere dopo la pessima esperienza durata sette mesi nel 1994, una cantilena ossessiva ha percorso le pagine dei quotidiani e quelle dei telegiornali legati direttamente al presidente del Consiglio o quelli che si definiscono più o meno “terzisti” ovvero neutrali ma solo in apparenza tra i due schieramenti e, guarda caso, sempre intenti a criticare il centro-sinistra e ad esaltare le felici trovate berlusconiane.
La cantilena che abbiamo sentito in lungo e in largo in questi anni è stata pressappoco la seguente: non bisogna dire a Berlusconi che è antidemocratico, truffaldino nelle sue operazioni politiche come l’ultima finanziaria, che sta smantellando la Costituzione repubblicana, la legalità pubblica e lo Stato sociale, cioè i diritti fondamentali dei lavoratori. Se si fa così, secondo questo modo di vedere, lo si demonizza e si disgustano quei fantomatici elettori di centro che hanno votato per lui ma che lo aspetterebbero al varco di fronte ai suoi errori e alle sue gaffes (ma non ce ne sono stati già centinaia? Deve fare un colpo di Stato in piena regola per convincerli a disertare l’attuale maggioranza appena ricompattata dai posti distribuiti con larghezza ai soci dissenzienti della Casa delle Libertà?).
Peccato che, a guardare i risultati elettorali e non i sondaggi, i movimenti che hanno riempito le strade e le piazze nel biennio 2002-2003 e che hanno detto di Berlusconi tutto il male sperimentato in questi anni, hanno rafforzato il centro-sinistra e lo hanno condotto a numerose vittorie nelle elezioni parziali di questi anni.
Ma ora siamo al più assurdo dei paradossi. Appena Romano Prodi, leader riconosciuto della coalizione di centro-sinistra che per cinque anni ha presieduto la commissione europea, vedendosi riconoscere anche dagli avversari la correttezza politica e democratica, definisce mercenari i volontari pagati di Forza Italia, viene assalito dalla gran parte dell’universo mediatico che ci circonda e gli si chiede di offrire le scuse, di ammettere di aver sbagliato e di aver travalicato il limite estremo. Insieme ai soliti convertiti Bondi e Cicchitto - che hanno sepolto, per motivi che non vogliamo sapere, la loro precedente fede comunista e socialista - rispondono all’appello anche tutti i giornalisti che hanno scritto editoriali nella domenica di ieri, e non importa che alcuni di loro abbiano difeso nelle tribune televisive la loro terzietà o che abbiano diretto fino a pochi anni fa giornali di opposto colore prima di incontrare sulla via di Damasco l’ombra del Cavaliere.
È come se da parte loro, in nome non si bene di quale concezione politica, si sottintenda che l’avversario va bene solo se non affonda i fendenti di fronte alle gaffes più mirabolanti dell’attuale presidente del Consiglio.
All’indomani dell’approvazione in Parlamento di una riforma dell’ordinamento giudiziario che, se attuata, non risolverà in nessun modo i problemi effettivi della Giustizia in Italia, non farà diventare i processi più rapidi ed efficienti ma che in compenso porrà una parte rilevante della magistratura alle dipendenze dell’esecutivo, spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura e spingerà la maggior parte dei magistrati a inseguire la carriera piuttosto che a dedicarsi al proprio mestiere, Berlusconi non può essere criticato duramente, perché così lo si demonizza.
Di fronte a una legge di revisione costituzionale che, una volta approvata e magari confermata da un successivo referendum, conduce a distruggere insieme la prima e la seconda parte della Carta, a far della maggior parte degli organi costituzionali, dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica, istituzioni essenzialmente decorative a vantaggio di un premier che disporrebbe di poteri quasi assoluti, bisogna stare attenti a non ferire la sensibilità delicata di chi ci governa.
Né si può reagire con asprezza di fronte alle recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi che, controllando sei televisioni su sette e la maggioranza del mercato pubblicitario, annuncia di voler abolire la legge sulla par condicio per disporre di un potere assoluto e rafforzato dalle risorse finanziarie di cui dispone (quelle pubbliche cui si aggiunge un patrimonio personale che è tra i primi quattro del mondo) perché così facendo si rischia la demonizzazione.
Così accade che Prodi, di fronte all’annuncio di mille volontari pagati, cioè veri e propri mercenari, parli delle migliaia di giovani che lavoreranno gratuitamente per l’Ulivo e per il centro-sinistra e viene accusato soltanto per questo di aver valicato ogni limite e invitato a chiedere scusa. E questo sarebbe un dibattito democratico in cui i due contendenti si collocano su un piano paritario e rispetto ai quali l’opinione pubblica deve poter giudicare in modo equanime chi ha ragione e chi ha torto?
Dove la partita si gioca, come deve essere, sul giudizio che si dà della politica economica, di quella sociale, di quella estera, del destino della scuola e dell’università, della separazione dei poteri e dell’autonomia della magistratura e magari dei giornali e delle televisioni?
A chi scrive pare che qui si vogliono truccare le carte e presentare il contrasto tra maggioranza e opposizione come di un duello in cui chi governa ha per principio la ragione dalla sua parte e l’opposizione è legittima soltanto se attacca con garbo, sorvola le gaffes antidemocratiche del premier e si affanna per trovare prima o poi un accordo con la parte avversa.
Ma così si passa da uno scontro democratico a una bagarre impari e disuguale, seguito ogni ora da un coro servile che applaude la maggioranza e segna i punti a chi si oppone. Sarebbe questa la democrazia di cui parla la Casa delle Libertà insieme con i suoi corifei?
TRA le molte motivazioni dei successi elettorali di Berlusconi nel 1994, nel 2001 e anche nel ´96 quando l´Ulivo ebbe la meglio ma i voti raccolti da Forza Italia realizzarono comunque un record, ci fu l´elemento dell´antipolitico.
La sbronza del politichese, l´arroganza dei partiti, l´autoreferenzialità degli apparati, l´ipocrisia ideologica utilizzata come copertura del malaffare e del malgoverno, avevano generato un movimento di rigetto della politica che del resto aveva in Italia una sua tradizione secolare.
Berlusconi fu l´immagine-simbolo dell´antipolitico, nei comportamenti, nel linguaggio, nell´immagine che aveva di sé e che proiettava sulla gente, mille volte amplificata dalla potenza mediatica di cui disponeva.
Quest´immagine di un´Italia antipolitica è stata travolta dallo stesso Berlusconi venerdì 22 luglio con la nomina di Rocco Buttiglione nella Commissione europea, al posto di Mario Monti. Un uomo intriso di politichese, immerso da dieci anni fino al collo nel teatrino della partitocrazia, completamente digiuno della cultura economica necessaria per ricoprire l´incarico cui è stato destinato e per di più preferito a un tecnico di fama internazionale a causa d´uno scontro virulento all´interno del governo: questo è avvenuto due giorni fa sotto gli occhi stupefatti dei milioni di italiani che ancora credevano in un leader immune dalle manovre degli odiati partiti, portatore delle virtù del nuovo qualunquismo, fautore delle competenze e dell´eccellenza dei tecnici rispetto ai professionisti di partito.
Buttiglione al posto di Monti, l´intrigo politico vincente sulla qualità professionale universalmente riconosciuta, non è stata una sorpresa per chi non è mai caduto nella rete seduttiva berlusconiana, ma per quanti ci avevano creduto in buona fede e per dieci anni di seguito. Per isolare e colpire Follini si premia il suo avversario interno abbassando a un avvilente mercato un incarico europeo di primaria importanza. Questa scelta ha ferito a morte la residua fiducia che molti milioni d´ingenui ancora riponevano in un venditore d´illusioni preso purtroppo sul serio ancora fino all´altro ieri.
Il primo a esser messo a conoscenza di quella scelta - narrano le cronache - è stato il cancelliere tedesco Schroeder con il quale il nostro premier era a cena la sera di quel giorno "fatidico". Riferiscono le cronache "autorizzate" che tra le qualità del nuovo commissario italiano appena scelto, Berlusconi abbia decantato al Cancelliere la perfetta conoscenza, di Buttiglione, della lingua tedesca. Sembra che il Cancelliere se ne sia molto compiaciuto.
È fantastico. Questa roba viene riferita nei telegiornali con assoluta serietà, dai mezzibusti della Rai e di Mediaset senza una piega, un soprassalto di ironia o di stupore: Buttiglione sa il tedesco, informa Berlusconi, e Schroeder manifesta il suo contento. C´è mai stato nella storia d´Italia un primo ministro di questo conio? È mai stata calpestata e resa comica agli occhi del mondo intero una nazione che, pur nei suoi limiti storici, ha avuto al vertice delle istituzioni uomini di notevole e alle volte grande qualità morale, intellettuale, politica?
E Rocco Buttiglione non sente vergogna per esser stato strumento attivo di questa cialtronesca rappresentazione? «Debbo la mia nomina esclusivamente alla generosità del presidente del Consiglio», ha dettato alle agenzie il neocommissario europeo. Come se si trattasse d´una mancia, sicuramente generosa, e non dell´interesse dell´Italia in Europa! Lo ripeto, tutto ciò ha del fantastico. Raffigura un incubo dal quale finalmente ci stiamo risvegliando. Almeno così si spera. Non senza trovarci alle prese con un inventario di rovine che sono il risultato di tre anni di malgoverno affidato a una banda di dilettanti, di saltimbanchi, di clown e, diciamolo, di imbroglioni.
* * *
Che fossero imbroglioni lo si diceva da tempo. Ma ora c´è la prova autentica, la prova provata, fornita dal neoministro Siniscalco, già direttore generale del Tesoro nei tre anni di Tremonti all´Economia e da un paio di settimane suo successore.
Dice Siniscalco (in Consiglio dei ministri e nel Documento di programmazione finanziaria approvato dallo stesso Consiglio) che: c´è un buco da ripianare di 24 miliardi; senza una manovra di quella dimensione il nostro deficit viaggerebbe a 4 punti e mezzo in rapporto col Pil; il medesimo Pil, che nell´anno in corso avrà sì e no un progresso dell´1,3 per cento, non si schioderà da un magro 2,2 nei tre anni successivi; in quei tre anni ci vorranno ulteriori manovre correttive pari a un totale di 27 miliardi, più quella appena effettuata di 7,5 miliardi. Il totale generale nel quadriennio 2004-2008 sarà dunque di 51 miliardi di euro, pari a 110mila miliardi di vecchie lire, più almeno 12 miliardi se si vogliono ridurre le imposte secondo il progetto Berlusconi. E siamo a 63 miliardi di euro, ma ancora non sono nel conto i soldi (molti) mancanti alla scuola, alla sanità, al rilancio delle imprese, alla formazione e agli ammortizzatori sociali; il tutto stimabile a un minimo di altri 15-20 miliardi (i soli ammortizzatori sociali pesano, ridotti al minimo, per 7 miliardi, dei quali ne erano stati stanziati nel bilancio 2004 soltanto 800 milioni ridotti a 300 dopo la stangatina votata l´altro ieri dalle Camere).
E siamo a 81 miliardi (160 mila miliardi di lire). Ma non è ancora finito.
Il debito pubblico sarà a 106 miliardi nel 2005 secondo l´ottimistica valutazione di Siniscalco. Il quale stima indispensabile ridurlo a 100 entro il 2008 per far fronte agli impegni europei e alle richieste delle agenzie di rating. Come? Con alienazioni di patrimonio (immobili e privatizzazioni) dell´ammontare di 75 miliardi nel triennio 2005-2008.
È possibile? Secondo me no, sulla base dell´esperienza passata e considerato che, salvo disfarsi delle azioni dell´Eni, dell´Iri e della Finmeccanica e di pochi immobili di pregio da cartolarizzare, non c´è trippa per gatti.
Insomma una rovina, un abisso finanziario per colmare il quale non si vedono le risorse disponibili salvo una cura da cavallo da imporre ai contribuenti di tutte le classi di reddito, con ripercussioni inevitabilmente depressive sul ciclo economico.
E dire che ancora un mese fa gli speaker della maggioranza, suffragati dal premier e da Tremonti, davano del farneticante a chi dai banchi dell´opposizione e dalle colonne della libera stampa avvertiva dell´incombente catastrofe. Distraendo l´opinione pubblica con ridicoli diversivi teleguidati.
Urge una domanda al buon Siniscalco: lui, direttore generale del Tesoro, che cosa ha fatto in questi tre anni? Chi ha avvertito del disastro? Perché è rimasto a condividere questa vera e propria rapina della pubblica ricchezza? E che cosa ha fatto (o non fatto) il Ragioniere generale dello Stato cui spettava il compito di registrare una tale rovina di giorno in giorno crescente?
Una risposta sarebbe non solo opportuna ma assolutamente dovuta.
* * *
Follini si batte coraggiosamente per modificare alcune norme sciagurate della "devolution" e del premierato. Il partito sembra con lui, ma i nomi che contano no e gran parte dei gruppi parlamentari neppure.
Difficile prevedere come finirà. Finora pensavo che fosse una tigre di carta. Mi ravvedo e mi scuso con lui: non è di carta, è un carattere duro e serio e va dritto per la sua strada. Non è di carta, ma non è neppure una tigre poiché non ha dietro di sé le forze che potrebbero renderlo tale. È un onest´uomo che si è - forse tardivamente - accorto di stare dalla parte sbagliata, su un treno che viaggia senza controllo verso il nulla con crescente velocità.
Di fronte alle cifre sopra ricordate, che non sono le nostre ma del ministro dell´Economia, Follini dovrebbe portare il suo partito fuori dall´alleanza. Che ci sta a fare in quella compagnia? Bossi, una volta incassata la "devolution" si staccherà dal convoglio, tornerà nelle sue valli a coltivare quel po´ di potere che gli sarà stato regalato sulla pelle della Repubblica "una e indivisibile".
E Follini, ancora lì a battersi con i suoi Baccini, i suoi Lombardo, i suoi Buttiglione, che per una carica venderebbero - come stanno facendo - la dignità del paese e di se stessi? Non ho alcun titolo per dar consigli a Follini, ma fossi in lui salterei in corsa dal predellino finché è ancora in tempo.
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Il sociologo De Rita, celebrato autore delle ricerche del Censis, ha posto giorni fa una domanda interessante al centrosinistra: qual è il blocco sociale di cui volete assumere la rappresentanza? Ha avuto varie risposte tra le quali la migliore mi è sembrata quella di Piero Fassino: un lungo elenco di motivazioni civiche che spingono oggi un numero crescente di italiani a dissociarsi da Berlusconi. Ma De Rita ha replicato: la risposta regge finché c´è contro di voi Berlusconi; regge in negativo. Ma ci si aspetta da voi che vi candidate a governare un disegno positivo.
Penso anch´io che sia urgente un programma positivo. Non una filosofia, ma quattro o cinque punti concreti di che cosa fare e come, cominciando dal come gestire il disastro che si andrà - si spera - a ereditare. Secondo me non c´è molto tempo.
Prodi pensa di cominciare a novembre una sorta di giro d´Italia «per ascoltare gli umori, i bisogni, i desideri dei concittadini». Sarà certamente utilissimo, ma individuare i punti da risolvere e il modo per affrontarli è un compito che spetta al leader e al gruppo dirigente che lo affianca. Perciò faccia pure il giro d´ascolto ma prima o nello stesso tempo formuli il programma completo, il "che fare" e vada con quello a confrontarsi con il paese. Sarà quella la sua vera investitura da leader, ma faccia presto. Le travi del tetto sono marcite e non tengono più.
È una proposta indecente
di Giovanni Sartori
Le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto l’elettore di destra non si deve sentire obbligato a sostenere il progetto di revisione della costituzione proposto dal governo Berlusconi, così come l’elettore di sinistra non si deve sentire obbligato a combatterlo. Una Costituzione è la casa di tutti, e tutti la dovrebbero accettare se abitabile (se migliora quella che c’era), o respingere se inabitabile (se la peggiora). E dunque la domanda è se la Costituzione già approvata in prima lettura al Senato sia buona o cattiva, funzionale o disfunzionale.
A questa domanda ho già risposto nello scritto «Una Costituzione incostituzionale?» pubblicato in appendice alla 5 edizione del volume «Ingegneria Costituzionale Comparata». L’interrogativo è retorico. La mia risposta non è soltanto che si tratta di una cattiva Costituzione, ma addirittura di una Costituzione incostituzionale. Possibile? La dizione può sembrare contraddittoria o comunque paradossale. Ma nell’ottica del costituzionalismo non lo è.
È vero che molti giuspositivisti guardano soltanto alla effettività di una Costituzione e si dissociano dal costituzionalismo reso «impuro» dal suo contenuto assiologico. Certo, il costituzionalismo è assiologico. Però è anche teleologico; accantonare la teleologia è più difficile che rifiutare l’assiologia. Il diritto ha uno scopo? Ha una ragion d’essere? A cosa serve? Nemmeno il giuspositivista si può sottrarre a queste domande. Alle stessa stregua è tenuto a chiedersi quale sia il telos delle Costituzioni. Domanda alla quale il costituzionalismo dà una risposta unanime. La parola Costituzione viene riesumata sul finire del 700 per disegnare una nuova realtà: la creazione di un sistema di governo «limitato» , di un sistema di «garanzia della libertà» (come scriveva Benjamin Constant). Al tempo di Cromwell non si diceva ancora «Costituzione»; si diceva covenant, pact, frame, fundamental law. E quando questi termini vennero riassorbiti nella parola Costituzione, la parola non denotava una qualsiasi organigramma di esercizio del potere; designava soltanto la sua forma garantistica. E dunque una Costituzione che non garantisce la libertà può essere detta incostituzionale.
Ciò posto, dobbiamo essere in chiaro a quale pubblico ci rivolgiamo: se a quello degli specialisti (i costituzionalisti), a quello dei parlamentari, oppure al più largo pubblico dell’opinione pubblica. In questo mio intervento io guardo, soprattutto, all’opinione pubblica, e così vado a distinguere tra opposizione ed oppositori. La prima è l’opposizione istituzionale, l’opposizione gestita nelle sedi istituzionali (nel Palazzo) dai partiti di opposizione: oggi l’opposizione di sinistra. Gli oppositori sono invece tutti i cittadini (tra i quali il sottoscritto, che certo non ha titolo per parlare in nome dell’opposizione), ovunque si trovino lungo l’asse destra-sinistra, che si oppongono, o potrebbero opporsi, al cambiamento costituzionale in corso. E in questa chiave il problema è di come l’opposizione istituzionale possa sensibilizzare e mobilitare l’universo (anche di destra) degli oppositori possibili.
Così vengo al punto. La controproposta dell’opposizione si riassume nella «bozza Amato». È una controproposta che va bene? Forse sì per gli interna corporis del Palazzo: concilia le varie anime del centrosinistra, dialoga con la maggioranza offrendole aperture, smussa i punti spinosi. Ma non bene, mi permetto di osservare, per gli oppositori in cerca di autore, in cerca di bandiera. Se l’interlocutore è l’opinione pubblica, allora una proposta «terzista» è controproducente, fa più male che bene. Una battaglia non si combatte con i «ni»; si combatte con i no. E a un progetto che snatura il costituzionalismo si deve rispondere con un rifiuto chiaro e netto.
L’obiezione è che non basta dire no. Io rettificherei così: non basta dire no e basta. Vale a dire che ci occorre un no sostenuto da una alternativa. Quale? È noto che in passato io ho sostenuto il semipresidenzialismo di tipo francese. Ma oggi non ci possiamo permettere di offrire all’opinione pubblica una formula complicata che non può capire. Aggiungi che sul semipresidenzialismo non siamo mai stati tutti d’accordo, e quindi che ci torneremo a dividere. L’unica alternativa a tutti nota è quella del sistema parlamentare. Non sarà la nostra prima preferenza. Ma siamo nella peste, e perciò dobbiamo rinunciare alle prime preferenze che ci dividono per ripiegare su una seconda preferenza, un second best, che ci può unire, e che può essere rivenduta (migliorata) all’opinione del Paese.
Dico di proposito «rivendere», per dire, che dobbiamo risalire una china, che dobbiamo rivalutare un sistema politico che abbiamo troppo svalutato. Perché mai, chiediamoci, il sistema parlamentare resta il sistema praticato (con una sola eccezione, la Francia) in tutta l’Europa occidentale? Perché solo noi ne chiediamo il superamento e il ripudio? Se rivisitiamo le critiche che hanno bersagliato la nostra prima Repubblica, le colpe che le vengono attribuite sono solo marginalmente colpe costituzionali, colpe della Costituzione del 1948. Occorre ristabilire questa verità. Ripeto: se quasi tutta l’Europa occidentale resta fedele al modello parlamentare, perché noi no? Perché noi siamo passati a un sistema elettorale maggioritario? È una vulgata di moda. Ma è una sciocchezza. L’Inghilterra è ferreamente maggioritaria e ferreamente parlamentare.
Comunque sia, non abbiamo altra alternativa. Beninteso, la formula parlamentare va ripresentata con miglioramenti (in chiave di governabilità) che il grosso dei costituzionalisti propone da tempo: voto di sfiducia costruttivo, fiducia votata soltanto al primo ministro (che così diventa un primus super pares), più un sistema elettorale idoneo. Con il che tornare a difendere un difendibilissimo sistema parlamentare sarebbe intelligente e possibile. Ma qui ci imbattiamo in uno strano incaglio: la strana dottrina (ignota in tutto il mondo) del ribaltone.
Questa strana dottrina fece presa nel 1994 per sostenere la richiesta di Berlusconi, dopo lo sgambetto di Bossi, di nuove elezioni. Dopodiché dilagò anche nella sinistra, sempre pronta a proporre e a sposare cattive cause. Tanto è vero che la ritroviamo nella bozza Amato, dove si legge che «per garantire il rispetto della volontà popolare degli elettori... è giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni». Amato soggiunge che «in caso di sfiducia, e su proposta (del premier) vi sarà lo scioglimento del Parlamento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente, anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato».
Amato è davvero il nostro dottor sottile. Qui si destreggia per salvare capra e cavoli. Da un lato nega l’elezione diretta («si conviene che si debba rendere noto... il nome del candidato alla guida del governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione sulla scheda elettorale»), ma poi ne accetta, anche se in modo attenuato, l’implicazione che la maggioranza iniziale non può essere cambiata. Insomma, l’elezione diretta non c’è, ma è come se ci fosse. Per me è troppa bravura. E, bravura a parte, l’argomentare resta viziato da questa contraddizione: che se il nome del candidato sulla scheda non c’è, allora non si può invocare «il rispetto della volontà popolare degli elettori», visto che questa volontà non è stata espressa dal loro voto.
Il punto importante è però un altro. È che non possiamo sostenere il sistema parlamentare, e al tempo stesso sostenere il divieto di ribaltone. Perché quel divieto distrugge, inceppandola, l’essenza stessa di un sistema di governo caratterizzato dalla flessibilità. Non è più tempo di tatticismi. La dottrina del ribaltone non esiste nel costituzionalismo europeo ed è assurdo che diventi, da noi, una ossessione dominante della nostra riforma costituzionale. O la rifiutiamo senza quisquiliare, oppure chi si oppone al premierato assoluto resta senza retroterra, senza controproposta di ricambio. Perché, ripeto, non si può difendere un sistema parlamentare e negare a quel sistema il diritto di cambiare maggioranza.
Vengo ai rispettivi punti forti e punti deboli del dibattito tra i due schieramenti. Il punto di maggior forza dei difensori del «Silvierato» (il premierato disegnato su misura per Berlusconi) è di ricordare che tutte le cattive idee che l’opposizione sta attaccando oggi, sono state partorite in passato dalla sinistra (a cominciare dal premierato elettivo, lanciato da D’Alema). Purtroppo è largamente così. E la sinistra lo deve ammettere: abbiamo sbagliato e abbiamo cambiato idea (dopotutto Berlusconi le idee le cambia tutto il tempo). Nascondere i propri errori fa cattiva impressione, è cattiva politica.
La maggioranza dispone di un secondo argomento: che il suo premierato non è assoluto, perché sarà fronteggiato dal contropotere di un Senato «forte». Ma se sarà così, allora il nuovo sistema diventa più disfunzionale e assurdo che mai. Disfunzionale perché il contenzioso con il Senato diventerebbe davvero paralizzante. Ma sarà davvero così? Il Senato paralizzante non appartiene al disegno di Lorenzago; risulta da concessioni ottenute dall’opposizione. Non è detto, pertanto, che in itinere quelle concessioni non vengano rinnegate. Quanto più verranno esibite come bloccanti, e tanto più rischiano il veto di Berlusconi. Un’altra possibilità è che i «saggi» berlusconiani escogitino un sistema elettorale che produca anche al Senato federale una maggioranza schiacciante e fedele. Ma in ogni caso una rotella che non gira, ingigantita e fuori posto, non dovrebbe soddisfare nessuno, nemmeno l’opposizione. Un motore costruito per grippare non è un motore «costituzionale»; è soltanto un cattivo motore.
E l’opposizione? Il suo punto di forza dovrebbe essere di denunciare con forza che il «Silvierato» è in grado di conquistare e di occupare tutte le posizioni di potere del sistema politico. La bozza Amato non denunzia niente con forza; il che indebolisce la natura inderogabile delle «garanzie democratiche» che Amato delinea nel suo testo: alzare il quorum per l’elezione del capo dello Stato, dei presidenti delle Camere, e per l’approvazione delle regole del gioco. Sia chiaro: il mio lamento sulla forza argomentativa non toglie che questa parte del testo Amato sia ottima. Sorprende soltanto una omissione: che il Nostro non sembra avvertire che anche la Corte Costituzionale è conquistabile, e che la difesa della sua autonomia non può essere assicurata da quorum (che assicurano soltanto che la minoranza ottenga la debita fetta di lottizzazione) ma invece da una radicale depoliticizzazione delle procedure di nomina e anche dei corpi nominati. Perché un organo giurisdizionale di ultima istanza non deve essere fabbricato dalle parti sulle quali è tenuto a giudicare.
Mi fermo a questo punto. Come già avvertito in premessa, io non mi immedesimo con l’opposizione istituzionale; sono un oppositore quidam de populo, reso tale (e il caso si ripete, direi, per il grosso dei costituzionalisti) da una cattiva Costituzione. È anche di tutta evidenza che qui non torno a spiegare, nel merito, perché la Costituzione che ci viene proposta sia cattiva (l’ho fatto nell’altro testo che ho citato). Qui mi interessa la strategia atta a trasformare una minoranza istituzionale perdente (nei numeri parlamentari) in un universo di oppositori vincenti (al referendum; ma meglio se già prima). E in questa ottica mi appare sbagliata e controproducente la strategia (o mancanza di strategia) sinora perseguita dall’opposizione. Chi negozia resta coinvolto; e chi risulta coinvolto non è più in grado di combattere una battaglia frontale. Che invece è necessaria. Perché ci viene proposta una Costituzione viziata nell’impianto, viziata ab imis.
Come dicevo, le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto il criterio per approvare o disapprovare una riforma costituzionale non deve essere di appartenenza ideologica. Se lo sarà, peccato. E sarà un danno per tutti.
Il 1° dicembre 2004, giorno in cui il Parlamento, ma forse sarebbe meglio dire la maggioranza di centrodestra ha approvato, in via definitiva, la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, segna una svolta, non certo positiva nella vita democratica del nostro paese.
L’approvazione dell’ordinamento giudiziario, infatti, non è che l’ultimo atto della politica giudiziaria posta in essere dalla maggioranza di centrodestra.
Detta politica, com'è noto, non è stata indirizzata alla soluzione dei veri problemi della Giustizia quale quello dei tempi assolutamente inaccettabili della definizione dei processi sia penali che civili, ma è stata invece indirizzata verso il tentativo di risolvere, per via legislativa i problemi giudiziari del Presidente del Consiglio.
Il primo tentativo fu posto in essere con la legge sulle rogatorie, che avrebbero dovuto rendere inutilizzabile l'intero quadro probatorio dei noti procedimenti pendenti a Milano a carico dello stesso Presidente del consiglio e dell'on. Previti, la cui prova era fondata quasi esclusivamente su documenti acquisiti per rogatoria internazionale.
Il secondo tentativo fu posto in essere con la legge sul falso in bilancio che con la diminuzione delle pene ed il conseguente dimezzamento dei termini di prescrizione avrebbe dovuto far dichiarare estinti per prescrizione tutti i relativi reati ascritti al Presidente del Consiglio.
Il terzo, quando questi primi due tentativi fallirono, fu posto in essere con l'approvazione della legge Cirami, quella sulla remissione dei processi per legittimo sospetto. Quando anche questo tentativo fallì, perché le Sezioni Unite della Cassazione respinsero le istanze presentate da Berlusconi e Previti al fine di ottenere che i processi a loro carico, per legittimo sospetto, venissero trasferiti da Milano a Brescia, venne dato il via all'approvazione del disegno di legge delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario.
Non credo quindi si possa fare a meno di sospettare che, con la riforma dell'ordinamento giudiziario, si volesse dare sfogo ad un desiderio, più o meno conscio di controllare, in un qualche modo, la magistratura.
Significativo a tal proposito è il contenuto del maxiemendamento messo a punto nella seduta fiume del Consiglio dei Ministri, tenutasi appena un mese dopo la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite.
Con detto emendamento non solo si gettavano i presupposti per la separazione delle carriere ma si poneva una seria ipoteca sull'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Si prevedeva, infatti, che per accedere al concorso in Magistratura gli aspiranti avessero l'obbligo di indicare nella domanda se intendevano accedere alla funzione giudicante o a quella requirente del Pubblico Ministero, che le prove d'esame fossero distinte e diverse a seconda che si fosse chiesto l'accesso ad una o all'altra delle funzioni e che per passare da una funzione all'altra il magistrato dovesse attendere cinque anni e dovesse trasferirsi in una diversa sede di Corte d'appello.
Si prevedeva poi che il Procuratore Capo divenisse unico responsabile dell'ufficio di Procura; potesse delegare ai sostituti singoli atti o l'intera indagine, rimanendo sempre responsabile di tutti gli atti da questi compiuti.
Si prevedeva ancora che l'interpretazione del giudice che si discostava nettamente dalla lettera della legge e dalla volontà del legislatore costituisse illecito disciplinare (il riferimento alla interpretazione data dai pubblici ministeri e dai giudici in occasione della nuova legge sulle rogatorie era sin troppo evidente, posto che pubblici ministeri prima, e giudici dopo, erano stati, senza perifrasi, accusati di rifiutarsi di applicare quella legge contro il volere del Parlamento).
Com'è facile intuire la diversità delle prove d'esame, i numerosi ostacoli da superare per passare dall'una all'altra funzione, la previsione di complessi meccanismi che rendevano praticamente impossibile dopo cinque anni il passaggio da una all'altra funzione, avrebbero comportato, almeno di fatto, la separazione delle carriere. E ciò nonostante che la Comunità Europea, il 2 ottobre 2000 avesse raccomandato agli stati membri di adoperarsi perché venisse assicurata non solo l'indipendenza del Pubblico Ministero, ma anche l'interscambiabilità dei due ruoli: quelli di giudice e di Pubblico Ministero. Nonostante che gli Stati della Comunità a noi più vicini per tradizioni giuridiche, Spagna, Francia e Germania, quella interscambiabilità avessero sempre avuta e neppure lontanamente si fosse mai discusso di abolirla.
Quelle norme quindi, avrebbero potuto costituire il primo passo per sottoporre di nuovo il P.M. all'esecutivo, come richiesto d'altra parte, esplicitamente, da autorevoli esponenti di partiti del centro destra e dagli stessi rappresentanti dell'avvocatura.
È sin troppo facile rilevare che l'Italia, aveva già vissuto l'esperienza della subordinazione del P.M. all'esecutivo durante il ventennio della dittatura fascista e proprio per quelle esperienze, certamente non positive, per tutelare i principi fondamentali della democrazia appena nata, i nostri padri costituenti si preoccuparono di fissare, nella Costituzione, il principio dell'indipendenza dell'intera magistratura, del P.M. oltre che della giudicante, da ogni altro potere e di creare, per il governo della stessa magistratura, un organo di rango costituzionale: il Consiglio Superiore della Magistratura.
Ciò nonostante, c'erano voluti decenni perché alcuni Capi degli uffici di Procura si scrollassero di dosso i condizionamenti nei confronti dell'esecutivo.
Non a caso le sedi più importanti delle Procure, per essere gestite da Capi di ufficio in perfetta sintonia con il potere, erano state definite “porti delle nebbie”.
La sottoposizione del P.M. all'esecutivo, poi, avrebbe reso superflua la tutela dell'indipendenza del giudice.
A che sarebbe servito, infatti, un giudice indipendente, se il Pubblico Ministero, che è l'organo promotore dell'azione penale, seguendo i desiderata dell'esecutivo, non gli avesse sottoposto i casi in cui l'indipendenza avrebbe dovuto essere esercitata? Se le notizie di reato fossero state trattenute nel cassetto dal P.M., anziché trasmesse al GIP per l'archiviazione o, peggio ancora, archiviate con la corrispondenza ordinaria “al protocollo”, sul quale esercitano il controllo solo funzionari dello stesso Ministro di Giustizia, com'era avvenuto in passato ?
I rilievi mossi al testo del disegno di legge delega, ed al testo del maxiemendamento in particolare, da parte della Magistratura Associata, dalle forze dell'opposizione in parlamento, da autorevoli esponenti del mondo universitario e da eminenti costituzionalisti, alcuni dei quali avevano anche ricoperto la carica di Presidente della Corte Costituzionale, indussero la maggioranza a modificare, prima della approvazione del testo definitivo da parte dei due rami del parlamento, i punti maggiormente presi di mira.
Le modifiche non hanno però riguardato l'organizzazione verticistica, organizzazione che, comportando la possibilità per il Procuratore della Repubblica di gestire in prima persona tutte le notizie di reato e di imporre la sua volontà ai sostituti, anche con la revoca della delega, suscita non solo perplessità, ma desta serie preoccupazioni.
Né è stata abolita la progressione anticipata in carriera, per concorso per esami e titoli, progressione che crea i presupposti perché i magistrati che si dedicano ai concorsi siano predestinati a diventare i capi degli uffici. E ciò è particolarmente pericoloso posto che l'esperienza insegna che proprio coloro che privilegiano la carriera sono più sensibili alle lusinghe o alle pressioni dell'esecutivo.
Con i concorsi poi, si rischia non solo di spostare preziose energie dall'amministrazione della Giustizia di primo grado, la più importante certamente, in quanto una sentenza sbagliata allunga i tempi di definizione dei processi, ma anche di incentivare i magistrati a preoccuparsi più della carriera che del valore intrinseco delle proprie decisioni, inducendoli ad appiattirsi sulle interpretazioni della legge che sono state esplicitamente gradite dal governo e dalla maggioranza.
Con questo non voglio dire che l'ordinamento giudiziario non dovesse subire alcuna modifica. Ci mancherebbe altro. Quando nella precedente legislatura fu avanzata dal centro sinistra una prima proposta di modifica dell'Ordinamento Giudiziario che prevedeva, tra l'altro, una netta separazione delle funzioni, fui il primo a dichiararmi favorevole. Come condivido molti punti della nuova legge delega quali, l'istituzione della scuola superiore della Magistratura, la nuova composizione dei Consigli Giudiziari, la temporaneità degli incarichi direttivi, il controllo periodico della quantità e della qualità del lavoro svolto dai magistrati.
Intendo solo dire che una riforma così importante non doveva essere approvata, ignorando non tanto le osservazioni della magistratura, ma quelle dell'opposizione, alla quale o si è impedito di proporre ulteriori riforme all'originario disegno di legge, ricorrendo alla fiducia, com'è avvenuto alla Camera nel giugno 2004 o assegnando tempi di discussione ristrettissimi, come è avvenuto al Senato nel novembre successivo e di nuovo alla Camera da ultimo.
Non si può, insomma, procedere a colpi di fiducia quando una riforma deve essere fatta, e non può non essere fatta, nell'interesse di tutti i cittadini, perchè sia loro assicurata una una giustizia molto più rapida e giusta. Ed in tale direzione sarebbe stato certamente utile prevedere la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, dettando i criteri direttivi per individuare le dimensioni minime a renderli funzionali in relazione alla struttura accusatoria del processo. Sarebbe stato utile affidare le funzioni monocratiche, il potere cioè di decidere da soli, non ai magistrati di prima nomina come è stato fatto, ma a magistrati che avessero svolto per almeno tre anni funzioni collegiali, dando prova di professionalità, equilibrio e rispetto delle idee degli altri e delle funzione delle altre parti del processo.
Questo atteggiamento della maggioranza ci rende naturalmente diffidenti sulla volontà di destinare maggiori risorse ed attenzioni alla Giustizia e ci induce a ritenere che saranno ancora approvate ulteriori disposizioni legislative ad personam, quale la riduzione dei termini di prescrizione.
Carlo Petrini, inventore dello "slow food", è stato eletto da Time tra gli eroi d'Europa. Rivolta contro l'imperialismo della polpetta McDonald's, s'è detto. Desiderio di nutrimento che non sia soltanto bruta necessità biologica. Voglia di recuperare sapori e saperi di antiche cucine cancellate dal cibo di plastica dell'era global. Non c'è dubbio. Il fatto, che non a caso ha suscitato ampio scalpore, dice tutto questo. Ed è un segnale non da poco, tanto più che la nomination avviene col voto di tutti i lettori. Ma forse la lentezza invocata per i nostri pasti dice anche altro. In una società in cui - a sentire i sondaggi - la gente lamenta la mancanza di tempo più che di ogni altra cosa, compreso il danaro, forse si affaccia il rifiuto di vite costrette a ritmi sempre più affannati. Forse insieme al gusto di "slow food" sta nascendo la voglia di "slow life". E questo non può non significare critica radicale, anche se non chiaramente esplicitata, di una forma produttiva come quella dominante, e di quel drastico mutamento nell'organizzazione del tempo, nella sua percezione, nel suo uso, che (come mirabilmente Le Goff ci ha detto) il mondo industriale capitalistico ha imposto al mondo, e che tuttora dura, trovando anzi un andamento via via più celere. E' stata una netta cesura tra la lentezza delle società contadine, scandite dagli eterni ritorni di un tempo fisico, misurato sui processi biologici naturali, sulla ciclicità delle stagioni, sulla parabola vitale del corpo, e l'improvvisa accelerazione della storia e del vivere umano, obbligata dalla crescente velocità del macchinismo e dalla vincente filosofia del progresso. Un brusco passaggio da un tempo circolare, sempre uguale a se stesso, quasi un non-tempo, a un tempo evolutivo, lineare, astratto, teso a bruciare l'istante, proiettato verso il futuro. Tempo che - soprattutto - si scopre come qualcosa da potersi spendere e monetizzare, da potersi oculatamente impiegare e amministrare e mettere a frutto, secondo un preciso calcolo di profitti e perdite. Qualcosa che può essere venduto e comprato.
E' il tempo-danaro, che si impone con l'inevitabilità di una categoria universale quando il rapporto di lavoro salariato apre, accanto al mercato dei prodotti, il mercato dei produttori, dove di fatto si vende e compra tempo umano trasformato in merce, scambiabile alla pari di ogni altra. E diventa norma comune parlare e scrivere di "mercato del lavoro", nulla più che una variable economica. Da quel momento i tempi del lavoro comandano anche i tempi della vita. Il lavoro si afferma come regolatore dell'esistenza di tutti, anche di quanti non vi sono direttamente addetti, a scandirne gli orari, a predisporne l'impiego, a delimitare gli spazi di riposo e di svago. E se via via l'aumento di produttività consente la riduzione delle mostruose giornate di quindici, dodici, dieci ore, la giornata lavorativa va però dilatandosi assai oltre la sua durata contrattualmente prevista, negli spostamenti che l'urbanizzazione crescente comporta. Mentre lo stesso tempo libero sempre più massicciamente ridotto a consumo, si trasforma anch'esso in tempo di produzione, governato dalle stesse leggi. E' così che tutti si trovano a dover onorare la frenesia di programmi quotidiani, che prevedono il rispetto degli orari di lavoro e la lotta con il traffico bloccato e i ritardi dei mezzi pubblici, i bambini da accompagnare a scuola e poi a lezione di nuoto, inglese, danza classica, judo, la grossa spesa settimanale e le infinite commmissioni minori quotidiane, le mille operazioni burocratiche da soddisfare, le bollette le tasse le multe da pagare, qualcuna delle tante macchine e macchinette domestiche da riparare, il guardaroba da rinnovare, ecc. ecc. Il tutto da sommare, per lei, alla dura fatica di curare una famiglia e, per lui, agli straordinari spesso obbligati, ma anche ai piccoli e meno piccoli secondi lavori, e al weekend da non mancare, le vacanze da organizzare, i compleanni da non dimenticare, ecc. ecc. Il tutto all'insegna della velocità, della nostra civiltà simbolo e vanto, che sempre più prodigiose tecnologie vanno spingendo oltre l'immaginabile, e di cui ognuno doverosamente ma anche orgogliosamente si sente partecipe. All'interno di un impianto esistenziale, in cui far quadrare i tempi quotidiani diventa spesso più difficile che far quadrare i conti mensili, e di cui il "fast food" non è che una delle tante aberrazioni cui tutti si adeguano.
E' l'inevitabile portato di un modello produttivo che da sempre va assimilando a sé, in piena coerenza di modelli e segni, ogni aspetto della realtà antropologica in cui agisce, fino all'identificazione della razionalità sociale con la razionalità economica. Così, mentre per un lungo periodo il capitalismo industriale (sia pure con tutte le iniquità e gli sfruttamenti tremendi che sappiamo) andava oggettivamente migliorando le condizioni di vita dei lavoratori, al contempo si diffondeva e metteva radici un'ideologia che concepisce progresso e benessere solo in base alla quantità di merci prodotte, e all'incremento del reddito che ne consenta il consumo. I doveri dell'efficienza e del rendimento, i valori dell' utilitarismo, del carrierismo, del successo, della competitività, dilagavano assai oltre i territori dell'operare economico, in un processo al quale masse appena emerse dalla peggiore miseria non potevano che opporre debolissime resistenze, e le stesse organizzazioni dei lavoratori andavano via via adeguandosi. Di fatto accettando che il tempo industriale, così come va ritmando materie e corpi all'interno dell'universo produttivo, riduca alla propria misura l'esistenza di ognuno, prima come tempo-lavoro, poi come tempo-consumo. Fino a che la giornata - la vita - non basta più. E un tramezzino o un sacchetto di patatine trangugiati all'in piedi è quanto ci si può far entrare prima di ricominciare a correre.
Non so a che epoca risalga la popolare massima "Il tempo è danaro", ma certo è stato il capitalismo industriale a deciderne la fortuna, impossessandosi delle nostre vite. Perché dopotutto che altro è la nostra vita se non una certa quantità di tempo, un certo numero di anni mesi giorni ore minuti che ci è dato trascorrere su questo pianeta? E davvero merita considerare la nostra vita solo danaro, e venderla in toto alla produzione (o al consumo, che è lo stesso) accettandone senza discutere i modelli, gli imperativi, il senso e i ritmi? Non sarebbe il caso di provare a ritagliarci qualche pezzo di tempo (di vita) per il nostro uso, da impiegare liberamente al di fuori di ogni utilitaristica finalità, semplicemente da vivere? Oggi, è vero, interrogativi del genere incominciano a circolare, e a trovare spazio e ascolto più che non appaia. E forse anche il premio allo "slow food" significa più di quanto non dica letteralmente. Forse, appunto, è voglia di "slow life".
Riconquistare il valore del tempo come durata, il tempo come vita, pone un altro problema, che da tempo (pardon) mi intriga: la qualità del tempo. Senza dilungarmi troppo in una considerazione abbastanza ovvia, sostengo che, ad esempio, passare dieci minuti sballottati in un autobus urbano o chiusi nel buco di una metropolitana è molto molto peggio che trascorrere mezz’ora o più in un vaporetto che solca i canali di Venezia. Questa è una delle ragioni per le quali sono nettamente contrario alla proposta (tenacemente caldeggiata dal sindaco Paolo Costa, uno dei peggiori che la città abbia avuto) di realizzare una metropolitana sublagunare per portare più rapidamente i turisti nella città storica. E questa è una delle ragioni per le quali penso che l’urbanistica sia una dimensione importante della società; essa puà consentire infatti (se orientata verso questi obiettivi) a organizzare la città in modo che la distribuzione delle funzioni e lo studio delle modalità di connessione tra loro renda i percorsi il più piacevole possibile. (es)
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"Abbiamo vinto", ha annunciato il comando americano da Falluja. Davvero? Migliaia di case distrutte, centinaia di migliaia di cittadini in fuga, un rapporto di 40 a uno dei morti iracheni rispetto agli americani e i conti finali non sono ancora stati fatti. Una vittoria o un massacro che danno una nuova feroce svolta alla guerra nel Medio Oriente?
Di certo Falluja rappresenta una svolta nella propaganda e nella retorica di questa guerra. Scompare uno dei grandi temi dell'intervento: la ricostruzione. Già difficile da capire alla vigilia della guerra, già paradossale, prometteva la ricostruzione di distruzioni che i ricostruttori si accingevano a compiere. E cercava di coprire i buoni affari che le ditte americane si ripromettevano di fare appaltando lavori. Lucrosi secondo le direttive degli esperti economici che seguivano l'armata.
La distruzione di Falluja, pare 50 mila edifici distrutti o danneggiati dai bombardamenti aerei e terrestri, dimostra che agli occhi del comando militare la distruzione è più importante della ricostruzione, dimostra che il futuro di una città di 300 mila abitanti conta meno che la lezione del terrore.
Questa svolta sul campo di battaglia apre interrogativi sul rapporto negli Stati Uniti fra politica ed esercito, fra la Casa Bianca e il Pentagono, che forse spiegano le dimissioni di Colin Powell, il generale che non amava la guerra. Ci si chiede se il massacro e la distruzione di Falluja siano stati imposti dal comando militare contro il parere del governo o se ormai il vero governo sia il gigantesco apparato di guerra che non sopporta di essere colpito e umiliato dalla ribellione.
Il no alla ricostruzione significa anche il no alla favola della democrazia che la virtuosa America voleva donare all'Iraq. Non è certo una tale barbara presentazione che può invogliare gli iracheni e in genere i popoli del Medio Oriente ad accettare un sistema politico e civile che gli è sconosciuto, ma che ostenta un totale disinteresse per le vite umane.
Falluja conferma agli occhi degli arabi e dell'Islam che i 'cristiani' d'America concepiscono la pace come una conquista, l'occupazione come un protettorato in cui l'occupante ha diritto di vita e di morte. Il primo ministro collaborazionista Ayad Allawi è andato oltre il comando militare americano nel giustificare il massacro, ha detto che a Falluja è stato ristabilito l'ordine mentre continua l'eliminazione dei superstiti sospetti di terrorismo, cioè di chi capita capita, cadaveri lasciati nelle strade perché su chi si avvicina sparano i cecchini con i fucili di alta precisione.
Falluja lascia il suo segno pesante anche sulla scelta politica del governo Bush appena rieletto e sui suoi rapporti con l'Europa. L'attacco a Falluja a lungo rinviato è scattato a rielezione avvenuta, segno che il potere politico si è allineato con quello militare per la continuazione di una politica aggressiva ed espansionista.
Lo conferma il rimpasto del governo da cui escono colombe come Powell e in cui entra un superfalco come Paul Wolfowitz e cresce la Condoleezza Rice, quella che alle obiezioni dei moderati risponde "me ne frego e tiro diritto". Una scelta che aumenta la distanza fra gli Stati Uniti e l'Europa, come dimostra il no parlamentare degli ungheresi al mantenimento del loro contingente.
Che dire di questa scelta che appare contraria a ogni ragione e che potrebbe aprire la strada a una catastrofe dell'umanità? Che la ragione non ha mai trattenuto gli aspiranti al dominio mondiale, non ha impedito a Napoleone di cacciarsi con la sua grande armata nei pantani spagnolo o russo, o l'imbianchino di Monaco di sfidare tutte le grandi potenze o al nostro Mussolini di entrare in guerra senza i soldati e i mezzi per farle. E non impedisce agli Usa di ripetere, a Falluja una pagina vergognosa.
Bianchi Bandinelli e la morte di Gentile
Luciano Canfora
la Repubblica del 12 agosto 2004
Caro Direttore, l´estate è sempre stata favorevole ai tormentoni parastoriografici. A volte ritornano gli stessi episodi, forse perché stimati più sapidi. La morte di Giovanni Gentile è uno dei preferiti. Così quest´anno abbiamo appreso (Corriere della sera dal 6 al 10 agosto) che Ranuccio Bianchi Bandinelli avrebbe da semplice «simpatizzante» del PCI, il 15 aprile del 1944, mandato nientemeno che un commando gappista, la più segreta delle organizzazioni militari comuniste nella Resistenza, ad ammazzare Gentile. (Solo vari mesi più tardi, il 7 settembre, Bianchi Bandinelli si candidò ad essere accettato nel partito). Che qualcosa del genere potesse accadere lo può credere chi sia del tutto ignaro della storia di quei mesi.
Quando Gentile fu ucciso, appunto il 15 aprile del ´44, tre professori furono presi in ostaggio «per rappresaglia»: Calasso (il padre dell´editore), Codignola e Bianchi Bandinelli. Furono rilasciati dopo circa un mese per intervento fermo ed efficace della famiglia Gentile. Il 10 maggio Bianchi Bandinelli, che era legato loro da antica data, scrisse a Federico Gentile questa lettera che solo un dietrologo alquanto banale può ritenere frutto dell´ipocrisia di un criminale incallito: «Caro Federico, nella tragedia acerbissima che si è abbattuta sulla vostra famiglia (e che posso ben valutare conoscendo quanto uniti tutti voi foste sempre a Vostro padre e quanto Egli vi dava di se stesso) unica notizia di qualche consolazione fu quella del tuo ritorno». (L´ha pubblicata, in un eccellente saggio sul grande archeologo, Marcello Barbanera, Skira, Milano, 2003, pag. 170: in fondo i libri è meglio leggerli).
Suisola, uno dei componenti il commando, dichiarò il 12 maggio 1981 al Giornale di Montanelli: «L´ordine di colpire Gentile ci venne via Radio dal comando alleato». Benedetto Gentile, figlio del filosofo, nel 1951 pubblicò un importante saggio sulla fine di suo padre, pieno di dignità e di concretezza, dove si legge (pag. 55): «Avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenute dopo l´arrivo delle truppe ?alleate´ in Firenze accennarono a istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza in Toscana». Non c´è nulla di più inedito dell´edito.
Chi si schierava, rischiava la morte" Simona Poli intervista Claudio Pavone
la Repubblica dell’11 agosto 2004, edizione di Firenze
Non era a Firenze durante i giorni della Liberazione. Il partigiano Claudio Pavone, classe 1920, in quell´agosto di lotta si trovava nel carcere di Castelfranco in Emilia, tra Bologna e Modena, poco distante dalla linea del fronte. Studioso del periodo bellico, autore di saggi e libri sulla Resistenza, già docente di Storia contemporanea all´università di Pisa, Pavone ricorda oggi che cosa significò per lui, chiuso in prigione, la notizia della liberazione di Firenze.
Quell´11 agosto pensò che la fine della guerra fosse più vicina?
«Sì, fu un passaggio importante perché Firenze poteva segnare una delle tappe finali dell´offensiva estiva che si doveva concludere nella valle Padana. Poi invece seguì la grande delusione, ci aspettavano altri mesi difficili. Alla fine di agosto riuscii ad uscire dal carcere e andai a Milano, quindi vissi quella fase altalenante tra speranze e disillusioni un po´ più da lontano».
Nei suoi scritti lei ha spesso sottolineato come la lettura degli eventi storici si arricchisca sempre di elementi diversi, di nuove interpretazioni. Come trasmettere allora la memoria di quei fatti senza tradire lo spirito che vi animava allora?
«E´ normale ed è anche giusto, direi, che l´interpretazione che si dà di grandi fatti storici cambi via via che ci si allontana da quegli eventi. I passaggi importanti sono quelli generazionali. Noi, testimoni e protagonisti della Resistenza, siamo ormai i nonni e quindi sarebbe assurdo pensare che le domande che ancora pone a noi la nostra memoria fossero le stesse di quelle che si pongono i giovani».
Rileggere la storia non sempre è un´operazione neutra.
«Certamente. Come esiste il rischio della mummificazione così esiste anche quello della revisione, realizzata non studiando i fatti ma capovolgendo i giudizi che sono stati dati. E´ bene mettere in luce episodi che erano stati taciuti ma senza per questo indurre a credere che in fondo le parti in lotta si equivalessero, quasi che ci fossero in campo due minoranze di faziosi che si combatteveno per le loro fedi. I morti vanno rispettati tutti ma da morti. Da vivi erano su fronti opposti».
Come nel resto d´Italia anche a Firenze la Resistenza fu vissuta, fiancheggiata, partecipata dalla gente.
«Questo è un aspetto importante, che è stato travisato e strumentalizzato. Non è vero che "la gente non stava da nessuna parte", che "il buon popolo italiano" non parteggiava né per i fascisti né per i partigiani. Si trattava di stare dalla parte della libertà, non esisteva solo la Resistenza armata di chi imbracciava il fucile. Non si può dimenticare quanti rischiarono la vita offrendo il loro aiuto e la loro opera senza armi in pugno. Questa sorta di "indifferenza della gente" è un modo offensivo di raccontare il popolo italiano, mentre in tutta l´Europa è stato valorizzato il concetto di Resistenza civile. Da resistente ho vissuto quella sensazione, sapevo che le probabilità di incontrare persone che non mi avrebbero denunciato era superiore a quella contraria».
Fascismo e comunismo sono due parole che non hanno più riferimenti concreti nell´attualità. Sarà più difficile per i ragazzi di domani capire cosa accadde in quegli anni?
«Forse sì, se si continua a pretendere di raccontare la storia di un popolo tutto in armi. Ma non se si farà comprendere la tragicità della situazione e le scelte dolorose di fronte a cui si trovarono gli italiani. Lasciando intatte nella ricostruzione tutte le sfumature di quel periodo, evitando di affondare in una gelatinosa uguaglianza sotto cui si introduce una rivalutazione della Repubblica Sociale. Ovviamente c´era una vasta varietà di atteggiamenti, molta gente non si esponeva e tirava a campare, anche questo scenario va rappresentato. Ma una domanda che i giovani potrebbero fare è: che cosa distingue la violenza dei fascisti dalla violenza partigiana? Bisognerà rispondere spiegando che da una parte c´era la libertà, dall´altra il nazifascismo. Nessuna pretesa di buona fede può essere tirata in ballo per chi si schierava a fianco di Hitler e Mussolini».
Eppure la decisione del Comune di Firenze di intitolare una strada a Bruno Fanciullacci, il partigiano che uccise il filosofo Gentile, ha suscitato molte proteste da parte di An.
«In una guerra civile - anche se questa definizione è stata bandita dalla sinistra -nessuno che si schieri con grande nettezza è immune dal rischio di essere ammazzato. Personalmente provo ripugnanza a credere che se si uccide un grande intellettuale si fa qualcosa di male mentre invece se si ammazza un qualsiasi ragazzo di diciotto anni non è così. Gentile si è schierato ed è morto di morte violenta come tanti altri. Ha torto chi condanna quell´uccisione».
L´Italia che nacque dalla Resistenza fu quella che aveva sognato?
«Chi aveva visto la Resistenza come un´utopia è sicuramente andato incontro a molte delusioni, ma non tutta la Resistenza è stata tradita, anche i moderati hanno combattuto e vinto. La scelta della Repubblica e la Costituente furono due conquiste gigantesche. Allora della nostra Costituzione ero incline a vedere i difetti, adesso che vogliono stravolgerla ne apprezzo tutti i pregi. Teniamocela cara quella Carta».
L´indicibile orrore della strage di bambini nella scuola di Beslan provoca tre diversi tipi di reazione: la rassegnazione, l´anatema e la chiamata alle armi, l´analisi dei fatti.
Prima di entrare nel merito di quanto è accaduto, del come e del perché dell´orrore e anche del che fare esattamente tre anni dopo l´11 settembre 2001, voglio esaminare quelle tre diverse reazioni che agitano l´animo di ciascuno e di tutti gli uomini e le donne che abitano il pianeta e che hanno il privilegio di poter sollevare la testa dalle ciotole di riso e dalla brocca d´acqua inquinata che sostentano la loro breve e devastata esistenza. Perché per quei due miliardi di dannati non c´è orrore che possa scuoterli dall´incombente agonia che grava su di loro e sui loro già condannati bambini.
La rassegnazione. E l´assuefazione. Chi vi dice che porteremo per sempre negli occhi le immagini di quei bambini seminudi, sporchi di sangue, con la morte negli occhi o già scomposti cadaveri ammucchiati l´uno sull´altro o feriti e gettati sui camion in corsa verso inesistenti ospedali come gli appestati buttati sulle carrette dei monatti; chi vi dice che non saranno mai dimenticati e che serviranno almeno da monito affinché i fatti orribili non si ripetano, mente e sa di mentire.
Anche l´orrore si cancella, anzi soprattutto l´orrore. Per sopravvivere la gente lo rimuove. Lo elabora. Lo digerisce. Lo dimentica. O ci si abitua.
Impara a conviverci. Chi pensa ancora ai morti di Hiroshima e Nagasaki? Chi ai lager staliniani? Chi ai forni dell´olocausto? La sera di venerdì, dopo le raccapriccianti immagini della strage dei bambini, le televisioni di tutto il mondo hanno cambiato registro e noi con esse. Varietà, serate estive al suono di cariocas o di languide canzoni. Da noi si discettava su questa o quella attricetta in transito a Venezia e Amadeus riproponeva con diligenza i suoi quiz demenziali.
L´orrore? Certo, ma a dosi omeopatiche. Se è fatale conviverci rassegniamoci perché contro la fatalità non c´è che opporre la rassegnazione.
Israele insegna. I palestinesi di Gaza insegnano. I superstiti di tutte le guerre insegnano. Dopo il mattatoio delle trincee esplode l´età del jazz. Così va il mondo. Bisogna pur sopravvivere, non è vero? L´anatema e la chiamata alle armi. Tutti insieme contro l´immonda, diabolica, disumana genia terrorista. «Li inseguiremo anche nei cessi e li stermineremo» ha detto Putin quando lanciò la seconda guerra cecena cinque anni fa. «Questa è la quarta guerra mondiale, durerà più delle altre, ma vinceremo anche questa» ha detto Bush alla sua folla plaudente. Le cose non stanno andando così, ma sono passati solo tre anni, siamo ancora al preludio, l´orchestra suona, i lutti e le stragi si moltiplicano, ma il sipario non si è ancora aperto. Dalle montagne afgane la metastasi del terrore globale si è diffusa in tutto l´universo musulmano. Può darsi che qualche errore sia stato commesso, ma ora bisogna guardare al futuro e chi non salta terrorista è. Si vuole forse cambiare il timoniere mentre infuria la tempesta? Noo. Più forte, non ho sentito. Noooo. Dunque avanti e senza quartiere. Verso dove? Non si sa.
Contro quale quartiere? Non si sa. È una guerra senza frontiere. Appunto.
Senza eserciti tranne quello attaccante. Appunto. Globale. Appunto. Il nemico può essere il tuo vicino di casa. Ma «non c´è uomo più capace di proteggerci tutti di mio marito»: parole di Laura Bush. Lei sì che se ne intende.
L´analisi dei fatti. Si può ancora avventurarsi su questo periglioso sentiero sempre più stretto? Si può ancora distinguere? Personalmente non sono mai stato favorevole al «senza se e senza ma» e neppure al punto di indifferenza del «né con questo né con quello». Mi piace sapere dove sto e con chi. E sto con la democrazia, con la libertà, con lo spirito critico. E sto per mia fortuna in buonissima compagnia. Sto con la ragione, perciò distinguo.
A Milano quando si vuol dare del matto a qualcuno si dice che la sua testa è andata insieme, cioè ha perso la capacità di distinguere.
Questo è lo spirito critico, liberale e democratico, da Montaigne a Voltaire, da Kant a Bertrand Russell. Una buona compagnia, non vi pare?
* * *
Il terrorismo nazionalistico è cosa diversa dal terrorismo ideologico e globale. Ha un obiettivo preciso e lotta per realizzarlo. Si deve presumere che se vi riuscisse si placherebbe. Le prove ci sono. In Algeria si placò quando la Francia si ritirò da quella terra che nel frattempo era diventata un dipartimento francese. In Irlanda si è placato, salvo reviviscenze sporadiche alimentate da fanatismo religioso e di clan. Nei paesi baschi forse si placherà se Zapatero riuscirà ad attuare il suo programma federale.
In Palestina non ci si è mai provato seriamente, non si è mai riusciti a vincere le resistenze dell´estrema destra israeliana e dei gruppi radicali palestinesi. L´ultimo tentativo fu quello della «roadmap» proposta da Usa, Europa, Onu. Ricordate Bush e Blair l´indomani dell´11 settembre? Spegnere l´incendio in Medio Oriente è la priorità numero uno dissero; prima ancora di dare inizio concreto alla guerra contro il terrorismo quella sarà la nostra prima preoccupazione.
Parole sagge, alle quali tutti consentirono con rinnovato entusiasmo e speranze. Parole che rimasero parole. La guerra scoppiò in Afghanistan e il governo talebano fu smantellato in un mese. Troppo poco e troppo debole militarmente il nemico per soddisfare il legittimo (?) desiderio di vendetta del popolo americano. Troppo poco politicamente per dare base duratura al consenso di massa conquistato da Bush sul cratere di Ground Zero.
Ci voleva una guerra vera, una guerra seria, anche se preventiva. Anzi, meglio se preventiva purché motivata da buone ragioni (che purtroppo si rivelarono inesistenti). E meglio se solitaria, insieme a qualche ascaro volenteroso, per dimostrare che l´Onu era un arnese arrugginito e inutile e che la vecchia Europa era un salotto pieno di tarli e di pretenziosi professori che spaccano il capello in quattro pur di non mettersi in riga e non battersi agli ordini del Presidente. Sissignore, signore.
Così ci fu la guerra irachena, che durò addirittura meno di quella afgana.
Miracolo. Ma anche guaio. Venti giorni di battaglia contro il nulla che guerra è? Con un paio di dozzine di morti tra le truppe americane e altrettanti uccisi da «fuoco amico». In compenso le perdite tra i civili iracheni furono qualche migliaio e tra loro parecchi bambini. I bombardamenti erano mirati ma qualche volta la mira era sbagliata. In compenso il comando americano chiedeva scusa. Non basta?
Il fatto non previsto fu una notevole ribellione diffusa nella popolazione.
Ringraziavano di essere stati liberati dal tiranno, ma non volevano essere terra d´occupazione. Volevano ricostruzione e sviluppo ma non i «Marines» tra i piedi. Invece ebbero i Marines ma pochissima ricostruzione e niente sviluppo. Qualcuno cominciò a innervosirsi, qualcun altro mise mano ai fucili (ce n´erano in abbondanza) alle mine, alle bombe.
I Marines fecero il loro mestiere che non è propriamente quello delle suore di San Vincenzo. Ma come sempre accade in simili frangenti, per ogni facinoroso ribelle ucciso ne sorgevano altri dieci. Si infiammò il problema sunnita. Si lacerò il fronte sciita. Apparvero bande di tagliaborse e di tagliagola.
Dalle frontiere colpevolmente incustodite arrivò un fiume di uomini di mano e di coltello e tra loro - oh, sorpresa - gli adepti di Bin Laden. Il resto è cronaca attuale. Signori della guerra in Afghanistan, signori della guerra in Iraq. Terrorismo globale intrecciato con terrorismo locale. Tirannia e ordine con Saddam, libertà (?) e disordine sotto Bremer, proconsole di Bush.
Governi-fantoccio a Kabul e a Bagdad. Due dopoguerra catastrofali. Scrivemmo allora: hanno scoperchiato il vaso di Pandora, hanno liberato i venti devastanti di Eolo.
Questo è accaduto e questo perdura. Uniamoci tutti, siamo tutti sulla stessa barca. Ma si vorrebbe anche sapere chi deve stare ai remi e chi al timone. «Non daremo deleghe per la sicurezza dell´America» parola di Bush.
Appunto. Kofi Annan l´ha capito subito, infatti da Bagdad se n´è andato e non mostra di volerci tornare. Per fare che cosa?
* * *
Il terrorismo di tipo Al Qaeda non ha ancora conquistato l´Iraq e non lo conquisterà perché gli iracheni sono orgogliosi come tutti gli arabi. Per di più sono in maggioranza sciiti, come gli iraniani, mentre Al Qaeda insegue il sogno del califfato sunnita e wahabita.
Però Al Qaeda è riuscita a costruire una sua piattaforma operativa in Iraq dalla quale condiziona non poco le vicende irachene. Allawi, il presidente del governo-fantoccio, fa il resto. Deve essere l´uomo forte per conto dell´America. Portare il paese alla democrazia entro due anni. Con la mano di ferro.
Dieci giorni fa ha toccato con mano che Al Sistani, la guida spirituale sciita, conta molto più di lui. E che Al Sadr, il ribelle da quattro soldi che l´ha tenuto in mano per settimane, ora vuole «scendere» in politica. In una democrazia «religiosa» non c´è posto per Allawi.
Bernardo Valli ha spiegato ieri perché i prigionieri francesi non sono ancora stati liberati. Perché Allawi non schiera la sua truppa per render sicura la strada che da Falluja porta all´aeroporto di Bagdad. Perché i soldati Usa stanno combattendo l´ennesima battaglia contro il fortilizio sunnita di Falluja. La Francia, appoggiata da tutta la sua comunità islamica, da tutti i governi moderati della regione, ma perfino dalle organizzazioni terroristiche palestinesi che non si vogliono confondere con Al Qaeda, perfino dai Fratelli musulmani egiziani e dagli Hezbollah libanesi, ha dimostrato di quale prestigio goda nel mondo arabo. La Francia non ha seguito gli Usa sul terreno iracheno, ma non ha ceduto di un palmo alle richieste ultimative dei sequestratori.
Perché mai Allawi dovrebbe facilitare il rilascio degli ostaggi francesi? Per lui sarebbe un´altra sconfitta. Risulterebbe che esiste un altro modo per combattere il terrorismo e non cedere ai suoi ricatti. Allawi non ha interesse a far risultare che esiste un altro modo. Neanche Bush ha interesse. E Putin?
* * *
Putin è un´altra cosa ancora. L´ha spiegato molto bene ieri su queste pagine Sandro Viola.
Putin ha legato la sua fortuna politica alla normalizzazione della Cecenia.
In una Russia democraticamente inesistente il potere di Putin si basa sul segreto irresponsabile. Di quel che fa non risponde a nessuno. I morti del teatro Dubrovka, i morti del sommergibile atomico nello stretto di Bering, i morti dei Tupolev fatti esplodere da due kamikaze cecene che avevano occultato l´esplosivo nelle vagine. Crimini orrendi dei terroristi. Insufficienza totale e disprezzo della vita degli ostaggi da parte delle squadre speciali Alfa e Beta.
Putin non parla, nessuno glielo impone né in Russia né nel mondo democratico. Bush solidarizza con lui e lo assolve da ogni errore e peccato.
Berlusconi segue a ruota. La Cecenia è un cimitero? Grozny è un ammasso di rovine? La tortura è prassi abituale delle truppe russe? La disoccupazione al 90 per cento?
Poco importa. Trecentoventi ostaggi ammazzati, di cui la metà ragazzi e bambini. «Li inseguiremo nei cessi».
Oggi Putin ha interesse ad accreditare la tesi che nella scuola di Beslan c´erano anche terroristi di Al Qaeda. Prove non ci sono, ma Bush gli crede sulla parola e rilancia. Se è Al Qaeda a perpetrare la strage dei bambini non si tratta più di Cecenia. La questione cecena viene cancellata dall´agenda.
Come accadrebbe se al posto di Hamas in Palestina ci fosse Bin Laden.
Putin vuole internazionalizzare la questione cecena ma riservare esclusivamente a sé il ruolo di timoniere. In Iraq non ci vuole andare neanche lui, ma è un assente giustificato. Infatti ha altro da fare.
ROMA - Giovanna Melandri è appena scesa dal palco girotondino. Alla platea ha parlato chiaro.
Più tasse per tutti.
«Più tasse e basta».
Più tasse.
«E´ ora di dire la verità: se vogliamo più Stato bisogna trovare i soldi per farlo funzionare».
I girotondini vogliono più Stato.
«La sinistra, l´Ulivo tutto dice: più welfare, più sanità, più scuola. I servizi costano e c´è bisogno che qualcuno paghi. Allora io penso che un minimo di serietà...».
Più tasse.
«Forse ho usato la parola sbagliata, ma il concetto mi sembra chiaro».
Berlusconi in genere usa dei sinonimi.
«Ma lui dice meno tasse per tutti!».
Suona più gradevole.
«Io non lo direi mai. Questi governi conservatori hanno fatto pagare il conto delle loro sciagurate decisioni ai ceti deboli, mortificando persino la fascia media della società. Meno scuola, meno sanità, meno ricerca. Solo i ricchi si sono fatti più ricchi».
Lei è eletta ai Parioli, vero?
«Roma centro è il mio collegio, ma conosco anche quella zona. E in molte famiglie si è vissuta questa contraddizione: il marito felice per il condono fiscale, la moglie disperata per l´abolizione del tempo pieno a scuola».
Lei portò fortuna all´Ulivo. Nel ?96, ammutolì Berlusconi nel programma televisivo con quell´accusa.
«...Volete privatizzare la sanità. Così dissi e documentai».
Quindi oggi rovesciando il concetto...
«Costa, sì costa tenere in efficienza le strutture pubbliche».
Basta essere chiari e dire le cose come stanno.
«Io non ho mai condiviso le decisioni di assecondare le richieste meno nobili della società civile».
Eppure il governo Amato, nell´ultimo anno di attività, ha tentato di assecondarle. Un poco, ma ha assecondato.
«E ché non lo so? Ero ministro e ho messo a verbale la mia contrarietà».
Infatti lei oggi, molto coraggiosamente, dice che bisogna darsi un pizzicotto sulla pancia.
«Se vogliamo investire nella ricerca e nell´istruzione, come giustamente diciamo, e vogliamo tenere alti i livelli di sostegno sociale nel lavoro, negli ospedali».
Il suo discorso fila.
«Mi sembra serio»
L´elettore capirà.
«Intendiamoci: bisogna naturalmente combattere l´elusione fiscale, l´evasione. Far pagare le tasse».
A tutti.
«A quelli che non le stanno pagando».
E´ un segno di equità e di moralità.
«Non so se mi sono spiegata».
(Un girotondino avvicina la Melandri: "´A Giova´, sta storia delle tasse nun me convince proprio").
«Senta, io vorrei essere chiarissima».
Ma lo è stata.
«Innanzitutto lotta all´evasione e lotta ai condoni. Mai più condoni».
Gli avvocati e gli ingegneri.
«Poi una contribuzione progressiva, è chiaro che io dico più tasse per alcuni ma meno tasse per altri».
Meno tasse.
«Non solo i ceti deboli, i più poveri. E mi sembra del tutto normale».
Sono già deboli di loro, lo dice la parola stessa.
«Ma anche la pancia dell´Italia, il ceto medio».
Meno tasse anche per loro.
«Sì, anche per loro».
Lascerebbe fuori solo....
«Io non arretro».
Vorrei solo, a brevissima premessa, riportare una citazione dall’ultima parte di questo articolo, che mi infastidisce: “La maggior parte degli elementi di sicurezza correnti sono semplicemente inappropriati per un ambiente urbano. Sono stati sviluppati per paesi stranieri, ambasciate, il Terzo Mondo, ecc.”. Certo non riassume né le culture del new urbanism, né il contenuto del testo, ma c’è e sarebbe sbagliato non prenderne atto. Ai lettori di Eddyburg, ovviamente, il giudizio. (fb)
Titolo originale:Three years after 9/11, security mindset threatens civic design – traduzione di Fabrizio Bottini
Dopo che quasi 3.000 persone hanno perso la vita al World Trade Center tre anni fa, nessuno dubita che ci siano gravi rischi in terra americana, e che le agenzie governative debbano fare qualcosa a proposito. Ma alcuni progettisti credono che le soluzioni raccomandate dagli esperti – e adottate da governo federale – rischino di danneggiare l’ambito pubblico isolando inutilmente gli edifici collettivi.
Si sta iniziando a sviluppare una reazione, a questi eccessi del regime di sicurezza federale. Uno dei suoi principali esponenti è David Dixon, responsabile per l’urbanistica e la progettazione urbana dello studio Goody, Clancy & Associates di Boston. “La guerra al terrorismo rischia di diventare guerra alla vivibilità delle città americane” afferma Dixon. “Nella fretta di rispondere alla minaccia dei terroristi, un diffuso gruppo di funzionari, architetti, costruttori, ingegneri, avvocati, urbanisti, consulenti per la sicurezza, e altri in grado di influenzare le regole urbanistiche e edilizie, sta creando una nuova generazione di norme e regolamenti di progetto”.
La preoccupazione degli urbanisti si concentra su istruzioni come quelle riportate di seguito, che sono state applicate a edifici come i tribunali:
Da quando un camion-bomba ha distrutto i nove piani dell’Alfred P. Murrah Federal Building a Oklahoma City nel 1995, uccidendo 167 persone, le risposte federali sono state di rendere gli edifici più difficili da attaccare. A prima vista si trattava di una strategia indiscutibile. Gli occupa edifici federali ha diritto alla protezione contro gli estremisti antigovernativi come Timothy McVeigh. Ma dopo che Al Qaeda ha distrutto il World Trade Center e danneggiato il Pentagono, è diventato chiaro che il programma di sicurezza sarebbe stato molto più esteso. Qualunque edificio o spazio dotato di valore simbolico, ora può essere considerato un potenziale obiettivo del terrorismo. Gli scopi di sicurezza possono modificare non solo le caratteristiche degli edifici federali, ma anche di quelli statali, dei municipi, università, musei, monumenti storici, chiese: la lista è infinita.
Una consapevolezza crescente
Alcuni specialisti della sicurezza stanno maturando l’idea che gli edifici, o almeno il sistema di barriere sul loro perimetro, debba evitare di creare un’impressione di durezza. Michael Chipley, program manager per la sicurezza interna e i problemi geospaziali per lo studio di ingengeria civile PBS&J, afferma che nell’ultimo anno e mezzo un certo numero di funzionari e professionisti, pianificatori urbani, paesaggisti, ingegneri, architetti, personale di polizia, hanno iniziato a “cercare di eliminare la mentalità delle orrende barriere New-Jersey”. Chipley, co-autore del manuale Federal Emergency Management Agency Report 426, per l’attenuazione degli effetti dei potenziali attacchi terroristici agli edifici, dice che “Si sta verificando un notevole cambiamento di filosofia”
Questo cambiamento trova riflesso in un sistema di barriere anti intrusione di veicoli a “kit componibile” della General Services Administration. Una volta installato, crea un margine stradale più gradevole e “definisce più chiaramente i percorsi destinati ai pedoni”. Così scrivono Caroline R. Alderson, della General Services Administration, e Sharon C. Park, del servizio Heritage Preservation, in Building Security, un nuovo libro curato da Barbara A. Nadel. Alderson e Park prevedono che il “kit” produrrà un “confortevole senso di protezione dei percorsi” e un sollievo rispetto alla larghezza della strada.
Ma progettisti come Dixon – le cui critiche all’urbanistica della sicurezza federale sono contenute in First to Arrive: The State and Local Responses to Terrorism, pubblicato dalla MIT Press a cura di Juliette N. Kayyem e Robyn L. Pangi – restano perplessi dai requisiti di localizzazione degli edfici governativi, dall’obbligo di relegare i parcheggi su piazzali all’aperto o sopraelevati, alla difficoltà di incorporare attività commerciali e altri usi negli spazi perimetrali del pianterreno. L’edificio Joseph Moakley che ospita il tribunale, inaugurato nel 1998 a Boston sul waterfront, secondo la linea di pensiero post-Oklahoma City, “fiancheggia le principali connessioni pedonali dal centro al nuovo distrettto Seaport, con 120 metri di pareti cieche” sottolinea Dixon. Se il tribunale fosse stato progettato dopo l’11 settembre il risultato – dice – avrebbe potuto anche essere peggiore: “Una barriera fra il centro città e Seaport”.
Gli studi professionali che aderiscono al new urbanism, si stanno sforzando di adeguarsi agli obiettivi di sicurezza, mantenendo tuttavia un ambiente confortevole per i pedoni. Quando è stato proibito allo studio Robert A.M. Stern Architects di far occupare a un tribunale federale di Richmond, Virginia, la maggior parte del lotto, si è arrivati a un compromesso. I due lati principali dell’edificio saranno lunghe curve, in modo da adeguarsi al richiesto arretramento di 15 metri da bordo stradale. Ma due pareti terminali saranno comunque arretrate di soli 6 metri dal bordo, adattandosi alla griglia stradale del quartiere. Le parti dell’edificio situate a meno di 15 metri dalla strada conterranno “elementi strutturali ridondanti” in grado di assorbire l’urto di una bomba senza collassare, secondo il parere Grant Marani, socio responsabile del progetto per lo studio Stern.
Anche le parti pubbliche saranno progettate per sopportare esplosioni. “Le vetrate fino a 5 metri dal suolo saranno garantite sia balisticamente che per esplosioni” secondo i responsabili dello studio. Una parete-barriera mascherata a verde si estenderà tutto attorno alla zona, come deterrente ai veicoli. Anche con tutte queste precauzioni, il parcheggio lungo la strada, che è sia una comodità per i visitatori che un elemento di separazione dalla via per i pedoni sul marciapiede, sarà eliminato su tutti i lati dell’edificio. La completa realizzazione progetto, a cui partecipa la HLM Design di Bethesda, Maryland, è prevista per il 2006. Ma nel frattempo, forse è lecito chiedersi: qual’è la probabilità che Al Qaeda o un estremista di casa nostra attacchi un tribunale di Richmond? Privatamente, alcuni funzionari federali si chiedono se abbia senso spendere tanti soldi per fortificare gli edifici, quando il rischio è tanto difficile da calcolare.
Michael Chipley, dello studio PBS&J, dice che al momento c’è una tendenza verso metodi secondo cui cliente e progettista identificano le potenziali vulnerabilità di un edificio, e successivamente scelgono il livello adeguato di protezione. Teoricamente, questo incoraggia un approccio flessibile. “Il problema” riconosce Chipley “è che tutti prospettano lo scenario peggiore. Quindi si massimizzano le distanze”.
La cautela burocratica ha aggravato la tendenza a decisioni anti-urbane. Christine Saum, direttore per la progettazione urbana e la revisione dei piani alla National Capital Planning Commission (NCPC), che esercita parziale autorità sui progetti di edifici federali nella regione di Washington, nota che non esistono regolamenti specifici a proibire attività commerciali al pianterreno degli edifici pubblici. Certo, quando si propone questo tipo di uso, “spesso il personale del Federal Protective Service [Sicurezza Interna] non è a suo agio”. Gli usi misti non sono formalmente esclusi, “A loro, semplicemente, non piacciono”. L’aspetto positivo, il portavoce della NCPC Denise Liebowitz sottolinea che le risposte federali non sono fisse e immutabili. “Questi regolamenti e standards sono ancora in fase evolutiva, in risposta alle valutazioni di rischio”.
Gli effetti sull’attività dei privati
È inevitabile che i requisiti di sicurezza interesseranno anche strutture diverse da quelle degli edifici governativi. La General Service Administration, oltre a possedere 1.700 edifici per 18 milioni di metri quadrati, utilizza in affitto altri 15 milioni di metri quadri in 6.200 edifici di proprietà privata. Quando arriva il momento di rinnovare i contratti, a molti di questi edifici viene richiesto di adeguarsi agli arretramenti, o di “rafforzare” il grado di protezione dalle esplosioni. Un rafforzamento che può comprendere nuovi sistemi di finestre e alte modifiche, e che è costoso.
“È quasi sempre più economico trovare un nuovo spazio e costruire un altro edificio”, continua Anderson. “C’era una concreta preoccupazione che le attività governative abbandonassero le città”. L’esodo non è avvenuto. Ma progetti come quello per un nuovo edificio privato al Southeast Federal Center di Washington, da affittare al Dipartimento dei Trasporti, non promettono molto bene, con gli arretramenti di 15 metri, e la scarsità di usi diversi al pianterreno. “Si creano molti spazi morti” ci dice Elizabeth Miller, coordinatrice per l’urbanistica e la progettazione alla NCPC. In alcuni casi gli arretramenti possono avere qualche buon aspetto visivo, come accaduto per due secoli e oltre con le piazze dei tribunali americani. L’idea della sicurezza “può far tornare gli edifici governativi verso l’immagine del monumento sulla collina: una costruzione dall’aspetto imponente”. Rob Goodill, socio dello studio Torti Gallas & Partners di Silver Spring, Maryland, ha proposto di sviluppare portici, piazze, pareti di recinzione, giardini, e altri elementi che consentano agli edifici di distanziarsi dalla strada e contemporaneamente occupare lo spazio in modo armonioso.
Rob Rogers, socio alla Rogers Marvel Architects di New York, propone uno standard per giudicare un sistema di sicurezza: non è valido “a meno che non aggiunga bellezza, o accessibilità, o altri benefici” oltre a provvedere alla protezione. “Spendere tanti soldi a non avere altro che qualche spartitraffico è una cosa da sciocchi” dice Rogers. “La maggior parte degli elementi di sicurezza correnti sono semplicemente inappropriati per un ambiente urbano. Sono stati sviluppati per paesi stranieri, ambasciate, il Terzo Mondo, ecc.”.
Rogers aggiunge che sono necessari approcci più fantasiosi. Invece di barriere convenzionali, il suo studio sta progettando quello che descrive come “una panca luminosa di vetro, che accende un percorso pedonale dal molo del traghetto sull’Hudson al sito del World Trade Center”. Offrirà un sedile, una lieve e pervasiva illuminazione, e presumibilmente qualche godimento estetico, il tutto tenendo a distanza le insidie dei veicoli. Sarà più bassa delle classiche barriere, perché di fronte al sedile sta un materiale di riempimento che sostiene i pedoni, ma farebbe sprofondare un automezzo. Innovazioni del genere sono piuttosto rare.
David Dixon ritiene che l’attuale approccio dominante alla sicurezza sia mal orientato. “La cosa più curiosa a questo proposito” continua Dixon “è che negli ultimi decenni si sia tolta tanta parte dell’ambiente urbano dalla sensazione di paura (rendendo più sicure le città e la società) creando consapevolmente edifici più aperti, diluendo la separazione fra spazio pubblico e privato, promuovendo le attività collettive e riportando la gente nelle strade e piazze. Il solo e unico scopo della difesa dal terrorismo minaccia tutte queste sudate conquiste”.
Nota: qui il link alla rivista New Urban News (fb)
L’articolo che segue, non descrive mai la forma dello spazio, e la lascia all’immaginazione, agli automatismi, alla conoscenza diretta del lettore. Credo che questa sia la sua forza. Non si tratta di un testo particolare, visto che racconta, in una città simile a tante altre, piccole storie familiari legate a un grande progetto urbanistico e sociale, gestito da una altrettanto grande agenzia pubblica per l’edilizia popolare. Siamo a Chicago, e potremmo essere – come si capisce da subito – anche a Londra, Parigi, Milano, ecc.
Ma la cosa più importante mi pare, appunto, il fatto che la forma dello spazio scivoli in secondo piano: sia skipped , per usare il termine con cui gli operatori sociali chiamano i soggetti usciti dalla visibilità. Non perché questa forma non sia importante, anzi a volte importantissima e vero caposaldo per la qualità generale della vita urbana, ma perché essa è solo una parte (e anche a volte, solo a volte, non importantissima) di questa vita.
Come ci raccontano le vive testimonianze delle solite madri-single -inquiline, c’è un’infinità di cose a costruire il neighborhood . Un’infinità di cose che non stanno (e perché dovrebbero starci?) nei disegni dei progettisti. Progettisti che, di conseguenza, hanno più o meno “fallito” non quando i loro luminosi corridoi puzzano di piscio e si incrostano di goffi graffiti, ma quando schizzi e prospettive nascono su tavoli distanti ed estranei – e magari non per propria colpa – alla domanda sociale su cui si sostengono. (fb)
Titolo originale Mixed tale for former residents of demolished CHA buildings – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Magari di recente stavate guidando lungo la Dan Ryan, avete guardato in su verso le torri che si allineavano sul lato orientale della superstrada, e vi siete accorti che non c’erano più, a parte tre.
O può darsi che foste diretti a sud sulla Lake, vicino a Damen, quando avete notato linde casette dall’aria suburbana, dove una volta c’erano le famigerate Henry Horner Homes.
Oppure, ancora, stavate girando fra la Quarantunesima e Prairie, e avete visto che quell’edificio di sedici piani non esiste più.
Dopo aver assimilato il nuovo panorama urbano, sorge una domanda: dove è finita tutta la gente?
La risposta è una complicata miscela di cifre, persone, e politiche di abitazioni pubbliche. Ognuna delle circa 6.000 famiglie che hanno lasciato le case popolari da 1999 ha la sua particolare storia.
Alcune stanno ancora cercandola propria strada, mentre altre hanno trovato la felicità in altri quartieri. E anche se può sembrare una sorpresa a chi ha sentito solo storie di orrori sulla vita nelle case popolari, molti degli ex abitanti ancora rimpiangono le loro case multipiano.
Cifre
Nell’ottobre 1999, c’erano 16.428 famiglie che vivevano nelle case della Chicago Housing Authority con regolare contratto, secondo i registri dell’agenzia. Fra allora e l’ottobre 2003, 6.372 famiglie hanno lasciato la CHA. Molte di queste, 2.434, hanno accettato gli Housing Choice Vouchers (buoni casa, n.d.t.) a finanziamento federale, secondo il programma già chiamato “Sezione 8”, e hanno cercato fortuna nel mercato privato. La maggioranza spera di ritornare in alloggi CHA nei quartieri a tipologie per redditi misti, in corso di costruzione o allo stadio di progetto.
Le rimanenti 3.938 famiglie sono uscite dalle graduatorie delle abitazioni pubbliche per molte ragioni, tra cui morte o sfratto. Ma la maggioranza della popolazione che non ha optato per i vouchers e che è uscita dalle graduatorie, è “scivolata via”, ovvero non ha dato alla CHA alcuna spiegazione per andarsene, o ha informato l’agenzia che se ne stava andando verso varie destinazioni, compresa la coabitazione presso familiari o conoscenti.
Le circa 2.000 famiglie che sono “scivolate via” o se ne sono andate, sono quelle che preoccupano di più gli operatori delle case popolari e per i senzatetto. È perché si tratta delle frange più vulnerabili, che possono aver rinunciato a navigare attraverso la confusa burocrazia CHA, specialmente nei primi anni del piano di trasformazione.
Se i funzionari della CHA affermano di poter ricostruire la condizione di tutte le famiglie, escluse 300, che hanno lasciato le case, dichiarano anche di non essere responsabili per il mancato servizio a chi non ha partecipato alle assemblee, firmato le richieste, seguito le procedure. “Offriamo servizi a moltissime persone” ci dice Meghan Harte, direttore dei servizi generali per gli inquilini “Sono servizi volontari, e dunque se vogliono trarne vantaggio, possono; se non vogliono, non vogliono”.
Ma gli impegnati nel settore, come Katherine Waltz, avvocato del Sargent Shriver National Center on Poverty Law, dicono che la CHA si sta lavando le mani delle persone vittime della determinazione dell’agenzia nel demolire le abitazioni multipiano senza attivare un’adeguata pianificazione e informazione.
”Le famiglie sono state trascinate in questa corsa alla rilocalizzazione e non hanno potuto muoversi in tempo ... o contrattare il proprio percorso dentro a questo processo” ci dice Waltz” Se ne sono andate e hanno rinunciato”.
L’avvocato Richard Wheelock, che rappresenta gli inquilini CHA, ci dice “per un gran numero di queste famiglie, credo che la CHA abbia l’obbligo di seguirle perché se ne sono andate a causa delle condizioni di degrado degli alloggi”.
Che ha studiato il piano, come l’osservatore indipendente della CHA, Thomas Sullivan, ha criticato l’agenzia per non aver attivato adeguati servizi in loco nei primi anni del piano. Nel suo ultimi rapporto Sullivan afferma che ci sono ancora problemi, ma nota significativi miglioramenti nell’informazione e negli investimenti.
Meghan Harte afferma che il nuovo sistema computerizzato di monitoraggio – che aiuterà l’agenzia a ricostruire i movimenti degli inquilini dentro e fuori i quartieri – sarà completato e attivato entro la prossima settimana.
Il gruppo di lavoro CHA ha in programma di far visita anche a tutte le famiglie che hanno approfittato dei vouchers – oltre ai servizi offerti da appositi consulenti – e ha raggiunto la meta con circa il cinquanta per cento dei nuclei, secondo Harte.
Ci può essere bisogno di più di un trasloco per le famiglie voucher, nel trovare l’abitazione più adatta. Harte riconosce che il primo spostamento può essere verso zone non lontane dal proprio quartiere.
”La gente deve muoversi in zone dove ha amici, dove frequenta la chiesa e ha relazioni”.
Persone
* Frances Savage sta davanti all’edificio ad appartamenti al civico 4000 di South Calumet, nervosa perché deve traslocare per la terza volta da quando è stata costretta a lasciare la sua casa alle Washington Park Homes nel 2001, dopo ventisette anni.
Si guarda attorno, al prato pieno di immondizia che, dice, è in parte causa dei topi nell’edificio, e scuote la testa. Non è come doveva essere. Le avevano detto che la vita sarebbe stata migliore, una volta lasciato l’appartamento.
Come altri inquilini CHA, Savage ha avuto la scelta fra trasferirsi in un altro quartiere dell’istituto, oppure cercare la sorte nel mercato con un voucher. Spaventata dalla prospettiva di trascinare i suoi quattro figli – due dei quali adolescenti – nei territori sconosciuti di un altro quartiere popolare, Savage è scesa in campo col suo voucher.
Nonostante la CHA dicesse di voler aiutare la gente a trovare un nuovo appartamento, Savage afferma che il sostegno dell’agenzia ha lasciato molto a desiderare. “Cacciavano la gente in posti orribili”, dice.
Trovò un appartamento all’isolato 5600 della South Michigan. Come la maggior parte degli inquilini CHA Savage, 37 anni, trova casa in zone dove scuole e occasioni di lavoro non sono molto migliori di quelle che ha lasciato. Nel 2003, solo il 3 per cento degli inquilini voucher si sono trasferiti in “zone di opportunità” con migliori scuole e ambiente.
All’inizio il nuovo posto sembrava “OK”, ricorda Savage, “ma le bande in zona stavano cominciando a reclutare membri”. Così in agosto si trasferì nell’appartamento fra la Quarantesima e Calumet, in parte anche perché le mancava il vecchio quartiere. Era tornata in territori familiari, ma scoprì subito cha la casa era infestata dai topi. Dice che si lamentò con l’amministratore, senza risultati.
Savage, che ha una invalidità per lesioni alla spina dorsale, aveva anche problemi economici. Le bollette del gas da 200 dollari al mese pesavano. Così quest’estate ha fatto i bagagli e si è spostata di nuovo.
In aggiunta agli altri problemi, alla signora Savage manca il senso comunitario delle vecchia casa multipiano, dove i vicini potevano tener d’occhio l’appartamento quando lei era fuori.
”In questi isolati la gente non guarda in faccia a nessuno” ci dice “Qui ho paura a uscire di casa”.
** Secondo Denise Campbell, ex inquilina delle Stateway Gardens, l’esperienza da quando ha lasciato il quartiere dove viveva dall’età di 11 anni, è stata “un vero inferno”.
Campbell, di 43 anni, è stata una delle ultime persone a lasciare l’edificio al 3737 di South Federal, nelle Stateway Gardens, e si ricorda ancora benissimo la sera dell’ottobre 2000 in cui i funzionari le hanno detto che insieme ai suoi quattro ragazzi avrebbe dovuto uscire immediatamente. “Arrivarono quel lunedì con un camion da traslochi e dissero: Signora Campbell, lei deve andarsene”. “Mettono semplicemente la gente fuori, senza che sappia cosa l’aspetta”.
I funzionari CHA riconoscono che ci sono stati problemi nei primi tempi delle demolizioni. Dopo una costante raffica di critiche e minacce di causa, molti riconoscono che il comportamento dell’agenzia è migliorato.
La prima destinazione della signora Campbell è stata la casa di sua madre, all’isolato 5900 di South Wabash. Aveva paura, perché sua madre aveva altri problemi, e lei non voleva interferire. Restò lì fino al dicembre 2000, quando trovarono un appartamento in un edificio di pietra a tre piani fra la Sessantatreesima e Drexel.
Le cose stavano migliorando nel nuovo posto, pensò Campbell. “Mi piaceva” dice. “Poi nell’aprile 2001 scoprii che l’edificio era in fase di sgombero”.
Nel dicembre 2002 “vennero qui e misero tutti fuori sul marciapiede. Le cose furono rubate”.
Il suo nuovo spostamento fu a Roseland, fra la 117° e la State, dove vive ora.
”È un quartiere abbastanza dignitoso. L’unica cosa è che i trasporti sono scarsi e i negozi chiudono presto” dice. Anche la signora Campbell ha in programma di traslocare di nuovo quest’estate. Il figlio di 19 anni si è trasferito, e lei ora non ha più diritto a un’abitazione a quattro stanze. Dovrà trovarsene una da tre.
*** Nonostante il travaglio dell’affrontare il mercato privato della casa per la prima volta, c’è felicità fuori dai quartieri popolari. Provate a chiederlo a Donna Wade.
Wade, che ora ha 37 anni, era una bambina alle Stateway. Anche se ha dei bei ricordi dei suoi primi giorni nel quartiere, negli ultimi tempi l’edificio era diventato sempre più pericoloso per via degli occupanti abusivi e degli spacciatori. Wade iniziò a preparare il trasloco mesi prima che i camion arrivassero a portarla in un edifico a due piani all’isolato 6100 della Drexel. Compilò i moduli necessari e si presentò agli incontri con i consulenti, ma per la maggior parte si organizzò da sola la strategia di caccia alla casa.
Anche se lo spazio era abbastanza per lei e la figlia adolescente, l’intraprendente Wade guardava avanti. Circa quattro mesi fa, si è trasferita in una casa singola fra la 117° e Yale.
”Amo la mia casa” ci dice, “Ho sempre desiderato un giardino, una sala da pranzo e una cantina”.
VARESE -Cunicoli, bunker. Nei boschi bucano per chilometri le Prealpi che dominano i sette laghi della provincia di Varese. Sono le fortificazioni militari della linea Cadorna, fatta costruire dal generale della prima guerra mondiale per timore che gli imperi centrali invadessero l'Italia passando dalla Svizzera. Monte Orsa, sopra Besano. Notte di luna piena che fa capolino tra i rami scuri dei pini, a nord le Alpi sempre innevate, a valle lo sguardo si perde verso la pianura padana illuminata dai lampioni dell'enorme città sparpagliata, sono mille paesini che senza soluzione di continuità arrivano fino a Milano. Un fuoco acceso, dove c'erano i cannoni o dentro una casamatta, proietta le ombre sui muri segnati negli anni da scritte e figure. Fuori il verso dei gufi, dentro l'eco delle voci rimbomba con il sibilare dei pipistrelli, animaletti che a Varese sono oggetto di ricerche universitarie.
Ecco un posto ideale per giocare alla messa nera. E' solo uno dei tanti luoghi che costellano il varesotto, tra cattedrali deserte di archeologia industriale, ville liberty abbandonate, chiesette sconsacrate. La natura incontaminata si mischia con territori devastati per oltre un secolo dai primi insediamenti industriali d'Italia, basta perdersi per una strada sterrata per evadere come per incanto da una delle aree più densamente abitate del mondo e ritrovare luoghi che sembrano abbandonati da dio e dagli uomini.
E invece non è così. Tutti li conoscono da queste parti, magari solo per farci una passeggiata la domenica o andare a funghi e funghetti. Per i ragazzi sono posti dove passare una serata senza spendere e senza troppe rotture. Lavoro ce n'è ma occasioni per divertirsi pochissime. Iniziative culturali, zero. E allora si va per boschi. E' questo lo scenario in cui da una ventina d'anni è cresciuto quel gusto per fantasy e revival medievaleggiante, cavalieri e folletti celtici. Si riconosce nei testi delle canzoni epic metal o progressive rock apolitico e ribelle, ma riaffiora anche in certe iconografie leghiste e in associazioni fascistoidi; mischiando sacro e profano, cattolicesimo da crociata e paganesimo, voglia di evadere dall'aridità e dalla noia della religione del profitto verso un misticismo naturalista di ispirazione nordeuropea. Alberto da Giussano e Riccardo Cuor di Leone, Merlino e Morgana ma anche Belzebù, Odino e Wotan.
Il cosiddetto satanismo varesotto di cui tanto si parla dopo gli omicidi di Somma Lombardo è solo un riferimento maldestro a questo variegato mondo. E' stupido non distinguere alcuni terribili fatti di cronaca da suggestioni che sono diffuse tra migliaia di persone che, naturalmente, nulla hanno a che fare con quei delitti. Si vaneggia di pratiche occulte quando spesso si tratta di passioni adolescenziali molto poco meditate, grezze, fascinazioni che passano con l'età. Anche chi vuole rimanere fedele alla sua vena «magica», col tempo cambia. Quando aveva venti anni, Monica faceva la panettiera a Tradate e ascoltava death metal: adesso è buddista e sta in Thailandia. Simona accendeva candele nere, ora è intrippata con l'India.
Solo più in profondità, e in età più matura, gli sviluppi coltivati nell'humus paraceltico da baraccone prendono identità specifiche; e allora, se chiedi ai diretti interessati, tra satanismo, paganesimo celtico e ultracattolicesimo c'è un abisso. La maggior parte però «rientra». Jack era un «metallozzo puro», adesso fa il ragioniere. «Quando avevo 15 anni preferivo andare in un bosco che in discoteca, ogni due o tre anni sparano cazzate su satanismo e musica del diavolo, non se ne può più. Metal e satanismo non sono affatto sinonimi così come è assurdo pensare che satanisto lo sia di assassino. Invasati ne ho conosciuti, metallari e non. C'era chi si faceva le foto nei boschi con asce e facce pitturate di bianco, qualcuno si tatuava stelle a cinque punte ma più che messe nere erano messe in scena. La storia che nei boschi di Somma Lombardo si facevano riti la sento da quando ero piccolo, dicevano di aver visto un corvo crocefisso e che arrivavano macchinoni con targhe di fuori, c'era anche chi diceva che si facevano messe nere in una ex scuola di agraria».
Ognuno ha la sua leggenda metropolitana. Alcune sono panzane, altre hanno un fondo di verità. Orgie in alcune grotte nelle montagne moreniche della Valganna, buchi poco profondi in una valle stretta e fredda alle porte di Varese. Chiesette sconsacrate nella vicina Val Ceresio, per non parlare dei «riti» che si consumerebbero in uno dei luoghi cult di tutta la provincia: l'ex-cartiera. Un enorme e inquietante stabilimento di inizio secolo abbandonato sulle rive dell'Olona, stanzoni giganteschi, vecchi macchinari, tubazioni e antri bui. Si favoleggia di messe nere anche nei bunker della Siai Marchetti, la prima industria aeronautica d'Italia, vicino a Sesto Calende, a pochi chilometri da Somma Lombardo. E poi ci sono i cimiteri, come quello del santuario di santa Maria delle Ghiande, a Mezzana, frazione di Somma, proprio dove il 28 maggio scorso sono stati ritrovati i corpi di Chiara Marini e Fabio Tollis, i due giovani uccisi da quattro «satanisti».
L'elemento «satanico» scatena i media ma per il paese è un aspetto secondario. Il signor Augusto ha un canile. Lo hanno chiamato i carabinieri per prendersi cura del cane di uno degli accusati, dopo che il 23 gennaio il padrone è stato arrestato per l'omicidio dell'ex fidanzata Mariangela Pezzotta. Lei era di Somma: quello in paese è l'omicidio importante, il ritrovamento nel boschetto degli altri due ragazzi milanesi, ai suoi occhi è meno rilevante. Il signor Augusto dà una chiave di lettura più terra terra: «Erano i balordi del paese, li conoscevamo. La ragazza l'hanno ammazzata per questioni di gelosia, gli altri due per faccende di soldi e droga».
Non la pensa molto diversamente, Luca, uno dei ragazzi del Riff Raff di Gallarate, il più famoso negozio di dischi metal di tutta la provincia. «Quello che hanno arrestato a Somma anni fa si vedeva al Nautilus (l'unica vera discoteca dove è cresciuta mezza provincia, ndr) - ricorda Luca - era uno sfigato che stava sempre da solo, incasinato con droghe varie». Luca sembra un vichingo, alto, barba e capelli biondi e lunghi, borchie, pantaloni e maglietta nera con scritte gotiche. Mite e un po' timido, sta chattando con amici tedeschi, alle spalle i poster degli Iron Maiden, davanti un teschio a forma di posacenere (gadget) e un libro di William Scott. E' addolorato. «Mi stanno scrivendo che è morto il mio mito Quorthon, l'inventore del black metal». E' il leader del gruppo svedese Bathory (dal nome di una principessa assassina ungherese). Quorthon nei suoi testi non parla, non parlava, di Satana, perché Lucifero fa parte della terminologia cristiana, meglio allora riprendere l'epica scandinava degli dei del nord, rileggendo Wagner. «A me piacciono i vichinghi, ma non vado certo in giro con le corna e la spada», dice Luca. Poi aggiunge: «Migliaia di ragazzi ascoltano la nostra musica, se il metal o qualunque tipo di musica c'entrasse con quei delitti allora ci sarebbe un'ecatombe al giorno. Se il criterio per individuare un assassino fosse quello di sottolinearne l'ambiente di provenienza, allora tutte le categorie potrebbero essere bollate come assassine».
Sulla porta c'è il manifesto dell' Iron Fest, carrellata di gruppi metal che tra pochi giorni va in scena a Tradate, con «star» americane. Entra Matteo, bassista metal: «Sai il ragazzo che si è impiccato? Dicono che è stato un suicidio indotto, ma vai a sapere perché uno si ammazza...». Matteo lo ha visto. Era sull'ambulanza che ha portato via il cadavere. Faceva il volontario in croce rossa dopo un anno di servizio civile.
Dopo la presentazione dei due disegni di legge (Lupi e Mantini) per una nuova legislazione in materia di governo del territorio, sembrava che l’interesse sul tema fosse notevolmente scemato: la terza proposta (Sandri) è sembrata piuttosto un’affrettata ricomposizione di testi regionali fatta per partecipare alla discussione parlamentare, e non ha trovato particolare favore neanche tra i DS.
Recentemente si sono invece tenuti due convegni promossi dai gruppi parlamentari della Margherita (29 gennaio) e dei Verdi (3 febbraio), che danno il segno di una rinnovata attenzione politica, in parte inaspettata se la si confronta al disinteresse che ha caratterizzato negli ultimi anni il dibattito sui temi del governo del territorio. Un disinteresse che risale alla fine della passata legislatura e che coincise allora con il passaggio dalla presidenza della VIII Commissione dalla Lorenzetti (chiamata a governare l’Umbria) a Turroni.
Di questo rinnovato interesse noi urbanisti dovremmo essere felici: meno male si sono svegliati!
Purtroppo non è così, lo svegliarino è quello solito, preelettorale, per far vedere che ci sono: la confusione regna sovrana per lo meno nel centro sinistra.
Il convegno della Margherita, pur tra alcune defezioni, ha registrato la volontà di pervenire ad una conclusione dell’iter parlamentare, anche in una interlocuzione critica con il testo unificato da Lupi ed oggi in discussione in VIII Commissione.
Al convegno dei Verdi non mi è sembrato invece che ci fosse volontà di utilizzare il testo Mantini, né tantomeno quello Sandri per la costruzione di una linea emendativa del testo Lupi.
Si preferisce, da parte di alcuni, piuttosto non fare la legge, o al massimo come vedremo fare “leggi proclama”.
Sul governo del territorio non si può scherzare; le “leggi proclama” non hanno senso; il popolo non va indottrinato con proclami.
La questione di una sostanziale e divergente “anarchia” cui tendono i diversi sistemi di pianificazione regionale e quelli separati dallo stato non appare agli occhi di questi sostenitori delle leggi proclama una questione rilevante per lo sviluppo del paese.
L’intervento centrale al convegno dei Verdi è stato comunque quello del noto imbonitore Vezio De Lucia, che, con in mano fogli e foglietti di citazioni (il piano Solo – il tintinnar di manette, l’inquinamento urbanistico) recitate con sussiego per deliziare l’auditorio piuttosto che restare al tema (che era quello di una nuova normativa urbanistica nazionale), ha preferito come al solito demonizzare un avversario, in questo caso l’Istituto Nazionale di Urbanistica, che lo ospita troppo generosamente nelle sue riviste, per concludere appunto che servono “leggi proclama”, come se i problemi delle città e del territorio si potessero risolvere con dei proclami per imbonire il popolo. Il contenuto della bottiglia, elisir di lunga vita, o lozione per i capelli, è sempre lo stesso: tutela, tutela, tutela! Con inasprimento delle pene ed esproprio generalizzato, altro che perequazione e progetti di sviluppo pubblico-privati; ma mentre nel West i venditori di elisir venivano regolarmente impeciati ed impiumati, il nostro, cambiando di volta in volta cappello, gira ancora per le piazze, invero sempre più piccole e sempre meno affollate, ma qualche dollaro (incarico) ancora lo rimedia comunque, soprattutto nelle zone della sinistra d’annata, dura, pura e ricca.
Attaccare l’INU, rientra nei soliti artifici retorici di Vezio De Lucia che, per sostenere i 16 punti della “legge proclama” dei Verdi (tutela, pene, vincoli urbanistici decennali, acquisizione forzosa da parte dei comuni allo scadere dei dieci anni di vincolo) deve per forza scatenare l’uditorio contro un “avversario” responsabile di tutti i guasti del territorio, che solo la sua pozione riuscirà ad eliminare.
L’Istituto Nazionale di Urbanistica è stato additato (suppongo, per consolidare ed estendere il tavolo del centro sinistra) come un covo di riformisti (ovvio la vera riforma è la sua, quella che non si deve fare mai), dediti ad inciuciare nei Programmi complessi, noti luoghi di malaffare gestiti dall’oste di via Nomentana, che consentono incontri senza burqa, tra mano pubblica e soggetti privati. Ma non solo controriformisti, molto e molto di più, traditori passati al nemico che, come tutti i rinnegati, sono diventati i più accaniti sostenitori di Berlusconi, di Milano 2 e quindi del Ddl Lupi e della rendita di posizione. A questo punto e con il rincrescimento di dover comunque contribuire ad una sceneggiata sono dovuto intervenire per precisare:
1 – che l’INU ha ritenuto di dover formulare nelle sedi a ciò deputate (Audizioni parlamentari) numerose e specifiche osservazioni ai Ddl presentati;
2 – che in particolare a quello Lupi ha contestato:
- la sovrabbondanza di principi generici e relativa assenza di specifici compiti dello Stato (prestazioni minime, etc.)
- la limitazione del campo di interesse (solo urbanistico) e di contro la eccessiva definizione dei contenuti degli strumenti comunali
- la indeterminatezza dei soggetti
- la concezione superata degli standard
- la contraddizione tra principio di conformità e conseguente sovraordinamento degli enti ed il nuovo titolo V della costituzione
- la pericolosa introduzione del tema “territorio non urbanizzato” e in particolare delle “Aree per ulteriori urbanizzazioni”
3 – che tutto questo non ci impedisce di considerare Lupi, Sandri e Mantini come parlamentari della Repubblica che stanno utilmente dandosi da fare per costruire una legge di riforma del governo del territorio che serva se non altro per superare una concezione solo prescrittiva dell’urbanistica, vecchia di oltre 60 anni e variamente smembrata e contraddetta dalle leggi regionali e dalle attività urbanistiche dei Comuni.
Non si può continuare così, a ruota libera e a motore imballato, pensando che, tutela di tutto e sviluppo, istituzioni e noglobal, siano la stessa cosa.
Sono comprensibili i tentativi di Vigni (DS) di ricomporre, per i partecipanti al convegno, un quadro ecumenico in cui tutto questo possa coesistere; ma il grande PCI non esiste più, è quindi inutile, ma soprattutto crea confusione affermare in sequenza che:
1 – non ci sono le condizioni per interagire con il Ddl Lupi
2 – si deve costruire una proposta organica (diversa da quella Sandri)
3 – si deve valutare la possibilità di presentare emendamenti al Ddl Lupi che affrontano per lo meno tre nodi: dimensione territoriale; rapporto pubblico/privato; condono e abusivismo.
Si rischia di essere travolti dai sorpassi a destra (in tutti i sensi) di De Lucia e di mettersi poi a remare per una “legge proclama” (mi devono ancora spiegare cosa è giuridicamente).
L’ultima timida proposta di Vigni di mettere a fuoco, in un appuntamento nazionale il “punto di vista della sinistra” sul governo del territorio, rischia di arrivare in ritardo; come al solito consentendo agli imbonitori del Far West di continuare a vendere il loro elisir di lunga vita in assenza di una indispensabile riforma urbanistica che se affidata alle sole leggi regionali rischia di produrre più problemi e più anarchia istituzionale di quanta già ce ne sia.
alcuni brani scelti e illustrati, da questo testo (a cura di fabrizio bottini)
Titolo originale: Rural Retreat - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Appena oltre il confine dell’Illinois, East Troy, Wisconsin, è diventata sede di varie iniziative di sviluppo sostenibile, agricoltura biologica, per le energie alternative, di un nuovo eco-villaggio
Guidando verso nord sulla Route 120 verso East Troy, Wisconsin, si entra in un paesaggio rurale verdeggiante, con fienili, cavalli, mucche. Le geografia è mossa, definita dal sistema morenico del Wisconsin, e riflette la vicinanza di Alpine Valley Resort, Music Theater, della Kettle Moraine State Forest.
East Troy (3.800 abitanti), appena a nord del confine Wisconsin/Illinois, ha il fascino del piccolo centro, con una piazza da villaggio con gazebo, un museo ferroviario e un ristorante drive-through. “È il tipo di posto dove lasci che i bambini vadano in giro in bicicletta, senza preoccuparti” dice Tricia Riley, responsabile della Nokomis Bakery.
Ma quello che passando da East Troy può anche non saltare all’occhio, è la profusione di imprese legate allo sviluppo sostenibile che hanno trovato casa in questa cittadina. E che comprendono il Michael Fields Agricultural Institute con la sua fattoria di coltivazioni biologiche; la Nokomis Organic Bakery and Grocery; LifeWays, un programma per la prima infanzia ispirato al metodo Waldorf; e la Uriel Pharmacy, che produce cure naturali ad orientamento antroposofico.
“East Troy è una dei segreti meglio mantenuti del Wisconsin sudorientale. È soprendente vedere la quantità di coltivazioni biologiche e a base familiare in questa zona” continua Riley.
L’ultimo arrivato nella comunità sostenibile di East Troy è un eco-villaggio, Fields Neighborhood. Le prime case di questo insediamento hanno avuto il massimo riconoscimento mai concesso da Green Built Home, progetto ambientalista del Wisconsin. È richiesto un minimo punteggio di 50 per essere riconosciuti come Green Built Home: questo progetto nel ha ricevuti 107.
Fields Neighborhood si affaccia sullo Honey Creek e su una zona boscosa tutelata di 80 ettari, con percorsi pedonali. Anche se è circondato su due lati da spazi aperti, è abbastanza vicino al centro da poter andare a scuola a piedi.
L’aspetto più inusuale del villaggio, è il fatto di essere progettato con un sistema a run-off zero dell’acqua: “Tutta l’acqua piovana viene filtrata dal terreno fino alla water table” spiega Peter Scherrer, responsabile della costruzione del villaggio. Il sito è concepito per massimizzare l’assorbimento delle acque, e comprende orti per la loro raccolta con piante da zone umide. Per minimizzare il runoff, le strade sono strette, e fatte di cemento, più “ambientalmente responsabile” dell’asfalto, e che crea meno calore.
Le prime abitazioni doppie sono state messe sul mercato in agosto. Lo studio responsabile della progettazione è la Design Coalition di Madison, Wisconsin. Gli edifici di mattoni e legno sono stati realizzati con parecchie caratteristiche energy-saving e hanno fatto guadagnare a queste case un punteggio di 88 dal Wisconsin Energy Star, il che significa un richiesta corrente di energia inferiore dell’88% a quella delle abitazioni convenzionali. Lucernari nei soggiorni e orientamento a sud provvedono un riscaldamento solare passivo, e la casa è pronta per quello solare attivo. Finestre ad alta efficienza e isolamento, aumentano ancora la conservazione energetica.
Le case fanno uso di materiali rinnovabili, che creano un ambiente interno ipoallergenico, ci racconta Joel Jacobsen, l’agente che sta vendendo le abitazioni. In quelle completate, il corridoio e disimpegni del primo piano hanno pavimenti in linoleum, più ambientalmente amichevole di altre superfici. Le moquettes sono di lana, e i colori per le pareti sono a componente volatile organica. Le finiture di legno sono quercia di alta qualità del Wisconsin, che richiede anche meno consumo di carburante per il trasporto.
Oltre a una stanza comune e a un bagno, il livello interrato comprende una stanza a cantina e uno studio/laboratorio. La cantina root-cellar è destinata ai prodotti degli orti comuni previsti. Il garage adiacente è dotato di uno scarico con ventola che si aziona automaticamente aprendo la saracinesca, e che succhia all’esterno il monossido di carbonio.
Una delle caratteristiche più interessanti del piano terra delle abitazioni proposte con tutte le finiture è il pavimento di bambù, molto attraente visto che sembra legno massiccio, ma rinnovabile. La stanza principale/soggiorno ha alti soffitti e finestre affacciate su una vista dello Honey Creek e spazi aperti. Si può accedere a un portico da questa stanza principale, così come dalla camera da letto secondaria.
Le due case proposte con tutte le finiture hanno un prezzo di 318.900 dollari; quelle da completare di 228.900, ed è necessario che l’acquirente aggiunga pavimenti, finiture bagno, tubazioni e impianto elettrico. Quando il villaggio sarà completo, consisterà di 72 unità, compresi edifici condominiali con sei appartamenti e abitazioni doppie su un solo piano.
Christopher Mann, costruttore di Fields Neighborhood, ha realizzato anche un eco-villaggio in Sussex. “Pensavo a un luogo dove le persone potessero vivere insieme, interagire socialmente e sul lavoro, dove i bambini potessero crescere in modo equilibrato” raccontava Mann della comunità in Sussex, in un’intervista del dicembre 2000 alla rivista della Rudolf Steiner Foundation. Per l’insediamento di East Troy, spera di creare un paesaggio che sia l’ambiente culturale di una nuova etica sociale. Mann (che era all’estero mentre si svolgeva la ricerca per questo articolo) notava in quell’intervista come fosse particolarmente stimolante realizzare una comunità immersa nel verde con contenuti economici alternativi. “Creare qualcosa per i redditi medi è molto difficile. È facile scivolare verso le fasce alte di mercato facendo cose troppo costose, in particolare se si vuole edilizia ecologica, un’etica ambientalista, sviluppare un insediamento a zero run-off”.
Per questo motivo, il responsabile di costruzione Scherrer dice che anche se tutti gli edifici di Fields Neighborhood avranno qualche caratteristica ecologica, alcuni potranno non essere meno “verdi” di altri, per consentire di rendere disponibili abitazioni a varie fasce diverse di reddito.
Mann è inglese, cresciuto in una famiglia di cultura Waldorf. Da giovane emigrò in Canada, dove scoprì l’antroposofia: la scienza spirituale formulata da Rudolf Steiner (1861-1925), filosofo e studioso austriaco. L’antroposofia è alla base di nmerose iniziative olistiche nel campo della medicina, delle terapie, delle arti, dell’economia, agricoltura, istruzione. Nonostante le scuole di metodo Waldorf facciano riferimento all’antroposofia, questa non è insegnata agli studenti. Dunque quando Mann divenne interessato alla materia da adulto, tornè in Inghilterra per una specifica formazione da insegnante. Sua moglie, Martina, aveva ereditato una fortuna sufficiente a consentirgli una vita di filantropia.
I coniugi Mann sono stati attratti a East Troy dal fatto che era sede della più antica fattoria biodinamica degli Stati Uniti, la Zinniker Dairy Farm, inaugurata negli anni ‘40.
“La zona di East Troy aveva l’aspetto e l’atmosfera delle valli d’Europa, e se ne innamorarono” ci dice Ron Doetch, direttore esecutivo del Michael Fields Agricultural Institute.
I Mann, con Ruth Zinniker, nel 1984 fondano il Michael Fields Agricultural Institute, struttura non-profit pensata per sviluppare ricerche agricole e formare agricoltori ai sistemi sostenibili, biologici, biodinamici. L’agricoltura biodinamica va oltre quella biologica, e guarda all’intera azienda come a un organismo vivente. Riconosce l’importanza del suolo per la salute della fattoria e guarda all’azienda, agli animali, al raccolto e all’ecosistema come interconnessione, con l’obiettivo di condurre ad equilibrio e salute l’insieme.
L’Istituto negli ultimi dodici anni ha raccolto coltivatori e consumatori alla Urban Rural Food System Conference che si tiene ogni novembre.
Lo stimolo maggiore per il Michael Fields è quello di cambiare il modo in cui gli agricoltori conservano risorse, e mantenere in vita l’azienda familiare. Il direttore Doetch sottolinea come i programmi aperti siano destinato al coltivatori con metodi convenzionali, dato che insegnar loro a ridurre almeno di un terzo l’uso di fertilizzanti chimici, continuando a guadagnare, può avere impatti significativi.
L’istituto Michael Fields lavora per aumentare i finanziamenti federali alla ricerca e alla formazione verso una agricoltura sostenibile. Ora, meno dello 0,5% dei fondi di ricerca del Dipartimento dell’Agricoltura va a quella sostenibile.
Doetch crede che oggi sia un buon momento per il Michael Fields, dato che i prodotti biologici sono entrati nella mainstream. “Con asma, diabete e diffocltà di apprendimento in crescita, la gente ha iniziato a capire che la dieta dei nostri bambini è sbagliata” dice. “Si inizia a capire che siamo ciò che mangiamo”. Doetch afferma che la consapevolezza del cibo è stata risvegliata da minacce come gli alimenti geneticamente modificati o il morbo della Mucca Pazza.
“È bello fare la cosa giusta per il motivo giusto e al momento giusto”.
Col sostegno finanziario e morale dei Mann, parecchie iniziative hanno trovato casa a East Troy.
La prima è la Nokomis Bakery, iniziata nel 1984 da Martina Mann, per produrre pane utilizzando grano delle coltivazioni locali, in un forno d’argilla collocato in un capanno. La gente poteva andare al capanno e comprarsi un pane genuino. “Era parte della visione [dei Mann] sul conservare le aziende a gricole familiari che stavano scomparendo” ci dice la signora Riley, direttore generale del forno. Suo marito Jamie, è il fornaio.
Oggi la Nokomis sforna ogni settimana da 2.000 a 3.000 forme fatte a mano, da farina integrale macinata a pietra, vendute in negozi specializzati in cibi di qualità da Madison, a Milwaukee, a Chicago.
Riley ci racconta che i suoi nonni materni e paterni erano contadini. È cresciuta a Lake Geneva ed è entrata nel campo dell’alimentazione naturale quanto si è sentita insoddisfatta del lavoro in un’impresa.
“Trovo soddisfacente stringere la mano a un agricoltore, o camminare nei campi di grano prima che sia portato qui per la lavorazione”.
La Nokomis Bakery, che ha la porta accanto all’istituto Michael Fields, gestisce anche un negozio di cibi naturali aperto sette giorni su sette. Offre latte biologico in bottiglie di vetro, formaggi locali, granaglie biologiche all’ingrosso, altri prodotti biologici, polli del Wisconsin, miele locale, dolci di burro e zucchero.
Altra iniziativa di East Troy è quella intrapresa da una ex insegnate di scuola Waldorf, Bente Goldstein, sposata a Walter Goldstein, direttore per le ricerche sul grano al Michael Fields. Bente Goldstein dirige “Una settimana alla Fattoria”, un programma pensato per responsabilizzare i bambini sui compiti quotidiani della vita agricola. “Un tempo i bambini sarebbero andati dai nonni per questa esperienza, per imparare da dive viene il cibo; ai bambini moderni è negata questa esperienza di base ... Una fattoria è il luogo perfetto per costruire un carattere” ci dice la signora Goldstein.
LifeWays, pure vicina al Michael Fields, è stata iniziata da Cynthia Aldinger, insegnante Waldorf interessata alla spersonalizzazione nella cura dei bambini più piccoli. LifeWays Center, di ispirazione Waldorf, è aperto dal 1998 per bambini dai tre mesi ai sei anni. È strutturato su tre ambienti che simulano una casa e progettato per offrire solide e durature relazioni collocando i bambini in una situazione multi-età, come quella di una grande famiglia.
“I bambini sono all’aperto per la maggior parte della giornata. Stanno in un orto biologico, raccolgono verdure, aiutano a lavarle e prepararle. Questa è anche una meravigliosa zona per camminare e tenersi in contatto con l’ambiente naturale” ci dice la direttrice di Lifeways, Jodi Fitzgerald.
L’idea si è diffusa, e ora ci sono centri LifeWays anche a Milwaukee e a Sedona, Arizona. Si prevede l’apertura di un altro al Rudolf Steiner College di Fair Oaks, California.
La signora Fitzgerald ci dice che la comunità sostenibile è solo una parte del microcosmo formato dalla comunità allargata di East Troy. Inizialmente ha incontrato qualche resistenza, ma ora ha iniziato ad essere accettata.
“Tutte le iniziative si fondono insieme a formare uno stile di vita. Uno stile di vita che è rispetto per ciascuna persona. È come se restituissimo all’ambiente quello che gli abbiamo preso”.
Nota: di seguito alcuni links (fb):
Il testo originale al sito di Conscious Choice
Le scuole Waldorf
il Michael Fields Agricultural Institute
Un blocco di cemento di 1.070 metri cubi: è questa la «dote» portata alla provincia di Vicenza, una delle più industrializzate d'Italia, da ogni abitante in più degli anni Novanta. Crescita demografica: più 52 mila abitanti, pari al 3%. Crescita edilizia: più 56 milioni di metri cubi, pari a un capannone largo dieci metri, alto dieci e lungo 560 chilometri. Ne valeva la pena? Valeva la pena di costruire oltre il quadruplo delle case necessarie rispetto all'incremento di cittadini e di insultare ciò che restava delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento e tappezzati di cartelli «affittasi»? Se lo chiedono in tanti, finalmente. Se lo chiedono gli imprenditori più avveduti, che hanno chiarissima l'idea che far concorrenza alla Cina costruendo più capannoni e assumendo più cinesi anziché puntare su innovazione e ricerca è un suicidio. Se lo chiedono un pezzo della sinistra e della destra, a partire dalla Lega che ha denunciato in un allarmato seminario per bocca del presidente provinciale Manuela Dal Lago come negli anni '90 l'agricoltura abbia perso 18 mila ettari contro i 10 mila perduti nel decennio precedente. Se lo chiedono gli studiosi, come quelli coinvolti in un convegno convocato oggi a a Montecchio dall'Accademia Olimpica il cui presidente Fernando Bandini riassume la situazione così: «E' stato un saccheggio». Intendiamoci: di « schei » ne sono piovuti tanti. La provincia è la prima in Italia nel rapporto tra export e Pil, vanta una partita Iva ogni 10 abitanti, un'impresa manifatturiera ogni 31 (media italiana: una ogni 75), una disoccupazione ridicola (2,6%), un fatturato industriale di 41 miliardi di euro, un reddito pro capite oltre 25 mila. Il prezzo pagato all'ambiente, però, è stato elevatissimo. E fa del Vicentino, felicemente stravolto dall'industrializzazione e dal benessere dopo secoli di povertà ed emigrazione («L'altissimo de sora ne manda 'a tempesta / l'altissimo de soto ne magna quel che resta / e in mezo a sti do altissimi / restemo povarissimi») un caso emblematico del Nord Est. Che può insegnare a tutti.
Nel bene e nel male. Spiega ad esempio una tabella elaborata dall'ingegner Natalino Sottani, relatore al convegno di oggi, che la popolazione provinciale (608 mila abitanti nel 1950 saliti oggi a 807 mila), ha avuto un incremento in mezzo secolo del 32%. Una crescita netta, ma abissalmente lontana da quella della superficie urbanizzata, passata da 8.674 ettari a 28.137. Con un'impennata del 324%: il decuplo.
E accompagnata, ovviamente, da un parallelo crollo dei terreni destinati all'agricoltura: erano 182 mila ettari nel 1950, sono 114 mila adesso. Al punto che, stando all'«impronta ecologica» e cioè all'indice che attraverso una miscela di calcoli assai complessi misura qual è il livello dei nostri consumi, ogni vicentino consuma oggi per 39 mila metri quadri disponendone invece di 3.370: oltre undici volte di meno.
Un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi. Così ubriaco di auto-compiacimento per lo stupore del mondo davanti ai successi all'incredibile accelerazione degli ex poareti da esaltare il disordine amministrativo e il «laissez faire» come fucina di creatività. Col risultato che oggi i 121 comuni berici, stando al rapporto allarmato della Provincia, hanno «oltre 500 aree industriali». Le quali, in realtà, assediano quasi esclusivamente i comuni di pianura che sono una sessantina e detengono dunque una decina di «zone produttive» a testa. Un delirio. Del quale fanno oggi le spese non solo i cittadini intrappolati ogni giorno in una delle più intasate reti stradali del pianeta ma gli stessi protagonisti del miracolo, quegli imprenditori che si dannano l'anima per guadagnare sei decimi di secondo nella produzione di un pezzo e poi vedono i camion bloccarsi nella fossa larga sei metri di via Mazzini, sulla strada che porta da Bassano a Padova e che sega in due il paese di Rosà, una strettoia dove ogni giorno si strusciano l'uno l'altro 40 mila camion e 30 mila auto. E agognano la costruzione di una bretella, un ponte o una pedemontana che non si possono fare senza buttar giù una miriade di case e stabilimenti.
«Basta capannoni», disse nella primavera 2003 il presidente regionale Giancarlo Galan. I nudi numeri spiegavano infatti che negli ultimi 5 anni erano state costruiti nel Veneto edifici industriali pari a un capannone alto 10 metri, largo 28 e lungo 200 chilometri e passa. Tanto che a Orgiano, un paese vicentino sotto i colli Berici, la gente aveva raccolto 1.500 firme (una enormità in un paese di 2.700 abitanti) per dire basta: «perché dovremmo aprire nuove fabbriche se non c'è disoccupazione» e «deturpare una delle rare aree incontaminate con strade, cave, discariche e industrie»? Il coro di consensi fu vasto. Gli stessi industriali, o almeno i più attenti, plaudirono. Un anno e mezzo dopo, però, Galan pare aver cambiato idea. E qualche giorno fa, a Cortina, ha spiegato che «il Veneto di domani avrà bisogno di più capannoni, non di meno. E Forza Italia ha il dovere di dirlo. Il problema è come farli».
«Con i gerani, i salici e i sette nani nel giardino?», hanno ironizzato i verdi. In realtà, lo sanno tutti, stanno arrivando al pettine quei nodi che troppo a lungo sono stati rinviati. Riassumibili, se vogliamo, in un nodo solo: su quale modello di sviluppo deve puntare un'area come il Nordest che ha scommesso forse troppo sulla dedizione alla fatica dei «polentoni», sul lavoro dei grandi artigiani come quelli dell'occhialeria (oggi in crisi), sul perfezionamento di prodotti a volte vecchiotti fino a far dire a Federico Faggin, il vicentino inventore del micro-processore, che «è un posto buono per fare sedie e maglioni ma non tecnologia d'avanguardia»? Ciò che appare certo a vedere il caso di Vicenza, dove l'opposizione denunciava ieri nuovi progetti cementizi per un altro milione di metri cubi nei prossimi anni nella sola città capoluogo, è che urge un ripensamento. I dati, infatti, sono lì, sotto gli occhi di tutti. Ogni miliardo di euro di crescita reale è costato un consumo di mille ettari di campagna. E dei 52.150 mila abitanti che risultano essersi aggiunti nel censimento del 2001 a quelli del 1991, addirittura 37.140 sono stranieri. Il che vuol dire che per ogni vicentino in più arrivato nel decennio sono stati tirati su 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Pari a un capannone dieci per dieci lungo 37 metri. Può essere questo, lo sviluppo di domani? Gian Antonio Stella
Un décret publié fin mars permet désormais des "aménagements limités" dans les espaces jusque-là protégés. "Un terrible coup de canif", s'indignent les écologistes. Mais l'épisode révèle les tensions nouvelles créées par la poussée démographique observée le long des côtes.
"Ce décret est une catastrophe !" Jean-François Burth, président de l'association Défense de l'environnement bigouden, ne décolère pas. "On peut maintenant abroger la loi littoral par décrets ! Ce texte ouvre la porte à des parkings, à des pistes cyclables, à des paillotes se transformant en restaurants, à des postes de secours permanents. C'est un coup de canif terrible porté à la préservation des côtes françaises !"
L'objet du courroux de cet environnementaliste du Finistère est un décret d'application de la loi littoral paru au Journal officiel du 30 mars. Ce décret no 2004-310 permet l'installation d'"aménagements légers" dans les espaces naturels, mais aussi "l'extension limitée des bâtiments et installations nécessaires à l'exercice d'activités économiques" dans ces espaces, normalement protégés de toute construction par la loi littoral.
Publié dans les derniers jours du ministère de Roselyne Bachelot, le décret ouvre la porte à toutes sortes de dérives, selon M. Burth. "Par exemple, explique-t-il, nous avons engagé une procédure juridique contre une petite crêperie qui s'est transformée en grand restaurant avec terrasse dans un site magnifique. Avec ce décret, nous aurions perdu."Au secrétariat d'Etat à la mer, on tempère le propos : "Le terme d'"extension limitée" est assez clair, et, en cas d'exagération, il y aura contentieux et le juge tranchera."
La vive inquiétude des environnementalistes à l'égard de la moindre modification de la loi littoral reflète un problème réel : malgré ce frein, posé en 1986, à l'urbanisation des côtes, la pression urbaine et économique sur les côtes françaises semble irrépressible. Une étude publiée en 2000 par l'IFEN (Institut français de l'environnement) montrait que "la construction suit depuis 1980 le même rythme que celui observé sur l'ensemble du territoire, sans changement quantitatif significatif depuis le vote de la loi littoral". La tendance n'aurait subi aucune inflexion depuis 2000. "La pression foncière est colossale, note Bruno Toison, au Conservatoire du littoral. Par exemple, sur l'île de Ré, on compte plus de 400 nouvelles maisons chaque année, malgré toutes les protections existantes."
Mais ce n'est pas l'insuffisance de la réglementation qui fait peser des menaces sur les espaces encore non construits des 550 000 km de côtes françaises. "La loi littoral ne fonctionne pas si mal. Aujourd'hui, l'urbanisation se produit par épaississement des taches existantes plutôt que par nouveau mitage",note un expert, qui requiert l'anonymat "pour ne pas avoir de problème avec les élus".
Ce qui est surtout en cause, c'est l'attrait qu'exerce la mer sur les populations. Selon une fiche de préparation du Comité interministériel d'aménagement et de développement du territoire (CIADT), qui doit se réunir en septembre, "les zones côtières sont aujourd'hui les lieux les plus dynamiques de la planète". La France participe à ce "mouvement général", et c'est ainsi que "près de 3,5 millions d'habitants supplémentaires sont attendus dans les départements littoraux à l'horizon 2030".
PROCÉDURES DE CONCERTATION
Cette poussée démographique se traduit par une soif inextinguible de construction qui entraîne une progression continue de l'urbanisation sur tout le littoral. Mais, sur place, les habitants et les élus sont souvent demandeurs d'assouplissements : "Dans ma commune de Plounévez-Lochrist, explique Jacques Le Guen, député (UMP) du Finistère et rapporteur de la mission parlementaire sur la loi littoral qui doit rendre son rapport prochainement, il y a une bande vide entre deux groupes de maisons, on ne peut construire alors qu'il y a continuité du bâti. Ou encore, à côté, à Plouider, la loi littoral impose des règles de construction même dans la partie de la commune, qui se trouve à plus de 2 km de la mer."
Les activités économiques demandent, elles, des assouplissements : "On connaît de nombreux cas de jeunes agriculteurs qui ne peuvent s'installer en serres maraîchères dans les communes littorales à cause des contraintes de la loi", indique-t-on à la chambre d'agriculture du Finistère. Or 35 % des exploitations agricoles de ce département se situent dans des zones littorales. Ailleurs, ce sont les conchyliculteurs qui se plaignent des contraintes, ou les ports de plaisance, qui disent souffrir d'engorgement et demandent l'agrandissement des ports existants, ou la création de ports à sec pour stocker les bateaux.
La pression est donc plus forte que jamais sur cette loi qui a permis de freiner une urbanisation incontrôlée. Il est probable que l'on s'oriente vers de nouveaux modes de gestion, basés sur la concertation de tous les acteurs plutôt que sur l'application de règles par l'administration et par les tribunaux. "Il s'agit d'une nouvelle gouvernance", explique-t-on au secrétariat d'Etat à la mer : "Au lieu d'imposer, on essaie d'obtenir une concertation sur des objectifs définis en commun."
La baie de Somme, l'étang de Thau (Hérault), la baie de Bourneuf (Vendée) expérimentent ces procédures de concertation qui tentent de concilier des objectifs conflictuels : le développement économique et le respect de l'environnement.
La loi littoral s'applique en Corse comme ailleurs. A l'époque des discussions sur le nouveau statut de l'île préparé par Lionel Jospin, l'article 12 du projet de loi concrétisant la première étape de ce processus prévoyait la possibilité pour les élus d'"adapter" la loi de 1986. Cet article, qui, au départ, suscitait un relatif consensus, a ensuite déclenché de vives oppositions en Corse et sur le continent. Il a été retiré en deuxième lecture à l'Assemblée nationale, en novembre 2001. Aujourd'hui, les défenseurs de l'environnement affirment que certains élus corses tentent de nouveau d'obtenir la possibilité d'adapter la loi. L'hebdomadaire autonomiste Arriti du 19 mai estime qu'"une modification éventuelle (...) ne pourrait se faire que dans un sens plus protecteur et après un large
Titolo originale Empty Boxes. As Kmart’s signature blue lights fade, what will happen to vacant big-box stores? – traduzione di Fabrizio Bottini
Il gigante del commercio Kmart si è appellato all’articolo 11 sulla tutela dal fallimento alla fine di gennaio, e la scorsa settimana la compagnia con base a Troy, Michigan, ha annunciato che avrebbe chiuso i battenti di 284 dei suoi 2.000 negozi. L’anno scorso, Montgomery Ward e Service Merchandise sono pure andate in bancarotta; nel 1999 i negozi discount Caldor hanno chiuso. Ci saranno decine, o anche centinaia, di questi negozi big-box – alcuni dei quali coprono più di 10.000 metri quadrati – abbandonati vuoti, come chiazze di assi inchiodate nel paesaggio?
James Howard Kunstler, autore nel 1999 del libro The Geography of Nowhere, afferma che gli affanni di Kmart sono sintomatici di una scossa sismica nel commercio americano. “Il commercio delle catene nazionali entrerà in un periodo di difficoltà, e piuttosto presto” dice Kunstler. “Queste compagnie godono di economie possibili solo con un’offerta senza fine di petrolio e manodopera a buon mercato dall’altra parte del mondo. Solleciterei il pubblico a pensare al commercio big-box come ad una anomalia storica, piuttosto che una cosa normale”.
Kunstler non è ottimista riguardo alle prospettive di utilizzazione futura dei negozi. “Spesso questi edifici stanno lì senza essere riutilizzati dieci anni” dice. “Per allora, le coperture piatte hanno iniziato a fare infiltrazioni, e gli edifici finiscono per essere degradati. Oppure qualche volta sono occupati da attività marginali, come i mercatini delle pulci in sede fissa”.
Alcuni residenti si preoccupano perché proprio questi tipi di attività si possono installare nel loro ex megastore, altri perché non si riuscirà ad attirarne nessuna, di attività: Caesar Carrino, sindaco di Wadsworth, Ohio, una città di 21.000 abitanti cinquanta chilometri a sud est di Cleveland, ci dice che se il Kmart di Wadsworth chiude, i clienti del posto lo rimpiangeranno parecchio, e la città avrà molti problemi per trovare un altro occupante di quegli spazi. “È troppo grande per un negozio Kohl’s. È troppo piccolo per un Wal-Mart. Target non ha sinora rapporti con Wadsworth. E nessun sembra intenzionato a muoversi, per via delle condizioni economiche”.
Il problema non è limitato alle città piccole. Charlotte, North Carolina, ha circa duecentomila metri quadrati di spazio commerciale vuoto, e i residenti stanno diventando sempre più preoccupati. “La gente è diventata improvvisamente molto interessata all’argomento” dice Mary Hopper, presidente della Charlotte-Mecklemburg Planning Commission. “Emerge tantissimo nelle assemblee pubbliche”. Le zone con maggiori problemi a Charlotte, continua, sono le strisce commerciali stradali nei corridoi delle zone centrali, dove c’è poca o nessuna crescita.
Per cercare una soluzione, recentemente Hopper ha scritto un rapporto sul riuso dei siti big-box. Ha studiato alcune delle misure predisposte in altre città, e ora progetta di lanciare alcuni progetti di riuso pilota a Charlotte. “Dovremmo solo ripulire alcuni dei siti” dice Hopper. “Ma se si può riusare un edificio, va trovato il modo efficiente di farlo dal punto di vista dei costi. In molti dei casi, il nuovo uso non sarà commerciale”.
Nel 1998 la Calthorpe & Associates, uno studio di architettura e progettazione urbana di Berkley, California, ha trasformato con successo uno strip mall in difficoltà a Mountain View, California, in un quartiere ad uso misto, orientato alla mobilità pedonale. Il centro commerciale è stato completamente demolito e riciclato come fondamenta per nuove case e spazi verdi.
Classe Prima, Quinto Scaffale
Uno Kmart di Charlotte le cui insegne al neon si sono spente è diventato una scuola privata, gestita dalla Mosaica Education Inc. Secondo il Direttore Michael Connelly, la k-7 Sugar Creek Charter School non è l’unica della Mosaica che sta in un big-box: la George Washington Carver Academy a Highland Park, Michigan, prima era un supermarket, e la Kalamazoo Advantage Academy un J.C. Penney.
Ma convertire negozi big-box in scuole moderne pone alcuni problemi, continua Connelly. Le scuole hanno bisogni diversi di riscaldamento e circolazione d’aria, e ci vogliono più bagni e lavandini, e dunque di solito è necessaria una grossa revisione degli impianti. La Mosaica ha anche inserito dei lucernari, per dare alle aule una illuminazione naturale.
Cheryl Ellis, direttore di Sugar Creek, non potrebbe essere più soddisfatta della sede insolita della sua scuola “È magnifica” dice. “Abbiamo aule ampie e finestre affacciate sull’atrio. Funziona alla grande”. La scuola, dopo due anni, sta crescendo, e fortunatamente ha spazio in abbondanza in cui espandersi. “Ora stiamo usando probabilmente un terzo dell’edificio” stima Ellis “potremmo aggiungere altre 15 o 20 aule”. Ma aleggia ancora la vecchia atmosfera Kmart? Definitivamente no, dice Ellis: “Quando passi la porta, questa è la scuola. Non c’è dubbio in proposito”.
Ellis afferma che i commercianti locali e i residenti sono “eccitati” dal fatto che la scuola si è trasferita lì. Ma l’analista immobiliare Tom Dwier di Reis.com, una compagnia che studia le tendenze del mercato, sottolinea come non sia ideale usare spazio commerciale per farci una scuola: nonostante una scuola possa sostenere alcune attività vicine – venditori di generi alimentari, per esempio – e impedire che i valori degli immobili precipitino, non genera certo reddito o traffico pedonale come un grosso insediamento commerciale.
In più, Dwyer dubita che molti dei defunti Kmart rimangano vuoti a lungo. “Alcuni [negozi Kmart] saranno acchiappati immediatamente, perché si tratta di ottime localizzazioni perfettamente adatte ai clienti di qualcun altro; Home Depot e Lowe’s saranno i candidati principali” dice. “Gli altri negozi invece saranno quelli difficili. Potranno rimanere lì per anni”.
Dwyer fa un parallelo fra le catene Kmart e Montgomery Ward. “Circa il 60 per cento dei negozi Montgomery Ward sono stati presi piuttosto in fretta, e non ce ne sono molti vuoti ora”. Richard Longstreth, direttore della laurea specialistica in conservazione alla George Washiongton University di Washington, D.C., ne ha pure una visione ottimistica. “Il commercio di grandi dimensioni non finirà. Anche durante la Depressione, ci fu una crescita delle grandi catene” dice. “Le strade di grande comunicazione dove stanno questi negozi si rinnovano continuamente. È solo parte del mondo fluttuante del commercio”.
Nota: è certo meno fosca del solito, la conclusione di questo articolo dal National Trust. Va comunque ricordato che lo studioso citato per ultimo, Richard Longstreth, anche nei suoi studi più noti e approfonditi sembra sempre sposare il punto di vista del commercio, piuttosto che quello del rapporto sviluppo locale/territorio/attività economiche, che forse sarebbe più completo. Almeno questa è la mia modesta e discutibilissima opinione. Qui sotto il link al sito della rivista del National Trust dove si trova la versione originale del saggio. (fb)
Bologna e Firenze sono le due città più importanti, tra quelle in cui si voterà in giugno. Ed è molto interessante che, in modo rovesciato nell'una rispetto all'altra, si faccia avanti, un po' spintonando, il tema della partecipazione, come alternativa effettiva al modo in cui le sinistre hanno governato (e perduto, come a Bologna) queste due città. Si chiama «Cantieri solidali» la lista promossa nel Quartiere 5 di Firenze dalla Comunità delle Piagge, in una periferia in cui agisce da anni don Alessandro Santoro, con molta altra gente, per ricucire «dal basso» una socialità umiliata. Il capolista è uno studente di vent'anni. Roba marginale, si dirà. E invece le Piagge sono solo uno dei rivelatori di quel che, dal Forum europeo del novembre 2002, si è andato creando in città. Non solo il Forum sociale e il Laboratorio per la democrazia, ma, ad un certo punto, il Forum per Firenze, che riuniva associazioni, partiti del centrosinistra (tutti) e singoli cittadini, si sono posti il problema di come cambiare la Firenze del traffico impazzito, dell'inceneritore gigante alle porte, del tunnel dell'alta velocità ferroviaria sotto i piedi e della privatizzazione della gestione dell'acqua, solo per citare alcuni problemi. Tanto da elaborare, in dieci tavoli di lavoro, un vero e proprio programma.
Il sindaco, Leonardo Domenici, si è tappato le orecchie. Così ora la lista «Unaltracittà - unaltromondo», che ha per candidato sindaco Ornella De Zordo, del Laboratorio per la democrazia, e che è affiancata da Rifondazione, sfida l'Ulivo. Non per mettere in dubbio la rielezione di Domenici, che peraltro sta reagendo in modo aggressivo (D'Alema ha accusato la lista di essere «un partitino» dei «professori»), ma per affermare la necessità urgente di una democrazia di tipo nuovo, con riferimento esplicito al Nuovo Municipio, la rete di amministratori, ricercatori e associazioni che promuove la «democratizzazione della democrazia» attraverso il bilancio partecipativo e altre forme di partecipazione ( www.nuovomunicipio.org).
Sergio Cofferati, candidato a sindaco di Bologna, ha guarda caso, qualche giorno fa, incontrato rappresentanti della Rete del Nuovo Municipio, e ha poi commentato: «A Bologna vanno immaginate nuove modalità di partecipazione che recuperino l'antico civismo e sappiano al contempo valorizzare le energie nuove... Ad esempio, penso che nella nostra città i bilanci amministrativi e le politiche gestionali dovranno essere costruiti con la partecipazione diretta dei cittadini. Un obiettivo che presuppone di operare su scala metropolitana, per un verso, e dall'altro sulla base di municipi pensati come nuova dimensione e identità del quartiere... una dimensione che favorisca la partecipazione e costruisca senso di comunità».
Queste parole saranno da ricordare, certo, quando Cofferati sarà sindaco. Ma che non nascono dal nulla. Per citare solo due esempi, il gruppo di urbanisti che si chiama Compagnia dei Celestini da anni lavora a un'idea di città non imposta dal mercato e co-progettata dai cittadini (e uno dei Celestini, Marco Guerzoni si candida al comune); e la Camera del lavoro, guidata da Cesare Melloni, ha assunto, nell'assemblea programmatica del gennaio scorso, le proposte del Nuovo Municipio.Molti altri casi di questo tipo esistono, e su Carta li stiamo esplorando. Come la lista NoTav, in Val di Susa, resa necessaria dal fatto che tutti i partiti sono a favore del demenziale tunnel dell'alta velocità che distruggerebbe la valle; o il centrosinistra che, alla Provincia di Milano, comprende in sé le molte esperienze di partecipazione dei comuni dell'hinterland, come Pieve Emanuele; o il «programma partecipato» assunto dalla candidata di Arezzo, che prevede la ri-pubblicizzazione dell'acquedotto, tra l'altro.
Insomma, il «candidato» da votare è il Nuovo Municipio, per essere contro Berlusconi, sì, ma senza tapparsi il naso
L’ha promesso, una di queste sere Berlusconi tornerà a “Porta a porta” per parlare di grandi opere. Fu proprio lì, nel 2001, che disegnò su una lavagna la mappa delle sue mirabolanti promesse: strade, ferrovie, ponti, metropolitane, l’Italia sarebbe diventata tutta un grande cantiere. Tornerà da Vespa e racconterà, naturalmente, di aver fatto miracoli. Intanto ne parla dappertutto: “Il governo è assolutamente in anticipo rispetto alle previsioni. Avevamo previsto di realizzare entro la legislatura il 40% di 125 miliardi di euro di investimenti. Abbiamo già attivato opere per 48 miliardi di euro di investimenti e 20 miliardi di opere sono già cantierati”, aveva detto alcune settimane fa. Nelle dichiarazioni di ieri è andato oltre: “Abbiamo aperto cantieri per 40mila miliardi e ne apriremo entro l'anno per altri 60mila”.
Fantastico. Nei manifesti affissi sui muri, intanto, converte gli euro in lire per fare ancora più effetto: “Grandi opere attivate per 93mila miliardi”.
Come stanno dunque le cose? Davvero almeno su questo punto il centrodestra sta rispettando il famoso "contratto con gli italiani?" Bastano pochi dati per dimostrare che siamo di fronte ad un gigantesco imbroglio.
Primo dato: gli investimenti nel bilancio dello Stato per le opere pubbliche, piccole e grandi, si stanno riducendo. Dopo il crollo della prima metà del decennio scorso, dal '96 al 2001 con l'Ulivo si era avuta una buona ripresa, con un incremento medio annuo del 10,6%. Dal 2001, invece, con il centrodestra, il trend di crescita si interrompe: nei primi due anni la riduzione è stata circa del 15%, quest'anno del 13%. Particolarmente gravi i tagli in alcuni settori: dimezzati i finanziamenti per la difesa del suolo e la prevenzione di frane ed alluvioni, ridotti drasticamente quelli per le città ed il trasporto pubblico locale, per l'edilizia scolastica, per acquedotti e depuratori.
Il secondo dato è quello sui finanziamenti per la realizzazione delle cosiddette grandi opere della legge obiettivo. Erano state promesse circa 270 opere, per un costo totale di 125 miliardi di euro. Ma sono stati finanziati, ad oggi, appena 5,1 miliardi (peraltro attraverso limiti di impegno di spesa, cioè indebitandosi per 15 anni). E bene che vada, da qui al 2006 si arriverà a 9 miliardi. Niente, in confronto a quanto sarebbe necessario. Se fate due conti vi accorgerete che di questo passo il piano delle grandi opere sarà completato nel 2079. Niente male, no? Fate poi attenzione a quella parolina - investimenti attivati - che viene utilizzata per il gioco delle tre carte. "93mila miliardi di lire attivati", dice Berlusconi: ma questo è il costo finale delle opere, non il totale dei soldi stanziati e disponibili, che come abbiamo visto è di gran lunga più basso. Per capirci: è come se uno, desiderando tanto una Ferrari ma non avendo i soldi per comprarla, acquista lo specchietto e va al bar vantandosi con gli amici di aver "attivato" l'acquisto dell'auto. Il governo ha lo specchietto: gli manca tutto il resto. Serve una conferma? Eccola: dopo tre anni gli unici due cantieri già aperti, tra le opere della legge obiettivo, sono quelli per la terza corsia su 18 km del raccordo anulare di Roma (deciso e in larga parte finanziato all'epoca del centrosinistra) e per un lotto di 28 km sulla Salerno Reggio Calabria (proseguendo i lavori avviati dal precedente governo su 215 km.) Tutti gli altri cantieri ad oggi aperti in Italia, compresi dunque quelli che il capo del governo visiterà nel corso della campagna elettorale, sono cantieri di opere decise, finanziate ed avviate dal precedente governo.
Rischiamo di ritrovarci dunque, alla fine della legislatura, in un paese nel quale forse sarà stata messa la prima pietra di qualche opera di forte valore simbolico e di grande impatto comunicativo - come il Ponte sullo stretto di Messina, un'opera non prioritaria per il Sud che ha bisogno anzitutto di completare la rete autostradale, modernizzare la rete ferroviaria, garantire l'acqua a tutti i cittadini - per cercare di nascondere agli italiani il fallimento del governo. Ma sarà un paese con un sistema dei trasporti ancora più inadeguato e squilibrato, un territorio ancora più indifeso e fragile.
Quando torneremo a governare, dunque, troveremo i problemi irrisolti, se non addirittura aggravati.
E dovremo fare i conti con una situazione di risorse non illimitate. Certo, si dovrà riattivare un trend di crescita degli investimenti pubblici, utilizzare tutte le potenzialità del project financing e dei finanziamenti europei. Ma le risorse saranno comunque limitate. Anche per questa ragione si dovrà tornare ad una corretta programmazione degli investimenti - che errore imperdonabile, per il centrodestra, aver cancellato il Piano dei Trasporti! - e selezionare le opere più utili ed urgenti. Riequilibrio modale, ferrovia, sicurezza stradale, autostrade del mare, trasporto pubblico nelle città: sono queste le priorità, se si vuole garantire il diritto alla mobilità senza far deflagrare gli equilibri ambientali. Insieme agli investimenti per la difesa del suolo e la cura del paesaggio, per la riqualificazione delle aree urbane, per le reti idriche, rappresentano gli obbiettivi essenziali di un programma di modernizzazione ecologica del sistema infrastrutturale che il centrosinistra dovrà proporre al paese. A dividerci dal centrodestra, insomma, non è solo la critica delle promesse non mantenute, ma anche una visione profondamente diversa delle politiche per le infrastrutture ed i lavori pubblici. Diradato il fumo delle bugie e delle promesse mancate, da qui si dovrà ripartire.