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ROMA - «Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia. Serve un’azione di contrasto sempre più forte e determinata da parte del centrosinistra, che deve ritrovare le ragioni dell’unità». Sergio Cofferati rilancia il suo allarme: preoccupato dalle ultime «pericolose spallate del presidente del Consiglio», l’ex leader della Cgil chiama l’opposizione a una «forte assunzione di responsabilità, a partire dalle prossime consultazioni elettorali». Compreso il referendum per l’articolo 18, sul quale finalmente annuncia in modo ufficiale la sua posizione: «Non andrò a votare».

Cofferati, cosa la preoccupa nelle ultime prese di posizione del premier?

«Mi preoccupano, anche se non mi sorprendono, i gravissimi attacchi che il premier sta muovendo contro le istituzioni. L’avevo detto dopo il voto del 13 maggio 2001, e oggi ne ho la conferma: Berlusconi non è la Thatcher, ma è una miscela molto più pericolosa».

Che basta, secondo lei, per gridare al "regime", come dice Rutelli?

«Io l’ho sempre sostenuto, anche quando altri non ne erano convinti. Siamo in una situazione grave e delicata, che è il frutto di strappi continui e che ora, dopo gli ultimi sviluppi giudiziari, subisce un’accelerazione drammatica. Lo confermano le frasi gravissime e inquietanti pronunciate da Berlusconi a Udine. Siamo in presenza di una crisi istituzionale che non ha precedenti, e che si sviluppa su due fronti. Il primo fronte è quello internazionale: il premier, alla vigilia del semestre di presidenza italiano della Ue, getta fango sulle istituzioni europee che l’Italia rappresenta attraverso il presidente della Commissione di Bruxelles e il vicepresidente della Convenzione. Il secondo fronte è quello interno: il premier muove all’attacco del presidente della Repubblica, ignorando i suoi moniti ed anzi rivolgendogli contro un atto di evidente ostilità attraverso il rilancio del presidenzialismo».

Il Cavaliere obietta: è mio diritto ricostruire i fatti della vicenda Sme, in tutte le sedi in cui mi è possibile. Non vorrà negargli questo diritto.

«Berlusconi, con la sua offensiva giudiziaria, ha provocato e sta provocando un’ulteriore, gravissima caduta di credibilità internazionale del nostro Paese. Con il risanamento degli anni '90, e poi l’aggancio alla moneta unica di Maastricht, il Paese aveva compiuto uno straordinario passo avanti, che gli aveva ridato lustro e aveva rafforzato il suo tessuto democratico: era uscito dalle macerie di Tangentopoli e aveva ripreso il controllo della sua finanza pubblica in un quadro di grande consenso sociale. Oggi quel patrimonio di credibilità è stato dilapidato. Basta leggere i commenti dei più autorevoli osservatori internazionali, per rendersene conto».

C’è anche chi osserva che Prodi non avrebbe dovuto reagire, dichiarandosi "indignato" dopo la comparsata televisiva del premier ad "Excalibur".

«Ci manca solo questa. Che si impedisca ad un cittadino di manifestare la propria indignazione, di fronte ad uno spettacolo indegno come quello che abbiamo visto venerdì sera. L’osservazione di Prodi è del tutto condivisibile. Ed è stravagante l’idea di chi mette sullo stesso piano azione e reazione. C’è stato un vulnus istituzionale gravissimo prodotto dal presidente del Consiglio, e subito ci si affretta ad occultarlo, mettendo sullo stesso piano la legittima replica di chi quel vulnus lo ha subito in prima persona. Una pratica inaccettabile, che nasce dalla mancata soluzione del conflitto di interesse».

Che c’entra il conflitto di interessi?

«Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia, garantito dalle norme costituzionali. Questo avviene per effetto della saldatura tra due azioni altrettanto devastanti. Da una parte c’è l’attacco sistematico a uno dei poteri fondamentali dell’ordinamento, la magistratura, che nasce dall’esigenza di piegare l’indipendenza dei giudici agli interessi privati del premier e di alcuni suoi alleati. Usando strumentalmente il principio sacrosanto secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, si punta invece a creare una zona franca di impunità riservata solo a pochi eletti. Dall’altra parte c’è l’uso monopolistico della comunicazione, che viene attivata a proprio piacimento per sovvertire mediaticamente lo stato delle cose: è così che l’accusato diventa accusatore, il condannato diventa perseguitato».

Non è esagerato parlare di "lacerazione del tessuto democratico"?

«Non trovo una definizione diversa, di fronte al seguente fenomeno: c’è un presidente del Consiglio che (per interesse personale) vuole togliere ai cittadini il diritto di essere giudicati da una magistratura autonoma e indipendente, e che nel contempo (in forza del suo strapotere mediatico) sottrae loro anche il diritto al pluralismo dell’informazione. Così si priva una democrazia dei fondamenti del vivere civile, sanciti dalla Carta costituzionale».

Non si potrebbe sciogliere questo nodo con l’immunità o con la proposta Maccanico, che prevede la sospensione dei processi per le alte cariche?

«Considero gravissime entrambe le proposte. Chi ha compiti di rappresentanza politica non deve essere protetto da privilegi legislativi: la sua unica, vera "protezione" è costituita dalla sua storia, dalla sua credibilità, dalla sua trasparenza. Da questo punto di vista, è giusto che l’opposizione non si presti ad alcuna forma di dialogo con la maggioranza. Né sul lodo Maccanico, né su altre ipotesi che nascondono solo l’obiettivo di arrivare all’impunità».

Se le cose stanno così, come si esce da questa emergenza? Trasformando l’Ulivo in un Comitato di Liberazione Nazionale?

«Io credo sia necessaria, in questo momento, un’azione di contrasto da parte del centrosinistra, sempre più ferma e determinata. Oggi il problema non è il confronto sulle riforme, che come i fatti dimostrano è impensabile. Semmai è quello di mantenere le condizioni elementari perché eventuali cambiamenti siano ancora possibili in futuro. Dobbiamo difendere la Costituzione attuale, contro le continue aggressioni di chi la vuole snaturare. E l’opposizione deve farlo subito, in Parlamento e nella società civile, rilanciando l’unità del centrosinistra a partire dalle prossime consultazioni elettorali».

Lei è un po’ velleitario, visto che proprio sul referendum per l’estensione dell’articolo 18 si profila una resa dei conti a sinistra. A questo proposito, Cofferati, per lei è il momento di gettare la maschera. Ha taciuto fin troppo, su questa delicatissima sfida elettorale.

«Il referendum è stato un grave errore. Io resto convinto che sia tuttora indispensabile difendere ed estendere i diritti, nella cittadinanza e nel lavoro. Ma il mercato del lavoro è composto da figure che hanno profili, diritti e tutele diverse tra loro. Estendere e modulare i diritti, com’è giusto e necessario, richiede strumenti complessi e differenziati, che non possono che essere introdotti per via legislativa. Solo la legge consente una pluralità di interventi».

D’accordo. Traduca tutto questo in una scelta di voto. Sì o no?

«C’è un percorso logico da seguire, per arrivare alla risposta. Oggi sono un semplice cittadino, ma per me la proposta normativa più adeguata resta quella presentata al Parlamento dalla Cgil, per la quale abbiamo raccolto 5 milioni di firme. Data questa premessa, veniamo alle scelte possibili. Prima scelta, il no. Se dovessero prevalere i no all’estensione dell’articolo 18 nelle imprese con meno di 15 dipendenti, questo equivarrebbe di fatto alla negazione dell’esistenza del problema dell’estensione e della modulazione dei diritti: per me sarebbe un grave errore, perché quel problema esiste eccome. Seconda scelta, il sì. Se dovessero prevalere i sì, fallirebbe l’obiettivo per il quale mi sono battuto, cioè una nuova legge per l’estensione e la modulazione dei diritti: il sì non creerebbe alcun vuoto legislativo, del resto agli stessi promotori del referendum una nuova legge non è mai interessata, né l’hanno mai proposta. Ma il quadro normativo che ne discenderebbe sarebbe sostanzialmente inapplicabile: è noto a tutti che le condizioni organizzative e i rapporti di lavoro nelle piccole e piccolissime imprese sono oggettivamente diversi da quelle più grandi. Inoltre resterebbe irrisolta la questione delle tutele per il nuovo lavoro, quello più debole, rappresentato dai para-subordinati e dai collaboratori coordinati e continuativi».

Conclusione? Che farà il 15 giugno il cittadino Sergio Cofferati?

«Non andrò a votare».

Cioè fa come Craxi, e dice agli italiani "andate al mare"?

«Io non andrò al mare e non farò appelli all’astensione. La mia è una scelta personale, consapevole e attiva, e pienamente in linea con i diritti della Costituzione, che non per caso individua un quorum. Non voglio scoraggiare la partecipazione dei cittadini al voto. Agli italiani io non dico niente, ma so che i cittadini sanno scegliere, come hanno dimostrato in precedenti consultazioni referendarie: non votando quando hanno considerato irrilevante il quesito, o votando quando invece gli appariva significativo».

Quindi lei non condivide la scelta del suo successore Epifani, che ha attestato la Cgil sulla linea del sì?

«Ho troppo rispetto per l’autonomia dell’organizzazione alla quale sono iscritto, per formulare giudizi. Constato solo che la mia opinione è diversa».

Lei si rende conto che questi contorcimenti nascono dalla contraddizione della sua battaglia per l’articolo 18, inteso come "diritto assoluto di cittadinanza", e non come semplice "forma di tutela"? Bertinotti è partito da questa sua contraddizione, per tirare addosso al centrosinistra la sua bomba intelligente.

«Mi è chiaro l’intento di Bertinotti: dividere un fronte che era unito, ed era larghissimo. Quanto alla mia presunta contraddizione, resto convinto che l’articolo 18 sia un pilastro dal quale non si può prescindere, modulato sulla dimensione e l’organizzazione delle imprese: questo è giusto oggi come nel 1970, quando non a caso il legislatore fissò la soglia dei 15 dipendenti. E’ un diritto da declinare con forme opportune. La legge attuale riconosce, la proposta di legge della Cgil lo rafforza e lo rende universale, mentre il referendum lo cancella».

Ma fu lei che portò al Circo Massimo 3 milioni e mezzo di persone, per difendere quel diritto. Da domani lei avrà il plauso dei riformisti dell’Ulivo, ma correrà il rischio che molta, tra la sua gente, non capisca il suo "non voto", e lo consideri un tradimento rispetto alle battaglie di questi mesi.

«So che la mia scelta incontrerà dubbi e critiche. Ma correrò il rischio, perché la ritengo giusta e perché credo nell’etica delle responsabilità».

vai a: L'Italia rovesciata

«Espropriando i poteri di vigilanza della Banca d´Italia il governo ha in mente un’operazione bulgara, per portare anche il settore del credito sotto il suo totale controllo. Un governo che in materia di diritto societario non ha lavorato né per modernizzare il capitalismo italiano, né per migliorare la tutela del risparmiatore. E’ lo stesso esecutivo che interviene sul settore dell’informazione in pieno conflitto d’interessi, aziendale e patrimoniale, con il presidente del consiglio che non legge neppure le osservazioni del capo dello Stato e ignora le regole antitrust dell’Unione Europea». Guido Rossi un decennio fa dovette occuparsi del salvataggio Ferfin-Montedison: un crac da 28.000 miliardi di lire con sullo sfondo Tangentopoli, le spericolate piraterie finanziarie di Raul Gardini sulla Borsa di Chicago, il crollo industriale della chimica italiana. Oggi Guido Rossi osserva con preoccupazione che quella lezione non è servita, e che il capitalismo italiano non è migliorato.

Nel gigantesco "buco" Parmalat colpisce la sovrapposizione della finanza derivata e delle società offshore su un’azienda dal mestiere industriale molto semplice.

« Il vizio d’origine è quello di un capitalismo straccione, familiare o di Stato, che scopre tardivamente gli strumenti più sofisticati del capitalismo finanziario americano. Strumenti nati per coprire il rischio, e trasformati perversamente nella massima fonte di rischio. Quando questo capitalismo pre-moderno viene immesso nel circuito delle grandi banche italiane e straniere che giocano a vendere prodotti finanziari esotici e a incassare commissioni, il disastro è inevitabile. Purtroppo mi aspetto che ce ne siano altri».

Si evocano grandi scandali stranieri ? Enron in America, Vivendi in Francia, Ahold in Olanda ? quasi a dire: il male è universale, quindi non c’è una patologia italiana.

« Invece la differenza tra noi e loro è sostanziale. Enron, Vivendi, Ahold: nessuna era un’impresa a carattere familiare. L’inquinamento è ancora più pericoloso in un paese come l’Italia che non ha strutture finanziarie evolute, non ha regole né strumenti di controllo adeguati, mescola gli yogurt, i derivati, e le società offshore alle isole Cayman. I mali del capitalismo americano ed europeo non vanno certo sottovalutati, ma noi ne soffriamo anche di altri: siamo un paese che non cerca la modernità, ma annusa in fretta l’ultima moda, confondendo l’una con l’altra».

In fatto di conflitto d’interessi le nostre banche hanno appreso tutto il peggio da quelle americane. Si scopre che qualche istituto di credito italiano, dopo aver curato il collocamento dei famigerati bond Parmalat, li ha rifilati ai clienti-risparmiatori, ignari naturalmente dell’operazione-Parmalat.

« Su questi episodi vergognosi si gioca purtroppo tutta la credibilità del sistema bancario italiano. Alcuni istituti di credito paiono avere responsabilità gravissime, il risparmiatore ha ragione di sentirsi beffato e indifeso».

E allora è ineludibile la questione della vigilanza: dov’era la Banca d’Italia? Perché non ha visto nulla? A che cosa serve uno strumento come la centrale dei rischi, che è a disposizione della nostra banca centrale proprio per sorvegliare la posizione debitoria delle imprese?

« Non c’è dubbio che il governatore Fazio debba dare delle risposte con la massima trasparenza, soprattutto a fugare l’impressione che la Banca d’Italia si sia occupata molto dei giochi di alleanze, matrimoni e fusioni, cioè degli assetti di potere nel sistema creditizio italiano, e non abbastanza dell’integrità del sistema. Sono insufficienti gli strumenti a disposizione? Mancano del tutto? Oppure non sono stati adeguatamente utilizzati? Il risultato è che oggi noi abbiamo banche quasi ipertrofiche, più grandi delle nostre imprese industriali, gonfie di liquidità e di crediti inesigibili. Ma poi scoppia il caso-Parmalat e a cosa serve avere questi mastodonti bancari?».

Dunque è giusto indagare sulle responsabilità di tutti gli organi di controllo, dalla Consob alla Banca d’Italia, senza tabù?

« E’ doveroso, anche perché le mogli di Cesare debbono essere al di sopra di ogni sospetto. Purché la ricerca dei responsabili non diventi tuttavia una caccia al capro espiatorio. Questa è una crisi sistemica che richiede risposte alte, una azione che aggredisca le cause dell’arretratezza italiana. Purtroppo questo governo ha agito finora nella direzione opposta: la sua riforma del diritto societario, per esempio, ha allargato la possibilità di emettere titoli di ogni tipo. Si sono estese al mercato italiano le libertà finanziarie di sistemi avanzati come quello americano, senza rafforzare tutele e controlli, come invece questi sistemi hanno prontamente messo in atto. E’ chiaro che, abolito di fatto il reato di falso in bilancio e in assenza di qualsivoglia deterrenza, tutti in Italia si sentono ormai liberi di qualunque manipolazione. Per lo stesso reato il legislatore americano dopo il caso Enron ha portato la pena detentiva da cinque a vent’anni».

Il Financial Times ha ricordato che in fatto di società offshore, l’azienda che fa capo al presidente del Consiglio ha fatto scuola?

« Sì, è un bell’esempio davvero, dalle Bermuda alle Cayman. Perciò ho il forte sospetto che la volontà politica non sia quella di compiere una vera pulizia del sistema. L’attacco alla Banca d’Italia può infatti nascondere il progetto di abolire l’autorità indipendente per sostituirla con un organo che risponda di fatto al potere politico. Torneremmo indietro ai tempi in cui il sistema bancario veniva diretto da qualche ministero. E’ un’epoca che ricordo troppo bene per nutrire nostalgia di quelle soluzioni. Tanto più se a dirigere le banche deve essere un governo che sta seduto su un conflitto d’interessi gigantesco - come ha sottolineato lunedì Eugenio Scalfari - in una fase in cui il presidente del Consiglio concentra poteri senza eguali nelle democrazie occidentali, legifera tranquillamente in favore del proprio impero aziendale e sul proprio patrimonio familiare, e ignora platealmente le osservazioni del presidente della Repubblica su materie attinenti alla Costituzione».

Prima che Ciampi rifiutasse di firmare la legge Gasparri, lei in un’intervista a Repubblica aveva sottolineato che quella legge è contraria ai principi europei in materia di antitrust e pluralismo dell’informazione. Il capo dello Stato sembra condividere la sua valutazione. Ma ieri il commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti, è parso più cauto, quasi a indicare che il settore dell’informazione resta per lo più sotto la competenza dei governi nazionali.

« Le affermazioni del commissario Monti mi hanno sorpreso, anche perché solitamente le sue posizioni mi paiono condivisibili. In questo caso, invece, egli sembra aver trascurato le indicazioni tassative e precise della direttiva quadro del 2002/21. Da un lato essa definisce il pluralismo dell’informazione come un obiettivo di interesse generale. D’altra parte afferma che questo pluralismo va perseguito assicurando che vigano le condizioni di una concorrenza leale ed effettiva. Varrebbe la pena di citare la direttiva per intero, ma basti il solo "considerando" numero 25, che precisa che «la definizione di cui alla presente direttiva è equivalente alla nozione di posizione dominante enucleata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dal Tribunale di 1? grado delle Comunità Europee». Le regole dell’antitrust europeo, quindi, si devono applicare pienamente anche nel settore dell’informazione. Non è dunque un problema di forma né di ambiguità. Pluralismo televisivo significa allora rispetto della concorrenza».

Quindi lei resta del parere che alle obiezioni del presidente della Repubblica non si può rispondere con un’operazione di cosmesi, che lascerebbe immutata la posizione dominante nell’informazione televisiva in capo all’azienda di Silvio Berlusconi.

« Le osservazioni di Ciampi vanno lette molto sul serio. Non ci sono margini per elusioni, equivoci o furbizie. Nessuna cosmesi leggera può salvare una legge indifendibile come la Gasparri».

I TITOLI di prima pagina dei giornali di ieri erano molto eloquenti nella loro concisione; tutti, senza eccezioni, informavano i loro lettori del fatto più rilevante della giornata: il lavoro è diventato più flessibile. Attorno a questo evento - che con assai dubbio gusto il governo ha battezzato col nome di Marco Biagi - si è levato un coro di osanna, reciproche felicitazioni, battimani, richieste di bis che, sommate alla buona notizia del giorno precedente sul ribasso di mezzo punto del tasso ufficiale europeo e al fermo proposito di tutta la maggioranza di affrontare entro settembre il tema del taglio delle pensioni, ha fatto passare in seconda linea perfino l’eterna rissa sui processi Previti e sul lodo Berlusconi, fatto eccezionale che non accadeva da almeno un mese. Non c’è alcun motivo di stupirsi di questa quasi unanimità del coro mediatico (dico «quasi» poiché l’eccezione a conferma della regola l’ha data proprio Repubblica pubblicando un commento di Luciano Gallino, uno studioso di prim’ordine del mercato del lavoro, con un titolo "scandaloso" che suonava "L’occupazione usa e getta"): qui da noi la grande stampa nazionale e regionale e il monopolio televisivo Mediaset-Rai non sono altro che la protesi culturale, diciamo così, dei poteri forti; per cui una maggiore flessibilità del lavoro, un dilagare di figure contrattuali che avranno come conseguenza la polverizzazione del mercato del lavoro, lo sfarinamento delle rappresentanze sindacali e un’ondata di precariato diffuso a tutti i livelli e in tutte le dimensioni produttive, non possono che essere salutati come fenomeni altamente positivi e incoraggianti per le «magnifiche sorti e progressive» dell’azienda Italia.

Non un dubbio, non un «ma», non un attimo di esitazione ha mitigato l’entusiasmo dei coristi. Il ministro del Welfare si è addirittura arrischiato ad affermare che il decreto sulla flessibilità provocherà una potente spinta verso la stipula di contratti a tempo indeterminato, che è come sostenere che luglio sia il mese più freddo dell’anno. Il presidente della Confindustria dal canto suo ci ha informato gonfiando il petto per la soddisfazione che a causa di questa svolta tutta l’Europa ci invidia; una frase che richiama alla memoria il buon tempo antico quando i treni arrivavano in orario e il popolo armato di vanghe vinceva ogni anno la battaglia del grano sotto la stupefatta ammirazione degli stranieri. Quando sento dire che all’estero siamo invidiati, non so perché, ho la triste certezza che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in quello che stiamo facendo. Sarà così anche questa volta?

Giorni fa, conversando su questo giornale con Tommaso Padoa-Schioppa, affrontammo un tema che è al centro delle preoccupazioni di tutte le persone responsabili: il declino dell’economia italiana e le ragioni che lo determinano.

Il mio interlocutore, cui non manca né l’esperienza né la dottrina, sosteneva che lo sviluppo economico e sociale di una comunità si basa soprattutto sull’innovazione e sullo spirito imprenditoriale che ne valorizza gli esiti e ne diffonde i benefici. Quando manca la disposizione a innovare, gli stimoli alla crescita sono affidati a pratiche di basso profilo e di breve portanza: basso costo del lavoro, fiscalità massicciamente evasa, ripetute svalutazioni della moneta, livello elevato d’inflazione.

Questa via allo sviluppo incoraggia produzioni con basso valore aggiunto e non è più sostenibile in un mondo globale dove esisteranno sempre paesi enormemente più convenienti sul piano della fiscalità, del precariato, dei bassi salari e di un sistema di tutele a somma zero.

Le ragioni del declino italiano sono queste, concludeva Padoa- Schioppa: uno sviluppo che si affida allo sfruttamento, al sommerso, alla moneta facile, alle produzioni di bassa qualità, senza puntare sulla ricerca, sui nuovi prodotti, sulla qualità eccellente, sulla stabilità del cambio estero e della pubblica finanza.

Quando eravamo giovani chi studiava economia si cimentava con la teoria del commercio internazionale e dei costi comparati in un sistema di libero scambio, ma ho la sensazione che quel tipo di analisi sia caduto in desuetudine. Eppure mai come ora sarebbe necessario porsi il problema della divisione internazionale del lavoro e della combinazione ottimale dei fattori della produzione.

In questo quadro la flessibilità del lavoro aiuta, a patto che non trasformi la forza-lavoro in una massa di sradicati, che non faccia a pezzi i percorsi professionali e le relative carriere, che non lasci il singolo prestatore d’opera a tu per tu con l’ufficio legale d’una grande impresa o d’un intermediario o d’un caporale. È vero, Marco Biagi ci credeva alla bontà non solo economica ma sociale d’un mercato del lavoro modellato sulle richieste d’una impresa moderna che certo, e per fortuna, non è più quella delle catene di montaggio. Credeva che quel modello sofisticato sviluppasse dentro di sé gli anticorpi che avrebbero eliminato i molti virus insiti nella flessibilità in entrata e in uscita.

A volte nella vita si scommette e questa è una scommessa delle più azzardate. Avrebbe dovuto almeno essere accompagnata da un completo sistema di tutele e di ammortizzatori sociali, ma non ce n’è neanche l’ombra. La verità è che se le aziende faranno largo ricorso all’occupazione «usa e getta», la presenza pubblica nei corsi di formazione, nell’istituzione del salario minimo sociale, nel sistema della previdenza che copra i periodi in cui il lavoratore cessa di essere «usato» e viene invece «gettato», dovrebbe fortemente aumentare ed essere sostenuta da risorse adeguate. Ma quelle risorse non ci sono e per il poco che ci sono vengono allocate altrove.

La conseguenza è che la flessibilità disegnata dal decreto delega di Maroni è una flessibilità da pezzenti (il termine forse è un po’ crudo ma corrisponde alla realtà) della quale usufruiranno soprattutto gli immigrati e quella parte dei lavoratori nazionali che accetteranno di farsi emigrati in patria.

Crescerà una generazione furba e dura, egoista e ansiosa, nevrotica e malvissuta. Se ne vedono già le folte avanguardie, America in testa. Qui da noi siamo appena al principio.

***

Continuo a domandarmi da qualche giorno come mai nel coro mediatico dei grandi network e della grande stampa d’informazione questi temi non siano debitamente affrontati. Naturalmente non mancano le voci che sfuggono al coro e che, se non altro per dovere deontologico di completezza, vengono registrate. Ma non avviene quasi mai che attorno a esse si sviluppi un’ipotesi alternativa, un’intensa campagna di stampa, insomma un "contro-coro" di pari forza di quello abituale.

Mi ponevo questa domanda anche sollecitato da un fatto né secondario né banale, accaduto proprio nelle scorse settimane: le dimissioni di Ferruccio De Bortoli dalla direzione del Corriere della Sera. Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle «ragioni private», con la stanchezza d’una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole.

Probabilmente De Bortoli ha voluto rendere un ultimo servigio al suo giornale coprendo una proprietà meno compatta di quanto sia voluta apparire; probabilmente una parte di quella proprietà ha deciso, d’accordo col dimissionario, di giocare d’anticipo e insediare un successore potabile quando ancora era possibile farlo: si tratta di ipotesi verosimili, che restano tali e sulla soglia delle quali ci si deve obbligatoriamente arrestare.

Ma resta un problema: perché mai un governo di centrodestra, che si dipinge in ogni occasione come il corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell’equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino di un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?

Un governo liberal-democratico di centrodestra avrebbe dovuto essere ben lieto che ci sia in Italia un giornale come il Corriere. Quante volte quel giornale ha sostenuto in questi due anni ma anche prima dal '94 in poi, le iniziative del Polo, del suo leader, dei suoi luogotenenti, e quante volte - dovendo segnalarne gli errori più macroscopici - non ha contestualmente evocato anche gli errori della sinistra, quasi che schierarsi senza riserve e sia pure con valide ragioni significasse abdicare all’ossessione dell’equidistanza come valore in sé?

Invece no. Il direttore del Corriere si sarà pur dimesso per ragioni private, ma resta il fatto che il presidente del Consiglio era stufo - e l’aveva pubblicamente dichiarato - di vederlo ancora a quel posto. Fatto: De Bortoli non c’è più, andrà a presiedere i libri della Rizzoli.

Bisognerebbe ragionare a lungo sul "terzismo" del Corriere della Sera ma questo non è il luogo e lo spazio è tiranno. Qualche cosa però si può dire.

Come ogni grande giornale, tanto più quando la sua storia sia iniziata 127 anni fa, il Corriere ha un suo Dna, una sua identità, dei valori ai quali dà voce e immagine. Quei valori sono piuttosto liberali che democratici; del resto il personaggio-chiave che sta all’origine di questa identità si chiamava Luigi Albertini, liberale conservatore, grande organizzatore editoriale, espressione diretta della borghesia imprenditoriale lombarda.

L’impronta è quella e ad essa il Corriere ha sempre tenuto fede, perfino sotto il fascismo, quando Albertini era ormai stato relegato nella sua Torrimpietra: i valori della borghesia e dell’impresa, liberali finché si può, grandi borghesi sempre e comunque.

Chi conosca bene la storia di quel giornale sa che la sola vera rottura di questa linea di «basso continuo» la fece nel 1972 Piero Ottone e sapete come? Pubblicò un’inchiesta molto ben fatta e del tutto inusitata, anzi inaudita, di Giuliano Zincone sulle morti bianche, cioè sugli incidenti mortali che colpivano con grande frequenza i lavoratori a causa delle scarsissime provvidenze sulla sicurezza del lavoro.

Inaudito: Ottone affrontava per la prima volta e senza remore un argomento tabù. Il suo Corriere fu diverso dalla serialità; "terzista" anche lui in politica, ma aperto alla verità anche a costo dello scandalo (mi permetto di ricordare che nelle commemorazioni storiche che quel giornale fa di se stesso Ottone non viene quasi nominato; Indro Montanelli, non potendo più sopportare la linea ottoniana, dette poi vita nel '75 ad una clamorosa scissione e fondò il Giornale).

Lo scandalo Ottone ebbe vita breve: fu soffocato quando la P2 di Tassan Din si impadronì della proprietà. Poi, passata quella tempesta, il Corriere tornò nel solco del giornale grande-borghese, liberale quando l’evidenza lo impone. "Terzista"? Su molte cose sì, sui valori dell’impresa nell’accezione lombarda del termine, no: lì il Corriere è schierato. Il salario visto come variabile indipendente è una bestemmia, il profitto no, il profitto è la variabile cui tutto il resto deve modellarsi.

Il tradimento di De Bortoli, i cui valori di riferimento sono simili a quelli del centrodestra, è stato di voler essere anche liberale, sulla riforma della giustizia, sui processi Previti, sulla guerra irachena.

«On n’est trahi que par les siens». Per questo, credo, ha fatto fagotto. Ha fatto un bel giornale. Auguri al suo successore.

Ad alcuni lettori queste mie riflessioni sul Corriere della Sera potranno sembrare una digressione, ma se leggeranno con attenzione si accorgeranno che il tema è strettamente pertinente a quello del coro intonato da 48 ore per celebrare la nuova flessibilità del lavoro. Ce la invidiano anche all’estero, parola di D’Amato. Che si vuole di più?

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