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È stato uno schiaffo o un carezzevole buffetto alle guance il rinvio alle Camere della legge sull´ordinamento giudiziario, deciso dal presidente Ciampi il 16 dicembre?

Uno schiocco di frusta per bloccare un provvedimento eversivo emanato da un governo eversivo o una mano tesa per aiutarlo a formulare emendamenti tecnici che potrebbero evitargli la bocciatura da parte della Corte costituzionale? Infine, una sfida tra due coabitanti (Ciampi e Berlusconi) per vedere quali dei due rappresenti meglio e di più gli italiani, le loro speranze, i loro umori, i loro interessi e i loro ideali?

Per quel tanto che so di lui, io non credo che Ciampi si sia posto il problema in questi termini. Non credo che gli sia neppure lontanamente passata per la testa l´idea di schiaffeggiare, intimidire, sfidare due istituzioni di massimo livello e centralità come quelle che rappresentano il potere esecutivo e il potere legislativo; ma neppure di facilitarle a passare un guado difficile, affrontato con somma imperizia, superficiale approfondimento e sostanziale disprezzo degli argomenti contrari formulati meditatamente dall´Associazione dei magistrati, dall´opposizione parlamentare e dalla dottrina quasi unanime dei costituzionalisti italiani.

Credo che Ciampi, come è suo diritto e dovere, abbia accuratamente esaminato il testo della legge, l´abbia confrontato con il testo della Costituzione laddove si occupa dei medesimi problemi che sono oggetto della legge in questione e ne abbia tratto le conclusioni arrivando alla sofferta decisione del rinvio. Lo fa capire lui stesso nell´«incipit» della lettera-messaggio recapitata il 16 dicembre ai presidenti delle Camere, Pera e Casini, con una frase per lui insolita e proprio per questo tanto più significativa d´una tensione morale e intellettuale, d´un dolore dell´anima e del rigore di una mente che non ama la rissa, non indulge all´ipocrisia, privilegia il dialogo, ma aborre quanti utilizzano le istituzioni come cosa propria anziché come luoghi di servizio per i cittadini e per lo Stato.

Ciampi è stato ed è l´immagine suprema del servitore dello Stato, come forse non lo fu neppure Luigi Einaudi, al cui insegnamento intellettuale e morale spesso si riconduce. All´immagine del «civil servent» Einaudi accoppiava anche quella dello studioso, dello scienziato delle discipline economiche, del filosofo morale. E quindi una certa sprezzatura nel tratto e nei rapporti che intrattenne per molti anni con i suoi interlocutori politici.

In Ciampi quella sprezzatura non c´è; ciò rende ancor più visibile, compatto, senza appigli né alternativi disegni né pregiudizi, il suo servizio istituzionale. Il suo buonsenso. La sua onestà intellettuale. La sua sincera e aperta cordialità. Il suo desiderio genuino di fare squadra e sistema. La sua durezza contro ogni lusinga.

Infine la sua determinata e attiva solitudine nel momento delle decisioni.

Voglio citare letteralmente il preambolo della sua lettera. Vi si legge: «La legge in esame rappresenta un atto normativo di grande rilievo costituzionale e di notevole complessità, come è confermato anche dall´ampiezza del dibattito cui ha dato luogo. La riforma tocca punti cruciali e nevralgici dell´ordinamento giurisdizionale, il che mi ha imposto un attento confronto con i parametri fissati dalle norme e dai principi costituzionali che lo disciplinano. Ciò premesso espongo qui di seguito quanto da me rilevato».

E si alza il sipario.

* * *

Dapprima incontriamo i nuovi poteri che il testo attribuisce al ministro della Giustizia: poteri estesi, interferenti e pervasivi.

Il potere di rendere comunicazione annuale alle Camere sull´amministrazione della giustizia e sulle linee di politica giudiziaria dell´anno in corso. Ciò contrasta - rileva il Presidente - con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione che definiscono l´autonomia dei giudici «soggetti soltanto alla legge», la magistratura come «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», il ministro della Giustizia «responsabile soltanto dell´organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giurisdizione».

«La norma approvata dalle Camere - commenta il Presidente - configura un potere di indirizzo in capo al ministro della Giustizia che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione». E aggiunge che l´indicazione delle linee di politica giudiziaria che il ministro dovrebbe esprimere in Parlamento e far attuare dai magistrati viola l´articolo 112 della Costituzione in base al quale «il Pubblico ministero ha l´obbligo di esercitare l´azione penale». «Ciò crea - commenta il Presidente - uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione».

Rilievi tecnici e marginali? Una sconfessione così netta lascia alle Camere una sola via di uscita: abolire, semplicemente abolire, l´articolo 2, comma 31, lettera a) della legge.

Stessa sorte tocca all´articolo 2, comma 14, lettera c), dove è prevista presso ogni direzione regionale dell´organizzazione giudiziaria la creazione dell´ufficio per il monitoraggio dell´esito dei procedimenti «al fine di verificare l´eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giuridicamente accertata del potere punitivo manifestato con l´esercizio dell´azione penale e altre manifestazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali».

Anche qui il Presidente torna a ricordare gli articoli 101, 104, 110 della Costituzione, che oppongono un muro invalicabile all´interferenza politica del ministro nel merito della giurisdizione e anche qui le Camere - se vorranno accogliere i rilievi presidenziali - non avranno altra via che la cancellazione totale della norma.

Infine, di eguale importanza, l´articolo 1, comma 1, lettera m) che attribuisce al ministro la facoltà di ricorso al Tar contro le delibere del Csm concernenti il conferimento degli incarichi direttivi, trasferimenti ecc.

Qui il contrasto è con l´articolo 134 della Costituzione dove si stabilisce che solo la Corte costituzionale è titolata a dirimere i conflitti tra il Csm e il ministro della Giustizia. E dunque altra bocciatura ed altra doverosa soppressione della norma incostituzionale.

Dopo questi tre giudizi negativi, il ministro dovrà dunque ritornare al suo ufficio, il solo previsto in Costituzione, di organizzatore dei servizi inerenti all´esercizio della giurisdizione. Il tentativo di invadere con la politica il merito dell´attività giudiziaria ha trovato una diga che può essere superata soltanto da un voto del Parlamento che disconosca esplicitamente il messaggio di rinvio del Presidente. Questa sì, sarebbe una vera e propria sfida della maggioranza parlamentare e del governo contro il Capo dello Stato. Vorranno farlo?

Arriveranno a farlo?

Molti osservatori dicono di no, che non lo faranno.

Non hanno l´autorità morale e il consenso del paese per tentare una via così impervia.

E´ probabile che questa previsione si riveli giusta, ma allora perché ci hanno provato? Non sono poi così sprovveduti a Palazzo Chigi e al ministero della Giustizia da ignorare la Costituzione e il rigore del Presidente.

Come mai si sono lasciati andare fino al punto di voler scalzare uno dei cardini essenziali dello stato di diritto?

Vedremo i seguiti di questa vicenda, che si svolge in contemporanea con l´altra del «salva-Previti», anch´essa approvata in tutta fretta per sottrarre un imputato eccellente ai rigori della legge, dimezzando i termini di scadenza della prescrizione: una sorta di amnistia per una quantità di soggetti, corrotti, corruttori, truffatori, scippatori, con la differenza che un´amnistia opera per una volta sola mentre il «salva-Previti» resterà una norma stabile senza aver dotato il sistema giudiziario dei mezzi necessari a snellire rapidamente i processi. E´ come spezzare il termometro credendo con ciò di aver debellato la malattia.

* * *

Gli altri rilievi di Ciampi riguardano il Csm e sono simmetrici a quelli relativi ai poteri indebiti attribuiti al ministro della Giustizia. Tanto si è tentato di estendere questi e di altrettanto debbono essere ripristinati quelli.

Ciò vale soprattutto a proposito della Scuola creata per la preparazione dei magistrati e dei concorsi previsti per l´ingresso e la carriera nella magistratura. Scuola e concorsi sono istituzioni collocate al di fuori del Csm, le cui valutazioni il Csm dovrebbe supinamente accettare per l´assegnazione degli incarichi mentre la Costituzione glieli riserva in via autonoma ed esclusiva.

L´incostituzionalità di tali norme è palese e il Presidente la denuncia al Parlamento.

Voglio chiudere questa rassegna del messaggio presidenziale riportandone la conclusione che fa da suggello e da sigillo a tutto il documento.

«Per i motivi di palese incostituzionalità innanzi illustrati chiedo alle Camere una nuova deliberazione. Con l´occasione ritengo opportuno rilevare quanto l´analisi del testo sia resa difficile dal fatto che le disposizione in esso contenute sono condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta di 49 commi ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il testo legislativo. A tale proposito richiamo l´attenzione del Parlamento su un modo di legiferare che non appare coerente con la «ratio» delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e segnatamente con l´articolo 72 della Costituzione secondo il quale ogni legge «deve essere approvata articolo per articolo e con votazione finale».

Se si pensa al fatto che la legge finanziaria prossimamente all´esame anch´essa del Quirinale, consiste di un solo «maxi-emendamento» articolato in 591 commi e per di più approvato in Senato con voto di fiducia e senza possibilità di esame degli emendamenti proposti, si capisce meglio quale fase legislativamente eversiva sia in corso e quale arduo compito di arginarla sia quello assunto doverosamente dal Presidente della Repubblica.

* * *

Ho già accennato alla legge «salva-Previti», approvata dalle Camere nei giorni scorsi a tambur battente e inserita con un colpo di mano in un testo di norme che tendono a rafforzare le pene di una serie di crimini di stampo mafioso, oggi nuovamente aumentati.

Il dimezzamento dei tempi previsti per la prescrizione dei reati è scandaloso. Non solo perché è ritagliato su misura con l´obiettivo pubblicamente ammesso dalla maggioranza parlamentare di ottenere il proscioglimento di Previti e di Dell´Utri, ma anche perché instaura una sorta di amnistia permanente e modulata non soltanto sui reati ma soprattutto sulla biografia penale degli imputati. Per gli incensurati i termini di prescrizione sono dimezzati, per i recidivi sono diminuiti di un quarto e ancor meno per i recidivi abituali. Queste disposizioni premiano soprattutto i colpevoli di reati di corruzione, laddove si tratta nella generalità dei casi di persone incensurate fino a quel momento insospettabili, dotate di solito di ampi mezzi finanziari e quindi provvisti di robusti collegi di difesa per i quali è un gioco da bambini tirare in lungo i processi e raggiungere l´impunità profittando della raccorciata prescrizione.

E´ avvenuto così che in una legge di inasprimento delle pene contro il crimine organizzato sia stata inserita un´amnistia permanente per i corrotti e i corruttori, che chiuderà tutte le vertenze ancora in corso a carico del ristretto clan dei «berluscones» e assicurerà per il futuro la semi-impunità per chi vorrà ricalcarne le orme.

* * *

Concludo. Nell´ultimo anno e mezzo della legislatura il governo e la maggioranza che lo sostiene hanno evidentemente deciso di smantellare le strutture fondamentali della Costituzione e dello stato di diritto trasformando l´impianto liberal-democratico della separazione dei poteri e del loro reciproco equilibrarsi in un sistema di potere che riposa unicamente sulla dittatura di una maggioranza clonata e riprodotta in fotocopia come pura proiezione numerica di una autocrazia in avanzato stato di costruzione.

Era prevedibile che ciò accadesse date le caratteristiche del gruppo che si è formato nel ?93 e che nel 2001 ha legittimamente conquistato il potere con la chiara e dichiarata intenzione di stravolgere le regole e rendere irreversibile quella conquista.

Se c´è un momento in cui si può dire senza tema di drammatizzare spinte emotive e moralistiche che la democrazia e lo stato di diritto sono in pericolo; se c´è un momento in cui tutte le convenienze di gruppo e di partito debbono cedere alla tutela del bene comune, sia a destra che al centro e a sinistra, per impedire che la devastazione istituzionale e morale in corso arrivi a compimento; se c´è infine un momento in cui, come ha scritto ieri Claudio Magris sul «Corriere della Sera» tutti gli uomini liberi si debbono unire contro uno scandalo e un´avventura di questa gravità; ebbene quel momento è venuto.

Il nostro comune punto di riferimento non può che essere il presidente della Repubblica. Da solo e con la sola forza che gli deriva dalla Costituzione egli sta adempiendo al suo compito. Ancora pochi giorni fa l´ho udito dire che i suoi doveri sono quelli che la Costituzione e la sua coscienza gli impongono e che ad essi non verrà meno in nessun caso.

Non è mai stato un uomo di parte, il nostro Presidente, e mai lo sarà. Per questo il consenso che lo circonda è così vasto ed è questa la sua forza e la forza della nostra Repubblica.

Come il candidato imparò a vendersi

IDA DOMINIJANNI

«Condurre una campagna elettorale ormai è solo un modo politico per fare della pubblicità»: parola del New York Times, non di oggi ma di un secolo fa. Elezioni americane del 1904, quelle vinte da Theodore Roosvelt, il quale a sua volta, otto anni prima, aveva commentato la vittoria del suo compagno di partito Mc Kinley osservando che era stato «pubblicizzato come un medicinale». Destino e successo del marketing politico erano dunque già scritti ai tempi della belle époque?

Che cosa è cambiato da allora a oggi, lungo il secolo della democrazia di massa, e in che rapporto stanno le vicissitudini di quest'ultima e quelle della comunicazione commerciale? Se lo chiede Ferdinando Fasce nel suo contributo al numero - Fahrenheit America - che la rivista di studi nordamericani Acoma dedica alle elezioni presidenziali e al panorama politico, sociale e culturale in cui esse cadono. La risposta non è facile, scrive Fasce, perché la questione, che pure è considerata centrale da tutti gli osservatori della politica americana (e ormai anche di quella europea e italiana soprattutto), resta ancora «largamente inesplorata» negli Stati uniti stessi. Senza riandare all'epoca del New Deal, quando l'agenzia pubblicitaria Barton tentò invano di combattere il peso dei «discorsi dal caminetto» radiofonici di Franklin Delano Roosevelt con una intensa attività di pubblicità istituzionale per le grandi imprese, o al salto provocato dall'avvento della tv nel fare accettare la comunicazione commerciale in sede politica, bastano gli ultimi decenni a fornire i materiali per una storia della democrazia del marketing politico ormai imprescindibile per chiunque si interroghi sulle della democrazia tout-court.

1960, confronto Nixon-Kennedy: si tocca un punto dinon ritorno nelle strategie comunicative della campagna elettorale. I dibattiti politici risultano già «un esempio clinico di pseudo-evento, di come lo si costruisce, del perché ha successo»; gli spot a pagamento assumono un peso dirimente nella vittoria di Kennedy; e per la prima volta la strategia dello stesso Kennedy, che si serviva non di una ma di due agenzie pubblicitarie, punta non più sulla conquista di un pubblico di massa indifferenziato, ma sulla segmentazione dell'audience politica su base etnica e religiosa. 1968, vittoria di Nixon: per la prima volta compare l'ufficio comunicazione per i rapporti fra la presidenza e i media, e un comunicatore commerciale, H. R. Hadelman, entra nello staff presidenziale; comincia l'epoca dei political consultants e conseguenti campagne negative sull'avversario, polemiche costruite ad personam, chiacchiericci scandalistici montati per condizionare e depistare l'agenda politica. E' certo comunque che dagli anni Venti e soprattutto dagli anni Cinquanta in poi, l'affermarsi di una comunicazione politica «sempre più indirizzata alle viscere dei cittadini-spettatori e sempre più lontana dalle questioni sostanziali della gestione e distribuzione del potere» va di pari passo con la crisi dei partiti di massa e di una sfera pubblica intesa come sede di elaborazione e discussione delle opinioni.

La trasformazione dei cittadini in audience segmentata si completa, negli ultimi trent'anni, con le strategie di targeting non più solo nella «vendita», ma nella stessa definizione della linea politica dei candidati. E infine con la sempre più forte sovrapposizione fra politica e intrattenimento nei talk-show televisivi, frequentati con particolare abilità da Bill Clinton. Conclusione: rivisitato lungo le vicissitudini del secolo, il marketing politico si rivela non solo un'industria potente e pervasiva, ma una vera e propria alternativa, elitaria e manipoatrice, alla democrazia di massa, sì che risulta oggi difficile, se non impossibile, pensare a un rilancio di quest'ultima senza fare i conti con il modo in cui lo sponsorship l'ha ormai contaminata e forse definitivamente snaturata, su una e forse anche su quest'altra sponda dell'Atlantico.Non è questa, del resto, l'unica via attraverso cui gli Stati uniti di oggi ci rimandano la centralità decisiva della dimensione linguistico-comunicativa della politica. Nello stesso numero di Acoma, Marilyn B. Young conduce un'analisi sottile del modo in cui la lingua dell'imperialismo - «immediata, diretta, monosillabica, imperativa»- e la lingua dell'impero -«benevola, materna, polisillabica, condizionale»- si stiano intrecciando nel costruire «la ricreazione nostalgica di un passato angloamericano colonizzatore e guerriero» e nell'imporre «una visione di guerra permanente, perseguita in nome di una pace permanente». Ed è ancora il linguaggio a rivelarsi centrale nella costruzione dello «stile paranoico» che ha antiche radici nella società americana, ma ha peculiarmente caratterizzato il primo mandato di George W. Bush. Ne scrive Bruno Cartosio: costruzione e imitazione speculare del nemico, negazione al nemico medesimo di ogni qualità degna di rispetto, ossessione per il suo sadismo, ritorsione di pari misura, secondo un gioco proiettivo in cui all'altro vengono attribuiti i peggiori aspetti di sé. Un gioco che altro non è se non la storia degli ultimi quattro anni: dalla «confrontation» fra Bush e bin Laden alla costruzione bugiarda delle «prove» contro Saddam Hussein alla specularità degli orrori e delle torture in Iraq.

Nelle elezioni del 2 novembre è in gioco anche e soprattutto questo: non la terapia definitiva, ma quantomeno la cura sintomatica della deriva paranoica della politica e della società americane.

«Sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero». Non c'è molto da aggiungere alle parole con cui il direttore dell'Unità Furio Colombo ha commentato domenica il linciaggio a cui Simona Pari e Simona Torretta sono state sottoposte sui giornali della destra (codiuvati, sia pure con toni più moderati, da alcune firme dei grandi giornali indipendenti) per avere osato sostenere, dopo il loro rilascio, che l'invasione dell'Iraq deve cessare, che le truppe willing vanno ritirate, che i sequestratori le hanno trattate con rispetto; per avere osato affermare che vogliono tornare ancora in Iraq; per avere osato ringraziare, oltre al governo, l'opposizione e le manifestazioni pacifiste. Il linciaggio, da cui lo stesso Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno di prendere a un certo punto le distanze, ha avuto nei giorni scorsi - e ancora ieri, nell'editoriale del Tempo - toni di una volgarità insopportabile, di quella che di tanto in tanto spunta dalle viscere dell'Italia in transizione e dovrebbe farci interrogare sull'inciviltà che abita le nostre democrazie prima che sullo scontro di civiltà fra Occidente e Islam. Frasi come «se vogliono tornare in Iraq rispediamocele con due calci nel sedere», «la prossima volta si paghino da sole il ricatto», «tacciano e intanto ritiriamogli il passaporto» non depongono a favore né di chi le pronuncia né della sfera pubblica in cui circolano. Sono diventate pronunciabili nella sfera pubblica italiana anche o in primo luogo perché erano indirizzate a due donne? Credo di sì e non lo dico per alimentare il vittimismo femminile ma in senso esattamente contrario: tanta foga si è scatenata proprio perché le due Simone hanno smentito lo stereotipo della donna vittima. Se fossero state vittime e basta, vittime e morte, vittime e perse, vittime e vinte, vittime e piegate, vittime e stuprate, chiunque, compresi i direttori di Libero, del Giornale e della Padania nonché gli zelanti deputati leghisti che ne hanno seguito i suggerimenti, le avrebbero invece piante e compiante, commiserate e santificate. Ma così non è stato. Molti lati restano e resteranno oscuri del loro sequestro e del loro rilascio, motivi e modalità, ma un punto è chiaro ed è che le prime ad aver creato le condizioni per la propria liberazione sono state loro stesse, Simona e Simona: parlando con i sequestratori in una lingua che li ha saputi raggiungere, convincendoli che avevano preso un abbaglio, posizionandosi politicamente laddove stavano e stanno, cioè con e non contro la popolazione irachena. Il primo spazio di trattativa, senza nulla togliere a Berlusconi Frattini e Letta e Scelli, lo devono a se stesse, alla pratica politica che a Baghdad avevano costruito e all'esperienza e alla conoscenza dell'altro che avevano accumulato. Due donne libere, non due donne vittime. Due donne che fanno politica in prima persona, non o non solo due donne posta in gioco della politica istituzionale. Due donne amiche, non due donne in competizione fra loro. E' quanto basta per spiazzare tutti gli stereotipi che mezza Italia del terzo millennio - e non solo, ci si può giurare, il suo lato destro - non solo mantiene nelle sue viscere ma alimenta e rinverdisce.

Si aggiunge a questo la loro resistenza a diventare, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, l'icona vivente dell'unità nazionale sperimentata durante il loro sequestro. Ma qui siamo già nel regno della ragion politica; l'essenziale viene prima, su quel piano prepolitico, o forse postpolitico, su cui tutto l'essenziale della guerra in Iraq si sta giocando mettendo in scacco la ragion politica. Lo spiazzamento dei ruoli sessuali - in questo caso come in altri, compreso quello dolente e di segno opposto delle torturatrici di Abu Ghraib - continua a essere un segmento decisivo di questa guerra, combattuto senza esclusione di colpi.

Le 15 août dernier, une jeune femme de 16 ans a été pendue en haut d'une grue dans une rue de la province de Mazandaran, au nord de l'Iran. Son crime : «Actes incompatibles avec la chasteté». Amnesty International USA, qui rapporte son cas, ne précise pas les conditions de son arrestation. Flagrant délit de prostitution ou acte d'amour avec son petit ami ?

Finalement, cela importe peu. En revanche, il importe de savoir les conditions de son procès et de son exécution. Trop pauvre pour être assistée d'un avocat, Atefeh Rajabi, tel est son nom, s'est défendue seule (en dépit de la loi iranienne qui exige la présence d'un avocat) et avec une audace inouïe qui allait la mener encore plus vite au pied de la grue. Non seulement elle a insulté son juge, le mollah Haji Reza, mais elle a mis en accusation le régime des corrompus et, pour finir, elle a ôté certains de ses vêtements (on ne dit pas lesquels) en pleine cour. Ivre de rage, son juge l'a décrétée folle et, par voie de conséquence, l'a condamnée à la pendaison dans les plus brefs délais. En moins de trois mois, l'affaire fut réglée. Il obtint le double feu vert de la Cour suprême de la République islamique et du ministre de la Justice. Mais sa colère n'était pas encore retombée. Il fallut au juge mettre lui-même la corde autour du cou de Atefeh Rajabi et donner l'ordre de mort.

Enterré le jour même de son exécution, son corps a été déterré par des inconnus et a disparu. Il ne reste donc rien de cette adolescente suppliciée par des barbares au nom de la charia. Rien, sinon son nom qu'il faut ajouter à la longue liste des martyrs des religions totalitaires. C'est peu de chose, je le concède, mais c'est la moindre des choses. Une dernière précision : son compagnon, arrêté en même temps qu'elle, a été condamné à cent coups de fouet. La punition exécutée, il a été relâché. C'est aujourd'hui un homme libre.

Il rinvio alle Camere, da parte del capo dello Stato, della legge sulla riforma giudiziaria conferma la preoccupazione generale dinanzi a tale legge o almeno ad alcuni suoi aspetti. Forse oggi sarebbe necessario un nuovo appello come quello che nel 1919, in un altro momento difficilissimo della storia italiana, Don Sturzo rivolgeva «agli uomini liberi e forti». Sarebbe opportuno rivolgerlo a tutti e in particolare, fra gli uomini liberi e forti, a quelli tra essi che militano nella destra o nel centrodestra, giacché persone oneste e coraggiose si trovano in ogni formazione politica rispettosa delle regole democratiche, a sinistra, al centro e a destra. Fra coloro che fanno parte dell’attuale coalizione di governo o l’appoggiano, vi sono certamente molti galantuomini di animo non servile. Essi non sono meno indignati, turbati e umiliati di quanto non lo siano gli avversari del governo dalla recentissima approvazione dell’indecente legge che abbrevia i termini di prescrizione. Qui non si tratta più di destra o di sinistra, di statalismo o di liberismo, di consenso o dissenso sulla guerra in Iraq, di separazione o no delle carriere dei magistrati e così via, legittimi temi della consueta lotta politica che vede legittimamente affrontarsi e scontrarsi forze e opinioni diverse. Qui si tratta di una degradazione civile che declassa a manfrina di interessi nemmeno di parte, ma personali la legge, che è «uguale per tutti» e fondamento dello Stato e di ogni comunità umana, come sottolineava il cardinale Ratzinger ricevendo la laurea honoris causa in diritto.

È un pervertimento scandaloso, che svilisce lo Stato, la cosa pubblica, la Patria. Spetta agli uomini onesti d’ogni parte ribellarsi a questa indegnità politica, egualmente pericolosa e lesiva per tutti, che disonora l’Italia. Naturalmente qualcuno potrà dire che non è con la morale o col moralismo che si fa politica. È vero, ma non la si fa nemmeno con l’immoralità. Non basta essere onesti per essere buoni politici, ma non basta nemmeno non esserlo. Nessuno auspica al timone del Paese una virtù fanatica e astratta, pericolosa e autoritaria come quella dell’incorruttibile Robespierre. Ma neppure l’opposto è auspicabile.

La politica è l’arte del compromesso, che implica - fino a un certo punto - pure la morale. Ma la dignità o l’indegnità di una politica si misurano sulla qualità e sul grado di tale compromesso. Al di sotto di un certo livello di decenza, la questione non è più solo morale, ma diviene politica, perché mina le istituzioni, l’ordine della società, tutti gli aspetti della vita associata; è una vera e propria sovversione.

Lo sapeva bene Benedetto Croce, così duramente critico di ogni moralismo astratto, quando diceva - contestando il famoso e cinico detto di Enrico IV, secondo il quale Parigi vale una Messa - che una Messa vale più di Parigi, perché è un fatto spirituale e come tale costituisce un nerbo, una sostanza della vita umana, individuale e collettiva. Salvare l’anima non vuol dire essere colombelle pudibonde, ma salvare l’integrità della propria persona; essere liberi cioè forti, anziché eunuchi. Essere succubi della mutilazione subìta dal Paese con l’approvazione di quella legge è un’onta per tutti; gli onesti uomini di destra, cui le sorti dell’Italia stanno certo a cuore non meno che agli onesti uomini di sinistra, non dovrebbero permettere che la destra sia identificata con questo eversivo attentato alla civiltà della nostra Patria comune. Un grande scandalo può certo provocare una crisi salutare: «E’ necessario che avvengano scandali», dice il Vangelo, ma aggiunge: «Guai a quell’uomo per cui avviene lo scandalo».

Anzitutto la leggibilità: questo emendamento sulla riduzione dell´Irpef è illeggibile, c´è scritto tutto e il contrario di tutto, si usano parole e riferimenti privi di spiegazioni comprensibili. Non è neppure un messale scritto in «latinorum» (che Renzo Tramaglino rimproverava a don Abbondio di usare per confondere e turlupinare i poveri diavoli) ma scritto in sanscrito.

Profittando di questa oscurità di linguaggio, entrano in scena le veline.

Nei giorni scorsi ne sono partite a centinaia verso le redazioni dei giornali e soprattutto delle televisioni. Il pubblico deve pur capire, che diavolo! Perciò le veline che "volgarizzano". Sintetizzano.

Mettono in chiaro l´indecifrabile.

Dunque viva le veline che provengono dagli uffici di Bondi, di Bonaiuti, degli uffici stampa di Palazzo Chigi e di Palazzo Grazioli. Attenzione: poiché il testo e le annesse tabelle sono ermetiche, le veline hanno campo libero per manipolare. E manipolano, eccome se manipolano.

Così un´operazione risibile nei risultati positivi ma drammatica per le implicazioni negative che ne derivano viene presentata come «storica», «epocale», «decisiva per il rilancio dell´economia», «svolta mai effettuata fino ad ora nella storia d´Italia».

Solo Berlusconi (sembra impossibile) si è lasciato scappare una frase di verità, non so se per imprudenza o per metter le mani avanti anticipando l´unico vero risultato che verrà fuori da questa follia. Ha detto (nella conferenza stampa con la quale ha presentato il suo master plan): «Non mi illudo che un intervento come questo possa dare un impulso straordinario ai cittadini. Ci sarà un vantaggio, ma in economia l´impulso vero si ha con la diminuzione delle tasse in deficit».

Avete capito bene? Non so chi gliel´ha suggerita questa solenne sciocchezza, forse è una reminiscenza keynesiana da autodidatta. Comunque, voce dal sen fuggita che contiene due verità: la manovra strombazzata avrà effetti pratici irrilevanti e, alla fine, produrrà lo sfondamento del deficit.

Alla faccia del ministro del Tesoro, detto Mimmo, e del Ragioniere generale dello Stato, che ne hanno autenticato la solidità (incautamente).

Chiedo scusa ai lettori, già frastornati da quattro giorni di tabelle e di improbabili volgarizzazioni imbonitorie, ma dovrò ora tediarli con qualche cifra che serva a chiarire e non a confondere. Cercherò di farlo con la massima parsimonia.

1. C´era anzitutto da colmare un buco di 2 milioni e mezzo della manovra effettuata lo scorso luglio. Forse ve la siete scordata, ma già a luglio il nostro bilancio stava per sfondare il deficit e le agenzie di rating, quelle che danno le pagelle ai titoli del debito pubblico, erano pronte a ribassare il voto provocando uno sconquasso sul nostro bilancio e sul mercato dei titoli. Perciò una "manovrina" da 5 miliardi tra tagli, tasse e condono (edilizio). Senonché il condono dette poco o nulla. Di qui il buco. Per colmarlo entro la fine dell´anno il governo ha dovuto emanare l´altro ieri sera un decreto imponendo a banche e assicurazioni di anticipare entro il corrente mese di dicembre il pagamento delle tasse dovute nel 2005.

Perciò l´erario incasserà 2 miliardi e rotti in anticipo, che naturalmente gli mancheranno nell´esercizio 2005.

2. Simultaneamente il governo ha deciso di spostare dal 2004 al 2005 il pagamento della seconda e terza rata del condono edilizio per una cifra più o meno eguale a 2 miliardi. Mi permetto di attirare l´attenzione dei lettori su questo modo di procedere estremamente singolare: con una mano Siniscalco (Mimmo) fa anticipare i pagamenti dovuti da banche e assicurazioni mentre con l´altra mano fa slittare in avanti le rate del condono. La cifra è più o meno identica, sono sempre quei maledetti 2 miliardi che vanno avanti e indietro.

Ma perché? Questo mistero mi ha impensierito per qualche minuto, ma poi ho trovato la quadra, come dice Bossi: il condono edilizio, già bandito da vari mesi, non ha dato quasi nulla. Di qui il buco del 2004. Allora lo si fa slittare al 2005 facendo finta che, improvvisamente, darà finalmente il denaro atteso. Al suo posto l´anticipo di tasse per analogo importo. Avanti e ndré che bel divertimento, cantava l´antica filastrocca per bambini. Non si capisce però per quale motivo il condono del 2005 dovrebbe fornire i denari che non dette nel 2004.

Mimmo e Grilli hanno garantito che li darà. Ma se si sbagliassero, come è molto probabile? Che cosa resterebbe della copertura per ridurre l´Irpef, visto che quei 2 miliardi ne costituiscono la parte più cospicua?

3. In teoria la manovra sull´Irpef vale 6,5 miliardi. Ma dalle criptiche tabelle si scopre che questa cifra, che sarà iscritta nel bilancio di competenza, non coincide con il bilancio di cassa. Cioè i soldi effettivamente fruiti dai contribuenti nel corso del 2005 non saranno 6 miliardi e mezzo ma soltanto 4,3 miliardi. Come mai? Risposta: i lavoratori dipendenti avranno effettivamente i loro sconti di imposta a partire dalla busta paga del 27 gennaio, ma tutti gli altri contribuenti cominceranno a beneficiarne soltanto nel 2006. Lo scossone all´economia nel 2005 non sarà dunque determinato da quei miseri 6,5 miliardi bensì dai miserrimi 4,3. Tutto questo casino (scusatemi) per 4,3 miliardi di euro. Svolta epocale? Viene solo da ridere.

4. Chi sono i beneficiari della svolta epocale? Le veline diramate dai saltimbanchi della manipolazione (ecco a che cosa serve avere il monopolio della Tv, per chi non l´avesse ancora capito) affermano che gli sgravi sono concentrati sui redditi più bassi, e lo affermano con sicurezza assoluta. Danno le percentuali: chi ha minore reddito avrà sconti del 10 per cento, chi sta appena un po´ più in su avrà sconti dell´8 e poi, via via che si sale per la scala reddituale, la percentuale di sconto diminuisce fin quasi allo 0 per i redditi da capogiro. Tutto esatto. Ma quello che conta non sono le percentuali bensì le cifre assolute.

Uno sconto dell´8 per cento su un reddito di cento equivale appunto a 8 euro; uno sconto del 4 per cento su un reddito di mille equivale a 40 euro.

Uno paga 8 euro di meno, l´altro, pur ricco, ne paga 40 di meno. È poco più di niente per tutti e due, ma la disparità si vede ed è grossa.

5. Naturalmente i poveri e i quasi poveri sono molti; i benestanti sono parecchi; i ricchi sono pochi e gli ultraricchi pochissimi. Cerchiamo dunque di capire a chi vanno quei 6,5 miliardi (4,3 nel 2005). Bisogna a questo punto guardare dentro alle varie fasce di reddito e vedere quanti sono quelli che ne fanno parte. Da reddito 0 a reddito di 40 mila euro l´anno il beneficio fiscale va da 0 a 40 euro al mese. I poveri non prendono nulla, per i quasi poveri e i meno poveri fino al ceto medio che comunque fatica ad arrivare a fine mese i vantaggi sono questi: da 0 fino a 40 euro mensili. Prendo la cifra massima: 40.

Equivale a una modesta cena al ristorante per due persone.

O a trenta cappuccini al mese in più. O a pagarsi un paio di medicine di quelle che lo Stato non pagherà più. Sapete quanti sono i cittadini compresi nella fascia da 0 a 40 mila euro di reddito? Sono il 75 per cento del totale.

Sapete quanta parte della manovra va a questo 75 per cento? Un miliardo e 800 mila euro. Poiché le cifre non sono opinioni il risultato è il seguente: il 75 per cento dei cittadini beneficia del 36 per cento della manovra, mentre il 25 per cento dei cittadini beneficia del 64 per cento.

Che ne dite? Che dice Follini che voleva concentrare quasi tutto sulle famiglie deboli? E Alemanno? Hanno perso la favella? Sono soddisfatti? Follini finalmente va al governo? Fini si spolvera la feluca perché la manovra è sociale? Un assegno da 6,5 per un terzo pagabile soltanto nel 2006, è ripartito tra la fascia debole e quella forte in proporzione del 36 per cento agli uni e del 64 agli altri. Ma non vi vergognate? Avrei ancora parecchie altre cifre da snocciolare, ma l´essenziale per quanto riguarda gli sconti è questo. Ora però bisogna dare un´occhiata alla copertura.

* * *

La solida copertura certificata da Mimmo e da Grilli proviene, come già abbiamo visto, per un terzo da un condono quanto mai improbabile che comunque andrà a chiudersi con la sua terza ed ultima rata entro la fine del 2005.

Nell´esercizio successivo il suo posto sarà preso da un miliardo proveniente dai tabacchi, da 500 milioni di inasprimento di tasse su bolli e concessioni e da 600 milioni di anticipi dell´Irpef e dell´Irap (una tantum perché ciò che anticipi di un anno ti mancherà l´anno dopo).

Il resto della copertura è fatto così: 400 milioni di autocopertura, cioè di maggiori entrate generate dalle minori aliquote. Qualunque studente di economia tributaria sa che una posta in bilancio di questa natura è improponibile. Mi auguro, per ragioni di decenza accademica, che questi 400 milioni siano cancellati e sostituiti.

Seicento milioni: tagli di consumi intermedi. Vuol dire minori spese per acquisti di beni e servizi nella scuola, sanità, forze armate, polizia di Stato. Trecento milioni, tagli ai fondi di riserva dei ministeri. Altro spicciolame di tagli e voci varie per 400 milioni.

Il totale dà, come sopra ho già indicato, 4,3 e non 6,5 miliardi la differenza è rinviata all´anno successivo e chi vivrà vedrà.

Il famoso blocco del turn over degli statali avrà inizio nel 2006 e proseguirà fino al 2008. Dovrebbe cancellare 75.000 posti di lavoro. Ma secondo il mio modesto parere non si farà. Berlusconi deve averlo promesso a Fini in un orecchio. Il 2006 è un anno elettorale. L´importante ora è guadagnar tempo.

Lo spot di cui il Cavaliere aveva bisogno, Mimmo gliel´ha costruito. È lillipuziano, sbilenco, curvo di spalle, ma con il monopolio della tivù e un po´ di cosmetica fatta col computer quel nano ingobbito degli sconti all´Irpef ti diventa un Nembo Kid, un Superman, un gigante buono che dà soldi a tutti e non li toglie a nessuno. La sinistra invece...

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La sinistra è il partito delle tasse. Prima mangiava i bambini, ma adesso non ci crede più nessuno. Adesso mangia embrioni e contribuenti.

Non mi pronuncio. La sinistra è adulta e sa parlare da sola. Io parlo per me e cerco di ricavare un senso dall´esame del tagliatasse.

Il senso mi sembra questo: per rilanciare l´economia è del tutto inutile. Se ci fossero i soldi (che non ci sono) bisognerebbe concentrare 3 miliardi sulla fascia di reddito debole e altrettanti sugli incentivi alle imprese e al Mezzogiorno. Restituire il fiscal drag ai lavoratori.

Fiscalizzare una parte dei contributi sociali.

Questi destinati all´Irpef sono soldi buttati dalla finestra. In parte pagati da altre tasse (regressive) in parte destinati a sfondare il deficit.

L´operazione però è servita a raggiungere alcuni obiettivi. Dello spot elettorale pro-Berlusconi ho già detto. Aggiungo e sottolineo: pro-Berlusconi.

I suoi alleati non ricaveranno né un voto né maggior peso da questo imbroglio; per chi lo ritiene appunto un imbroglio il loro prestigio semmai diminuirà; per chi crede invece alla «svolta epocale» il merito sarà esclusivamente di Silvio e non già di Fini detto Feluca né di Follini detto Occhialino, che anzi si erano opposti. Però ora la maggioranza è compatta, anzi è al guinzaglio.

Ecco un risultato.

Un secondo risultato è stato di far dimenticare, con questa trovata del taglio Irpef, che alle spalle di esso c´è una manovra da 24 miliardi ancora da approvare. Tiriamo le somme: manovrina a luglio 2004 da 5 miliardi, manovra in Finanziaria 2005 da 24 miliardi per mettere i conti in regola, manovra per ridurre l´Irpef da 7 miliardi. Totale 36 miliardi, 72.000 miliardi del vecchio conio come dice Bonolis. Non sono schicchere 72.000 miliardi. Un terzo almeno dei quali impostato su «una tantum»; un terzo su tasse e tagli a spese di Comuni, sanità, scuola, previdenza, efficienza della pubblica amministrazione, Mezzogiorno, sistema imprenditoriale. L´ultimo terzo su anticipi di entrate, cioè rinvio al futuro di debiti.

Vincenzo Visco ha richiamato l´altro ieri l´attenzione della Camera (con apposita interrogazione) sul fatto che l´operazione denominata Scip2, cioè la cartolarizzazione di immobili pubblici in vendita per 7 miliardi, è in scadenza ma i fondi non sono entrati, cioè gli immobili non sono stati venduti. Le agenzie di rating stanno aspettando la scadenza per confermare o ridurre il voto in pagella di quei bond. Se va avanti così l´erario si dovrà caricare della parte scaduta con immobili invenduti. Mi auguro che Mimmo e Grilli seguano la questione. Sarebbe tremendo se Scip2 andasse, come si dice in gergo «in default». Tipo Parmalat. Naturalmente Visco non è credibile perché passa il tempo a mangiarsi un contribuente al giorno e ci mette sopra anche il peperoncino.

Un cannoneggiamento sistematico, un fuoco di batterie campali cui seguono raffiche di mitraglia in attesa che entrino in campo le truppe corazzate. Questa è l´impressione che si ricava dall´esame di alcuni importanti mezzi di comunicazione che da molte settimane hanno lanciato una vera e propria offensiva mediatica con un duplice e molto evidente obiettivo: delegittimare la sinistra italiana, anche quella riformista e anzi soprattutto quella riformista; spostare al centro la linea del centrosinistra martellando lo slogan che al centro si vince, nella prospettiva di farlo diventare senso comune (o luogo comune che dir si voglia).

A condurre questa operazione mediatica e politica si sono mobilitati Bruno Vespa, Giuliano Ferrara, Panorama, Il Giornale, Il riformista, e soprattutto il Corriere della Sera e 24 Ore. La sequenza del quotidiano milanese è addirittura impressionante: coinvolge Della Loggia, Ostellino e Panebianco (ai quali fa eco Battista dalle colonne della Stampa) ma poi lo stesso direttore Stefano Folli con un duplice intervento domenicale. Infine, tra tanta ressa, si fa luce Giovanni Sartori che assume in proprio lo slogan «al centro si vince» confortandolo e rafforzandolo con la sua indiscussa dottrina, sicché quelle che erano fino a quel momento legittime quanto discutibili opinioni diventano assiomi scientificamente provati. Renato Mannheimer ? valoroso esperto in sondaggi ? ci mette sopra il bollo della statistica e il cerchio è completo. La fanteria, cioè i cronisti e gli intervistatori, seguono a schiere compatte. I titolisti fanno il resto.

Personalmente non credo affatto che i direttori delle testate alle quali qui si accenna e gli articolisti delle medesime si consultino tra loro. Sono ormai nell´albo dei decani di questa professione e ne conosco bene gli usi e i costumi. Consultarsi non è d´uso, ciascuno è libero nelle proprie scelte all´interno di limiti liberamente accettati e segue quindi le proprie convinzioni in (quasi) perfetta autonomia.

Se dunque un fronte mediatico così vasto e composito batte e ribatte sullo stesso tema da giorni e suona la stessa musica, una ragione ci deve pur essere. E la ragione sta nel fatto che gli interessi di riferimento di questo settore mediatico sono largamente comuni. Il loro Dna ideologico è comune.

In tempi di superspecializzazione, la politica è in netta controtendenza: minaccia di diventare l´unico lavoro non professionale di questo paese. "Professionisti della politica", del resto, è diventato poco meno di un insulto, una specie di tara genetica addebitata a una casta di avidi e stracchi notabili dal linguaggio oscuro. Strada spianata, dunque, per gli outsider di ogni genere e grado, con un canale di preferenza per le star mediatiche, che hanno il vantaggio di non dover stipendiare maghi dell´immagine e altri facitori e rifacitori di faccia, perché una faccia già la possiedono, e ben collaudata.

Confermano questa tendenza la candidatura, del valoroso giornalista Marrazzo (centrosinistra) alla Regione Lazio, e l´ipotesi di far correre il plenipotenziario della Croce Rossa nel Vicino Oriente, Scelli (centrodestra) in Abruzzo. Si tratta indubbiamente, in entrambi i casi, di ottime persone, ma é fuor di dubbio che sarebbero meno ottime, elettoralmente parlando, se non avessero già guadagnato le vette della popolarità comparendo in televisione dieci o cento volte più spesso di professori, scienziati, costituzionalisti e perfino ministri il cui talento politico può essere magari comprovato, ma il cui volto non è conosciuto dalla casalinga di Rieti o dell´Aquila. Lo Scelli, in particolare, ha avuto grazie a recenti meriti diplomatici una specie di rubrica fissa su Al Jazeera, messo in onda a raffica, in tutto il mondo, mentre dava il bentornato alle due brave e coraggiose ragazze italiane che non ci riesce più, per sopraggiunta overdose, di definire le due Simone.

Illustri precedenti, nell´uno e nell´altro schieramento (Zanicchi, Badaloni, Gruber, una Carlucci, nonché la strepitosa assunzione della fatina Maria Giovanna Elmi alla presidenza del prestigioso Stabile di Trieste), indicano che la tv è una magnifica scorciatoia per piacere al popolo, e che talk show, tg e ogni altra nicchia di palinsesto hanno preso il posto delle gloriose scuole di partito, dalle famigerate Frattocchie dove i virgulti comunisti si rompevano le balle commentando Lenin, agli altri tradizionali luoghi dell´apprendistato politico come il sindacato, la Coldiretti, le municipalizzate, gli assessorati di questo e di quello.

Finito tutto o quasi, se è vero che la campagna acquisti del personale politico si fa oramai negli antistudi televisivi, badando a non inciampare nel groviglio di cavi e a non irritare il candidato papabile parlandogli troppo di ideologia o di programmi o di schieramenti, perché lui, per definizione, risponde solo al suo pubblico.

Naturalmente, da tutto questo, verrà pur fuori qualche ottimo politico, come si dice della sgobbona Gruber. Ma resta qualche dubbio a proposito della questione (modernissima, e molto di moda) della formazione professionale. È o non è un lavoro chiosare leggi, spulciare regolamenti, amministrare città e paeselli, incontrare delegazioni non sempre concise, farsi venire i calli al sedere e la scoliosi in diecimila riunioni lunghissime e noiosissime? E se lo fosse (e temo proprio che lo sia) perché mai tutti lo possono fare limitandosi a presentare nel curriculum il numero di ore televisive, e i ceroni fatti e disfatti?

Poco amabile per indole e per contratto, ma a volte, nella poca amabilità, anche poco stupido, Massimo D´Alema ha spesso manifestato il suo sarcasmo nei confronti degli antipolitici di professione, rivendicando alla gente del mestiere qualche talento in più, diciamo, nella noble art di fregare l´avversario (e farsi fregare, naturalmente). In questo momento storico l´opinione di D´Alema è perdente. Ma si sa che la storia oscilla e inganna, e tra la Carlucci (un nome a caso) e il più vizzo dei funzionari di partito, sono tra quelli che preferirebbe pur sempre affidare un progetto di legge al secondo. Se non altro, per protestare la scadente qualità della legge potrei rivolgermi all´Albo professionale, come si fa per i dentisti e i carrozzieri. Se mi delude la Carlucci, invece, che faccio, telefono al Servizio opinioni della Rai, per giunta abolito da anni?

Che arrivi o no a concludere questa legislatura, e perfino che perda o torni sciaguratamente a vincere le prossime elezioni, la filosofia di governo di Silvio Berlusconi si trova finalmente costretta a fare i conti con un limite invalicabile. Essa consta a ben vedere di pochi e scellerati punti, i primi dei quali sono un'idea post-costituzionale della democrazia, e la convinzione che il rito inaugurale della seconda Repubblica consista nella Grande Vendetta contro quei magistrati che hanno messo le grinfie sulla corruzione della prima. L'uno e l'altro punto trovavano nella riforma dell'ordinamento giudiziario firmata dall'ingegner Castelli la loro apoteosi. Non solo perché si tratta di una legge incostituzionale. Ma perché spalanca le porte a una architettura istituzionale privata di alcuni capisaldi del costituzionalismo, quali la divisione dei poteri, l'autonomia della giurisdizione, il controllo di legalità sul potere politico. Il rinvio alle camere della riforma da parte di Ciampi è dunque un doppio schiaffo alla filosofia di governo di Silvio Berlusconi: non solo perché boccia nel merito la riforma, ma perché ribadisce di per sé il funzionamento fisiologico di una democrazia costituzionale, in cui le pretese di onnipotenza della maggioranza e dell'esecutivo possono e devono essere bloccate dagli organi preposti alla custodia della legge fondamentale, il presidente della Repubblica in primo luogo.

C'è dunque ben poco da minimizzare in generale, come fa Berlusconi tirando fuori l'ennesimo coniglio dal cappello della vittima per sospirare quant'è difficile il mestiere del riformatore. E c'è poco da minimizzare anche in particolare, come fa il guardasigilli assicurando che i rilievi di Ciampi intaccano i rami ma non il tronco della sua riforma, qualche dettaglio ma non la sostanza. Non è così, perché anche se le sette cartelle del presidente non fanno menzione di due dei punti della riforma più controversi e più contestati dalla magistratura - la separazione delle funzioni e la riorganizzazione gerarchica delle procure - , bastano tuttavia a mandare all'aria l'intero impianto della legge. Ribadiscono che l'obbligatorietà dell'azione penale non può essere subordinata alle linee di politica giudiziaria emesse annualmente dal guardasigilli. Che l'attività dei magistrati non può essere condizionata dai monitoraggi ministeriali. Che il Csm non è un organo amministrativo ma un potere dello stato; e soprattutto che le sue competenze non possono essere vincolate dal sistema concorsuale previsto dalla riforma. Con il che salta non qualche quisquilia ma l'ispirazione generale della creatura di Castelli (oltretutto tecnicamente malfatta, manda a dire il Colle, come tutte le leggi italiane da troppo tempo in qua).

Non salta invece ma viene sciaguratamente confermata, con la stessa giornata di ieri, l'ispirazione generale dei ritocchi - chiamiamoli così - al sistema penale introdotti dalla legge Cirielli votata alla camera. Nella quale non si tratta «solo» dell'indecente dispositivo salvapreviti, ennesima replica della legiferazione ad personam in cui filosofia e prassi berlusconiane eccellono senza tema di confronti nazionali e internazionali. Si tratta, attraverso il combinato disposto delle prescrizioni, delle recidive e delle attenuanti, di un ben più grave passaggio da un diritto penale incentrato sulla punibilità del reato a uno incentrato sulla punibilità della persona. Nella scia della tradizione americana, di una giustizia sempre più forte con i deboli e sempre più debole con i forti, che produce devianza nelle fasce basse della popolazione e riempie le carceri di immigrati e piccoli spacciatori. Proprio per questo c'è bisogno di una magistratura autonoma: non a difesa di un potere corporativo, ma a garanzia dei diritti fondamentali scritti in Costituzione.

Un durissimo atto d’accusa contro la posizione dominante del gruppo mediatico che fa capo al presidente del consiglio nel mercato pubblicitario televisivo, una denuncia del duopolio Rai-Mediaset nel settore dell’emittenza, un attacco frontale alla legge Gasparri, un inedita e severissima critica alle, partecipazioni di Fininvest in un settore strategico come Telecom. Questa volta, più che in altre occasioni, Giuseppe Tesauro, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, non ha badato a spese.

In una relazione di 12 pagine a supporto di una mastodontica indagine iniziata nel 2003 mette a nudo tutte le anomalie del sistema televisivo dell’era Berlusconi. La prima sciabolata riguarda la drammatica situazione del mercato pubblicitario italiano, dominato dal biscione di Arcore: il mercato della raccolta pubblicitaria nel settore televisivo, si legge nella relazione, è caratterizzato da «un livello di concentrazione che non ha riscontro negli altri Paesi europei, e che è determinato dalla posizione dominante del gruppo Fininvest», con una percentuale del 65%, «e dalla quota di Rai che detiene, con il 29%, la quasi totalità della parte residuale del mercato».

L’Authority, che da questo momento in poi raccoglierà ancora più antipatie nele stanze di Palazzo Chigi, spiega che «il settore nazionale della raccolta pubblicitaria, ed il mercato della raccolta televisiva in particolare, è caratterizzato da un’ elevata concentrazione, nonchè da elevate barriere all’ingresso, a causa soprattutto di alcuni fattori di natura strutturale che ostacolano il corretto funzionamento del mercato». Tra questi fattori l’Autorità cita «la disponibilità, in un contesto di scarsità della risorsa frequenziale, di tre reti in capo a ciascuno dei due principali gruppi televisivi, che ha consentito a Fininvest e Rai di attuare strategie che hanno limitato l’entrata e la crescita di nuovi concorrenti», e «la disciplina che regola le condotte della società cui è affidato il servizio pubblico radiotelevisivo, che, da un lato, ha favorito la creazione di un duopolio simmetrico nel versante dell’offerta di contenuti televisivi; dall’altro, ha rafforzato gli incentivi dei due operatori ‚incumbents’ ad attuare politiche commerciali accomodanti nella raccolta pubblicitaria televisiva».

Per questi e altri fattori, «mentre i mercati della raccolta pubblicitaria su quotidiani, periodici e radio presentano una struttura piuttosto competitiva, quello della raccolta televisiva la cui caratteristica principale è di essere composto da gruppi televisivi che forniscono contenuti ai telespettatori e offrono contemporaneamente inserzioni ai clienti pubblicitari è contraddistinto da un livello di concentrazione che non ha riscontro negli altri Paesi europei.

Giuseppe Tesauro, parlando del Gruppo mediatico del capo del governo scrive inoltre: «In Italia, nonostante le numerose sentenze della Corte Costituzionale, la normativa di settore non ha impedito che in presenza di risorse scarse un unico soggetto, (Berlusconi ndr), potesse sercire tre emittenti televisive nazionali». Con argomentazioni affilatissime, che in un paese serio metterebbero in crisi gli assetti di governo, il provvedimento antitrust mette in fila tutti i buchi neri del settore televisivo. «L’asimmetrica allocazione delle risorse frequenziali»,«una scarsa penetrazione delle piattaforme trasmissive alternative a quella terrestre», «L’assetto proprietario della società di rilevazione degli ascolti televisivi, su cui Fininvest e Rai esercitano un’influenza determinante».

La relazione non risparmia le leggi ad personam, svelando il trucco della legge Gasparri a favore di Berlusconi. Co la legge Gasparri la Rai non può «svolgere in modo efficiente l’attività di servizio pubblico generale e contemporaneamente competere efficacemente con gli altri operatori nel mercato della raccolta pubblicitaria assicurando un’adeguata pressione concorrenziale» nei riguardi di Mediaset.

Giuseppe Tesauro non si limita alla diagnosi ma indica la strada per destrutturarre il duopolio: «Al fine di stimolare la competizione nel mercato digitale terrestre andrebbero «favorite misure di separazione verticale degli operatori di rete, mediante la separazione proprietaria delle società Rai Way e Elettronica Industriale, attualmente facenti capo ai gruppi Rai e Fininvest».

Un tempo fioriva in Italia una ricca cultura dell´industria. Con questa definizione intendo riferirmi a quell´assieme di iniziative, di riviste, di movimenti, di reti intellettuali che facevano capo ad alcune delle maggiori grandi imprese, ne arricchivano e ne caratterizzavano il profilo al di là del mero fattore produttivo, ibridavano il pensiero umanistico con quello scientifico, tecnologico, urbanistico, sociologico. La letteratura e l´arte s´incrociavano con l´economia di fabbrica. La Olivetti, l´Iri, l´Eni, la Fiat e altre aziende, anche minori, si distinsero in quest´opera. Sorsero prestigiose riviste come Civiltà delle macchine, Pirelli, la Casa editrice Comunità, uno spazio espositivo di rinomanza internazionale come palazzo Grassi (oggi in vendita) e molte altre cose. Solo più tardi si moltiplicarono le sponsorizzazioni che, però, son cosa diversa, consistendo in finanziamenti, non collegati, comunque, alla crescita specifica di una cultura industriale.

Da questo punto di vista, anzi, l´arretramento è impressionante ed ormai di quel patrimonio resta un deserto. Se il tramonto delle grandi imprese ha trascinato con se la preziosa sovrastruttura culturale, le privatizzazioni hanno spento ogni vocazione nel management sopravvenuto.

Queste nostalgiche riflessioni mi sono state suggerite proprio in occasione di una conferenza che ho tenuto in un paese di 4.000 abitanti, Montereale Valcellina, a 20 km. da Monfalcone, dove una giunta di centrosinistra porta avanti assieme ad altri otto comuni del circondario una pregevole iniziativa culturale multimediale. Conversando col sindaco e con l´assessore alla cultura son venuto a sapere di un altro impegno assunto da questo comune che va ben oltre le dimensioni locali: il salvataggio, il restauro e la fruizione culturale di un grande monumento di archeologia industriale, la prima mega-centrale idroelettrica dell´Alta Italia che produsse energia e portò la luce nel Veneto fino a piazza San Marco fino allora illuminata a gas. Venne costruita nel 1900-1905 allo sbocco della Val Cellina ed ha funzionato fino al 1988. È ancora lì nella sua imponente struttura e con i suoi macchinari targati 1901, ormai fermi ma perfettamente utilizzabili a fini didattici. Ho chiesto di visitarla e sono rimasto impressionato per la mole, la struttura in pietra, l´eleganza floreale degli interni lastricati in lucidissimo granito. Le foto degli anni della costruzione sono toccanti: si vedono migliaia di uomini che scavano la montagna e un esercito di donne che trasportano a spalla gerle cariche di pietre. E´ difficile nell´assieme trovare una testimonianza così composita e completa della storia energetica italiana. La cosa era tanto evidente che l´Enel, ancora interamente pubblica, quando dislocò la produzione in centrali tecnologicamente più moderne, annunciò, diffondendo anche un documentario cinematografico in merito, la trasformazione della vecchia centrale, ritenendola «uno dei più emblematici esempi di architettura industriale degli inizi del secolo», in museo nazionale dell´energia idroelettrica, sia a fini espositivi che pedagogici per far conoscere dal vivo agli studenti delle facoltà tecniche il funzionamento di macchine ormai scomparse. L´Enel si proponeva anche di collocare nei grandi ambienti della Val Cellina il proprio archivio storico. Con la privatizzazione, pur essendo l´Enel ancora controllata dal Tesoro, ogni passione culturale si è spenta. Il progetto di riutilizzo è stato abbandonato e lo stesso edificio è stato salvato dal degrado solo per l´intervento volontario dell´associazione degli ex dipendenti. Nel frattempo l´Enel ha messo in vendita su Internet tutta la struttura e le adiacenze, compreso un bellissimo parco. Il rischio di una trasformazione devastante e di una speculazione sulle aree incombeva. Il comune si è allora fatto avanti. Ha ottenuto dalla Sovrintendenza il vincolo sull´intangibilità del bene. Ha presentato all´Unione europea e alla Regione un progetto di utilizzo sulla linea un tempo avvalorata dall´Enel, ha ottenuto dalle due istituzioni un contributo a tal fine. A questo punto si è presentato ai vecchi proprietari proponendo un acquisto, sperando in un prezzo simbolico.

Il Comune si era però illuso. All´Enel non sanno ormai che farsene di quell´impianto sfruttato per un secolo, ma quando sentono parlare di cultura non mettono mano alla pistola ma aprono le fauci: l´amministrazione locale dovrà sborsare 900 mila euro, Iva compresa, per l´ambito acquisto. Malgrado le sovvenzioni resterà così assai poco per avviare e gestire un´impresa di rilievo nazionale. Possiamo dire che è una indegnità?

I GIOVANI della Confindustria hanno definito nel loro convegno di Capri di tre giorni fa la legge finanziaria come una scatola vuota. Hanno perfettamente ragione; infatti in essa c´è soltanto la speranza (ma senza alcuna certezza) d´un aggiustamento della contabilità pubblica che Tremonti ha lasciato pochi mesi fa al suo successore in condizioni comatose e non più oltre nascondibili: il deficit al 4,5 del Pil, l´avanzo primario delle spese correnti a poco più del 2 per cento della vetta del 5 toccata nella fase Ciampi-Visco; il debito pubblico al 106 per cento; il fabbisogno di cassa a 60 miliardi di euro.

La finanziaria del 2005 che tra pochi giorni sarà discussa e poi votata dal Parlamento dovrebbe servire soltanto a riportare queste cifre sulla linea di galleggiamento. Viceversa i provvedimenti di politica economica destinati a rilanciare la domanda stagnante e a stimolare la competitività sono rinviati al 31 ottobre (ma più probabilmente alla fine dell´anno) senza che ancora si sappia come saranno formulati e quale forma legislativa avranno, decreto legge o disegno di legge o emendamenti da introdurre nella finanziaria.

Ha dunque ragione la giovane confindustriale Artoni: una scatola vuota che costa però al paese una manovra di 24 miliardi che, aggiunti ai 4 già votati per raddrizzare in corsa le gambe dell´esercizio 2004, fanno un totale di 28, pari a 56 mila miliardi di vecchie lire.

Aggiungo che se l´aggiustamento fosse un obiettivo sicuramente raggiungibile, averlo raggiunto sarebbe comunque un successo oltre che la conferma del buco che il triennio di Tremonti ha lasciato in eredità.

Rappresenterebbe un primo voto positivo sulla pagella di Siniscalco. Il guaio è che l´operazione di raddrizzamento finanziario ha anch´essa le gambe storte, anzi stortissime; sicché rischiamo di restare per un anno ancora sul crinale del dissesto finanziario e della stasi economica mentre la stessa ripresa americana manifesta segnali di rallentamento e di incerta fiducia.

Il nerbo (si fa per dire) della manovra si basa su 9,5 miliardi di minori spese. Dico minori spese adottando la impropria terminologia del presidente del Consiglio e del ministro dell´Economia che hanno bandito dal loro vocabolario la parola "tagli". Mi adeguo, ma non senza avvertire che di veri e propri tagli si tratta, visto che fissare a quasi tutte le spese della pubblica amministrazione, investimenti compresi, un tetto nominale di aumento del 2 per cento a fronte di un´inflazione che progredisce con la stessa velocità, significa di fatto congelare a incremento zero la totalità della spesa.

Il ministro ha anche comunicato che per mantenere gli obiettivi del triennio 2005-2007 il congelamento della spesa dovrà proseguire per lo stesso arco di anni, il che rende l´obiettivo non soltanto poco credibile ma mancato in partenza oppure raggiungibile soltanto a prezzo di una politica di vera e propria macelleria sociale.

Le spese correnti del nostro bilancio si compongono infatti per oltre l´80 per cento di stipendi, pensioni, costi fissi e interessi sul debito pubblico.

Poi ci sono quelle in conto capitale, anch´esse assoggettate al congelamento per lo stesso triennio.

Mi domando con quale faccia ci si venga a raccontare che questo è un obiettivo perseguibile e per di più attraverso una manovra triennale definita morbida. E mi domando anche quale sarebbe, per il nostro "premier" e per il suo ministro, una manovra severa: forse quella che prevedesse l´eliminazione fisica di almeno un terzo dei pubblici dipendenti, dei pensionati, dei percettori di interessi e di cedole di titoli pubblici? Mi domando infine come mai la giovane confindustriale Artoni e i suoi associati abbiano definito «scatola vuota» la finanziaria in questione (con un termine che secondo me pecca di notevole indulgenza) mentre il presidente della Confindustria Luca Montezemolo e il suo vicepresidente Marco Tronchetti Provera abbiano dato pieni voti di lode a quel medesimo documento. Avevano forse gli occhi e le orecchie foderati di prosciutto gli adulti della Confindustria, laddove i loro giovani e soprattutto i sindacati ne scorgevano tutte le magagne?

I 9 miliardi e mezzo previsti da Siniscalco non ci saranno. Se ne porterà a casa 7 sarà grasso che cola, tanto più che ha già cominciato a ceder terreno sul contratto con gli statali e altro ancora dovrà cederne sulla scuola, sulla difesa, sugli investimenti. Qualora poi - come è possibile se non addirittura probabile - si dovesse trovare di fronte ad un aumento dei tassi d´interesse, l´intero castello da lui costruito sul congelamento della spesa crollerebbe miseramente.

Né le prospettive sono migliori quando si passi a esaminare la voce di 7 miliardi attesi dalle maggiori entrate fiscali. Quest´introito è basato per quattro quinti su un nuovo concordato che Siniscalco si propone di stipulare con le associazioni dei commercianti, degli artigiani e dei professionisti; insomma con quelle categorie di lavoratori e imprenditori autonomi che sono poco o nulla soggetti alla concorrenza internazionale.

Secondo le previsioni di Siniscalco dovrebbero pagare circa 5 miliardi in più rispetto all´esercizio precedente, sempre che (ha aggiunto) le associazioni che li rappresentano siano d´accordo.

Non scommetterei un soldo bucato sulla probabilità di quell´accordo. Perché dovrebbero sottoscriverlo, cioè autotassarsi, gli interessati? Si dice: evadono, si tratta di accettare una riduzione dell´evasione.

E´ probabile che evadano. Ma se il ministro ne è così certo perché non procede d´ufficio e senza bisogno d´un compromesso fondato sull´accettazione da parte dello Stato dell´evasione di una parte ragguardevole di contribuenti? La verità è che quei contribuenti, tutti titolari di partite Iva, evadono largamente ma hanno anche buone ragioni per farlo che hanno tante volte illustrato al pubblico. Gli studi di settore sono un modo escogitato dal fisco per tener conto delle loro ragioni senza abdicare alle proprie esigenze; ma è un modo fondato sull´accordo e quindi sul compromesso. Difficile rompere il compromesso in una fase di ristagno della domanda, senza offrire qualche cosa in cambio. È evidente che quel qualcosa, per chi vive sulla domanda del mercato, non può essere lo sgravio dell´Irpef, bensì una forte spinta ai consumi almeno per quanto riguarda gli esercizi commerciali di ogni dimensione, specie se gli si richiede una politica di prezzi contenuti. È ragionevole cumulare nello stesso tempo tassazione più elevata, prezzi scontati e domanda calante?

Bisogna dunque puntare sul rifinanziamento del potere d´acquisto non per la domanda di beni di lusso ma per quella di beni diretti di larghissimo consumo.

In mancanza di che è molto ardua una acconcia spremitura fiscale del terziario commerciale. Difatti anche su questa voce d´introito tributario è stato lo stesso ministro ad affannarsi per rassicurare le categorie in rivolta e gli alleati politici che già minacciano una pioggia di emendamenti. Il rischio è che quei preziosi 7 miliardi di maggiori entrate tributarie si riducano al lumicino.

Della manovra da 24 miliardi non resta di sicuro che la parte ancora una volta affidata alle una tantum, salvo che la Commissione di Bruxelles non abbia a bocciare l´eterna creatività del "mordi e fuggi" italiano. Scatola vuota o scatola sfondata?

* * *

Si leggono in questi giorni dotti articoli che mettono nel mirino un presunto partito delle tasse capace di averla vinta su chi vorrebbe dare le ali alla domanda riducendo drasticamente le imposte e la spesa pubblica. Meno Stato e più mercato. E si ricorda per l´ennesima volta il circuito virtuoso messo in moto da Ronald Reagan che procurò forza e diffuso benessere all´economia americana.

Ma per l´ennesima volta occorre ricordare che la politica di massicci sgravi fiscali praticata da Reagan non procurò alcun sollievo all´economia Usa. Bisognò aspettare parecchi anni per vedere un´espansione consistente di quell´economia durante i due mandati della presidenza Clinton. Le cifre sono lì per chiunque abbia lo scrupolo di volersi documentare.

Del resto uno sconto fiscale fa piacere a tutti, così pure l´eliminazione degli sprechi e del malgoverno purché non metta a rischio i fondamentali del bilancio. Puntare su quell´obiettivo partendo da un bilancio appesantito da un debito pubblico che è tra i più alti del mondo in rapporto al Pil o azzardare una politica di deficit spending sarebbe pura follia. Ma perché uso il condizionale futuro? Quella politica è stata la base del triennio di Tremonti, a stento compensata dai condoni e dalla vendita del patrimonio per decine di miliardi senza arrestare l´aumento del debito. Se siamo nelle condizioni in cui siamo lo si deve a quella politica che Siniscalco, contrariamente a quanto sostengono i suoi estimatori, sta continuando come l´analisi della sua finanziaria largamente dimostra.

Intanto il fabbisogno continua ad aumentare e con esso il debito. Per guadagnar tempo - secondo gli insegnamenti tremontiani, si cerca di spostare sul sistema bancario una parte del finanziamento del Tesoro attraverso la cartolarizzazione dei crediti e il camuffamento della Cassa Depositi e Prestiti in una banca generale sottratta alla contabilità dello Stato.

Mezzucci cosmetici che non cambiano in nulla la realtà finanziaria e l´incapacità del governo di intercettare il debole vento di ripresa che ancora spira tra le due sponde dell´Atlantico.

* * *

Coloro che si inventano l´esistenza di un partito delle tasse e gli addossano la colpa d´aver impedito a Berlusconi di imitare Ronald Reagan, ripongono ora timide ma fervide speranze in "un nuovo gruppo che sia al di fuori di tutti gli schieramenti politici e possa in futuro prendere la guida del paese".

Sarei curioso di saperne di più. Sono tentato di dire anch´io «fuori i nomi». Ma sarebbe indiscreto.

Indiscreto ma interessante. Un nuovo gruppo di persone al di fuori degli attuali schieramenti: è un´invocazione retorica allo stellone italiano? Agli uomini della provvidenza? Ma non era Berlusconi l´Unto del Signore? Un altro come lui? Dunque un impresario anzi, scusate, un imprenditore? Cui sia venuto il prurito di far politica? Qualcuno che forse è rimasto in panchina e che adesso ha cominciato a scaldare i muscoli e che non sta né con la destra né con la sinistra ma con se stesso?

Ancora una volta dico che mi ricorda un Berlusconi giovane. Il nome, anzi i nomi, francamente non mi vengono in mente ma avverto un certo rumore di fondo. "Quod Deus avertat".

Notte e nebbia

L’editoriale de l’Unità, 4 settembre 2004, raccoglie i dubbi che da più parti si sono levati per il terrificante incontro tra terrorismo ceceno e intervento statale russo e per le menzogne dell’informazione ufficiale

È uno spaventoso massacro ed è la sola cosa che sappiamo con certezza. Tutto il resto non si deve vedere, non si deve sapere, non si deve capire, nascosto oltre il sipario di polvere densa e cattiva che si alza dalle macerie della scuola di Beslan dove il terrorismo ceceno ha impiantato la propria macelleria. Non si conosce nemmeno il numero dei morti: 150 secondo le autorità dell’Ossezia, molti di più secondo Mosca, non meno di 250 secondo i giornalisti che hanno assistito al blitz, molte centinaia secondo la Cnn. Blitz che prima viene negato dal Dipartimento osseto dei servizi segreti russi che, però, poi ammette: «siamo stati costretti all’azione». Oltre la sequenza Cnn dei bianchi sudari allineati sull’erba, dei bambini nudi scampati, delle barelle inutili, del tetto crollato sotto i colpi non si sa di chi, dell’autoblindo che corre intorno come un giocattolo senza molla, s’intuisce il problema di Putin. Allontanare da sè e dai suoi famosi reparti speciali l’onta della carneficina frutto dell’improvvisazione, dell’inettitudine e forse anche del disprezzo per gli ostaggi. Che prima erano 300 e poi si sono moltiplicati, come la anime morte di Gogol, fino a gonfiarsi nella statistica più aggiornata a «oltre 1200». Oltre 1200 tenuti a bada da trenta o quaranta terroristi? Facendo pensare che, qualcuno, nelle stanze del Cremlino non sapendo come sottrarsi alla lugubre forza dei numeri abbia escogitato un’apposita contabilità. Perché 150 morti su 350 ostaggi è ancora un rapporto, per così dire, presentabile davanti al mondo civile. In fondo ne abbiamo salvati più di uno su due, potrebbe dire il nuovo zar giustificando il devastante assalto delle sue teste di cuoio. Ma se i morti diventano 250, e i feriti 400, gli ostaggi dovevano essere per forza molti di più. «Oltre 1200» appare perciò una cifra abbastanza equilibrata nel contesto di un bagno di sangue. E forse anche un risultato spendibile nel consesso internazionale desideroso di conoscere i nuovi concreti progressi nella lotta al terrorismo.

Dispiace soffermarsi sui conti che non tornano, trattandosi di conti che riguardano il dolore incommensurabile delle povere famiglie di Beslan. E neppure si può lontanamente paragonare la ferocia disumana di chi ha attaccato con violenza cieca di chi ha reagito. Ma se tutto ci viene impedito di sapere sulla cause, reali, autentiche, che quel dolore hanno scatenato, sarà sempre più difficile difendersi da altro dolore, altro orrore, altri massacri. Esiste come una perversa simmetria tra terrorismo e menzogna.

Si direbbe quasi che l’uno e l’altra si sostengano a vicenda nel provocare infinite sofferenza e nell’impedire al resto dell’umanità di sapere perché. Il combinato disposto tra Al Qaeda e la manipolazione delle notizie ci sta precipitando in una cupa notte della ragione. E della informazione. A tutt’oggi nessuno sa cosa ha veramente scatenato l’11 settembre. E perché Bin Laden? E dov’è Bin Laden? E perché la guerra a Saddam? E dove sono le armi di distruzione di massa? E cosa sta succedendo, davvero, in Iraq? E come è possibile che trenta o quaranta ceceni possano entrare indisturbati nella misteriosa Ossezia e possano tranquillamente prendere in ostaggio 1200 (milleduecento) persone? Eppure, mentre il terrorismo s’impadronisce delle nostre menti, in attesa di farlo con le nostre vite, alla Convention di New York George W. Bush viene osannato quando dichiara che, oggi, con lui il mondo è più sicuro. Una frase insensata, ma che può passare indenne nel sonno della conoscenza. Una frase dal suono amichevole e patriottico se il presidente degli Stati Uniti intende, invece, comunicarci che siamo già entrati nella Terza o Quarta guerra mondiale. E che dunque è molto più conveniente per tutti stare dalla sua parte. Nella Terza o Quarta guerra mondiale non c’è posto per gli indecisi e i codardi. E non c’è posto per la politica, e non c’è posto per la diplomazia, e non c’è posto per l’Onu. O sei contro il terrorismo o sei con il terrorismo ammonisce il governatore della California “Conan” Schwarzenegger, quello che deride i democratici di Kerry chiamandoli «girlie men», femminucce. E quanto agli ostaggi, peggio per loro. Se in Francia un governo sovrano e responsabile cerca di fare il possibile per salvare la vita dei cittadini Chesnot e Malbrunot, quel governo «bacia il culo del nemico» («Il Foglio»). Ma poiché in Italia non esiste un governo del genere, da noi si dirà semplicemente che il cittadino Baldoni «se l’è cercata».

In una guerra mondiale, nello scontro di civiltà evocato dal pensatore Pera, i fatti devono adeguarsi per forza alle opinioni. Nessuno sa cosa è successo a Beslan, ma Bush dichiara lo stesso: ecco cosa fanno i terroristi. Berlusconi segue a ruota. Terrorismo e menzogne. Per arrivare dove? Chi taglia la gola dei prigionieri, chi massacra i bambini non ha nessuna civiltà da imporre. Sono criminali che ci faranno ancora soffrire molto, ma che hanno già perso. Norman Mailer ha un’altra risposta ancora. Cita il pensiero di un tipo che in vita sua è diventato obiettivo un po’ troppo tardi: «Ovviamente la gente comune non vuole la guerra, ma in fin dei conti sono i leader di un paese a fare la politica, ed è sempre semplice trascinare un popolo - che si tratti di una democrazia, di un regime fascista, di un regime parlamentare o di una dittatura comunista. Che faccia o no sentire la sua voce, il popolo può sempre essere piegato agli ordini dei capi. E facile. Basta dirgli che è sotto attacco e accusare i pacifisti di non essere patriottici e di mettere la patria in pericolo. Funziona nello stesso modo in tutti i paesi». Queste parole, spiega Mailer,le pronunciò Hermann Goering nella sua deposizione al processo di Norimberga. Ma forse, con l‘aria che tira, era una citazione da dimenticare.

PRIMA ancora che si calassero in un provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri, sono stati diffusi i dati sul finanziamento dei previsti sgravi fiscali. Non si tratta di coperture fittizie: poiché il ministro, in questo, ha mantenuto il suo impegno, il Ragioniere generale dello Stato, a cui non spettano valutazioni di merito, può certificare in coscienza la compatibilità contabile delle proposte annunciate. Il ricavo del condono edilizio rinviato al 2005 è sostituito negli anni successivi dall´entrata a regime di nuove misure sulle entrate, e soprattutto sulle spese; non figurano come copertura le risorse accantonate per il contratto dei dipendenti statali. Probabilmente il 3% di indebitamento sarà superato l´anno prossimo: ma a motivo dei tanti buchi, vecchi e nuovi, della Legge finanziaria da 24 miliardi.

Non dunque di correttezza della copertura degli sgravi tributari dovrebbe occuparsi il dibattito politico, ma dell´accettabilità e delle conseguenze delle scelte compiute per consentirne il finanziamento. Si insegnava un tempo sui libri di testo che non si può avere più burro senza avere meno cannoni. La scelta fra l´uno e gli altri è, appunto, una vera scelta politica, salvo che qualcuno voglia vendere l´illusione che si può avere più dell´uno e più degli altri: come si è tentato di fare in questi anni, fin quando la dura realtà dei numeri non ha imposto le sue ragioni.

Quali sono i cannoni a cui si vuole rinunciare per offrire il burro della riduzione di imposte? Vi è anzitutto un rigido e durissimo blocco dei rimpiazzi (turnover) nel personale delle pubbliche amministrazioni e delle università. Nel complesso del settore pubblico esiste un problema di qualità e di efficienza, più che un problema di numeri, che non sono certo superiori a quelli degli altri paesi. Come ha ben scritto Fabrizio Galimberti su il Sole-24Ore, tagliare i numeri senza preoccuparsi di efficienza e qualità può solo peggiorare la situazione. Tra tre anni, vi sarà qualche decina di migliaia di dipendenti in meno: certo meno persone improduttive, senza tuttavia che ve ne siano di più produttive; e, comunque, meno poliziotti e carabinieri, meno addetti alla protezione civile, meno magistrati. Nelle università e nei centri di ricerca il passaggio improvviso dal passato eccesso di generosità al blocco totale impedirà l´accesso di giovani e aumenterà l´invecchiamento: meno cattedre date senza merito, certo, ma anche sancito divieto di accesso ai meritevoli e, dopo tanta retorica, al ritorno in Italia di giovani studiosi oggi all´estero.

Vi è poi un ulteriore e drastico taglio dei cosiddetti consumi intermedi, ovvero dell´acquisto di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni (600 milioni l´anno prossimo, 1,2 miliardi negli anni successivi). In questo caso si tratta in parte veramente di cannoni, poiché gli acquisti sono elevati soprattutto nella difesa. Ma in parte si tratta di altro, e non solo di arredi per gli uffici: ad esempio di minori mezzi per le forze dell´ordine (vecchie macchine della polizia vanamente impegnate nell´inseguimento dei veloci mezzi usati dai delinquenti); di meno attrezzature per la sanità pubblica, con un incentivo al ricorso delle cliniche private.

Dunque di questo soprattutto si tratta, né di altro potrebbe trattarsi, poiché con una spesa del settore pubblico costituita per il 46 per cento da prestazioni sociali (ossia pensioni, su cui non si vuole intervenire) e da interessi, di grasso sui cui incidere ve n´è poco o nulla. Il governo ha finalmente compiuto una scelta politica: meno tasse e meno servizi. Smetta l´opposizione di sollevare questioni tecniche, che non esistono: renda chiaro il costo della scelta e spieghi perché ad essa ci si debba opporre.

Dobbiamo un ringraziamento a Rocco Buttiglione. La sua audizione, le sue posizioni contro gli omosessuali e contro le donne, e le reazioni che hanno scatenato, hanno avuto un grande merito: hanno dato carne a sangue ad un'Europa rimasta finora burocratica e grigia, mercantile e liberista. Finora l'Europa delle cittadine e dei cittadini non l'avevamo intravista neppure in controluce. Lo stesso dibattito sulle origini giudaico-cristiane del vecchio continente, dibattito niente affatto secondario (e nel quale - a mio parere - l'elemento storico e religioso non era da cancellare con prosopopea e sufficienza) era stato inficiato da elementi strumentali. Chi voleva introdurre le origini cristiane, come il presidente del Senato il neocon Marcello Pera, non faceva mistero di considerare quel riconoscimento parte di una guerra di religione. «In un momento in cui l'Occidente, l'America con l'11 settembre, l'Europa con l'11 marzo - ha detto - sono fattti bersaglio del terrorismo islamico, riconoscersi o meno in una identità, che ha radici tanto nella tradizione giudaico-cristiana quanto nella civiltà greca classica, costituisce una differenza fondamentale». Chi a queste radici si opponeva, come la Francia di Jacques Chirac, lo ha fatto in nome di un laicismo che rifiutava a priori e ingiustamente l'esistenza di radici cristiane in quanto radici "religiose".

Così eravamo a qualche giorno dalla firma del trattato costituzionale. Poi c'è stato il "caso Buttiglione" che, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha rotto il silenzio delle donne e degli uomini e ha posto a tutti noi cittadini/e europei/e le seguenti domande: chi siamo?

Quali devono essere i nostri diritti? In che modo dobbiamo regolare le nostre relazioni a cominciare da quelle nella famiglia? Quale rapporto dobbiamo avere con il diverso, sia esso l'omosessuale, una minoranza politica o con l'extra comunitario, cioè con un'altra cultura? Come si costruiscono i rapporti fra i sessi e come si concepisce la figura e il ruolo della donna nella società e nella famiglia? Come si confrontano i valori di cui siamo portatori?

Non sono domande da poco. Esse rinviano a regole comuni e con-divise, a valori fondanti. Esse, o meglio la risposta ad esse, contribuisce a costruire in modo determinante un'idea e un immaginario di Europa. A dargli quell'anima, che i burocrati e i governi di Bruxelles non sono riusciti neppure ad accennare nelle centinaia di pagine del trattato costituzionale.

Perché di un'anima, e anche di ideali e "di immaginario" (come non si stanca di ripetere sul manifesto Ida Dominijanni) i cittadini europei hanno bisogno. Chi oggi usa, strumentalmente, i valori espressi da Rocco Buttiglione, sa bene l'anima che vuol dare all'Europa. Ce l'hanno detto parlando dell'aborto, dell'omosessualità, della procreazione assistita, della famiglia. E oggi ce lo dice con particolare forza e convinzione, perché quelle idee fanno parte di una battaglia più vasta. Esse devono essere il fondamento di un'Europa che in nome dell'occidente ingaggia una guerra contro l'"altro", contro l'Islam. Tutto si tiene in quel progetto ideologico: il liberismo di Maastricht, una concezione delle donne e degli uomini e delle loro relazioni intrinsecamente conservatrice, e naturalmente la guerra. Quella guerra che si vorrebbe far diventare il collante di un continente che finora non è apparso entusiasta.

E' un progetto chiaro, lineare, ma non egemone. E' pieno di contraddizioni come sempre la vicenda Buttiglione ha dimostrato. Gran parte di coloro che sono per la libertà di mercato sono anche per la libertà dell'individuo. Una intellettuale italiana come Claudia Mancina lo ha detto in un articolo di grande spessore apparso sul Foglio di qualche giorno fa: non si può essere per il libero mercato e contro la libertà delle persone, delle donne, degli omosessuali. Questo occidente va preso tutto così come è. E la pensano come Claudia Mancina quei liberaldemocratici europei, non assimilabili alla sinistra, che sono stati fondamentali nel respingere le tesi integraliste di Rocco Buttiglione.

E questa non è la sola contraddizione. La seconda riguarda la Chiesa cattolica o meglio i cattolici. Questa può essere in gran parte, o in parte, d'accordo con quanto i conservatori cattolici dicono sulla donna, sull'uomo o sulla famiglia (in gran parte, non del tutto) ma non ci pensa neppure ad ingaggiare una guerra di religione contro l'Islam. Il Papa si è scusato per le guerre di religione, La Chiesa è fondamentalmente pacifista. Quanto al liberismo è noto che Karol Wojtila ne è uno dei critici più intransigenti.

Una parte ampia di cattolici e di cristiani afferma con forza e passione i propri valori, li testimonia nella vita, ma non pensa di imporli ad altri. Questo ha reso possibile nella gran parte dei paesi europei l'affermazione di leggi in contraddizione con valori religiosi.

Ma le donne e gli uomini d'Europa possono accontentarsi di un liberalismo autentico che si limiti a salvaguardare i diritti dell'individuo e del mercato? Che - per citare una delle tre parole della rivoluzione francese, la rivoluzione che definì i diritti dell'uomo - si limiti alla "liberté"? O deve aspirare ad altro? Proprio le contraddizioni esistenti nel fronte liberale e liberista ci fanno capire che dell'altro c'è bisogno. Che la nuova Europa non può costruirsi solo sulla "liberté", ma anche sulla "egalité" e sulla "fraternité". In poche parole nella lotta al liberismo e nella ricerca della pace.

Non è un'utopia, non è una ipotesi astratta. E non solo perché sulla "fraternité", cioè sulla lotta alla guerra in Europa, c'è un fronte vasto e variegato che attraversa gli Stati, la Chiesa cattolica e si incarna in un movimento che si fa di tutto per ignorare, ma che c'è ed è forte (per fortuna non è solo Comunione e liberazione a mobilitare i giovani). Non solo perché l'ipotesi liberista ha provocato sconquassi inimmaginabili e pone all'ordine del giorno quella "egalité" così dimenticata nella stagione della precarizzazione e dello sfruttamento generalizzato. Non solo per questo. Ma perché gran parte del pianeta ci vive già come "eccezione", punto di riferimento, curioso spazio non domato dall'impero americano. Ci vive come continente che sa parlare di pace, che mantiene una idea di solidarietà ed inclusione. Un continente che può parlare al mondo proprio perché "Venere", e non "Marte", non è interessato, cioè, al dominio militare dei popoli della terra. Come un'area in cui sono forti movimenti e idee che cercano un nuovo equilibrio fra uomo e ambiente e fra le diverse culture, dove un movimento operaio, pur colpito, produce ancora modelli di conflitto e di cittadinanza. Dove una grande stagione di lotte ha prodotto con il Welfare, un idea di stato solidale. La battaglia per la costituzione è la battaglia per affermare in Europa questi valori, tra i quali il rispetto delle minoranze (sta qui, ben più che l'essere mussulmani, il confronto con la Turchia)

Provate a parlare dell'Europa con chiunque dei cittadini del mondo, per esempio un abitante dell'Ohio o dall'altra parte del globo un abitante del Sudafrica. Entrambi o con disprezzo o con ammirazione individuano l'Europa come diversa. Questa diversità è la sua - la nostra - anima. Anche noi possiamo vederla e cominciare a viverla.

Neanche il sequestro delle due Simone ci ha privato della perpetua rissosità nell'opposizione. Della quale un solo punto è chiaro, che il «come battere» il cavaliere importa meno del «che cosa fare dopo» il cavaliere. Da che Follini ha rinverdito la speranza di una centralità democristiana, una parte della Margherita e dei Ds, oltre che lo Sdi, sono tentati da un governo che tagli le ali: a sinistra - Rifondazione, il correntone, il Pdci e forse altri -, a destra - la Lega, forse An, ma solo parte di Forza Italia. Sembra un sogno, ma è così. Non basta, la tregua concessa al governo per riscattare i quattro di «Un ponte per» diventerebbe volentieri per molti un metodo costante e assai dialogico di accordi e separazioni su singoli punti fra maggioranza e opposizione, destinato a mischiar le carte per il governo successivo quale che sia. Sarà per questo che l'opposizione strilla contro la Casa delle libertà, ma su quel che farebbe una volta al governo resta sibillina? Ds e Rutelli hanno laconicamente detto che «non tutto va cambiato», si sono astenuti sul primo articolo della devolution, Fassino è svolazzato alla convention di Kerry come da giovane svolazzava a Mosca. Non si rendono conto quanta credibilità hanno perduto dal 13 maggio a oggi. E discutono sulla pelle di un orso che ogni giorno di più rischiano di non catturare affatto.

Questa reticenza è stupefacente. Anche la diatriba su chi dovrebbe decidere il programma - Bertinotti insiste che non siano soltanto i partiti - finisce col suonare come un rinvio, perché intanto nessuno si espone. Lo ha fatto soltanto la Fiom che, essendo un sindacato, elenca le urgenze dei lavoratori: finirla con la precarietà, tener fermo il contratto nazionale, basta con la legge 30. Questione bruciante non solo perché va contro l'ondata liberista che ci sta scrosciando addosso, ma perché precarietà, flessibilità, competitività sono state la grande scoperta del primo governo di centrosinistra e costituiscono il cuore della Carta europea. Non che non potrebbero essere discusse, perché oggi si vede che non sono soltanto i lavoratori a essere penalizzati ma che la priorità data al mercato globale ha reso l'economia ingovernabile, introducendo il massimo dell'incertezza e del disordine in tutte le nazioni. La libera circolazione dei capitali e delle merci terremota ogni previsione di crescita, mentre la circolazione delle persone è resa più urgente dalla miserie di posizione e più repressa dalla parte del mondo verso la quale gli infelici convergono. Come invertire queste tendenze? Viene il dubbio che i moderati dell'Ulivo non ci pensano neanche, mentre metà della sinistra sta ancora pentendosi di aver difeso il lavoro e lo chiama statalismo e rigidità. Se ne preoccupano di più le confindustrie, visto che l'allargamento - fortemente voluto dagli Usa - dell'Europa all'Est sta dando luogo a un colossale sistema di dumping. Mettere un freno a questi processi, come ha proposto Zapatero, implica che i governi rivedano i parametri dei trattati europei e che i sindacati cessino di credere che in un'economia globale il lavoro possa essere organizzato nazionalmente. E che dice la nostra opposizione sulle tasse? Si propone di redistribuire il reddito colpendo le ormai enormi rendite per alleviare le fasce più deboli e garantire i servizi collettivi invece che affidarli al mercato e se li compri chi può?

E poi. La Casa della libertà ha fatto dell'Italia il miglior amico di Bush. Romano Prodi ripete che l'Europa deve parlare con una sola voce. Quale, prego? Germania, Francia e Spagna dicono no a Bush e chiedono il ritiro americano dall'Iraq, il Regno Unito, l'Italia, l'Est e altri restano avvinghiati al Pentagono. La stessa divisione entra fin nella Margherita e nei Ds. La sola voce europea che direbbe? E, attenzione, nessuna delle due scelte è indolore e asettica, come non è semplice né asettico invertire l'ondata liberista. Proprio per questo evitar di parlarne rende l'opposizione poco credibile.

Sono solo due esempi di questioni decisive, che la destra cavalca ma senza che chi chiede il voto contro Berlusconi dica quale progetto ha, sempre che l'abbia. Viene il dubbio che chi non si sforza di convincere ha già smesso di puntare a vincere.

Ma è vero che si tratta di scegliere fra un Iraq normalizzato dagli Stati uniti e un Iraq liberato dai tagliatori di teste? Fra una Cecenia normalizzata da Putin e una Cecenia dominata dai sequestratori di bambini? Che per una volta realismo e morale consigliano il primo corno del dilemma?

Non è vero. L'Iraq non tornerà normale finché dura l'occupazione americana. E' questa che lo ha gettato dalla dittatura nel caos e imponendo un governo Quisling sollecita una resistenza che, non avendo un foro minimo di elaborazione consentita, suscita anche frange fondamentaliste o semplicemente criminali. Ma non sono queste che tengono l'Iraq fra le mani: esso è o sarà nelle mani delle gerarchie sciite e sunnite, che sono in grado di far desistere anche Al Sadr - una repubblica islamica, bel risultato dell'idiozia del Pentagono e dei suoi sostenitori europei. Né la Cecenia è in mano ai sequestratori di bambini: se Putin la lasciasse sarebbe una repubblica islamica diretta da Mashkadov. Riportiamo le cose al loro livello reale che è già abbastanza costernante. E va da sé che siamo perché gli stati trattino per la vita dei cittadini che non hanno saputo difendere dalle frange estremiste, ma soprattutto ritirino gli eserciti di occupazione, che non rappresentano il minor male come si va cianciando ma l'origine del disastro.

La verità è che nel Medio Oriente una partita si sta giocando fra due destre estreme e con mezzi e categorie che credevamo di avere alle spalle. Quando le Nazioni unite interdicevano la guerra come mezzo per risolvere ogni contenzioso internazionale, non si limitavano a predicare la mitezza, ma temevano con ragione che ogni nuova guerra, anche in presenza di mezzi distruttivi sempre più potenti, avrebbe suscitato incendi catastrofici. Cessato l'equilibrio degli armamenti che fungeva da deterrente, incombeva alla sola superpotenza rimasta in campo di vigilare su questo principio per garantire un ordine mondiale nel quale dipanare politicamente conflitti di interesse e risarcire ferite, che forse anch'essa avrebbe subito. Gli Usa di Bush ne hanno derivato invece che ormai erano padroni del mondo, e l'Europa delle sinistre li confermava in questa persuasione chiamandoli a intervenire contro la Jugoslavia nel pessimo contenzioso etnico, che essa non sapeva, né forse voleva risolvere con mezzi politici.

Da allora la scena mondiale non ha più né ordine né principi. Gli Usa hanno risposto ad un brutale attentato covato da potentati arabi che essi stessi avevano addestrato e usato, invadendo due paesi, uno dei quali non c'entrava niente ma del quale il giro di Bush da tempo ambiva il petrolio. E per questo fine hanno rotto le ossa alle Nazioni unite. Hanno mentito e attaccato. Ignoranti e razzisti pensavano di cavarsela con poco mentre hanno messo in fiamme il Medio Oriente moltiplicato i focolai di terrorismo e suscitato in Iraq una reazione diversa, incontrollabili e con estremismi incontrollati.

In vent'anni il mondo è arretrato di tre secoli, siamo tornati alle guerre di religione: Bush sventola il vessillo della trinità, Sharon quello di Jahvè, gli iracheni, i palestinesi, i ceceni quello di Allah. Sono le religioni del libro dietro le quali si coprono corposi interessi e fragili identità. L'occidente invade, massacra, privatizza guerre, soldati e mezzi di morte, cattura e tortura in nome di Cristo. Nel Medio Oriente e in Cecenia giovani e donne disperati si fanno esplodere in nome di Allah pur di trascinare il nemico nella morte.

Dal crollo dell'Urss siamo in un disordine mondiale mai immaginato. Lucio Colletti era da un pezzo polemico col comunismo quando si chiedeva a quali mostruosità però avrebbe dato luogo la caduta di una speranza di riscatto terreno, come erano state le lotte socialiste e comuniste. Se non sarebbe riemerso il furioso ciarpame nazionalista, etnico, religioso a coprire affari e giochi di potere nella confusione dei poveri e dei perdenti. Chi aveva scritto nella prima metà del `900 «Socialismo o barbarie» aveva ragione. E l'avevamo anche noi, Manifesto, quando siamo nati su due punti cardine: la critica al socialismo reale, che allora nessuno faceva, e il tener ferma quella bussola laica e marxista che aveva elevato il livello dello scontro e lo aveva civilizzato. Erano e siamo minoranze fin troppo lucide.

Certo non è comodo essere soli, è più confortevole cantare nel coro dolcificante dei media e dei dubbi della gente per bene. Si è accolti con entusiasmo. Ma affilare la ragione invece che le spade resta il nostro mestiere. Il resto lo lasciamo a Hungtinton, Fukujama e, ahimé, Calderoli.

C´È un´emergenza crimine nel Paese che preoccupa i cittadini, e che dovrebbe impegnare in prima linea il governo, con la sua cultura propagandistica da "tolleranza zero". No. In piena emergenza, Forza Italia si trasforma ancora una volta in un manipolo aziendale per la tutela degli interessi personali di Cesare Previti, che incatena ai suoi destini la decenza di un partito, di una maggioranza parlamentare, di una coalizione, del governo: e purtroppo dell´Italia.

La Casa delle Libertà oggi prova in Parlamento a liberare ad ogni costo Cesare Previti, già condannato due volte per corruzione. Non potendo più fermare i suoi giudici né camuffare il reato, si tenta di renderlo impunibile. Come? Semplice. Si costruisce un fittizio "pacchetto anticrimine" per fingere di legiferare nell´interesse del Paese, e nel pacchetto si inserisce una norma che abbatte i tempi di prescrizione per molti reati pesanti come l´usura, il furto aggravato, l´incendio doloso, ma soprattutto la corruzione. Consentendo a Previti di trovare la strada su misura per evitare il suo giudice, a Berlusconi e a Dell´Utri di non ricorrere nemmeno in appello.

Che dire? Due cose soltanto. Queste vicende possono compiersi solo in un Paese pronto a tutto, dove una vera e propria complicità intellettuale permette che il reato criminale riduca la politica a servaggio, per cambiare in Parlamento la sua natura. Un processo alchemico scellerato, che deforma lo Stato di diritto e dimostra la falsità del teorema che voleva Berlusconi "costretto" alle leggi ad personam. Ora che è stato prosciolto, le leggi ad personam continuano, per quei soci-padroni capaci di tenere in ostaggio il lato più oscuro di un uomo che dovrebbe governare l´Italia, e la umilia con un Parlamento asservito.

Il dottor Dulcamara, che nell´opera buffa affascinava le piazze di paese declamando le virtù del suo elisir e promettendo agli ingenui villici eterna giovinezza, ricchezza e felicità, si è ormai trasferito a Palazzo Chigi e imbonisce con la voce del presidente del Consiglio: per uscire dal ristagno economico e dalle acque morte d´una crescita che da tre anni non si allontana dallo zero, non c´è altra ricetta che la riduzione dell´Irpef e in particolare dell´aliquota massima che colpisce i redditi più elevati, quelli degli imprenditori e dei manager. Basterebbe ridurre quell´aliquota dal 43 al 39 per cento per imprimere all´economia italiana la salutare scossa di cui il nostro Dulcamara cominciò a parlarci fin dall´aprile del 2001.

Come mai un elisir così miracoloso non sia stato ancora propinato e quindi non abbia ancora prodotto i suoi magici effetti, è cosa inspiegabile. Ma ancor più inspiegabile sono le certezze che animano il Dulcamara in questione e il coro dei suoi sodali a dispetto d´ogni senso della realtà.

La realtà è infatti che il numero dei contribuenti che hanno dichiarato un reddito superiore ad un milione di euro è di appena 1.081 (dati della dichiarazione relativa al 2001); nello stesso anno hanno dichiarato redditi superiori ai 300.000 euro annui soltanto 17.000 contribuenti. Riducendo l´aliquota Irpef dal 43 al 39 questi scaglioni di reddito avrebbero un beneficio complessivo di 500 milioni di euro. Sarebbe questa la chiave di innesco della scossa tanto attesa? Chi può prestar fede ad una fandonia di simili dimensioni? Bondi? Schifani? La gentile e graziosa ragazza che fa da qualche giorno la portavoce del nostro beneamato Berlusconi, della quale purtroppo non ricordo il nome?

Noto di passata che la Confindustria, cui presumibilmente sono iscritti i percettori dei suddetti redditi, non ha mai chiesto un provvedimento del genere, anzi si è dichiarata perplessa e addirittura contraria a sperperare risorse pubbliche nella direzione d´uno sgravio fiscale sui redditi personali e in particolare d´un abbattimento dell´aliquota più elevata dell´Irpef.

Non è strana questa resistenza di Confindustria verso una strategia economica di cui i suoi maggiori associati sarebbero i principali beneficiari? Non sarà che non sono tanto allocchi da scambiare per oro fino una patacca di ottone?

* * *

Personalmente non sarei affatto contrario all´aumento dell´imposta sugli autonomi che il ministro del Tesoro chiama pudicamente manutenzione fiscale.

Quel gruppo di contribuenti beneficia già ora d´una sorta di concordato che in realtà configura un permanente condono rispetto al suo effettivo reddito. Il fatto che in tempi di ristrettezze il buon Siniscalco voglia ridurre il livello di quel condono mi sembra del tutto plausibile. Ma vedrete che alla fine da tanto fumo resterà pochissimo arrosto; in tempi elettorali valgono solo gli spot e questa «manutenzione» è assai poco spendibile sul mercato pubblicitario.

Resta come solo e vero perno della manovra il famigerato tetto del 2 per cento che dovrebbe niente meno durare per l´intero triennio 2005-2007. Per tutto questo arco di tempo la spesa corrente complessiva, sia di competenza che di cassa, dovrebbe restar congelata, in termini reali, al livello di spesa del 2003.

Quest´ipotesi non è minimamente credibile. Qualora fosse effettivamente realizzata avrebbe effetti deflazionistici imponenti e indiscriminati. Siamo dunque in presenza d´una strategia dissennata sia nell´ipotesi di mancata realizzazione (nel qual caso salterebbero tutti i parametri e gli obiettivi della manovra) sia nel caso di efficace applicazione (nel qual caso passeremmo dalla stagnazione alla recessione vera e propria).

Aggiungo un´osservazione che non mi pare sia stata ancora fatta. Per l´esercizio 2005 Siniscalco prevede che il tetto del 2 per cento produca minori spese per 7-8 miliardi di euro, necessari a contenere il deficit al di sotto della soglia del 3 per cento fissato dal patto europeo di stabilità.

Nel medesimo esercizio 2005 quello stesso tetto servirebbe a coprire la riduzione dell´Irpef e dell´Irap.

Ma Siniscalco non spiega con quali risorse manterrà il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tetto che produce 7 miliardi di minori spese non può infatti essere utilizzato contemporaneamente per finanziare due diversi obiettivi: contenimento del deficit e riduzione di entrate. Ho la sensazione che in questo caso Dulcamara, oltre che a vendere falsi elisir, si dedichi anche al gioco delle tre carte; nell´opera buffa questo non è previsto. Caro ministro, qui siamo fuori dal copione.

Tralascio il discorso sul pubblico impiego che ci porterebbe lontano, ma una parola la voglio pur dire. Contrariamente ai propositi della Lega, che se potesse imbarcherebbe i pubblici dipendenti con destinazione Libia insieme agli immigrati clandestini, Siniscalco ha aperto un confronto. Propone aumenti contrattuali agli statali del 5 per cento anziché rispettare il tetto del 2, ma in contropartita vuole il blocco del turn over e anche un accordo di mobilità per trasferire dallo Stato alle Regioni gli impiegati necessari a causa della devoluzione dei poteri. Posso dire che questo è un sogno, una pia illusione che non avrà alcun riscontro nella realtà? Anzitutto il 5 per cento di aumento contrattuale: ci vorrà almeno il 6 per convincere i sindacati, con il che il tetto sarà stato superato tre volte.

Recuperarlo col blocco del turn over? Mi pare un´ipotesi di terzo grado. Quanti sono i pubblici dipendenti che escono ogni anno dal servizio attivo? Il ministro del Tesoro dovrebbe dircelo per poter calcolare l´entità del risparmio, ma dovrebbe anche dedurre da questo ammontare le nuove pensioni da pagare ai dipendenti in uscita. Il risparmio generato dal blocco sta infatti nella differenza tra lo stipendio e la pensione più liquidazione.

Tutto ciò senza introdurre il discorso connesso con la devoluzione. Lo Stato cioè dovrebbe non solo bloccare il turn over ma anche, con una massa di impiegati decrescente, trasferirne alcune decine di migliaia alle amministrazioni regionali. Il ministro Maroni ha dichiarato che lui non ci è mai riuscito e lo dice uno che la devoluzione l´ha voluta a ogni costo e a ogni prezzo.

Allora, direbbe Bossi, dov´è la quadra? Un 6 per cento in più agli statali, recuperato congelando le assunzioni; un blocco che non tiene conto che non tutti i comparti della pubblica amministrazione sono in identiche condizioni, in alcuni ci sono esuberi, in altri invece scarsità, né è pensabile di trasferire un insegnante di lettere a insegnare l´inglese o addirittura a rimpiazzare un impiegato dell´Agenzia delle entrate. Contemporaneamente bisognerebbe trasferire un considerevole gruppo di impiegati dalla Calabria al Veneto, dalla Campania al Piemonte, con tutti i problemi di impianto connessi a mobilità del genere. A chi la racconta, signor ministro del Tesoro?

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La verità è che l´intera struttura della manovra e dei suoi collegati non regge. Ci saranno effetti recessivi, il bilancio non sarà affatto riassestato anche perché il tetto non è un taglio. Dulcamara lo ha ripetuto infinite volte e noi, critici, abbiamo risposto di no, abbiamo sostenuto che tetto e taglio in questo caso erano sinonimi.

Ebbene, abbiamo sbagliato per fervor di polemica. Non sono la stessa cosa.

Se si taglia una determinata spesa si produce un effetto strutturale: quella spesa non c´è più. Ma se si mette un tetto al suo lievitare la spesa continua a esistere. Non cresce ma non scompare; scaduto il tempo del tetto, riprenderà a crescere con raddoppiata irruenza per riguadagnare il tempo perduto. E per produrre gli stessi risultati costerà di più perché nel frattempo i prezzi saranno aumentati.

In realtà il tetto fa parte dei famosi provvedimenti "una tantum" che Siniscalco voleva abolire o per lo meno ridurre drasticamente e che l´Europa, giustamente, vede come il fumo negli occhi.

Diciamolo con franchezza, onorevole ministro del Tesoro: l´intera sua manovra di 24 miliardi, più i 7 necessari a finanziare la riduzione delle tasse, si basa interamente su provvedimenti una tantum salvo le micro-tasse e le micro-economie che in totale non arrivano a 2 miliardi. Quando il tetto verrà tolto il suo successore si troverà di fronte a un baratro. La Commissione europea ha accettato, sia pure con sordi brontolii, le sue spiegazioni sul tetto visto come intervento strutturale. Non credo che a Bruxelles siano rimbecilliti. In realtà le hanno fatto un favore, hanno chiuso un occhio. Ma continuano a rognare sulle una tantum. E se tra qualche mese, con la nuova Commissione, apriranno l´occhio socchiuso e le chiederanno conto della panzana che lei ha raccontato a loro e a noi, lei che cosa farà?

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Bisognava iniettare potere d´acquisto prontamente spendibile nelle tasche della massa dei consumatori, quelli che stanno a metà della trottola dei redditi, non i 18 mila che stanno al vertice. Questo bisognava e bisogna fare.

Restituendo il "fiscal drag". Fiscalizzando gli oneri sociali entro una fascia di retribuzioni. Abolendo l´Irap o riducendola drasticamente. Razionalizzando ma non annullando gli incentivi e i crediti d´imposta alle imprese. Trovando la copertura con interventi mirati sugli immobili, sulle rendite, sulle plusvalenze finanziarie.

Il reddito ristagna ma i patrimoni in termini nominali sono molto cospicui in Italia e dunque bisogna mettere a contribuzione i patrimoni per rilanciare i redditi.

La parola patrimonio fa paura? Ma è già colpito il patrimonio. La chiamano Ici ma non è forse un´imposta patrimoniale? Certo, come spot pre-elettorale, funziona poco. Perciò continuiamo così. Stiamo andando dritti verso la bancarotta, caro Follini.

Lei mi dirà: perché si dirige proprio a me? E a chi mi dovrei dirigere? Lei è un moderato. Un centrista. Ha a cuore gli interessi del paese e non quelli del partito. Si è arrabbiato di brutto contro chi lo definiva cane da pagliaio o tigre di carta. Ha fatto la faccia feroce verso i suoi alleati che (se ne era accorto anche lei) dilapidavano le finanze dello Stato. Ha applaudito insieme a Fini al siluramento di Tremonti. E non si accorge che Siniscalco è la fotocopia del predecessore e forse anche peggio? E vota con tranquilla coscienza una legge di riforma costituzionale che ci porterà alla bancarotta; un premierato che sopprime di fatto il regime parlamentare e la presidenza della Repubblica. Ora infine voterà una vergognosa legge finanziaria interamente basata su provvedimenti provvisori.

Ma quando si guarda allo specchio (della coscienza) che sentimenti prova?

P. S. Mentre scrivevo questo articolo mi è arrivata la notizia che il nostro presidente della Repubblica ha dovuto subire un intervento chirurgico per fortuna di leggera entità, felicemente concluso. Mi permetto di utilizzare questo spazio per inviargli gli auguri più affettuosi. Un uomo come lui, se non ci fosse stato, avremmo dovuto inventarcelo: così si dice quando si vuole significare una presenza indispensabile. Tanto più indispensabile in un´epoca che abbonda di Dulcamara e di Tartufi. Lunga vita e buona salute a nome di tutti quelli che vedono in lei l´usbergo delle nostre istituzioni democratiche e dei nostri sentimenti morali di libertà e di giustizia.

Scrive Vittorio Zucconi su 'Repubblica' del 20 settembre che tra le (quasi impossibili) elezioni irachene che dovrebbero tenersi nel prossimo gennaio e le elezioni presidenziali Usa del 2 novembre corre un filo diretto. Bush ha assoluto bisogno di mantenere nell'opinione della maggioranza degli americani la fiducia nel buon andamento della situazione irachena, premessa per lui indispensabile alla vittoria elettorale. Perciò cerca con tutti i mezzi di attenuare e nei limiti del possibile nascondere le dimensioni del disastro iracheno. Su queste reticenze e menzogne si fonda in larga misure il suo vantaggio sul rivale Kerry. Quando infine la verità apparirà lampante, sarà troppo tardi, Bush avrà conquistato il suo secondo mandato e il partito democratico dovrà rinviare a chissà quando i propositi di tornare alla Casa Bianca.

Zucconi non è il solo a formulare questa diagnosi, direi che quasi tutti i più seri analisti della politica americana concordano sul fatto che il maggior 'peccato' da imputare all'amministrazione Bush non è l'errore compiuto nello scatenamento della guerra irachena, ma nella devastazione che essa ha causato al principio della trasparenza e all'obbligo della verità come elementi basilari della democrazia.

Reticenze e menzogne sono pratiche incompatibili con la democrazia in genere e con quella sancita dai padri fondatori della Costituzione americana in particolare. La guerra preventiva contro Saddam Hussein e quel che ne è seguito hanno prodotto ferite difficilmente rimarginabili del tessuto politico e morale del più grande paese del mondo, con conseguenze ancora non valutabili sul resto dell'Occidente.

Mi permetto tuttavia di avanzare un'altra ipotesi, non necessariamente alternativa alla precedente. Secondo me non è soltanto l'iniziativa di Bush e la sua presenza al vertice ad aver indotto forti mutamenti nel sistema, ma il fatto che è il sistema in quanto tale che sta cambiando natura. La democrazia americana conserva certamente le profonde caratteristiche che presiedettero alla sua fondazione e alla sua evoluzione nel corso di duecent'anni, ma ne ha acquisite altre in tempi più recenti e son per più aspetti contraddittorie rispetto a quelle tradizionali. Per dirla in breve, il sistema americano sta rapidamente evolvendo verso una sorta di democrazia imperiale, sia a causa di proprie pulsioni interne sia a causa di mutamenti altrettanto profondi in corso in Europa e in Asia. Questa evoluzione è stata soltanto accelerata dall'evento dell'11 settembre. Secondo me sbaglia chi fa coincidere la nuova storia del pianeta con quella data e con il trauma che l'abbattimento delle torri gemelle ha cagionato nel popolo americano. Il mutamento era cominciato parecchio tempo prima. L'11 settembre ne costituisce non la causa, ma una delle concause e per certi aspetti addirittura un effetto. E Bush, con tutto il corteggio dei neo-conservatori da un lato e della religione 'crociata' dall'altro, rappresenta l'inevitabile prodotto di questo complesso di circostanze.

A questo punto si pone una domanda: quando e perché gli Stati Unti sono diventati una democrazia imperiale? Il quando si può situare nel momento della caduta del Muro di Berlino, cioè dell'implosione e del disfacimento dell'Urss e del trionfo del cosiddetto pensiero unico: esce di scena l'altra grande potenza nucleare, affonda l'ideologia comunista, si dispiega con tutta la sua forza la globalizzazione dei mercati, delle comunicazioni, del costume.

Il perché è dato dall'altra faccia della stessa medaglia ed è il dominio, conclamato e spinto al parossismo, della tecnologia su tutti gli altri aspetti della vita sociale e perfino individuale. Al punto che da parte di una linea di pensiero molto autorevole si comincia a sostenere che il rapporto di dipendenza della tecnologia dall'uomo, che ha retto l'evoluzione della nostra specie dalla comparsa dell''homo sapiens' fino a oggi, è stato da un paio di decenni almeno capovolto. Ora è la tecnologia, intesa come massa di prodotti e di saperi, che guida l'uomo e lo condiziona nelle sue scelte e quindi nella sua evoluzione; insomma nel mutamento del suo essere, nelle scelte dei suoi obiettivi, nella sua stessa struttura antropologica.

Gli Stati Uniti sono di gran lunga la prima potenza tecnologica del pianeta. In un mondo globale dominato dalla tecnologia è chiaro che l''imperium' spetterà a chi possiede le risorse tecnologiche nel guidarlo. La classe dirigente americana è perfettamente consapevole di queste verità. Forse per una parte della popolazione questa consapevolezza non è ancora del tutto chiara, ma sia pure in modo implicito tutti i cittadini di quella grande e collaudata democrazia sanno qual è ormai il ruolo dell'America nel mondo . La scomparsa di fatto del vecchio isolazionismo ne costituisce il segnale più evidente: in un mondo globale e tecnologico l'isolazionismo non ha più senso alcuno, la delocalizzazione delle attività cancella i confini e le aree di influenza. Cambiano inevitabilmente le modalità della guerra. Infine, spiace doverlo dire ma è semplicemente una constatazione, in un mondo dominato da gigantesche forze tecnologiche concentrate in un solo paese, il modo di opporvisi è soltanto quello del terrorismo. Esso costituisce la risposta del mondo debole all''imperium' dell'unica potenza planetaria esistente. Piaccia o non piaccia, la situazione è questa. Di conseguenza sta cambiando il sentire del popolo americano.

Un popolo che partecipa al suo ruolo e al suo destino imperiale giudica i fatti con una scala di valori diversa da prima e diversa da quella ancora valida per gli altri popoli. Certo anche la potenza imperiale si può dar carico di una diffusione equilibrata del benessere nella misura in cui essa rafforzi ed estenda il suo ruolo. La potenza imperiale si assegna altresì il compito di insegnare ai paesi soggetti le forme e i metodi del buon governo, sempre che sia un buon governo disposto a riconoscere e accettare l'appartenenza all'impero, dal quale deriva la legittimazione d'ogni altro potere.

In tale contrasto è del tutto naturale il 'neglect' nei confronti dell'Onu e dell'Europa quando da loro provengano segnali di resistenze e di critica: l'impero non sopporta limitazioni esterne alla sua forza e al suo potere legittimante. Questa sembra a me la realtà in cui viviamo e questo autorizza a pensare che non sia Bush a manipolare la vera anima dell'America ma che Bush esprima l'anima imperiale dell'America. Probabilmente la esprime male e forse può condurla alla sconfitta. Ma questo è un altro discorso.

Improvvisamente compare il presidente del Senato, in una drammatica intervista a piena pagina sul quotidiano la Repubblica, si mette in posa accanto al cadavere di Enzo Baldoni, per il quale, da vivo, da ostaggio, da uomo in estremo pericolo, non ha detto una parola né fatto un gesto, e dice: «I terroristi, che non sono pochi gruppi fanatici ma un grandissimo fronte che attraversa il mondo, proclamano la sharia, dichiarano la jihad, vogliono colpire l'Occidente, sono determinati a distruggere la nostra civiltà. C’è una guerra dichiarata e noi dobbiamo decidere come atteggiarci. Possiamo combatterla questa guerra, oppure possiamo alzare le mani».

Lo stupore dei lettori è facilmente immaginabile. La uccisione barbara e misteriosa del pacifista Baldoni, ad opera di un gruppo barbaro e misterioso, serve al presidente del Senato italiano per dichiarare la guerra universale.

Un evento importante - oltre che tragico - se si pensa che Pera è la seconda carica dello Stato, e che in quella veste ha sempre espresso tutto il suo disprezzo per i pacifisti (da vivi) come Baldoni. Anche in questa intervista-proclama, il presidente del Senato non ha la mano leggera. Ascoltate: «Una grande parte del clero o tace o marcia per la pace, come se non fosse affar suo difendere la civiltà cristiana».

Qualcuno ricorderà che Marcello Pera incarna una alta funzione istituzionale, che, per definizione, è al di sopra delle parti.

Ecco come la vede lui, nella straordinaria intervista-proclama: «Se il problema è la tutela della nostra civiltà, la questione va ben oltre le divisioni interne. Va addirittura oltre quell’unità di fondo che dovrebbe esserci in politica estera. Destra e sinistra dovrebbero unirsi per fare sforzi comuni e trovare strategie contro il terrorismo. Truppe sì, truppe no, svolta sì, svolta no è una discussione tardiva».

Il modello Pera è semplice: 1- Come intendere il dialogo: noi parliamo e voi ascoltate. 2- Che cosa intendiamo per strategia comune: noi decidiamo la guerra e voi vi arruolate, e anzi manifesterete il dovuto entusiasmo. 3- Qualunque altro distinguo è da imbelli o da traditori.

Come si vede, Pera è al di sopra delle parti nel senso che vede dissenso, intellettuali, pacifisti (quelli vivi) oppositori come rimasugli di una povera visione arretrata. Esistono solo lui, la sua parte unica e giusta (presumibilmente Dio è con lui e non con quegli stupidi preti che marciano per la pace) e una bella guerra di civiltà. Lui esorta: dobbiamo andare tutti in Iraq. E non sembra che parli di un convegno. Marcello Pera ha corso un rischio. Ha proclamato la sua guerra santa, con speciale cattivo gusto, sulla tomba non ancora trovata di un uomo di pace, nelle stesse ore in cui le sue controparti francesi hanno avuto - per tempo, prima che si compia un altro delitto - uno scatto di impegno per salvare in ogni modo due vite.

Per Jacques Chirac, per il presidente del Consiglio di quel Paese, per il ministro degli Esteri francese, non è sembrato eccessivo - invece di invocare la jihad cristiana - impegnare ogni attimo e ogni risorsa della loro autorità e del loro peso nel mondo per riportare a casa, sani e salvi, i due giornalisti. Se falliranno, in queste ore angosciose, potranno dire al loro Paese che non erano in vacanza, e che hanno tentato il tutto per tutto. Se ci riusciranno, Marcello Pera si ritroverà ad essere il rappresentante di un’Italia sola, triste e pericolosa, un Paese arruolato agli ordini di altri, nella guerra santa nonostante i suoi cittadini e la sua Costituzione.

ROMA Ci risiamo. Dopo aver santificato Marcello Dell’Utri, aver gridato che la sentenza dei giudici di Palermo è frutto di una persecuzione politica, il Polo si appresta ancora una volta a invadere il terreno della giustizia per ostacolarne il corso con leggi ad hoc, salvare dalla galera gli amici degli amici. Il copione è sempre lo stesso. Dell’Utri è condannato per concorso esterno in associazione mafiosa? Il centro destra ha già iniziato a dire che si tratta di un reato «finto», «da cancellare».

Lo ha detto, subito dopo la sentenza, il capogruppo di An in Commissione Antimafia, Luigi Bobbio. E gli hanno fatto eco due centristi come Carlo Giovanardi («C’è un problema politico e giuridico da risolvere, quello del concorso esterno in associazione mafiosa») e Rocco Buttiglione («Il concorso esterno è reato poco chiaramente definito»). Tutti d’accordo che occorre intervenire sul piano legislativo per abrogare il reato. «Il concorso esterno in associazione mafiosa - sostiene Bobbio - è frutto della creazione della magistratura siciliana, avallata dalla Cassazione. Bisogna assolutamente intervenire sul piano della legislazione per cancellare da un lato una vergogna giuridica e dall’altro una sorta di scatola vuota nella quale si tenta da troppo tempo di infilare chiunque sia sgradito, per le ragioni più varie, a un magistrato inquirente».

Bobbio ha già individuato anche lo strumento: «Una revisione del 416 bis». Che potrebbe essere oggetto di una proposta di legge ad hoc o meglio essere contenuta nel cosiddetto «pacchetto Napoli», le norme anticrimine che si pensa di inserire dentro la pdl sulla recidiva (la cosiddetta Cirielli-Vitali che a sua volta già contiene le norme salva-Previti). Una bella matrioska per levare le castagne dal fuoco a Previti e Dell’Utri in un colpo solo? Quello della matrioska è un gioco in cui il Polo è diventato esperto. Basta presentare emendamenti a un testo già pronto che si raggiunge lo scopo.

Nel caso della Cirielli-Vitali che sarà in aula proprio in questa settimana per essere licenziata prima di Natale (a questo almeno punta Fi) fu un emendamento firmato dal forzista Mario Pepe ad introdurre, nell’estate del 2003, la drastica riduzione dei tempi di prescrizione dei reati. Un emendamento che fu subito ribattezzato salva-Previti (se la legge fosse approvata sarebbe immediatamente applicata anche ai processi in corso per il principio del «favor rei»). E trovò però l’opposizione dell’Udc. L’aennino Cirielli, fra l’altro, si dimise da relatore della legge proprio per le polemiche sollevate dall’introduzione di quell’emendamento. L’Udc (era ancora in corso la fantaverifica di governo)tuonò che si trattava di una «amnistia mascherata». Ed è stato proprio per questo che la legge ridenominata Cirielli-Vitali e che riguarda, ironia della sorte, l’inasprimento delle pene per i recidivi, ha finito per slittare varie volte.

Nel frattempo la maggioranza ha approvato la controriforma dell’ordinamento giudiziario e ha cercato disperatamente di trovare «la quadra» sul pacchetto di norme anticrimine («pacchetto Napoli»). Il ministro della giustizia Castelli avrebbe voluto inserirle nella legge Cirielli-Vitali ma l’ipotesi sembrava essere tramontata perché il ministro dell’Interno Pisanu si era messo di traverso. Così proprio nelle ore in cui la Camera approvava l’ordinamento giudiziario per il pacchetto Napoli sembravano essere rimaste in piedi le due ipotesi alternative di un legge ad hoc (troppo lungo l’iter, però) o di un decreto.

Adesso Bobbio ipotizza la matrioska: una norma salva-Dell’Utri messa dentro il pacchetto Napoli, messo dentro la Cirielli-Vitali che già contiene la norma salva-Previti.

Il rebus è all’attenzione dei cosiddetti «saggi» della Casa. Che però dovranno vagliare anche la percorribilità di un’altra strada, più antica e molto cara al Polo. Quella prospettata ieri dal sottosegretario udiccino alla Giustizia Michele Vietti: ripristinare l’immunità parlamentare, rendere intoccabili deputati e senatori. Strada ardua però. Visto che lo scorso gennaio la Consulta ha già dichiarato illegittimo anche il famoso Lodo Schifani, l’immunità per le alte cariche dello Stato. Per l’opposizione si annuncia un’altra battaglia contro «la scandalosa cultura del privilegio e dell’impunità» (Pecoraro Scanio). Non sarà, come dice il prodiano Franco Monaco, che si dovrebbe rispolverare «la questione morale»? «Ci siamo imposti il dogma del politicamente corretto secondo il quale dovremmo inibirci il giudizio morale e politico sui profili clamorosi e inquietanti delle recenti note sentenze. Neppure dopo sentenze di questa portata che attengono ai rapporti tra corruzione, mafia e politica e che investono i vertici dello Stato, sentiamo il dovere di mettere a tema la questione della qualità etica di una classe dirigente? Una questione morale grossa come una casa?».

Il presidente del Consiglio ha cambiato idea. Non è la prima volta che accade e non sarà certamente l'ultima. Di fronte alla forza dei numeri aveva accettato di ridurre l'Irap (di poco, ma comunque un po', tanto per la scena) e di alleviare il bilancio delle famiglie del ceto medio che non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese (di pochissimo, 8 euro al mese, un buffetto sulla guancia per comprarsi un gelato "una tantum") rinviando al 2006 il famoso taglio dell'Irpef per 6 miliardi e mezzo (anche in questo caso un altro buffetto che non avrebbe dato alcuna salutare scossa all'economia ma sarebbe comunque servito come spot elettorale).

Ma in tre giorni si è accorto che questo stentato calendario aveva provocato uno scossone alla sua immagine e al consenso dei suoi più fedeli elettori. I sondaggi, quelli che stanno rilevando settimana per settimana lo smottamento dei consensi, registravano una caduta del 6-8 per cento; lo stato maggiore di Forza Italia si agitava come non mai; perfino i giornali a lui più fedeli lo criticavano con titoli a tutta pagina.

Così ha fatto un'inversione di rotta totale: ha riportato al 2005 il taglio dell'Irpef spalmato su tre scaglioni e ha cercato d'imporre agli alleati e al ministro del Tesoro la prescrizione necessaria al suo spot elettorale.

Naturalmente mancava (e manca tuttora) la copertura finanziaria, ma che importanza ha la copertura? Chi cerca trova. Siniscalco è lì per questo.

Perciò si sbrighi.

Agli alleati riottosi ha promesso carote e bastonate. A Fini la Farnesina, a Follini la vicepresidenza del Consiglio, a tutti e due un ulteriore rimpastone a rate con almeno un nuovo ministro per ciascuno, alla Lega il governatorato della Lombardia, Formigoni permettendo.

In alternativa la bastonata suprema: se non ci state mi dimetto e andiamo alle elezioni anticipate. Niente lista unica e nessun collegamento: ci vado da solo con Forza Italia e muoia Sansone e tutti voi insieme, oppure vinco da solo e di voi resteranno soltanto cenere e vento.

Fini intanto ha accettato la carota; la Farnesina lo attrae da tempo e d'altra parte metà se non addirittura tre quarti dei suoi colonnelli sono già conquistati dal Cavaliere. Follini finora resiste, ma è stretto tra una metà del suo partito e Casini.

Naturalmente tutto dipende dalla famosa copertura finanziaria che Siniscalco deve trovare. E dipende anche dalla credibilità della predetta copertura che, qualora fosse risibile, indurrebbe Ciampi a respingere la legge.

Per ora si aspetta. Nei primi giorni della settimana si conoscerà la ricetta del ministro del Tesoro e si saprà qual è il finale di questa lunghissima telenovela che ha realizzato la sintesi tra l'opera buffa e il dramma; un genere teatrale finora sconosciuto nella storia del teatro anche se ben noto alle cronache politiche italiane.

Mancano, si dice, un paio di miliardi per chiudere la partita delle tasse. In realtà, come sa bene il ministro dell'Economia, ne mancano parecchi di più.

Due miliardi di ammanco li ereditiamo dai conti del 2004 e sono soltanto una piccola parte del lascito avvelenato di Tremonti (diventato garrulo dopo un breve silenzio) al suo ingrato successore. Tra poche settimane sapremo, a consuntivo, se in quell'esercizio sia stato superato il deficit del 3 per cento imposto dai patti di Maastricht.

Quasi certamente sì.

Tre miliardi derivano dal minor gettito del condono edilizio, prorogato più volte e reso ancor più indecente di quanto non fosse fin dall'inizio.

La stretta sulle finanze dei Comuni e sulla Sanità e l'indebitamento degli Enti locali si scaricheranno sui conti generali della pubblica amministrazione oltre che sulle prestazioni dovute ai cittadini. Gli incentivi alle imprese sono stati pressoché azzerati; per tutto il 2005 non vedranno un soldo neppure sotto forma di prestiti agevolati.

La scuola è senza fondi e gliene vogliono togliere ancora.

La riforma Moratti, per pessima che sia, ha comunque un suo costo ma non si sa come farvi fronte.

La domanda finora inevasa non è dunque dove e come trovare i 2 miliardi dei quali Siniscalco è in affannosa ricerca, ma dove e come trovarne almeno 6 e forse di più, come già preconizzato dagli ispettori del Fondo monetario.

Aggiungete a tutto ciò la stasi dei consumi, il crollo delle esportazioni dovuto all'apprezzamento dell'euro, il taglio degli investimenti, i contratti del pubblico impiego, e dite se c'è spazio e se c'è senso alla riduzione dell'Irpef nel 2005 (e anche nel 2006).

I consensi di Berlusconi calano? Ma questo, lasciatecelo dire, è un problema suo e non dei cittadini di questo paese.

Si sa (lo afferma Berlusconi) che il maxi-emendamento che il governo presenterà in Senato è già pronto. Si mormora che gli aumenti già promessi agli statali saranno ridotti dal 5 e mezzo al 3,7 per cento e il blocco del turnover esteso a due anni. Si mormora che le "finestre" per i pensionati in uscita saranno diminuite nel 2005 da tre a una soltanto, che i tagli all'Irap saranno rinviati di un anno, il condono edilizio ancora una volta prorogato tanto per metterci accanto una cifra qualsiasi in entrata. Infine il blocco delle sovraimposte ai Comuni e ritocchi vari alle accise, al Lotto, allo spicciolame della spesa.

Accetterà Fini il bastone sugli statali dopo la vistosa carota personale ricevuta con la feluca degli Esteri? Si piegherà Follini o deciderà invece di "vedere" il bluff berlusconiano tra Irpef ed elezioni anticipate? Che si tratti di un bluff è di tutta evidenza, ma decidere di andarlo a vedere implica comunque coraggio. E definitiva rottura. Questo è il punto: o giocare ancora a padrone e sottopadrone o alzarsi dal tavolo e sceglierne un altro.

Francamente mi sembra improbabile.

I critici del centrosinistra gli rimproverano di crogiolarsi con i guai della coalizione avversaria senza però esporre le sue proposte per ridare slancio all'economia italiana avviando nel contempo il risanamento della pubblica finanza dilapidata dai tre anni del malgoverno Berlusconi-Tremonti.

Mi sembra che sia una critica giusta, tanto più che, se il centrosinistra vincerà le elezioni del 2006, riceverà in eredità una finanza pubblica ridotta in macerie sicché risanarla sarà pesantissimo.

Secondo me i termini del problema sono molto chiari.

Viviamo una fase di sostanziale stagnazione dei redditi, degli investimenti, della domanda. La congiuntura mondiale ha robustamente influito nel determinare questa situazione.

La ripresa in Usa c'è stata a partire dal 2003 e continua sia pure a ritmo ridotto. La brusca discesa del dollaro serve a sostenere le esportazioni Usa e a contenere l'enorme disavanzo commerciale col resto del mondo. Non incoraggia tuttavia il resto del mondo - e segnatamente le Banche centrali e gli investitori istituzionali - a mantenere le loro riserve di liquidità in buoni del tesoro Usa.

Se le Banche centrali e gli investitori istituzionali del Medio Oriente e del Far Est (Cina, Giappone, Singapore) decidessero di convertire in euro almeno una parte delle riserve collocate in Treasury Bonds, il mercato valutario segnerebbe tempesta e la Federal Reserve dovrebbe correre ai ripari uscendo dal suo olimpico "benign neglect". Ma è un'ipotesi remota e non so neppure augurabile.

L'Europa deve dunque provvedere da sola a rimettersi in moto e l'Italia, vagone di coda, deve contribuire al rilancio e al buon governo proprio ed europeo inevitabilmente agganciati.

Ho già ricordato che stiamo attraversando una lunga fase di redditi e di domanda stagnanti. Aggiungo che la struttura dei nostri redditi è una delle più squilibrate, forse la più squilibrata in Europa; da noi le differenze tra le varie fasce sono le più alte e generano malessere, insicurezza, invidia sociale. Il risanamento della finanza pubblica e il rilancio della domanda non possono cioè prescindere da una politica di incentivi alla domanda e all'offerta e da un'azione perequativa non cosmetica ma sostanziale.

Per finanziare entrambi questi obiettivi di sostegno e di perequazione dei redditi, la principale fonte disponibile è quella dei patrimoni e delle rendite.

Abbinata a riforme di liberalizzazione efficaci.

I patrimoni in Italia sono cospicui perché i redditi più elevati, le plusvalenze, i guadagni accumulati nel tempo con l'inflazione quando viaggiava a due cifre, i profitti enormi derivanti dall'urbanizzazione e dalla valorizzazione delle aree destinate all'edilizia, hanno determinato un ammontare di ricchezza molto rilevante e in larga misura improduttiva.



Bisogna rimettere in circolo quella ricchezza.

Incoraggiare con opportune misure chi la detiene ad investirla produttivamente e/o prelevarne una quota per finanziare la politica di sostegno dei redditi, della domanda e dell'offerta.

So bene che la sola parola "patrimoniale" è tabù. I partiti fanno di tutto per non pronunciarla come si trattasse di una pestilenza maligna. Ma un osservatore oggettivo non può esimersi dal constatare che viviamo in un'economia dove si è ormai formata una palese contraddizione tra formazione dinamica dei redditi da un lato e statica consistenza dei patrimoni dall'altro. A cominciare dalle rendite mobiliari che in Italia sono fiscalmente colpite la metà di quanto avvenga negli altri paesi di Eurolandia.



Del resto il governo attuale ha già messo mano a questo deposito di ricchezza con la rivalutazione degli estimi catastali. Non è forse un'imposta sul patrimonio quella che accresce l'imponibile riferendo ad esso una serie di imposte dall'Ici alle tasse sui rifiuti urbani ? Il passo successivo dovrebbe riguardare le rendite e la ritenuta secca sulle cedole che è del 12,5 per cento da noi e oltre il 20 in Europa.



Liberalizzare i mercati, sostenere i redditi e perequarne la struttura, rilanciare consumi e investimenti, fiscalizzare per le fasce deboli la contribuzione sociale diminuendo in questo modo il costo del lavoro e quindi migliorando la competitività, incoraggiare la progettualità e le priorità degli investimenti, mettere a contributo i patrimoni inerti: non sono questi altrettanti elementi d'una politica economica attiva e - se le si vuole dare una denominazione - di stampo moderno e liberal-socialista? O uno slogan sempre verde: giustizia e libertà?

Anche altri avevano proposto la patrimoniale: ecco Epifani

Ci sono questioni che, ogni qualvolta irrompono nel dibattito politico, assumono valore sintomatico, scompaginano schieramenti, portano a galla l'incoffessabile. Una di queste è la sessualità, in specie nelle sue manifestazioni ritenute «anormali» o perverse o pericolosamente libere rispetto a una «regola» fallocratica e machista. Che si tratti di autorizzare il desiderio femminile di diventare o di non diventare madre, di sanzionare il potere maschile di esercitare violenza su una donna, di tutelare giuridicamente le coppie omosessuali, ogni qualvolta il territorio della sessualità entra a contatto con quello della politica e della normazione giuridica le reazioni idiosincratiche si sprecano - e in Italia lo sappiamo bene dall'iter tortuoso delle leggi sull'aborto, sulla procreazione assistita, sulla violenza sessuale. Col caso Buttiglione però s'è passato il segno. E la rapidità con cui, nel giro di pochi giorni, sono stati creati i neologismi di teo-con, rad-con, laico-clericali per dare nome al vasto fronte dei suoi sostenitori, la dice lunga sul fatto che siamo di fronte a una novità: a differenza della politica, la lingua non mente. Il vasto fronte di sostenitori di Buttiglione, che va dal Foglio ai cosiddetti «terzisti» di fede liberale del Corsera e della Stampa , ha creduto di ravvisare nella sua bocciatura a commissario per la giustizia, le libertà e la sicureza della Ue un episodio «contrario a una visione laica e liberale delle istituzioni». Non è laico né liberale, sostengono nell'appello pubblicato giorni fa sul Foglio, «giudicare un politico cattolico o di qualsiasi altra confessione o formazione culturale in base alle sue idee e al suo credo». E in base a che cosa se non alle sue idee e ai suoi atti, di grazia, dovrebbe essere giudicato un politico in democrazia? In base alle sue promesse, obiettano i radcon-teocon: Buttiglione ha detto come la pensa sui gay, la famiglia, le madri-single, la procreazione assistita, promettendosi però fedele al comandamento kantiano della separazione fra diritto e morale. Bene, i parlamentari che lo esaminavano non gli hanno creduto; e giustamente, non potendo il candidato estrarre dal suo curriculum politico italiano ed europeo alcuna prova del suo credo kantiano. Siamo nell'ambito di una normale, normalissima dialettica politica democratica, come ha riconosciuto Massimo Teodori rompendo il fronte sul Giornale di ieri. Una dialettica, per una volta, sgombra dall'urgenza della mediazione giuridica: non si votava su una legge ma su un candidato, che per giunta sbandierava le sue idee in contrasto con quella Carta dei diritti che nell'Unione, ai teo-con piacendo, fa già norma, come ha ricordato Miriam Mafai.

Ma in Europa c'è una pericolosa deriva laicista, sostengono i teo-con impugnando il rifiuto di inserire in Costituzione il richiamo alle radici ebraico-cristiane dell'Unione. Per la verità avrebbero a disposizione altri e più convincenti argomenti, che però si guardano bene dall'usare. La legge francese contro il velo, per dirne una, è un pessimo esempio di uso della laicità a fini di assimilazione. Ma di quella non si parla, anzi molti dei teo-con ne parlano solitamente benissimo, perché giova allo scopo. Quale? Quello di fare barriera contro l'invasione islamica che turba i loro sonni.

Con il che siamo al movente numero uno della campagna sul caso Buttiglione, che è - dichiaratamente - solo un capitolo di una più vasta offensiva squisitamente reazionaria a favore di una identità europea, anzi occidentale, arroccata sui valori tradizionali e contro la minaccia del multiculturalismo, del pluralismo etico, del politically correct. L'offensiva, sia chiaro, marcia su un campo di crisi: ovunque in Occidente il multiculturalismo è in difficoltà, il pluralismo etico rischia di soccombere sotto i colpi dello scontro di civiltà, il politically correct non è esente da risvolti di ipocrisia sociale. Ma i teo-con non vanno per il sottile e usano argomenti stupefacenti per rozzezza e isteria. Si va dal timore di Galli della Loggia per la minacce dell'omosessualità all'antropologia monoteista ai rimpianti di Panebianco per l'Europa pre-secolarizzata, dalla facciatosta di Gaetano Quagliariello che vede nei cattolici una minoranza oppressa alle libere associazioni di Giuliano Ferrara fra la bocciatura di Buttiglione, il nullismo di Zapatero e il nichilismo di Almodovar.

Un armamentario da nuovi crociati, cattolici integralisti in guerra di religione e di civiltà contro l'attacco integralista all'Occidente, osserva giustamente Ritanna Armeni su Liberazione ipotizzando che questo strumentale ancoraggio al sacro sia necessario a una politica liberista che da sola non ce la fa più a governare il mondo globale, e che in Italia, annota Ezio Mauro su Repubblica, non ce l'ha fatta a produrre la cultura lib-lab che aveva millantato. Tutto vero, a patto di ricordare due cose. La prima è che tutto questo s'è già visto dall'altra parte dell'Atlantico, e non è solo una larga fetta della posta in gioco di oggi fra Bush e Kerry, ma è già stata la posta in gioco di quattro anni fa fra Bush e Gore e, prima ancora, di un drammatico conflitto che correva sotto le vene dell'America clintoniana e l'ha sconfitta. La seconda è che a questa offensiva scatenata sul terreno caldo dei valori la sinistra non può rispondere solo sul terreno freddo dei programmi. Quando c'è in gioco l'emotività, ancorché isterica, bisogna giocare, e disertare il tavolo significa solo condannarsi a perdere.

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