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È probabilmente vero che all’origine dell’attuale impulso dell’amministrazione ad entrare in guerra, i legami tra Saddam Hussein e Osama Bin Laden avevano importanza minima. A giudicare dalle apparenze, dovevano diffidare l’uno dell’altro. Dal punto di vista di Saddam, Bin Laden era un seccatore della peggior risma, un fanatico religioso, vale a dire una mina vagante, un guerriero incontrollabile. Per Bin Laden, Saddam era un bruto irreligioso, un pazzo squilibrato le cui imprese rischiose erano invariabilmente destinate a fallire.

I due erano anche in competizione. Ciascuno mirava a controllare il futuro del mondo musulmano; Bin Laden, plausibilmente, per la maggior gloria di Allah, e Saddam per il diletto terreno d’estendere il suo potere. Ai vecchi tempi, nel XIX secolo, quando i britannici avevano il loro impero, il Raj avrebbe saputo mettere quei due l’uno contro l’altro. Era la vecchia regola di molti manicomi vittoriani: lasciare che i pazzi facciano a cazzotti per poi saltare addosso ai pochi che restano.

Oggi però i propositi sono diversi. La sicurezza è considerata incerta in assenza di un’igiene marziale assoluta.

Così la prima reazione americana all’11 settembre fu quella di distruggere Bin Laden e Al Qaeda. Quando però la campagna in Afghanistan non approdò alla cattura del principale protagonista, e si rivelò incapace, anzi, di determinare se egli fosse vivo o morto, si dovette cambiare gioco. La nostra Casa Bianca decise che il nocciolo del problema era altrove. Non Al Qaeda, ma l’Iraq.

I leader politici e gli uomini di Stato sono persone serie anche quando sembrano folli, e raramente li sorprendi ad agire in assenza di qualche ragione più profonda da presentare a se stessi. Cercherò di comprendere quale sia agli occhi del presidente e della sua corte la logica dell’avventura attuale. (...)

Passando rapidamente in rassegna i due anni trascorsi dall’insediamento di George W. Bush si può gettare un po’ di luce sul motivo per cui siamo al punto in cui siamo. Bush assunse l’incarico a fronte di una possibile recessione e dello sgradevole sentore della sua investitura grazie ad un’elezione la cui migliore definizione sarebbe "legittima–illegittima". (...)

Se la legittimità di Bush fu quindi in discussione fin dall’inizio, le sue prestazioni da presidente suscitavano dileggio. Quando parlava a braccio, suonava troppo semplice. Quando subalterni dotati di un miglior eloquio gli scrivevano i discorsi, aveva difficoltà ad adeguarsi al linguaggio.

Poi venne l’11 settembre. C’è qualcosa di simile alla fortuna mandata dal cielo nelle vicende umane. (Nota anche come fortuna diabolica). L’11 settembre cambiò tutto. Fu come se i nostri televisori avessero preso vita. Per anni avevamo guardato spettacolari rappresentazioni di catastrofi in Tv, divertendoci. Eravamo isolati. Una centesima parte di noi poteva entrare nel televisore e vivere con la paura. Poi, all’improvviso, l’orrore si era dimostrato reale. Dei e demoni stavano invadendo gli Usa, entrando direttamente dal teleschermo. Questo può in parte spiegare lo strano senso di colpa che tanti avvertirono dopo l’11 settembre. Era come se incalcolabili forze divine fossero in violenta eruzione.

E, ovviamente, non eravamo in condizione di sentirci privi di colpe riguardo all’11 settembre. La folle smania di far soldi degli anni '90 non è mai stata completamente scevra del nostro penetrante senso di colpa americano. Eravamo felici di essere ricchi ma continuavamo a sentirci in colpa. Siamo una nazione cristiana. L’opinione di un gran numero di buoni cristiani in America è che non siamo fatti per essere così ricchi. Non era necessariamente questa la volontà di Dio. Di certo non quella di Gesù. Non si pretende che tu accumuli un monte di grana. Saresti tenuto a dedicare la vita ad atti di altruismo. Questa era ancora per metà la psicologia del buon cristiano. L’altra metà, prettamente americana, era, come sempre: batti tutti. Si può fare un’osservazione crudele, ma plausibilmente corretta: essere un americano tradizionale significa vivere da ossimoro. Sei un buon cristiano ma ti sforzi di restare dinamicamente competitivo. Naturalmente Gesù e Evel Knievel non si armonizzano troppo bene in un’unica psiche. La frenesia e la colpa umana assumono forme prettamente americane.

Già prima dell’11 settembre molte cose erano peggiorate. Dalla seconda guerra mondiale l’architettura spirituale dell’America poggiava sui pilastri delle nostre istituzioni di sicurezza, una sorta di miti, tra cui spiccavano l’Fbi e la Chiesa cattolica, pari per straordinaria se pur intangibile statura, alla Costituzione e alla Corte suprema.

Ora tutto questo veniva a subire un tremendo scossone. Il caso Hanssen, scoppiato nel febbraio 2001, puntò i riflettori su vecchi e nuovi scandali dell’Fbi. Robert Hanssen, cattolico ultradevoto, era stato una talpa sovietica per quindici anni. Nessuno all’Fbi riusciva a crederci. Sembrava il più puro degli anticomunisti puri. Poi, dopo l’11 settembre, vennero le cause per pedofilia contro la Chiesa cattolica, il che aprì una ferita abissale in molte famiglie di buoni cattolici. Di certo lese gravemente la reputazione del clero. Come poteva ormai un uomo giovane o di mezza età in abito religioso camminare per strada senza patire i finti sorrisi e gli sguardi sfuggenti dei parrocchiani che incontrava?

E poi ci fu la borsa. Continuava a sprofondare. La disoccupazione cresceva, lenta e costante. Gli scandali videro coinvolti gli amministratori di imprese sempre più prestigiose.

Dalla fine della seconda guerra mondiale l’America era rassegnata alla continua espansione della grande impresa nella vita americana. Per gli Stati Uniti era la mucca da mungere. Ma era anche una mucca immonda che emetteva gas putridi di menzogna e manipolazione attraverso l’estrema enfasi posta sulla pubblicità. Ignora il prodotto ma inchinati al marketing. Il marketing era una bestia e una forza che riusciva ad allontanare l’America da molti di noi. Riusciva a rendere il mondo un luogo peggiore in cui vivere. Basta citare l’architettura in verticale a cinquanta piani, ispirata nella forma quanto un pacchetto di Kleenex, centri commerciali circondati da bassi condomini, superstrade su panorami desolati e sotto tutto la cappa della plastica, ubiqua plastica, fatta per ottundere la sensibilità tattile dei bambini. Grazie al livello a cui abbiamo esportato questo schifo in tutto il globo avevamo già in pugno una sorta di egemonia mondiale. Esportavamo il dilagante vuoto estetico delle più potenti corporation americane. Non si costruivano nuove cattedrali per i poveri, solo casermoni urbani di sedici piani che pesavano sull’anima come prigioni.

Poi gli imbrogli e la corruzione delle corporation vennero più chiaramente a galla, scandalo dopo scandalo. Era il trionfo dell’avidità economica. E quel che è peggio, raggiungeva il massimo ai vertici. Le prime pagine di tutti gli inserti economici rivelavano comportamenti criminali. Senza l’11 settembre George W. Bush avrebbe vissuto il malessere ininterrotto di una sempre peggiore pubblicità mediatica. Si potrebbe anche dire che l’America stava incassando una serie di colpi non del tutto sproporzionati rispetto a ciò che accadde ai tedeschi dopo la prima guerra mondiale, quando arrivò l’inflazione a spazzar via il concetto fondamentale che quel popolo aveva di sé, che cioè se lavoravi sodo e risparmiavi avresti avuto una vecchiaia decorosa. Verosimilmente Hitler non sarebbe mai salito al potere, dieci anni più tardi, in assenza di quell’inflazione galoppante. L’11 settembre ha agito in modo paragonabile sul senso di sicurezza americano.

Il conservatorismo si stava avviando ad uno spartiacque. I conservatori vecchio stampo, come Pat Buchanan pensavano che l’America dovesse restare se stessa e cercare di risolvere i problemi che eravamo attrezzati a risolvere. Buchanan era il leader di quelli che si potrebbero definire " old-value conservatives", conservatori legati ai vecchi valori, che credono nella famiglia, nel paese, nella fede, nella tradizione, nella patria, nel duro e onesto lavoro, nel dovere, nella fedeltà e in un bilancio equilibrato. Le idee, opinioni, e predilezioni di George W. Bush dovevano essere, in gran parte, incompatibili con il conservatorismo di Buchanan.

Bush apparteneva a una destra di stampo diverso. Il divario tra la sua scuola di pensiero e quella dei conservatori legati ai valori potrebbe ancora produrre nella destra una dicotomia netta quanto le differenze tra comunisti e socialisti dopo la prima guerra mondiale. I flag conservatives, conservatori legati alla bandiera, aderivano formalmente ad alcuni valori conservatori, ma in fondo di molti non gliene importava nulla. Se continuavano ad usare alcuni termini era per non restringere la propria base politica. Usavano la bandiera. Adoravano parole come "il male". Una delle maggiori pecche nella retorica di Bush (per attingere a quella cornucopia) era l’uso del termine "il male" come se fosse un pulsante da premere per aumentare il proprio potere. Quando la gente ha un catetere venoso innestato per la somministrazione di un narcotico antidolorifico a richiesta, sono pochi quelli che tengono premuto il pulsante. Bush usa il male come narcotico per quella fetta dell’opinione pubblica che si sente più angustiata. Naturalmente, dal suo punto di vista, lo fa perché pensa che l’America sia il bene. Teme anche che stia diventando sempre più dissoluta e l’unica soluzione è forse – parole terribili, potenti e quasi sacre – lottare per l’Impero Mondiale. Dietro l’impulso ad entrare in guerra con l’Iraq c’è il desiderio di avere un’ingente presenza militare nel vicino oriente come trampolino per assumere il controllo del resto del mondo.

Se questa è una considerazione di vasta portata, permettetemi di dimostrarne la fondatezza. Alle radici del conservatorismo di bandiera non c’è follia ma una logica non dichiarata. Anche se non mi trova certo d’accordo, questo conservatorismo è logico, se se ne accettano le premesse. Dal punto di vista di un cristiano militante, l’America sta marcendo. L’intrattenimento offerto dai media è dissoluto. Ombelichi nudi rimbalzano su tutti i teleschermi, espliciti come occhi sbarrati di animali selvaggi. Siamo arrivati al punto che i ragazzi non sanno leggere, ma di certo sanno scopare. Così se l’America dovesse diventare una macchina militare internazionale tanto imponente da conquistare tutti gli impegni, il fatto che la libertà sessuale americana, tutta quella confusione di gay, femministe, lesbiche, travestiti, verrà considerata un eccesso di lussuria e verrà riposta di nuovo nel cassetto sarà di vantaggio alla Casa Bianca. Valori come impegno, patriottismo e dedizione torneranno a permeare ancora una volta l’intera nazione (con tutta l’ipocrisia che li accompagna). Una volta che saremo diventati l’incarnazione nel ventunesimo secolo dell’antico impero romano, la riforma morale potrà rientrare nel quadro. I militari sono ovviamente più puritani dei media di intrattenimento. I soldati sono naturalmente più folli della media degli individui, soprattutto in battaglia e fuori, ma il comando superiore esercita una grande pressione quotidiana su di loro e potrebbe esercitare una sorta di potentissima censura sulla vita civile.

Per i conservatori legati alla bandiera, la guerra oggi appare la migliore delle possibili soluzioni. Gesù e Evel Knievel dopo tutto potrebbero riuscire ad armonizzarsi. Combatti il male, combattilo fino alla morte! Usa quel termine quindici volte in ogni discorso.

C’è una mistica folle che affascina gli americani: l’idea che possiamo fare qualunque cosa. Sì, dicono i flag conservatives, saremo in grado di affrontare ciò che verrà. Abbiamo la tecnologia e le potenzialità necessarie. Domineremo gli ostacoli. E sono davvero convinti non solo che l’America sia in grado di governare il mondo, ma che debba farlo. Se non ci sarà questo impegno nei confronti dell’impero, il paese finirà nella fogna, seguito dal mondo. Questo, direi, è il principale elemento che sottende al progetto iracheno e i flag conservatives forse non sono neppure interamente consapevoli della sua portata, non tutti. Non ancora.

Inoltre Bush può contare su alcuni altri sentimenti. Tanto per cominciare buona parte dell’orgoglio americano riposa oggi sul treppiedi dei soldi, dello sport e dell’esibizione marziale. Qualcosa come un terzo dei nostri più grandi stadi di atletica e arene portano il nome di grandi imprese – Gillette e FedEx non sono che due di una ventina di esempi. Il Super Bowl della Nfl quest’anno ha potuto avere inizio solo dopo che una bandiera americana grande quanto l’intero campo da football è stata rimossa dal tappeto erboso. Sopra le teste l’aeronautica Usa ha regalato il fremito di una grande V. Nell’intervallo il Super Bowl era una festa animata dalle gioie putative della battaglia. Probabilmente metà dell’America prova un desiderio inespresso di andare in guerra. Soddisfa la nostra mitologia. L’America, in base alla nostra logica, è l’unica forza a favore del bene che può rimediare al male. George W. Bush è abbastanza accorto da risolvere questa equazione da solo. Egli forse sa intuire meglio di chiunque altro in che modo una guerra con l’Iraq soddisferà la nostra dipendenza dai programmi televisivi drammatici in onda in tv. La guerra è anche un potente intrattenimento televisivo.

Ancor meglio è in maniera più diretta (anche se non è affatto diretta) una guerra con l’Iraq gratificherà il nostro bisogno di vendicare l’11 settembre. Non importa che l’Iraq non sia il colpevole. Basta che Bush ignori l’evidenza. Cosa che fa con tutto il potere di un uomo che non ha mai provato imbarazzo di se stesso. Saddam, nonostante tutti i suoi crimini, non ha messo lo zampino nell’11 settembre, ma il presidente Bush è un filosofo. L’11 settembre è il male, tutto il male è collegato. Ergo, Iraq.

Nel lontano 1992, un anno dopo il crollo definitivo dell’Unione Sovietica, furono in molti nella destra americana, flag conservatives della prima ora, ad avvertire che si stava presentando una straordinaria opportunità per dominare il mondo. Il dipartimento della difesa stilò un documento in cui gli Stati Uniti erano visti, per citare Jay Bookman, dell’ AtlantaJournal-Constitution, come "un colosso a cavalcioni del mondo che impone il suo volere e mantiene la pace mondiale attraverso il potere militare ed economico. Quando la proposta trapelò nella sua formulazione finale di progetto suscitò tante e tali critiche che venne ritirata in fretta e furia e ripudiata dal primo presidente Bush. Nel 1992 il segretario alla difesa era Dick Cheney e il documento venne steso da Paul Wolfowitz che all’epoca era sottosegretario alla difesa per la politica". Oggi è vice segretario alla difesa sotto Rumsfeld.

In seguito, dal 1992 al 2000 questo sogno di dominio mondiale non venne raccolto dall’amministrazione Clinton e ciò forse aiuta a spiegare l’astio intenso, addirittura velenoso, che tanti esponenti della destra provarono in quegli otto anni. Se non fosse per Clinton, l’America potrebbe governare il mondo.

Ovviamente quel documento "Progetto per un Nuovo Secolo Americano" elaborato prematuramente nel 1992, dopo l’11 settembre divenne la politica dell’amministrazione Bush. I flag conservatives erano trionfanti. Potevano cercare di conquistare il mondo. Se questa ipotesi è ben fondata allora l’Iraq rappresentava solo il primo passo. Al di là sull’orizzonte storico, non c’erano solo l’Iran, la Siria, il Pakistan e la Corea del Nord, ma anche la Cina.

Naturalmente non ogni singolo paese doveva essere sottomesso. Alcuni dovevano solo essere dominati. Bastava una mutua e stabile intesa. Parlare di una Cina in simbiosi con noi è fare un’affermazione di portata troppo ampia senza una qualche proiezione sulle cause e ragioni possibili. E’ plausibile che alcuni dei più brillanti neo-conservatori vedano delle spaventose possibilità nel nostro sviluppo tecnologico. Difficilmente può finire con l’Iraq e il vicino oriente. Maggiori spettri e pericoli non militari si profilano per il futuro. Lo evidenzia un pezzo di Scott A.Bass pubblicato sul Boston Globe a fine gennaio.

"Per la ricerca e lo sviluppo nei settori chiave della scienza, tecnologia, ingegneria e matematica le università americane puntano fortemente sugli studenti stranieri. Il numero dei laureati nazionali titolari di specializzazione in questi settori è insufficiente a soddisfare il nostro fabbisogno economico, strategico e tecnologico. Il fiume dei giovani scienziati e ingegneri americani si è ridotto ad un rigagnolo, molti altri paesi industrializzati contano su una ben più ampia percentuale di studenti in questi settori(...)".

I flag conservatives forse si augurano di mandare alla Cina un messaggio di questo genere: Sentite un po’, voi cinesi siete molto intelligenti. Ve lo diciamo noi che ne capiamo! Gli studenti asiatici sono fatti per la tecnologia. La gente che ha vissuto vite sommerse adora la tecnologia. Non hanno comunque possibilità di svago, apprezzano quindi l’idea del potere cibernetico direttamente sulla scrivania. Per loro la tecnologia è l’ideale. Possiamo essere d’accordo su questo. Tenetevi pure la vostra tecnologia, vi auguriamo successo. Ma, cara Cina, mettitelo in testa: noi abbiamo sempre il potere militare. Il massimo cui voi cinesi potete aspirare è diventare schiavi greci di noi romani. Vi tratteremo bene. Vi considereremo della massima importanza per noi, eminentemente importanti. Ma non cercate di elevarvi al di sopra di quello che sarà il vostro posto. Il massimo che possiate sperare è di diventare i nostri greci". (...)

Naturalmente terrorismo e instabilità sono il rovescio della medaglia dell’impero. Se i governanti sauditi hanno avuto paura dei loro mullah, temendo che potessero incitare il terrorismo, come sarà il mondo musulmano una volta che noi, il Grande Satana, saremo lì in persona a dominare il vicino oriente?

Poiché l’amministrazione non può essere certo ignara dei pericoli, è tristemente verosimile che Bush e Company siano pronti ad un grande attacco terroristico. E a qualsivoglia numero di attacchi minori. In ogni modo il potere di Bush ne uscirà rafforzato. L’America tornerà a stringersi intorno a lui. Sembra già di sentirlo: "Oggi sono morti dei buoni americani. Vittime innocenti del male hanno versato il loro sangue. Ma noi trionferemo. Siamo d’accordo con Dio". Con un linguaggio del genere qualunque perdita è una vittoria.

Eppure, per quanto andrà avanti il terrorismo, lo farà il suo substrato e sarà orrore all’ennesima potenza. A rendere possibile la deterrenza durante la guerra fredda non fu solo il fatto che entrambe le parti avevano tutto da perdere, ma anche il fatto che nessuna delle parti aveva la certezza di poter contare su un essere umano che girasse l’interruttore apocrifo. In quel senso non si poteva fare affidamento su alcun piano finale. Come potevano le due superpotenze avere la certezza che l’essere umano del tutto affidabile scelto per premere il bottone si dimostrasse affidabile al punto da distruggere l’altra metà del mondo? Una nuvola nera poteva calare su di lui all’ultimo momento. Poteva cadere a terra prima di poter eseguire l’atto. Ma questo non si applica ad un terrorista. Se egli è pronto ad uccidersi può essere pronto anche a distruggere il mondo. Le guerre che abbiamo conosciuto fino a quest’epoca, non importa quanto orribili, potevano darci almeno la consapevolezza che sarebbero finite. Il terrorismo però non è interessato ai negoziati. Il suo motto è piuttosto non fermarsi fino alla vittoria. Poiché il terrorista non può trionfare non può smettere di essere un terrorista. I terroristi sono un nemico vero, molto più fondamentale in realtà dei paesi del terzo mondo dotati di potenzialità nucleari che invariabilmente appaiono sulla scena pronti a convivere con la deterrenza e i suoi esiti intrinseci - accordi dopo anni o decenni di braccio di ferro passivo e dure contrattazioni.

Se molto di ciò che ho detto fin qui è proiezione da romanziere del mio concetto di mentalità neoconservatrice – come posso replicare negandolo? – il polo opposto della campagna dei flag conservatives per l’invasione dell’Iraq è che trova il sostegno dei liberali. Parte dei media liberali, il New Yorker, il Washington Post, e alcuni autori sul New York Times sono concordi con Hillary Clinton e Diane Feinstein, il senatore Joe Lieberman e il senatore Kerry nell’accettare l’idea che forse dopo tutto possiamo portare la democrazia in Iraq. (...)

La versione alla Bill Clinton dell’arroganza oltreoceano è tuttavia sempre presente. La tesi secondo cui, dato che siamo riusciti a costruire la democrazia in Giappone e in Germania, possiamo costruirla ovunque, non regge necessariamente. Il Giappone e la Germania erano paesi con una popolazione omogenea e una lunga tradizione come nazioni. Entrambe erano gravate da sensi di colpa per i saccheggi operati dai loro soldati in altre terre. Erano quasi completamente distrutti, ma avevano le braccia e le capacità per ricostruire le proprie città. Gli americani che operavano per costruire quelle democrazie erano imbevuti del New Deal di Roosevelt.

L’Iraq invece non è mai stato una vera e propria nazione. Dopo la prima guerra mondiale i britannici misero insieme un’accozzaglia di Sunniti, Sciiti, Curdi e Turcomanni che, nella migliore delle ipotesi, nutrivano intensa diffidenza nei confronti l’uno dell’altro. L’esito più probabile sarebbe forse una situazione simile alla divisione dell’Afghanistan tra i vari signori della guerra.

Nessuno ha l’autorità di asserire che vi si può costruire la democrazia, tuttavia l’arroganza resta. A quanto sembra non si comprende che fatta eccezione per particolari circostanze, non ci è dato di creare la democrazia in un altro paese per semplice forza di volontà.

La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.

Il bisogno di tesi forti può farci cadere in molti abissi di errore. Io potrei ad esempio essere totalmente in errore circa le motivazioni profonde dell’amministrazione. Forse non è interessata all’impero quanto a tentare in buona fede di salvare il mondo. Possiamo star certi che questa è la convinzione di Bush e dei suoi seguaci. Quando sono in chiesa la domenica ne sono talmente convinti che gli vengono le lacrime agli occhi. Naturalmente sono le azioni degli uomini e non i loro sentimenti a fare la storia. (...)

Parlando al Senato, Russell Byrd ha detto: "Molti dei pronunciamenti di questa amministrazione sono scandalosi. Non c’è altro termine. Eppure questa camera resta in un silenzio ossessionante. Mentre siamo forse a un passo dall’infliggere morte e distruzione alla popolazione irachena, una popolazione, potrei aggiungere, composta per più del 50% da minori di 15 anni – questa camera resta in silenzio. Forse è solo questione di giorni perché inviamo migliaia di nostri connazionali ad affrontare inimmaginabili orrori chimici e biologici, e questa camera tace. Alla vigilia di un possibile feroce attentato terroristico in risposta al nostro attacco all’Iraq, il Senato degli Stati Uniti si occupa di normale amministrazione.

"Davvero «vaghiamo come sonnambuli nella storia». Nel profondo del cuore prego che questa grande nazione e i suoi bravi e fiduciosi cittadini non siano destinati ad un brusco risveglio.

"Devo sinceramente mettere in discussione l’opinione di un presidente che riesce a dire che un massiccio intervento militare non provocato contro una nazione composta per più del 50% da bambini sia parte delle «più alte tradizioni morali del nostro paese». Questa guerra non è necessaria in questo momento. Sembra che le pressioni stiano dando buoni risultati in Iraq. La sfida che ci attende ora è trovare un’elegante via d’uscita dal recinto che abbiamo costruito da soli. Forse è ancora possibile, concedendo più tempo".

Se io fossi il difensore karmico di George W. Bush sosterrei che la migliore opportunità per lui di evitare la condanna come spacciatore di falsa moralità sarebbe pregare nell’aldilà che la giuria non riesca a mettersi d’accordo sul verdetto.

Quanto a quelli di noi che non hanno intenzione di dipendere dal potere della preghiera, faremmo bene a trovare un baluardo da poter difendere per quelli che possono essere terribili anni a venire. Continuerà a valerne la pena. La democrazia, lo ripeto, è la forma più nobile di governo che abbiamo finora sviluppato e possiamo anche iniziare a chiederci se siamo pronti a soffrire, persino a morire per essa, piuttosto che prepararci a vivere l’esistenza inferiore di mega governi delle banane che conducono i loro mega affari facendo del loro meglio per impossessarsi dei nostri sogni frustrati. (Traduzione di Emilia Benghi)



Chi è Norman Mailer?

Sembrava che si dovesse discutere di programmi per l’alternativa di governo, ma pare che ci si debba accontentare di un dibattito serrato sulle formule di aggregazione, e in qualche caso di disaggregazione, del centrosinistra. La proposta di Prodi, come credevano di aver capito molti elettori e come argomenta anche Occhetto nella sua recente intervista all’Unità, contemplava la necessità di una vasta coalizione: lista unica non era forse l’espressione migliore. Al momento sembra che debba bastare un’altra lista unica: il piccolissimo Ulivo, somma della maggioranza Ds, dell’intera Margherita (ma non ci sarà una minoranza poco convinta?) e ovviamente dell’intero Sdi, in cui si fa fatica a immaginare una minoranza. La fermezza con cui questa alleanza si è nominata avanguardia promotrice di una coalizione più vasta rischia di provocare fenomeni di natura opposta. Intanto l’Italia dei valori di Di Pietro, che vale sotto il profilo elettorale almeno sei volte di più dello Sdi viene con malcerto garbo tenuta fuori. Boselli non vuole, è il ritornello che sentiamo: non per cattiveria, ma perché non è riformista. È una risposta, ma non sembra convincente se l’obbiettivo è aggregare. E il merito di aver trattenuto qualche socialista dalla deriva verso Forza Italia non sembra così rilevante da autorizzare veti a un alleato meno radicato nelle amministrazioni ma assai di più nel consenso popolare.

Ma non basta. L’avanguardia, stringendo il proprio cerchio, pensa che fissata la guida del processo gli altri seguiranno. Era il limite dell’articolo di Fassino di un mese fa: un riformismo che trova il suo popolo. In realtà parlava a lungo del soggetto che dovrà guidare il processo, ma diceva assai poco sul progetto riformista. La reticenza sul tema non è incoraggiante. Si capisce che la parola chiave è modernizzazione, ma non si può continuare a dire, ormai da due anni, che ci vogliono quattro, cinque grandi idee guida e non dire mai quali sono. La minoranza Ds, i Verdi, i Comunisti italiani, Rifondazione, i vari movimenti, i girotondi, il Social Forum hanno ognuno la propria cultura politica, un’idea di se stessi e della propria collocazione, ma possono tutti insieme dare un contributo progettuale efficace.

Lo riconoscono autorevoli voci uliviste come quella di Occhetto. Proporre loro di fare la coda della cometa, abbagliati dalla modernizzazione senza sapere nemmeno cos’è, non è saggio. Tanto più che nessuno oggi può prevedere quali saranno i consensi elettorali alle diverse forze politiche. Affermare che si costruisce un’aggregazione per raggiungere il 35-40 per cento dei consensi non dà alcuna garanzia sul risultato effettivo: in questa materia volere non è potere. Né è saggio scommettere sul riflusso dei movimenti. I partiti di centrosinistra senza la spinta della società civile sono rachitici e lo hanno già scoperto a loro spese. Nessuno può dimenticarsi che bisogna arrivare al 51 per cento.

Se il piccolissimo Ulivo spera di guadagnare la sua quota aggiuntiva di voti convincendo i socialisti del centrodestra a tornare indietro, dovrà solo augurarsi che gli elettori volenterosi non fuggano nell’astensionismo. Lo spirito soffia dove vuole e si potrebbe scoprire che la costruzione di una lista unica troppo ristretta finirà per allargare i consensi alle altre forze sia verso il centro che verso sinistra.

Poi ci sono le aspettative. Tra certi dirigenti del centrosinistra si sta diffondendo una pericolosa euforia: che il centro destra si stia sfarinando, che Berlusconi abbia già perso, e che noi, senza saperlo, abbiamo già vinto. Forse non dobbiamo più nemmeno lottare per prevalere. È un pensiero pericoloso: dimentica la gravità dell’anomalia istituzionale che ha inquinato la politica italiana, sottovaluta la crisi costituzionale che quella ha aperto, trascura che il capo del governo è appeso all’immunità concessa in particolare alla sua e per ipocrisia alle altre quattro massime cariche dello Stato. Per sfuggire ai processi deve correre da una all'altra. Ma se non gli sarà permesso che cosa farà?

La sindrome da governo virtuale ha afferrato Rutelli. Era stato il primo a mandare gli alpini in Afghanistan (sulla beatitudine di quella pace vedi John Pilger, il Manifesto, 19 ottobre). Ora vuole essere il primo a mandare altre truppe nell’Iraq regolarizzato, si fa per dire, dall’Onu. L'equivoco giuridico-politico è davvero pesante: la guerra illegale resta illegale e si dovrebbe semmai prima pretendere un pieno ristabilimento dell’autorità dell’Onu. Atteggiamenti analoghi si colgono in politica interna. Sembra che il senatore De Benedetti, autore della fortunata formula «L’Ulivo deve fare come se Berlusconi non ci fosse», abbia cominciato a trarne indicazioni per il nostro futuro governo: per carità non si metta a disfare quello che ha fatto il centrodestra e guardi avanti. Come dobbiamo interpretare il suggerimento? Ci teniamo il falso in bilancio, il legittimo sospetto, l’immunità-impunità, il fisco sul lastrico, la scuola pubblica e la sanità pubblica impoverite, l’industria trascurata, le pensioni dei lavoratori affidate alle bizze della Borsa, il lavoro dei giovani precarizzato, la Patrimonio Spa e la relativa svendita dei beni culturali e ambientali, l’ordinamento giudiziario rifatto tramite cancellazione delle garanzie costituzionali per i magistrati, la convivenza con la mafia? Ci teniamo tutte o solo qualcuna di queste gioie? Rinunciamo alla legge sul conflitto d'interessi, tanto oramai non serve più? Evitiamo di separare il potere politico dalla potenza dell’informazione e restauriamo il caro vecchio duopolio televisivo, risanato dopo la parentesi monopolistica?

Ci si può augurare che l’ansia riformista-conservativa del senatore sia poco condivisa dalla classe dirigente del centrosinistra. Ma sarebbe bello sentirlo dire a voce alta. In caso contrario come potremo guardare in avanti se dovremo guardarci le spalle?

L’ITALIA non può entrare in guerra contro l’Iraq al fianco degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Spagna. E se anche le Camere autorizzassero un intervento militare del genere, il voto sarebbe illegittimo per violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Solo una risoluzione dell’Onu o una delibera della Nato possono rendere giuridicamente possibile una qualsiasi partecipazione italiana al conflitto. Così Carlo Azeglio Ciampi ha tracciato il perimetro costituzionale e parlamentare nel quale si dovranno muovere il governo, i partiti e le forze armate sul fronte Saddam.

Ad ascoltarlo, in una sorta di primo «gabinetto di guerra» di questa drammatica crisi irachena, c’erano Berlusconi, Fini, Letta e Frattini. Il Capo dello Stato ha dissolto gli ultimi dubbi che angosciano l’opinione pubblica e tormentano il premier. La «dottrina del Quirinale» è molto chiara: non un soldato, non un Tornado italiano può essere impiegato contro il rais di Bagdad, se manca una legittimazione formale dei grandi organismi sovranazionali, le Nazioni Unite, il Patto Atlantico, l’Unione europea. Alla vigilia del delicatissimo vertice trilaterale alle Azzorre tra Bush, Blair e Aznar, il Colle ha fissato un paletto decisivo, con un documento redatto dai consulenti giuridici e illustrato da Gaetano Gifuni ai presenti all’incontro di ieri, nel Salone alla Vetrata.

Un paletto che, in una fase difficile come questa, serve anche a Berlusconi. Da un lato, se si arrivasse a una seconda risoluzione che desse via libera a un attacco multilaterale, gli consentirebbe di inquadrare l’eventuale coinvolgimento italiano nella guerra in una cornice di legittimità giuridica. Dall’altro lato, se invece l’azione anglo-ispano-americana scattasse in modo unilaterale, gli permetterebbe di sottrarsi materialmente al conflitto, sia pure senza tradire politicamente l’amicizia con gli Stati Uniti. In questi giorni il Cavaliere si è posto più volte una domanda: «L’America non ci ha ancora chiesto nulla, sul piano dell’impegno diretto nella guerra. Ma se lo farà, e prima o poi lo farà, visto che la situazione all’Onu non si sblocca, noi come dobbiamo comportarci?».

Ora c’è una risposta. Ciampi gliela offre come custode della Costituzione, presidente del Consiglio Supremo di difesa, garante dell’uso legittimo delle Forze Armate. In questi giorni lo avevano tirato per la giacca in tanti. Oscar Luigi Scalfaro lo invitava a una lettura «restrittiva» dell’articolo 11 della Costituzione, ancorandosi al suo primo capoverso: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E’ la linea dei pacifisti assoluti: no alla guerra, senza se e senza ma. Francesco Cossiga, al contrario, gli chiedeva un’interpretazione «estensiva» dello stesso articolo 11, enfatizzando il suo secondo e terzo capoverso: «L’Italia consente ... alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». E’ la posizione dei pacifisti realisti: in casi eccezionali la guerra può essere legittima. O persino «giusta», come teorizzò Bobbio ai tempi del primo conflitto nel Golfo.

Ciampi, facendo appello alla «dottrina internazionale dell’unanimità», ha sposato questa seconda tesi. E a Berlusconi ha spiegato che senza la legittimazione dell’Onu «l’Italia non può partecipare né direttamente né indirettamente» ad operazioni militari contro l’Iraq. Frattini ha posto un problema di cui la Farnesina ha ragionato con Powell: l’eventuale invio di contingenti italiani non nelle vere e proprie zone di guerra, ma in Turchia a scopo preventivo. Anche su questo punto, il paletto del Colle è stato chiaro: serve almeno una deliberazione della Nato. Se non c’è questa, l’Italia non può inviare truppe. Accadde così in Iraq undici anni fa, accadde così in Kosovo tre anni fa. Deve essere così anche oggi. Il governo, che nelle prossime ore dovrà prendere decisioni difficili, ha ora una stella polare da indicare. Il Parlamento, che nei prossimi giorni dovrà esprimere un voto, ha ora una rotta precisa da seguire. Se l’America farà da sola, l’Italia potrà al massimo concedere diritti di sorvolo, basi e infrastrutture, da Stato membro del Patto Atlantico vincolato da rapporti bilaterali con gli Usa. Niente di più.

Ma per dimostrare la fedeltà italiana all’alleato d’oltreoceano, e per salvare quel che resta dell’Onu, il Cavaliere azzarderà nelle prossime ore un tentativo estremo di mediazione: gli Usa presentino la loro risoluzione, i nove Paesi alleati nella «coalition of the willing» manifestino il proprio sì al momento della dichiarazione di voto, ma prima ancora di votare la delegazione americana ritiri la risoluzione. Con questo escamotage, un po’ bizantino e più da Transatlantico romano che da Palazzo di Vetro newyorkese, Bush incasserebbe il pieno sostegno politico dei suoi alleati, ma le Nazioni Unite non si dilanierebbero in una «conta» rovinosa, sotto i colpi del veto franco-russo-cinese.

Questo è il massimo che l’Italia può fare, per «l’amico americano». Senza l’Onu o la Nato, né un soldato, né un Tornado potranno colpire Bagdad. Per Berlusconi, pressato dalle marce pacifiste e dai cattolici della sua maggioranza, è un’ancora di salvezza. Per gli italiani, che hanno a cuore almeno il diritto e l’ordine internazionale, è una confortante certezza.

LA SENTENZA con la quale la Corte di Cassazione ha definitivamente assolto Giulio Andreotti da ogni accusa riguardante il delitto Pecorelli ha sollevato, anzi risollevato, il tema più generale del rapporto tra magistratura e politica. Se ne discute a dir poco da undici anni, cioè da quel «terribilis» 1992 che vide il primo processo di Tangentopoli contro il «mariolo» presidente del Pio Istituto Trivulzio, sorpreso con le mani nel sacco ad incassare tangenti. Se ne continua a discutere in un perenne polverone e in presenza d´una sempre più accanita tifoseria. Accanita e accanitamente cangiante perché fu dapprima una tifoseria giustizialista che applaudì i magistrati della pubblica accusa senza alcuna riserva critica, per il solo motivo di voler dare addosso alla politica e ai suoi protagonisti, sempre assai malvisti in questo Paese per ragioni storico-antropologiche che sono state più volte esaminate e sulle quali è ora inutile ritornare. E fu poi una tifoseria pseudo-garantista che con un repentino cambiamento di fronte si schierò contro la magistratura, ritenuta al tempo stesso inefficiente, corporativa e faziosa laddove era stata fino a poco prima ritenuta eroica, integerrima e dedita unicamente alla disinteressata ricerca della verità.

Questa inesausta discussione va avanti incrociando mezze verità e fittissimi polveroni demagogici, al punto che è diventato estremamente difficile se non addirittura impossibile distinguere il grano dal loglio di fronte all´affastellarsi di leggi e leggine approvate a colpi di maggioranze parlamentari blindate allo scopo palese e spesso financo dichiarato di sottrarre alcuni potenti alle maglie della giurisdizione. Credo perciò necessario fissare chiaramente concetti e situazioni di fatto per porre il dibattito su un terreno concreto e oggettivo.

Il tema, l´ho già detto, è quello del rapporto tra politica e giurisdizione. Della sentenza Andreotti ripeto qui ciò che ho scritto più volte e da anni: essa restituisce all´imputato l´innocenza giudiziaria che gli era dovuta e consente ai suoi critici (tra i quali mi ascrivo) la libertà di esprimere i propri giudizi morali e politici su un personaggio complesso e sicuramente ragguardevole che ha incarnato per quarant´anni il potere democristiano nel bene e nel male. Quella sentenza, come ha benissimo scritto ieri Francesco Merlo, libera lui da presunti reati e libera i suoi critici dalla «pietas» dovuta ad un imputato contro il quale non sono state trovate prove di colpevolezza.

Il nostro tema si può affrontare sulla base di alcune domande alle quali ogni cittadino è in grado di rispondere da sé. La prima è questa: ci deve essere in un sistema liberal-democratico un controllo di legalità sul potere e su coloro che lo esercitano?

Sulla necessità che questo controllo vi sia, tutti senza eccezione alcuna si dichiarano d´accordo. Del resto perfino nei regimi totalitari la necessità di un tale controllo era riaffermata nelle (fasulle) Costituzioni. Così nella Germania nazista e così nella Russia di Lenin e di Stalin. E così anche nelle monarchie assolute dell´«Ancien Régime» nonostante che il sovrano ricevesse dal «sacrum» la sua legittimità.

I regimi liberal-democratici differiscono da quelli assoluti, oligarchici, totalitari, per il fatto che in essi il controllo di legalità è affidato ad un ordine (la magistratura) indipendente e autonomo rispetto a quel potere sul cui operato esercita la sua giurisdizione sulla base delle leggi che i governi propongono e i parlamenti (potere legislativo) emanano.

E´ vero che in una società sempre più dominata dall´influenza dei «media» la distinzione tra potere esecutivo e legislativo tende a scomparire dando luogo a quella tendenza verso la dittatura della maggioranza che per molti aspetti fuoriesce da un sistema democratico-liberale; tuttavia una traccia di diversità tra chi approva le leggi e chi deve attuarle esiste ancora ed è quella traccia che permette alla magistratura di svolgere la sua attività di controllo perseguendo i casi specifici in cui la legalità sia stata violata.

Io non credo che ci sia qualcuno che voglia dichiararsi contrario al controllo di legalità affidato ad una magistratura indipendente. Credo che neppure Giuliano Ferrara affermerebbe mai un´assurdità così evidente e una così palese bestemmia contro la democrazia liberale; ma posso sbagliarmi. Se qualcuno la pensa diversamente ce lo faccia sapere e daremo senz´altro conto delle sue ragioni.

* * *

La seconda domanda è questa: poiché il controllo di legalità affidato alla magistratura indipendente si svolge dopo che il reato o l´illecito sono avvenuti, a chi spetta il compito di prevenire per quanto possibile che il potere violi la legalità? Chiaramente l´azione preventiva spetta alla politica, cioè a quello stesso potere soggetto al controllo. Spetta ai governi, ai parlamenti, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni politiche e alla libera stampa di vigilare preventivamente sui comportamenti dei singoli e dei gruppi di potere, stabilendo acconce e trasparenti procedure e sanzionando politicamente chi cercasse di eluderle e di manipolarle a proprio vantaggio.

E´ evidente a tutti che tanto più il potere sarà in grado di controllare preventivamente se stesso tanto meno la magistratura dovrà esercitare «a posteriori» il controllo di legalità. E viceversa: tanto meno il potere autocontrolla e autosanziona se stesso e i suoi singoli membri tanto più la magistratura trova materia di verifica e di accertamento delle fattispecie criminali poste in essere.

Faceva impressione confrontare l´altro ieri nella trasmissione di «Porta a porta» sulla sentenza Andreotti la veemenza appassionata di Giuliano Ferrara quando accusava la magistratura milanese d´aver decapitato e cancellato dall´anagrafe politica due interi partiti dell´importanza storica della Democrazia cristiana e del Partito socialista, con la tranquilla razionalità di Anna Finocchiaro, la quale gli ricordava che la politica, essendo stata globalmente compromessa nella corruzione-concussione, era saltata in aria per la vastità delle malefatte compiute e la consapevole omissione omertosa di tutti i controlli preventivi che sarebbe stato suo compito di attivare. Quando il potere divora le istituzioni e le deforma a proprio beneficio, con ciò stesso perde la possibilità e vorrei dire il diritto di considerare come interferente il controllo giurisdizionale.

Bettino Craxi – è vero – si autoaccusò in Parlamento d´aver violato la legalità, ma lo fece dopo avere negato tutto (Chiesa, il mariolo) e solo quando gli inquirenti erano già arrivati ad acquisire prove non confutabili del malaffare. La sua autoaccusa voleva essere soprattutto una chiamata di correo contro il Pci più che l´inizio d´un percorso espiativo.

Ci si dimentica troppo spensieratamente dell´origine del finanziamento pubblico dei partiti, perciò sarà bene ricordarla. Era scoppiato a metà degli anni Settanta lo scandalo dei petroli; era stato scoperto dalla magistratura che i petrolieri operanti in Italia si erano trasformati in una sorta di grandi elemosinieri dei partiti di governo per ottenerne favori che li ripagavano a iosa delle dazioni effettuate. Pagavano e ricevevano, i nostri petrolieri, e i beneficiari di quelle dazioni erano la Dc, i socialisti, i socialdemocratici, i liberali, i repubblicani, ciascuno secondo la sua forza parlamentare e politica rigorosamente soppesata.

Lo scandalo fu enorme e mise a rischio il sistema al punto che gli stessi capi-partito che avevano incassato milioni e miliardi si resero conto della necessità d´una svolta. Nacque così la legge sul finanziamento pubblico, cioè a spese dell´erario e quindi di tutti i contribuenti, dei partiti e dei gruppi parlamentari. Le cifre stanziate furono ritenute eque, il Parlamento votò, nel corso del dibattito tutte le formazioni politiche (radicali esclusi) illustrarono la legge come un atto imprescindibile di moralità, si impegnarono a rinunciare a ogni futura opera di corruzione, stabilirono sanzioni pesanti contro chi da quel momento in poi avesse violato e trasgredito.

Ma erano passati pochi mesi che la corruttela e l´omertà ripresero lena, sicché le dazioni da parte di «lobbies» affaristiche ricominciarono, col passar degli anni avvolsero in una tela di ragno tessuta con fili d´acciaio tutti i rapporti tra lo Stato, gli enti locali, la Pubblica amministrazione da un lato e il «business» dall´altro, al punto che non si poté più distinguere tra corruzione e concussione. Le regole delle dazioni, le procedure, la percentuale dovuta a ciascun partito, gli intermediari, tutto fu stabilito secondo un canone non scritto ma noto a tutti gli interessati. In più: al finanziamento illecito dei partiti si affiancò quello ancor più illecito delle correnti fino ad arrivare a quello personale di capi, capetti e leader massimi. E questa fu la situazione che mise in moto l´inchiesta su Tangentopoli, cioè sulla «città delle tangenti» , quella città essendo nient´altro che la Repubblica italiana.

Questa è la storia non dubitabile perché accertata da documenti, riscontri bancari, testimonianze, confessioni, sentenze definitive. Non fu la magistratura a decapitare i partiti ma furono quei partiti e gli uomini che li dirigevano a decapitare se stessi. L´obiezione è che il Pci fu risparmiato da quella mattanza. E´ da provare, non è stato provato. Perfino il giudice Nordio, che indagò tenacemente e per anni su quel partito e che è da tempo nelle grazie di questo governo, chiuse la sua inchiesta con un nulla di fatto. Comunque e quand´anche il Pci in quanto partito fosse stato coinvolto nel malaffare e non sufficientemente perseguito, non toglie che il controllo di legalità fu effettuato e dette risultati; incompleto forse, ma non a vuoto perché il marcio – e che marcio – fu messo a nudo e sanzionato.

* * *

Queste, dunque, sono le domande alle quali bisogna rispondere: controllo di legalità, azione preventiva della politica per impedirsi di violare la legalità, omissione durata vent´anni di ogni prevenzione e di ogni trasparenza, conseguenze che ne sono inevitabilmente derivate. Poi, dalla costola di quel sistema omertoso e corruttorio, è nato il «monstrum» del conflitto d´interessi berlusconiano, l´edificazione del duopolio (oggi monopolio) del sistema televisivo, le leggi per sottrarre i potenti alla giurisdizione.

Ci sono tanti modi di revisionare la storia e tutti hanno la loro soggettiva validità purché non falsifichino i dati di fatto. Ecco: i dati di fatto, non opinioni ma comportamenti provati. La passionalità e la veemenza di eloquio non li possono neppure scalfire e infatti non li hanno scalfiti. Stanno lì, come pietre. La pacificazione di cui si continua a parlare potrà avvenire soltanto se i responsabili di quel malaffare e di quanto ad esso seguì ammetteranno pubblicamente quanto fecero e contribuiranno dal canto loro a ripristinare la legalità. La quale tuttora sanguina per le ferite che le vengono ancora oggi quotidianamente inferte.

La necessità di rinnovare i partiti, il rapporto tra politica tradizionale e movimenti, i rischi legati a un uso strumentale dell’informazione, la difesa dei diritti e della Costituzione. Ma anche il modo in cui costruire una «cultura della pace» e un diverso ordine mondiale, «la follia del terrorismo e quella della guerra», il futuro dell’Unione europea e il bisogno di una riorganizzazione dell’Onu. Hanno tutta l’aria di un vero e proprio manifesto politico le parole con cui Sergio Cofferati chiude l’assemblea nazionale di Aprile. Nella sala Pantheon dell’Ergife ci sono molti esponenti del correntone insieme ad Antonio Bassolino e Achille Occhetto (salutato con un applauso secondo solo a quello riservato all’ex leader della Cgil), ma anche Guglielmo Epifani, Oliviero Diliberto e diversi esponenti del mondo dell’associazionismo: Vittorio Agnoletto, Tom Benetollo dell’Arci, Flavio Lotti della Tavola per la Pace, Paolo Sylos Labini di Opposizione Civile.

È il giorno dopo l’elezione al fianco di Giovanni Berlinguer alla presidenza dell’associazione nata da una costola della minoranza di sinistra Ds, ora divenuta autonoma rispetto al partito. Venti minuti di intervento, pacato nei toni, teso più a fornire un’analisi del panorama politico italiano e degli assetti internazionali che non a suscitare applausi. Che comunque arrivano, come la sera prima, generosi, con ovazione finale. E il segretario dei Comunisti italiani Diliberto avanza una proposta: visto che né la scelta di una leadership, né la sintesi tra partiti e movimenti si avranno all’assemblea dell’Ulivo del 13 (alla quale Cofferati ribadisce che andrà soltanto se «avvierà un processo aperto di rapporto con i movimenti», ma non se si voteranno organigrammi), chi «oggi ha l’egemonia nei movimenti e nel rapporto tra questi e i partiti, deve uscire allo scoperto e fare il primo passo verso una nuova leadership».

Si chiude così una due giorni che ha fortemente attirato su di sé l’attenzione, che già comincia a far discutere all’interno della Quercia e dell’Ulivo, e che sicuramente influenzerà il dibattito politico dei prossimi giorni (e oltre). Perché ora Cofferati ha definitivamente preso posizione, si è assunto un incarico ben preciso. Si è messo alla testa di un’organizzazione che punta a svolgere il ruolo di «cerniera» tra partiti e movimenti, e che ha come obiettivo finale quello di «incidere» sulla politica del centrosinistra. Primo passo: il rinnovamento dei partiti, che devono rispondere alle istanze provenienti dalla società, dai movimenti. «Il rapporto tra movimenti e politica richiede un equilibrio difficile ma non impossibile. Deve essere in primo luogo recuperata una capacità di ascolto che non sempre in passato c’è stata», dice Cofferati insistendo a più riprese sulla necessità di «coniugare l’intelligenza con il cuore» e sull’importanza di «quel valore prepolitico che è la generosità»: per chi è chiamato alla politica, sottolinea tra gli applausi, «sarebbe un grave errore dare l’impressione, anche involontariamente, che la propria collocazione personale viene prima delle ragioni di interesse comune». Un’accusa a chi occupa posizioni di vertice all’interno del centrosinistra? Il presidente di Aprile evita gli accenti polemici. Anche se in almeno un passaggio del suo intervento è facile leggere una critica alla posizione espressa in quella stessa assemblea, la sera prima, da Piero Fassino: «Se chi sostiene la necessità di fermare la guerra connette questa assoluta priorità all’idea che esista una condizione, per esempio l’allontanamento di Saddam Hussein - esempio scelto non a caso, visto che di questo aveva parlato il segretario Ds - corre il rischio di legittimare a posteriori la scelta della guerra preventiva fuori dell’ombrello dell’Onu».

È proprio sulla guerra contro l’Iraq che Cofferati maggiormente insiste, indicando a più riprese quelli che sono i fondamenti della «cultura della pace». Che, dice, è da costruirsi «giorno per giorno», non solo in momenti drammatici come questi. A livello internazionale deve essere rilanciata «l’idea che le Nazioni Unite sono necessarie, e che serve una loro capace ed efficiente autonomia operativa». Mentre a livello nazionale sollecita chi in queste settimane e mesi si è battuto perché il conflitto non scoppiasse a comportarsi ora «in modo coerente», e cioè chiedendo «in ogni sede, a cominciare dal Parlamento, che la guerra venga fermata e che torni in campo la politica». Che non vuol dire, precisa, «chiudere il più in fretta possibile». Il presidente di Aprile si schiera decisamente al fianco di Berlinguer, da più parti attaccato per aver detto la sera prima che «sbaglia chi auspica una rapida vittoria degli Stati Uniti». Dice Cofferati criticando chi «trasforma l’orrore in un gioco mediatico», chi «usa strumentalmente il sangue», chi «interpreta liberamente le parole per generare una polemica politica» (in serata accuserà il Tg1 di aver «alterato completamente» in un servizio il senso delle sue affermazioni, cancellandone alcune e lasciandone altre, accusa alla quale risponderà, negando il fatto, Mimun): «L’idea di fare in fretta la trovo davvero cinica. Tra l’altro è in contraddizione con le posizioni che le forze politiche, soprattutto quelle dell’opposizione, avevano avuto in precedenza».

Anche nei confronti di maggioranza e premier, Cofferati non si lascia andare a toni particolarmente polemici durante il suo intervento. Lo farà più tardi, rispondendo alle domande dei giornalisti. Berlusconi ha definito «una bestemmia» le bandiere rosse accanto a quelle della pace? «Ogni giorno ha la sua pena - dice - ieri quella delle bandiere rosse che sarebbero, chissà perché, in contrasto con quelle della pace. Non sorprendetevi: il rigurgito dell’anticomunismo, che non è tema all’ordine del giorno, ci sarà». Una risposta molto vicina a quella data da Epifani: «Per moltissime persone, per moltissimi lavoratori, la bandiera rossa è sempre stato simbolo di libertà e di emancipazione». Il segretario della Cgil fa anche notare che «con il bianco simbolo della difesa e della giustizia e con il verde del rispetto della natura», il rosso forma i colori della bandiera italiana. «Schierarsi contro il rosso è un errore: significa essere contro una parte importante del nostro paese».

Caro direttore, veramente molto unitaria questa lista dell´Ulivo per le elezioni europee! Tre partiti dentro e quattro fuori. Non mi sembra che l´appello di Prodi andasse in questa direzione. E la stessa domanda di unità che viene dall´elettorato di centrosinistra esprime una richiesta semplice e precisa: trovare un modo per stare tutti insieme, intorno a un programma capace di individuare temi forti e condivisibili. Queste elezioni potrebbero offrire al centrosinistra l´opportunità di unirsi su valori che lo contraddistinguono: legalità internazionale, pace, difesa dello stato sociale, tutela dell´ambiente, difesa del pluralismo dell´informazione.

I partiti dell´Ulivo hanno presto rinunciato a costruire il massimo di unità possibile: mentre alcuni si sono chiamati fuori, altri hanno fatto una scelta nella quale è sempre più difficile riconoscere la proposta iniziale. Una lista composta da soli tre partiti (Ds, Margherita, Sdi) rischia di ottenere risultati tutt´altro che unitari e questa divisione iniziale può innescare una vera e propria esplosione centrifuga del centrosinistra, creandone due parodie: la versione "riformista" e la versione "radicale", entrambe con poca voglia di parlarsi e di vincere. Milioni di elettrici ed elettori si sentirebbero così ancora una volta ostaggio di una decina di dirigenti, della loro mancanza di generosità e di lungimiranza politica.

Lasciare una parte del proprio elettorato senza rappresentanza è una responsabilità grave: accresce i rischi di astensione, riducendo la possibilità di successo. Penso che una via d´uscita, finché si è in tempo, sia quella di riprendere la proposta di Prodi ripartendo dal cammino interrotto nel ´96: una federazione di partiti, aperta alla società, che parta dal programma e che riesca a trovare un´intesa con Rifondazione comunista. Questa formula si è già dimostrata vincente pochi mesi fa nelle elezioni amministrative, e allora perché non realizzarla anche per le europee?

Una coalizione forte e credibile deve, con personalità e autorevolezza, attrarre e persuadere, non porre barriere ancora prima di aver cominciato il proprio cammino. Accettare il veto dei socialisti dello Sdi sulla partecipazione di Antonio Di Pietro significa senz´altro dividere, non unire. Non è questo il messaggio che l´elettorato di centrosinistra ha cercato di comunicare negli ultimi due anni ai propri partiti. Non è questo il messaggio positivo che c´era nella proposta di Prodi. O forse avevo capito male?

Quando Rutelli mercoledì sera, dopo il voto, ha detto che era emersa una maggioranza riformista nell’Ulivo, Rosy Bindi ha replicato: «Una maggioranza trasformista, non riformista». Proprio non ci sta Rosy Bindi: «Basta continuare a parlare di riformisti. Vorrei che si cominciasse a parlare di Ulivo riformatore ispirato a valori e principi. Il riformista è chi accetta la gradualità del cambiamento senza rinunciare ai valori di fondo».

Perché ha parlato di trasformismo?

«Non ho capito il cambiamento delle posizioni. Fino a qualche ora prima i leader dell’Ulivo, Rutelli, D’Alema, Fassino, ripetevano che saremmo stati contrari all’invio di militari in assenza di una legalità internazionale, dunque delle Nazioni Unite o di una presenza multilaterale... Credo che la collaborazione con il governo su questo punto fosse da evitare. Del resto il commento del Presidente del Consiglio è stato illuminante. Ha detto: non avevamo bisogno del vostro voto. Abbiamo avuto un atteggiamento di fatto subalterno nei confronti del governo. E questa, a mio avviso, non è una operazione riformista ma trasformista».

Nel merito, perché ha ritenuto di votare contro la mozione del governo invece di astenersi?

«Perché fosse chiaro che noi eravamo a favore degli aiuti umanitari e contrari all’invio di militari senza la presenza delle Nazioni Unite. Di militari che possano scortare gli aiuti umanitari in Iraq ce ne sono tantissimi. 500mila soldati angloamericani credo che siano più che sufficienti ad accompagnare le scorte di cibi. Ritengo l’astensione un atteggiamento ambiguo. Siccome non c’è stato cambiamento di rotta, né da parte del governo, né da parte degli alleati angloamericani ma c’è stata una sostanziale continuità fra la fase della guerra e quella della ricostruzione non si capisce perché dovevamo cambiare posizione».

Non è stata positiva l’astensione della maggioranza su due passaggi della mozione dell’Ulivo che si richiamavano, appunto, all’esigenza del ritorno al multilateralismo?

«Indubbiamente è stato un risultato importante quello di impegnare il governo perché si adoperi per il ritorno di una politica multilaterale. Mi chiedo però per quale motivo non l’hanno scritto nella loro mozione. Quanto al discorso di Frattini è stato abile e furbo, ma certamente non vero, sincero. Non dovevamo cadere nella trappola. Ci è venuto a dire che c’erano i bambini da aiutare e i ponti da ricostruire, facendo intendere che il governo era impegnato solo in aiuti umanitari, mentre il governo è impegnato nell’invio di truppe militari».

Per lo Sdi con questo voto si è fatta finalmente chiarezza, si sono fatti i conti con i girotondini e il radicalismo, ha vinto la faccia riformista dell’Ulivo. Lei ci sta ad essere annoverata fra i massimalisti radicali?

«Non ritengo di essere massimalista. E neppure credo che lo siano i girotondi perché in maniera radicale ci chiedono di ispirare la nostra alternativa al governo della destra ai valori della pace. Dire che si è massimalisti quando, anziché affidarsi alla guerra preventiva, si chiede alla politica di assumersi la responsabilità di risolvere le controversie internazionali senza ricorso alle armi, fa pensare che il rischio di un certo riformismo è proprio il trasformismo, il cedimento dei valori, il compromesso, un sistema poco chiaro di dividere maggioranza e opposizione. Un Ulivo così non vincerà mai nel nostro paese».

Secondo lei c’è una operazione politica mirata al restringimento dell’Ulivo all’area riformista?

«Quello che mi è più dispiaciuto è che il voto di ieri, più che essere commentato nel merito è stato commentato come l’alba, la nascita di un nuovo Ulivo, fatto da una parte dei Ds e da una parte della Margherita. All’ideologia di questo Ulivo non sono disponibile. Anzi, respingo il cinismo di chi ha voluto usare o comunque strumentalizzare una questione importante come la guerra e la pace per imporre una certa operazione politica. Il cinismo non appartiene al riformismo».

Il gioco delle astensioni incrociate faceva parte di una operazione politica?

«Se non lo è stato certo ci si è buttati perché lo diventasse. Si è fatto di tutto per commentare l’astensione incrociata in questo senso. La si è usata. Si è voluto incassare questo risultato come un risultato politico. Non mi ritrovo in questa ideologia dell’Ulivo riformista, che serve più a dividere le componenti che a individuare le questioni programmatiche. Non mi iscrivo all’Ulivo del partito unico. L’Ulivo è una coalizione con una soggettività politica capace di operare una sintesi fra le varie componenti culturali e tra le varie anime. Capace poi di allearsi con altre componenti politiche. Prc non potrà fare mai parte dell’Ulivo. Ma l’operazione di chi, anziché lavorare per una coalizione grande, si preoccupa di dividere i riformisti dai massimalisti è sbagliata: dovrà fare la fatica di costruire un nuovo partito e poi quella di allearsi con una parte importante dell’Ulivo che nel frattempo è stato rigettata nella zona della sinistra antagonista. Il piccolo Ulivo è una operazione inversa a quella che facevano De Gasperi e Aldo Moro che lavoravano per allargare l’area di governo, del riformismo e della democrazia».

C’è un problema di gruppo dirigente dell’Ulivo?

«Certamente. Adesso è costituito dai segretari dei partiti mentre l’Ulivo-coalizione deve avere una propria soggettività politica autonoma rispetto ai partiti, perché non è fatto solo dai partiti. Bisogna fare quanto prima la conferenza programmatica, la scelta di una classe dirigente nuova, l’individuazione di un percorso per la scelta del premier. Chi ha impedito finora l’assemblea ha sbagliato. Quando ho avuto l’onore di ospitare Cofferati nel mio collegio gli ho detto che lui doveva continuare a essere punto di riferimento dei movimenti, della battaglia per i diritti, che però doveva sedersi al tavolo dell’Ulivo, del programma, della nuova classe dirigente della coalizione, altrimenti anche lui avrebbe rischiato di diventare vittima del gioco di chi vuole separare i buoni dai cattivi».

CARO direttore, arrivo da New York, scendo dall’aereo, prendo in mano Repubblica e vi trovo una lettera di Nanni Moretti.

Moretti parla dell’Ulivo, della mia proposta di una lista unitaria dei riformisti per le prossime elezioni europee e dice che l’elettorato di centrosinistra «esprime una richiesta semplice e precisa: trovare un modo per stare tutti insieme, intorno a un programma capace di individuare temi forti e condivisibili».

Parla anche, Moretti, dei valori che contraddistinguono il centrosinistra: «legalità internazionale, pace, difesa dello stato sociale, tutela dell’ambiente, difesa del pluralismo dell’informazione».

Come non essere d’accordo con lui?

Come non vedere in un progetto autenticamente riformista sostenuto dall’impegno unitario di forze politiche, movimenti e cittadini le condizioni migliori, anzi le condizioni necessarie per un governo dell’Europa, e con l’Europa dell’Italia, all’altezza delle sfide alle quali ci chiamano i grandi cambiamenti delle nostre società?

Sono ambizioni alte. Cosi’ alte che hanno bisogno di essere coltivate con cura, con attenzione, con pazienza.

Quando ho avanzato la proposta della lista unitaria mi sono rivolto a tutti i riformisti, persuaso che la scelta e la passione per l’Europa e i valori della libertà, della giustizia, della solidarietà li unissero già ora, quale che fosse la famiglia o la tradizione politica alle quali essi sentissero di appartenere.

Se tutti insieme opereremo per garantire che questa nuova iniziativa, questa nuova avventura della nostra politica e della nostra vita in comune rimanga sempre aperta a tutti coloro, uomini e donne, movimenti e associazioni, forze e raggruppamenti politici, che la vorranno condividere, che male c’è se all’appello avranno risposto per primi solo alcuni dei partiti del centrosinistra?

Non tema Moretti. E non temano con lui tutti coloro, come, tra gli altri Ochille Occhetto, che giustamente invitano a non ridurre ad un gioco in difesa quella che deve essere una partita di attacco a tutto campo, di movimento, impeto e fantasia. Credo, sento che siamo sulla buona strada. Percorriamola tutti insieme, partiti politici e società civile. Uniti.

CHISSÀ perché bisogna interrogarsi ogni volta sull’"attualità" delle cose. Le cose valgono anche se sono inattuali, a volte perché sono inattuali. Per esempio gli anniversari. Il 25 aprile è una data bellissima, e basta. Anche il 1° maggio. E ora parlerò dell’attualità di questo 25 aprile. Ai miei tempi, un ragazzo che avesse deciso di essere antifascista aveva due scelte. Di aderire al racconto della Resistenza, alla sua commemorazione, e anche alla sua ufficialità. Oppure di diffidare del racconto ufficiale e disertare le cerimonie, e rintracciare un’altra verità, un altro 25 aprile. La Resistenza come mito fondante della democrazia repubblicana, o come mito ispiratore della rivoluzione sociale. I protagonisti erano a portata di mano, coi loro racconti diversi, l’acquisto della democrazia e della Costituzione repubblicana e dei partiti dell’arco costituzionale, oppure della Resistenza tradita o mutilata, dell’epurazione mancata, della scintilla custodita del comunismo. Un racconto era insidiato dalla retorica istituzionale e dal quieto vivere politico, l’altro dal culto della vita combattente e della violenza liberatrice. Non ce n’è più bisogno, grazie al cielo. I testimoni si fanno rari, e questo è un gran rischio per la verità e la memoria.

PERÒ un ragazzo che pensi oggi all’antifascismo non ha bisogno di scegliere fra una versione ufficiale e una storia sotterranea da disseppellire, fra un racconto o l’altro degli avi. Può fare in modo di sapere che cosa successe, sessant’anni fa. Che cosa significò la liberazione, dopo una guerra terrificante, costata alla terra cinquanta milioni di morti. Nella nostra parte di mondo la guerra è stata risparmiata da allora: fortuna pressoché senza eguali. Può ignorare, un ragazzo, le controversie sui revisionismi, alcune superflue, altre incomprensibili. La storia si lascia reinterrogare ogni giorno, e da ogni luogo. E però ci sono evidenze che nessun nuovo paio di occhiali può mutare. L’Italia fu tenuta da un regime squadrista e illiberale, nazionalista e virilista, che diventò violentemente colonialista e razzista, entrò vilmente e tronfiamente in guerra, rovinò nella dissoluzione delle forze armate e nell’occupazione nazista, aggrumò clientele e feudi e brigate nella Repubblica sociale e collaborò alla caccia agli ebrei e alle stragi di civili. La sua parte era una tirannia sterminatrice e schiavista. Dall’altra parte la Resistenza dei partigiani, dei militari, dei civili, aveva in comune l’impulso a liberare l’Italia dagli occupanti nazisti e dai suoi complici fascisti. Ci riuscì, grazie alla vittoria degli Alleati americani e inglesi. Dalla vittoria fascista e di Salò sarebbe risultata una ripugnante schiavitù. Da quella degli Alleati e dell’antifascismo risultò una libertà. Questo segna la differenza, una volta per tutte. La comprensione storica e la compassione umana dei destini delle persone, delle loro vite e delle loro morti, comincia da qui. Altri nodi di dispute che furono accanite e fin cruente, sono finalmente ricondotti a una loro condivisibile misura, e spesso quasi incomprensibili nel loro accanimento passato. Incomprensibile la calunnia o la reticenza sulle foibe, che pure è durata così a lungo, e così penosamente. Lo strascico di violenze, vendette politiche e personali, crimini comuni, che insanguinarono ancora per anni certe regioni, e specialmente il "triangolo rosso", è stato raccontato dai testimoni e ricostruito dagli studiosi così da offrire a tutti la verità, e alla sinistra uno specchio deformante e rivelatore. Le parole trasformate in trincee e in tabù hanno ripreso il loro corso comune e ragionevole: la "guerra civile", il consenso popolare al fascismo... Certo, i venti mesi della Resistenza furono "anche" una guerra civile fra italiani: non furono "soltanto", né "soprattutto" una guerra civile, bensì di liberazione nazionale e di ribellione sociale. Certo, il regime fascista ebbe un vasto consenso di massa, e l’antifascismo fu il fatto di una minoranza, e anche la lotta partigiana, benché di una minoranza ingente e anche militarmente efficace, oltre che civilmente decisiva. È facile oggi vedere in Iraq che cosa voglia dire per il riscatto di un popolo e per l’inaugurazione di una democrazia una partecipazione nazionale combattente e politica. Altrettanto evidente è ormai il punto in cui riletture "nuove" della storia si allontanano da ogni documentazione e da ogni ragionevolezza per trasformarsi in oltraggi al pudore, o in rivalse faziose. Qualcuno propone di cancellare il 25 aprile, per sostituirlo magari con il 18. Il 18 aprile ci fu un voto: quel voto, e il suo risultato lodato ora come fatidico, fu una delle scelte rese possibili dal 25 aprile. Bisogna guardarsi dallo zelo nel rifare i calendari. I giorni scritti in rosso e costati cari meritano riguardo e discrezione. Vorrei dire a Sandro Bondi, del quale conosco un desiderio di dialogo e una curiosità per le ragioni altrui, che la frase su Marzabotto è un triste errore. Anche su questo tema – del rapporto fra azioni partigiane e rappresaglie naziste, della paura, dell’opposizione o del risentimento che a volte le azioni partigiane suscitarono fra le popolazioni - studi seri e senza pregiudizi si sono moltiplicati, e spesso i loro autori hanno una carta d’identità di sinistra. Ma il riferimento a Marzabotto è una caricatura di quel drammatico problema, e suona quasi feroce di fronte a quel massacro, che il presidente Rau seppe onorare così umanamente.

Un ragazzo può dunque leggere, studiare, ascoltare - lo faccia! - e però lasciare agli anziani più risentiti, agli accademici rivali e agli uomini del partito preso le dispute antiche. Può invece riguardare attraverso il 25 aprile le proprie canzoni e i propri slogan di oggi. C’è appena stata una guerra detestata e una liberazione benvenuta. Quel ragazzo ha forse agitato una bandiera della pace, ha sfilato in corteo scongiurando la barbarie della guerra: anzi, l’ha fatto senz’altro. È di un ragazzo o una ragazza così, che sto parlando. Quando proclamava di essere contro la guerra senza se e senza ma, si è abituato a sentirsi obiettare: e allora, gli Alleati nella guerra contro fascismo e nazismo, e i partigiani? Ha risposto con fastidio: che il nazismo era un’altra cosa, che è successo tanto tempo fa, che allora si trattava di difendersi a casa propria da un invasore, un occupante... Risposte elusive, frettolose. Il nazismo fu senz’altro un’altra cosa: ma la sua fine non ha posto fine a tirannidi genocidi e stragi. Poco fa, a due bracciate da noi, nella ex Jugoslavia, le guerre sono tornate, sterminii nazionalistici e ideologici, stupri "etnici", deportazioni di massa, fosse comuni, città torturate... Non era proprio casa nostra, però casa dei nostri vicini, e se ne sentiva a orecchio nudo l’invocazione al soccorso. La contraddizione invade l’amore per la pace, la voglia di metterlo in pratica già nella propria vita personale, di esigerlo nei rapporti fra i popoli e gli Stati: la contraddizione è nelle cose. Quel ragazzo aveva magari la maglietta con un bel "Che" Guevara. Eroe di una vita di armi e di un corteggiamento della morte – morto presto, e nel luogo più distante dal potere di una nuova dinastia "rivoluzionaria" - agli antipodi della speranza pacifista. Si può volergli bene, dunque, senza immaginare di emularlo, salvo che nella passione e nel coraggio, se si pensa a un tempo nuovo di pace e di nonviolenza. Prendete un’altra fotografia, quella delle tre donne del 25 aprile di Milano, col trench e il mitra, giovani e belle da far tremare. (Erano forse allieve delle Belle Arti, se non sbaglio: una delle tre sarebbe morta fra poco). Si smette forse di voler bene alle ragazze di quella fotografia, di quella Liberazione, perché imbracciavano il mitra, e noi ci vogliamo oggi pacifisti e nonviolenti? E pensate solo un momento alla rivolta del ghetto di Varsavia, sessant’anni fa fra pochi giorni, armata di qualche pistola scassata, e votata dall’inizio alla disfatta. Sulla mia maglietta abita per sempre la faccia scorbutica di Marek Edelman.

Questa è la vera attualità del 25 aprile di quest’anno, a ridosso di un grande e generoso innamoramento per la pace e la nonviolenza. I partigiani combattenti non furono "i migliori" dell’umanità loro contemporanea (magari, in certe commemorazioni di oggi, accostati senz’altro ai loro coetanei nemici saloini, in nome di una somiglianza e di una superiorità fra combattenti, un po’ come quella fra gli ultras delle curve opposte degli stadi). Non occorre far classifiche morali, fra persone che il destino ha messo a occupare posti diversi, e li hanno diversamente onorati: i militari che rifiutarono la resa a Cefalonia, o l’arruolamento per scampare ai lager tedeschi; o i civili, donne e uomini, che difesero le proprie famiglie e la propria comunità a costo di sacrifici e coraggio; i parroci che stettero fino all’estremo con le persone affidate loro. Però i combattenti, poco più che ragazzi per lo più anche loro, sono i figli per i quali un paese e la sua gente provano più amore e trepidazione, e dei quali si sentono più orgogliosi. Erano anche loro diversi e divisi, a volte scagliati gli uni contro gli altri, fedeli di religioni e illusioni diverse. Alcuni erano alieni dalla violenza, e presero le armi col cuore pesante: minoranze religiose, cattolici, valdesi, o laiche. Altri sentivano un legame necessario fra le armi e l’onore, appreso nel culto del Risorgimento o nell’educazione militare. Altri ancora erano persuasi che ci sia una violenza giusta e redentrice, e che il riscatto degli individui e delle collettività passi attraverso la sua scelta. Alcuni veneravano Stalingrado, altri veneravano Stalin. Alcuni, di quella lotta armata, fecero un dogma e un mito e un’abitudine, e stentarono a smetterla una volta venuta la Liberazione, e anzi se la portarono addosso a lungo, appena nascosta in una doppiezza rivoluzionaria, finché arrivò una nuova generazione che ne rivendicò l’eredità. La nonviolenza dei ragazzi del mese scorso – convinta quanto fragile: è così esposta la nonviolenza, a ogni emergenza! - può trattare il 25 aprile così: come la prova nobile della necessità estrema di battersi anche con le armi, e insieme come la lezione della necessità di non amarla, la violenza, né le armi, di non abituarsi loro, di relegarle all’estremo ricorso al quale un’umanità impegnata a prevenire servitù e ingiustizia, confina la chirurgia da campo. (il radicato equivoco ha appena indotto all’augurio di strenua durata di una Resistenza irachena, ahimè). In uno scenario non tanto antico – garibaldino e partigiano e zapatista e olpista e che altro ancora - c’è, alla fine di un’epopea popolare e irregolare, la deposizione delle armi dei combattenti, magari ai piedi dell’armata regolare: scena che commuove e fa indignare lo spettatore ogni volta di nuovo, di fronte all’espropriazione del valore schietto da parte del potere costituito. Bisognerà imparare a considerare quella scena come la più consolante e rallegrante: e i combattenti che depongono le armi abbiano facce ridenti, come per una compiuta Liberazione. Avrebbe potuto capitare, chissà, al "Che" Guevara, se fosse stato meno caro agli esosi dèi. Capitò alle due belle ragazze che vissero, ed ebbero per la prima volta il diritto di votare, di quelle tre della fotografia di Milano, che oggi riguardo come un innamorato.

Da alcuni anni milioni di persone si mobilitano in varie parti del mondo contro le guerre e le nefandezze del liberismo, nessun partito le organizza, nessuno le finanzia, danno voce e presenza a gente che non l'ha mai avuta, sfondano il silenzio dei media. Ha ragione Bertinotti, sono una cultura diversa, un movimento senza precedenti, prodotti da una marea di coscienze acculturate e collegate dalla rete, resistenti alla omologazione mass-mediatica. Crescono in giganteschi appuntamenti. Hanno ucciso qualcuno? Gambizzato qualcuno? Sfilato con le P38? Con slogan trucidi? Mai. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, è una delle più potenti centrali sindacali del mondo, raccoglie lavoratori, organizza scioperi, difende (neppure a sufficienza) i diritti del lavoro. Riempie le piazze. Ha sparato su qualcuno? Invitato a farlo? Plaudito a un attentato? Mai.

D'accordo, riconosce di malavoglia il governo, ma movimenti e sindacati, denunciando questa e quella ingiustizia, si fanno «bacino di violenza». Davvero? L'Occidente è pieno di esplosioni sanguinose individuali o di gruppo, che in Italia si tingono di politica. Dove il conflitto sociale è appannato sono di più: negli Stati uniti gli omicidi sono quattro volte quelli dell'Europa. No no, dice il governo, è proprio il conflitto sociale che li produce, e chi lo enuncia gli dà corda. Il Riformista ci informa che gli sparatori sono nella Cgil a migliaia. Segio che sono invece nel movimento. Menti ansiose della sinistra raccomandano di individuarli, isolarli, ripudiarli. Non penso affatto che siano a migliaia, né che esprimano un bisogno di massa, né che stiano avvelenando il paese. Ma se anche fosse, come fanno i movimenti e sindacati a individuarli, costoro che oggi manco fanno propaganda dove passano? Chiedendo a chi si iscrive al sindacato o si affaccia in un centro sociale di mostrare il passaporto? La dichiarazione dei carichi pendenti? Domandando un'informativa alla questura? Il solo risultato è che Cgil e centri sociali, invece che essere decorati al valor civile per costruire uno spazio in un paese desertificato dalla sinistra, sono in gran sospetto.

Non basta. Se dici che questo sistema è ingiusto e la legge 30 un'iniquità, forse un ragazzo instabile o un frustrato metropolitano di mezz'età va ad ammazzare Massimo D'Antona - tecnicamente più facile che organizzare uno sciopero. Non concordi affatto con Marco Biagi, se ne deduce che suggerisci l'agguato di via Valdonica. Non imbavagli Casarini quando fa delle cazzate, non sei comprensivo con i black-bloc ma ti chiedi da dove vengano, scrivi che le Brigate rosse sono state un fenomeno politico in una certa fase politica - sei un fiancheggiatore. Se non sei contiguo con il governo o il centrosinistra, sei contiguo con chi spara.

E sono tornati i peccati di pensiero, che credevo sepolti col mio confessore degli anni trenta. Pensi e magari scrivi che senza il conflitto politico e sociale una democrazia si ammala e diventa pericolosa - sei un incorreggibile figlio del Novecento, sentina intellettuale d'Europa, culla di rivoluzioni dunque di attentati e sangue. Non hai ancora capito che lo stesso filo lega Nadia Lioce al 1917, quindi al 1848, e - perché no? - alla Rivoluzione francese, anzi al 1648 in Inghilterra e, diciamo la verità, a quel folle di Spartaco. Me lo ricordano una volta all'anno due stimati amici, Bertinotti e Revelli.

Basta. Consiglierei di raffreddare gli spiriti. Di rivedere qualche strumento retorico e qualche analisi del presente. Anche qualche album di famiglia, ognuno ha il suo. Il mio mi ha insegnato che vivo in un sistema inumano e alienante. Che la minore violenza contro un sistema violento è quella dei grandi movimenti di massa, dei sussulti storici raziocinanti. Che il conflitto sociale è una cosa seria, non si gioca fra individui né con gesti simbolici. Non apprezzo perciò chi fa l'autocritica anche per mio conto e in consonanza con i governi. Neanche se sono bravissime persone come Sergio Segio, che ha pagato colpe passate, o Adriano Sofri che di colpe non ne ha e sta in galera per una sentenza emessa a nome del popolo italiano, e dunque, ahimè, anche mio.

CHIUNQUE ha conosciuto un bambino prepotente. Penso a quel tipo di bambino che arriva al campetto di calcio con il suo bel pallone di cuoio grasso e propone di mettere insieme due squadre e una partita. Sapete, uno di quei bambini che non sopporta che non gli si passi la palla spesso, molto spesso, quasi sempre.

O, peggio, non tollera che finisca sotto di un paio di gol perché, a quel punto, si sa come finisce il pomeriggio: il bambino prepotente, rosso di rabbia, raccoglie il «suo» pallone e dichiara chiusa la partita nel deluso silenzio di tutti gli altri.

Nelle quinte del processo di Milano, Cesare Previti appare sempre più quell´arrogante bambino "proprietario" del pallone. Vuole decidere lui quando si gioca, come si gioca, chi gioca. Che sia una partita di calcetto o un processo o un confronto parlamentare o una legge dello Stato, non importa.

Decide lui chi vince e chi perde, e indovinate chi vince sempre? D´altronde, raccontano che quando, «ai bei tempi», il Nostro organizzava al Circolo Canottieri in riva al Tevere «memorabili» partite a calcetto, i giocatori sapevano che bisognava dargli la palla a ogni azione, e magari gridargli «Forza, Cesare!», «Bravo, Cesare!». Soprattutto era necessario non mandarlo mai sotto nel punteggio, mai. I malaccorti che hanno dimenticato i due essenziali precetti, dicono, non sono stati più invitati.

Come il bambino arrogante con il "suo" pallone, Cesare Previti è dannatamente sincero. Non sa rinunciare alla sua micidiale sincerità, all´energica autenticità della sua visione del mondo. Non gliene fotte nulla del gioco, dei giocatori, delle regole del gioco. Gli importa soltanto vincere, vincere, vincere, e peggio per chi non lo capisce... Il Nostro ha già dato un pubblico saggio di questa sua trasparente qualità di uomo, cittadino, professionista, eletto del popolo quando, dopo 27 mesi di dibattimento, si presentò in aula a Milano per essere finalmente interrogato.

Previti non fece nulla per nascondere se stesso, per celare a chi lo ascoltava la sua familiarità con l´illegalismo e l´opacità dei comportamenti: una familiarità così radicata, identitaria (si può dire) da non fargli più avvertire né l´illegalismo né l´opacità. In quell´occasione, Previti fu prepotentemente sincero nel non riconoscere a nessuno in quell´aula - dove capeggia il monito «La legge è uguale per tutti» - il diritto di fargli domande, di imporgli una risposta. Disse spesso, guardando con occhi di sfida verso il banco dei giudici: «A questo non voglio rispondere... Questo non glielo dico, sono affari miei...». Fu sincero quando raccontò degli arnesi illegali utilizzati in tutta una vita professionale per proteggere le sue ricchezze dal fisco. Fu sincero nel suo disprezzo per la legge o la regola.

Sembrava non sentire nemmeno in quell´occasione il peso della frode. Né finse mai di avvertirlo, in verità. Per dire, raccontò di come, per far rientrare un po´ di miliardi (3,5) di vecchie lire in Italia, manipolò una vendita fittizia di una sua villa ad Ansedonia. Senza che nessuno glielo chiedesse, informò che il maneggio (Previti lo definì «esterovestizione» ) fu opera del figlio Stefano. Non si curò di rovinare così la reputazione dell´erede perché - «sinceramente» , aggiunse - non avvertiva il dolo in quella manovra. Era roba sua, quel denaro, e ne faceva quel che voleva, quando voleva, come voleva: e al diavolo il fisco. Il «pallone» era suo, o no? E allora? Ieri Previti ci è ricascato. Per tre udienze i giudici del Tribunale hanno atteso che il Nostro, come aveva annunciato, facesse le sue «dichiarazioni spontanee». All´ennesima assenza e impedimento, hanno chiuso finalmente il dibattimento e ora resta loro soltanto di raccogliersi in camera di consiglio, valutare gli argomenti dell´accusa e le ragioni della difesa, decidere se gli imputati hanno o meno corrotto i giudici, se ci sono giudici che si sono lasciati corrompere.

La settima ricusazione del Tribunale proposta dall´eccellente imputato li ha di nuovo fermati sulla soglia della camera di consiglio mentre Cesare Previti, lontano, a Roma, all´ombra di quel Palazzo governato dai suoi amici, si è abbandonato al solito flusso verbale. Ha salmodiato la consueta litania nella convinzione che semplicemente ripetendo ossessivamente una cosa, quella cosa senza fondamento diventi vera come veri sono il giorno e la notte, vera più dei fatti che la contraddicono.

Non sono stato in grado di difendermi, si è lagnato. Hanno rifiutato di acquisire le prove che mi scagionano, ha ripetuto. Come se questo processo non durasse da tre anni (a voler dimenticare gli anni dell´udienza preliminare).

Come se, dell´affare, non si fossero occupati non solo quel giudice di Milano «totalmente privo di requisiti di imparzialità e terzietà» , ma in ogni piega altre procure (Perugia, Brescia) e Corti d´Appello e Corti di Cassazione e Corte suprema a Sezioni unite e Corte costituzionale e ispettori del Ministero della Giustizia e Consiglio superiore della Magistratura. Ma, lo si diceva, Previti è un uomo sincero e, anche ieri, l´ha detta tutta come quel bambino con il pallone.

«Io voglio che questo collegio del tribunale di Milano sia sostituito», dice Previti. Quei giudici possono dargli torto e condannarlo e il Nostro non li vuole, non vuole essere giudicato da quelli lì, ce ne vogliono altri e «sarebbe paradossale se il sistema non intervenisse» , conclude Previti. Può perdere la partita e chiede, grida che la partita sia sospesa e subito. Che cominci da qualche altra parte e che magari gli sia concesso qualche punto di vantaggio così che possa finalmente farcela. Se si giocasse al Circolo Canottieri in riva al Tevere saprebbe come rimettere a posto le cose, ma gioca fuori casa, a Milano, in un´aula di giustizia e dunque intervenga il Parlamento. Cambi le leggi, modifichi l´ordinamento giudiziario, intimidisca quei giudici se non vogliono levarsi di torno, ma faccia qualcosa il Potere perché «fatti di questo genere non devono accadere e chi li commette deve pagarne le conseguenze» .

Difficilmente Cesare Previti rinuncerà all´arrogante convinzione di essere giudicato da un giudice che non si è scelto da solo. Martedì, alla nuova udienza, invocherà allora l´impedimento parlamentare e non si presenterà.

Chiederà un rinvio. Nuova udienza, sabato 3 maggio. In quell´occasione proporrà un altro fermo in attesa dell´appello in Cassazione dell´ultima ricusazione (già valutata inammissibile dalla Procura Generale). Nuova udienza martedì 6 maggio, ma quel giorno farà in modo di essere da qualche parte a Montecitorio. Nuovo rinvio... E così di strappo in strappo, di abnormità processuale in deformità procedurale in attesa che accada qualcosa che possa interrompere il gioco che sente minaccioso nell´esito. Magari il «patteggiamento allargato» in discussione alla Camera può dare un po´ di respiro e chi sa che, con un colpo di mano, non si faccia in tempo a ripristinare l´immunità anche per i parlamentari e non soltanto per il presidente del Consiglio...

È quel che accadrà? Ora è chiaro che, mentre questo benedetto processo deve avere una giusta sentenza (quale che sia), tocca alla maggioranza politica che sostiene Previti dirgli un «basta» di dignità e decenza. Per liberare il Nostro e il capo del governo dai grattacapi giudiziari, il centro-destra ha già manomesso il codice penale, la sua procedura e minaccia ora l´equilibrio dell´amministrazione della giustizia, l´ordinamento giudiziario e, quel che più conta, il diritto fondamentale che, in tutti i tribunali, campeggia a grandi lettere nella formula: «La legge è uguale per tutti». La maggioranza ha approvato leggi (falso in bilancio, rogatorie, rientro dei capitali dall´estero), non previste dal programma di governo, che possono trasformare l´Italia in un "paradiso penale". Sono state mosse ad alto costo per l´equilibrio dei poteri dello Stato, ad altissimo costo per la credibilità internazionale del Paese. Ora può bastare. Qualcuno spieghi a Previti che deve tornarsene casa con il "suo" pallone perché la partita continua. Secondo le regole del gioco.

Non solo difende Nogaro dagli attacchi «sconsiderati» subiti in questi giorni, ma è anche convinto che il monsignore degli immigrati e dei poveri, interprete autentico di Wojtyla, ha fatto bene a dire ciò che ha detto. «Non è forse questo - annota il filosofo Massimo Cacciari, che il vescovo di Caserta lo conosce bene - il destino dei cristiani, essere pietra di scandalo, motivo di contraddizione?». Durissimo invece il giudizio sull’omelia del cardinale Ruini, antagonista dichiarato della chiesa pacifista: «Ruini confonde e mischia pericolosamente le due dimensioni, politica e religione: che poi è lo stesso motivo per cui critichiamo l’Islam».

Il vescovo di frontiera, ancora una volta, sotto accusa...

«Non è la prima volta e non sarà l’ultima. E tutto a causa del modo in cui interpreta il suo ruolo, che in fondo è il modo che dovrebbe accomunare tutti i cristiani. Dice cose scomode, e fa bene. E in questo caso cose più che giuste».

Ma quelle bare andavano benedette, no?

«Certo che andavano benedette, e certo che il prete deve benedire le salme di quei poveri soldati. Il vescovo di Caserta ha detto, e io sono completamente d’accordo con lui, che non vanno benedette le armi. Vogliamo scherzare? Qui si ritorna alla teoria delle guerre giuste, alla Chiesa che giustificava l’uso della violenza...».

Nogaro sembrava preoccupato da quelle teorie poi rese esplicite dall’omelia di Ruini intorno all’intervento militare in Iraq.

«Ruini ha rovesciato completamente la prospettiva sulla guerra portata avanti in questi anni dal Papa, e condivisa appieno dal vescovo di Caserta. È una cosa di estrema gravità perché cancella di fatto il ripudio assoluto dell’intervento in armi che era stato fatto proprio dalla Chiesa nella sua interezza».

Nell’omelia Ruini ha sposato con forza la tesi di chi crede che l’Italia non deve ritirare le sue truppe...

«Ruini doveva benedire i morti, e non entrare nel merito di una questione prettamente politica. Personalmente sono convinto che non ce ne dobbiamo andare, adesso. Ma questo non significa che approvo ciò che ha detto. Il discorso di Ruini è un oggettivo arretramento su posizioni inaccettabili, su posizioni che legittimano l’interferenza della religione nelle scelte politiche, un metodo per cui si accusano l’Islam e gli integralisti».

Farebbe lo stesso discorso se Ruini avesse detto che l’Italia doveva ritirare il contingente?

«Anzi forse lo avrei disapprovato anche di più. Sarei stato in quel caso in disaccordo anche nel merito politico, e rimarrebbe intatta la disapprovazione sul metodo».

Che succederà adesso a Nogaro?

«Niente, credo. Non si farà amareggiare più di tanto dalle miserie di un ceto politico che tenta di capitalizzare l’emozione e il dolore del paese. Lui, sincero e onesto, è in pace con il suo Dio».

ROMA - «Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia. Serve un’azione di contrasto sempre più forte e determinata da parte del centrosinistra, che deve ritrovare le ragioni dell’unità». Sergio Cofferati rilancia il suo allarme: preoccupato dalle ultime «pericolose spallate del presidente del Consiglio», l’ex leader della Cgil chiama l’opposizione a una «forte assunzione di responsabilità, a partire dalle prossime consultazioni elettorali». Compreso il referendum per l’articolo 18, sul quale finalmente annuncia in modo ufficiale la sua posizione: «Non andrò a votare».

Cofferati, cosa la preoccupa nelle ultime prese di posizione del premier?

«Mi preoccupano, anche se non mi sorprendono, i gravissimi attacchi che il premier sta muovendo contro le istituzioni. L’avevo detto dopo il voto del 13 maggio 2001, e oggi ne ho la conferma: Berlusconi non è la Thatcher, ma è una miscela molto più pericolosa».

Che basta, secondo lei, per gridare al "regime", come dice Rutelli?

«Io l’ho sempre sostenuto, anche quando altri non ne erano convinti. Siamo in una situazione grave e delicata, che è il frutto di strappi continui e che ora, dopo gli ultimi sviluppi giudiziari, subisce un’accelerazione drammatica. Lo confermano le frasi gravissime e inquietanti pronunciate da Berlusconi a Udine. Siamo in presenza di una crisi istituzionale che non ha precedenti, e che si sviluppa su due fronti. Il primo fronte è quello internazionale: il premier, alla vigilia del semestre di presidenza italiano della Ue, getta fango sulle istituzioni europee che l’Italia rappresenta attraverso il presidente della Commissione di Bruxelles e il vicepresidente della Convenzione. Il secondo fronte è quello interno: il premier muove all’attacco del presidente della Repubblica, ignorando i suoi moniti ed anzi rivolgendogli contro un atto di evidente ostilità attraverso il rilancio del presidenzialismo».

Il Cavaliere obietta: è mio diritto ricostruire i fatti della vicenda Sme, in tutte le sedi in cui mi è possibile. Non vorrà negargli questo diritto.

«Berlusconi, con la sua offensiva giudiziaria, ha provocato e sta provocando un’ulteriore, gravissima caduta di credibilità internazionale del nostro Paese. Con il risanamento degli anni '90, e poi l’aggancio alla moneta unica di Maastricht, il Paese aveva compiuto uno straordinario passo avanti, che gli aveva ridato lustro e aveva rafforzato il suo tessuto democratico: era uscito dalle macerie di Tangentopoli e aveva ripreso il controllo della sua finanza pubblica in un quadro di grande consenso sociale. Oggi quel patrimonio di credibilità è stato dilapidato. Basta leggere i commenti dei più autorevoli osservatori internazionali, per rendersene conto».

C’è anche chi osserva che Prodi non avrebbe dovuto reagire, dichiarandosi "indignato" dopo la comparsata televisiva del premier ad "Excalibur".

«Ci manca solo questa. Che si impedisca ad un cittadino di manifestare la propria indignazione, di fronte ad uno spettacolo indegno come quello che abbiamo visto venerdì sera. L’osservazione di Prodi è del tutto condivisibile. Ed è stravagante l’idea di chi mette sullo stesso piano azione e reazione. C’è stato un vulnus istituzionale gravissimo prodotto dal presidente del Consiglio, e subito ci si affretta ad occultarlo, mettendo sullo stesso piano la legittima replica di chi quel vulnus lo ha subito in prima persona. Una pratica inaccettabile, che nasce dalla mancata soluzione del conflitto di interesse».

Che c’entra il conflitto di interessi?

«Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia, garantito dalle norme costituzionali. Questo avviene per effetto della saldatura tra due azioni altrettanto devastanti. Da una parte c’è l’attacco sistematico a uno dei poteri fondamentali dell’ordinamento, la magistratura, che nasce dall’esigenza di piegare l’indipendenza dei giudici agli interessi privati del premier e di alcuni suoi alleati. Usando strumentalmente il principio sacrosanto secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, si punta invece a creare una zona franca di impunità riservata solo a pochi eletti. Dall’altra parte c’è l’uso monopolistico della comunicazione, che viene attivata a proprio piacimento per sovvertire mediaticamente lo stato delle cose: è così che l’accusato diventa accusatore, il condannato diventa perseguitato».

Non è esagerato parlare di "lacerazione del tessuto democratico"?

«Non trovo una definizione diversa, di fronte al seguente fenomeno: c’è un presidente del Consiglio che (per interesse personale) vuole togliere ai cittadini il diritto di essere giudicati da una magistratura autonoma e indipendente, e che nel contempo (in forza del suo strapotere mediatico) sottrae loro anche il diritto al pluralismo dell’informazione. Così si priva una democrazia dei fondamenti del vivere civile, sanciti dalla Carta costituzionale».

Non si potrebbe sciogliere questo nodo con l’immunità o con la proposta Maccanico, che prevede la sospensione dei processi per le alte cariche?

«Considero gravissime entrambe le proposte. Chi ha compiti di rappresentanza politica non deve essere protetto da privilegi legislativi: la sua unica, vera "protezione" è costituita dalla sua storia, dalla sua credibilità, dalla sua trasparenza. Da questo punto di vista, è giusto che l’opposizione non si presti ad alcuna forma di dialogo con la maggioranza. Né sul lodo Maccanico, né su altre ipotesi che nascondono solo l’obiettivo di arrivare all’impunità».

Se le cose stanno così, come si esce da questa emergenza? Trasformando l’Ulivo in un Comitato di Liberazione Nazionale?

«Io credo sia necessaria, in questo momento, un’azione di contrasto da parte del centrosinistra, sempre più ferma e determinata. Oggi il problema non è il confronto sulle riforme, che come i fatti dimostrano è impensabile. Semmai è quello di mantenere le condizioni elementari perché eventuali cambiamenti siano ancora possibili in futuro. Dobbiamo difendere la Costituzione attuale, contro le continue aggressioni di chi la vuole snaturare. E l’opposizione deve farlo subito, in Parlamento e nella società civile, rilanciando l’unità del centrosinistra a partire dalle prossime consultazioni elettorali».

Lei è un po’ velleitario, visto che proprio sul referendum per l’estensione dell’articolo 18 si profila una resa dei conti a sinistra. A questo proposito, Cofferati, per lei è il momento di gettare la maschera. Ha taciuto fin troppo, su questa delicatissima sfida elettorale.

«Il referendum è stato un grave errore. Io resto convinto che sia tuttora indispensabile difendere ed estendere i diritti, nella cittadinanza e nel lavoro. Ma il mercato del lavoro è composto da figure che hanno profili, diritti e tutele diverse tra loro. Estendere e modulare i diritti, com’è giusto e necessario, richiede strumenti complessi e differenziati, che non possono che essere introdotti per via legislativa. Solo la legge consente una pluralità di interventi».

D’accordo. Traduca tutto questo in una scelta di voto. Sì o no?

«C’è un percorso logico da seguire, per arrivare alla risposta. Oggi sono un semplice cittadino, ma per me la proposta normativa più adeguata resta quella presentata al Parlamento dalla Cgil, per la quale abbiamo raccolto 5 milioni di firme. Data questa premessa, veniamo alle scelte possibili. Prima scelta, il no. Se dovessero prevalere i no all’estensione dell’articolo 18 nelle imprese con meno di 15 dipendenti, questo equivarrebbe di fatto alla negazione dell’esistenza del problema dell’estensione e della modulazione dei diritti: per me sarebbe un grave errore, perché quel problema esiste eccome. Seconda scelta, il sì. Se dovessero prevalere i sì, fallirebbe l’obiettivo per il quale mi sono battuto, cioè una nuova legge per l’estensione e la modulazione dei diritti: il sì non creerebbe alcun vuoto legislativo, del resto agli stessi promotori del referendum una nuova legge non è mai interessata, né l’hanno mai proposta. Ma il quadro normativo che ne discenderebbe sarebbe sostanzialmente inapplicabile: è noto a tutti che le condizioni organizzative e i rapporti di lavoro nelle piccole e piccolissime imprese sono oggettivamente diversi da quelle più grandi. Inoltre resterebbe irrisolta la questione delle tutele per il nuovo lavoro, quello più debole, rappresentato dai para-subordinati e dai collaboratori coordinati e continuativi».

Conclusione? Che farà il 15 giugno il cittadino Sergio Cofferati?

«Non andrò a votare».

Cioè fa come Craxi, e dice agli italiani "andate al mare"?

«Io non andrò al mare e non farò appelli all’astensione. La mia è una scelta personale, consapevole e attiva, e pienamente in linea con i diritti della Costituzione, che non per caso individua un quorum. Non voglio scoraggiare la partecipazione dei cittadini al voto. Agli italiani io non dico niente, ma so che i cittadini sanno scegliere, come hanno dimostrato in precedenti consultazioni referendarie: non votando quando hanno considerato irrilevante il quesito, o votando quando invece gli appariva significativo».

Quindi lei non condivide la scelta del suo successore Epifani, che ha attestato la Cgil sulla linea del sì?

«Ho troppo rispetto per l’autonomia dell’organizzazione alla quale sono iscritto, per formulare giudizi. Constato solo che la mia opinione è diversa».

Lei si rende conto che questi contorcimenti nascono dalla contraddizione della sua battaglia per l’articolo 18, inteso come "diritto assoluto di cittadinanza", e non come semplice "forma di tutela"? Bertinotti è partito da questa sua contraddizione, per tirare addosso al centrosinistra la sua bomba intelligente.

«Mi è chiaro l’intento di Bertinotti: dividere un fronte che era unito, ed era larghissimo. Quanto alla mia presunta contraddizione, resto convinto che l’articolo 18 sia un pilastro dal quale non si può prescindere, modulato sulla dimensione e l’organizzazione delle imprese: questo è giusto oggi come nel 1970, quando non a caso il legislatore fissò la soglia dei 15 dipendenti. E’ un diritto da declinare con forme opportune. La legge attuale riconosce, la proposta di legge della Cgil lo rafforza e lo rende universale, mentre il referendum lo cancella».

Ma fu lei che portò al Circo Massimo 3 milioni e mezzo di persone, per difendere quel diritto. Da domani lei avrà il plauso dei riformisti dell’Ulivo, ma correrà il rischio che molta, tra la sua gente, non capisca il suo "non voto", e lo consideri un tradimento rispetto alle battaglie di questi mesi.

«So che la mia scelta incontrerà dubbi e critiche. Ma correrò il rischio, perché la ritengo giusta e perché credo nell’etica delle responsabilità».

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«Espropriando i poteri di vigilanza della Banca d´Italia il governo ha in mente un’operazione bulgara, per portare anche il settore del credito sotto il suo totale controllo. Un governo che in materia di diritto societario non ha lavorato né per modernizzare il capitalismo italiano, né per migliorare la tutela del risparmiatore. E’ lo stesso esecutivo che interviene sul settore dell’informazione in pieno conflitto d’interessi, aziendale e patrimoniale, con il presidente del consiglio che non legge neppure le osservazioni del capo dello Stato e ignora le regole antitrust dell’Unione Europea». Guido Rossi un decennio fa dovette occuparsi del salvataggio Ferfin-Montedison: un crac da 28.000 miliardi di lire con sullo sfondo Tangentopoli, le spericolate piraterie finanziarie di Raul Gardini sulla Borsa di Chicago, il crollo industriale della chimica italiana. Oggi Guido Rossi osserva con preoccupazione che quella lezione non è servita, e che il capitalismo italiano non è migliorato.

Nel gigantesco "buco" Parmalat colpisce la sovrapposizione della finanza derivata e delle società offshore su un’azienda dal mestiere industriale molto semplice.

« Il vizio d’origine è quello di un capitalismo straccione, familiare o di Stato, che scopre tardivamente gli strumenti più sofisticati del capitalismo finanziario americano. Strumenti nati per coprire il rischio, e trasformati perversamente nella massima fonte di rischio. Quando questo capitalismo pre-moderno viene immesso nel circuito delle grandi banche italiane e straniere che giocano a vendere prodotti finanziari esotici e a incassare commissioni, il disastro è inevitabile. Purtroppo mi aspetto che ce ne siano altri».

Si evocano grandi scandali stranieri ? Enron in America, Vivendi in Francia, Ahold in Olanda ? quasi a dire: il male è universale, quindi non c’è una patologia italiana.

« Invece la differenza tra noi e loro è sostanziale. Enron, Vivendi, Ahold: nessuna era un’impresa a carattere familiare. L’inquinamento è ancora più pericoloso in un paese come l’Italia che non ha strutture finanziarie evolute, non ha regole né strumenti di controllo adeguati, mescola gli yogurt, i derivati, e le società offshore alle isole Cayman. I mali del capitalismo americano ed europeo non vanno certo sottovalutati, ma noi ne soffriamo anche di altri: siamo un paese che non cerca la modernità, ma annusa in fretta l’ultima moda, confondendo l’una con l’altra».

In fatto di conflitto d’interessi le nostre banche hanno appreso tutto il peggio da quelle americane. Si scopre che qualche istituto di credito italiano, dopo aver curato il collocamento dei famigerati bond Parmalat, li ha rifilati ai clienti-risparmiatori, ignari naturalmente dell’operazione-Parmalat.

« Su questi episodi vergognosi si gioca purtroppo tutta la credibilità del sistema bancario italiano. Alcuni istituti di credito paiono avere responsabilità gravissime, il risparmiatore ha ragione di sentirsi beffato e indifeso».

E allora è ineludibile la questione della vigilanza: dov’era la Banca d’Italia? Perché non ha visto nulla? A che cosa serve uno strumento come la centrale dei rischi, che è a disposizione della nostra banca centrale proprio per sorvegliare la posizione debitoria delle imprese?

« Non c’è dubbio che il governatore Fazio debba dare delle risposte con la massima trasparenza, soprattutto a fugare l’impressione che la Banca d’Italia si sia occupata molto dei giochi di alleanze, matrimoni e fusioni, cioè degli assetti di potere nel sistema creditizio italiano, e non abbastanza dell’integrità del sistema. Sono insufficienti gli strumenti a disposizione? Mancano del tutto? Oppure non sono stati adeguatamente utilizzati? Il risultato è che oggi noi abbiamo banche quasi ipertrofiche, più grandi delle nostre imprese industriali, gonfie di liquidità e di crediti inesigibili. Ma poi scoppia il caso-Parmalat e a cosa serve avere questi mastodonti bancari?».

Dunque è giusto indagare sulle responsabilità di tutti gli organi di controllo, dalla Consob alla Banca d’Italia, senza tabù?

« E’ doveroso, anche perché le mogli di Cesare debbono essere al di sopra di ogni sospetto. Purché la ricerca dei responsabili non diventi tuttavia una caccia al capro espiatorio. Questa è una crisi sistemica che richiede risposte alte, una azione che aggredisca le cause dell’arretratezza italiana. Purtroppo questo governo ha agito finora nella direzione opposta: la sua riforma del diritto societario, per esempio, ha allargato la possibilità di emettere titoli di ogni tipo. Si sono estese al mercato italiano le libertà finanziarie di sistemi avanzati come quello americano, senza rafforzare tutele e controlli, come invece questi sistemi hanno prontamente messo in atto. E’ chiaro che, abolito di fatto il reato di falso in bilancio e in assenza di qualsivoglia deterrenza, tutti in Italia si sentono ormai liberi di qualunque manipolazione. Per lo stesso reato il legislatore americano dopo il caso Enron ha portato la pena detentiva da cinque a vent’anni».

Il Financial Times ha ricordato che in fatto di società offshore, l’azienda che fa capo al presidente del Consiglio ha fatto scuola?

« Sì, è un bell’esempio davvero, dalle Bermuda alle Cayman. Perciò ho il forte sospetto che la volontà politica non sia quella di compiere una vera pulizia del sistema. L’attacco alla Banca d’Italia può infatti nascondere il progetto di abolire l’autorità indipendente per sostituirla con un organo che risponda di fatto al potere politico. Torneremmo indietro ai tempi in cui il sistema bancario veniva diretto da qualche ministero. E’ un’epoca che ricordo troppo bene per nutrire nostalgia di quelle soluzioni. Tanto più se a dirigere le banche deve essere un governo che sta seduto su un conflitto d’interessi gigantesco - come ha sottolineato lunedì Eugenio Scalfari - in una fase in cui il presidente del Consiglio concentra poteri senza eguali nelle democrazie occidentali, legifera tranquillamente in favore del proprio impero aziendale e sul proprio patrimonio familiare, e ignora platealmente le osservazioni del presidente della Repubblica su materie attinenti alla Costituzione».

Prima che Ciampi rifiutasse di firmare la legge Gasparri, lei in un’intervista a Repubblica aveva sottolineato che quella legge è contraria ai principi europei in materia di antitrust e pluralismo dell’informazione. Il capo dello Stato sembra condividere la sua valutazione. Ma ieri il commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti, è parso più cauto, quasi a indicare che il settore dell’informazione resta per lo più sotto la competenza dei governi nazionali.

« Le affermazioni del commissario Monti mi hanno sorpreso, anche perché solitamente le sue posizioni mi paiono condivisibili. In questo caso, invece, egli sembra aver trascurato le indicazioni tassative e precise della direttiva quadro del 2002/21. Da un lato essa definisce il pluralismo dell’informazione come un obiettivo di interesse generale. D’altra parte afferma che questo pluralismo va perseguito assicurando che vigano le condizioni di una concorrenza leale ed effettiva. Varrebbe la pena di citare la direttiva per intero, ma basti il solo "considerando" numero 25, che precisa che «la definizione di cui alla presente direttiva è equivalente alla nozione di posizione dominante enucleata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dal Tribunale di 1? grado delle Comunità Europee». Le regole dell’antitrust europeo, quindi, si devono applicare pienamente anche nel settore dell’informazione. Non è dunque un problema di forma né di ambiguità. Pluralismo televisivo significa allora rispetto della concorrenza».

Quindi lei resta del parere che alle obiezioni del presidente della Repubblica non si può rispondere con un’operazione di cosmesi, che lascerebbe immutata la posizione dominante nell’informazione televisiva in capo all’azienda di Silvio Berlusconi.

« Le osservazioni di Ciampi vanno lette molto sul serio. Non ci sono margini per elusioni, equivoci o furbizie. Nessuna cosmesi leggera può salvare una legge indifendibile come la Gasparri».

I TITOLI di prima pagina dei giornali di ieri erano molto eloquenti nella loro concisione; tutti, senza eccezioni, informavano i loro lettori del fatto più rilevante della giornata: il lavoro è diventato più flessibile. Attorno a questo evento - che con assai dubbio gusto il governo ha battezzato col nome di Marco Biagi - si è levato un coro di osanna, reciproche felicitazioni, battimani, richieste di bis che, sommate alla buona notizia del giorno precedente sul ribasso di mezzo punto del tasso ufficiale europeo e al fermo proposito di tutta la maggioranza di affrontare entro settembre il tema del taglio delle pensioni, ha fatto passare in seconda linea perfino l’eterna rissa sui processi Previti e sul lodo Berlusconi, fatto eccezionale che non accadeva da almeno un mese. Non c’è alcun motivo di stupirsi di questa quasi unanimità del coro mediatico (dico «quasi» poiché l’eccezione a conferma della regola l’ha data proprio Repubblica pubblicando un commento di Luciano Gallino, uno studioso di prim’ordine del mercato del lavoro, con un titolo "scandaloso" che suonava "L’occupazione usa e getta"): qui da noi la grande stampa nazionale e regionale e il monopolio televisivo Mediaset-Rai non sono altro che la protesi culturale, diciamo così, dei poteri forti; per cui una maggiore flessibilità del lavoro, un dilagare di figure contrattuali che avranno come conseguenza la polverizzazione del mercato del lavoro, lo sfarinamento delle rappresentanze sindacali e un’ondata di precariato diffuso a tutti i livelli e in tutte le dimensioni produttive, non possono che essere salutati come fenomeni altamente positivi e incoraggianti per le «magnifiche sorti e progressive» dell’azienda Italia.

Non un dubbio, non un «ma», non un attimo di esitazione ha mitigato l’entusiasmo dei coristi. Il ministro del Welfare si è addirittura arrischiato ad affermare che il decreto sulla flessibilità provocherà una potente spinta verso la stipula di contratti a tempo indeterminato, che è come sostenere che luglio sia il mese più freddo dell’anno. Il presidente della Confindustria dal canto suo ci ha informato gonfiando il petto per la soddisfazione che a causa di questa svolta tutta l’Europa ci invidia; una frase che richiama alla memoria il buon tempo antico quando i treni arrivavano in orario e il popolo armato di vanghe vinceva ogni anno la battaglia del grano sotto la stupefatta ammirazione degli stranieri. Quando sento dire che all’estero siamo invidiati, non so perché, ho la triste certezza che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in quello che stiamo facendo. Sarà così anche questa volta?

Giorni fa, conversando su questo giornale con Tommaso Padoa-Schioppa, affrontammo un tema che è al centro delle preoccupazioni di tutte le persone responsabili: il declino dell’economia italiana e le ragioni che lo determinano.

Il mio interlocutore, cui non manca né l’esperienza né la dottrina, sosteneva che lo sviluppo economico e sociale di una comunità si basa soprattutto sull’innovazione e sullo spirito imprenditoriale che ne valorizza gli esiti e ne diffonde i benefici. Quando manca la disposizione a innovare, gli stimoli alla crescita sono affidati a pratiche di basso profilo e di breve portanza: basso costo del lavoro, fiscalità massicciamente evasa, ripetute svalutazioni della moneta, livello elevato d’inflazione.

Questa via allo sviluppo incoraggia produzioni con basso valore aggiunto e non è più sostenibile in un mondo globale dove esisteranno sempre paesi enormemente più convenienti sul piano della fiscalità, del precariato, dei bassi salari e di un sistema di tutele a somma zero.

Le ragioni del declino italiano sono queste, concludeva Padoa- Schioppa: uno sviluppo che si affida allo sfruttamento, al sommerso, alla moneta facile, alle produzioni di bassa qualità, senza puntare sulla ricerca, sui nuovi prodotti, sulla qualità eccellente, sulla stabilità del cambio estero e della pubblica finanza.

Quando eravamo giovani chi studiava economia si cimentava con la teoria del commercio internazionale e dei costi comparati in un sistema di libero scambio, ma ho la sensazione che quel tipo di analisi sia caduto in desuetudine. Eppure mai come ora sarebbe necessario porsi il problema della divisione internazionale del lavoro e della combinazione ottimale dei fattori della produzione.

In questo quadro la flessibilità del lavoro aiuta, a patto che non trasformi la forza-lavoro in una massa di sradicati, che non faccia a pezzi i percorsi professionali e le relative carriere, che non lasci il singolo prestatore d’opera a tu per tu con l’ufficio legale d’una grande impresa o d’un intermediario o d’un caporale. È vero, Marco Biagi ci credeva alla bontà non solo economica ma sociale d’un mercato del lavoro modellato sulle richieste d’una impresa moderna che certo, e per fortuna, non è più quella delle catene di montaggio. Credeva che quel modello sofisticato sviluppasse dentro di sé gli anticorpi che avrebbero eliminato i molti virus insiti nella flessibilità in entrata e in uscita.

A volte nella vita si scommette e questa è una scommessa delle più azzardate. Avrebbe dovuto almeno essere accompagnata da un completo sistema di tutele e di ammortizzatori sociali, ma non ce n’è neanche l’ombra. La verità è che se le aziende faranno largo ricorso all’occupazione «usa e getta», la presenza pubblica nei corsi di formazione, nell’istituzione del salario minimo sociale, nel sistema della previdenza che copra i periodi in cui il lavoratore cessa di essere «usato» e viene invece «gettato», dovrebbe fortemente aumentare ed essere sostenuta da risorse adeguate. Ma quelle risorse non ci sono e per il poco che ci sono vengono allocate altrove.

La conseguenza è che la flessibilità disegnata dal decreto delega di Maroni è una flessibilità da pezzenti (il termine forse è un po’ crudo ma corrisponde alla realtà) della quale usufruiranno soprattutto gli immigrati e quella parte dei lavoratori nazionali che accetteranno di farsi emigrati in patria.

Crescerà una generazione furba e dura, egoista e ansiosa, nevrotica e malvissuta. Se ne vedono già le folte avanguardie, America in testa. Qui da noi siamo appena al principio.

***

Continuo a domandarmi da qualche giorno come mai nel coro mediatico dei grandi network e della grande stampa d’informazione questi temi non siano debitamente affrontati. Naturalmente non mancano le voci che sfuggono al coro e che, se non altro per dovere deontologico di completezza, vengono registrate. Ma non avviene quasi mai che attorno a esse si sviluppi un’ipotesi alternativa, un’intensa campagna di stampa, insomma un "contro-coro" di pari forza di quello abituale.

Mi ponevo questa domanda anche sollecitato da un fatto né secondario né banale, accaduto proprio nelle scorse settimane: le dimissioni di Ferruccio De Bortoli dalla direzione del Corriere della Sera. Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle «ragioni private», con la stanchezza d’una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole.

Probabilmente De Bortoli ha voluto rendere un ultimo servigio al suo giornale coprendo una proprietà meno compatta di quanto sia voluta apparire; probabilmente una parte di quella proprietà ha deciso, d’accordo col dimissionario, di giocare d’anticipo e insediare un successore potabile quando ancora era possibile farlo: si tratta di ipotesi verosimili, che restano tali e sulla soglia delle quali ci si deve obbligatoriamente arrestare.

Ma resta un problema: perché mai un governo di centrodestra, che si dipinge in ogni occasione come il corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell’equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino di un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?

Un governo liberal-democratico di centrodestra avrebbe dovuto essere ben lieto che ci sia in Italia un giornale come il Corriere. Quante volte quel giornale ha sostenuto in questi due anni ma anche prima dal '94 in poi, le iniziative del Polo, del suo leader, dei suoi luogotenenti, e quante volte - dovendo segnalarne gli errori più macroscopici - non ha contestualmente evocato anche gli errori della sinistra, quasi che schierarsi senza riserve e sia pure con valide ragioni significasse abdicare all’ossessione dell’equidistanza come valore in sé?

Invece no. Il direttore del Corriere si sarà pur dimesso per ragioni private, ma resta il fatto che il presidente del Consiglio era stufo - e l’aveva pubblicamente dichiarato - di vederlo ancora a quel posto. Fatto: De Bortoli non c’è più, andrà a presiedere i libri della Rizzoli.

Bisognerebbe ragionare a lungo sul "terzismo" del Corriere della Sera ma questo non è il luogo e lo spazio è tiranno. Qualche cosa però si può dire.

Come ogni grande giornale, tanto più quando la sua storia sia iniziata 127 anni fa, il Corriere ha un suo Dna, una sua identità, dei valori ai quali dà voce e immagine. Quei valori sono piuttosto liberali che democratici; del resto il personaggio-chiave che sta all’origine di questa identità si chiamava Luigi Albertini, liberale conservatore, grande organizzatore editoriale, espressione diretta della borghesia imprenditoriale lombarda.

L’impronta è quella e ad essa il Corriere ha sempre tenuto fede, perfino sotto il fascismo, quando Albertini era ormai stato relegato nella sua Torrimpietra: i valori della borghesia e dell’impresa, liberali finché si può, grandi borghesi sempre e comunque.

Chi conosca bene la storia di quel giornale sa che la sola vera rottura di questa linea di «basso continuo» la fece nel 1972 Piero Ottone e sapete come? Pubblicò un’inchiesta molto ben fatta e del tutto inusitata, anzi inaudita, di Giuliano Zincone sulle morti bianche, cioè sugli incidenti mortali che colpivano con grande frequenza i lavoratori a causa delle scarsissime provvidenze sulla sicurezza del lavoro.

Inaudito: Ottone affrontava per la prima volta e senza remore un argomento tabù. Il suo Corriere fu diverso dalla serialità; "terzista" anche lui in politica, ma aperto alla verità anche a costo dello scandalo (mi permetto di ricordare che nelle commemorazioni storiche che quel giornale fa di se stesso Ottone non viene quasi nominato; Indro Montanelli, non potendo più sopportare la linea ottoniana, dette poi vita nel '75 ad una clamorosa scissione e fondò il Giornale).

Lo scandalo Ottone ebbe vita breve: fu soffocato quando la P2 di Tassan Din si impadronì della proprietà. Poi, passata quella tempesta, il Corriere tornò nel solco del giornale grande-borghese, liberale quando l’evidenza lo impone. "Terzista"? Su molte cose sì, sui valori dell’impresa nell’accezione lombarda del termine, no: lì il Corriere è schierato. Il salario visto come variabile indipendente è una bestemmia, il profitto no, il profitto è la variabile cui tutto il resto deve modellarsi.

Il tradimento di De Bortoli, i cui valori di riferimento sono simili a quelli del centrodestra, è stato di voler essere anche liberale, sulla riforma della giustizia, sui processi Previti, sulla guerra irachena.

«On n’est trahi que par les siens». Per questo, credo, ha fatto fagotto. Ha fatto un bel giornale. Auguri al suo successore.

Ad alcuni lettori queste mie riflessioni sul Corriere della Sera potranno sembrare una digressione, ma se leggeranno con attenzione si accorgeranno che il tema è strettamente pertinente a quello del coro intonato da 48 ore per celebrare la nuova flessibilità del lavoro. Ce la invidiano anche all’estero, parola di D’Amato. Che si vuole di più?

Berlusconi è stato sconfitto due settimane fa, e ha fatto finta di nulla. Ha perfino tentato di spacciare la sconfitta per una vittoria. Berlusconi è stato sconfitto ieri con un sonoro ko, e non potrà fare finta di niente. Si arrampicherà sugli specchi, ma le cifre sono troppo eloquenti per essere manipolate anche da chi controlla in modo totalitario l’intero sistema televisivo.

Berlusconi cercherà la rivincita tra una settimana. Nel giorno del referendum inviterà gli italiani ad andare al mare, come già fece anni fa il suo compare Craxi. Se riuscirà ad impedire che scatti il quorum, si venderà il risultato come un plebiscito a suo vantaggio, dichiarerà che solo quello è il vero voto politico, che quelle di ieri e di due settimane fa erano solo consultazioni amministrative, locali, insignificanti.

Ecco un buon motivo, che da solo basta e avanza, per andare tutti a votare domenica prossima, e con un rotondo “sì” infliggere a Berlusconi la terza e irreversibile sconfitta.

So benissimo quante perplessità e divisioni questo referendum ha sollevato nel centro-sinistra, tra i partiti e tra i cittadini. Sono tra coloro che hanno considerato sbagliato lanciarlo, sono tra coloro che continuano a pensare che il problema del precariato, e della mancanza di diritti che accompagna questa condizione sociale di insicurezza, non si risolve con un referendum abrogativo ma solo con una legge articolata, capace di affrontare una situazione alquanto complicata.

Tutto vero, anzi verissimo. Ma ora, piaccia o meno, il senso del voto al referendum di domenica prossima è innanzitutto un altro, semplice e brutale: “vuoi tu sconfiggere Berlusconi per la terza volta in meno di un mese, dando al suo regime un colpo tanto democratico quanto micidiale, o preferisci dargli, dopo due sconfitte, l’ossigeno di un risultato che potrà spacciare come una sua vittoria?”

Questo è il vero quesito, quali che siano le parole scritte sulla scheda. Succede infatti per i referendum quello che succede nella vita reale: la stessa identica sequenza di parole può assumere significati diversissimi e addirittura opposti, a seconda di chi la pronunci e dal contesto in cui venga comunicata. Facciamo un esempio un tantino volgare: l’espressione “brutto stronzo!”. Sembra inequivocabile. Eppure, pronunciata da un amico nei confronti di un amico che non vedeva da tempo, che credeva anzi gravemente malato, che ritrova per caso e improvvisamente in salute pimpante, detta gettandogli le braccia al collo (e seguita da “ ci hai fatto morire di paura” eccetera), diventa una frase assolutamente affettuosa, di sorpresa felice, di amicizia talmente forte che può capovolgere l’ingiuria nel suo opposto. Detta da un automobilista che scende dalla vettura dopo un tamponamento, con un crick in mano, ha un significato inequivocabilmente diverso. Eppure le parole sono le stesse.

Così per il referendum di domenica prossima. Ecco perché, al di là di quello che si pensi delle parole scritte sulla scheda, e della riforma dell’articolo 18, e delle leggi necessarie per affrontare il problema del lavoro flessibile e precario, domenica bisogna andare a votare e votare “sì”. Perché il significato reale, dato dal contesto delle due sconfitte berlusconiane e degli inviti governativi, che si faranno pressanti (magari attraverso un assordante silenzio dei mass media sul referendum stesso) per “andare al mare”, è ormai quello che abbiamo sopra richiamato: ne hai abbastanza di Berlusconi o te lo vuoi sciroppare ancora a lungo?

Ecco perché spero che i tanti che avevano deciso di non votare decidano in questo nuovo contesto per il “sì”. Penso agli uomini che più stimo dell’opposizione nella società civile, ai protagonisti delle lotte di questo anno e mezzo (due nomi, per riassumere i tantissimi altri: Sergio Cofferati a Nanni Moretti), che con la loro generosità hanno contribuito non poco ai successi elettorali di ieri e di due settimane fa. Ma penso anche ai partiti del centro-sinistra, e alle loro decisioni ufficiali contrarie al “sì” per ragioni anche di peso, che ora nel nuovo contesto sarebbero però autolesionistiche. La loro vittoria elettorale finirebbe dimezzata, inevitabilmente, dal non raggiungimento del quorum domenica prossima, e dalla grancassa che Berlusconi e le sue cheerleader massmediatiche comincerebbero immediatamente a suonare.

Cambiare decisione, in politica, è sempre difficile. Sembra l’ammissione di un errore. Costa all’orgoglio. Può apparire una debolezza. Ma cambiare decisione perchè è cambiato il contesto è solo scelta di saggezza e di coraggio. Non sarà un regalo a Bertinotti e ai promotori del referendum (che con la loro scelta hanno diviso la sinistra): sarà un regalo a tutta l’opposizione. E soprattutto, costituendo una nuova sconfitta per Berlusconi, sarà un regalo fatto all’Italia.

Paolo Flores d’Arcais

Sulle prime pagine dei giornali europei si continuano a leggere titoli come questo dell'Indipendent: «Europa unita nel disgusto, mentre Berlusconi sale sul trono dell'Ue tra le proteste dei Verdi» e lui attacca la sinistra italiana che li "sobilla". Che dire? «Ho letto sulle agenzie le dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Mi paiono francamente un pessimo modo di cominciare il semestre di Presidenza italiana», risponde Piero Fassino a commento delle dichiarazioni di Berlusconi alla radio francese "Europe 1".

«Anzichè continuare a fare la vittima, Berlusconi dovrebbe chiedersi perchè testate giornalistiche prestigiose di ogni paese europeo sollevino dubbi e diffidino di lui - sottolinea il segretario dei Ds a Bologna - probabilmente perchè in nessun paese europeo un presidente del Consiglio avrebbe stravolto continuamente le leggi per assicurasi un' impunità».

Più mesto è il commento che si sente a via Nazionale, sede dei Democratici di sinistra, dove l'intervista aggressiva del premier viene bollata come espressione del «solito, desolante Berlusconi». L'irritazione nei Ds comunque non è solo per le accuse del Cavaliere nei confronti della magistratura. Berlusconi risponde in questo modo, di fatto cioè con una chiusura, alle aperture del segretario Fassino in un'intervista al "Corriere della Sera", in cui assicurava l'impegno dell' opposizione affinchè la presidenza italiana potesse «avere successo». Fassino, comunque, invitava il premier a mutare atteggiamento, diventando più europeista.

Prima della presa di posizione del segretario della Quercia, le reazioni sono state affidate all' inizio ad Anna Finocchiaro, poi ai capigruppo di Camera e Senato, Luciano Violante e Gavino Angius, mentre anche Massimo D'Alema, da Camporlecchio, stigmatizzava l'intervista del premier. La responsabile giustizia dei Ds ha parlato di dichiarazioni «gravi e inopportune, tanto più se rilasciate alla vigilia del semestre», mentre Luciano Violante e Gavino Angius hanno sottolineato come l'intervista a Europe 1, sia un «pessimo biglietto da visita dell' Italia in Europa».

A Via Nazionale, i collaboratori di Fassino assicurano che i Ds manterranno una posizione responsabile nel periodo di presidenza italiana, sostenendo che «hanno a cuore» il ruolo dell' Italia «nonostante Berlusconi» affinchè non faccia una pessima figura. Gloria Buffo, della minoranza della Quercia, però rivolge una critica a Fassino perchè, a suo modo, si era illuso su un atteggiamento diverso del presidente del Consiglio. «Non mi stupiscono - dice Gloria Buffo - le dichiarazioni del Berlusconi di oggi che confermano il Berlusconi di ieri e dell' altro ieri. Per questo, non mi sono ritrovata nell' intervista al Corriere». Violante parla di «parole irresponsabili». I capigruppo dell'Ulivo hanno firmato una dura dichiarazione congiunta che prende il largo rispetto all'ipotesi di una mozione di intesa con la maggioranza per il semestre europeo. Peppino Caldarola sostiene che adesso «in Europa Berlusconi ci va da solo», in compagnia del «discredito internazionale di cui è circondato, discredito nelle cancellerie e non solo sugli organi di stampa e che è solo opera sua».

Chi poi replica all'intervista di Berlusconi con toni ancora più seccati è il segretario generale del "sindacato" dei magistrati, Carlo Fucci dell'Anm. «La continua delegittimazione della magistratura è un danno per il nostro Paese - dice -. Sia perchè colpisce un'istituzione che ha servito sempre con lealtà lo Stato, sia perchè la magistratura, per rendere questo servizio, ha pagato anche tributi non indifferenti in termini di vite umane». Nel «respingere generiche accuse di politicizzazione -prosegue Fucci - ribadisco che i magistrati italiani vogliono leriforme necessarie per migliorare il nostro sistema giudiziario, ma non potranno mai accettare proposte che mirino alla sterilizzazione della funzione giurisdizionale. Il paese ha bisogno di credere in tutte le istituzioni- conclude Fucci - eil clima che si continua ad alimentare, invece, va nel senso opposto.

Antonio Di Pietro, poi, afferma che le dichiarazioni di Berlusconi alla radio francese contro la magistratura e le istituzioni italiane lo umiliano «come cittadino italiano e come parlamentare europeo». «Noi dell'Italia dei Valori faremo il possibile affinchè i nostri partner europei possano considerare l'Italia meglio di quel che appare dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio». Di Pietro osserva anche: «Grazie a Dio, l'Italia non è fatta solo da quello sconsiderato di Berlusconi, ma anche da milioni di altri italiani che col loro lavoro, la loro professionalità e la loro dignità possono dare del nostro Paese un'immagine meno eversiva di quella che dà il nostro presidente del Consiglio».

"il manifesto", 2 luglio 2003

IL SILENZIO È D'ORO

Antonio Tabucchi

Ci sono momenti nella vita e nella storia in cui un decoroso silenzio rivela tutta la statura morale della persona.

Da quando Berlusconi ha formato il suo governo, molti sono stati i momenti in cui il decoroso silenzio è stato superiore alle offese e alle volgarità. «Questo è il futuro ministro delle riforme istituzionali», disse Berlusconi a Ciampi presentandogli Umberto Bossi. Ciampi reagì con decoroso silenzio.

Nei momenti di grave tensione sociale che durante il G8 di Genova scatenarono reazioni bestiali della polizia e provocarono un morto, Berlusconi riuscì a fare un discorso in tv alla nazione con la garante compagnia di Ciampi. Ciampi non rifiutò, accettò con decoroso silenzio.

La sera del 22 marzo 2002, alla vigilia della più imponente manifestazione sindacale del dopoguerra, Berlusconi, impersonando il ruolo di capo di stato e impossessandosi delle reti della Rai, rivolse un discorso al Paese nel quale affermò che la responsabilità dell'assassinio del professor Marco Biagi era del maggior sindacato italiano che convocava quella manifestazione. Ciampi intanto, in decoroso silenzio, quella sera si recava a far visita alla famiglia del professore assassinato.

Quando, durante una riunione di tutti gli ambasciatori italiani convocata da Berlusconi di fronte a telecamere e giornalisti, Berlusconi trattò con un inusuale «tu» Ciampi, lasciando cosi intendere che fra di loro esisteva una strana confidenza, Ciampi rispose con un decoroso silenzio.

Il 30 giugno ultimo scorso, in un'intervista alla radio francese Europe 1, Berlusconi ha detto chiaramente che la legge sull'immunità delle prime cinque cariche dello Stato, grazie alla quale non sarà giudicato dei gravissimi reati di cui è imputato, lui non la voleva: l'ha voluta Ciampi. La frase è allarmante. E ancora più allarmante (e sprezzante) è che sia seguita da un'ambigua rettifica del portavoce di Berlusconi, come un padrone che passa sputando e fa pulire per terra dal suo maggiordomo. Forse Ciampi anche questa volta reagirà con il suo decoroso silenzio? Chi potrebbe mai credere che egli abbia qualcosa da temere? È vero, alcuni giorni prima che egli firmasse la legge, un ex-capo dello stato, il senatore Francesco Cossiga, aveva scritto pesanti parole sul giornale l'Unità, definendo tale legge «Lodo Ciampi-Berlusconi». Parole a cui era seguito un mortale silenzio.

È anche vero che Ciampi ha firmato a spron battuto una legge con forti sospetti di anticostituzionalità e ancora in esame alla Consulta. Ma questo cosa vuol dire? Vuol forse dire che dobbiamo credere alle parole di una magistrato italiano che affermò che in Italia tutti sono ricattabili? Vuol forse dire che dobbiamo credere a Berlusconi, che cioè egli impone le leggi a Ciampi, se le fa firmare e poi gliene attribuisce la responsabilità? Ciampi sarebbe dunque un pupazzo nelle mani di Berlusconi? La questione è cruciale per la democrazia italiana, ma forse per la classe politica è meglio che gli italiani non se la pongano. Sarà risolta forse in decoroso silenzio? Da ciò dedurremo che la costituzione italiana ha un solido garante: il silenzio.

"il manifesto", 4 luglio 2003SIGNOR PRESIDENTEAntonio Tabucchi

Illustre Presidente della Repubblica Italiana, non è la prima volta che Le pongo questioni. Lei lo ricorderà, anche se di norma non risponde. Cominciai con una Sua frase, secondo me assai infelice, di comprensione verso i cosiddetti «ragazzi di Salò». L'Italia, come è noto, non ha mai fatto né pulizia né ammenda, neppure simbolica, come la Francia e la Germania, del proprio sordido passato; e infatti oggi nell'attuale governo ci sono segretari o sottosegretari ex-repubblichini (fucilatori?) che ho sentito pubblicamente vantare nei Suoi confronti amicizia e confidenza. A me non piace. A Lei piace?

Lei, che si dice abbia fatto la Resistenza, a tali questioni come dicevo non risponde. Ma, per usare una formula di moda oggi in Italia, «mi consenta» di insistere. Io sono un cittadino e Lei un presidente della Repubblica: interpellare il proprio presidente in una democrazia è cosa normale, almeno finché essa esiste. E Lei mi perdonerà il disturbo: se si è assunto l'onere di diventare presidente della Repubblica in una congiuntura storica come quella attuale, alla sua venerabile età, senza nessuna carriera politica alle spalle, doveva proprio essere convinto del grave compito che si assumeva. Il Suo alto incarico, anche se in Italia vorrebbero farLa vivere in un empireo corrispondente a quello del Papa dove la parola non è discutibile essendo dogma, prevede in una democrazia normale dei seccatori come me.

La democrazia significa anche reciprocità: Lei è il garante della mia Costituzione, io Gliene chiedo conto. E dunque a mio modo divento garante di ciò che Lei deve garantire. Altrimenti,

come diceva Paul Celan, chi testimonierebbe il testimone? Lei ha funzione di garante. Perciò non posso ritenerLa estranea a ciò che sta succedendo nel mio Paese. A differenza di tutti coloro che vedono in Berlusconi l'unico protagonista di una inquietante corrosione delle regole democratiche, io debbo constatare che ciò avviene anche perché Lei firma. Perché Lei consente, Presidente. E senza il Suo consenso una grande parte di ciò che ha fatto il governo Berlusconi non esisterebbe. La Sua cosiddetta «moral suasion», secondo la definizione che corre in Italia, ha dato i frutti che abbiamo sotto gli occhi.

L'onorevole Berlusconi il 2 luglio ha assunto la presidenza del semestre italiano all'Unione Europea. Vi arriva illibato, reso profumato da questa legge sull'immunità che lo protegge dai gravi reati perseguiti da un tribunale della Repubblica e che Lei prontamente ha firmato. E che non si sa se voluta da lui o da Lei (a una radio francese l'onorevole Berlusconi ha affermato che questa legge l'ha voluta proprio Lei, Presidente, eventualmente spiegatevi fra di voi).

Secondo Lei Berlusconi dovrebbe far fare bella figura all'Italia. Un tipo come Berlusconi, che viene da lontano, sa come cavarsela in certe situazioni. Conosciamo la sua biografia.

E infatti se l'è cavata come uno che cantava canzonette e poi è diventato presidente del consiglio. Non mi dispiace affatto, illustre Presidente, che i Suoi sforzi per farci fare «buona figura» grazie a Berlusconi abbiano avuto un esito così disastroso. Berlusconi nell'assumere la presidenza semestrale per l'Italia dell'Unione Europea si è espresso con una piazzata, peggio di un sensale in una fiera di paese. E con il fine senso storico che lo contraddistingue, ha evocato Auschwitz al deputato tedesco Schulz che si era permesso di ricordargli una regola vigente in tutta l'Europa: che la legge è uguale per tutti. Fatto che solo in Italia signor presidente, è del tutto secondario, come del resto la Sua recente firma a tale legge attesta.

Evidentemente nel suo discorso da statista il cavalier Berlusconi era forte del fatto che a Auschwitz l'Italia ha dato solo un piccolo contributo (circa 2.000 ebrei italiani gasati, se non mi sbaglio) grazie alle leggi razziali che Vittorio Emanuele III firmò prontamente al cavalier Mussolini, come tutte le altre che prontamente gli firmava. Lei che ha fatto la Resistenza queste cose Le saprà meglio di me. Altrimenti glieLe avranno raccontate gli eredi di Vittorio Emanuele III che ha recentemente ricevuto in un solenne cocktail offerto al Quirinale (mi scusi se qui abbasso il livello, illustre Presidente della Repubblica Italiana: lo sa che i soldi con i quali Lei offre i ricevimenti ai Savoia sono anche miei, e di tutti i cittadini italiani contribuenti?).

Berlusconi ci va giù duro, evidentemente ha le spalle coperte. E non solo da un'onorata società che lo sostiene, ma a livello mondiale. È entrato nella nostra Unione Europea come certi kamikaze che entrano in un autobus indossando una cintura di tritolo. Le chiedo concludendo: ma per chi lavora Berlusconi? Lei, che mi dicono europeista convinto, non se lo è ancora chiesto? Essere presidente della Repubblica in un paese come l'Italia, cerniera del Mediterraneo e terreno ambito da anni da potenze straniere che vi lavorano per cambiare gli equilibri del mondo, non è una sinecura come chi si occupa delle ortensie del proprio giardino dopo essere andato in pensione. Cordialmente.

PS Le scrivo questa lettera sul giornale il manifesto, perché è una cooperativa. E finché l'onorevole Berlusconi non Le presenterà da firmare una legge che abolisce le cooperative è un giornale che continua a rappresentare la stampa libera. O quello che ne resta. Cosa di cui dobbiamo ringraziare anche Lei.

A scommettere al buio sulla qualità dei rapporti tra la sinistra italiana e Rupert Murdoch, detto lo Squalo, patron di Sky oggi all'esordio, magnate australiano delle telecomunicazioni, editore dell'ultradestra repubblicana negli States (Fox News), amico e socio di Berlusconi, ci sono ottime probabilità di perdere la puntata. Si potrebbe scoprire infatti che la sinistra attende l'arrivo non di un colonizzatore al servizio dell'amico premier, ma di una potenziale risorsa contro la sclerosi del sistema italiano. Certo, nessuno compra a scatola chiusa e le attese sono alte: «Ci aspettiamo - spiega Roberto Cuillo, portavoce di Piero Fassino - che Sky si dimostri voce indipendente e rispettosa del pluralismo, affrontando l'informazione politica con piglio anglosassone. Non potremmo tollerare la presenza di un clone di Mediaset su un mercato come quello italiano». Non è poco, ma non è neanche chiedere la luna. Questo è in fondo quanto Tom Mockbridge, amministratore delegato di Sky News e braccio destro di Murdoch, assicurò a Fassino nel corso di un incontro riservato avvenuto a ridosso dell'ultima visita italiana del tycoon, nel febbraio scorso. Nel corso di quel colloquio, presenti anche il responsabile Comunicazione della Quercia Fabrizio Morri e l'allora capo di Stream News Tullio Camiglieri, Mockbridge garantì al segretario ds che i rapporti tra Berlusconi e Murdoch non avrebbero influito sulla linea editoriale del canale all news e degli altri spazi di informazione. L'ex giornalista neozelandese assicurò anche la volontà di fare vera concorrenza investendo su prodotti realizzati in Italia. Lì si sono poste le basi per un rapporto inaspettato: «Verso Murdoch - dicono al Botteghino - non abbiamo alcun pregiudizio. Sarebbe un grave errore pensare che arrivi in Italia come braccio armato di Berlusconi. E' una previsione che non riflette la realtà. Al contrario: Sky può sbloccare il duopolio e dare un grosso dispiacere al Cavaliere». Secondo le fonti di via Nazionale, le relazioni personali o gli orientamenti politici del magnate significano poco o nulla: «Murdoch - si dice - è senz'altro editore di destra, ma capace ovunque vada di sentire se e quando il vento sta per cambiare. In Inghilterra, dopo aver spalleggiato per un decennio le politiche della signora Thathcer, nel 1996 non esitò a passare dalla parte di Tony Blair. Murdoch non incollerà le proprie sorti a quelle di Berlusconi. Sa che non può permettersi di rinunciare a un rapporto con l'altra metà della classe dirigente del paese». Tantomeno Murdoch vuol rinunciare alla metà del pubblico. La spiegazione è sin troppo semplice: «Tutte le indagini di mercato dicono che l'elettorato di centrosinistra, ceto medio e laureati, è il target privilegiato delle aziende che investono in pubblicità». C'è di più: i rapporti sono così orientati al bello che i Ds non escludono addirittura delle forme di collaborazione con Sky. La Quercia ha infatti necessità di dare seguito al progetto di canale satellitare che esordirà coprendo la Festa nazionale dell'Unità di Bologna. Spiega una autorevole fonte del Botteghino: «Non abbiamo ancora deciso come proseguire le trasmissioni. Ma un'idea porrebbe essere quella di sfruttare il know-how e la disponibilità di accesso di Sky per offrire sulla loro piattaforma i nostri contenuti». Insomma, più pubblico e meno problemi tecnici: «Piuttosto che costringere gli utenti a cercare la nostra banda di trasmissione, potremmo appoggiarci a uno dei loro canali offrendo la copertura di eventi come convegni, manifestazioni, congressi».

«Fermatevi a riflettere». L’appello, rivolto ai promotori del referendum per l’estensione dell’articolo 18, è di Sergio Cofferati. Ed è un appello preoccupato. Per quello che potrà accadere sul piano dei rapporti politici, nella sinistra e nel sindacato. E per quello che potrà accadere sul terreno stesso dei diritti. Perché una cosa non è in discussione: l’obiettivo finale. «Noi - dice l’ex leader della Cgil a Massa Marittima, dove si celebra il centenario della nascita del sindacato dei minatori - dobbiamo lavorare per dare garanzie alle persone che non le hanno». Tanto che - sottolinea tra gli applausi - «bene ha fatto la Cgil a promuovere la raccolta di firme su una legge di iniziativa popolare per riformare gli ammortizzatori sociali e dare prospettive a chi non ne ha». Ma la consultazione, quella, potrebbe complicare le cose.

«Ritengo che il referendum - dice Cofferati - sia un errore politico, lo credo fermamente». Non è questione di buona fede. «La bontà delle intenzioni dei proponenti è fuori discussione». Il punto è un’altro. Il referendum «è un atto che rischia di dividere ciò che con tanta fatica abbiamo progressivamente unificato nel corso di questi mesi».

L’alternativa, allora, è quella già annunciata: la legge. Anche se «il percorso legislativo è più difficile e faticoso di quello referendario» che è invece più rapido. «Ho speso un bel po’ della mia energia - afferma l’ex leader della Cgil - per convincere molti riottosi che il tema dei diritti è fondamentale in questo Paese e che la loro estensione è importante. Ma con la stessa determinazione credo di poter dire che la via più efficace sia quella dell’atto legislativo». E la stessa difficoltà della strada potrebbe rivelarsi utile. «Se percorsa con convinzione da tutti - spiega - rappresenterebbe il primo atto che ci permetterebbe di unificare il nostro fronte e di arrivare con tutta probabilità a risultati che oggi appaiono a molti insperati. Quando abbiamo cominciato in splendida solitudine la battaglia per i diritti molti se ne sono accorti strada facendo». Conclusione, niente da rimproverare a nessuno, ma cercare di stare insieme e, insieme, «fare un passo avanti, presupposto per poterne fare un altro domani nella direzione giusta». Ogni ipotetica fuga in avanti, insomma - conclude Cofferati - ogni atto generoso, che però non determina unità rischia di essere paradossalmente un errore.

Anche Vincenzo Vita, portavoce della sinistra Ds, è per la via legislativa. «Sarebbe un errore - dice - rassegnarsi all’eventuale impossibilità di varare una legge che raccolga la sostanza del quesito referendario».

Sul versante opposto, quello degli imprenditori, che l’articolo 18, specie negli ultimi tempi, l’hanno visto come fumo negli occhi, ieri è sceso in campo Antonio D’Amato. Per il presidente di Confindustria il risultato del referendum - «che difficilmente sarà evitabile» - dovrebbe essere scontato. «Non credo sia pensabile - spiega - portare l’Italia indietro, ai tempi del Medioevo». Anche se non dice quale Medioevo. Visto che quello conosciuto da tutti non brillava certo per estensione e qualità dei diritti. Secondo D’Amato, comunque, con il referendum si è aperta una questione «che mette in campo due visioni completamente diverse della società e del mondo del lavoro. Da una parte un estremo di rigidità, direi medioevale, e con il rischio di mortificare ogni possibilità di competere, soprattutto per le piccole imprese. Dall’altra, una visione più riformista che cerca di dare spazi maggiori per la crescita dell’occupazione, dello sviluppo e del lavoro emerso». Conclusione. L’iniziativa sull’articolo 18, per il numero uno di viale dell’Astronomia, è «una vera provocazione fatta a sinistra, che mette in luce le contraddizioni della sinistra alle quali però la parte migliore della sinistra sta rispondendo con uno scatto di maggior pragmatismo e minor ideologismo, schierandosi per il “no” con evidente buon senso».

In sostanza, par di capire, dichiarazioni che suonano come un “no” ad ogni disponibilità a studiare soluzioni, legislative, alternative. Per le quali, a sinistra, già si comincia ad entrare nel merito. Da chi (è il caso della Uil, dell’ex segretario Cisl, Pierre Carniti, del giuslavorista Pietro Ichino) vedrebbe con favore il modello tedesco - che demanda al giudice il potere di dirimere le controversie in materia di licenziamento - a chi (è il caso del responsabile lavoro Ds, Cesare Damiano) quel modello non vede invece con particolare favore. E pensa a soluzioni diverse. A chi (è il caso dell’ex ministro, Tizano Treu, Margherita) sull’articolo 18 una proposta di legge l’ha già presentata.

Ieri intanto, a Torino, è stato costituito il primo comitato provinciale per il “sì”.

Le discussioni sulla grazia a Sofri, riaperte dall’articolo di Stefano Folli (20 luglio) hanno riacceso quelle su tante ferite non ancora rimarginate del nostro passato prossimo e hanno fatto risuonare una toccante, ampollosa e ambigua parola, riconciliazione. Come il direttore del Corriere e molti altri, credo che a Sofri possa e debba essere concessa la grazia, che non implica necessariamente la convinzione della sua innocenza e non esclude il dissenso o la disistima nei confronti di ciò che scriveva in quel sanguinoso ieri o di ciò che scrive nel melmoso oggi. Non è certo un maestro, né cattivo né buono, piuttosto uno scolaro con una supponenza da primo della classe, ma si è comportato esemplarmente nella sua pesante esistenza di detenuto e ha esemplarmente rifiutato la possibilità di essere illegalmente libero. Colpevole o innocente, ha scontato una dura pena e sarebbe giusto che gli venisse concessa la libertà, che non costituirebbe un pericolo per nessuno.

La famiglia Calabresi ha dimostrato nei suoi riguardi una magnanimità e una serenità che sono difficilissime in chi è stato straziato da una feroce violenza e attestano una rara umanità. In linea generale, tuttavia, la grazia - nei confronti di chiunque - dovrebbe prescindere dal perdono dei familiari della vittima, un arcaico residuo tribale della barbara confusione tra diritto e legami di sangue. La tragedia greca ha già rappresentato 2.500 anni fa la dolorosa, luminosa ascesa dello spirito umano dall’oscura legge del clan a quella universale dei cittadini e della ragione. La famiglia ama, soffre, gioisce - tutte cose umanamente più importanti del codice - ma non può emettere sentenze né influire sulle sentenze. Ci possono essere famiglie sensibili, affettuose, brutali, di sentimenti elevati o crudeli, distrutte dal dolore per la perdita di un loro caro o quasi indifferenti a tale lutto; non è dal loro stato d’animo che può dipendere un provvedimento di legge. La grazia non è il perdono, cosa altissima ma diversa; viene concessa dal capo dello Stato, della comunità di cittadini legati da un libero reciproco patto e non dalla parentela.

A parte la grazia, le sentenze vanno valutate prescindendo da simpatie o antipatie personali e ideologiche, diversamente da coloro che accettano il verdetto quando condanna Andreotti e lo contestano quando lo assolve o viceversa. È più che legittimo contestare una sentenza, ma - almeno finché si ritiene di vivere in uno Stato difettoso ma pur sempre di diritto e non in uno Stato totalitario e terroristico, contro il quale v’è solo la resistenza armata - la si può correggere solo per via giudiziaria, tramite altra sentenza. Così ha fatto ad esempio Andreotti, il quale ha impugnato le sentenze contro di lui, ma, a differenza di Berlusconi, non ha cercato di delegittimare i giudici e il sistema giudiziario, ben sapendo che ciò costituisce la premessa della negazione dello Stato e della guerra civile. Basta questa differenza di comportamento per dimostrare che Andreotti, qualsiasi giudizio si possa avere su di lui, è un uomo di Stato o almeno un vero politico, mentre Berlusconi non è, neanche in misura minima, né l’uno né l’altro.

La richiesta di grazia per Sofri è stata collegata a un’ipotesi di amnistia per detenuti condannati per delitti compiuti in nome del terrorismo politico - collegamento scorretto, perché la grazia è un provvedimento individuale. I terroristi - ritenendo di vivere in uno Stato illegittimo, anti-democratico e repressivo - hanno ovviamente contestato la legittimità dei giudici e delle loro sentenze. È ovvio che, dinanzi ai tribunali di Stalin o di Hitler, l’unica reale difesa del cittadino maciullato sarebbe stata la lotta armata.

È meno ovvio che l’Italia degli anni Settanta e di oggi fosse e sia, nonostante tutte le sue miserie e le sue tenebre, un Paese totalitario ignaro di diritti.

Invece secondo il professor Toni Negri, leader di Autonomia operaia e condannato per partecipazione a banda armata, vi sarebbe una voluta e pianificata continuità tra le persecuzioni inflitte dalla magistratura italiana ai terroristi negli anni di piombo e le persecuzioni inflitte ora da essa a Berlusconi, al quale Negri ha espresso pubblicamente solidarietà e che evidentemente egli considera «vittima della giustizia borghese» come i condannati per la lotta armata, lotta che ha visto cadere assassinati tanti galantuomini. È strano che un capo di governo non si senta offeso da tale accostamento e non senta il bisogno di respingerlo.

Le «vittime della giustizia borghese» attualmente in carcere per crimini di terrorismo vanno tutelate con fermezza nei loro diritti, come ogni cittadino, e vanno comprese nelle astratte e febbrili passioni che possono averle portate a commettere quegli atti, nei sentimenti talora soggettivamente generosi ancorché distorti e oggettivamente aberranti che li hanno mossi; in quegli smarrimenti, incertezze, confusioni, reazioni emotive, spocchie intellettuali, slanci utopici, esaltazioni pacchiane e sdegnati furori che, incrociandosi con le torbidezze di un’epoca e di una società, possono portare chiunque, e soprattutto un giovane, alle scelte e alle azioni più disperate e colpevoli, come Raskolnikov in Delitto e Castigo .

È augurabile che questa comprensione possa tradursi in provvedimenti giudiziari atti a restituire delle persone alla pienezza della vita civile senza pregiudizio di quest’ultima. Forse si può chiamare tutto ciò «riconciliazione», a patto di intendersi sul termine. Lo Stato e gli ex-terroristi non sono come la Francia e la Germania che, dopo essersi sbranate per secoli, si danno la mano - nello storico incontro fra de Gaulle e Adenauer - riconoscendo la parità dei torti reciproci (a parte il nazismo). Questa è, a tutti gli effetti, un’autentica riconciliazione - sulla quale, peraltro, si basa in buona parte concretamente l’Europa.

La premessa di un’eventuale amnistia per gli ex-terroristi è invece la tranquilla, definitiva e condivisa consapevolezza che lo Stato italiano - malgrado le sue carenze e le sue sacche anche criminose - non era la Germania di Hitler, che dunque il terrorismo non era una scelta solo sbagliata e politicamente insensata e perdente bensì oggettivamente criminosa e che erano nel giusto Pertini e Valiani e non il partito sotterraneo e trasversale, vivo ancor oggi e confluito in gran parte nella destra, di chi diceva «né con lo Stato né con le Brigate Rosse»; il partito di chi era pronto a trattare con i carcerieri di Moro senza turbarsi del fatto che questi ultimi fossero già gli assassini di cinque agenti, evidentemente considerati carne da cannone; il partito di chi, pur di opporsi a ogni tentativo di creare un’Italia più democratica e più libera, flirtava, da reazionario con le frange del terrorismo. Chiarito serenamente tutto questo, si può e si deve aver comprensione di tanti destini umani e restituirli alla vita, senza inchiodarli ai loro errori ma senza riconciliarsi con quegli errori.

Non è un caso che sia la destra a parlare, spesso equivocamente, di riconciliazione. Quest’ultima è tanto più necessaria quanto più brucianti sono, nella storia di un Paese, le ferite da rimarginare. Lo è stata, ad esempio, dopo il ’45, quando si trattava di sanare la lacerazione della guerra civile e di riunificare le due Italie che si erano contrapposte con le armi. Ma questa riunificazione (o riconciliazione) non significava e non significa una via di mezzo tra fascismo e antifascismo o, come mi è capitato di dire, Valiani più Farinacci fratto due. Essa si basa sul chiaro riconoscimento di quale è stata e continua ad essere la parte giusta e quale quella sbagliata, il che significa considerarsi eredi dell’antifascismo e dei suoi valori.

Certo, nel Dna di una nazione, come di un individuo, c’è tutto il passato; Auschwitz fa parte della storia tedesca e ogni tedesco deve saperlo, il che non vuol dire che egli si senta egualmente erede di Himmler e di Goethe, bensì che egli deve costruire la sua storia di oggi e di domani sul rifiuto di Auschwitz.

Il fascismo non è stato certo il nazismo o lo stalinismo, ma anche la nostra storia si basa sul consapevole e sereno rifiuto di esso. Su questa premessa condivisa è possibile e doveroso riconoscere i suoi aspetti positivi, comprendere e rispettare i motivi che hanno indotto molte persone d’animo generoso a credere in esso e dunque integrarlo - ma solo sulla base di questo giudizio - nella nostra memoria storica. L’unità della patria, che permette e presuppone quella riconciliazione, si fonda su una scelta di valori, non su un’ammucchiata. Il patriottismo della Francia è espresso dalla Marsigliese, il canto nato in un momento di estrema divisione e da una precisa scelta di parte, della Rivoluzione - e che per questo oggi può esprimere l’unità del Paese. Così è l’Italia della Resistenza, non quella della marcia su Roma o delle leggi razziali, che può parlare a nome di tutti gli italiani, anche dei caduti a El Alamein.

If George W. Bush has his way, the USA will invade Iraq, possibly assisted by some European puppets. What is this war about? Is it in anybody's interests?

First, what is this war not about? It's not about terrorism (Osama bin Laden and Saddam Hussein's Baathists don't even like each other). It's not about weapons of mass destruction; Saddam doesn't have any significant stocks of them, or we would have heard by now. It's not about democracy, either.

No, this is a war about oil. This is a war about Bush's friends making money from oil. This is the oil president, with his oil buddies Dick Cheney and Condoleezza Rice. The war in Afghanistan was about oil, and Bush's friends are now busy laying a pipeline across Afghanistan, to bring out Caspian Sea oil. As an oil man, Bush understands that the USA is never going to attain energy independence, unless the Persian Gulf states become American colonies. That's why there's talk of holding Iraq's oil revenues in trust for the Iraqi people. Translation: Once we're in charge, we'll decide what price Iraq should charge for its oil (cheap

This is not how the country that used to be the world's greatest democracy ought to behave. This is the way a Germany needing

The only thing the USA has to fear from Iraq is an escalation of tensions between the West and the Arabs. And that, alas, is the one thing Bush doesn't seem to fear at all.

So Bush is going to "liberate" Iraq's oil and hammer in the wedge between the USA and the people who sit on most of the world's remaining oil supplies. Even if the morality of it doesn't make you gag, is this a smart thing to do?

Just how much is cheap gasoline worth? How many American dead in Iraq? How many Iraqi dead? Is a gallon of gas worth a pint of blood? Whose blood?

J.H. Crawford

9 February 2003

http://www.carfree.com

Ho sempre diffidato dei cosiddetti terzisti, intesi come coloro che, nella loro attività di pubblicisti politici, cercano di ritagliarsi un ruolo di equidistanza, una sorta di magistero "super partes" che gli consenta di dare a giorni alterni un colpo al cerchio e l’altro alla botte da un piedistallo di (finta) neutralità.

Ne ho diffidato e continuo a diffidarne perché avverto in quei pezzi gonfi di sussiego e di sopraccigliosa burbanza un sentore d’ipocrisia, un atteggiamento artefatto che ha ben poco a che fare con il coraggio civile di chi, non tacendo le proprie idee e le proprie preferenze, sa però cogliere e denunciare anche le colpe e gli errori (eventualmente i reati) di chi condivide quelle stesse idee e orienta quelle preferenze.

Ci sono però occasioni nelle quali lo sforzo del terzista di mantenersi tale diventa patetico e suscita involontaria tenerezza. Accade quando il compito dell’equidistanza deve affrontare difficoltà pari a quelle che s’incontrano in una scalata rischiosa o si trasforma addirittura in un’irrealizzabile ipotesi di terzo grado. In quei casi il terzista, per raggiungere la sospirata vetta dell’inattaccabile neutralità, sceglie un sentiero mediano, dipinge una realtà immaginaria, fabbrica regole a proprio uso e consumo e si espone assai più di quanto vorrebbe agli occhi degli spettatori che lo vedono dondolare pericolosamente nel vuoto intellettuale che lui stesso si è creato intorno. Spettacolo godibilissimo da osservare, binocolo alla mano. Vi si vedono personaggi celebrati per austerità di comportamento mentale e per rigore di giudizi, pendolare scalciando argomenti raffazzonati e sudando sotto il gilet, la marsina e la tuba che idealmente continuano a indossare pur nella scomoda posizione nella quale si trovano.

A me, lo confesso, quello spettacolo suscita lo stesso imbarazzo che mi assale quando, assistendo all’esecuzione d’un brano d’opera, la soprano o il tenore steccano una nota difficile suscitando i fischi e i berci del loggione.

Mi sento in colpa quanto ci si sente il cantante dopo la stecca, arrossisco e vorrei scomparire. Effetto, credo, di identificazione e di "pietas". Ma altre volte, se il cantante reagisce con altera superbia anziché ammettere che la sua virtù canora non era all’altezza della difficile partitura, la mia "pietas" si converte in rabbia e mi unisco alla selva di fischi cercando semmai che il mio sia più forte e prolungato degli altri.

Chiedo scusa all’ambasciatore Sergio Romano se utilizzerò come testo esemplare d’un terzismo assai mal riuscito il suo articolo comparso di fondo sul Corriere della Sera dell’8 agosto scorso. Apprezzo da tempo la sua cultura generale, almeno quanto mi parve modesta la sua attività diplomatica al servizio dello Stato. Ma l’articolo cui mi riferisco rappresenta la quintessenza di quanto chi aspira, com’egli certamente aspira, a una rigorosa oggettività di giudizio non dovrebbe mai scrivere e tanto meno pubblicare poiché rende manifesta la dose d’ipocrisia che il sussiego non riesce a nascondere. Gilet, marsina e tuba ne escono così malconci da far venire in mente i versetti di quella vecchia canzone satirica che si cantava quando tutti e due eravamo giovani e che diceva «sopra il cappotto porta la giacca e sopra il gilet la camicia». Forse l’ambasciatore non la ricorda o forse era già serioso ai suoi quindici anni e non l’ha mai sentita. S’intitola «Pippo non lo sa». Talvolta qualche momento di regressione verso l’infanzia può giovare all’igiene mentale.

Dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza con la quale tre mesi fa il Tribunale di Milano irrogò undici anni di prigione all’imputato Cesare Previti e ai suoi accoliti per corruzione in atti giudiziari (in altre parole per compravendita di sentenze) un commentatore del livello dell’ex ambasciatore a Mosca poteva scegliere due strade: non occuparsene lasciandone ad altri il compito, oppure trattare l’argomento cimentandosi con la domanda se il Tribunale avesse o non avesse raggiunto la prova della colpevolezza degli imputati. La sentenza consta di alcune centinaia di pagine; allinea uno accanto all’altro documenti, estratti contabili, testimonianze, deduzioni; il commentatore, dopo averla doverosamente letta, poteva rispondere secondo coscienza al quesito se le prove raccolte fossero risolutive oppure se fossero rimaste al livello di semplici indizi e quindi se il dispositivo di condanna fosse ritenuto giusto o sbagliato.

È ciò che dovrà fare - tra breve si spera - la Corte d’appello, ma che intanto è in facoltà d’esser fatto da qualunque cittadino e massimamente da chi si arroga di rappresentare un punto di riferimento importante per la pubblica opinione.

Purtroppo per noi l’ambasciatore non ha seguito nessuna delle due strade che gli stavano dinanzi: né quella di tacere né quella di affrontare di petto la validità giuridica della sentenza. Se infatti avesse scelto la prima avrebbe dato prova di pusillanimità, se avesse imboccato la seconda avrebbe dovuto dar ragione o agli imputati che si proclamano innocenti e perseguitati o ai giudici che li hanno ritenuti colpevoli e li hanno pesantemente condannati. E allora addio terzismo, il colpo sarebbe stato dato o alla botte o al cerchio e non a tutti e due, secondo la regola "terziaria" della quale il Romano è devoto seguace, anzi capofila.

Ha invece imboccato un sentiero laterale: un esame stilistico della sentenza per dimostrare la faziosità del Tribunale senza esaminare neppure di scorcio la questione capitale che era ed è - lo ripeto - quella di sapere se le prove della colpevolezza siano state raggiunte oppure no.

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Nulla vieta, naturalmente, che si faccia anche l’esame stilistico, perché no? Ognuno ha i suoi gusti ed ha il diritto di esprimerli. Giovanni Sabatucci per esempio, sul Messaggero di quello stesso giorno, li ha manifestati e sono analoghi a quelli dell’ambasciatore; ma poi è arrivato al problema di sostanza ed ha concluso che la prova della verità giudiziaria il tribunale di Milano, a suo avviso, l’ha pienamente raggiunta. Sabatucci è uno storico serio e non porta la camicia sopra la giacca.

Ma torniamo all’ambasciatore. Che comincia il suo esame stilistico sostenendo che «i tribunali non fanno il ritratto caratteriale dell’imputato» .

Davvero? In realtà non è affatto così, l’esame caratteriale è un elemento essenziale per inquadrare «l’animus» dell’imputato; naturalmente non è una prova, ma entra direttamente in gioco per la concessione delle attenuanti o per l’irrogazione delle aggravanti. Vede, ambasciatore, forse in diplomazia queste cose non si apprendono, ma per chi ha un minimo di familiarità con la legge sono cose consuete.

Prosegue il Nostro: «I tribunali non rivendicano l’imparzialità della Corte». Ma dove sta scritto? Quella Corte è stata oggetto da parte della difesa di due istanze di ricusazione e sette di incompetenza; quei giudici sono stati insultati per tre anni di seguito in ogni udienza, sono anche stati platealmente presi in giro con una serie infinita di rinvii, mancate presentazioni in aula degli imputati, beffe palesi di stancheggiamento tese a prolungare il processo per mesi e per anni. Dove sta scritto che la Corte non possa rivendicare la propria imparzialità di fronte ad atteggiamenti sistematici che tendono a delegittimarne il giudizio? E ancora: «Nei buoni sistemi giuridici la motivazione della sentenza è un documento freddo e grigio... ». Bah, ogni giudice ha la sua prosa, c’è chi ce l’ha fredda e grigia, chi eloquente. L’importante, come lei stesso recita signor ambasciatore, è che la motivazione «descriva i fatti, allinei le prove, verifichi le responsabilità e applichi le pene previste dal codice penale».

Appunto, e ciò che quei giudici hanno fatto per quasi cinquecento pagine. Non le ha lette? Le legga e ci dica che cosa ne pensa. Finora non l’ha detto. Perché?

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Ma poi, argomenta Sergio Romano, se la sentenza voleva proprio sconfinare nella storia, allora avrebbe dovuto descrivere il sistema di corruzione diffusa che ha caratterizzato per almeno dieci anni i rapporti tra governi, partiti, imprenditori, pubblica amministrazione. È quel sistema che bisognava denunciare. Lo fece Craxi in Parlamento accusando se stesso e chiamando in correità tutti gli altri suoi colleghi parlamentari e si ebbe in cambio il lancio di monetine. Se lo potesse rifare oggi - conclude l’ambasciatore - forse avrebbe migliore attenzione.

Dunque è questo che piacerebbe a Sergio Romano: l’ammissione d’una colpevolezza generale che fosse di generale lavacro. E infatti esorta Berlusconi a imitare l’ex leader dell’ex Psi: tutti colpevoli, nessun colpevole, tutti i cerchi e tutte le botti colpiti contemporaneamente e poi tutto come prima: che paradiso per i terzisti in marsina, monocolo e colletto duro.

Purtroppo per lei questo lavacro generale promosso da Berlusconi non ci sarà; significherebbe infatti da parte del nostro presidente del Consiglio dover ammettere che il capo del governo è un corruttore incallito, che ha pagato ed è stato pagato, che ha manipolato il mercato, che ha comprato le sentenze. Le pare possibile che lo ammetta nero su bianco? E resti poi a fare il presidente del Consiglio?

Non può farlo e non lo farà. Ma lei, signor ambasciatore, non ci ha detto ancora il suo parere su quella sentenza, sulle prove, sui documenti e sul giudizio morale e politico che lei ne ricava. A lei non piace l’enfasi dei magistrati. A noi non piace la sua totale afasia sulla questione capitale.

Perciò coraggio, ambasciatore, un po’ di coraggio anche se questo la obbligasse a schierarsi. Una volta tanto.

Post scriptum. Ancora una richiesta - e ancora me ne scuso - per l’ambasciatore: che cosa ne dice dello stile del presidente e dei membri di maggioranza della Commissione parlamentare su Telekom-Serbia? Hanno gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria e assommano i due ruoli delle Procure e dei collegi giudicanti. Ma sono ridotti a funzionare come un ventilatore che schizza fango o peggio sugli avversari politici senza avere un solo straccio di prova. Le piace quello stile? Penso e spero che non le piaccia. Allora perché non lo scrive?

E ora una risposta a un articolo del Foglio che mi è stato riferito da un collega (personalmente non leggo mai quel giornale). Giuliano Ferrara chiede a noi di Repubblica perché non ricordiamo che, ove mai Previti avesse pur corrotto i giudici di Roma per favorire la conquista della Mondadori da parte della Fininvest, ci sia poi stato un accordo tra le parti per retrocedere Repubblica e L’Espresso alla Cir.

È vero, l’accordo ci fu perché bisognava stimare il valore dei rispettivi cespiti e cifrare i relativi conguagli. Ma la spartizione era già nella legge Mammì che faceva divieto a chi avesse il controllo di tre televisioni nazionali di possedere qualsiasi altro strumento di comunicazione.

Infine: lo stato di fatto precedente alla sentenza che si suppone sia stata comprata vedeva la Mondadori nelle mani del gruppo Cir-Espresso. La sentenza fece sì che la Mondadori passasse nelle mani del gruppo Fininvest. Se non si studiano bene le fattispecie si raccontano solo panzane e non è una bella cosa.

E’un movimento ampio, quello formatosi, nelle ultime settimane, in opposizione alla guerra in Iraq. Coinvolge, nel nostro Paese, circa otto persone su dieci. Una su dieci in modo attivo, attraverso la partecipazione a manifestazioni per la pace. Un fenomeno che riflette l’atteggiamento verso il possibile conflitto, segnato da una netta (e crescente) contrarietà. Cresce, allo stesso tempo, il risentimento verso gli Stati Uniti, accusati di unilateralismo nell’attuazione della propria politica estera e considerati responsabili della povertà nel mondo. E’quanto emerge da un sondaggio realizzato da Eurisko, per Repubblica, su un campione rappresentativo della popolazione italiana. Circa otto persone su dieci (87-88%) si dicono, oggi, contrarie all’intervento militare statunitense in Iraq. Poco meno di sette su dieci (68%) non sarebbero d’accordo neanche in presenza di un pronunciamento favorevole del Palazzo di vetro. "Perché la guerra è sempre sbagliata": è questa, tra quelle fornite dagli intervistati, la motivazione più ricorrente (81%). Perché, secondo molti, ci sono modi più efficaci di affrontare la minaccia rappresentata dal regime di Saddam Hussein (46%). Ma anche perché la guerra fa paura, mette a repentaglio la nostra sicurezza, rischia di intaccare il nostro benessere economico (20%). Per queste ragioni, i cittadini manifestano una crescente disponibilità alla mobilitazione. Secondo modalità più o meno intense. Il 15% ha esposto al proprio balcone la bandiera con i colori dell’arcobaleno. Il 10% ha partecipato ad iniziative di natura pacifista, ed un altro 35% intende farlo nel corso delle prossime settimane.

Ma il consenso cresciuto attorno ai movimenti per la pace appare ancora più esteso se allarghiamo lo sguardo a chi, pur non partecipando direttamente, dichiara la propria vicinanza ai manifestanti. Complessivamente, il 55%, più di una persona su due, sposa le ragioni della moltitudine che, sabato 15 febbraio, ha riempito le strade della capitale. Il 26%, pur non condividendo tutte le idee espresse dalla manifestazione, pensa che le motivazioni siano comunque giuste. Senza considerare, quindi, una quota (esigua) di persone che non si esprimono, è il residuo 15% a mostrasi critico: il 9% si limita a considerare le manifestazioni legittime; mentre il 6% si dice totalmente contrario. Tuttavia, l’avvio delle operazioni belliche appare, ormai, imminente, e pochi sperano che le manifestazioni possano allontanarne la minaccia (37%). Una quota leggermente superiore pensa che la spinta dell’opinione pubblica e le iniziative di queste giorni possano, invece, ridefinire la rotta delle politiche governative (45%).

Le emozioni suscitate dal possibile conflitto contribuiscono, peraltro, a ridefinire il clima d’opinione nei confronti di alcuni tra i soggetti coinvolti dalla crisi irachena. L’apprezzamento dei cittadini si rivolge, soprattutto, alle posizioni tenute, in questi mesi, dal Vaticano. La Chiesa si propone, infatti, quale primo riferimento agli occhi dei cittadini (60%), e quasi il 30% afferma di provare una crescente fiducia nei suoi confronti. Si registra, per converso, un deterioramento dell’immagine del Governo e, soprattutto, degli Usa. Il 32% degli italiani ha, oggi, alla luce delle iniziative assunte in relazione alla guerra, meno fiducia nell’esecutivo. Allo stesso modo, il 39% dice di guardare con maggiore diffidenza verso gli Stati Uniti.

A questo proposito, sembra già molto lontano l’11 settembre 2001, quando, all’indomani degli attentati di New York, ben il 67% della popolazione percepiva una maggiore vicinanza tra le due sponde dell’Atlantico. La critica agli Usa sembra rivolgersi, in modo specifico, al ruolo della superpotenza sul piano internazionale: alla sua politica estera, colpevole, secondo la maggioranza del campione (55%), di non considerare gli interessi degli altri Paesi (mentre una porzione ben più bassa di intervistati, il 34%, la vede come una garanzia per la sicurezza mondiale); alla sua economia e alle sue imprese, considerate responsabili delle asimmetrie tra paesi ricchi e paesi poveri (59%). Appare contenuta, invece, l’opposizione alla cultura e ai costumi americani: solo il 32% vede nella loro diffusione un rischio per le nostre tradizioni. Si rilevano, infine, alcuni segnali di apprezzamento: il 36% considera gli Usa un esempio per la libertà e l’idea di democrazia; ben il 57% ammira il modello di sviluppo tecnologico ed economico.

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