WASHINGTON — La guerra globale apre il suo fronte in Europa con il massacro di Madrid. E la capitale Usa medita la nuova strategia. Eta? Al Qaeda? Militanti Eta rinnegati, in contatto con fondamentalisti islamici? Il primo degli attacchi contro i Paesi che hanno appoggiato il presidente George W. Bush, Italia, Gran Bretagna, Polonia o la faida basca?
Capire la cultura del nemico è il solo modo per prevederne razionalmente i disegni e su questo rompicapo gli esperti americani spenderanno il primo, di tanti week end.
«L'Eta non ha legami conosciuti con Al Qaeda e non ci sono prove credibili di collaborazione tra le reti terroristiche. Nel novembre del 2001 otto agenti Al Qaeda sono stati arrestati in Spagna e uno era vicino a Batasuna, l'ala politica basca. Secondo il giudice Garzon, parte del blitz dell' 11 settembre è stata organizzato in Spagna. Terroristi Eta si sono addestrati in Libia e Algeria. Ma il disegno di Patria Basca e Libertà è laico, il disegno di Al Qaeda, la Base, è religioso» , dice uno dei cervelli incaricati di capire come la mattanza di Madrid cambi la guerra al terrore. «Siamo ancora alle ipotesi. Esplosivo basco, indizi islamici, l'Eta che smentisce a un giornale basco simpatizzante, Gara, la comprensibile prudenza del governo» .
Conversazioni, analisi e nuovi documenti ci anticipano la prima, approssimativa, reazione americana: «Contrariamente a voi europei, noi siamo persuasi, dopo averla combattuta in mezzo mondo, che Al Qaeda non sia un'organizzazione terroristica come le Br, l'Ira o Azione Diretta.
Condensiamo per i nostri uomini l'opera del sociologo spagnolo Manuel Castells, oggi docente a Berkeley, La nascita della società in rete ( tradotto dalla Bocconi). Castells spiega il concetto di “rete”, la società non cresce più a piramide, un mattone dopo l'altro come nell'antico Egitto, ma a nodi, uno dopo l'altro, del tutto estranei ma che insieme rafforzano la ragnatela del presente. Aziende, governi e Al Qaeda funzionano così. Un gruppo basco può avere fatto un patto, magari per soldi, con operativi islamici, senza input diretti da Osama Bin Laden» spiegano a Washington.
Un esercito di lillipuziani che marcia diviso, per colpire unito il nemico.
Per anticiparne le mosse, militari, intelligence e leadership politica prendono atto che non è più possibile operare sull'assunto del professor Samuel Huntington di uno «scontro di civiltà», Islam contro Cristianità (il saggio è tradotto da Garzanti). L'idea di Huntington è smentita dall'ordine di battaglia di Al Qaeda dopo l'11 settembre: i veri nemici di Osama sono i «rinnegati» , arabi che cercano il dialogo con l'Occidente, l'ambasciata giordana a Bagdad, la polizia irachena, i quartieri residenziali in Arabia Saudita.
Combattere la guerra secondo il canone Huntington sarebbe deleterio, malgrado non siano mancate le tentazioni in questo senso al Pentagono e alla Casa Bianca. Alla luce degli attacchi di Madrid, la nuova interpretazione della guerra al terrorismo passa attraverso lo studio di un volume ancora inedito, che gli studiosi Ian Buruma, del Bard College, e Avishai Margalit, della Hebrew University di Gerusalemme, pubblicheranno da Penguin Books. Che un ponderoso tomo accademico possa diventare arma contro il terrorismo e chiave delle stragi in Europa è solo l'ennesimo, misterioso, capitolo della guerra globale. Il saggio s’intitolerà Occidentalism,
Occidentalismo, e prende lo spunto dall' opera del critico di origine palestinese della Columbia University Edward Said, da poco scomparso,
Orientalismo (Feltrinelli). Per Said «orientalismo» è il modo occidentale di guardare all'Oriente, una lente deformata di pregiudizi, paternalismo, colonialismo, proiezione di se stessi sugli altri, inferiori, immaginati languidi, sensuali, violenti e primitivi.
Buruma e Margalit argomentano che esiste però un parallelo «occidentalismo» , la confusa visione del mondo sviluppato da parte degli orientali, che nella visione militante di Al Qaeda diventa offensiva militare e culturale. L'interesse dell'approccio di Buruma e Margalit per gli strateghi militari sta nel loro contrapporsi a Huntington. Non solo non c'è scontro tra le civiltà, ma anzi l'odio che smuove Al Qaeda e le sue ragioni adotta argomenti, temi, idee nati in seno al mondo occidentale. «Gli 'occidentalisti' vedono l'Occidente come disumano, una brutale macchina efficiente ma senza anima, a cui ci si deve opporre con la violenza». Israele, e gli alleati degli Stati Uniti nella guerra all'Iraq, «sono simbolo del male, idolatri, arroganti, immorali, un cancro che solo la morte può estirpare».
«Dall'analisi di Huntington, crociata di odio Oriente contro Occidente, scaturiva un modello militare da trincea, noi contro loro. Ma dall'analisi di Buruma è evidente che i fondamentalisti usano contro di noi un arsenale di ragionamenti che spesso prende in prestito concetti e comportamenti diffusi in Occidente. E allora ecco che Al Qaeda può colpire in Spagna, come a Bali, New York, Bagdad e Riad, odiando i dittatori laici musulmani come lo Scià di Persia o Saddam Hussein al pari di Bush e Aznar» . L'origine dell' «occidentalismo», il risentimento contro la civiltà occidentale, ha ramificazioni, secondo Buruma e Margalit, nelle teorie del nazifascismo, nello stalinismo, nella Conferenza di Kyoto del 1942 che propose «la guerra per battere la modernità». Lo scrittore ungherese Aurel Kolnai, già negli anni Trenta, parlava di «Guerra contro l'Occidente» e l'intellettuale iraniano Jalal al- e Ahmad coniò il neologismo «Ovestossine» , per deprecare la velenosa influenza euroamericana nei paesi in via di sviluppo. Ma al-e Ahmad nutre la sua propaganda di idee occidentali: da Hitler ai romantici tedeschi, perfino Robespierre e Saint Just.
«La strage di Madrid, sia di matrice domestica o internazionale, costringe a rivedere la strategia militare, dalla guerra di posizione a Kabul e Bagdad alla guerra di movimento in tre continenti». Il fronte non passa più tra Ovest ed Est, ma tra tolleranza e intolleranza, tra chi, in Occidente e nei Paesi arabi, accetta il dialogo e chi invece sceglie la violenza come unico strumento politico. «Da questo punto di vista — conclude l'analista che ha accettato di dialogare con il Corriere — l'inchiesta che dirà se si tratta di Eta o di Al Qaeda è importante per la polizia, ma meno per noi dell'antiterrorismo.
Perché la percezione dell'opinione pubblica mondiale, i titoli «Ground zero a Madrid» , inglobano già la strage nei parametri di guerra all'Occidente. L'immagine che scava le coscienze è una Al Qaeda europea, o una nuova Eta che ha scelto la scala terroristica 11 settembre». Se l'analisi di Buruma&Margalit è corretta, e la prima guerra globale diventa anche in Europa guerra civile tra tolleranza e intolleranza, sarà bene non dimenticare un concetto che gli esperti militari non sottolineano: «Se il nemico ci ruba idee e cultura non possiamo assomigliargli... nell'equilibrio tra sicurezza e libertà civili, non bisogna mai sacrificare la libertà... né opporre al loro fondamentalismo il nostro. La sopravvivenza delle nostre libertà dipende dalla volontà di difenderci contro il nemico esterno, resistendo alla tentazione dei nostri leader di usare la paura per distruggere le libertà».
L’egemonia culturale di Ponzio Pilato
Ezio Mauro
12 agosto 2004
NON so nulla delle lettere di Italo Calvino a Elsa de´ Giorgi e il tema non mi affascina. La questione mi sembra chiusa: il Corriere della Sera ha pubblicato un ampio servizio su quel carteggio (già rivelato anni fa da Epoca), ne ha ricavato qualche ipotesi romanzesca e qualche suggestione letteraria, come se quelle lettere contenessero la svolta intellettuale di tutta l´opera di Calvino. È sembrato troppo ad Alberto Asor Rosa, è sembrato ridicolo a Chichita Calvino, che hanno risposto su Repubblica. Il caso può finir qui. Aggiungo soltanto che a mio parere i giornali ovunque pubblicano le carte di personaggi pubblici, quando le giudicano di interesse generale, perché i giornali rispondono a quell´interesse. Con l´avvertenza, magari, di non presentare per inedito ciò che inedito non è, e con la licenza di romanzare un po´: soprattutto d´estate.
Qui potrebbe finire la storia, in sé minima. Ma se ne apre un´altra, formidabile. Perché Ernesto Galli Della Loggia è saltato a piedi giunti sul caso Calvino, ha ignorato la lunga intervista di Chichita e ha immediatamente imbastito un processo a Repubblica custode del sigillo sacro della sinistra e alla sinistra che detiene dagli anni Cinquanta ad oggi l´egemonia culturale e decide ciò che può essere detto e ciò che deve essere taciuto. Gli ha risposto Eugenio Scalfari, denunciando l´"ossessione" di Galli nei confronti della sinistra, che vede agire sotterraneamente e dovunque per subornare la pubblica opinione, e ricordando che nel lungo dopoguerra italiano i giornali, la radio e la televisione sono stati sempre nelle mani dei partiti di governo e dei poteri cosiddetti forti (allora lo erano davvero) che quei partiti fiancheggiavano con vigore.
Sono rimasto anch´io stupefatto per l´ideologismo ormai quasi meccanico che ha innescato questa discussione. Si parla delle lettere d´amore di Calvino ed ecco una scomunica integrale alla sinistra, detentrice ? secondo l´accusa ? perenne e immobile delle chiavi del politicamente corretto, ora e sempre: solo un automatismo ideologico può far discendere da quella causa questo effetto. Ma voglio provare a discutere sul serio con Galli Della Loggia, lasciando perdere l´occasione polemica per prendere il merito dei suoi argomenti.
E aggiungere un controargomento, per me di importanza capitale. In un paese democratico, come il nostro, l´egemonia culturale è in gioco tra i diversi poli di pensiero e i diversi gruppi di riferimento. Voglio dire che è contendibile, per fortuna. E può cambiare di segno, come a mio parere è avvenuto nell´ultimo decennio.
Galli ha ragione quando dice che un´egemonia culturale di sinistra ha contato nel nostro Paese, più o meno fino al collasso della Prima Repubblica, o a guardar meglio fino all´avvento del craxismo. Ma Galli ha torto, secondo me, quando traduce tutto questo nella categoria del "comunismo", come un perfetto fatturato politico della strategia togliattiana. Ha torto per due motivi, che accenno soltanto: prima di tutto quell´egemonia, come ha spiegato Scalfari, nasceva nella cultura, non nella politica, ma nell´opera individuale di registi, scrittori, intellettuali, orientati ? questo sì ? a sinistra, ma non longa manus di un partito; e poi, quell´egemonia ha travalicato il mondo della creazione artistica e dell´opera intellettuale ed è diventato politica diffusa dopo il Sessantotto, con la spinta e il nuovo linguaggio dei movimenti e delle forze extraparlamentari, che come è noto portavano in sé una forte carica di contestazione proprio nei confronti del Pci e del suo mondo.
Tuttavia su questo punto storico specifico Galli ha a mio parere più ragione che torto. Perché se la cultura orienta una società nei suoi valori e disvalori pre-politici, non c´è dubbio che la cultura del dopoguerra guardava a sinistra in un Paese politicamente moderato. E non c´è dubbio, nemmeno, che a sinistra chi più si è giovato di questo clima intellettuale è stato il Pci, gramscianamente (prima e più di Togliatti) educato a cogliere quei frutti.
Poiché non tutto è ideologismo, però, bisogna aggiungere che la cultura di sinistra (ripeto: in gran parte una libera cultura di sinistra, da Bobbio a Pasolini) in un´Italia democristiana è stata uno degli ingredienti della modernizzazione e della crescita di questo Paese, una sorta di correzione laica, di bipartitismo culturale in un Paese che non poteva portare il suo sistema politico a compimento per la presenza del più forte Partito comunista occidentale in anni di guerra fredda. Questo è un dato di fatto: così come è un dato di fatto che l´egemonia culturale di sinistra ha perpetuato alcuni "blocchi" nel dibattito italiano, come la lettura di una Resistenza incentrata sui comunisti, un´ipocrisia o peggio una mistificazione nei confronti dei crimini del comunismo, in Urss e negli altri Paesi dov´era andato al potere. Nella convinzione colpevole che «la verità ? come dice Martin Amis ? poteva sempre essere posticipata».
Ma oggi che il Pci non c´è più, è finito il comunismo, e si è dissolta l´Urss e con il sovietismo anche la divisione in blocchi e la guerra fredda, ha senso riprodurre quello schema, sostituendo al termine "comunista" il termine "sinistra", come se nel 2004 e in Italia fossero la stessa cosa? Non si può non vedere che una delle caratteristiche della sinistra italiana contemporanea è la debolezza identitaria, non la sua forza. Di quale egemonia culturale terribile sarà mai capace una sinistra che non sa da quali culture è lei stessa composta, quali sono le sue radici culturali spendibili oggi, chi sono i suoi ilari e i suoi penati superstiti dopo che - in ritardo, in gravissimo ritardo - ha scoperto che il tabernacolo comunista era vuoto?
Per il resto, l´Einaudi fa parte dell´universo berlusconiano, nel cinema italiano i Visconti hanno lasciato il posto a Vanzina, i giornali - ad eccezione di pochissimi - sono concretamente omogenei alla destra, tanto da essere ogni volta sorpresi e surclassati dalle reazioni della grande stampa europea davanti ad ogni nuova anomalia berlusconiana.
Tutto ciò mentre l´establishment in questo Paese che ha smarrito ogni sua missione è ormai fatto da pseudo-imprenditori che in realtà sono concessionari di lusso, post-imprenditori che devono gestire il loro declino, smart-imprenditori, indifferenti ad ogni idea civile del Paese, pur di spartirselo, visto che è facile, incapaci di qualsiasi opzione politica, perché costa e divide il fascio indistinto di popolarità conquistata nel grande rotocalco italiano e scambiata per consenso. Resta la tv, vera falciatrice di quel substrato materiale di egemonia culturale che è il senso comune. E la tv - tutte le tv, in Italia - è di destra ancor prima d´accenderla, è intrinsecamente berlusconiana con il catalogo modernissimo e regressivo di idee che veicola ogni giorno ad ogni ora.
Dunque, cerchiamo di essere intellettualmente onesti anche qui, davanti a questa evidenza. Che senso ha, che scopo ha, parlare oggi di egemonia (culturale?) della sinistra in Italia? È solo un riflesso condizionato? Credo di no. Penso anzi che si tratti di un´operazione tutta ideologica e politica - nient´affatto culturale - che punta a tenere la sinistra in condizioni di minorità perenne, a pronunciare nei suoi confronti (qualunque sia la sinistra, e in qualunque epoca) un interdetto perenne, che rende artificialmente vivo il comunismo: se non come organizzazione (il che per fortuna è impossibile) almeno come fantasma zdanoviano in servizio permanente effettivo, naturalmente occulto.
In questo modo, sta andando a compimento un lavoro politico avviato dieci anni fa, certo più importante della capacità egemonica presunta di Fassino o di Prodi: si tratta della destrutturazione di alcuni valori fondanti di questa democrazia repubblicana che il furore anticomunista dei revisionisti italiani ha colpito, delegittimato e gettato al mare perché troppo contigui e funzionali alla storia del comunismo italiano. Penso all´antifascimo, all´azionismo, al costituzionalismo, allo stesso laicismo, demonizzati ideologicamente come strumento ideologico di parte.
In un Paese meno sventurato del nostro, si tratterebbe semplicemente di valori civili, anzi, civici, nemmeno "democratici" se il termine sembra giacobino, ma certo "repubblicani" frutto di un riconoscimento condiviso di una nazione che dopo la sconfitta della dittatura sente di avere una storia patria comune a cui fare riferimento al di là delle divisioni tra destra e sinistra.
No: noi non abbiamo valori repubblicani comuni. Come ha denunciato Bobbio, lo sforzo per equiparare l´anticomunismo all´antifascismo ha portato ad un abominio che sta diventando anch´esso senso comune: l´equiparazione tra fascismo e antifascismo. Aggiungiamo l´aggressione politica e intellettuale agli ultimi azionisti, l´irrisione a quella religione civile che sia pure in fortissima minoranza hanno testimoniato per sessant´anni. Pensiamo ad un Presidente del Consiglio che non ha mai sentito il dovere di essere presente alla festa della Liberazione (Fini, almeno, ha partecipato alla celebrazione di Matteotti) mentre il suo partito ha proposto addirittura l´abolizione del 25 aprile come se quella data non celebrasse la fine della dittatura fascista, cioè un accadimento storico, come se la storia italiana cominciasse nel 1994 con Berlusconi.
Ecco il contro-argomento per Galli Della Loggia. Nel nostro Paese c´è stato un cambio di egemonia culturale che è sotto gli occhi di chi non è ideologicamente accecato. E l´avvento di questa pseudocultura "rivoluzionaria" di una destra populista e moderna insieme, è stato possibile per l´opera costante di destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali che il revisionismo ha fatto in questi anni.
Sia chiaro: il revisionismo storico ha operato per fini propri, liberamente, senza alcun legame con questa destra berlusconiana. Ma è un fatto che la polemica sull´egemonia della sinistra arriva fin qui, è la cornice che ha fatto saltare il quadro repubblicano precedente e che oggi inquadra coerentemente - ecco il punto - il paesaggio berlusconiano. Solo così si spiega come la nuova destra si senta culturalmente legittimata, anzi revanscista, anche perché il pedagogismo che i revisionisti hanno esercitato (con fondate ragioni) ed esercitano a sinistra è completamente muto e paralizzato a destra.
Come se la destra italiana ? con il postfascismo appena sdoganato, la Lega che fatica a trattenere pulsioni o almeno espressioni razziste, Forza Italia ancora aliena alle istituzioni che guida e allo Stato che governa ? avesse già compiuto tutto il suo cammino con l´apparizione di Berlusconi agli italiani nel ´94. Questo strabismo, in realtà, è ideologismo. È un´operazione politica, quell´"ossessione" contro la sinistra denunciata da Scalfari. Perché se è giusto che la sinistra faccia i conti con la storia tragica del comunismo (visto che in Italia ne è fuoriuscita dopo la caduta del Muro, non prima) non si capisce come mai per certi intellettuali la destra operi invece nel secolo, fuori dalla storia e dai suoi rendiconti, come il ´900 che in Italia finisce da una parte sola, e si chiude zoppicando.
Eppure ci sarebbero molte domande da fare a questa destra anomala d´Italia, oggi che comanda, detiene il potere e costruisce una nuova egemonia di valori e di disvalori, e soprattutto di interessi. Ma i revisionisti se ne lavano le mani. Come Ponzio Pilato: non a caso duemila anni fa lo chiamavano proprio così: l´Egemone.
Lettera al Direttore
Eugenio Scalfari
11 agosto 2004
C aro direttore, la staffetta organizzata dal Corriere della Sera sul tema dell'epistolario Calvino-de' Giorgi e sull'egemonia culturale della sinistra, al suo terzo passaggio del testimone peggiora visibilmente di qualità. Paolo Di Stefano aveva dato conto di quell'epistolario intravisto dal buco della serratura con rischiosa destrezza di cronista condendolo di considerazioni più o meno appropriate; Ernesto Galli della Loggia ne aveva tratto spunto per riproporre l'ennesima puntata sul soffocante monopolio della sinistra sulla cultura italiana durante il primo cinquantennio repubblicano. Ieri è toccato ad Angelo Panebianco di rispondere ad alcune osservazioni da me sollevate, adottando la tecnica di mandare la palla in tribuna, cioè di trarsi d'impaccio parlando d'altro senza rispondere nel merito.
Avevo contestato al della Loggia una circostanza non oppugnabile in punto di fatto: nel cinquantennio repubblicano (che in realtà è ormai quasi un sessantennio) tutti gli strumenti e le infrastrutture culturali sono state possedute e controllate da gruppi e persone fieramente avversari della sinistra. Il sistema televisivo e radiofonico, la stampa d'informazione e quella d'intrattenimento, le case editrici, la produzione e distribuzione cinematografica, hanno avuto proprietari e gestori di marca democristiana e/o moderata con qualche rara eccezione di ispirazione liberale che conduceva vita grama e pressoché solitaria. La sinistra propriamente detta disponeva d'un paio di giornali di partito diffusi tra i suoi militanti e ovviamente privi di pubblicità.
L'egemonia culturale può essere di due tipi: c'è quella imposta o indotta dal possesso dell'"hardware", cioè delle infrastrutture e dei mezzi finanziari a disposizione; e c'è quella guadagnata con l'inventiva e le qualità del "software" cioè delle idee e della libera creazione di prodotti competitivi.
Ne consegue - dicevo contestando le tesi del della Loggia - che non possedendo né controllando gli strumenti culturali e le relative infrastrutture, l'eventuale egemonia della sinistra da altro non sarebbe derivata che dalla qualità dei prodotti culturali dovuti alla libera creatività di artisti, letterati, registi, giornalisti, che hanno lavorato in piena libertà conquistando e affezionando lettori e ascoltatori liberissimi a loro volta di dirigere altrove le loro scelte quando quelle effettuate non avessero più appagato i loro gusti.
A queste mie osservazioni di ovvio buonsenso e di non oppugnabile verità di fatto, il Panebianco non ha dato risposta alcuna, limitandosi a ribadire che quella famigerata e soffocante egemonia c'è invece stata ed ha strozzato le libere scelte del pubblico. Con una digressione finale di cui non so se ringraziarlo o riderne, ha poi sostenuto che Repubblica ha guidato di fatto la sinistra italiana e io personalmente ho preso il posto nel ruolo di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.
Quale sia il legame tra questi farnetichi e l'epistolario Calvino-de' Giorgi lascio ai lettori di giudicare e mi accomiato da un tema sul quale non mi pare ci sia altro da aggiungere. Se non questo: con contraddittori della forza di Panebianco e di della Loggia qualunque imbrattacarte può aspirare a scalare le vette dell'egemonia culturale senza soverchi meriti né bisogno di guardie rosse al proprio servizio.
Nessuno poteva ragionevolmente pretendere che Silvio Berlusconi, da capo della maggioranza e del governo, facesse "motu proprio" quello che il centrosinistra non era riuscito a imporgli quando lui era all´opposizione. E cioè, scegliere tra gli affari e la politica, cedere la sua azienda o quantomeno separarne effettivamente la proprietà dalla gestione. Ma era lecito sperare che il presidente del Consiglio, mantenendo l´impegno assunto in campagna elettorale di risolvere il conflitto di interessi entro i «primi cento giorni», evitasse di favorire nel frattempo le sue reti televisive consolidando e ampliando il suo strapotere mediatico per arricchirsi ulteriormente, a danno di tutti i concorrenti e ancor più del pluralismo dell´informazione.
Oggi, dopo ben 1153 giorni di governo o di malgoverno, il centrodestra si ricorda finalmente di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Anzi, quando sono stati lasciati volontariamente scappare. Basti dire che il nostro beneamato premier, se questa legge-burla fosse stata approvata prima, non avrebbe potuto firmare il cosiddetto "decreto salva-reti" che gli ha consentito di sottrarre Retequattro al trasferimento sul satellite, disposto dalla legge antitrust e avallato dalla Corte costituzionale. Per quanto inadeguata e insufficiente, la burla in forma legislativa che porta il nome del ministro Frattini non avrebbe permesso al presidente del Consiglio e al suo governo neppure di presentare quell´altra legge-vergogna che reca la firma del ministro Gasparri.
Più che risolvere il conflitto di interessi, in realtà questo tardivo provvedimento lo legalizza: nel senso che conferisce una legittimità di facciata a una macroscopica e insanabile anomalia. Qui non si tratta, infatti, di proprietà private in senso stretto; né soltanto di beni materiali o immateriali, imprese, patrimoni immobiliari o finanziari. Nel caso specifico di Berlusconi, si parla di concessioni pubbliche, rilasciate temporaneamente dallo Stato su un bene collettivo come l´etere. E dunque, il presidente del Consiglio si ritrova nell´assurda situazione di essere controparte di se stesso, concedente e concessionario, locatore e locatario, padrone di casa (pro tempore, s´intende) e inquilino: tant´è che l´anno prossimo, quando scadranno le concessioni televisive assegnate nel ´99, lui o comunque il suo ministro delle Comunicazioni dovrà trattare le condizioni del rinnovo con i dirigenti in carica di Mediaset, dipendenti a tempo pieno del medesimo Berlusconi.
Sì, adesso legge-beffa di Frattini proibisce ai membri del governo di fare alcunché per favorire le proprie aziende. Ma che altro mai potrebbe fare il presidente del Consiglio in questo senso? Chiudere definitivamente la Rai? Impossessarsi di tutte le frequenze, analogiche e digitali, a disposizione? Il problema, piuttosto, è un altro: quello di impedire alle sue reti televisive di favorire lui, la sua maggioranza e il suo governo, com´è avvenuto finora. E magari, di evitare che il premier continui ad agitare il "manganello mediatico" contro l´opposizione e anche contro i partners riottosi, come ha fatto ancora nei giorni scorsi con il povero Follini.
Perfino la proprietà e la presidenza del Milan potrà tenersi ora Berlusconi, in forza di questo raggiro parlamentare che farà ridere il mondo del calcio e non solo quello. Una legge-barzelletta che non gioverà certamente alla sua immagine né tantomeno alla credibilità internazionale dell´Italia, sul piano politico ed economico prima che sul piano sportivo. Il vicepresidente rossonero continuerà tranquillamente a fare il presidente della Lega calcio. E il presidente del Consiglio nominerà il presidente dell´Authority che deve controllare i suoi atti e, direttamente o indirettamente, sceglierà anche il presidente della Rai che è la principale concorrente della sua azienda televisiva. Ciascuno può giudicare liberamente e magari ricordarsene alle prossime elezioni.
Quando una quindicina d´anni fa, prima ancora che fosse smantellato il muro di Berlino, le ideologie caddero e si infransero, le tanto evocate classi e le tanto celebrate masse uscirono di scena lasciando libero campo all´emergere dell´individuo e alla teorizzazione dell´individualismo, qualcuno si preoccupò. Si preoccupò dell´avvento del pensiero unico. Si preoccupò delle sorti del liberalismo e della democrazia. Si preoccupò della volubilità della folla, una summa occasionale di individui, privi di rapporti consapevoli tra loro e tenuti insieme da un "transfert" che avvince ciascuno di loro ad un punto di riferimento esterno, ad un capo, ad una stella filante che ne suscita le emotività e le guida laddove i suoi interessi e/o le sue visioni lo portano.
La folla e il capo. Quasi sempre anche il capo soggiace ad un transfert di natura narcisistica, si invaghisce di se stesso, sviluppa un rapporto ipertrofico con il proprio io. Fenomeni del genere si sono più volte ripetuti nel corso dei secoli. Anche nel Novecento tutte le volte che, al di sotto della crosta ideologica, si è materializzata l´immagine del capo carismatico e l´auctoritas ha ceduto il posto al culto della personalità.
L´esistenza di solide democrazie liberali ha impedito che le aberrazioni ideologiche e il totalitarismo del capo dilagassero; ha fatto argine, contrastando e infine sconfiggendo quella collettiva rinuncia alla libertà, all´eguaglianza, alla critica del giudizio.
Ma poi il male scacciato dalla porta è in parte rientrato dalla finestra, sia pure come farsa al posto della tragedia. Ed ora è con questa farsa che siamo alle prese. Democrazie guidate da opinioni pubbliche fragilissime, soggette all´impatto con tecnologie estremamente sofisticate e possedute da poche mani, usate con spregiudicata e spesso feroce determinazione.
Il terrorismo è nato in questo contesto. L´antiterrorismo crociato e fanatizzato idem. Si somigliano e si alimentano vicendevolmente. La democrazia è il loro comune nemico.
Per fortuna la cultura della libertà e le istituzioni della democrazia sono ancora largamente vigilanti e operanti. Dobbiamo, tutti quelli che sentono la loro appartenenza a questi ideali, essere consapevoli che siamo ad un punto importante di questo confronto planetario. Dobbiamo investire tutte le energie intellettuali delle quali disponiamo con razionalità e impegno civile. Non dobbiamo cedere allo sconforto che spesso ci prende, alla tentazione di assentarci di fronte alla stupidità montante e di isolarci nella solitaria testimonianza.
Questo è il momento dell´impegno e della passione civile, non dello sberleffo e del motteggio ai bordi del campo. Questo è il momento delle scelte, ponderate ma nell´interesse della società in cui viviamo, europea e italiana.
* * *
Il quadro dei rapporti interatlantici tra Usa ed Europa ha registrato in questi giorni una serie di modifiche e di importanti accelerazioni. La celebrazione dello sbarco in Normandia del 6 giugno del ?44, presenti su quelle spiagge tutti coloro che parteciparono a quella battaglia epocale di sessant´anni fa, da una parte e dall´altra del fronte di allora. La risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza dell´Onu sulla situazione del dopoguerra iracheno. La riunione quasi simultanea del Gruppo degli Otto a Sea Island.
Si tratta di eventi complessi che si prestano a essere variamente interpretati e difformemente raccontati. Sicuramente sono eventi strettamente interdipendenti. Sicuramente i rapporti interatlantici ne sono usciti migliorati. Una parvenza di autorità dell´Onu è stata recuperata. Il peso del tandem francotedesco come punto di gravità dell´Europa è stato rafforzato ed esplicitamente riconosciuto da Bush e dal governo Usa.
Direi che su questi esiti non c´è discussione: sono comunemente riconosciuti da tutti. Resta la domanda su chi abbia mutato atteggiamento, domanda non oziosa poiché può fornire indicazioni sull´evolversi della situazione nel prossimo futuro.
Bush doveva preparare una credibile strategia per uscire dalla trappola irachena: strategia indispensabile se vuole riguadagnare il consenso necessario per il suo secondo mandato presidenziale (prossimo novembre). Aveva bisogno dell´avallo del Consiglio di sicurezza, cioè di quelle potenze che si erano opposte alla guerra preventiva e solitaria degli angloamericani contro l´Iraq e alle non previste (da loro) conseguenze che ne sarebbero derivate.
A questo scopo Bush ha partecipato alla celebrazione del D-day in Normandia. Citerò il giudizio di un osservatore lucido e non partigiano che sintetizza icasticamente quanto è accaduto in quell´occasione (Sergio Romano sul Corriere della Sera del 7): «Dietro il sipario della retorica si sono svolti due eventi diversi: uno spettacolo sul proscenio in cui l´Europa ringraziava l´America per la sua generosità, e un altro nelle quinte in cui l´America chiedeva un prezioso aiuto politico ai rappresentanti di quei paesi che sessant´anni fa ha combattuto o liberato: Francia, Germania, Russia (all´Italia non aveva da chiedere nulla se non la continuazione di una presenza militare che Berlusconi non è comunque in grado di negargli)».
Così Sergio Romano, con il giudizio del quale interamente concordo.
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Che cosa ha concesso Bush e che cosa ha ottenuto dalle potenze sopracitate? Bush ha concesso la rinuncia alle guerre preventive e solitarie; il riconoscimento del ruolo del Consiglio di sicurezza dell´Onu come luogo di mediazione e di legalizzazione dei conflitti internazionali; un calendario di scadenze per il trasferimento di sovranità ai «poteri forti» iracheni; una data limite nella permanenza delle truppe della Coalizione in Iraq (dicembre 2005); una conferenza internazionale sul riassetto dell´intera regione mesopotamica.
Bush ha ottenuto: la risoluzione unanime del Consiglio di sicurezza che legalizza il governo transitorio di Bagdad; la presenza dell´Onu come consulente del predetto governo per la redazione di una legge elettorale e per l´effettuazione delle elezioni politiche da tenersi entro il gennaio 2005; il potere della Coalizione di gestire - d´accordo col governo transitorio iracheno - la sicurezza del Paese.
Inutile aggiungere che il manto dell´Onu legalizza un governo transitorio i cui componenti sono stati indicati e/o risultano graditi all´Amministrazione Usa e ai "poteri forti" iracheni che si riassumono nel nome dell´ayatollah Al Sistani, capo religioso dei moderati sciiti, ispirati a loro volta dalle autorità religiose iraniane.
Al lato di queste reciproche concessioni la Germania ha ottenuto l´appoggio Usa alla sua richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, dove entrerà anche il Giappone.
È stata una svolta? Per certi versi sicuramente sì. Per chi aveva subordinato la presenza militare in Iraq a un ruolo dirigente politico e militare dell´Onu, sicuramente no. Ciascuno si regoli come crederà opportuno, ma i fatti e i dossier dicono questo e non altro.
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In aggiunta a queste vicende di portata internazionale la vigilia elettorale italiana ne ha registrata una più domestica ma carica di emotività in parte reale e in parte artificialmente eccitata: il rientro in patria dei tre ostaggi sequestrati nei sobborghi di Bagdad dopo cinquantasei giorni di prigionia.
Tralascio le modalità di quella liberazione, ancora largamente ignote. Il senso di sollievo e di gioia per essa è stato comunque unanime né poteva essere altrimenti.
Due circostanze comunque risultano chiare: sono tornati sani e salvi e il come importa poco; il loro ritorno ha avuto come effetto consequenziale la totale occupazione del sistema mediatico da parte di Berlusconi e, in misura minore ma significativa, di Gianfranco Fini.
Non sappiamo (lo sapremo domenica sera) se questa occupazione totalitaria avrà ripercussioni rilevanti sul voto di domani. Certo da parte di chi detiene il potere, tutto è stato fatto affinché quel rientro interferisse sul voto. In un´opinione pubblica volatile è possibile che qualche effetto vi sia.
Del resto Berlusconi sa che sta giocando una decisiva partita e perciò non bada ai mezzi. Vale sempre di più la massima che il mezzo è il messaggio.
Quando ci furono diciannove nostri militari uccisi a Nassiriya e quando, poco dopo, ancora un altro militare italiano morì nello scontro con le milizie di Al Sadr, il sistema mediatico cavalcò quei luttuosi avvenimenti per trarne vantaggio per il governo. Ora che gli ostaggi sono rientrati vivi e indenni l´uso in favore del governo è stato ancor più impudico. Che tornino morti o che tornino vivi, il mezzo mediatico piega il messaggio alle sue esigenze.
Questo è accaduto e continuerà ad accadere. Resta da capire quanti siano gli italiani consapevoli di questa realtà e quale sarà nelle urne la loro risposta.
* * *
Una risposta importante è intanto venuta dalla Gran Bretagna dove, insieme alle europee, si sono svolte elezioni amministrative in tutto il paese i cui risultati sono già noti. Il partito di Tony Blair ha subìto una cocente sconfitta che lo ha fatto scendere non solo al di sotto dei conservatori ma perfino dei liberali, da sempre partito di minoranza largamente indietro rispetto alle due formazioni maggiori.
Nel complesso dei venticinque paesi che voteranno domani sembra delinearsi una maggioranza di centrodestra che in parte accentua il peso degli Stati nazionali sulla visione federale dell´Europa e in parte esprime pulsioni reazionarie e populiste anti-europee.
Gli elettori italiani hanno dunque una doppia responsabilità: esprimere un voto utile sia per l´assetto federale dell´Europa sia per arginare la deriva della democrazia verso approdi dilettanteschi e avventurosi.
Auguri a tutti coloro che prenderanno su di sé questa doppia responsabilità.
Hanno ben ragione le giornaliste e le scrittrici del gruppo di Controparola che hanno firmato un appello di solidarietà a Tina Anselmi insultata con astio antico nella voce a lei dedicata del dizionario «Italiane» edito dalla presidenza del Consiglio e dal ministro per le Pari Opportunità. E hanno ben ragione le partigiane dell’Anpi che hanno duramente criticato le scelte di molti dei 247 ritratti femminili. «A queste donne tutti noi dobbiamo dire comunque grazie», scrive il ministro Stefania Prestigiacomo nella presentazione dei tre volumi. Anche a Rachele Mussolini, alla Petacci e a Luisa Ferida, l’attrice amante di Osvaldo Valenti, l’attore che faceva parte della banda Koch? Con sadico gusto assisteva anch’essa agli interrogatori dei torturati nella villa Triste di via Paolo Uccello a Milano. Mentre gli arrestati subivano atroci torture giocava davanti a loro con un cane lupo, lo faceva rizzare sulle zampe e gli dava per premio delle fette di prosciutto.
L’hanno raccontato le vittime sopravvissute e uno di loro, Mino Micheli, un partigiano socialista, nel ricordare quel passato, scoppiò a piangere durante le riprese di un documentario televisivo della Rai, «La repubblica di Salò», 1973.
Ma è Tina Anselmi, in questo dizionario, il vero test del tempo presente. Vincenzo Vasile ha già analizzato su l’Unità quelle paginette scritte da Pialuisa Bianco. La quale usa tutto il suo odio mascherato per tentare di ferire e di distruggere Tina Anselmi, donna coraggiosa, seria, intelligente.
«Ragazzina della Resistenza», scrive. Che per lei dev’essere un sommo insulto. (Fu una giovanissima staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti e del comandante regionale del Corpo volontario della libertà del Veneto). «Partigiana ciellenistica e consociativa». (Non sa che cosa fu la lotta partigiana. Le pratiche consociative arrivano decenni dopo. Anche il linguaggio è sbagliato).
Ma è sulla P2 - Tina Anselmi è stata dal 1981 al 1984, tra l’ottava e la nona legislatura, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 - che la scrivente distilla tutto il suo rozzo fiele. Tina Anselmi, nella sua vita politica, non si è occupata soltanto della loggia. Un dizionario dovrebbe essere completo e onesto. Il ministro Prestigiacomo avrà senz’altro letto il saggio di Virginia Wolf sull’arte della biografia. Tina Anselmi ha dedicato tutta la vita ai destini delle donne: nella scuola - laureata in lettere ha insegnato nelle scuole elementari - nel sindacato, nel movimento femminile della Dc, in Parlamento, deputato per sei legislature, ministro della Sanità, ministro del Lavoro, si deve a lei la legge sulle pari opportunità.
Ma quel che conta, per chi scrive la sua voce nel dizionario è soltanto la P2. La colpa incancellabile. I governanti sconnessi della destra che condonano e amnistiano ogni cosa, soprattutto se stessi, e hanno il vizio della dimenticanza, non scordano invece i nodi fondamentali del malaffare nazionale. La P2 è uno di questi. Tina Anselmi, secondo la scrivente, è «la Giovanna d’Arco che avrebbe dovuto trafiggere i mostri degli anni Ottanta». Tina Anselmi è un’espressione del «cattocomunismo», un’altra ossessione. Ecco come la biografia conclude il suo testo: «Era rimasto imprevedibile, e straordinario, che la furbizia contadina della presidente divenisse il controverso modello della futura demonologia politica nazionale, distruttiva e futile. I 120 volumi degli atti della commissione che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli della Anselmi’s List (che finezza!, ndr) infatti cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi».
Dove sono finite le «coordinate del rigore scientifico» reclamizzate dal ministro? Sarà utile rinverdire qualche notizia sulla P2. Gli allora giudizi istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone arrivano alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sull’assassinio ordinato da Sindona dell’avvocato Giorgio Ambrosoli a Milano, la notte dell’11 luglio 1979 e sulle minacce ricevute da Enrico Cuccia. Sindona, quell’estate, è arrivato nascostamente in Sicilia da New York e si dice vittima di un sequestro. Indagando su quel finto sequestro, Colombo e Turone scoprono un medico, Joseph Miceli Crimi, che ammette di aver ferito Sindona a una gamba dopo avergli praticato l’anestesia locale (per dar credito al finto sequestro). Nell’ottobre 1980 confessa di avere incontrato Gelli più volte durante quell’estate. Il 17 marzo 1980 avviene la famosa perquisizione in quattro posti differenti. Alla Giole, la ditta di Gelli ad Arezzo, i finanzieri di Milano scoprono le carte.
Svelano l’esistenza di un’associazione segreta in cui sono coinvolti tre ministri della Repubblica, il capo di stato maggiore della Difesa, i capi dei servizi segreti, 24 generali e ammiragli, 5 generali della Finanza, compreso il comandante, parlamentari (esclusi i comunisti, i radicali, il Pdup), imprenditori, il direttore del Corriere della Sera, il direttore del Tg1, banchieri, 18 magistrati. Non è il governo Forlani, che si dimetterà, a rendere pubbliche le liste, ma Francesco De Martino, presidente della commissione d’inchiesta sul caso Sindona.
È l’immondezzaio della Repubblica. La P2 ha gestito il caso Sindona con la mafia; è proprietaria del Banco Ambrosiano e controlla il Corriere della Sera; ha rapporti con la banda della Magliana e con i poteri criminali; è responsabile, tramite suoi affiliati, di gravi depistaggi sulla strage di Bologna del 1980 e sulla strage di Peteano. Ha usato influenza sul caso Moro, massicciamente presente nel comitato di crisi del Viminale. Scrive (ahimé) Tina Anselmi nella sua relazione sulla loggia: «Ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Davvero la Anselmi’s List cacciò «streghe e acchiappò fantasmi?» Davvero «stroncò Licio Gelli e i suoi amici?» Gelli sta benissimo nella sua villa di Arezzo. I suoi amici sono al governo. Il presidente del Consiglio Berlusconi aveva la tessera n. 1816 ed era affiliato alla P2 dal 26 gennaio 1978; il suo assistente Fabrizio Cicchitto aveva la tessera n. 2232 e si era affiliato un po’ più tardi, il 12 dicembre 1980. Le cose vanno a gonfie vele, come risulta da una recente intervista del maestro venerabile a la Repubblica. Riceve i postulanti tre volte alla settimana, a Pistoia, a Montecatini, a Roma. È soddisfatto. Il suo Piano di rinascita democratica ha fatto e fa da linea programmatica al governo.
Il capitalismo come fatto di natura irresistibile. Su questo sembra che siamo tutti d'accordo. A parole siamo anche tutti democratici, così pieni di democrazia che torniamo alle guerre per portarla anche a coloro che non la vogliono, e che, come avverte il rais egiziano Mubarak, cadrebbero per la loro povertà e ignoranza in dittature feroci più delle attuali.
Ma vogliamo chiederci a che punto è la nostra democrazia, la democrazia che vorremmo regalare agli afgani e agli iracheni e poi all'universo mondo? È una democrazia che nelle regioni meridionali è ancora legata al patto mafioso fra borghesia del sottogoverno e cosche criminali. Le cosche criminali e il loro controllo del territorio sopravvivono perché garantiscono la continuità di una borghesia che campa e cresce sui ricatti economici ed elettorali. I criminali della lupara sono necessari come lo sono nei paesi autoritari le polizie politiche, le Gestapo, la Ghepeu.
L'apparato mafioso criminal-borghese non è cambiato: come sempre ha per punto di riferimento il partito di governo, ieri la Democrazia cristiana, oggi Forza Italia e come sempre promuove a turno un partito minore che deve simulare il gioco democratico: liberali, socialdemocratici, repubblicani, craxiani, persino radicali e ora i cattolici berlusconiani. Nulla di sostanzialmente mutato nel pendolo fra mafia che uccide e mafia che fa affari. Se questa, dalla unità di Italia, è la democrazia di gran parte del Meridione e del sistema creditizio nazionale nel perenne riciclo del denaro sporco della mafia in denaro pulito delle banche, se non sappiamo come vincerlo, come sostituirlo, così sia. Ma stiamo zitti, almeno quando ci impanchiamo a maestri di democrazia nel mondo.
Il capitalismo è fuori discussione, il neocolonialismo globale è una necessità, la legge del Condor, cioè dell'imperialismo che nasconde i suoi cadaveri è, in fondo, accettata dalla massa dei privilegiati, le utopie comuniste sono tragicamente fallite: ma qual è la società che si è formata sotto la guida illuminata di Reagan e della Thatcher? È la società in cui 2 mila vip milanesi e decine di migliaia nel resto di Italia corrono, al modico costo di 500 euro a testa, ai pranzi elettorali dell'onorevole Gianfranco Fini, l'ultimo super-trasformista passato dal neofascismo all'antifascismo nel deserto delle idee e delle tradizioni, secondo la regola berlusconiana che questo è il paese in cui si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto l'unica cosa che conta è avere il controllo del pubblico denaro da spartire con la nuova classe padrona delle tecniche e dei nuovi consumi.
Non è sempre andata così? La Milano da bere in cui i craxiani facevano un miliardo di debiti solo al ristorante Savini, la Milano di Mani pulite sono state surclassate dai crack Parmalat e Cirio e simili: un saccheggio dei risparmiatori che il presidente del Consiglio giudica normale.
La società civile degli italiani civili non è scomparsa, ma accetta l'anarchia, non si scandalizza se i governanti invitano i cittadini ricchi a frodare il Fisco. Se rifiutano la legge eguale per tutti, se in un tripudio di illegalità e di impudenza giungono a desiderare maggioranze assolute, dittature democratiche, controllo dei mezzi di comunicazione, di persuasione, fino alla immonda ipocrisia della beneficenza di fronte a cui quella della Belle époque sembra francescana. Fra le sue colpe il fascismo ebbe quella di sperperare il pubblico denaro nelle imprese coloniali quando c'erano provincie italiane in miseria e con amministrazioni arretrate. Ma la nuova classe non è da meno: sta distruggendo lo Stato sociale, e ai produttori ha sostituito i parassiti e i venditori di fumo.
Caro Augias, l'uso del tu confidenziale va sempre più diffondendosi. Fino a poco tempo fa quasi tutti si davano del lei. Ora si danno del tu i colleghi di lavoro e i coetanei, anche se vecchi, anche se si conoscono appena. Si danno del tu gli occasionali compagni di viaggio, i vicini di casa, i compagni di partito e i compagni di briscola, talora i clienti e i camerieri (più spesso il cliente al cameriere). Gli extracomunitari poi danno del tu a tutti, e non mi pare affatto offensivo perché così la lingua diventa più semplice e meno difficile da apprendere. Credo che succeda un po' per tutti gli idiomi in tutto il mondo e non ci trovo nulla di riprovevole. Ben vengano le semplificazioni. Non le scrivo per questo. L'altro giorno, in una triste occasione, ho rivisto alcuni vecchi amici d'infanzia. Mi hanno detto solo: «Ciao, tu come stai?». Una frase banale, ma ho sentito che il loro «tu» era diverso da quello degli altri: era carico di affetto. Dunque è proprio vero che si può dare del tu a tutti (i Romani lo davano all'imperatore, gli uomini lo danno ai santi). Noi potremmo tranquillamente darlo - faccio per dire - a un eventuale giudice imparruccato che ci sta giudicando. Tanto non tutti i «tu» sono uguali: alcuni possono portare con sé un distacco più severo di un compassatissimo «lei».
Giovanni Sessa
Magenta g.sessa@tin.it
È vero che ci si dà del tu con molta più facilità e frequenza d'una volta. Del resto si è sempre dato del tu non solo ai santi ma anche a Dio, unico modo possibile di rivolgersi alla divinità. Restano però le diversità tra le lingue. In francese il passaggio al tu offre resistenze psicologiche più forti che in italiano. In inglese l'unico pronome "you" assume connotato familiare solo quando è accompagnato dal nome proprio della persona cui ci si rivolge oppure da un'intonazione dalla quale si capisca che si è passati a un ipotetico tu. Un paragone vicino è con lo spagnolo dove il ricorso al tu è frequente come da noi. Del resto noi siamo gli unici a poter scegliere fra tre pronomi, se vogliamo considerare anche l'antiquato voi che il fascismo cercò invano di imporre e che oggi sopravvive in particolari rapporti e in poche zone soprattutto al Sud. I giovani il tu se lo sono sempre dato. Cassola: «E smettetela di darvi del lei esclamò Ilio. Mi fate ridere, con questo lei. Tra i giovani il lei non usa». Il lei può denotare affettazione, ma un tu precoce può creare imbarazzo dal momento che passare al tu dev'essere decisione che sgorghi da un sentimento di reciproca familiarità. Giosuè Carducci: «Ve n'ha, ve n'ha di questi lustrissimi novelli/sbicati su dà cenci, sorti da' caratelli,/ che la passano liscia co' poveri plebei:/ gente a la buona e semplice che non sa dar di Lei/ a quelli con cui prima andavano a braccetto,/ scherzando, cicalando fumando il sigaretto». Del lei ha fatto uso altezzoso e spesso ridicolo la piccola borghesia rimpannucciata che lo esigeva da coloro che riteneva "inferiori". Non so francamente se dobbiamo dolerci del dilagare del tu, ennesimo mutamento del nostro costume relazionale. Denota certo un ulteriore abbandono delle forme. Ma rispetto a quello che succede, in quanto ad abbandono delle forme, mi sembra con tutta franchezza il minore dei mali, ammesso che un male sia.
Dividere unendo, o unire dividendo: ancora una volta Silvio Berlusconi ha invaso lo spazio politico, con un´operazione che mira a essere formalmente impeccabile, ma che in realtà è insidiosa e strumentalizzatrice. Perché è vero che contro Bin Laden e il radicalismo islamico l´unione rapresenta un valore: se l´attacco terroristico globale è un´aggressione alla democrazia, allo stile di vita occidentale, alla cultura che tutti respiriamo, alla nostra stessa civiltà, allora ogni manifestazione unitaria o bipartisan è benvenuta. Anche, s´intende, la manifestazione contro il terrorismo lanciata da Leonardo Domenici, presidente dell´Anci e sindaco di Firenze.
Naturalmente occorre avere chiaro che manifestazioni di questo genere non servono a unire dal basso il popolo della sinistra e della destra: certi eventi accadono soltanto nella terribile condizione in cui si è trovata la Spagna dopo gli apocalittici attentati di Madrid. Servono piuttosto a unire le rappresentanze, i partiti, le élite, le leadership. A dimostrare pubblicamente l´unità di un paese minacciato, e a trasmettere un´immagine di reciproca solidarietà a tutta l´opinione pubblica.
Con l´intervista che esce oggi sul Foglio, il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, Berlusconi conduce una spericolata acrobazia in parte sui territori dell´ovvio, e in parte sui terreni scivolosi della manipolazione politica. Dire che è necessario un «patto democratico» per impedire «l´uso politico di parte» del terrorismo significa rivendicare con enfasi un´ovvietà. Si ha notizia in Italia di qualcuno, partito o uomo politico, che usa politicamente il terrorismo? C´è qualche soggetto nella politica italiana che scherza col fuoco? No, evidentemente. E allora che cosa vuole dire il premier quando sostiene che bisogna «escludere con una dichiarazione comune il terrorismo dall´ambito delle questioni su cui si svolge il conflitto ordinario della democrazia italiana»?
Non si capisce bene, a meno che non voglia dire che sul terrorismo occorre essere sempre d´accordo con il governo. Oppure, peggio, che c´è qualcuno, si immagini in quale settore politico, che la tentazione di sfruttare politicamente il terrorismo ce l´ha. Difatti Berlusconi aggiunge subito dopo che «la sinistra deve decidersi, uscire dall´ambiguità». Ora, che la sinistra abbia un atteggiamento variegato rispetto all´intervento unilaterale in Iraq, e che al suo interno le posizioni sulla missione "Antica Babilonia" siano le più diverse è un fatto: ma sostenere che esista e si manifesti un´ambiguità rispetto al fenomeno terroristico non è nemmeno un insulto. È una torsione tanto velenosa della realtà da risultare insostenibile per tutti coloro a cui è rivolta.
In realtà la posizione di Berlusconi, apparentemente brillante sul piano polemico (in sintesi: «non si può essere contro il terrorismo a giorni alterni») sembra fatta apposta per incenerire ogni idea bipartisan, sulle prossime manifestazioni pubbliche ma soprattutto sulla linea politica del nostro paese. Perché da un lato il capo del governo invita all´unità nazionale, alla solidarietà di tutto il Paese, e dall´altro attacca gli «equivoci» del centrosinistra, la «contraddizione profonda» che segna il campo a lui avverso. A suo dire c´è un´Italia della pace vera, quella «che scese in piazza il 10 novembre 2001 per solidarietà con gli americani colpiti da Bin Laden, quella che il 19 aprile del 2002 manifestò il proprio amore per Israele colpito dalle stragi di civili dell´Intifada del terrorismo suicida».
Questa eccellente prova linguistica di Berlusconi si riferisce alle iniziative pubbliche promosse dal Foglio. Ma a osservare da vicino le sue espressioni, il senso del discorso è che esistono due Italie, l´una affidabile, vicina agli amici americani, cosciente della sfida terroristica di Al Qaeda e serenamente decisa a reagire; e un´altra Italia inaffidabile, caratterizzata da un pacifismo talmente ideologico o rinunciatario da non essere credibile perfino sul piano della sua lealtà democratica.
L´ossimoro di Berlusconi, dividere per unire, o viceversa, sembra incomprensibile ma è comprensibilissimo. Oggi i governi che hanno sostenuto l´intervento in Iraq sembrano i prossimi destinatari dell´ondata di rancore che si riverserà su di loro, sulle «destre delle bugie», come è appena avvenuto alle elezioni spagnole. Per questa ragione il capo del governo ha bisogno di distinguere, di separare, di identificare con un sigillo interlocutori e nemici. Per suddividere le responsabilità, per alleggerire la scelta tragicamente futile del sostegno alla politica angloamericana, per attribuire alle pattuglie della cattiva sinistra il perdurare dell´opposizione alla presenza italiana sul suolo iracheno.
A occhio, l´intervista di Berlusconi è il frutto di una stagione precedente, inavvertitamente passata. È una volontà assertiva che si presenta con le caratteristiche affascinanti e bizzarre del fuori moda. In realtà, non stiamo giocando alla politica. In realtà siamo sotto tiro, l´ha detto proprio Berlusconi. In realtà, proprio per tutto questo ci vorrebbe una consapevolezza diversa, anziché il disincanto cinico e la manipolazione contro gli avversari politici. Ma la consapevolezza, cioè lo spirito bipartisan o repubblicano, una generosità politica di fondo, non la possiede Berlusconi come non l´hanno avuta Aznar e i suoi ministri. Questa volta è possibile che il calcolo di Berlusconi, la croce gettata addosso ai suoi oppositori, sia stato un azzardo. Se è così, gli rimbalzerà addosso molto presto, e potrebbe fargli molto più male del male che ha voluto infliggere ai suoi avversari
Di mercificazione del corpo femminile è lastricata la storia dell'umanità, ma la cultura - chiamiamola così - azzurra made in Italy riesce ancora una volta a scartare la medietà e a eccellere in stupidità e cinismo. Nella brillante proposta di imporre una tassa progressiva sul secondo aborto e sui successivi firmata dal senatore Gentile non c'è solo l'ennesimo attacco al welfare, al principio di uguaglianza, a una legge dello Stato confermata da un referendum popolare, al primato delle donne nella procreazione. C'è un'idea generale dei delitti e delle pene che merita una menzione speciale per la sua volgarità: abortire è un crimine, passi per la prima volta, ma se c'è la recidiva si paga, e si paga ogni volta di più. Partorirai con dolore, abortirai con moneta. La libertà femminile è servita. Non servono argomenti moderati contro questo colpo d'ala di volgarità e non servono cifre ragionevoli. Lo sappiamo noi e lo sanno Gentile e Sirchia: gli aborti calano, la contraccezione funziona, il problema resta soprattutto per le fasce sociali meno istruite e per le immigrate, e dunque non c'è da modificare la 194 ma semmai da migliorarne il funzionamento. Non è questo il punto, perché l'aborto non è una questione di contabilità, né criminologica né sociologica. Non è una piaga sociale e non è un delitto: è una disgrazia e un lutto, rimedio estremo a una gravidanza indesiderata, che a sua volta è un imprevisto e un lapsus. Provate a monetizzare l'inconscio, e dell'alzata d'ingegno di Gentile sentirete subito il suono stridulo e ridicolo.
Non ci sono le condizioni politiche per portarla avanti, dice ora Sirchia dopo essersi a sua volta coperto di ridicolo ammiccandole col suo solito spirito pedagogico militante, che gli fa dimenticare l'obbligo istituzionale di applicare le leggi prima di attaccarle che compete a un ministro. No che non ci sono, le condizioni politiche. Non solo perché nella stessa Casa delle libertà s'è alzato il fuoco di sbarramento, e nell'opposizione la barriera dei no è (quasi) compatta. Non ci sono, perché il ritornante refrain contro la 194 che ogni tanto qualcuno intona come un grammofono sfiatato si infrange ogni volta contro il muro dell'indifferenza femminile. Non passa, perché non allarma. Non allarma, perché un ritorno indietro, sul terreno dell'aborto, è per le donne, italiane e non, semplicemente impensabile. L'aborto non è un diritto acquisito: è una tessera irrinunciabile di quel mosaico interiorizzato di responsabilità che si chiama primato sulla maternità.
Di questo mosaico la soap opera politica attacca ora questo ora quel pezzo. Ci prova e ci riprova da lustri con l'aborto, c'è riuscita di recente con la legge contro la procreazione assistita: per poco, perché il referendum si occuperà di vanificarla, e di mettere in soffitta quell'idea dell'embrione-persona che accomuna i divieti sull'uso della provetta e le tasse sull'interruzione di gravidanza. Non c'è far west procreativo, non c'è far west abortivo, non ci sono donne da sorvegliare e punire. Prima la soap politica ne prende atto meno fiato spreca: e la cosa non riguarda solo gli estremismi azzurri. Riguarda anche gli opportunismi confessionali che ogni volta agitano i petali della Margherita, ora procurando voti alle norme contro la fecondazione artificiale, ora procurando ammiccamenti alla revisione della 194.
Per una strano gioco della sorte, il senatore Gentile (non nuovo a questa e altre boutade, compresa la proposta di conferire il nobel per la pace a Berlusconi) viene da Cosenza, la stessa città che nei giorni scorsi ha visto la sua sindaca rivendicare la propria decisione di mettere al mondo un figlio anche senza sostegno paterno, contro ogni ombra di ipocrisia sociale e politica. Ammettiamo per gioco che volesse rincorrerla sulla scena mediatica e sullo stesso terreno. Solo che da una parte c'è una donna che agisce in libertà per affermare il suo desiderio di diventare madre, dall'altra c'è un uomo che lavora di repressione per punire il desiderio di altre donne di non diventarlo. Scarti della differenza sessuale nella procreazione, scarti della differenza di stile nella politica. Il desiderio non ha prezzo, e monetizzarlo non paga.
Sui quotidiani italiani, ieri mattina, il numero degli ospiti annunciati alla solenne Notte delle Tre Tavole variava, e non di poco: da un minimo di trentatré a un massimo di quarantatré, a conferma di quanto sia complicato, dopo anni di monocrazia assoluta, imparare di nuovo a fare i conti con la piccola e festosa folla della politica "collegiale". Prima bastava saper contare fino a uno?
L´unico elemento di continuità tra passato, presente e futuro era la presenza di una sola donna, la socialista Chiara Moroni, spersa in mezzo a una foresta di cravatte, copertura involontaria di un maschilismo ottuso e irriducibile, vero elemento anti-europeo, anzi extra-europeo, dell´Italia politica. Per il resto, quantità e qualità degli invitati (tra i quali spiccava, ovviamente, il trionfante De Michelis, riassunto al Tavolo dei Tavoli, quello dei leader) facevano intendere che, effettivamente, il famoso teatrino della politica aveva ufficialmente incorporato il famoso Berlusconi, venuto a Roma per spazzarlo via e divenuto il primo nome in cartellone.
Leggendo quella lista di segretari e sottosegretari, di esperti e consulenti, e il mormorio su tattiche e pretattiche, e le possibili mosse e contromosse, veniva spontaneo pensare, con sbalordimento, alla scena politica italiana di appena poche settimane fa, con Lui ritratto e replicato fino allo sfinimento, e tutti gli altri, amici e nemici, ridotti a commentarne le gesta non avendone di proprie. E viene da chiedersi perché mai questo paese debba sempre passare, come si dice classicamente, da un estremo all´altro: dall´ascesa travolgente e paurosa, a furor di popolo, di un miliardario demagogo che proclama di schifare la politica, e intende rimpiazzarla tutta quanta con il suo sorriso facilone, alla vendetta tardiva ma feroce, quasi sadica, della politica che lo costringe a piegarsi alle sue regole peggiori, quelle di una contrattazione mai limpida, di trattative mai chiuse, di patti sempre spergiurabili.
Possibile che, in mezzo, nell´immenso spazio vuoto che separa il Berlusconi semiduce, ossesso mediatico, padrone di tutto, dal Berlusconi di adesso, ostaggio dei suoi alleati, il centrodestra non abbia trovato un decente metodo per riconoscergli la leadership, però senza consegnarglisi mani e piedi? Perché, per esempio, i partiti di Follini e Fini hanno sempre votato (sapendo di votarli) leggi e decreti platealmente cuciti sulla silhouette personale del premier, sottoscrivendone gli atti più arroganti (come l´assoggettamento della Rai, che solo oggi, a cose ormai fatte, Follini pone come questione di principio), salvo poi denunciare un eccesso di potere personale che essi per primi hanno alimentato? Se dei paletti dovevano essere piazzati, e non in nome delle poltrone ma della democrazia, o perlomeno della decenza istituzionale di fronte al paese, perché non piazzarne neanche mezzo quando si era ancora in tempo, quando la vittoria elettorale (collegiale) della Casa delle Libertà era ancora fresca, e quando già si cominciava a capire che l´immodestia e l´estremismo del premier cominciavano a disgustare non solo gli elettori del centro moderato, ma perfino una parte consistente del suo stesso elettorato? E se questo, come si dice, è un paese moderato, come è possibile che sia riuscito a inscenare, in poco più di un decennio, prima la decapitazione simbolica (non del tutto) di un´intera classe dirigente, con Mani Pulite, poi la svendita all´ingrosso dell´intera scena politica all´uomo più ricco del paese, infine, storia di adesso, la minacciata restaurazione della prima Repubblica forse non tal quale ? ci mancherebbe ? ma comunque simile, con partitini di pochi etti che riescono a ribaltare la bilancia, decisioni di ogni ordine e grado impossibili da prendere, intere politiche economiche che franano sulla prima clientela ostile?
Che strano paese moderato, quello dove nemmeno i moderati sono moderati? Non lo sono stati quando hanno accettato di fare solo da codazzo plaudente a Berlusconi (a meno che "pavido" sia un accettabile sinonimo di moderato), si dubita che possano esserlo adesso, nel momento fatale in cui la crisi del Re mette a dura prova la moderazione e la lungimiranza dei cortigiani, finalmente con le mani libere.
ROMA - Gino Strada, con la sua Emergency, è stato uno dei canali di trattativa "in chiaro" per la liberazione degli ostaggi. Nelle prime tre settimane di maggio, Strada, con sua figlia Cecilia e Tommaso Notarianni, ha negoziato a Bagdad con quattro fonti irachene. Ripartendone con una certezza. Che Agliana, Cupertino e Stefio sarebbero stati liberati "senza condizioni". Oggi dice: "Ci è stato detto che quando la vicenda era ormai risolta, qualcuno ha pagato 9 milioni di dollari... Che gli ostaggi sono stati di fatto consegnati agli americani".
Chi ha pagato?
"Non so chi ha tirato fuori i soldi. So i nomi dei mediatori che, mi viene detto, li hanno maneggiati. Non ho difficoltà a farli, perché Emergency non è un servizio segreto e quel che ha fatto lo ha fatto in modo trasparente. Abbiamo lavorato per la liberazione degli ostaggi con la stessa logica con cui lavoriamo nei nostri ospedali. Siamo stati testimoni diretti di una storia che ha incrociato il nostro cammino. E ora che gli ostaggi sono sani e salvi posso raccontarla".
Chi ha maneggiato i 9 milioni?
"Un uomo di nome Salih Mutlak. Personaggio noto a Bagdad per essersi arricchito con il contrabbando nei dieci anni di embargo. Un nome che ho sentito la prima volta ad Amman, in Giordania".
Cosa seppe ad Amman?
"Incontrai Jabbar Al Kubaissi, un ex esiliato con cui Emergency aveva avuto rapporti in passato. Gli spiegai che Emergency non era disposta a trattare il rilascio degli ostaggi, ma lo riteneva un atto dovuto come gesto di riconoscenza umanitario per aver curato 300 mila iracheni negli anni dell'embargo. Kubaissi convenne sulle mie richieste. Mi fece capire che la testa "politica" del gruppo dei sequestratori sarebbe stata disposta ad un rilascio senza condizioni nelle mani di pacifisti italiani. Ma aggiunse che c'era un problema. Qualcuno tra i carcerieri era sensibile alle sirene del denaro. E che questo canale di trattativa era nelle mani di tale Salih Mutlak. Sapemmo, una volta a Bagdad, che Mutlak aveva rapporti con Abdulsalam Kubaissi, religioso del Consiglio degli Ulema, e che con lui aveva lavorato alla liberazione degli ostaggi giapponesi".
A Bagdad avete incontrato questo Mutlak?
"Ovviamente no. La nostra linea era opposta. Nessuna trattativa economica. Cercammo interlocutori in grado di parlare alla componente politica di chi gestiva il sequestro. Per tutte e tre le settimane della nostra permanenza a Bagdad, i nostri contatti furono un imam di Bagdad, l'imam di Falluja, il fratello di Jabbar Kubaissi, Ibraim, medico di Abu Ghraib, e un terzo uomo, di cui non faccio il nome perché oggi rischia la sua vita".
Erano in contatto diretto con i sequestratori?
"Questo è quello che capimmo. E ritengo di non essermi sbagliato".
Vi diedero delle prove dell'esistenza in vita degli ostaggi?
"No. All'inizio ci proposero di utilizzare dei video da mandare ad Al Jazeera come canale di comunicazione. Ma rifiutammo".
Dunque non è vostro il biglietto che Stefio mostrava nel video del 31 maggio e mai mandato in onda da Al Jazeera.
"Non mi risulta fosse nostro".
Torniamo alle vostre fonti a Bagdad.
"L'ultima settimana di maggio, dopo aver ricevuto assicurazioni che i sequestratori avevano deciso il rilascio degli ostaggi, con tempi e modi che non ci furono indicati, decisi di rientrare in Italia. Vivevo da tre settimane in un residence e l'aria si era fatta pesante. Per dodici giorni, fino a sabato scorso, 5 giugno, non seppi più nulla. Poi, quel sabato, ricevetti una telefonata dal nostro rappresentante a Bagdad".
Cosa le disse?
"L'imam di Falluja aveva comunicato che la questione era risolta. Di attendere una liberazione imminente".
Cosa che è avvenuta.
"Certo. Ma non nei tempi ipotizzati dall'Imam. Martedì 8, nelle stesse ore in cui il nostro rappresentante a Bagdad parlava con l'imam per aver qualche notizia sugli ostaggi, Agliana, Cupertino e Stefio venivano liberati. Cademmo dal pero. Chiedemmo spiegazioni. Cosa era successo?".
Già, cosa era successo?
"Ci è stato detto che i 9 milioni incassati da Mutlak avevano convinto una parte del gruppo a trasferire gli ostaggi dalla prigione di Ramadi ad Abu Ghraib e a consegnarli agli americani con un finto blitz inscenato in una casa di Zaitun street. La strada dove ha provato ad avvicinarsi ieri il vostro cronista prima che provassero a sequestrarlo. Un testimone che abbiamo raggiunto, tale Fahad, ci ha confermato di aver visto la presa in consegna di Agliana, Cupertino, Stefio e del polacco la mattina dell'8 giugno".
Il polacco sostiene di essere stato liberato a Ramadi. E gli ostaggi italiani di non essere stati trasferiti di prigione negli ultimi giorni precedenti il blitz. Sono circostanze che non tornano.
"Io ho appena raccontato quel che so...".
(c. b. - g. d'av.)
(11 giugno 2004)
http://www.archiviostampa.it/default.asp?cat_id=659
ROMA Antonello Falomi è seduto sul divanetto nella sua stanza di vicepresidente del gruppo Ds al Senato. Il piccolo ramoscello di Ulivo sul bavero della giacca. Non se lo toglie mai. La sua storia è quella di un ulivista convinto. Quella stanza ora dovrà abbandonarla. La sua è stata una «decisione sofferta». E per il momento si sente «orfano» come confida agli amici che gli telefonano. «Ma spero che il mio non sia un abbandono definitivo. Spero sempre di poter ritrovare un partito diverso da quello che sto lasciando. La lotta politica serve anche a questo». L’amarezza c’è, tuttavia: «In un partito le regole che attengono alla partecipazione della minoranza non possono essere le stesse che ci sono in un consiglio di amministrazione. Bisogna sempre trovare la sintesi che consente di tenere insieme un partito».
Come è arrivato a questa decisione?
«L’ultima riunione della direzione del partito è stata un passaggio chiave. La minoranza ha tentato in tutti i modi di mutare la posizione che ormai sta emergendo nel partito sulla vicenda irachena. Hanno respinto tutto. Quello che più mi ha colpito è l’ambiguità, la doppiezza, il ricorso a marchingegni parlamentari per non affrontare con chiarezza questo nodo».
Quale ambiguità?
«Non si può dire: se otteniamo lo scorporo del decreto si vota contro il finanziamento della missione in Iraq. E poi dire contemporaneamente che è sbagliato chiedere il ritiro delle truppe. È una contraddizione. O si vogliono lasciare lì le truppe senza viveri e armanenti, il che è palesemente assurdo. Oppure, in realtà, si sta cercando di indorare la pillola per far digerire un mutamento di posizione rispetto a pochi mesi fa».
A che cosa attribuisce questo mutamento di posizione?
«Si pensa di poter vincere la battaglia contro Berlusconi spostando verso il centro, in senso moderato, il baricentro della coalizione. La mia contrarietà all’operazione triciclo nasce proprio di qui».
Lei fa parte del correntone che però ha deciso di condurre una battaglia dall’interno contro quella che definisce la deriva moderata del partito.
«Condivido le riflessioni, le analisi, le proposte che in questo momento sta facendo il correntone. La sua battaglia è giusta e sacrosanta. Si deve solo ringraziarlo per la funzione che svolge nel partito. Io ho scelto di condurre la stessa battaglia in forme diverse e nuove».
Su questa scelta ha pesato il rapporto con Occhetto...
«Ho partecipato con impegno al tentativo di Occhetto e Antonio Di Pietro di collocare la loro lista dentro una prospettiva diversa da quella del partito riformista. La loro battaglia aveva portato anche a un risultato politico importante: la sottoscrizione di un documento comune nel quale si affermava che la lista del triciclo non era la premessa di un partito riformista ma il primo passo per il rilancio della costituente di un Ulivo più ampio e attento a movimenti e società civile».
Poi cosa è accaduto?
«Nel giro di quattro giorni ci sono state tre interviste di Rutelli, D’Alema e Fassino che smentivano quanto era stato sottoscritto e ribadivano che l’operazione triciclo era funzionale al motore riformista. Si è data l’impressione che la firma a quel documento fosse stata apposta senza crederci davvero. A quel punto Occhetto e Di Pietro hanno fatto un’altra scelta».
Ora c’è anche la faccenda del simbolo...
«Spero vivamente che ci si metta intorno a un tavolo e si trovi un accordo. Altrimenti sarebbe la riprova che la lista cosiddetta unitaria anziché unire divide. E non si può nemmeno ripetere la favola del lupo e dell’agnello: chi ha deciso di impossessarsi del simbolo di una intera coalizione non sono i partiti minori che giustamente protestano, ma i partiti maggiori. Credo che a Prodi converrebbe fare il leader di tutta la coalizione e non farsi schiacciare su una parte. Per quanto siano ottimistiche le previsioni elettorali del listone manca sempre un 20% dei voti per arrivare al 51%».
Si impegnerà nella lista con Occhetto?
«Condivido la carta di intenti con la quale Occhetto ha aperto un confronto con Di Pietro per definire la lista. E condivido l’idea di aprirsi a personalità collegate ai movimenti. Se il processo si concluderà positivamente è possibile un mio impegno».
C´È un´emergenza crimine nel Paese che preoccupa i cittadini, e che dovrebbe impegnare in prima linea il governo, con la sua cultura propagandistica da "tolleranza zero". No. In piena emergenza, Forza Italia si trasforma ancora una volta in un manipolo aziendale per la tutela degli interessi personali di Cesare Previti, che incatena ai suoi destini la decenza di un partito, di una maggioranza parlamentare, di una coalizione, del governo: e purtroppo dell´Italia.
La Casa delle Libertà oggi prova in Parlamento a liberare ad ogni costo Cesare Previti, già condannato due volte per corruzione. Non potendo più fermare i suoi giudici né camuffare il reato, si tenta di renderlo impunibile. Come? Semplice. Si costruisce un fittizio "pacchetto anticrimine" per fingere di legiferare nell´interesse del Paese, e nel pacchetto si inserisce una norma che abbatte i tempi di prescrizione per molti reati pesanti come l´usura, il furto aggravato, l´incendio doloso, ma soprattutto la corruzione. Consentendo a Previti di trovare la strada su misura per evitare il suo giudice, a Berlusconi e a Dell´Utri di non ricorrere nemmeno in appello.
Che dire? Due cose soltanto. Queste vicende possono compiersi solo in un Paese pronto a tutto, dove una vera e propria complicità intellettuale permette che il reato criminale riduca la politica a servaggio, per cambiare in Parlamento la sua natura. Un processo alchemico scellerato, che deforma lo Stato di diritto e dimostra la falsità del teorema che voleva Berlusconi "costretto" alle leggi ad personam. Ora che è stato prosciolto, le leggi ad personam continuano, per quei soci-padroni capaci di tenere in ostaggio il lato più oscuro di un uomo che dovrebbe governare l´Italia, e la umilia con un Parlamento asservito.
PRIMA ancora che si calassero in un provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri, sono stati diffusi i dati sul finanziamento dei previsti sgravi fiscali. Non si tratta di coperture fittizie: poiché il ministro, in questo, ha mantenuto il suo impegno, il Ragioniere generale dello Stato, a cui non spettano valutazioni di merito, può certificare in coscienza la compatibilità contabile delle proposte annunciate. Il ricavo del condono edilizio rinviato al 2005 è sostituito negli anni successivi dall´entrata a regime di nuove misure sulle entrate, e soprattutto sulle spese; non figurano come copertura le risorse accantonate per il contratto dei dipendenti statali. Probabilmente il 3% di indebitamento sarà superato l´anno prossimo: ma a motivo dei tanti buchi, vecchi e nuovi, della Legge finanziaria da 24 miliardi.
Non dunque di correttezza della copertura degli sgravi tributari dovrebbe occuparsi il dibattito politico, ma dell´accettabilità e delle conseguenze delle scelte compiute per consentirne il finanziamento. Si insegnava un tempo sui libri di testo che non si può avere più burro senza avere meno cannoni. La scelta fra l´uno e gli altri è, appunto, una vera scelta politica, salvo che qualcuno voglia vendere l´illusione che si può avere più dell´uno e più degli altri: come si è tentato di fare in questi anni, fin quando la dura realtà dei numeri non ha imposto le sue ragioni.
Quali sono i cannoni a cui si vuole rinunciare per offrire il burro della riduzione di imposte? Vi è anzitutto un rigido e durissimo blocco dei rimpiazzi (turnover) nel personale delle pubbliche amministrazioni e delle università. Nel complesso del settore pubblico esiste un problema di qualità e di efficienza, più che un problema di numeri, che non sono certo superiori a quelli degli altri paesi. Come ha ben scritto Fabrizio Galimberti su il Sole-24Ore, tagliare i numeri senza preoccuparsi di efficienza e qualità può solo peggiorare la situazione. Tra tre anni, vi sarà qualche decina di migliaia di dipendenti in meno: certo meno persone improduttive, senza tuttavia che ve ne siano di più produttive; e, comunque, meno poliziotti e carabinieri, meno addetti alla protezione civile, meno magistrati. Nelle università e nei centri di ricerca il passaggio improvviso dal passato eccesso di generosità al blocco totale impedirà l´accesso di giovani e aumenterà l´invecchiamento: meno cattedre date senza merito, certo, ma anche sancito divieto di accesso ai meritevoli e, dopo tanta retorica, al ritorno in Italia di giovani studiosi oggi all´estero.
Vi è poi un ulteriore e drastico taglio dei cosiddetti consumi intermedi, ovvero dell´acquisto di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni (600 milioni l´anno prossimo, 1,2 miliardi negli anni successivi). In questo caso si tratta in parte veramente di cannoni, poiché gli acquisti sono elevati soprattutto nella difesa. Ma in parte si tratta di altro, e non solo di arredi per gli uffici: ad esempio di minori mezzi per le forze dell´ordine (vecchie macchine della polizia vanamente impegnate nell´inseguimento dei veloci mezzi usati dai delinquenti); di meno attrezzature per la sanità pubblica, con un incentivo al ricorso delle cliniche private.
Dunque di questo soprattutto si tratta, né di altro potrebbe trattarsi, poiché con una spesa del settore pubblico costituita per il 46 per cento da prestazioni sociali (ossia pensioni, su cui non si vuole intervenire) e da interessi, di grasso sui cui incidere ve n´è poco o nulla. Il governo ha finalmente compiuto una scelta politica: meno tasse e meno servizi. Smetta l´opposizione di sollevare questioni tecniche, che non esistono: renda chiaro il costo della scelta e spieghi perché ad essa ci si debba opporre.
Dobbiamo un ringraziamento a Rocco Buttiglione. La sua audizione, le sue posizioni contro gli omosessuali e contro le donne, e le reazioni che hanno scatenato, hanno avuto un grande merito: hanno dato carne a sangue ad un'Europa rimasta finora burocratica e grigia, mercantile e liberista. Finora l'Europa delle cittadine e dei cittadini non l'avevamo intravista neppure in controluce. Lo stesso dibattito sulle origini giudaico-cristiane del vecchio continente, dibattito niente affatto secondario (e nel quale - a mio parere - l'elemento storico e religioso non era da cancellare con prosopopea e sufficienza) era stato inficiato da elementi strumentali. Chi voleva introdurre le origini cristiane, come il presidente del Senato il neocon Marcello Pera, non faceva mistero di considerare quel riconoscimento parte di una guerra di religione. «In un momento in cui l'Occidente, l'America con l'11 settembre, l'Europa con l'11 marzo - ha detto - sono fattti bersaglio del terrorismo islamico, riconoscersi o meno in una identità, che ha radici tanto nella tradizione giudaico-cristiana quanto nella civiltà greca classica, costituisce una differenza fondamentale». Chi a queste radici si opponeva, come la Francia di Jacques Chirac, lo ha fatto in nome di un laicismo che rifiutava a priori e ingiustamente l'esistenza di radici cristiane in quanto radici "religiose".
Così eravamo a qualche giorno dalla firma del trattato costituzionale. Poi c'è stato il "caso Buttiglione" che, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha rotto il silenzio delle donne e degli uomini e ha posto a tutti noi cittadini/e europei/e le seguenti domande: chi siamo?
Quali devono essere i nostri diritti? In che modo dobbiamo regolare le nostre relazioni a cominciare da quelle nella famiglia? Quale rapporto dobbiamo avere con il diverso, sia esso l'omosessuale, una minoranza politica o con l'extra comunitario, cioè con un'altra cultura? Come si costruiscono i rapporti fra i sessi e come si concepisce la figura e il ruolo della donna nella società e nella famiglia? Come si confrontano i valori di cui siamo portatori?
Non sono domande da poco. Esse rinviano a regole comuni e con-divise, a valori fondanti. Esse, o meglio la risposta ad esse, contribuisce a costruire in modo determinante un'idea e un immaginario di Europa. A dargli quell'anima, che i burocrati e i governi di Bruxelles non sono riusciti neppure ad accennare nelle centinaia di pagine del trattato costituzionale.
Perché di un'anima, e anche di ideali e "di immaginario" (come non si stanca di ripetere sul manifesto Ida Dominijanni) i cittadini europei hanno bisogno. Chi oggi usa, strumentalmente, i valori espressi da Rocco Buttiglione, sa bene l'anima che vuol dare all'Europa. Ce l'hanno detto parlando dell'aborto, dell'omosessualità, della procreazione assistita, della famiglia. E oggi ce lo dice con particolare forza e convinzione, perché quelle idee fanno parte di una battaglia più vasta. Esse devono essere il fondamento di un'Europa che in nome dell'occidente ingaggia una guerra contro l'"altro", contro l'Islam. Tutto si tiene in quel progetto ideologico: il liberismo di Maastricht, una concezione delle donne e degli uomini e delle loro relazioni intrinsecamente conservatrice, e naturalmente la guerra. Quella guerra che si vorrebbe far diventare il collante di un continente che finora non è apparso entusiasta.
E' un progetto chiaro, lineare, ma non egemone. E' pieno di contraddizioni come sempre la vicenda Buttiglione ha dimostrato. Gran parte di coloro che sono per la libertà di mercato sono anche per la libertà dell'individuo. Una intellettuale italiana come Claudia Mancina lo ha detto in un articolo di grande spessore apparso sul Foglio di qualche giorno fa: non si può essere per il libero mercato e contro la libertà delle persone, delle donne, degli omosessuali. Questo occidente va preso tutto così come è. E la pensano come Claudia Mancina quei liberaldemocratici europei, non assimilabili alla sinistra, che sono stati fondamentali nel respingere le tesi integraliste di Rocco Buttiglione.
E questa non è la sola contraddizione. La seconda riguarda la Chiesa cattolica o meglio i cattolici. Questa può essere in gran parte, o in parte, d'accordo con quanto i conservatori cattolici dicono sulla donna, sull'uomo o sulla famiglia (in gran parte, non del tutto) ma non ci pensa neppure ad ingaggiare una guerra di religione contro l'Islam. Il Papa si è scusato per le guerre di religione, La Chiesa è fondamentalmente pacifista. Quanto al liberismo è noto che Karol Wojtila ne è uno dei critici più intransigenti.
Una parte ampia di cattolici e di cristiani afferma con forza e passione i propri valori, li testimonia nella vita, ma non pensa di imporli ad altri. Questo ha reso possibile nella gran parte dei paesi europei l'affermazione di leggi in contraddizione con valori religiosi.
Ma le donne e gli uomini d'Europa possono accontentarsi di un liberalismo autentico che si limiti a salvaguardare i diritti dell'individuo e del mercato? Che - per citare una delle tre parole della rivoluzione francese, la rivoluzione che definì i diritti dell'uomo - si limiti alla "liberté"? O deve aspirare ad altro? Proprio le contraddizioni esistenti nel fronte liberale e liberista ci fanno capire che dell'altro c'è bisogno. Che la nuova Europa non può costruirsi solo sulla "liberté", ma anche sulla "egalité" e sulla "fraternité". In poche parole nella lotta al liberismo e nella ricerca della pace.
Non è un'utopia, non è una ipotesi astratta. E non solo perché sulla "fraternité", cioè sulla lotta alla guerra in Europa, c'è un fronte vasto e variegato che attraversa gli Stati, la Chiesa cattolica e si incarna in un movimento che si fa di tutto per ignorare, ma che c'è ed è forte (per fortuna non è solo Comunione e liberazione a mobilitare i giovani). Non solo perché l'ipotesi liberista ha provocato sconquassi inimmaginabili e pone all'ordine del giorno quella "egalité" così dimenticata nella stagione della precarizzazione e dello sfruttamento generalizzato. Non solo per questo. Ma perché gran parte del pianeta ci vive già come "eccezione", punto di riferimento, curioso spazio non domato dall'impero americano. Ci vive come continente che sa parlare di pace, che mantiene una idea di solidarietà ed inclusione. Un continente che può parlare al mondo proprio perché "Venere", e non "Marte", non è interessato, cioè, al dominio militare dei popoli della terra. Come un'area in cui sono forti movimenti e idee che cercano un nuovo equilibrio fra uomo e ambiente e fra le diverse culture, dove un movimento operaio, pur colpito, produce ancora modelli di conflitto e di cittadinanza. Dove una grande stagione di lotte ha prodotto con il Welfare, un idea di stato solidale. La battaglia per la costituzione è la battaglia per affermare in Europa questi valori, tra i quali il rispetto delle minoranze (sta qui, ben più che l'essere mussulmani, il confronto con la Turchia)
Provate a parlare dell'Europa con chiunque dei cittadini del mondo, per esempio un abitante dell'Ohio o dall'altra parte del globo un abitante del Sudafrica. Entrambi o con disprezzo o con ammirazione individuano l'Europa come diversa. Questa diversità è la sua - la nostra - anima. Anche noi possiamo vederla e cominciare a viverla.
Neanche il sequestro delle due Simone ci ha privato della perpetua rissosità nell'opposizione. Della quale un solo punto è chiaro, che il «come battere» il cavaliere importa meno del «che cosa fare dopo» il cavaliere. Da che Follini ha rinverdito la speranza di una centralità democristiana, una parte della Margherita e dei Ds, oltre che lo Sdi, sono tentati da un governo che tagli le ali: a sinistra - Rifondazione, il correntone, il Pdci e forse altri -, a destra - la Lega, forse An, ma solo parte di Forza Italia. Sembra un sogno, ma è così. Non basta, la tregua concessa al governo per riscattare i quattro di «Un ponte per» diventerebbe volentieri per molti un metodo costante e assai dialogico di accordi e separazioni su singoli punti fra maggioranza e opposizione, destinato a mischiar le carte per il governo successivo quale che sia. Sarà per questo che l'opposizione strilla contro la Casa delle libertà, ma su quel che farebbe una volta al governo resta sibillina? Ds e Rutelli hanno laconicamente detto che «non tutto va cambiato», si sono astenuti sul primo articolo della devolution, Fassino è svolazzato alla convention di Kerry come da giovane svolazzava a Mosca. Non si rendono conto quanta credibilità hanno perduto dal 13 maggio a oggi. E discutono sulla pelle di un orso che ogni giorno di più rischiano di non catturare affatto.
Questa reticenza è stupefacente. Anche la diatriba su chi dovrebbe decidere il programma - Bertinotti insiste che non siano soltanto i partiti - finisce col suonare come un rinvio, perché intanto nessuno si espone. Lo ha fatto soltanto la Fiom che, essendo un sindacato, elenca le urgenze dei lavoratori: finirla con la precarietà, tener fermo il contratto nazionale, basta con la legge 30. Questione bruciante non solo perché va contro l'ondata liberista che ci sta scrosciando addosso, ma perché precarietà, flessibilità, competitività sono state la grande scoperta del primo governo di centrosinistra e costituiscono il cuore della Carta europea. Non che non potrebbero essere discusse, perché oggi si vede che non sono soltanto i lavoratori a essere penalizzati ma che la priorità data al mercato globale ha reso l'economia ingovernabile, introducendo il massimo dell'incertezza e del disordine in tutte le nazioni. La libera circolazione dei capitali e delle merci terremota ogni previsione di crescita, mentre la circolazione delle persone è resa più urgente dalla miserie di posizione e più repressa dalla parte del mondo verso la quale gli infelici convergono. Come invertire queste tendenze? Viene il dubbio che i moderati dell'Ulivo non ci pensano neanche, mentre metà della sinistra sta ancora pentendosi di aver difeso il lavoro e lo chiama statalismo e rigidità. Se ne preoccupano di più le confindustrie, visto che l'allargamento - fortemente voluto dagli Usa - dell'Europa all'Est sta dando luogo a un colossale sistema di dumping. Mettere un freno a questi processi, come ha proposto Zapatero, implica che i governi rivedano i parametri dei trattati europei e che i sindacati cessino di credere che in un'economia globale il lavoro possa essere organizzato nazionalmente. E che dice la nostra opposizione sulle tasse? Si propone di redistribuire il reddito colpendo le ormai enormi rendite per alleviare le fasce più deboli e garantire i servizi collettivi invece che affidarli al mercato e se li compri chi può?
E poi. La Casa della libertà ha fatto dell'Italia il miglior amico di Bush. Romano Prodi ripete che l'Europa deve parlare con una sola voce. Quale, prego? Germania, Francia e Spagna dicono no a Bush e chiedono il ritiro americano dall'Iraq, il Regno Unito, l'Italia, l'Est e altri restano avvinghiati al Pentagono. La stessa divisione entra fin nella Margherita e nei Ds. La sola voce europea che direbbe? E, attenzione, nessuna delle due scelte è indolore e asettica, come non è semplice né asettico invertire l'ondata liberista. Proprio per questo evitar di parlarne rende l'opposizione poco credibile.
Sono solo due esempi di questioni decisive, che la destra cavalca ma senza che chi chiede il voto contro Berlusconi dica quale progetto ha, sempre che l'abbia. Viene il dubbio che chi non si sforza di convincere ha già smesso di puntare a vincere.
Ma è vero che si tratta di scegliere fra un Iraq normalizzato dagli Stati uniti e un Iraq liberato dai tagliatori di teste? Fra una Cecenia normalizzata da Putin e una Cecenia dominata dai sequestratori di bambini? Che per una volta realismo e morale consigliano il primo corno del dilemma?
Non è vero. L'Iraq non tornerà normale finché dura l'occupazione americana. E' questa che lo ha gettato dalla dittatura nel caos e imponendo un governo Quisling sollecita una resistenza che, non avendo un foro minimo di elaborazione consentita, suscita anche frange fondamentaliste o semplicemente criminali. Ma non sono queste che tengono l'Iraq fra le mani: esso è o sarà nelle mani delle gerarchie sciite e sunnite, che sono in grado di far desistere anche Al Sadr - una repubblica islamica, bel risultato dell'idiozia del Pentagono e dei suoi sostenitori europei. Né la Cecenia è in mano ai sequestratori di bambini: se Putin la lasciasse sarebbe una repubblica islamica diretta da Mashkadov. Riportiamo le cose al loro livello reale che è già abbastanza costernante. E va da sé che siamo perché gli stati trattino per la vita dei cittadini che non hanno saputo difendere dalle frange estremiste, ma soprattutto ritirino gli eserciti di occupazione, che non rappresentano il minor male come si va cianciando ma l'origine del disastro.
La verità è che nel Medio Oriente una partita si sta giocando fra due destre estreme e con mezzi e categorie che credevamo di avere alle spalle. Quando le Nazioni unite interdicevano la guerra come mezzo per risolvere ogni contenzioso internazionale, non si limitavano a predicare la mitezza, ma temevano con ragione che ogni nuova guerra, anche in presenza di mezzi distruttivi sempre più potenti, avrebbe suscitato incendi catastrofici. Cessato l'equilibrio degli armamenti che fungeva da deterrente, incombeva alla sola superpotenza rimasta in campo di vigilare su questo principio per garantire un ordine mondiale nel quale dipanare politicamente conflitti di interesse e risarcire ferite, che forse anch'essa avrebbe subito. Gli Usa di Bush ne hanno derivato invece che ormai erano padroni del mondo, e l'Europa delle sinistre li confermava in questa persuasione chiamandoli a intervenire contro la Jugoslavia nel pessimo contenzioso etnico, che essa non sapeva, né forse voleva risolvere con mezzi politici.
Da allora la scena mondiale non ha più né ordine né principi. Gli Usa hanno risposto ad un brutale attentato covato da potentati arabi che essi stessi avevano addestrato e usato, invadendo due paesi, uno dei quali non c'entrava niente ma del quale il giro di Bush da tempo ambiva il petrolio. E per questo fine hanno rotto le ossa alle Nazioni unite. Hanno mentito e attaccato. Ignoranti e razzisti pensavano di cavarsela con poco mentre hanno messo in fiamme il Medio Oriente moltiplicato i focolai di terrorismo e suscitato in Iraq una reazione diversa, incontrollabili e con estremismi incontrollati.
In vent'anni il mondo è arretrato di tre secoli, siamo tornati alle guerre di religione: Bush sventola il vessillo della trinità, Sharon quello di Jahvè, gli iracheni, i palestinesi, i ceceni quello di Allah. Sono le religioni del libro dietro le quali si coprono corposi interessi e fragili identità. L'occidente invade, massacra, privatizza guerre, soldati e mezzi di morte, cattura e tortura in nome di Cristo. Nel Medio Oriente e in Cecenia giovani e donne disperati si fanno esplodere in nome di Allah pur di trascinare il nemico nella morte.
Dal crollo dell'Urss siamo in un disordine mondiale mai immaginato. Lucio Colletti era da un pezzo polemico col comunismo quando si chiedeva a quali mostruosità però avrebbe dato luogo la caduta di una speranza di riscatto terreno, come erano state le lotte socialiste e comuniste. Se non sarebbe riemerso il furioso ciarpame nazionalista, etnico, religioso a coprire affari e giochi di potere nella confusione dei poveri e dei perdenti. Chi aveva scritto nella prima metà del `900 «Socialismo o barbarie» aveva ragione. E l'avevamo anche noi, Manifesto, quando siamo nati su due punti cardine: la critica al socialismo reale, che allora nessuno faceva, e il tener ferma quella bussola laica e marxista che aveva elevato il livello dello scontro e lo aveva civilizzato. Erano e siamo minoranze fin troppo lucide.
Certo non è comodo essere soli, è più confortevole cantare nel coro dolcificante dei media e dei dubbi della gente per bene. Si è accolti con entusiasmo. Ma affilare la ragione invece che le spade resta il nostro mestiere. Il resto lo lasciamo a Hungtinton, Fukujama e, ahimé, Calderoli.
ROMA Ci risiamo. Dopo aver santificato Marcello Dell’Utri, aver gridato che la sentenza dei giudici di Palermo è frutto di una persecuzione politica, il Polo si appresta ancora una volta a invadere il terreno della giustizia per ostacolarne il corso con leggi ad hoc, salvare dalla galera gli amici degli amici. Il copione è sempre lo stesso. Dell’Utri è condannato per concorso esterno in associazione mafiosa? Il centro destra ha già iniziato a dire che si tratta di un reato «finto», «da cancellare».
Lo ha detto, subito dopo la sentenza, il capogruppo di An in Commissione Antimafia, Luigi Bobbio. E gli hanno fatto eco due centristi come Carlo Giovanardi («C’è un problema politico e giuridico da risolvere, quello del concorso esterno in associazione mafiosa») e Rocco Buttiglione («Il concorso esterno è reato poco chiaramente definito»). Tutti d’accordo che occorre intervenire sul piano legislativo per abrogare il reato. «Il concorso esterno in associazione mafiosa - sostiene Bobbio - è frutto della creazione della magistratura siciliana, avallata dalla Cassazione. Bisogna assolutamente intervenire sul piano della legislazione per cancellare da un lato una vergogna giuridica e dall’altro una sorta di scatola vuota nella quale si tenta da troppo tempo di infilare chiunque sia sgradito, per le ragioni più varie, a un magistrato inquirente».
Bobbio ha già individuato anche lo strumento: «Una revisione del 416 bis». Che potrebbe essere oggetto di una proposta di legge ad hoc o meglio essere contenuta nel cosiddetto «pacchetto Napoli», le norme anticrimine che si pensa di inserire dentro la pdl sulla recidiva (la cosiddetta Cirielli-Vitali che a sua volta già contiene le norme salva-Previti). Una bella matrioska per levare le castagne dal fuoco a Previti e Dell’Utri in un colpo solo? Quello della matrioska è un gioco in cui il Polo è diventato esperto. Basta presentare emendamenti a un testo già pronto che si raggiunge lo scopo.
Nel caso della Cirielli-Vitali che sarà in aula proprio in questa settimana per essere licenziata prima di Natale (a questo almeno punta Fi) fu un emendamento firmato dal forzista Mario Pepe ad introdurre, nell’estate del 2003, la drastica riduzione dei tempi di prescrizione dei reati. Un emendamento che fu subito ribattezzato salva-Previti (se la legge fosse approvata sarebbe immediatamente applicata anche ai processi in corso per il principio del «favor rei»). E trovò però l’opposizione dell’Udc. L’aennino Cirielli, fra l’altro, si dimise da relatore della legge proprio per le polemiche sollevate dall’introduzione di quell’emendamento. L’Udc (era ancora in corso la fantaverifica di governo)tuonò che si trattava di una «amnistia mascherata». Ed è stato proprio per questo che la legge ridenominata Cirielli-Vitali e che riguarda, ironia della sorte, l’inasprimento delle pene per i recidivi, ha finito per slittare varie volte.
Nel frattempo la maggioranza ha approvato la controriforma dell’ordinamento giudiziario e ha cercato disperatamente di trovare «la quadra» sul pacchetto di norme anticrimine («pacchetto Napoli»). Il ministro della giustizia Castelli avrebbe voluto inserirle nella legge Cirielli-Vitali ma l’ipotesi sembrava essere tramontata perché il ministro dell’Interno Pisanu si era messo di traverso. Così proprio nelle ore in cui la Camera approvava l’ordinamento giudiziario per il pacchetto Napoli sembravano essere rimaste in piedi le due ipotesi alternative di un legge ad hoc (troppo lungo l’iter, però) o di un decreto.
Adesso Bobbio ipotizza la matrioska: una norma salva-Dell’Utri messa dentro il pacchetto Napoli, messo dentro la Cirielli-Vitali che già contiene la norma salva-Previti.
Il rebus è all’attenzione dei cosiddetti «saggi» della Casa. Che però dovranno vagliare anche la percorribilità di un’altra strada, più antica e molto cara al Polo. Quella prospettata ieri dal sottosegretario udiccino alla Giustizia Michele Vietti: ripristinare l’immunità parlamentare, rendere intoccabili deputati e senatori. Strada ardua però. Visto che lo scorso gennaio la Consulta ha già dichiarato illegittimo anche il famoso Lodo Schifani, l’immunità per le alte cariche dello Stato. Per l’opposizione si annuncia un’altra battaglia contro «la scandalosa cultura del privilegio e dell’impunità» (Pecoraro Scanio). Non sarà, come dice il prodiano Franco Monaco, che si dovrebbe rispolverare «la questione morale»? «Ci siamo imposti il dogma del politicamente corretto secondo il quale dovremmo inibirci il giudizio morale e politico sui profili clamorosi e inquietanti delle recenti note sentenze. Neppure dopo sentenze di questa portata che attengono ai rapporti tra corruzione, mafia e politica e che investono i vertici dello Stato, sentiamo il dovere di mettere a tema la questione della qualità etica di una classe dirigente? Una questione morale grossa come una casa?».
Il dottor Dulcamara, che nell´opera buffa affascinava le piazze di paese declamando le virtù del suo elisir e promettendo agli ingenui villici eterna giovinezza, ricchezza e felicità, si è ormai trasferito a Palazzo Chigi e imbonisce con la voce del presidente del Consiglio: per uscire dal ristagno economico e dalle acque morte d´una crescita che da tre anni non si allontana dallo zero, non c´è altra ricetta che la riduzione dell´Irpef e in particolare dell´aliquota massima che colpisce i redditi più elevati, quelli degli imprenditori e dei manager. Basterebbe ridurre quell´aliquota dal 43 al 39 per cento per imprimere all´economia italiana la salutare scossa di cui il nostro Dulcamara cominciò a parlarci fin dall´aprile del 2001.
Come mai un elisir così miracoloso non sia stato ancora propinato e quindi non abbia ancora prodotto i suoi magici effetti, è cosa inspiegabile. Ma ancor più inspiegabile sono le certezze che animano il Dulcamara in questione e il coro dei suoi sodali a dispetto d´ogni senso della realtà.
La realtà è infatti che il numero dei contribuenti che hanno dichiarato un reddito superiore ad un milione di euro è di appena 1.081 (dati della dichiarazione relativa al 2001); nello stesso anno hanno dichiarato redditi superiori ai 300.000 euro annui soltanto 17.000 contribuenti. Riducendo l´aliquota Irpef dal 43 al 39 questi scaglioni di reddito avrebbero un beneficio complessivo di 500 milioni di euro. Sarebbe questa la chiave di innesco della scossa tanto attesa? Chi può prestar fede ad una fandonia di simili dimensioni? Bondi? Schifani? La gentile e graziosa ragazza che fa da qualche giorno la portavoce del nostro beneamato Berlusconi, della quale purtroppo non ricordo il nome?
Noto di passata che la Confindustria, cui presumibilmente sono iscritti i percettori dei suddetti redditi, non ha mai chiesto un provvedimento del genere, anzi si è dichiarata perplessa e addirittura contraria a sperperare risorse pubbliche nella direzione d´uno sgravio fiscale sui redditi personali e in particolare d´un abbattimento dell´aliquota più elevata dell´Irpef.
Non è strana questa resistenza di Confindustria verso una strategia economica di cui i suoi maggiori associati sarebbero i principali beneficiari? Non sarà che non sono tanto allocchi da scambiare per oro fino una patacca di ottone?
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Personalmente non sarei affatto contrario all´aumento dell´imposta sugli autonomi che il ministro del Tesoro chiama pudicamente manutenzione fiscale.
Quel gruppo di contribuenti beneficia già ora d´una sorta di concordato che in realtà configura un permanente condono rispetto al suo effettivo reddito. Il fatto che in tempi di ristrettezze il buon Siniscalco voglia ridurre il livello di quel condono mi sembra del tutto plausibile. Ma vedrete che alla fine da tanto fumo resterà pochissimo arrosto; in tempi elettorali valgono solo gli spot e questa «manutenzione» è assai poco spendibile sul mercato pubblicitario.
Resta come solo e vero perno della manovra il famigerato tetto del 2 per cento che dovrebbe niente meno durare per l´intero triennio 2005-2007. Per tutto questo arco di tempo la spesa corrente complessiva, sia di competenza che di cassa, dovrebbe restar congelata, in termini reali, al livello di spesa del 2003.
Quest´ipotesi non è minimamente credibile. Qualora fosse effettivamente realizzata avrebbe effetti deflazionistici imponenti e indiscriminati. Siamo dunque in presenza d´una strategia dissennata sia nell´ipotesi di mancata realizzazione (nel qual caso salterebbero tutti i parametri e gli obiettivi della manovra) sia nel caso di efficace applicazione (nel qual caso passeremmo dalla stagnazione alla recessione vera e propria).
Aggiungo un´osservazione che non mi pare sia stata ancora fatta. Per l´esercizio 2005 Siniscalco prevede che il tetto del 2 per cento produca minori spese per 7-8 miliardi di euro, necessari a contenere il deficit al di sotto della soglia del 3 per cento fissato dal patto europeo di stabilità.
Nel medesimo esercizio 2005 quello stesso tetto servirebbe a coprire la riduzione dell´Irpef e dell´Irap.
Ma Siniscalco non spiega con quali risorse manterrà il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tetto che produce 7 miliardi di minori spese non può infatti essere utilizzato contemporaneamente per finanziare due diversi obiettivi: contenimento del deficit e riduzione di entrate. Ho la sensazione che in questo caso Dulcamara, oltre che a vendere falsi elisir, si dedichi anche al gioco delle tre carte; nell´opera buffa questo non è previsto. Caro ministro, qui siamo fuori dal copione.
Tralascio il discorso sul pubblico impiego che ci porterebbe lontano, ma una parola la voglio pur dire. Contrariamente ai propositi della Lega, che se potesse imbarcherebbe i pubblici dipendenti con destinazione Libia insieme agli immigrati clandestini, Siniscalco ha aperto un confronto. Propone aumenti contrattuali agli statali del 5 per cento anziché rispettare il tetto del 2, ma in contropartita vuole il blocco del turn over e anche un accordo di mobilità per trasferire dallo Stato alle Regioni gli impiegati necessari a causa della devoluzione dei poteri. Posso dire che questo è un sogno, una pia illusione che non avrà alcun riscontro nella realtà? Anzitutto il 5 per cento di aumento contrattuale: ci vorrà almeno il 6 per convincere i sindacati, con il che il tetto sarà stato superato tre volte.
Recuperarlo col blocco del turn over? Mi pare un´ipotesi di terzo grado. Quanti sono i pubblici dipendenti che escono ogni anno dal servizio attivo? Il ministro del Tesoro dovrebbe dircelo per poter calcolare l´entità del risparmio, ma dovrebbe anche dedurre da questo ammontare le nuove pensioni da pagare ai dipendenti in uscita. Il risparmio generato dal blocco sta infatti nella differenza tra lo stipendio e la pensione più liquidazione.
Tutto ciò senza introdurre il discorso connesso con la devoluzione. Lo Stato cioè dovrebbe non solo bloccare il turn over ma anche, con una massa di impiegati decrescente, trasferirne alcune decine di migliaia alle amministrazioni regionali. Il ministro Maroni ha dichiarato che lui non ci è mai riuscito e lo dice uno che la devoluzione l´ha voluta a ogni costo e a ogni prezzo.
Allora, direbbe Bossi, dov´è la quadra? Un 6 per cento in più agli statali, recuperato congelando le assunzioni; un blocco che non tiene conto che non tutti i comparti della pubblica amministrazione sono in identiche condizioni, in alcuni ci sono esuberi, in altri invece scarsità, né è pensabile di trasferire un insegnante di lettere a insegnare l´inglese o addirittura a rimpiazzare un impiegato dell´Agenzia delle entrate. Contemporaneamente bisognerebbe trasferire un considerevole gruppo di impiegati dalla Calabria al Veneto, dalla Campania al Piemonte, con tutti i problemi di impianto connessi a mobilità del genere. A chi la racconta, signor ministro del Tesoro?
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La verità è che l´intera struttura della manovra e dei suoi collegati non regge. Ci saranno effetti recessivi, il bilancio non sarà affatto riassestato anche perché il tetto non è un taglio. Dulcamara lo ha ripetuto infinite volte e noi, critici, abbiamo risposto di no, abbiamo sostenuto che tetto e taglio in questo caso erano sinonimi.
Ebbene, abbiamo sbagliato per fervor di polemica. Non sono la stessa cosa.
Se si taglia una determinata spesa si produce un effetto strutturale: quella spesa non c´è più. Ma se si mette un tetto al suo lievitare la spesa continua a esistere. Non cresce ma non scompare; scaduto il tempo del tetto, riprenderà a crescere con raddoppiata irruenza per riguadagnare il tempo perduto. E per produrre gli stessi risultati costerà di più perché nel frattempo i prezzi saranno aumentati.
In realtà il tetto fa parte dei famosi provvedimenti "una tantum" che Siniscalco voleva abolire o per lo meno ridurre drasticamente e che l´Europa, giustamente, vede come il fumo negli occhi.
Diciamolo con franchezza, onorevole ministro del Tesoro: l´intera sua manovra di 24 miliardi, più i 7 necessari a finanziare la riduzione delle tasse, si basa interamente su provvedimenti una tantum salvo le micro-tasse e le micro-economie che in totale non arrivano a 2 miliardi. Quando il tetto verrà tolto il suo successore si troverà di fronte a un baratro. La Commissione europea ha accettato, sia pure con sordi brontolii, le sue spiegazioni sul tetto visto come intervento strutturale. Non credo che a Bruxelles siano rimbecilliti. In realtà le hanno fatto un favore, hanno chiuso un occhio. Ma continuano a rognare sulle una tantum. E se tra qualche mese, con la nuova Commissione, apriranno l´occhio socchiuso e le chiederanno conto della panzana che lei ha raccontato a loro e a noi, lei che cosa farà?
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Bisognava iniettare potere d´acquisto prontamente spendibile nelle tasche della massa dei consumatori, quelli che stanno a metà della trottola dei redditi, non i 18 mila che stanno al vertice. Questo bisognava e bisogna fare.
Restituendo il "fiscal drag". Fiscalizzando gli oneri sociali entro una fascia di retribuzioni. Abolendo l´Irap o riducendola drasticamente. Razionalizzando ma non annullando gli incentivi e i crediti d´imposta alle imprese. Trovando la copertura con interventi mirati sugli immobili, sulle rendite, sulle plusvalenze finanziarie.
Il reddito ristagna ma i patrimoni in termini nominali sono molto cospicui in Italia e dunque bisogna mettere a contribuzione i patrimoni per rilanciare i redditi.
La parola patrimonio fa paura? Ma è già colpito il patrimonio. La chiamano Ici ma non è forse un´imposta patrimoniale? Certo, come spot pre-elettorale, funziona poco. Perciò continuiamo così. Stiamo andando dritti verso la bancarotta, caro Follini.
Lei mi dirà: perché si dirige proprio a me? E a chi mi dovrei dirigere? Lei è un moderato. Un centrista. Ha a cuore gli interessi del paese e non quelli del partito. Si è arrabbiato di brutto contro chi lo definiva cane da pagliaio o tigre di carta. Ha fatto la faccia feroce verso i suoi alleati che (se ne era accorto anche lei) dilapidavano le finanze dello Stato. Ha applaudito insieme a Fini al siluramento di Tremonti. E non si accorge che Siniscalco è la fotocopia del predecessore e forse anche peggio? E vota con tranquilla coscienza una legge di riforma costituzionale che ci porterà alla bancarotta; un premierato che sopprime di fatto il regime parlamentare e la presidenza della Repubblica. Ora infine voterà una vergognosa legge finanziaria interamente basata su provvedimenti provvisori.
Ma quando si guarda allo specchio (della coscienza) che sentimenti prova?
P. S. Mentre scrivevo questo articolo mi è arrivata la notizia che il nostro presidente della Repubblica ha dovuto subire un intervento chirurgico per fortuna di leggera entità, felicemente concluso. Mi permetto di utilizzare questo spazio per inviargli gli auguri più affettuosi. Un uomo come lui, se non ci fosse stato, avremmo dovuto inventarcelo: così si dice quando si vuole significare una presenza indispensabile. Tanto più indispensabile in un´epoca che abbonda di Dulcamara e di Tartufi. Lunga vita e buona salute a nome di tutti quelli che vedono in lei l´usbergo delle nostre istituzioni democratiche e dei nostri sentimenti morali di libertà e di giustizia.
Scrive Vittorio Zucconi su 'Repubblica' del 20 settembre che tra le (quasi impossibili) elezioni irachene che dovrebbero tenersi nel prossimo gennaio e le elezioni presidenziali Usa del 2 novembre corre un filo diretto. Bush ha assoluto bisogno di mantenere nell'opinione della maggioranza degli americani la fiducia nel buon andamento della situazione irachena, premessa per lui indispensabile alla vittoria elettorale. Perciò cerca con tutti i mezzi di attenuare e nei limiti del possibile nascondere le dimensioni del disastro iracheno. Su queste reticenze e menzogne si fonda in larga misure il suo vantaggio sul rivale Kerry. Quando infine la verità apparirà lampante, sarà troppo tardi, Bush avrà conquistato il suo secondo mandato e il partito democratico dovrà rinviare a chissà quando i propositi di tornare alla Casa Bianca.
Zucconi non è il solo a formulare questa diagnosi, direi che quasi tutti i più seri analisti della politica americana concordano sul fatto che il maggior 'peccato' da imputare all'amministrazione Bush non è l'errore compiuto nello scatenamento della guerra irachena, ma nella devastazione che essa ha causato al principio della trasparenza e all'obbligo della verità come elementi basilari della democrazia.
Reticenze e menzogne sono pratiche incompatibili con la democrazia in genere e con quella sancita dai padri fondatori della Costituzione americana in particolare. La guerra preventiva contro Saddam Hussein e quel che ne è seguito hanno prodotto ferite difficilmente rimarginabili del tessuto politico e morale del più grande paese del mondo, con conseguenze ancora non valutabili sul resto dell'Occidente.
Mi permetto tuttavia di avanzare un'altra ipotesi, non necessariamente alternativa alla precedente. Secondo me non è soltanto l'iniziativa di Bush e la sua presenza al vertice ad aver indotto forti mutamenti nel sistema, ma il fatto che è il sistema in quanto tale che sta cambiando natura. La democrazia americana conserva certamente le profonde caratteristiche che presiedettero alla sua fondazione e alla sua evoluzione nel corso di duecent'anni, ma ne ha acquisite altre in tempi più recenti e son per più aspetti contraddittorie rispetto a quelle tradizionali. Per dirla in breve, il sistema americano sta rapidamente evolvendo verso una sorta di democrazia imperiale, sia a causa di proprie pulsioni interne sia a causa di mutamenti altrettanto profondi in corso in Europa e in Asia. Questa evoluzione è stata soltanto accelerata dall'evento dell'11 settembre. Secondo me sbaglia chi fa coincidere la nuova storia del pianeta con quella data e con il trauma che l'abbattimento delle torri gemelle ha cagionato nel popolo americano. Il mutamento era cominciato parecchio tempo prima. L'11 settembre ne costituisce non la causa, ma una delle concause e per certi aspetti addirittura un effetto. E Bush, con tutto il corteggio dei neo-conservatori da un lato e della religione 'crociata' dall'altro, rappresenta l'inevitabile prodotto di questo complesso di circostanze.
A questo punto si pone una domanda: quando e perché gli Stati Unti sono diventati una democrazia imperiale? Il quando si può situare nel momento della caduta del Muro di Berlino, cioè dell'implosione e del disfacimento dell'Urss e del trionfo del cosiddetto pensiero unico: esce di scena l'altra grande potenza nucleare, affonda l'ideologia comunista, si dispiega con tutta la sua forza la globalizzazione dei mercati, delle comunicazioni, del costume.
Il perché è dato dall'altra faccia della stessa medaglia ed è il dominio, conclamato e spinto al parossismo, della tecnologia su tutti gli altri aspetti della vita sociale e perfino individuale. Al punto che da parte di una linea di pensiero molto autorevole si comincia a sostenere che il rapporto di dipendenza della tecnologia dall'uomo, che ha retto l'evoluzione della nostra specie dalla comparsa dell''homo sapiens' fino a oggi, è stato da un paio di decenni almeno capovolto. Ora è la tecnologia, intesa come massa di prodotti e di saperi, che guida l'uomo e lo condiziona nelle sue scelte e quindi nella sua evoluzione; insomma nel mutamento del suo essere, nelle scelte dei suoi obiettivi, nella sua stessa struttura antropologica.
Gli Stati Uniti sono di gran lunga la prima potenza tecnologica del pianeta. In un mondo globale dominato dalla tecnologia è chiaro che l''imperium' spetterà a chi possiede le risorse tecnologiche nel guidarlo. La classe dirigente americana è perfettamente consapevole di queste verità. Forse per una parte della popolazione questa consapevolezza non è ancora del tutto chiara, ma sia pure in modo implicito tutti i cittadini di quella grande e collaudata democrazia sanno qual è ormai il ruolo dell'America nel mondo . La scomparsa di fatto del vecchio isolazionismo ne costituisce il segnale più evidente: in un mondo globale e tecnologico l'isolazionismo non ha più senso alcuno, la delocalizzazione delle attività cancella i confini e le aree di influenza. Cambiano inevitabilmente le modalità della guerra. Infine, spiace doverlo dire ma è semplicemente una constatazione, in un mondo dominato da gigantesche forze tecnologiche concentrate in un solo paese, il modo di opporvisi è soltanto quello del terrorismo. Esso costituisce la risposta del mondo debole all''imperium' dell'unica potenza planetaria esistente. Piaccia o non piaccia, la situazione è questa. Di conseguenza sta cambiando il sentire del popolo americano.
Un popolo che partecipa al suo ruolo e al suo destino imperiale giudica i fatti con una scala di valori diversa da prima e diversa da quella ancora valida per gli altri popoli. Certo anche la potenza imperiale si può dar carico di una diffusione equilibrata del benessere nella misura in cui essa rafforzi ed estenda il suo ruolo. La potenza imperiale si assegna altresì il compito di insegnare ai paesi soggetti le forme e i metodi del buon governo, sempre che sia un buon governo disposto a riconoscere e accettare l'appartenenza all'impero, dal quale deriva la legittimazione d'ogni altro potere.
In tale contrasto è del tutto naturale il 'neglect' nei confronti dell'Onu e dell'Europa quando da loro provengano segnali di resistenze e di critica: l'impero non sopporta limitazioni esterne alla sua forza e al suo potere legittimante. Questa sembra a me la realtà in cui viviamo e questo autorizza a pensare che non sia Bush a manipolare la vera anima dell'America ma che Bush esprima l'anima imperiale dell'America. Probabilmente la esprime male e forse può condurla alla sconfitta. Ma questo è un altro discorso.
Improvvisamente compare il presidente del Senato, in una drammatica intervista a piena pagina sul quotidiano la Repubblica, si mette in posa accanto al cadavere di Enzo Baldoni, per il quale, da vivo, da ostaggio, da uomo in estremo pericolo, non ha detto una parola né fatto un gesto, e dice: «I terroristi, che non sono pochi gruppi fanatici ma un grandissimo fronte che attraversa il mondo, proclamano la sharia, dichiarano la jihad, vogliono colpire l'Occidente, sono determinati a distruggere la nostra civiltà. C’è una guerra dichiarata e noi dobbiamo decidere come atteggiarci. Possiamo combatterla questa guerra, oppure possiamo alzare le mani».
Lo stupore dei lettori è facilmente immaginabile. La uccisione barbara e misteriosa del pacifista Baldoni, ad opera di un gruppo barbaro e misterioso, serve al presidente del Senato italiano per dichiarare la guerra universale.
Un evento importante - oltre che tragico - se si pensa che Pera è la seconda carica dello Stato, e che in quella veste ha sempre espresso tutto il suo disprezzo per i pacifisti (da vivi) come Baldoni. Anche in questa intervista-proclama, il presidente del Senato non ha la mano leggera. Ascoltate: «Una grande parte del clero o tace o marcia per la pace, come se non fosse affar suo difendere la civiltà cristiana».
Qualcuno ricorderà che Marcello Pera incarna una alta funzione istituzionale, che, per definizione, è al di sopra delle parti.
Ecco come la vede lui, nella straordinaria intervista-proclama: «Se il problema è la tutela della nostra civiltà, la questione va ben oltre le divisioni interne. Va addirittura oltre quell’unità di fondo che dovrebbe esserci in politica estera. Destra e sinistra dovrebbero unirsi per fare sforzi comuni e trovare strategie contro il terrorismo. Truppe sì, truppe no, svolta sì, svolta no è una discussione tardiva».
Il modello Pera è semplice: 1- Come intendere il dialogo: noi parliamo e voi ascoltate. 2- Che cosa intendiamo per strategia comune: noi decidiamo la guerra e voi vi arruolate, e anzi manifesterete il dovuto entusiasmo. 3- Qualunque altro distinguo è da imbelli o da traditori.
Come si vede, Pera è al di sopra delle parti nel senso che vede dissenso, intellettuali, pacifisti (quelli vivi) oppositori come rimasugli di una povera visione arretrata. Esistono solo lui, la sua parte unica e giusta (presumibilmente Dio è con lui e non con quegli stupidi preti che marciano per la pace) e una bella guerra di civiltà. Lui esorta: dobbiamo andare tutti in Iraq. E non sembra che parli di un convegno. Marcello Pera ha corso un rischio. Ha proclamato la sua guerra santa, con speciale cattivo gusto, sulla tomba non ancora trovata di un uomo di pace, nelle stesse ore in cui le sue controparti francesi hanno avuto - per tempo, prima che si compia un altro delitto - uno scatto di impegno per salvare in ogni modo due vite.
Per Jacques Chirac, per il presidente del Consiglio di quel Paese, per il ministro degli Esteri francese, non è sembrato eccessivo - invece di invocare la jihad cristiana - impegnare ogni attimo e ogni risorsa della loro autorità e del loro peso nel mondo per riportare a casa, sani e salvi, i due giornalisti. Se falliranno, in queste ore angosciose, potranno dire al loro Paese che non erano in vacanza, e che hanno tentato il tutto per tutto. Se ci riusciranno, Marcello Pera si ritroverà ad essere il rappresentante di un’Italia sola, triste e pericolosa, un Paese arruolato agli ordini di altri, nella guerra santa nonostante i suoi cittadini e la sua Costituzione.
«Si ode a destra uno squillo di tromba / a sinistra risponde uno squillo». Oppure: «Se voi suonerete le vostre trombe noi suoneremo le nostre campane». Scegliete voi, cari lettori, quali di questi due celebri motti sia più adatto a rappresentare le due sentenze susseguitesi di poche ore e rispettivamente riguardanti Silvio Berlusconi (tribunale di Milano) e Marcello Dell´Utri (tribunale di Palermo).
A me sembra più adatto il primo: dà conto dei fatti, la magistratura ha parlato, è stata finalmente messa in condizioni di andare a sentenza dopo anni di esame delle carte processuali e (nel caso Berlusconi-Previti) di impedimenti processuali e legislativi pervicacemente frapposti dagli imputati e dai loro difensori per guadagnar tempo e far scorrere il più possibile i termini della prescrizione. Poi ci si lamenta per le lentezze della giustizia quando sono stati proprio due imputati eccellentissimi a farla avanzare col passo del gambero e della lumaca.
Il secondo motto configura piuttosto lo spirito dei commenti alquanto esagitati diffusi dai dirigenti del centrodestra subito dopo la condanna di Dell´Utri: la sentenza di Palermo vista come rappresaglia dei giudici palermitani rispetto a quella parzialmente liberatoria dei giudici milanesi.
Questi ultimi lodati, i primi vilipesi senza eccezioni.
Commenti stonati, di fronte ai quali spicca il riserbo e la prudenza del centrosinistra, dove nessuno si è peritato di buttarla in politica, neppure quelli che hanno espresso rammarico per il mancato rifiuto da parte del presidente del Consiglio di non accettare il proscioglimento per prescrizione, applicato dal tribunale ad uno dei capi d´imputazione, come la carica che ricopre avrebbe dovuto consigliargli.
In realtà le sentenze dei due tribunali rappresentano l´essenza della normale e corretta attività di giurisdizione affidata alla magistratura giudicante in libera dialettica con la pubblica accusa, le parti civili e la difesa degli imputati e, soprattutto, sono il risultato della libera valutazione dei fatti e l´applicazione ad essi delle norme vigenti.
Può darsi che i giudici dell´appello emendino la condanna a Dell´Utri o può darsi che la confermino. Sulla base delle risultanze emerse in processo, per quello che ne è stato ampiamente riferito dai giornali, a noi sembra che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sia stato ampiamente provato. Il collegio giudicante comunque, dopo aver discusso per ben tredici giorni in camera di consiglio e dopo sette anni da quando l´inchiesta della Procura ebbe inizio, ha concluso in modo limpido e netto per la colpevolezza.
Dell´Utri, nella sua dichiarazione successiva alla condanna, ha anche ribadito che proseguirà nella sua attività politica e adempirà all´importante incarico che Berlusconi gli ha affidato di organizzatore della campagna elettorale di Forza Italia. È un suo diritto: innocente presunto fino a sentenza definitiva.
Certo l´accusa per la quale è stato condannato è molto pesante. La sensibilità d´una persona normale opterebbe piuttosto, se non sulle dimissioni dalla carica di senatore, almeno sull´astensione da incarichi di rilievo che hanno come destinatari nientemeno che gli elettori. Ma la sensibilità morale è ormai una merce rarissima. Pensare di trovarla nell´anima di Marcello Dell´Utri equivarrebbe a sognare ad occhi aperti. Infatti nessuno ci ha mai pensato.
E´ stata invece sorprendente la solidarietà "umana" manifestatagli con pubblica dichiarazione dal presidente della Camera alla vigilia della sentenza. Casini ricopre una carica costituzionale molto elevata. L´amicizia personale, se del caso, la si esprime in forme strettamente private. Esternata pubblicamente getta un´ombra di interferenza nei confronti del potere giudiziario che Casini avrebbe potuto e anzi dovuto rigorosamente evitare.
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Più complessa, pur nelle venti righe del suo dispositivo, è stata la sentenza del tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi. I colleghi D´Avanzo e Giannini ne hanno già ampiamente scritto sul nostro giornale di ieri.
Aggiungerò poche osservazioni ai loro commenti.
A me sembra che i giudici milanesi non siano stati pusillanimi né che abbiano scelto una via mediana e indolore usando un eccesso di sottigliezza giuridica.
Dovevano giudicare tre capi d´imputazione che configuravano tutti e tre la corruzione di magistrati. In un caso l´imputato è stato assolto con formula piena (regalo di gioielli nel corso d´un viaggio di vacanza). In un altro caso, che configurava una corruzione connessa ad un processo specifico, l´imputato è stato assolto sulla base dell´articolo 530 del codice di procedura penale che consente l´assoluzione se le prove non sono ritenute sufficienti. Nel terzo caso (denari versati dalla Fininvest al magistrato Squillante) la prova (hanno detto i giudici) è stata raggiunta ma, con la concessione delle attenuanti, il reato risulta prescritto e quindi l´imputato è prosciolto.
Sentenza pusillanime? Ho già detto che a me non sembra. La sola, vera questione sta nella concessione delle attenuanti generiche. Potevano concederle o negarle. E quindi prosciogliere (come hanno fatto) o condannare.
Giuridicamente cambiava molto; politicamente e moralmente non cambia quasi nulla. La sentenza ha infatti accertato che Berlusconi ha versato 500 milioni di lire a Squillante (già condannato nel processo collaterale a otto anni di reclusione) per corromperlo. È uno dei reati più gravi previsti dal nostro codice. Il fatto che il decorso dei termini lo abbia prescritto non cambia nulla nel giudizio morale e politico. Sempre che, naturalmente, i giudici di appello non modifichino e capovolgano la sentenza di primo grado in senso assolutorio per l´imputato.
Qualcuno ha scritto che la sentenza smentisce l´impianto accusatorio della Procura. Non mi pare.
Un´assoluzione per insufficienza di prove e un proscioglimento per decorrenza di termini non distrugge un bel niente, al contrario conferma almeno per la metà l´impianto accusatorio. Allo stesso tempo dimostra l´indipendenza e la terzietà del collegio giudicante rispetto al Pubblico ministero. Che si vuole di meglio e di più? Non dobbiamo essere rispettosi del libero convincimento dei magistrati? Non è su di esso che si basa soprattutto l´indipendenza della giurisdizione? E non è quello il bene da tutelare ad ogni costo e che (sia detto qui incidentalmente) la riforma della giustizia approvata pochi giorni fa dal Parlamento ed ora alla firma del presidente della Repubblica, fa di tutto per condizionare e financo impedire?
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Mi restano ancora da fare poche osservazioni su due questioni importanti: le connessioni politico-morali tra il processo Dell´Utri e Berlusconi; i rapporti, in generale, tra la politica e l´attività di giurisdizione.
Sulla prima questione non c´è che constatare come nell´intero processo Dell´Utri si veda in filigrana l´ombra di un convitato di pietra; nell´opera mozartiana si tratta del Commendatore, qui il convitato di pietra è un Cavaliere.
Tutta l´attività di Dell´Utri nella sua presunta collaborazione esterna con l´associazione mafiosa si svolge, in Sicilia come a Milano, nell´interesse della Fininvest e fa parte integrante della storia della Fininvest ai suoi albori, alle sue prime affermazioni imprenditoriali, alle sue iniziali e consistenti accumulazioni finanziarie. In sede giudiziaria il processo riguarda esclusivamente Dell´Utri; ma in sede politico-morale riguarda direttamente anche Berlusconi. I due sono legati a filo doppio come, su un altro versante, Berlusconi è legato a Cesare Previti.
Fini e Follini (e Bossi e Tremonti) conoscono perfettamente questa realtà.
Il loro silenzio, anzi la copertura blindata che hanno sempre dato al Capo su questo terreno, pesa come un macigno sulla fragilità dei loro piccoli strappi e minime ribellioni. Simul stabunt, simul cadent.
E ora la questione del rapporto tra la politica e la giurisdizione.
«Sarebbe ora ? scrivono molti dei nostri terzisti in servizio permanente effettivo ? che politici e magistrati comprendessero di svolgere due attività separate e distinte nelle quali debbono reciprocamente guardarsi dall´interferire». «In democrazia non è vero che la legge sia eguale per tutti». «I politici non possono esser giudicati dai magistrati, rispondono soltanto ai loro pari e al popolo degli elettori».
Queste affermazioni contengono una verità ovvia e una pericolosa bugia. La verità ovvia sta nel fatto che la giurisdizione non può avere ingresso nell´attività legislativa del Parlamento così come governo e Parlamento non possono avere ingresso nelle attività istruttorie e processuali. Ma ? ecco la nefasta bugia ? il politico che commetta reati comuni, tanto più se li ha commessi prima di ricoprire un qualsivoglia ruolo politico, è soggetto alla legge e alla giurisdizione né più né meno d´ogni altro cittadino. Non può invocare alcuna particolare immunità né alcuna particolare indulgenza né alcun foro speciale. Salvo il caso in cui si tratti non già di reati comuni ma di reati politici, per i quali infatti esistono speciali procedure che culminano nell´impeachment, cioè nello stato d´accusa votato dal Parlamento e rimesso per il giudizio alla Corte costituzionale.
E´ singolare che i nostri terzisti confondano tra loro concetti così elementari e incalzino i magistrati affinché rispettino il ruolo dei politici astenendosi dall´applicare anche a essi quel sindacato di legalità la cui esistenza distingue lo Stato di diritto dai regimi totalitari. O si tratta di ignoranza delle norme ordinamentali e dei principi del diritto, oppure si tratta di malafede partigiana.
Il presidente del Consiglio ha cambiato idea. Non è la prima volta che accade e non sarà certamente l'ultima. Di fronte alla forza dei numeri aveva accettato di ridurre l'Irap (di poco, ma comunque un po', tanto per la scena) e di alleviare il bilancio delle famiglie del ceto medio che non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese (di pochissimo, 8 euro al mese, un buffetto sulla guancia per comprarsi un gelato "una tantum") rinviando al 2006 il famoso taglio dell'Irpef per 6 miliardi e mezzo (anche in questo caso un altro buffetto che non avrebbe dato alcuna salutare scossa all'economia ma sarebbe comunque servito come spot elettorale).
Ma in tre giorni si è accorto che questo stentato calendario aveva provocato uno scossone alla sua immagine e al consenso dei suoi più fedeli elettori. I sondaggi, quelli che stanno rilevando settimana per settimana lo smottamento dei consensi, registravano una caduta del 6-8 per cento; lo stato maggiore di Forza Italia si agitava come non mai; perfino i giornali a lui più fedeli lo criticavano con titoli a tutta pagina.
Così ha fatto un'inversione di rotta totale: ha riportato al 2005 il taglio dell'Irpef spalmato su tre scaglioni e ha cercato d'imporre agli alleati e al ministro del Tesoro la prescrizione necessaria al suo spot elettorale.
Naturalmente mancava (e manca tuttora) la copertura finanziaria, ma che importanza ha la copertura? Chi cerca trova. Siniscalco è lì per questo.
Perciò si sbrighi.
Agli alleati riottosi ha promesso carote e bastonate. A Fini la Farnesina, a Follini la vicepresidenza del Consiglio, a tutti e due un ulteriore rimpastone a rate con almeno un nuovo ministro per ciascuno, alla Lega il governatorato della Lombardia, Formigoni permettendo.
In alternativa la bastonata suprema: se non ci state mi dimetto e andiamo alle elezioni anticipate. Niente lista unica e nessun collegamento: ci vado da solo con Forza Italia e muoia Sansone e tutti voi insieme, oppure vinco da solo e di voi resteranno soltanto cenere e vento.
Fini intanto ha accettato la carota; la Farnesina lo attrae da tempo e d'altra parte metà se non addirittura tre quarti dei suoi colonnelli sono già conquistati dal Cavaliere. Follini finora resiste, ma è stretto tra una metà del suo partito e Casini.
Naturalmente tutto dipende dalla famosa copertura finanziaria che Siniscalco deve trovare. E dipende anche dalla credibilità della predetta copertura che, qualora fosse risibile, indurrebbe Ciampi a respingere la legge.
Per ora si aspetta. Nei primi giorni della settimana si conoscerà la ricetta del ministro del Tesoro e si saprà qual è il finale di questa lunghissima telenovela che ha realizzato la sintesi tra l'opera buffa e il dramma; un genere teatrale finora sconosciuto nella storia del teatro anche se ben noto alle cronache politiche italiane.
Mancano, si dice, un paio di miliardi per chiudere la partita delle tasse. In realtà, come sa bene il ministro dell'Economia, ne mancano parecchi di più.
Due miliardi di ammanco li ereditiamo dai conti del 2004 e sono soltanto una piccola parte del lascito avvelenato di Tremonti (diventato garrulo dopo un breve silenzio) al suo ingrato successore. Tra poche settimane sapremo, a consuntivo, se in quell'esercizio sia stato superato il deficit del 3 per cento imposto dai patti di Maastricht.
Quasi certamente sì.
Tre miliardi derivano dal minor gettito del condono edilizio, prorogato più volte e reso ancor più indecente di quanto non fosse fin dall'inizio.
La stretta sulle finanze dei Comuni e sulla Sanità e l'indebitamento degli Enti locali si scaricheranno sui conti generali della pubblica amministrazione oltre che sulle prestazioni dovute ai cittadini. Gli incentivi alle imprese sono stati pressoché azzerati; per tutto il 2005 non vedranno un soldo neppure sotto forma di prestiti agevolati.
La scuola è senza fondi e gliene vogliono togliere ancora.
La riforma Moratti, per pessima che sia, ha comunque un suo costo ma non si sa come farvi fronte.
La domanda finora inevasa non è dunque dove e come trovare i 2 miliardi dei quali Siniscalco è in affannosa ricerca, ma dove e come trovarne almeno 6 e forse di più, come già preconizzato dagli ispettori del Fondo monetario.
Aggiungete a tutto ciò la stasi dei consumi, il crollo delle esportazioni dovuto all'apprezzamento dell'euro, il taglio degli investimenti, i contratti del pubblico impiego, e dite se c'è spazio e se c'è senso alla riduzione dell'Irpef nel 2005 (e anche nel 2006).
I consensi di Berlusconi calano? Ma questo, lasciatecelo dire, è un problema suo e non dei cittadini di questo paese.
Si sa (lo afferma Berlusconi) che il maxi-emendamento che il governo presenterà in Senato è già pronto. Si mormora che gli aumenti già promessi agli statali saranno ridotti dal 5 e mezzo al 3,7 per cento e il blocco del turnover esteso a due anni. Si mormora che le "finestre" per i pensionati in uscita saranno diminuite nel 2005 da tre a una soltanto, che i tagli all'Irap saranno rinviati di un anno, il condono edilizio ancora una volta prorogato tanto per metterci accanto una cifra qualsiasi in entrata. Infine il blocco delle sovraimposte ai Comuni e ritocchi vari alle accise, al Lotto, allo spicciolame della spesa.
Accetterà Fini il bastone sugli statali dopo la vistosa carota personale ricevuta con la feluca degli Esteri? Si piegherà Follini o deciderà invece di "vedere" il bluff berlusconiano tra Irpef ed elezioni anticipate? Che si tratti di un bluff è di tutta evidenza, ma decidere di andarlo a vedere implica comunque coraggio. E definitiva rottura. Questo è il punto: o giocare ancora a padrone e sottopadrone o alzarsi dal tavolo e sceglierne un altro.
Francamente mi sembra improbabile.
I critici del centrosinistra gli rimproverano di crogiolarsi con i guai della coalizione avversaria senza però esporre le sue proposte per ridare slancio all'economia italiana avviando nel contempo il risanamento della pubblica finanza dilapidata dai tre anni del malgoverno Berlusconi-Tremonti.
Mi sembra che sia una critica giusta, tanto più che, se il centrosinistra vincerà le elezioni del 2006, riceverà in eredità una finanza pubblica ridotta in macerie sicché risanarla sarà pesantissimo.
Secondo me i termini del problema sono molto chiari.
Viviamo una fase di sostanziale stagnazione dei redditi, degli investimenti, della domanda. La congiuntura mondiale ha robustamente influito nel determinare questa situazione.
La ripresa in Usa c'è stata a partire dal 2003 e continua sia pure a ritmo ridotto. La brusca discesa del dollaro serve a sostenere le esportazioni Usa e a contenere l'enorme disavanzo commerciale col resto del mondo. Non incoraggia tuttavia il resto del mondo - e segnatamente le Banche centrali e gli investitori istituzionali - a mantenere le loro riserve di liquidità in buoni del tesoro Usa.
Se le Banche centrali e gli investitori istituzionali del Medio Oriente e del Far Est (Cina, Giappone, Singapore) decidessero di convertire in euro almeno una parte delle riserve collocate in Treasury Bonds, il mercato valutario segnerebbe tempesta e la Federal Reserve dovrebbe correre ai ripari uscendo dal suo olimpico "benign neglect". Ma è un'ipotesi remota e non so neppure augurabile.
L'Europa deve dunque provvedere da sola a rimettersi in moto e l'Italia, vagone di coda, deve contribuire al rilancio e al buon governo proprio ed europeo inevitabilmente agganciati.
Ho già ricordato che stiamo attraversando una lunga fase di redditi e di domanda stagnanti. Aggiungo che la struttura dei nostri redditi è una delle più squilibrate, forse la più squilibrata in Europa; da noi le differenze tra le varie fasce sono le più alte e generano malessere, insicurezza, invidia sociale. Il risanamento della finanza pubblica e il rilancio della domanda non possono cioè prescindere da una politica di incentivi alla domanda e all'offerta e da un'azione perequativa non cosmetica ma sostanziale.
Per finanziare entrambi questi obiettivi di sostegno e di perequazione dei redditi, la principale fonte disponibile è quella dei patrimoni e delle rendite.
Abbinata a riforme di liberalizzazione efficaci.
I patrimoni in Italia sono cospicui perché i redditi più elevati, le plusvalenze, i guadagni accumulati nel tempo con l'inflazione quando viaggiava a due cifre, i profitti enormi derivanti dall'urbanizzazione e dalla valorizzazione delle aree destinate all'edilizia, hanno determinato un ammontare di ricchezza molto rilevante e in larga misura improduttiva.
Bisogna rimettere in circolo quella ricchezza.
Incoraggiare con opportune misure chi la detiene ad investirla produttivamente e/o prelevarne una quota per finanziare la politica di sostegno dei redditi, della domanda e dell'offerta.
So bene che la sola parola "patrimoniale" è tabù. I partiti fanno di tutto per non pronunciarla come si trattasse di una pestilenza maligna. Ma un osservatore oggettivo non può esimersi dal constatare che viviamo in un'economia dove si è ormai formata una palese contraddizione tra formazione dinamica dei redditi da un lato e statica consistenza dei patrimoni dall'altro. A cominciare dalle rendite mobiliari che in Italia sono fiscalmente colpite la metà di quanto avvenga negli altri paesi di Eurolandia.
Del resto il governo attuale ha già messo mano a questo deposito di ricchezza con la rivalutazione degli estimi catastali. Non è forse un'imposta sul patrimonio quella che accresce l'imponibile riferendo ad esso una serie di imposte dall'Ici alle tasse sui rifiuti urbani ? Il passo successivo dovrebbe riguardare le rendite e la ritenuta secca sulle cedole che è del 12,5 per cento da noi e oltre il 20 in Europa.
Liberalizzare i mercati, sostenere i redditi e perequarne la struttura, rilanciare consumi e investimenti, fiscalizzare per le fasce deboli la contribuzione sociale diminuendo in questo modo il costo del lavoro e quindi migliorando la competitività, incoraggiare la progettualità e le priorità degli investimenti, mettere a contributo i patrimoni inerti: non sono questi altrettanti elementi d'una politica economica attiva e - se le si vuole dare una denominazione - di stampo moderno e liberal-socialista? O uno slogan sempre verde: giustizia e libertà?
Anche altri avevano proposto la patrimoniale: ecco Epifani
Ci sono questioni che, ogni qualvolta irrompono nel dibattito politico, assumono valore sintomatico, scompaginano schieramenti, portano a galla l'incoffessabile. Una di queste è la sessualità, in specie nelle sue manifestazioni ritenute «anormali» o perverse o pericolosamente libere rispetto a una «regola» fallocratica e machista. Che si tratti di autorizzare il desiderio femminile di diventare o di non diventare madre, di sanzionare il potere maschile di esercitare violenza su una donna, di tutelare giuridicamente le coppie omosessuali, ogni qualvolta il territorio della sessualità entra a contatto con quello della politica e della normazione giuridica le reazioni idiosincratiche si sprecano - e in Italia lo sappiamo bene dall'iter tortuoso delle leggi sull'aborto, sulla procreazione assistita, sulla violenza sessuale. Col caso Buttiglione però s'è passato il segno. E la rapidità con cui, nel giro di pochi giorni, sono stati creati i neologismi di teo-con, rad-con, laico-clericali per dare nome al vasto fronte dei suoi sostenitori, la dice lunga sul fatto che siamo di fronte a una novità: a differenza della politica, la lingua non mente. Il vasto fronte di sostenitori di Buttiglione, che va dal Foglio ai cosiddetti «terzisti» di fede liberale del Corsera e della Stampa , ha creduto di ravvisare nella sua bocciatura a commissario per la giustizia, le libertà e la sicureza della Ue un episodio «contrario a una visione laica e liberale delle istituzioni». Non è laico né liberale, sostengono nell'appello pubblicato giorni fa sul Foglio, «giudicare un politico cattolico o di qualsiasi altra confessione o formazione culturale in base alle sue idee e al suo credo». E in base a che cosa se non alle sue idee e ai suoi atti, di grazia, dovrebbe essere giudicato un politico in democrazia? In base alle sue promesse, obiettano i radcon-teocon: Buttiglione ha detto come la pensa sui gay, la famiglia, le madri-single, la procreazione assistita, promettendosi però fedele al comandamento kantiano della separazione fra diritto e morale. Bene, i parlamentari che lo esaminavano non gli hanno creduto; e giustamente, non potendo il candidato estrarre dal suo curriculum politico italiano ed europeo alcuna prova del suo credo kantiano. Siamo nell'ambito di una normale, normalissima dialettica politica democratica, come ha riconosciuto Massimo Teodori rompendo il fronte sul Giornale di ieri. Una dialettica, per una volta, sgombra dall'urgenza della mediazione giuridica: non si votava su una legge ma su un candidato, che per giunta sbandierava le sue idee in contrasto con quella Carta dei diritti che nell'Unione, ai teo-con piacendo, fa già norma, come ha ricordato Miriam Mafai.
Ma in Europa c'è una pericolosa deriva laicista, sostengono i teo-con impugnando il rifiuto di inserire in Costituzione il richiamo alle radici ebraico-cristiane dell'Unione. Per la verità avrebbero a disposizione altri e più convincenti argomenti, che però si guardano bene dall'usare. La legge francese contro il velo, per dirne una, è un pessimo esempio di uso della laicità a fini di assimilazione. Ma di quella non si parla, anzi molti dei teo-con ne parlano solitamente benissimo, perché giova allo scopo. Quale? Quello di fare barriera contro l'invasione islamica che turba i loro sonni.
Con il che siamo al movente numero uno della campagna sul caso Buttiglione, che è - dichiaratamente - solo un capitolo di una più vasta offensiva squisitamente reazionaria a favore di una identità europea, anzi occidentale, arroccata sui valori tradizionali e contro la minaccia del multiculturalismo, del pluralismo etico, del politically correct. L'offensiva, sia chiaro, marcia su un campo di crisi: ovunque in Occidente il multiculturalismo è in difficoltà, il pluralismo etico rischia di soccombere sotto i colpi dello scontro di civiltà, il politically correct non è esente da risvolti di ipocrisia sociale. Ma i teo-con non vanno per il sottile e usano argomenti stupefacenti per rozzezza e isteria. Si va dal timore di Galli della Loggia per la minacce dell'omosessualità all'antropologia monoteista ai rimpianti di Panebianco per l'Europa pre-secolarizzata, dalla facciatosta di Gaetano Quagliariello che vede nei cattolici una minoranza oppressa alle libere associazioni di Giuliano Ferrara fra la bocciatura di Buttiglione, il nullismo di Zapatero e il nichilismo di Almodovar.
Un armamentario da nuovi crociati, cattolici integralisti in guerra di religione e di civiltà contro l'attacco integralista all'Occidente, osserva giustamente Ritanna Armeni su Liberazione ipotizzando che questo strumentale ancoraggio al sacro sia necessario a una politica liberista che da sola non ce la fa più a governare il mondo globale, e che in Italia, annota Ezio Mauro su Repubblica, non ce l'ha fatta a produrre la cultura lib-lab che aveva millantato. Tutto vero, a patto di ricordare due cose. La prima è che tutto questo s'è già visto dall'altra parte dell'Atlantico, e non è solo una larga fetta della posta in gioco di oggi fra Bush e Kerry, ma è già stata la posta in gioco di quattro anni fa fra Bush e Gore e, prima ancora, di un drammatico conflitto che correva sotto le vene dell'America clintoniana e l'ha sconfitta. La seconda è che a questa offensiva scatenata sul terreno caldo dei valori la sinistra non può rispondere solo sul terreno freddo dei programmi. Quando c'è in gioco l'emotività, ancorché isterica, bisogna giocare, e disertare il tavolo significa solo condannarsi a perdere.