ROMA - Il governo contro cinque regioni, accusate di «aver sabotato» la legge sul condono edilizio che rischia così di far fallire la raccolta di 2 miliardi di euro messi in bilancio nella Finanziaria per finanziare il taglio delle tasse. Il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari regionali, Enrico La Loggia, ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale le norme relative ai condoni edilizi di cinque regioni: Lombardia e Veneto (governate da una maggioranza di centrodestra), Marche, Umbria e Campania (governate dal centrosinistra).
PRONUNCIA DEL 28 GIUGNO - La Consulta si era già pronunciata il 28 giugno affermando che la collaborazione degli enti locali è «obbligatoria e doverosa» nei confronti dello Stato considerati i motivi prevalenti della finanza pubblica, ma il testo di legge andava reso compatibile con le competenze di Regioni e Comuni in materia urbanistica e reso più rispettoso della tutela del paesaggio e dell'equilibrato sviluppo urbanistico: lo Stato non può escludere il potere delle Regioni di articolare e specificare la legislazione statale mediante proprie leggi.
LA LOGGIA: «SVUOTATO IL SENSO DELLA LEGGE» - «Aver ridotto al minimo la possibilità di sanare eventuali irregolarità ha svuotato di significato la legge nazionale», ha accusato il ministro per gli Affari regionali, Enrico La Loggia. «Si configura un' interferenza rispetto all'orientamento emerso dallo Stato. Le altre regioni hanno fatto le loro valutazioni, ma non sino al punto da quasi annullare la legge statale. Se la legge dello Stato stabilisce che si possono sanare 100 metri cubi e la regione ne prevede solo dieci, si svuota di significato la norma. Altro è prevedere di poterne sanare 60-80».
LEGAMBIENTE: « ATTACCO AD AUTONOMIA REGIONI» - Per Roberto Della Seta, presidente di Legambiente, la maggioranza «straparla di federalismo, quando poi alcune regioni tentano di limitare i danni prodotti dal condono edilizio, il Consiglio dei ministri decide di impugnare i provvedimenti. È molto grave che il governo, dopo aver varato il condono edilizio più vasto di sempre, insista nel trasmettere agli italiani il messaggio che la legalità è un optional. La sanatoria ha già fatto ripartire alla grande l'abusivismo».
«Mi auguro che la Consulta non accolga il ricorso e sventi così una proroga mascherata che si avrebbe con la riapertura dei termini del condono edilizio», ha affermato Fabrizio Vigni (Ds), capogruppo nella commissione Ambiente alla Camera.
«L'esecutivo non si rassegna al flop degli incassi, e tenta il ricorso alla Corte costituzionale per arrivare a una proroga», ha detto Sauro Turroni (Verdi), vice presidente della commissione Ambiente del Senato.
ESPOSTO ALLA PROCURA - Il capogruppo dei Verdi alla Regione Lazio, Angelo Bonelli, ha presentato un esposto alla procura di Roma per chiedere l'apertura di un'indagine sulle domande di condono edilizio a Roma, circa 90 mila, più o meno la metà di quelle presentate in tutta Italia.
BUSH e Blair hanno sintetizzato i contenuti del loro primo incontro dopo la vittoria elettorale (di Bush) con due affermazioni destinate a rassicurare i loro rispettivi popoli e anche il resto del mondo: in Iraq si sono fatti sostanziali progressi verso la pace e la democrazia anche se probabilmente la violenza nei prossimi mesi aumenterà ancora; in Medio Oriente, dopo la morte di Arafat, riprenderà il negoziato tra Israele e i palestinesi con l´obiettivo di far nascere lo Stato di Palestina nel 2008.
La prima affermazione è menzognera, la seconda è possibile ma non probabile. Il nuovo Stato palestinese, stando alla road map varata nel 2002 e arenatasi dopo pochi mesi, avrebbe dovuto veder la luce nel 2005.
L´obiettivo è stato spostato in avanti di tre anni. L´ostacolo Arafat è stato rimosso dalla natura (salvo eventuali risultati dell´autopsia, semmai si farà, che dovessero provare che la natura è stata "aiutata") ma si tratta ora di vedere se la successione alla guida dell´Autorità palestinese sarà sufficientemente flessibile e riuscirà a far cessare l´intifada e gli attentati, come chiede Sharon prima di riaprire le trattative, oppure no. E fino a che punto Bush potrà e vorrà moderare la linea dura del premier israeliano.
Ricordo a questo proposito che subito dopo l´attentato alle Torri gemelle, l´11 settembre del 2001, il presidente americano e il suo fedele alleato britannico posero al primo posto della loro agenda antiterroristica la soluzione del conflitto palestinese. Ma pochi mesi dopo l´agenda era già cambiata: al primo posto balzò la guerra afgana e subito dopo quella irachena mentre la road map finì nel cestino dei rifiuti. Oggi si riparte da zero, con il sollievo dell´assenza forzosa di Arafat, tre anni perduti, un carico innumerevole di vittime, un deposito di odio e di violenza centuplicato. E la guerra irachena ancora e sempre più drammaticamente in corso.
In queste condizioni non c´è alcun rapporto tra le ottimistiche dichiarazioni di Bush e di Blair e la cruda realtà dei fatti.
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La battaglia di Falluja è praticamente finita ieri sera, dopo cinque giorni di furiosi combattimenti preceduti da bombardamenti "mirati" effettuati da bombardieri B52, da cacciabombardieri e da folte squadre di elicotteri, sei dei quali sono stati abbattuti dagli insurgents (il termine è quello usato correttamente dai comandi Usa).
Stando ai predetti comandi i caduti americani sarebbero una trentina, i feriti più di un centinaio, gli insurgents rimasti sul terreno circa mille.
I capi nemici insieme al grosso degli insorti sono sfuggiti per tempo fin dal primo giorno di battaglia.
Di vittime civili non si parla. Nessuna? Centinaia? Migliaia? Non se ne sa nulla perché i comandi Usa su questo delicatissimo tema hanno calato fin dall´inizio una coltre di assoluto silenzio. Giornalisti in campo non ce n´era nessuno. Pochissimi embedded, cioè affidati alle cure degli uffici stampa militari nelle retrovie e strettamente diffidati di inoltrarsi e verificare direttamente i dati e i fatti.
Osservatori dell´Onu totalmente assenti. Altrettanto assenti la Croce Rossa internazionale e Amnesty. Verità sigillata. Eppure il tema è essenziale e dovrà in qualche modo venire alla luce: quante sono state le vittime civili nella battaglia di Falluja e quante in tutto l´Iraq dall´inizio della guerra in poi? È mai possibile che la più grande democrazia del mondo e il suo alleato britannico abbiano sequestrato in modo così totale la verità dei fatti?
Qualche spiraglio è comunque emerso. Lasciamo pure da parte l´inchiesta condotta da due agenzie di analisi demografiche, una americana e l´altra svizzero-inglese, che qualche settimana fa arrivarono alla conclusione di centomila iracheni caduti dall´inizio della guerra. Era frutto di comparazioni statistiche sui dati disponibili dello stato civile del Paese e non di verifiche sul campo.
Ma a Falluja erano rimaste in città da 50 a 80 mila persone, tra cui almeno la metà composta di donne vecchi e bambini. La Mezza Luna Rossa ha lanciato due giorni fa (terzo giorno di battaglia) un appello disperato affermando che cinquantamila civili erano a rischio di vita a causa degli stenti, mancanza d´acqua, di medicine, blocco totale degli ospedali e dei posti di pronto soccorso. Impossibile prestare cura alle centinaia di feriti. Impossibile far affluire cibo, medicine ed équipe mediche poiché i cordoni militari attorno alla città impedivano l´entrata dei soccorsi. La Mezza Luna Rossa, diceva quell´appello, aveva comunque organizzato un convoglio di tre camion guidati da un medico iracheno in partenza da Bagdad e diretto a Falluja, che avrebbe tentato di entrare nella città sperando che i comandi Usa l´avrebbero permesso.
L´appello, rilanciato da alcune agenzie di stampa internazionali e ripreso da pochissimi giornali, è stato completamente ignorato dalle nostre emittenti Rai e Mediaset. Comunque dopo l´altro ieri non se n´è più saputo niente né risulta nulla dagli ospedali di Falluja e dai pochi medici rimasti nella città, la quale per altro è in gran parte ridotta ad un cumulo di macerie.
Fino a quando il popolo americano, quello europeo e i Paesi arabi e musulmani tollereranno un così vergognoso sequestro di informazioni e di verità? Fino a quando l´Onu resterà anch´essa inerte e silente? Intanto Bagdad è un inferno, Mosul (la terza città dell´Iraq dopo la capitale e dopo Bassora, con 2 milioni di abitanti) è caduta sotto il controllo degli insurgents, in tutte le città del triangolo sunnita gli attentati si susseguono e la guerriglia infuria soprattutto contro la polizia e la guardia nazionale irachene. Segni di nuova insorgenza emergono anche a Kerbala e a Najaf, la città santa sotto il controllo sciita dell´ayatollah Al Sistani.
Progressi sostanziali? Elezioni a gennaio? Il premier provvisorio, Allawi, ha decretato il coprifuoco di sessanta giorni in tutto il Paese; dovrebbe dunque scadere ai primi di gennaio. Come si potrà organizzare in regime di coprifuoco e in presenza di una guerra civile che miete vittime in tutto l´Iraq centrale, una campagna elettorale? Almeno un simulacro di campagna elettorale? Le liste degli aventi diritto al voto? I seggi e gli scrutatori? I comizi? Le liste dei candidati? Di tutto ciò nessuno parla, ma il grottesco della situazione sta nel fatto che anche su questa delicatissima questione nessuno pone domande. Non c´è un giornale, un´emittente televisiva, un´organizzazione internazionale, Onu, Unione europea, Lega Araba, nessuno che ponga domanda.
L´Italia è potenza occupante a tutti gli effetti, con tremila uomini sul terreno. Ha quindi titolo per porre queste domande al governo provvisorio iracheno. Ma non lo fa. Se ne guarda bene. Allawi ieri è arrivato di sorpresa a Nassiriya per salutare il nostro contingente. Ha comunicato che la nostra presenza è utilissima e indispensabile e che durerà ancora a lungo anche dopo le elezioni. Saluti e baci e se n´è andato. Domande? Naturalmente nessuna.
Martino, Pera, Casini, lo stesso Berlusconi, a intervalli relativamente frequenti a ridosso di elezioni nostrane, arrivano, mangiano il rancio e ripartono. Domande? Alcuna.
Delle elezioni irachene, delle vittime irachene, delle città irachene bombardate, della ricostruzione nelle zone passabilmente pacifiche, il Sud sciita, il Nord curdo, nessuno sa nulla. È fantastica questa noncuranza.
Questa cinica indifferenza.
Progressi sostanziali. Dunque Bush sa e Blair sa. Ma non vanno al di là del sostantivo "progresso" e dell´aggettivo "sostanziale". Qualche cifra? Qualche cenno geografico? Una specifica dei lavori in corso? Il silenzio è d´oro.
Forse le informazioni sono ammassate a Fort Knox, insieme ai lingotti d´oro della Federal Reserve. Evviva la trasparenza, evviva la democrazia.
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Israele. I palestinesi. Il futuro Stato di Palestina.
Sharon è pronto a riprendere i negoziati di pace. Arafat è morto.
Ricominciamo. Nel frattempo ritirerà (ci riuscirà?) settemila coloni dagli insediamenti ai bordi della Striscia di Gaza. Unilateralmente, cioè senza discuterne con l´Autorità palestinese. Gaza resterà un immenso campo profughi di oltre duecentomila anime (anime si fa per dire) in mezzo al deserto, con Israele a Est e l´Egitto a Ovest.
In Cisgiordania i coloni di Israele sono oltre duecentomila. In via di ulteriore espansione. L´esercito di Israele vigila, ovviamente, sulla loro sicurezza. Il muro la cui costruzione continua li circonda e li include. A zigzag, come le spire d´un gigantesco pitone. Quello che resta fuori dal muro dovrebbe essere il territorio del nascente Stato palestinese. Gaza? Sta laggiù, un po´ più avanti verso destra. Non comunicante.
Bene. Sharon è comunque pronto a riprendere in mano la road map ma, ovviamente, a condizione che l´Autorità palestinese abbia prima disarmato o comunque rese inoffensive la fazioni armate, Hamas, Jihad palestinese e le brigate di Arafat, cioè i terroristi che hanno preso il nome del raìs scomparso, braccio armato di Fatah.
Gli osservatori e i giornalisti embedded (ormai abbondano dovunque e chi non è embedded peste lo colga) sostengono che la transizione da Arafat ai suoi successori è avvenuta con meravigliosa rapidità e generale concordia. Affermano anche che è in crescita Abu Mazen, il moderato che firmò la road map due anni fa ma poi dovette dimettersi per dissensi col raìs ancora vivo e vegeto. Con ogni probabilità sarà lui a guidare il suo popolo, fazioni armate comprese, verso la pace.
Anche noi lo speriamo. Gli israeliani sono stanchi, i palestinesi ancora di più. La pace la vogliono tutti. Forse è la volta buona. Si odiano ancora? Sì, si odiano più che mai. La pancia dei due Paesi odia l´altra. Alcune élite predicano la reciproca fratellanza, ma appunto sono élite.
Certo, se Abu Mazen, Abu Ala, i moderati, i ragionevoli, crescono in prestigio e popolarità, forse ce la faremo. Il primo è il capo dell´Olp, cioè dell´organismo che raccoglie tutti i partiti palestinesi. Il secondo è il primo ministro del governo provvisorio. In teoria hanno già in mano la piena rappresentatività istituzionale; debbono solo vedersela confermata dalle elezioni che si terranno anch´esse - vedi caso - ai primi di gennaio insieme a quelle irachene. Sempre che Sharon consenta che si svolgano, perché adempiere alle procedure pre-elettorali ed elettorali se Israele non lo consentisse è impensabile dato il frazionamento del territorio, i posti di blocco, i coloni, eccetera eccetera. E il terrorismo e la rappresaglia antiterrorista. Se non fosse drammatico anzi tragico, bisognerebbe qui ricordare l´antica filastrocca: dimmi tu chi è nato prima sarà l´uovo o la gallina? Così tra terrorismo e rappresaglia: l´uno si vendica dell´altra e viceversa, in un ciclo infinito, in un eterno ritorno dell´eguale.
Però, oltre ad Abu Mazen capo dell´Olp, nel nuovo triumvirato istituzionale installato dopo la morte di Arafat c´è anche un terzo personaggio. Si chiama Farouk Kaddumi, cui è stata consegnata (o si è preso) la guida di Fatah.
Kaddumi vive da undici anni a Tunisi, non ha mai approvato gli accordi di Oslo e tutto ciò che ne è seguito e non seguito. È intransigente. Non procederà senza l´accordo di Hamas e della Jihad. D´altra parte, allo stato dei fatti, è il solo che possa convincere questi due gruppi non diciamo a deporre le armi ma a farle tacere per consentire il negoziato. A certe condizioni. Quelle di Kaddumi non sono quelle di Abu Mazen.
Al Fatah è il maggior partito palestinese. Diciamo che rappresenta il 95 per cento dell´Olp. L´Olp senza Fatah è una scatola vuota. Se guardiamo alle cariche istituzionali, l´uomo forte non è Abu Mazen ma Farouk Kaddumi. È anche quello che ha in mano i soldi di Arafat, a parte i dollari rimasti alla vedova.
C´è un quarto personaggio, ancora più popolare di Kaddumi tra i palestinesi arrabbiati, ed è Marwan Barghuti, che sta da un anno nelle prigioni di Israele condannato cinque volte all´ergastolo. Potrebbe anche candidarsi al ruolo di presidente dell´Autorità palestinese. Potrebbe essere eletto. Che succederebbe in quel caso? Il successore di Arafat eletto dal popolo in prigione a vita nelle carceri di Israele? È difficile che avvenga perché i palestinesi sono stanchi. Ma vedete bene che il rebus resta un rebus anche dopo la morte del raìs, anzi è più rebus di prima.
Certo, se Bush batterà il pugno... Se imporrà a Sharon... Se inonderà di dollari Gaza e i sindaci della West Bank... Se minaccerà e magari manderà una forza d´interposizione.... Se le Chiese evangeliche lo sproneranno... Se i neo-con gli suggeriranno... Se Blair...
No, Blair no. Blair non conta più niente. Sta con le sue truppe a Bassora e non se ne può andare se non insieme a Bush. Se se ne andasse prima dovrebbe far fagotto il giorno dopo abbandonando Downing Street.
Perciò Blair è il fox-terrier di Bush o poco più.
Blair nella vignetta di Andy Davey
POVERA Costituzione. L'Ulivo l'aveva "sporcata", con una riforma del titolo V che ha creato il primo cortocircuito tra Stato e regioni. In queste ore il Polo sta facendo molto di peggio. La sta riducendo a un meschino baratto. La sta svilendo a un truce commercio di ricatti incrociati e di vendette trasversali. Il segno tangibile di questa miseria politica e giuridica, che richiede il milionesimo "vertice notturno" a Palazzo Grazioli, è il no con il quale An, ieri pomeriggio, ha respinto l'articolo 24 del pacchetto sulle riforme istituzionali, quello che riscrive i poteri di firma e controfirma del presidente della Repubblica. Secondo la nuova formulazione dell'articolo 89 della nostra Carta del 1948, tutti gli atti del Capo dello Stato devono essere controfirmati dai ministri proponenti.
Ma il nuovo testo prescrive alcune eccezioni. Tra queste, c'è anche il provvedimento di concessione della grazia, che il presidente può concedere indipendentemente dalla proposta e dalla controfirma del Guardasigilli. Il motivo per cui Alleanza nazionale ha votato contro la sua stessa maggioranza, rompendone il già precario equilibrio e facendo infuriare il leghista Calderoli che ora ripete "o si chiude entro la settimana o mi dimetto", l'ha spiegato con brutale candore il ministro delle Comunicazioni Gasparri: "Fa molto male la Lega ad essere irritata: quell'articolo, bocciato, avrebbe consentito a un Capo dello Stato qualunque di concedere la grazia a Sofri senza il parere del governo. Votando contro quest'articolo, lasciamo nelle mani di Castelli il potere di fare rimanere Sofri in carcere".
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Il disegno di legge sulle riforme impastrocchiato dal Polo è dannoso per mille aspetti. Tra una devolution disgregativa e niente affatto federativa, e un premierato assoluto che non esiste in nessun Paese del mondo, prefigura quella che Giovanni Sartori ha chiamato la "Costituzione incostituzionale". Ma al di là dei già allarmanti risvolti generali, a risultare agghiacciante è proprio questa disinvolta strumentalizzazione di ogni singolo aspetto delle riforme. È una norma-cardine, quella sulle prerogative del Capo dello Stato, che il progetto dei sedicenti "saggi di Lorenzago" ha già azzerato a tutto vantaggio del potere cesarista del "primo ministro" e ridotto a un livello intollerabile per una repubblica parlamentare. Questa norma, ora, viene usata da un partito della coalizione per due bassi motivi "congiunturali" che, con la dialettica "strutturale" del pluralismo istituzionale e del bilanciamento dei poteri, non c'entrano assolutamente nulla.
Il primo motivo è bieco, ma è nascosto: forse An ha voluto restituire, sulle riforme tanto care al Carroccio, lo stesso sgambetto che la Lega gli aveva fatto, una settimana fa, sulla Finanziaria. È un bel modo per regolare i conti interni a un'alleanza: scaricarne i "costi" sulle istituzioni. Il secondo motivo è forse ancora più bieco, ed è palese: An non vuole che una singola persona esca dal carcere, quindi ritiene normale modificare per questo un sistema di precetti generali che riguardano e devono riguardare tutte le persone. Si può essere o no d'accordo nel merito (se sia giusto o meno che Adriano Sofri torni libero, questione sulla quale nei mesi scorsi il partito di Fini si è esercitato comunque con improprio livore). Quello che stupisce, e francamente preoccupa, è il metodo. Lo stesso già collaudato per le Cirami, e per le leggi sulle rogatorie o sul falso in bilancio.
La Costituzione è la casa di tutti gli italiani. È la Bibbia laica dei diritti individuali e collettivi, dell'uomo e del cives. È il libro delle regole che sovrintendono la democrazia, delle istituzioni che la incarnano, dei poteri che la applicano. È un edificio etico-normativo nel quale devono poter convivere leggi, costumi, culture e identità di un popolo. Questo non significa che una Costituzione sia immutabile. Non lo è neanche la nostra Carta del ?48, che non va difesa a priori, in nome di un conservatorismo istituzionale anacronistico e insensato. Ma una Costituzione deve essere coerente, e deve poter durare nel tempo. Deve poter riflettere i cambiamenti, emendandosi ma non snaturandosi.
Il centrodestra al potere, invece, sta facendo esattamente questo. Sta snaturando il regime costituzionale. Sta trasformando la casa di tutti gli italiani nel "mercato rionale" dei partiti della maggioranza. Forza Italia, partito personale di Silvio Berlusconi, vuole la repubblica presidenziale ritagliata a misura del Cavaliere? Va al mercato delle riforme, e se ne prende un pezzo. La Lega, partito di secessione e di governo, esige la devolution? Va al mercato delle riforme e se ne prende un altro pezzo. An, partito dell'ordine e della disciplina, pretende il premierato e rifiuta la grazia a Sofri? Va al mercato delle riforme, e se ne prende altri due pezzi. L'Udc prova a contenere i danni del mercanteggiamento costituzionale, fa bene dopo la bocciatura dell'articolo 245 a dire "adesso va rivisto anche il premierato", ma non può fare molto di fronte ad appetiti politici così famelici degli alleati.
Dov'è, in tutto questo, l'interesse generale? Dove sono i principi supremi, ai quali i governi di qualunque colore o i Parlamenti di qualunque maggioranza, alternandosi nel corso lungo degli anni, dovrebbero fare riferimento? Dove sono quelle che i padri del grande diritto germanico chiamerebbero le "grund-norm" del sistema, destinate a sopravvivere al continuo avvicendarsi delle legislature? Nel "pacchetto" della Cdl non c'è niente di tutto questo. C'è solo la voglia, insieme bonapartista e peronista, di prendersi le istituzioni come se fossero una merce. Insieme a quei 50 articoli stravolti e riscritti, c'è la convinzione di "comprare" interi scampoli di potere. E l'illusione di "acquistare" una garanzia sulla durata della propria avventura politica. Berlusconi ha ragione quando confessa di non avere "il senso dello Stato". Ma mente quando afferma di avere "il senso dei cittadini". Non ha neanche quello. Ha solo il senso di se stesso. E come conferma la sua gestione al tempo stesso dittatoriale e paternalistica dei dissidi interni al Polo sulle riforme, è ancora convinto che il destino della nazione coincida con il suo. L'unico precedente di una formula costituzionale di "governo del primo ministro" risale al Ventennio di Benito Mussolini. Sicuramente è solo un caso. Ma non è un bel caso.
Il primo kamikaze che la storia ricordi è un ebreo di nome Sansone che si suicidò esclamando «Muoia Sansone con tutti i filistei!» e fece crollare il tempio dove era riunito il popolo dei suoi nemici ( Giudici, 13 -19). Morirono in tremila: tanti quante le vittime delle Twin Towers. I filistei abitavano il paese che da loro prende il nome di Palestina e già allora erano in guerra con le tribù di Israele che avevano invaso il loro territorio: una guerra costellata di massacri benedetti da Yahweh, un dio tutt'altro che misericordioso, a cui peraltro si rifanno anche cristianesimo e islam. E' però semplicistico identificare gli antichi filistei con gli attuali palestinesi, che erano, per lo meno fino all'esplosione del conflitto arabo-israeliano, solo una delle tante componenti di una più ampia comunità araba mediorientale; o identificare le tribù dell'Israele biblica con gli attuali cittadini dell'omonimo stato; o addirittura con la comunità ebraica, che, nella sua componente askenazita, discende, secondo Arthur Koestler, dalla popolazione caucasica dei kazari, che, a differenza degli arabi e degli ebrei sefarditi, non ha nemmeno radici semitiche (pur essendo stata la vittima principale dell'antisemitismo). Come sarebbe arbitrario - lo aveva fatto notare Gregory Bateson - identificare gli italiani con i cittadini dell'antico impero romano, il cui governatore della Palestina mise a morte Gesù Cristo nell'anno 33 dell'omonima era. Invocare gesta di improbabili antenati di due o tremila anni fa per legittimare scelte dell'oggi è una manomissione: ogni essere umano che nasce è una pagina bianca che non può portare il fardello di scelte fatte o subite dai suoi predecessori. Per questo gli insediamenti ebraici in Palestina non sono una riedizione dell'esodo mosaico verso la «Terra promessa», ma la fuga da un'Europa che aveva sterminato o non aveva difeso la componente più vitale della propria civiltà; la resistenza palestinese non è la riedizione della guerra scatenata millequattrocento anni fa da Maometto, ma una lotta per la sopravvivenza di un popolo di cui si è negata l'esistenza per lavare, a spese degli arabi, colpe europee. E la presenza del Vaticano in Italia non è un castigo per il supplizio inflitto a Cristo dai romani, ma un accidente della storia umana, come l'Himalaya è un accidente della tettonica terrestre. La storia non è che quell'immenso cumulo dei detriti contemplato dall'angelo di Benjamin; e l'unica parte con cui identificarci e cercare di riscattare è quella dei vinti, a qualsiasi popolo appartengano. Tra le guerre e le opzioni morali o le appartenenze etniche, religiose o culturali con cui si cerca di legittimarle occorre sempre interporre il lavorìo della ragione: il dialogo e la mediazione tra posizioni contrapposte. Una raccomandazione d'obbligo, in particolare, di fronte a un fenomeno apparentemente nuovo (in realtà assai antico: prima ancora degli aviatori giapponesi che hanno dato il nome al ruolo, annovera, tra gli altri, il nostro Pietro Micca, cui sono dedicati vie e monumenti) come i «kamikaze»: combattenti che si suicidano per sterminare il maggior numero di «nemici» o presunti tali: oggi per lo più - perché è più facile, o più efficace nel seminare terrore - tra la popolazione civile. Da un punto di vista morale il kamikaze e chi lo recluta non sono né più né meno odiosi del pilota che sgancia una bomba atomica, o una bomba a frammentazione, o una bomba intelligente (il più infame degli ossimori) sulla popolazione civile; o di chi le produce, progetta, «legittima» o ci fa su dei profitti.
Certo: la scelta del primo richiede un contatto diretto con le proprie vittime, la possibilità di incrociarne lo sguardo, e lascia dietro di sé un panorama di membra disperse, pozze di sangue e corpi straziati che il kamikaze non vede - ma certamente immagina - perché scompare con la loro comparsa. Mentre gli «operai» della bomba atomica e delle altre armi di sterminio a molti di noi fanno meno orrore perché il contatto diretto con le vittime non c'è. Si uccide a distanza: non solo quella dei chilometri che separano il velivolo o la base di lancio dal bersaglio, ma anche quella interposta dalla divisione del lavoro tra chi progetta o specula sulle bombe e chi fa il lavoro sporco di lanciarle. Tuttavia dal punto di vista militare le posizioni di chi utilizza kamikaze e di chi sgancia bombe si sono avvicinate parecchio: con il kamikaze ha fatto la sua comparsa una nuova arma, contro cui gli strumenti tradizionali della polizia e della guerra sono tanto più inefficaci quanto più sono potenti. Non si tratta infatti di gesti isolati, ma di veri e propri arsenali comparsi sì in Palestina, ma ormai diffusi a livello mondiale: migliaia di adepti che le avventure belliche di Bush e Putin e le rappresaglie di Tsahal non fanno che moltiplicare.
Ci manca in realtà un approccio meno superficiale alle «ragioni» dei contendenti: non riusciamo a capire - a fare nostre, a con-prendere: che non vuol certo dire approvare - i pensieri, le pulsioni o i ricatti che spingono un uomo o una donna nel pieno della loro esistenza - ancorché, ma non sempre, misera - a sacrificare se stessi per seminare morte e sterminio a caso; e per questo non abbiamo strumenti per combattere queste armi sul loro terreno. Aveva ragione Ida Dominjanni ( il manifesto, 20.01.04) che vedeva nell'attenzione per le biografie individuali dei «martiri» l'unica strada percorribile (ed è questo, tra l'altro, ciò che aveva probabilmente spinto Enzo Baldoni in Iraq). Ma quell'attenzione, per suonare autentica, dovrebbe essere estesa alle biografie di tutta la popolazione che costituisce il milieu dove una scelta del genere è ormai diventata normalità (compresa la componente di coercizione, plagio e infamia presente nel mandare al «martirio» in «conto terzi» bambini, «donne compromesse» e disabili mentali). Un'attenzione per i recessi dell'anima per esplorare i quali la cultura ebraica è forse attrezzata più di ogni altra, ma di cui la politica dello stato di Israele rappresenta invece la negazione più radicale. Viceversa, capiamo fin troppo bene (perché, in fondo, le con-dividiamo) le ragioni che spingono uomini e donne con la nostra stessa cultura a costruire, usare o minacciare di usare armi nucleari, bombardamenti tutto fuorché «intelligenti», o forme vecchie e nuove di apartheid. E' la «banalità del male» - cioè la de-responsabilizzazione morale sul lavoro, nel consumo, in famiglia - che abbiamo interiorizzata e fatta nostra in tutti i momenti della vita quotidiana. Conviviamo serenamente con istituzioni come Los Alamos (bomba atomica) o Fort Bragg (terrorismo di stato) e le loro infinite repliche nel pianeta; che sono anch'esse «madrasse» dove si fabbrica buona parte dell'orrore in cui siamo immersi; e di cui la prigione di Abu Ghraib (non a caso condivisa, nei locali e nei metodi, dagli opposti contendenti) è una non casuale manifestazione. Se tutte le volte che sentiamo giustificare il possesso di armi di sterminio - quale che sia il governo che le detiene: non solo Iran o Corea del Nord; ma anche Stati Uniti, Francia, Cina, Israele, ecc - o la segregazione di un popolo; o il suo silenzioso sterminio; o la cacciata e l'affondamento di profughi ammassati su una «carretta del mare», ci indignassimo, anche e soprattutto contro noi stessi, con altrettanto vigore di quello che proviamo di fronte ai kamikaze e ai loro mandanti, forse non saremmo arrivati a questo punto. Ma possiamo sempre provarci.
Le statistiche, si sa, vanno interpretate e così i numeri che le compongono e che per loro natura dovrebbero rappresentare realtà oggettive si trasformano invece in soggettive aspettative. In una società esposta all’influenza dei "media" questa soggettività dei numeri diventa dominante e accresce l’instabilità e l’insicurezza dell’insieme.
Il rapporto del Censis diffuso l’altro ieri documenta questa condizione di fragilità e di mutevolezza del paese: una condizione peraltro analoga a quella riscontrabile in tutta Europa, società ricche ma stagnanti, immemori del passato, immerse nel presente, timorose del futuro. E anche profondamente contraddittorie. Per certi aspetti addirittura schizofreniche.
Ricordate uno degli slogan che nel Sessantotto ebbe maggiore eco e popolarità? Tutto e subito, reclamavano i giovani di allora. Ma a chi indirizzavano questa imperativa richiesta? Non allo Stato che volevano abbattere, non ai partiti che disprezzavano, non alla famiglia di cui svelavano le antiche ipocrisie, non alla scuola alla quale avevano tolto fiducia. Neppure alla religione cui avevano cessato di credere.
In realtà non era neppure una richiesta. Era un sogno che, come la maggior parte dei sogni, non si avverò per la semplice ragione che non poteva avverarsi. Il "tutto e subito" è una solenne e infantile sciocchezza che tuttavia si tramanda di generazione in generazione. La differenza dell’oggi sta nel fatto che quel sogno non è più soltanto appannaggio della gioventù ma è diventato un sentimento che pervade la società intera. Nei giovani poteva rappresentare una spinta per conquistare il futuro, ma diffusa a tutti i livelli di età e di condizione sociale si trasforma in emotiva e globale fragilità. In predisposizione a essere manipolati dalla demagogia. In passiva e inerte attesa del miracolo, del santo protettore, del principe azzurro sul bianco cavallo, del giustiziere che vendicherà i torti e instaurerà la vera giustizia. Insomma del messia che anticipi nel mondo di qua l’oltremondo delle beatitudini.
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Mi venivano questi pensieri, alquanto sconfortanti lo confesso, mentre sfogliavo le tante pagine e scorrevo le molte tabelle del rapporto Censis e il commento-sintesi che ne fa Giuseppe De Rita, interprete autentico dei numeri che gremiscono quelle pagine.
De Rita lamenta che gli italiani abbiano cessato di sognare. Indica anche la data di questo brusco risveglio: il 1993. Da allora, secondo il segretario generale del Censis, gli italiani ormai privi di sogni si sarebbero ripiegati su loro stessi e il declino sarebbe incominciato.
Ma perché proprio nel 1993? Che cosa accadde di particolare in quell’anno, a parte la soppressione della Cassa del Mezzogiorno? Credo sia evidente a quali eventi si riferisca De Rita: il ciclone di Mani pulite, la denuncia della corruzione diventata sistema, il crollo delle forze politiche più compromesse nella generale corruttela. Infine la nascita del berlusconismo politico dopo i fasti del berlusconismo mediatico. Furono queste la cause della fine del sogno?
Secondo me De Rita si sbaglia di grosso. Ammesso che negli anni precedenti, i "favolosi" anni Ottanta del craxismo e del forlanismo, ci fosse un qualsiasi sogno degno di questo nome, nei Novanta prese forma un sogno ancor più illusionistico e ancor più demagogico e populista. Ancora più denso di contraddizioni, di scorciatoie, di piccole e grandi furberie, di enormi egoismi, di attese miracolistiche. Dopo i giustizieri che parlavano con le carte bollate e in nome della legge (che furono tripudiati per un anno e poi rapidamente ripudiati) arrivava finalmente il giustiziere vero, quello che avrebbe ridotto lo Stato in mutande, tagliato le tasse con falce affilata, abolita la burocrazia parassitaria, messi fuori causa i partiti, reso inutile il Parlamento, arricchito il paese come aveva già arricchito se stesso. Infine instaurato il regno della felicità o perlomeno dato a tutti lo strumento per arrivarci: una libertà senza impedimenti, senza regole, senza steccati da superare o almeno da rispettare.
Non è stato un sogno anche questo, amico De Rita? Gli italiani sono passati da un sogno all’altro. E del resto il principale protagonista nei sogni degli anni Ottanta non era il padre putativo e perfino il consocio del protagonista dei sogni negli anni Novanta? Tutto si tiene a questo mondo.
Dovessi scegliere tra quei due sogni, francamente rifiuterei entrambi. Per mia fortuna faccio parte di quel vasto numero di concittadini rimasti svegli e privi di sogni, che cercarono allora e cercano oggi di testimoniare la verità dei fatti, le menzogne demagogiche di allora e di oggi, la dilapidazione delle risorse nazionali, la corruttela di oggi e di ieri.
No. Noi non abbiamo fatto parte di quelle compagnie.
Non abbiamo nulla da rimpiangere e nulla da condividere né con i sogni di ieri né con quelli di oggi.
Noi, per dirla tutta, alla virtù dei sogni non crediamo anzi ne diffidiamo. Preferiamo tenerci stretti ai fatti e alla fermezza delle convinzioni.
* * *
Vediamo qualche cifra tra le tante del rapporto Censis e cerchiamo di capire se abbiano un senso e indichino una direzione.
Il futuro è sempre più nero? Gli ottimisti erano il 54 per cento nel 2001 e sono scesi (di 9 punti) al 45 per cento nel 2004. Dunque aumenta il pessimismo. Ma non di molto, con tutto quello che accade intorno. Infatti i pessimisti sono appena il 14 per cento. Sono aumentati rispetto al 2001 (di 8 punti) ma non più di tanto.
È più intrigante la domanda sul "welfare" e le tasse.
Il 53,5 per cento preferisce meno tasse anche se peggiorano i servizi pubblici. Quindi hanno fiducia nelle proprie capacità individuali. Meglio soldi oggi che più assistenza e più previdenza domani. Ma contemporaneamente si contraddicono: il 49,4 afferma che i servizi sanitari e previdenziali sono fonte di serenità e lo 0,9 addirittura preferisce più tasse ma migliori servizi. Il totale di questi due numeri fa 50,3. A chi dobbiamo credere?
Ancora: il 60,7 non ha fiducia nella politica ma il 60,2 ritiene che il voto è determinante per il futuro del paese. Il voto non è un fatto politico? Ancora qualche numero. Il 90 per cento chiede che le istituzioni pubbliche tutelino i più anziani. L’88 per cento è soddisfatto degli ospedali pubblici. Un plebiscito. O no?
Fin qui orientarsi è quantomeno arduo perché gli interpellati dicono tutto e il contrario di tutto. Ma ci sono poi cifre più eloquenti quando si passa dai sentimenti e dalle aspettative a questioni più concrete.
Evasione e sommerso. Secondo il Censis (e secondo l’Agenzia delle Entrate che ne sa ancora di più) 200 miliardi di euro sono la cifra sottratta agli occhi del fisco. Ciò significa che per ogni 100 euro accertati ce ne sono 46 occulti.
Che fine fanno le ricchezze del paese? Immobili, beni rifugio, rendite finanziarie. In una parola, patrimonio.
Poiché il reddito ristagna, i rischi delle iniziative sono troppi, meglio rifugiarsi in beni patrimoniali solidi. Nel 2004 sono state comprate 870 mila nuove abitazioni per una cifra giornaliera di 550 mila euro. Giornaliera. Scrissi qualche giorno fa che l’attenzione si sta spostando dal reddito al patrimonio, dalla dinamica alla staticità. Il Censis lo conferma. Per stanare il sommerso e farlo contribuire alle risorse comuni la strada di abbassare (di pochissimo) le aliquote sul reddito non serve a niente.
Bisogna tassare la ricchezza sui grandi patrimoni perché è lì che si nasconde il sommerso, il riciclato, il mafioso o più semplicemente il professionista, l’artigiano e l’oste che non rilasciano fattura. Pesci piccoli ma tanti, ma soprattutto pesci grossi e grossissimi anche se meno numerosi. Pochi alla luce del sole, ma tanti che si sono resi invisibili.
***
l centrodestra ha accolto con favore il documento di De Rita; il centrosinistra anche. Hanno ragione tutti e due perché in quel documento ce n’è per tutti. Ma una verità emerge comunque: il miracolo atteso nel 2001 non si è verificato.
I delusi sono molti. Ma oggi, dicembre 2004, gli stessi che li hanno fin qui delusi gli promettono che l’appuntamento col miracolo non è stato annullato ma soltanto spostato d’un paio d’anni in avanti: avverrà senza fallo nel 2005 e soprattutto nel 2006.
Ora si tratta di vedere quanti italiani saranno disposti a chiudere gli occhi e sognare ancora oppure se resteranno ben svegli senza farsi ipnotizzare.
L'appel d'Élisabeth Badinter et de douze anciennes ministres du gouvernement Jospin. Pour Jila Izadi, 13 ans, Iranienne, condamnée à mort par lapidation
Le 25 octobre dernier, le magazine « Elle » publiait un appel d'Élisabeth Badinter pour tenter de sauver la jeune Jila condamnée à mort en Iran pour avoir eu des relations sexuelles avec son frère. Aujourd'hui, d'anciennes ministres prennent le relais, dont Élisabeth Guigou, Martine Aubry et Dominique Voynet
L'APPEL D'ÉLISABETH BADINTER
Jila Izadi, 13 ans, vient d'être condamnée à la lapidation par le tribunal de Marivan en Iran. Elle attend en prison la confirmation de sa sentence. La philosophe Elisabeth Badinter appelle à la mobilisation.
Jila Izadi, une enfant de 13 ans, vient d'être condamnée à la peine de mort par lapidation. Son crime : elle aurait eu des relations sexuelles avec son frère âgé de 15 ans. Enceinte, elle a accouché dans sa prison.
Son frère incarcéré aurait déjà subi sa peine, conformément à la loi islamique : 150 ou 180 coups de fouet (les chiffres divergent). De quoi être laissé pour mort. Cette ignominie se passe à Marivan, une ville du Kurdistan iranien, quelques semaines après la pendaison au crochet d'une grue d'une autre jeune fille iranienne de 16 ans, Atefeh Rajabi, accusée d' « actes incompatibles avec la chasteté ». Le tout dans le silence assourdissant de la presse nationale et internationale ainsi que de la plupart des associations féministes, pourtant branchées en permanence sur internet.
Au dernier meeting des altermondialistes qui s'est tenu à Londres la semaine dernière, femmes voilées et féministes soi-disant « historiques » ont craché feu et flammes contre la loi française pour le respect de la laïcité, mais pas un mot n'a été prononcé pour condamner le martyre infligé aux femmes au nom de la charia. À leurs yeux, les vraies martyres sont celles qui vivent dans les démocraties occidentales auxquelles on demande d'ôter leurs signes religieux pour pénétrer dans l'école de la République et non celles qui subissent la loi impitoyable des théocraties totalitaires. Ce que les mieux endoctrinées se gardent bien de dire est sorti spontanément de la bouche des deux soeurs voilées, surmédiatisées, l'année dernière. Devant les caméras de TF1, elles ont approuvé avec une sorte d'ingénuité la lapidation des femmes adultères. Personne n'a relevé, personne n'a condamné. Aucun rappel à l'ordre des droits de l'homme. On risque donc d'attendre longtemps qu'une militante pour le port du voile islamique en Europe se lève enfin pour fustiger ces pratiques atroces. Ce n'est donc pas sur elles qu'il faut compter, pas plus que sur leurs avocates qui osent se dire encore féministes, pour tenter de sauver la petite Jila Izadi qui attend confirmation de son supplice des autorités iraniennes. Nous savons aujourd'hui que seule une très forte mobilisation internationale peut réussir parfois à stopper une exécution capitale. Comme ce fut le cas pour Safia Husseini et Amina Lawal au Nigeria. C'est pourquoi nous supplions les défenseurs du droit des enfants, les militants de l'abolition de la peine de mort et tous les démocrates horrifiés par ces crimes d'écrire cette seule phrase, par lettre au courrier signé de son nom
(*) : « Non à la lapidation de Jila Izadi, une enfant de 13 ans ». De la rapidité et de l'ampleur de nos protestations dépend sa survie.
Elisabeth Badinter
Envoyez vos lettres ou cartes postales directement à l'Ambassade de la République islamique d'Iran (4, avenue d'Iéna, Paris 16e) ou bien à l'association Ni putes ni soumises (190, boulevard de Charonne, Paris 20e).
Ou adressez un courriel : contact@amb-iran.fr ou infos@niputesnisoumises.com
Anciennes ministres signataires a Michèle SABBAN - Martine AUBRY - Elisabeth GUIGOU- Ségolène ROYAL - Florence PARLY - Nicole PERY - Paulette GUINCHARD - KUNSTLER - Marylise LEBRANCHU - Marie-Noëlle LIENEMAN - Catherine TASCA - Dominique VOYNET - Marie-George BUFFET-
CE QUE DIT LA CHARIA
« En Iran, selon la charia, toute femme qui a, ou a eu, une relation sexuelle avec un homme qui n'est pas son mari commet l'adultère.
Seule sentence pour ce « crime », la lapidation, explique Kaveh Mohseni, représentant du SMCCDI (Comité de coordination du mouvement étudiant pour la démocratie en Iran)*.
Dans les cas de viol, les auteurs mais aussi les victimes sont pénalisés et passibles de la lapidation. » En Iran, depuis 1990, dix jeunes mineures ont été exécutées, la plupart accusées d'actes incompatibles avec la chasteté. Entre 2001 et 2003, plus d'une dizaine de condamnations ou d'exécutions par lapidation ont été signalées à Amnesty International. Ainsi, une femme de 35 ans, à l'identité inconnue, a été accusée d'avoir tourné dans un film porno et a été lapidée à mort en mai 2001. Rababeh, reconnue coupable en juin 2001 d'adultère et de complicité du meurtre de son mari, a été condamnée à recevoir 50 coups de fouet, suivis d'une mise à mort par lapidation. On ne sait pas si elle a été exécutée à ce jour. Ou encore Maryam Ayoubi, 31 ans, reconnue coupable du meurtre de son mari, a été lapidée à mort en juillet 2001 après avoir été emprisonnée pendant huit ans.
Caroline Laurent
La fotografia di una afghana che alle prime elezioni «libere» del paese inserisce la scheda nell'urna col burqa addosso fa piazza pulita dell'impetuoso fiume di parole che tre anni fa, da destra e da sinistra, accreditò la guerra all'Afghanistan come guerra di liberazione delle donne dal patriarcato islamico, stabilendo fra libertà femminile e procedure democratiche un nesso che non esiste e che oggi la realtà si incarica infatti di smentire. Aveva piuttosto ragione la protagonista di Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf, quando scetticamente si chiedeva se in Afghanistan siano i governi a imporre la legge del burka o una cultura che sottosta a qualunque alchimia politica a imporla ai governi. Ennesima ferita nella presunzione occidentale dell'onnipotenza democratica esportabile. Eppure non basta mai.
Contro la l'ennesimo e insopportabile orrore dell'altra foto della settimana, quella del massacro all'Hilton di Taba, e contro l'ennesima e insopportabile ripetizione del video dell'orrore, quello della decapitazione di Kenneth Bigley, di nuovo si levano appelli allo scontro di civiltà. Le risposte nazionali al terrorismo internazionale non funzionano, scrive giustamente Paolo Garimberti su Repubblica, ma solo per arrivare alla conclusione che invece quello che funzionerebbe sarebbe l'unità di tutti gli occidentali, unica ciambella di salvataggio dei valori universali. E così siamo al punto di partenza: a contrastare l'attacco fondamentalista all'universalismo occidentale ribadendo che l'unico universalismo possibile è quello occidentale e che l'occidente è l'unico bastione dell'universalismo.
Sotto le guerre delle religioni e dei valori intanto scorre il fiume della comune umanità e dei comuni sentimenti. Sabrina e Jessica Rinaudo erano andate a Taba a riposarsi e divertirsi e ne avevano diritto. A poca distanza da Taba, a Sharmel Sheik, centinaia di turisti italiani, narrano le cronache, continuano a riposarsi e divertirsi scansando quello che è successo poco più in là. Minuscole strategie di sopravvivenza: l'occidente è anche questo, insensate formule di vacanze uguali e seriali, tutti irregimentati nei pacchetti aereo più villaggio più spiaggia più gita folkloristica nel deserto, ma lasciamo perdere. Resta il fatto che il terrorismo non solo colpisce nel mucchio, ma mira diritto all'immaginario. Niente più vacanze spensierate, niente più oasi sul Mar Rosso per staccare dallo stress del nordest e del nordovest. Altro che geopolitica e geostrategia: i giochi si fanno sulla vita quotidiana. A che serve moltiplicare e multilateralizzare le alleanze e le truppe occidentali, contro un gioco così? Il virus terrorista costringerebbe la politica a inventare strategie immunitarie di cui non si vede idea alcuna all'orizzonte.
C'è andata di mezzo ancora una volta una coppia di giovani donne. Saltata in aria, pare, per mezzo di un'altra donna, la kamikaze che avrebbe dato il via all'azione del commando. Ennesima e dolorosa conferma che lo scontro di civiltà si è infiltrato anche nell'immaginazione di un «continuum femminile» capace di vincere sulla distruttività maschile. L'immaginario maschile in compenso continua a fare sulle donne i suoi giochi. Altri appelli si levano prerché la solidarietà e il pubblico cordoglio per Jessica e Sabina siano pari a quelli per le due Simone. Saranno non solo pari ma superiori. Stavolta le due vittime sono vittime davvero, tutte vittime senza residui. Non parleranno, non usciranno dalle righe, non pretenderanno di dire la loro sui governi e sui terroristi. Sono morte e murate più che dietro un burqa, e anche i più cinici benpensanti troveranno le lacrime per piangerle.
«Le ragazze avevano ricevuto minacce»
Abu Salam Al Kubaisi
Intervistato da Ugo Cubeddu su il Messaggero del 14 settembre 2004, l’autorevole leader dei sunniti spiega perché è convincente l’ipotesi dello zampino dei servizi segreti nel rapimento delle due Simone. Anche per l’assassinio di Enzo Baldoni ci fu chi avanzo la stessa ipotesi. Terroristi, guerriglieri, resistenti, soldati invasori e adesso anche barbefinte: sono davvero molti i protagonisti del terrore.
BAGDAD - Sono tutti d'accordo: questo delle due Simone è un sequestro ”strano”, ”diverso”: spezza regole non scritte, spezza consuetudini che da cinque mesi qui in Iraq sono diventate norme di comportamento ormai quotidiane. Prima bastava tendere un agguato per strada (magari con qualche soffiata precisa) e poi negoziare, all'interno delle tante organizzazioni - banditi inclusi - il valore degli ostaggi e cominciare il balletto della morte, eseguita o negoziabile. Poi - con le due Simone, ma per ora solo con loro - le regole sono cambiate e proprio i sunniti, che hanno forti legami con la guerriglia in tutte le città irachene, sono i primi a essere incerti. Ecco allora Al Kubaisi, numero due del Consiglio degli Ulema, il massimo organismo sunnita (vuol dire il 45 per cento della popolazione irachena), che racconta la sua valutazione del sequestro, i suoi contatti con le due Simone, la sua “storia” di questo sequestro.
Dottor Al Kubaisi, quando ha incontrato le due ragazze di “Un ponte per Bagdad”?
«Lunedì, il giorno prima del sequestro. Sono venute da me, abbiamo parlato insieme per un'ora e un quarto. Prima mi hanno spiegato quello che stanno facendo per l'Iraq, il loro lavoro per la Ong. In un primo momento non riuscivo a capire perché mi raccontassero queste cose, poi tutto è stato più chiaro. Abbiamo paura, mi hanno detto, c'è chi ci sta spingendo in una direzione diversa da quello che è il nostro lavoro. Abbiamo ricevuto molte telefonate di minacce in questi ultimi tempi e quindi vorremmo andare a Falluja per aiutare la gente di lì, mi hanno spiegato, ma ovviamente abbiamo bisogno del vostro appoggio».
Lei cosa ha risposto?
«Che non c'era nessun problema, che potevano contare su di noi. Anzi, ci siamo messi d'accordo che ci saremmo rivisti mercoledì a pranzo per discutere il programma che avrebbero portato, dopodiché ci siamo salutati. Martedì le hanno sequestrate e mercoledì un iracheno è venuto a portarmi il loro programma. Eccolo, vede? Pensavano di cambiare anche il nome della loro organizzazione chiamandola, per il periodo di permanenza a Falluja, “Un ponte per l'emergenza”. Poi, prima di andare via, mi hanno anche chiesto dove potevano fare qualche corso per donne per imparare meglio la religione islamica. Mi hanno fatto una impressione molto buona, erano anche molto rispettose nel modo di vestirsi e, secondo me, molto brave in quello che facevano».
Lei cosa sa del sequestro?
«Abbiamo raccolto delle testimonianze e ci siamo fatti un quadro di quello che è successo. Il gruppo era costituito da venti persone, vestite in modo quasi uguale, all'occidentale. Avevano tutti quei gilet pieni di tasche che portate voi giornalisti con, sotto, dei giubbotti antiproiettile e tutti erano armati con quelle mitraggliette che usano i ”contractors” che lavorano per gli americani. Dieci sono entrati, altri dieci sono rimasti a sorvegliare la strada. Sono arrivati su 3 pick-up, più una Peugeot station wagon e due Toyota Land Cruiser e hanno fatto tutto con molta calma, come se avessero le spalle coperte. I dieci che sono entrati obbedivano a un uomo con il pizzetto che chiamavano “Stath”, signore, e all'interno non c'è stata agitazione, né fretta. Hanno chiamato le due donne per nome, poi i due collaboratori iracheni, li hanno portati sulle macchine e sono andati via».
Chi pensa possano essere?
«Non ho molti dubbi: direi uomini di qualche servizio segreto straniero. Per la loro organizzazione, per la sicurezza e la tranquillità con cui si sono mossi, per le armi che avevano. Certamente diversi dai vari gruppi che sequestrano gente per strada, stranieri e iracheni».
Crede alla rivendicazione di “Jihad al Islam per l'Iraq” che si dice legata ad Al Zarkawi, il numero due di Al Qaeda secondo gli americani?
«No, francamente no. Anzi, penso che in realtà che il nome di Al Zarkawi sia invece usato dagli americani come copertura per quello che stanno facendo in molte città dell'Iraq e so anche che in suo nome sono usciti su Internet attacchi molto forti contro di noi».
Avete avuto incarichi di mediazione dagli italiani?
«No, nessuno. Il vostro ambasciatore è venuto qui, alla moschea di Umm Al Khura, per una riunione di capi tribù, ma non ci è stato dato alcun incarico. Noi però rivolgeremo un appello per la liberazione degli ostaggi, cercando di fare leva sulla religione dei rapitori e non sui giochi politici. Che sono tanti e molto pericolosi».
A me piace fare regali. A Natale e sempre nel corso dell'anno e degli anni, alle stesse persone e alle nuove, again and again; e non capisco quell'ansia che prende tante e tanti, per quel dovere che scatta intorno al 15 dicembre, con gran pompa di pubblicità e luccichii, liste di nomi e di oggetti, corse in centro e frustrazione da prezzi impossibili. E se invece fosse un piacere? Se fosse non un tempo perso ma un tempo guadagnato; un tempo dedicato non all'acquisto delle cose ma alla seduzione delle persone? Non mi capita mai di non sapere che cosa regalare e di solito non sbaglio. C'è sempre una frase, un'occhiata, un ricordo dell'altro o dell'altra che mi mette sulla pista dei suoi desideri; basta non sovrapporre all'incertezza di quella pista la certezza senza rischio di un'etichetta, di un logo, di una hit parade. Fare un regalo non è altro che mettersi sulle tracce dell'altro, scoprirne una voglia e soddisfarne un piacere, riportare a presenza quella frase, quell'occhiata o quel ricordo che ce l'hanno segnalato.
Piacere di ritorno, direte, perché c'è del narcisismo in questa gioia del dare che viene ricambiato dalla gioia del ricevere; una gratificazione di sé pari alla gratificazione dell'altro. Sostiene chi ne sa, del resto, che nella radice do del dono c'è un'ambivalenza semantica che intreccia il dare con il prendere, e rinvia a un circolo virtuoso fra il donare, il ricevere, il restituire, che può diventare circolo vizioso se si dona per ricevere o per avere restituzione. Circolo vizioso o addirittura velenoso, se è vero che la stessa parola, gift, sta per dono ma anche per veleno: come un'esca d'amore, che nell'offrirsi obbliga l'altro a ridare a sua volta, imprigionandolo nella rete dell'indebitamento. Jacques Derrida (in Perdonare, appena uscito da Cortina) da questo metteva in guardia, quando invitava a chiedere perdono anche del dono, se questo diventa «una richiesta di riconoscimento, un veleno, un'arma, un'affermazione di sovranità, un desiderio di dominio». E Bataille infatti diceva che c'è dono solo quando c'è dépense, dispendio, senza recupero: senza niente in cambio. Dono a perdere: perché implica la rinuncia alla restituzione dall'altro, e anche la rinuncia all'affermazione di sé nascosta nell'atto generoso del dare.
Ma basterebbe meno. Si può volentieri condonare e perdonare, per restare al lessico di Derrida, quella piccola affermazione narcisistica di sé che nel gesto del donare è contenuta, se essa sa mettersi come dicevo sulle tracce dell'altro e accendere la scintilla del contatto e della condivisione. Il regalo allora non è un oggetto ma un medium, non riempie un bisogno ma allude al desiderio di altro e dell'altro; non è una merce ma un legame, il tramite di una relazione, la testimonianza di uno scambio, non nel registro dell'avere ma in quello dell'essere. Per questo mi sono sempre sembrati tristi quei propositi anticonsumisti di non farsi regali sotto l'albero: una resa al carattere alienato dello scambio di merci a mezzo merci, come se non fosse possibile né oggi né mai rivoltarne il segno e scambiare di tutto, e prima di tutti noi stessi, nel regime del lusso che il desiderio consente e domanda.
Per spiegare a me stesso e ai lettori il tormento che ha investito questo giornale e il suo direttore come un tifone filippino dopo l’articolo “Con chi parlo?” della scorsa settimana, cerco una metafora semplice che mi salva dal tornare indietro, e ci fa fare, forse, un piccolo passo avanti. Parlo della mia capacità di chiarire e di farmi capire, restando, se ci riesco, un po’ fuori dalla inondazione.
In cerca della metafora, ricorrerò ai film americani di guerra. Che sorpresa è stata per noi, ragazzini al tempo della Liberazione, scoprire dai film democratici americani, che, di fronte al pericolo, i soldati americani, quei soldati che alla fine avevano vinto e ci avevano liberato, avevano paura. In quei film esemplari veniva detto loro di non nascondere la paura. Veniva ripetuto che avere paura è umano, è giusto e che la finzione di fredda ed estranea pacatezza mentre intorno a te succede quel che succede è una finzione dannosa, rischiosa, inutile.
Ecco, questa è la faglia misteriosa che sembra essersi formata nel terreno su cui poggia i piedi il popolo della sinistra e della opposizione. Tutti vedono la spaventosa (ripeto: spaventosa) sequenza di eventi che stanno travolgendo il nostro Paese. La completa paralisi della economia non colpisce più solo i portafogli, ma i sentimenti dei cittadini, fino a creare un clima di depressione e di panico. La Giustizia è soggetta a un tentativo di massacro. Se quel tentativo riesce, semplicemente non ci saranno più resti di garanzia democratica per i giudici e per i cittadini, in Italia. L’informazione è controllata al punto da disporre anche di giornali “di sinistra”, rigorosamente in linea con i loro omologhi di destra nel martellare solo dentro le linee della opposizione. E questa è certo l'ultima conquista, dopo il controllo completo, ripetutamente denunciato in tutta Europa, della Tv di Stato e di quella privata in Italia.
Ogni impressione di sicurezza si è polverizzata in una Italia travolta dalle guerre di mafia e camorra, mentre le norme del ministro Castelli impediscono ai procuratori di indagare, ai giudici di intervenire. E le Forze dell’ordine non hanno auto e benzina perché il bizzarro primo ministro che fa ridere il mondo (ma per l’Italia è la minaccia più grave dal 1945) vuole annunciare il finto taglio delle tasse come monumento in onore di se stesso.
La faglia, di origine così misteriosa che a volte produce sussulti e tumulti senza che a prima vista se ne possa cogliere la ragione, divide alcuni di noi che vedono il pericolo e lo denunciano perché non si vergognano di avere paura per la democrazia italiana. E altri di noi che assistono infastiditi dal disturbo. Non tanto il disturbo delle leggi vergogna e della distruzione della Giustizia (certo, pacatamente descritte come cattive decisioni) quanto il fastidio verso coloro che si agitano e denunciano e hanno davvero paura di vivere in un contenitore senza finestre in cui la circolazione della libera informazione è quasi completamente impedita.
Personalmente vengo sempre colto di sorpresa dalla serenità distaccata di coloro che non condividono l’allarme e respingono con sdegno parole comuni per descriverlo. Tanto più che la maggior parte degli argomenti e prove della nostra paura non vengono da elucubrazioni solitarie. Sono tratte dalla stampa europea, dal parlamento europeo e da ciò che pensano e dicono dell’Italia la maggior parte dei politologi del mondo libero.
Giudizi identici a quelli che a questo giornale vengono rimproverati come eccessivi, e frutto di scarso giudizio e di un dannoso modo di fare politica, appaiono regolarmente su El Paìs, su The Economist, sulla principale stampa inglese e americana. Sono regolare motivo di derisione e di allarme nei convegni internazionali. Dobbiamo prendere atto di questa faglia. Noi non diciamo che chi non prova paura, vera paura verso questo stato di cose è peggiore o indegno o non è politicamente impegnato nel modo che il momento richiede. Non ne abbiamo né il titolo né il diritto. Diciamo, in modo sincero, che non riusciamo a capire. Sosteniamo di non avere visto mai niente di peggio nella vita pubblica italiana o di alcun altro Paese democratico. Temiamo che il danno sia gravissimo, ci domandiamo se sia reversibile. Siamo talmente convinti della gravità di quel che sta succedendo e di ciò che sta per succedere, mentre Berlusconi si accinge ad abolire ogni traccia di “par condicio” e a cambiare la legge elettorale (tipici atti di progressivo soffocamento delle residue libertà, si ricordino le “leggi speciali” di Mussolini) che ci dichiariamo pronti a sostenere qualunque forma utile di unione e di aggregazione, siamo pronti a dimenticare qualunque insulto senza alcuna pretesa che ci sia data ragione. Purché si agisca insieme per arginare e poi per rigettare questo stato di cose. Che cosa hanno gli ucraini più di noi per essere capaci di tanto sdegno e di tanta mobilitazione quando vedono e denunciano l’imbroglio che li sta privando della libertà?
***
Non ci si spiega mai abbastanza. E allora proviamo a rivisitare alcuni luoghi dolorosi e paurosi della nostra vita italiana sotto Berlusconi. Non per persuadere, ma per ripetere a noi stessi le ragioni di paura, di angoscia e di allarme. E’ impossibile che non siano gravemente allarmanti le condizioni di un Paese normale, civile, democratico, in cui i cittadini, tutti, rifiutano di fare acquisti, una collettività è colta da uno stato di stupore, rischio e panico. Mentre il governo saltella fra i suoi rimpasti e la sua carnevalesca riduzione delle tasse, sostenuto però da continue e clamorose falsificazioni mediatiche, c’è da domandarsi se ci si trovi di fronte a un fallimento (”soltanto” un fallimento, verrebbe voglia di dire) di un governo incapace. O a una trama di impossessamento di un Paese stordito e stremato. «Agli italiani il futuro fa paura» dice il Censis nella sua ultima relazione. Ammoniva Ilvo Diamanti, nella sua periodica valutazione delle condizioni italiane, sula Repubblica di domenica scorsa: «In un sistema maggioritario personalizzato come il nostro, le lezioni tendono a riassumersi in un referendum pro o contro chi governa. E allora chi, nel centro destra, sarà disposto a farsi giudicare in base allo stato dell’economia, dei servizi, del costo e della qualità della vita?». Per questo, spiega Diamanti, Berlusconi passa all’opposizione. Paradossalmente opposizione a se stesso. Con il suo attivismo e il suo controllo totale della comunicazione, si mostra anti-sistema. Lo fa con un taglio finto ma celebrato delle tasse, con scosse furibonde di attacco, di disprezzo, di antagonismo verso le istituzioni del Paese che governa. E’ un espediente populista che ha già dato i suoi frutti nei momenti peggiori della storia contemporanea.
E’ impossibile che si considerino normali le condizioni di un Paese in cui viene descritta come “riforma della Giustizia” una serie di misure umilianti e vendicative contro i magistrati, per la evidente unica colpa di cui si sono macchiati di fronte a questo governo e alla sua maggioranza da Bielorussia: non si sono piegati e - come dimostra il processo di Milano - hanno continuato a fare i giudici. E’ impossibile non vedere la gogna delle “prove psicologiche di attitudine” previste dalla legge Castelli. Chi, come, in che modo, con quali modalità scientifiche, con quale attendibilità, potrà svolgere la funzione di “giudice dei giudici” senza cadere in un ruolo paleo-sovietico o nella penosa irrisione del lavoro e della dignità dei magistrati? Sarà difficile per molti elettori del centro destra, capire perché un uomo di apparente moralità e buon senso come Follini abbia entusiasticamente votato, con tutti i suoi, una simile legge. A meno che lo abbia fatto in cambio del vice-premierato. O meglio sarebbe impossibile se non si ritornasse - secondo il suggerimento di Diamanti - al progetto di “rivoluzione” dentro il proprio schieramento, la propria area, il proprio governo, che Berlusconi sta iniziando con foga e furore , gettando in aria ogni rispettabile convenzione fra governanti e istituzioni. Non c’è dubbio, una marcia è iniziata, con bravura strategica, dopo avere consolidato il potere burocratico (come dimostra l’obbedienza del ministro tecnico Siniscalco), quello delle comunicazioni (dopo la legge Gasparri) quello di auto-celebrazione, che è ormai pratica costante ossequiosamente osservata a tutti i livelli e in tutti i campi. Dopo i continui tentativi di frattura con l’Europa che mira ad allontanarci, con il pretesto di Maastricht e della distruzione delle sue regole, dalla restante garanzia di diritti civili che l’Unione Europea estende ancora ai cittadini italiani.
Nel paese della illegalità di governo era fatale che tutte le forme di criminalità avessero un trasalimento di attività e di efficienza.
Ma se da un lato getta allarme nel Paese la sequenza napoletana di dieci morti in dieci giorni dall’altro la storia della “taglia” richiesta dal ministro leghista Calderoli per catturare due assassini del Nord non racconta solo la storia della barbara rozzezza leghista (si pensi all’immagine dell’Italia nel mondo provocata dalla frase «nessuno tocchi un padano»). Racconta anche di un nuovo fenomeno di omertà al Nord. Racconta di gente che non parla, in regioni in cui il problema dell’omertà non era mai esistito. Racconta di isolamento e solitudine in zone senza tradizione criminale. Ci racconta di gente del posto che protegge gente del posto, mentre persone per bene vengono uccise e la nuova omertà rende impossibili le indagini. Altra brutta storia, altro segnale di allarme, altra ragione di panico. Perché ognuna di queste tetre immagini italiane è legata all’altra. E’ il mondo di Berlusconi che richiede una vigorosa rivolta politica. E’ la rivolta annunciata dei berlusconiani contro l’Italia. Per questo il premier ha riunito e salutato alla Camera la sua nuova falange di giovani, la “guardia azzurra”, “a cui non mancheranno risorse finanziarie”, assicura il capo. Sberleffo al Parlamento e aperta sfida del premier che dice: «Noi tireremo diritto».
Nel momento in cui si tenta di sigillare l’opposizione nell’acquario di Tg costantemente drogati, in continua esaltazione del premier, in trasmissioni con le tabelle false e truccate e di parte, come nel Porta a Porta dedicato al falso taglio delle tasse, è ragionevole, è utile, a chi, perché, fare esercizi di indifferenza e montare il salotto del finto anglosassone?
Nella sua intervista di sabato a questo giornale, il segretario Ds Fassino ci dice, a me sembra con chiarezza, che ci sono situazioni in cui è giusto avere paura. E dichiarare che ciò che accade adesso in Italia nel Parlamento, nelle piazze, alla televisione, è inaccettabile. Soltanto se si ha il senso della gravità di ciò che sta accadendo si può avere il coraggio di non rinunciare. E si può raccogliere forza intorno al progetto (sono parole di Prodi) di “resuscitare l’Italia”.
Buio a Mezzogiorno
Cacace, Nicola
Un’analisi chiara e preoccupata delle tendenze dell’occupazione dei lavoratori in Italia, da l’Unità del 3 novembre 2004
L’occupazione cala ma, grazie a 700mila immigrati regolarizzati fa finta di crescere. L'indagine Istat sull'occupazione nel secondo trimestre del 2004 segnala un aumento “statistico” di occupazione di 163mila unità rispetto all'anno precedente che, considerando la regolarizzazione di alcune centinaia di migliaia di immigrati clandestini, corrisponde ad una crescita zero.
O ad un calo di occupazione dopo 7 anni di crescita costante ed uniformemente distribuita sul territorio. L’indagine mostra anche tre Italie diverse, un Centro che si salva grazie al forte effetto trainante di Roma (il Lazio con 118mila nuovi occupati si appropria di 3/4 dell'aumento nazionale “statistico” di 163mila unità), un Nord stagnante che mostra tutte le rughe dell'invecchiamento ed un Mezzogiorno che, ormai abbandonato a se stesso, affonda inesorabilmente. Dato l'aumento della popolazione residente (+567mila, grazie soprattutto agli immigrati) cala per la prima volta da anni anche il tasso di occupazione (occupati sulla popolazione 15-64 anni) in tutta Italia, nel Nord e nel Mezzogiorno.
Questa rilevazione segnala molti cambiamenti strutturali che val la pena esaminare:
a) Dopo 7 anni di crescita occupazionale a tassi dell'1,3% annuo il processo si ferma malgrado una crescita 2004 del Pil intorno all’1,2%. L'Italia se non è in declino mostra una grossa paura di declino.
b) Dopo sette anni di crescita occupazionale percentualmente uniforme nelle tre aree geografiche, Nord, Centro e Mezzogiorno, nel 2004 l'andamento è assai differenziato, un Centro in crescita occupazionale sostenuta (+3,2%), trainato da un Lazio, che significa Roma semplicemente esplosiva (+6%), un Nord quasi stazionario, un Mezzogiorno in calo (-0,2%).
c) Dopo 50 anni si invertono tendenze storiche di trasformazione strutturale, comuni a tutti i paesi industriali, che duravano dal dopoguerra, con agricoltura in calo continuo e servizi in crescita continua. Nel 2004 sono invece aumentati sia l'occupazione agricola che il peso dell'occupazione agricola (dal 4,0% al 4,2%), mentre si è ridotto il peso dei servizi (dal 65,2% al 65,0%), con un peso dell'industria immutato grazie solo al buon andamento dell'industria delle costruzioni.
d) Gli occupati indipendenti, che nei sette anni precedenti erano cresciuti a tassi nettamente inferiori a quelli dei dipendenti, tra il 2004 ed il 2003 sono addirittura cresciuti a ritmi quasi doppi, 1,1% contro 0,6%. Segno di aumento della precarietà dei lavoratori dipendenti pagati come indipendenti.
e) Per la prima volta il Nord Est non è più la testa del vagone Italia, ma, con una crescita zero dell'occupazione, passa in coda seguito solo dal Mezzogiorno (-0,2%). Il vagone di testa nel 2004 diventa il Centro, il cui tasso di occupazione, ancora inferiore a quello del Nord, è tuttavia l'unico ad aumentare nelle tre aree.
f) Altre considerazioni interessanti possono farsi sui dati regionali, alcuni di conferma di una crisi strutturale, come quella della Liguria, unica regione del Nord in calo occupazionale significativo (-2,2%), altre, come l'Abruzzo, che con un calo occupazionale superiore al 4% ci dice come questa regione stia reagendo male alla fine degli incentivi che la collocava nelle aree depresse.
Premesso che bisogna aspettare la prossima rilevazione Istat per avere conferme di queste tendenze, alcune vere e proprie inversioni di rotta come si può concludere questo breve commento?
La crescita occupazionale che nell'ultimo settennio aveva risentito favorevolmente dei provvedimenti di flessibilizzazione del lavoro avviati bene dal ministro Treu e conclusi male dalla recente Legge 30 sul lavoro, almeno sul piano quantitativo (su quello qualitativo è stato alto il prezzo pagato dai giovani flessibilizzati senza gli ammortizzatori previsti dal prof. Biagi) si è fermata, malgrado una crescita del Pil intorno all1,2%.
Il Nord comincia a risentire pesantemente del dimezzamento delle nascite iniziato nel 1975 ma mentre il N.Est sente il peso negativo oltre che del fattore demografico, di vincoli culturali, ambientali e logistici in conseguenza di radici più deboli ed una crescita più tumultuosa, l'asse Milano-Torino reagisce meglio allo shock della deindustrializzazione con uno sviluppo più equilibrato, una agro pastorizia di qualità, una terziarizzazione avanzata e l'avvio di industrializzazione Hi Tech legata alle Università meglio che nel resto del paese. La Liguria continua nella sua retromarcia, condannata anche dal record negativo di nascite che dura da trent'anni e dalle crisi dell'acciaio e delle ex Partecipazioni Statali.
La Sardegna, dopo l'Abruzzo, è la regione meridionale che, anche grazie al suo record negativo di natalità (che divide con la Liguria), non se la passa bene: nel 2004 ha ancora ridotto l'occupazione e in percentuale superiore alla media del Mezzogiorno.
In questo quadro negativo si salvano le 4 regioni del Centro, Toscana, Umbria, Marche e Lazio che oltre ad aumentare l'occupazione in tutti i settori aumentano anche il tasso di occupazione. Nel 2004, in barba agli obiettivi di Lisbona (l'Italia dovrebbe aumentare di almeno 5 punti il suo tasso di occupazione, addirittura di 10 punti secondo Berlusconi), il tasso di occupazione 15-64 anni si è ridotto in Italia, nel Nord e nel Mezzogiorno, aumentando solo al Centro dal 60,2% al 61,2%. Forse il carattere più terziario delle economie di queste regioni, forse le politiche più attente allo sviluppo delle autorità regionali e soprattutto il grande successo che il Logo Roma sta avendo in molte iniziative a carattere nazionale ed internazionale hanno avuto effetti positivi sull'economia e sull'occupazione, effetti che andrebbero meglio esplorati, anche alla luce delle tendenze mondiali in atto alla “smaterializzazione” delle attività produttive.
Alla fine di questa brutta storia è assai probabile che Rocco Buttiglione arrivi comunque a sedersi sulla tanto sospirata poltrona di commissario europeo responsabile per le questioni di Sicurezza, Libertà e Giustizia, nonostante la bocciatura ricevuta ieri dalla commissione per le libertà civili del Parlamento europeo.
Ma sarà un commissario (e vicepresidente) sminuito nella sua credibilità politica. Un´anatra zoppa. Un peso per il presidente della Commissione, Barroso, che dovrà difenderlo di fronte agli eurodeputati. Un motivo di imbarazzo per il governo italiano, che ha mandato a Bruxelles un suo ministro per farlo diventare il primo bocciato nella storia delle audizioni parlamentari. E una palla al piede anche per il Partito popolare europeo, che ora per salvargli il posto dovrà fare concessioni alla controparte socialista.
Del resto questa nomina, voluta per pure ragioni di "teatrino romano", come direbbe Berlusconi, cioè per acquietare le faide interne alla maggioranza di governo, era già stata pagata dall´Italia con la rinuncia alla ricandidatura di Mario Monti che avrebbe avuto ben altro peso e ben altri consensi in Europa. Lo spiacevole incidente di ieri è solo la conferma di quanto la scelta fatta dal Presidente del Consiglio sia stata miope e dannosa in termini di immagine e di autorevolezza del Paese.
A ben guardare, la dinamica che ha portato alla bocciatura di ieri è l´ennesima conferma dell´anomalia italiana in Europa. Un´anomalia antica, ma che questo governo ha esasperato fino al limite dell´incompatibilità. Il professor Buttiglione, e con lui tutti gli esponenti del centrodestra, denunciano una doppia persecuzione europea: contro i cattolici e contro il governo Berlusconi.
Ma come fanno a non vedere che la nomina a responsabile europeo per le questioni di Giustizia e Libertà dell´esponente (tutt´ora in carica) di un governo che si è presentato al mondo con la violenta repressione di Genova, che ha varato una serie di misure legislative volte a togliere il primo ministro dai guai giudiziari, che si è opposto al mandato di cattura europeo, che si dichiara "amico" di Putin, non può non suscitare perplessità in Europa? Probabilmente il professor Buttiglione non ha personalmente condiviso alcune di queste scelte. Ma è rimasto ben saldo al governo. E questo per la logica europea equivale a una piena assunzione di responsabilità. In Europa, un ministro che non condivide la linea politica del governo non predica i distinguo sui giornali o nei convegni: si dimette.
Lo stesso discorso vale per le idee del professor Buttiglione in materia di condizione femminile o di discriminazione sessuale. Essendo la lotta alla discriminazione una delle poche aree nel portafoglio di sua competenza in cui la Commissione ha potere di iniziativa, era legittimo che i deputati volessero conoscere i suoi orientamenti. Invece di spiegarsi con l´umiltà di un "civil servant", Buttiglione ha risposto con una lezioncina filosofica, citando Kant e le distinzioni tra legge morale e legge civile, tra crimine e peccato, tra convinzioni di fede e attività politica. Ma quando gli hanno chiesto conto di un suo emendamento alla Convenzione per la Costituzione in cui proponeva di escludere l´orientamento sessuale dai temi su cui la Carta europea non accetta discriminazioni, non ha saputo cosa replicare. Ha finito col riconoscere che si opporrebbe a qualsiasi norma che dovesse considerare immorale. In questo modo ha dimostrato non solo scarsa coerenza e scarso rispetto per l´intelligenza dei deputati, ma anche scarsa consapevolezza delle responsabilità che incombono sull´esponente di un organo eminentemente esecutivo, chiamato a rispondere non alla propria coscienza, ma ad una serie di poteri democraticamente costituiti. E questi poteri hanno, in materia di diritti e di sessualità, valori diversi da quelli del professor Buttiglione.
La bocciatura di un commissario designato dopo un´audizione parlamentare è un fatto senza precedenti. E apre il campo a scenari ancora difficili da valutare, ma che mettono sicuramente il presidente Barroso in una posizione molto scomoda. Egli non può chiedere a Berlusconi la sostituzione di Buttiglione senza mettersi contro non solo il governo italiano, ma tutti i governi nazionali che vedrebbero calpestato il loro primato a favore del Parlamento europeo. L´ipotesi di un cambio di portafoglio, comunque non facilmente percorribile, è stata scartata con un moto di orgoglio dagli stessi deputati del Ppe.
Del resto la conferma del ministro italiano nel ruolo e con le funzioni per le quali è stato trovato inadeguato mette la Commissione in rotta di collisione con il Parlamento europeo. Equivarrebbe infatti a dire che le audizioni parlamentari, cui tutti i deputati di tutti i gruppi politici attribuiscono un´enorme importanza, sono una pura perdita di tempo.
È vero che il Parlamento potrà pronunciarsi con un voto di fiducia solo sull´insieme del collegio dei commissari, e difficilmente le "gaffes" del professor Buttiglione possono giustificare la bocciatura dell´intera Commissione. E´ vero anche che il Partito popolare resta la forza di maggioranza relativa in seno all´assemblea e pare deciso a difendere ad oltranza la candidatura del filosofo del Papa. Ma un atteggiamento sprezzante da parte di Barroso, un voler totalmente ignorare il voto della Commissione parlamentare di ieri, finirebbe per creare un´irritazione diffusa e bipartisan tra i deputati che si sentirebbero toccati nelle loro prerogative, con conseguenze difficili da valutare.
A cercare di togliere le castagne dal fuoco ci proverà, domani, la riunione dei capi dei gruppi politici parlamentari. Oltre a Buttiglione ci sono altri commissari designati, popolari, socialisti e liberali, che, se pure hanno evitato la bocciatura, non hanno convinto nel corso delle audizioni. Per salvarli è possibile che i partiti trovino un compromesso che consenta a Barroso una dignitosa via di uscita. Ma, comunque vada a finire, per il governo italiano e per il suo unico commissario la strada europea è, ancora una volta, tutta inesorabilmente in salita.
Il testo integrale dell'audizione di Rocco Buttiglione
Ragioniamo se ci riesce
Sacrosanto invito a un atteggiamento radicalmente diverso da quello corrente, la cui volgarità intellettuale sconcerta e fa dubitare della possibilità di un futuro decente. Da il manifesto del 12 settembre 2004
Fra i disastrosi effetti del terrorismo, è la messa in mora della ragione. La sua propria, perché perde sempre, e quella nostra. In Italia ormai si delira. Farsi domande, come buon senso comanda, sulle differenze dei terrorismi e le loro origini politiche e sociali, sembra che sia bestemmiare. Dubitare che esista una centrale terroristica internazionale e chiedersi perché i terrorismi siano sciamati nel Medio Oriente dopo la guerra del Golfo e si siano moltiplicati con quella dell'Iraq, sembra che sia giustificarli. Osservare che il fondamentalismo armato è indirizzato soprattutto a egemonizzare il mondo musulmano dopo la sconfitta dei nazionalismi laici e parla alla miseria dei diseredati dalle monarchie che chiamiamo «moderate», sarebbe un ignobile diversivo. Scrivere che con il Patriot Act la democrazia americana affonda e che la teoria e la pratica della guerra preventiva di Bush (che oggi Putin tenta di imitare) alimentano i terrorismi invece che distruggerli, sarebbe approvare Osama Bin Laden. Dire che non è terrorismo ma azione di resistenza attaccare un presidio della coalizione occupante o far saltare un pozzo di petrolio, dimostrerebbe un'ambiguità della sinistra. E sussurrare che chi si fodera di esplosivo per far saltare se stesso e altri inermi deve essere orribilmente disperato, e interrogarsi se non ci sia qualche responsabilità anche nostra per essere arrivati a tali abissi, sarebbe imperdonabile.
Ma come mettere in atto delle politiche invece che delle armi verso l'enorme mondo musulmano che abbiamo accanto, senza farsi queste domande? Eppure non se le fanno che alcuni gruppi di volontari e qualche centro religioso - il resto del paese è sommerso da esecrazioni, approssimazioni e una vociferazione razzista come poche altre volte abbiamo conosciuto. Davanti al sequestro e all'omicidio di Enzo Baldoni e al sequestro a Baghdad delle due coraggiose Simone c'è una reazione bellissima della gente normale, generosa come loro; grandi cortei sfilano con le candele dicendo: «ragioniamo, fermiamo le armi, parliamo». Non possono fare altro.
Ma il governo non li ascolta. Non fa che moltiplicare gli errori: non ha saputo difendere i suoi cittadini migliori in Iraq, e riceve con onore il Quisling iracheno. Né esso né la coalizione occupante sanno nulla di chi si agita nel caos di un paese del quale lo stesso Bush ammette di aver perduto il controllo. Nulla sanno i servizi, che sarebbero pagati per saperlo: nessuno si è accorto che un grosso gruppo armato stava bloccato la sede delle ong al centro di Baghdad, né pare in grado di trovare le tracce che pur deve avere lasciato. Signor presidente della Repubblica, come si può dire che stiamo in Iraq per preservare la pace se i nostri uomini non sono in grado neppure di proteggere discretamente gli italiani che lavorano per la pace sul serio?
Sono convinta che davanti a un sequestro bisogna dare priorità al riscatto degli ostaggi. Non penso che si abbia diritto di non trattare quando vi sono di mezzo delle vittime terze: il governo cerchi chi detiene i suoi cittadini e tratti finché questi non sono liberati; almeno servirà per conoscere chi sono. Se c'è un altro mezzo, lo dica. Se no, vuol dire che fa solo parole, come quella disgraziata uscita: «amici del governo iracheno, liberate dalle vostre galere coloro che detenete ingiustamente». Vorrei anche vedere che gli consigliassimo di tenerle dentro innocenti.
Temo che il governo nulla faccia di quel che riteniamo giusto. Ma non mi piace la bassa polemica contro chi nell'opposizione ha ritenuto giusto di far fronte comune per ottenere un riscatto. La diversità del giudizio politico è una cosa, l'acredine e la litigiosità di cui la sinistra radicale dà prova ad ogni occasione sgomenta. E rischia di farci perdere le elezioni del 2005. Senza vincere le quali non ci sarà nessun Zapatero capace di ritirare il nostro contingente dall'Iraq, sola e tardiva via d'uscita dalla impresa sconsiderata e crudele nella quale siamo stati messi.