Sbilanciamoci.info, maggio 2014
Il manifesto, 15 aprile 2014
A Torino esiste sì, un Istituto intitolato a Gramsci (denominazione che a un certo momento, nei primi anni ’90, si propose di cancellare, nel furore autodistruttivo del postcomunismo). Un istituto, che proprio in quei frangenti si affrettò a togliere, nel proprio Statuto, ogni riferimento al marxismo. Un istituto, che come tutti gli altri intitolati al “fondatore del PCdI”, è sotto stretto controllo del partito, con le conseguenze che si possono immaginare a livello degli organi scientifici e delle attività culturali: certo a Torino si tocca il colmo: neppure uno studioso di Gramsci vi figura… Del resto, il nesso tra il pensiero e opera dell’intestatario e le attività dell’istituto è assai flebile. E in fondo il suo direttore può essere soddisfatto del Cancan su quella che era impropriamente chiamata “Casa Gramsci”, stia per diventare “l’Hotel Gramsci”.
Improvvisamente una esistenza umbratile come quella della istituzione da lui diretta, è stata vivacizzata da qualche riflettore giornalistico. E ne abbiamo lette di tutti i colori. Purtroppo egli stesso, il direttore non gramsciano dell’Istituto Gramsci, è tra coloro che le ha sparate più grosse, sia a livello di inesattezze sulla biografia di Antonio Gramsci, sia per perorare la secondo lui ottima causa della intitolazione di un albergo di lusso al rivoluzionario e pensatore sardo.
Vale la pena di ricordare, a mo’ di difesa contro le tante sciocchezze che stanno circolando, che quella fu la terza ed ultima dimora di Gramsci sotto la Mole, e che di fatto, era talmente preso dal lavoro giornalistico, che spesso gli capitava di dormire in redazione, oppure a casa di compagni. Non era neppure un appartamento, il suo, ma un bugigattolo subaffittato dalla mamma di un suo compagno di corso all’Università. E che comunque non v’è stata mai la sede dell’Ordine Nuovo, come si sta ripetendo. E che tutt’al più i quattro fondatori (oltre lui, Terracini Togliatti e Tasca, che abitava praticamente dall’altra parte della piazza, in via San Massimo) si sono riuniti talvolta, prima di fondare il giornale, a casa di Tasca. In ogni caso l’edificio fu bombardato e anche se i locali originali non esistono più, quel luogo è “gramsciano”.
La mobilitazione dei “soliti” professori (che oggi godono di pessima nomea, nella nuova ondata anticulturale guidata dal neofuturista Matteo Renzi) ha messo in guardia sull’operazione, ossia di trasformare il nome dell’autore italiano più tradotto e studiato nel mondo in un brand turistico-commerciale: un autore che fece della rivoluzione dei subalterni contro l’oppressione del capitale la sua fede. Ma naturalmente i “professoroni” sono subito incappati nella censura del pensiero dominante. Cito per tutti Fabrizio Rondolino (sul quotidiano fantasma, eppure organo ufficiale del Pd, Europa), il quale non ha esitato a irridere oltre che biasimare i firmatari di un appello al sindaco Piero Fassino per chiedergli di scongiurare l’operazione. E li ha trattati in pratica non solo da veterocomunisti, ma più specificamente da stalinisti.
In vero, questo appare l’ennesimo oltraggio postumo, di una lunga serie, dal Gramsci convertito in punto di morte, al Gramsci demoliberale, fino al Gramsci che rinnega il comunismo in un quaderno finale, opportunamente sottratto dalle adunche mani di Piero Sraffa, per conto del solito cattivo Togliatti.
A suo tempo (una decina di anni fa, sindaco Sergio Chiamparino, ora candidato alla presidenza della Regione), la vendita di quel grosso immobile, di proprietà comunale, a una ditta di “imprenditori illuminati”, vicini al Pd, suscitò qualche voce contraria, immediatamente zittita in malo modo. Personalmente facevo notare, agli economicisti realisti guidati da Chiamparino (fra gli altri Luciano Violante e Furio Colombo, all’epoca direttore del giornale fondato da Gramsci, l’Unità!), che in politica e nella storia i simboli contano. Un edificio pubblico diventava privato, là dove vivevano i poveri (la casa era abitata da famiglie disagiate) venivano portati i ricchi, là dove comandava il Comune, arrivava il capitale finanziario; là dove visse un nemico del lusso borghese, arrivava il lusso borghese.
Ora la ciliegia sulla torta. La denominazione Hotel Gramsci: si era parlato di Hotel Cavour e Hotel Carlina, dal nome della piazza, ma Gramsci, come brand internazionale, per la clientela straniera d’élite attesa in quegli ambienti raffinati, con tanto di centro salute e piscina sul tetto, sarebbe stato più opportuno. I fautori dell’operazione hanno avuto l’insperato sostegno del nipote di Gramsci, Antonio jr. Insospettitomi, conoscendolo, l’ho cercato: ed ecco che mi risponde: «Mi ha chiamato un giornalista da Torino chiedendomi un mio parere su questo hotel. Mi ha spiegato che si trattava non solo di un hotel ma anche di un centro studi che starebbe nello stesso palazzo e anche di una biblioteca. Ho avuto poco tempo per parlare con lui, perciò non avevo abbastanza tempo per pensarci bene. Non sapevo che fosse l’hotel 5 stelle lusso».
In realtà l’albergo avrà uno spazio conferenze, come tanti alberghi, con esposizione di edizioni gramsciane. Come in tanti hotel, che mostrano in vetrina libri, ceramiche, foulards. Aveva detto a suo tempo Luciano Violante che esiste un modo laico di conservare la memoria, e che l’hotel rientrava nella categoria. Non la pensavo così allora, non la penso così adesso, perché al di là del discorso sui simboli, non si può dimenticare che Antonio Gramsci è stato una vittima illustre di un regime totalitario, che era un marxista rivoluzionario, e che il suo nome ha una oggettiva sacralità, e certo non può esser speso come decoro per il lusso “dei signori”. Possiamo tollerare certo l’Hotel Cavour, o Carlo Alberto, ma risparmiateci l‘Hotel Gramsci.
eddyburg e massimocomunemultiplo hanno promosso. Leggi l'appello cliccando sul link in calce e aderisci all'appello. Ovviamente, se sei d'accordo
Eppure, il direttore dell'Istituto Piemontese Antonio Gramsci, Sergio Scamuzzi, ha dichiarato: «non ci vedo niente di male, nessun elemento fuorviante o che va a collidere con la storia di Gramsci. Credo anzi che lui sarebbe molto contento di sapere che un albergo con il suo nome produrrà occupazione». È stupefacente come sia saltata ogni idea di decoro, che vuol dire saper mettere le cose al loro posto. Qui non si tratta di decidere se Gramsci avrebbe approvato l'esistenza di un albergo di lusso, si tratta di usare il suo nome per vendere quel prodotto: contribuendo alla marmellata generale che ci opprime, e che trova l'unico valore di riferimento nel denaro. Come ha detto Nicola Tranfaglia, «il carcere duro e la terribile morte che sono toccati in sorte a Gramsci hanno poco a che fare con l'immagine di un hotel di lusso». Punto.
Ordine nuovo e l'Unità non si compia l'ultimo obbrobrio. Appello promosso da eddyburg e massimocomunemultiplo. In calce i link per le adesioni
Al Sindaco di Torino Piero Fassino
Un articolo di Repubblica del 6 aprile annuncia che nel palazzo di Piazza Carlina, dove Gramsci visse due anni nel periodo in cui fondò il Partito Comunista, si stanno terminando i lavori di un albergo di lusso, vista Mole Antonelliana. E’ sempre motivo di dolore quando un luogo che custodisce un pezzo del nostro passato diventa il contenitore di qualche altra cosa banale, anziché spazio dove coltivare la memoria collettiva. Ma questa volta il dolore è atroce, perché la banalizzazione investe direttamente uno dei nostri padri, un uomo che ha scritto pagine che ci parlano ancora oggi, un martire che ha pagato con la vita la libertà delle sue idee. In un tempo dove accettiamo che la parola “valorizzazione” da “dare valore” diventi ” ricavare guadagno”, non sappiamo quanti ancora sapranno indignarsi per la possibilità che “Antonio Gramsci” diventi il nome di un Hotel a cinque stelle, ormai troviamo normale qualunque cosa. E ci sembra assai misero il ragionamento di chi regala il suo volto e il suo nome – l’immagine che ci resta di chi non c’è più – per averne in cambio uno spazio dove “organizzare delle piccole riunioni” e “una biblioteca con tutte le opere del filosofo”, di chi considera “una possibilità importante quella data dall’hotel” “che mira a salvaguardare la memoria di Gramsci”.
Ci auguriamo che non la pensino così a Reggio Emilia, dove qualcuno potrebbe proporre di costruire un centro commerciale intitolandolo ai Fratelli Cervi, o ad Amsterdam, dove potrebbero inaugurare una casa di moda dedicandola ad Anna Frank.
E comunque né gli eredi né tantomeno il professore Sergio Scamuzzi,direttore dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, hanno il diritto di stabilire se intitolare un albergo con piscina a Antonio Gramsci sia un’occasione da non perdere. Gramsci non è loro. Gramsci è di una moltitudine di persone, a partire da quelli che hanno dato la vita per permettere a noi di vivere liberi. Anche se forse non ce lo meritiamo.
Sindaco di Torino, città di lotte operaie e di Resistenza, difendi il nome di uno dei più grandi dei nostri padri.
Edoardo Salzano, Nicola Tranfaglia, Piero Bevilacqua, Vittorio Emiliani, Vezio De Lucia, Paolo Maddalena, Maria Pia Guermandi, Chiara Sebastiani, Giorgio Nebbia, Flavia Martinelli, Paolo Cecchi, Lodovico Meneghetti, Marcello Paolozza, Anna Maria Bianchi Missaglia, Sandro Roggio, Maria Paola Morittu, Stefano Fatarella, Paola Bonora, Franco Mazzetto, Raffaele Radicioni, Giorgio Nebbia, Maria Cristina Gibelli, Giorgio Todde, Piergiorgio Lucco Borlera, Ida Carpano, Guido Viale, Marco Revelli, Ilaria Boniburini, Giuliana Beltrame, Tonino Perna, Tomaso Montanari, Oscar Mancini, Salvatore Settis, Pancho Pardi, Luciano Vecchi, Fabrizio Bottini, Francesco Indovina, Luigi Piccioni, PaoloCiofi, Domenico Rafele, GiannaMolisani, Erica D’Anna, Paolo Cova, AlbertoZiparo, Paolo Baldeschi
le adesioni possono essere inviate a eddyburg oppure a massimocomunemultiplo.
alizzazione. eddyburg aderisce e invita ad aderire
Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.
Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.
Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.
Come scienziate e scienziati di questo continente - consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia - sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza -essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale- si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.
L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.
Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d'Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.
Promotori (*) e Primi firmatari
“Per una politica di cooperazione europea”
di Carlo Bernardini
«La storia d’Italia insegna che un elemento di unità culturale come l’antichità romana e la radice linguistica possono determinare motivi naturali di cooperazione anche fra popoli che si sviluppano con tradizioni locali molto diverse. Il Risorgimento mostra che comunità regionali come piemontesi, lombardo-veneti, romagnoli, centro-italiani, meridionali e isolani possono trovare una convenienza comune in una conduzione politica unitaria per tutto il paese. Come si può facilmente constatare l’unità culturale che si realizza anche nella lingua ha la meglio persino su interessi economici e locali molto diversi. Il motivo dell’unificazione risorgimentale è evidentemente più forte per l’Italia di quanto oggi non sia per l’Europa la moneta comune (euro) per la ancora non nata ”Federazione Europea”. La nazione Italia ha largamente profittato in questo della convenienza di programmare centralmente e unitariamente lo sviluppo economico e sociale di tutto il paese, nonostante le difficoltà derivanti da tradizioni locali difformi. Servizi pubblici, approvvigionamento di risorse, commercio estero, e altre attività comuni hanno adottato indirizzi che, quando il sistema ha funzionato bene, hanno realizzato economie di scala non trascurabili. Riflettendo su un possibile sviluppo dell’esperienza europea attuale nel senso confortato dal caso storico italiano, abbiamo perciò pensato che la comunità scientifica europea, analizzando le possibili “economie di scala” realizzabili con attività sia scientifiche che tecnologiche avanzate, potrebbe raggiungere autonomi livelli di welfare senza indebitarsi troppo con più puntuali sviluppi extracomunitari. Questo obiettivo necessita ovviamente di forme efficienti oltreché competenti di coordinamento della programmazione e della condivisione della ricerca; che non appaiono impossibili se si pone attenzione alla storia e ai risultati di strutture internazionali come il CERN di Ginevra, l’Agenzia Spaziale, i centri biomedici, e altri centri europei già rinomati. Urgente sarebbe perciò un piano comunitario che riconoscesse le opportunità di massimo interesse, individuasse in ciascuna gli interlocutori più rappresentativi, ne sollecitasse le valutazioni di merito e le proposte operative. Insomma, un programma sovranazionale attorno a cui chiamare e attivare una cultura scientifica europea fortemente cooperativa liberata da burocrazie locali e inopportune rivendicazioni di sovranità. Non pensiamo che questi propositi siano risolutivi di tutti i problemi dell’auspicabile unificazione politica ed economica europea, ma crediamo che la strada sia quella meno intralciata da vecchi nazionalismi e pregiudizi grazie ad esperienze già fatte nei decenni del secolo scorso»
"Con dispiacere non riesco a partecipare, martedì 8 aprile, a Roma, alla presentazione del “Manifesto per un’Europa di progresso”. Cosa avrei detto, o cosa direi se fossi a Roma? Avrei precisato alcune ragioni che mi hanno condotto a firmare il “Manifesto”. Ci viene proclamato, su più fronti, da parecchi anni, che il mondo sta attraversando una crisi economica mondiale, eppure parecchi Stati (da alcuni mediorientali agli orientali, da alcuni russi ad altri sudamericani, senza poi menzionare ancor altri africani) godono di una rilevante crescita economica, benché da loro illuminismi, rivoluzioni scientifiche e via dicendo siano “merce rara” – o, forse, proprio per questo? Rimane, invece, vero che una forte crisi economica riguarda l’Europa. Quando, in passato, una di queste crisi ci ha attraversato, alcuni di noi hanno perduto del tutto il lume della ragione, e hanno (per esempio) dato fuoco ai libri, al sapere, alla cultura, con grande ignoranza scientifica, per poi proseguire ben oltre, troppo oltre, e a loro non concederò alcun perdono.
il manifesto, 22 dicembre 2013
Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta, Al Presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso. Al Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi
La crisi dura ormai da sei anni. Innescata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neoliberismo, esaspera a sua volta povertà e disuguaglianza. Moltiplica l’esercito dei senza-lavoro. Distrugge lo Stato sociale e smantella i diritti dei lavoratori. Compromette il futuro delle giovani generazioni. Produce una generale regressione intellettuale e morale. Mina alle fondamenta le Costituzioni democratiche nate nel dopoguerra. Alimenta rigurgiti nazionalistici e neofascisti.
Concepita nel segno della speranza, l’Europa unita arbitra della scena politica continentale rappresenta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minaccioso. E la stessa democrazia rischia di apparire un mero simulacro o, peggio, un pericoloso inganno.
Perché? È la crisi come si suole ripetere la causa immediata di tale stato di cose? O a determinarlo sono le politiche di bilancio che, su indicazione delle istituzioni europee, i paesi dell’eurozona applicano per affrontarla, in osservanza ai principi neoliberisti?
Noi crediamo che quest’ultima sia la verità. Siamo convinti che le ricette di politica economica adottate dai governi europei, lungi dal contrastare la crisi e favorire la ripresa, rafforzino le cause della prima e impediscano la seconda. I Trattati europei prescrivono un rigore finanziario incompatibile con lo sviluppo economico, oltre che con qualsiasi politica redistributiva, di equità e di progresso civile. I sacrifici imposti a milioni di cittadini non soltanto si traducono in indigenza e disagio, ma, deprimendo la domanda, fanno anche venir meno un fattore essenziale alla crescita economica. Di questo passo l’Europa la regione potenzialmente più avanzata e fiorente del mondo rischia di avvitarsi in una tragica spirale distruttiva.
Tutto ciò non può continuare. È urgente un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni politiche, nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita.
Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare.
*** Étienne Balibar, Alberto Burgio, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Marcello De Cecco, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Adriano Prosperi, Stefano Rodotà, Guido Rossi, Salvatore Settis, Giacomo Todeschini, Edoardo Vesentini
Centinaia, molte centinaia, sono le zone d'Italia in cui si trovano, sul suolo, nel sottosuolo e nelle acque, sostanze tossiche e pericolose per la salute e per la vita animale. Si tratta di terreni su cui si sono svolte, per anni o decenni, attività industriali chimiche o metallurgiche che hanno generato grandi quantità di scorie solide e liquide, spesso sepolte nel sottosuolo. Si tratta di discariche di rifiuti industriali e urbani. Su tali zone è pericoloso vivere o abitare; da tali zone le sostanze tossiche si sono disperse e continuano a disperdersi nei campi, nel sottosuolo, nelle acque sotterranee e da qui nei fiumi e nei pozzi da cui viene prelevata acqua potabile. Alcune, 39, di queste zone sono vaste e talmente inquinate da richiedere una ampia e costosa bonifica --- le chiamano "siti di interesse nazionale" (SIN); la bonifica di altre 18 è stata posta nelle mani delle Regioni; altre centinaia devono (dovrebbero) essere bonificate dagli enti locali. Dove sono questi "siti contaminati", da quali processi e attività sono state generate le scorie, quali sostanze chimiche e radioattive contengono ? Moltissimi uffici, da quelli nazionali a quelli locali contengono dati sulla storia, produzione, natura delle scorie di molti di questi situi contaminati. Molte associazioni e molti studiosi locali hanno volonterosamente ricostruito la situazione dei rispettivi siti. Ma gli effetti nocivi non sono solo locali; prodotti agricoli contaminati da sostanze tossiche presenti nei luoghi di produzione possono circolare in tutti i negozi. La conoscenza dei siti contaminati, grandi e piccoli, delle sostanze presenti e di quanto si fa (o non si fa) per bonificarli è un problema nazionale.
Al fine di coordinare le relative conoscenze la Fondazione Micheletti di Brescia ha organizzato, per il prossimo 14 e 15 ottobre, un convegno sul tema: "Puliamo l'Italia. Dall'archeologia industriale alla rigenerazione del territorio", a cui sono invitate tutte le persone interessate a restituire a tante zone d'Italia, condizioni di abitabilità in vera sicurezza.
La Fondazione ha anche un sito che sta raccogliendo notizie su singole zone contaminate, da Brescia, a Fidenza, a Pieve Vergonte, un "Atlante dell'Italia da salvare" (www.industriaeambiente.it). Mi auguro che molti partecipino, mandino i propri contributi per arricchire l'Atlante, anche considerando che "bonifica" significa soldi, ma anche posti di lavoro, innovazione tecnico-scientifica - e anche storia dell'industria e del lavoro, e, se volete, amore e rispetto per il proprio paese.
Per informazioni: micheletti@fondazionemicheletti.it, telefono 320.6359812, 338-5898620.
Coloro che oggi si candidano al governo e all’assemblea regionale devono essere consapevoli del fatto che il lavoro che li attende per restituire credibilità a questa istituzione è particolarmente oneroso e complesso, e coinvolge la quasi totalità dei settori di competenza della Regione Lombardia.
In particolare, questo appello vuole sollecitare l’attenzione sulle questioni “urbanistiche”. La questione delle politiche per la gestione, la valorizzazione e la tutela delle risorse territoriali della Regione Lombardia, delle sue città, del suo paesaggio e delle aree di rilevanza naturalistica costituisce una delle emergenze “ambientali” e di sistema con cui si dovrà confrontare la nuova legislatura. Affrontare questa nuova stagione, e le sfide che essa impone, obbliga lo schieramento riformista e progressista ad attrezzarsi culturalmente e politicamente rispetto a “un’idea di città e territorio come bene comune”, da intendersi non solo come mera figura retorica ma come insieme strutturato di regole, comportamenti, modelli di governo e strumenti finalizzati ad attuare politiche capaci di invertire una tendenza che dalla fine degli anni ‘90 ad oggi ha aggravato, anziché porre sotto controllo, i fenomeni di uso dissennato delle risorse ambientali e territoriali. In Lombardia nel periodo 1999-2004 il territorio urbanizzato è cresciuto a ritmi di 13 ettari/giorno; a Milano la superficie urbanizzata ha registrato un incremento, nel periodo 1999 -2007 (e cioè con l’avvio delle riforme urbanistiche regionali), del 10,5%. In Lombardia, fra il 1995 ed il 2006, si è concentrato il 20% delle superfici italiane sulle quali è stato permesso di costruire.
Gli strumenti oggi in campo appaiono non solo inadeguati ma perversi: perché sono l’esito di un quindicennio di radicale deregulation, meramente funzionale al modello neoliberista e mercatista espresso dalle diverse maggioranze politiche che hanno sostenuto in questi anni le Giunte Formigoni, e dal conseguente e progressivo depotenziamento dei contenuti e delle pratiche della pianificazione territoriale, urbanistica e paesistico-ambientale.
Si sono messi sullo stesso piano “interesse privato” e “interesse pubblico”; si sono semplificate le regole; si è delegittimata una prassi corretta, coerente e credibile di amministrazione, pianificazione e gestione del territorio, la quale dovrebbe essere dedicata alla valorizzazione e alla difesa di quei beni strategici che sono il suolo, la terra e il paesaggio. Si è, soprattutto, aperto il varco alla criminalità organizzata, poiché, attenuando i controlli pubblici e rendendo i processi decisionali meno trasparenti, territori che fino a pochi anni fa erano considerati immuni sono diventati una formidabile opportunità per le organizzazioni mafiose: per investire nel ciclo del cemento riciclando denaro proveniente da altre attività illegali.
Purtroppo, questo sistema si è radicato nel silenzio di una parte consistente della cultura tecnica e politica che, quando non l’ha esplicitamente accreditato, non ha saputo comunque distinguere tra le giuste esigenze di “innovazione” e il disegno volto a scardinare il ruolo e l’interesse pubblico nella gestione delle trasformazioni urbanistiche e territoriali. Le stesse amministrazioni locali, talvolta con entusiasmo e spesso con riluttanza, hanno condiviso questo modello, al fine di superare le criticità della finanza locale e beneficiare delle risorse economiche derivanti da uno sviluppo edilizio che teoricamente avrebbero dovuto “governare” in funzione di strategie di gestione orientate dal “pubblico interesse”.
La “sintesi” più cinica, e del tutto anomala rispetto a buone leggi di altri paesi europei e di altre regioni italiane, di questo processo è rappresentata dalla legge regionale 12/2005 che ne ha codificato i principi e ha di fatto definitivamente cristallizzato il ruolo subalterno della pubblica amministrazione rispetto all’interesse privato e alle variegate lobby che lo alimentano. I sette anni della sua applicazione ne hanno evidenziato le criticità e i risultati negativi.
E’ emblematico il fatto che la rigida applicazione del modello di pianificazione sotteso alla legge regionale abbia prodotto una serie di piani “monstre”, quali ad esempio quello di Milano adottato nel 2010 (Moratti-Masseroli) che prevedeva sviluppi per 257.946 nuovi abitanti (una enormità per una città di 1.300.000 abitanti!) con 36.000.000 di mc. di nuove edificazioni nei soli “ambiti di trasformazione”; attraverso la creazione, lo scambio e l’atterraggio dei diritti edificatori poi, il potenziale edificatorio nella “città consolidata” veniva addirittura raddoppiato (e realizzabile con interventi diretti, senza alcun controllo quindi sul contenuto funzionale e la qualità progettuale). Queste previsioni abnormi risultavano ulteriormente aggravate da una impostazione che negava completamente il rapporto del capoluogo con l’ area metropolitana e con l’intera area regionale densamente urbanizzata. E gli esiti modesti della recentissima rivisitazione dello stesso PGT da parte della Giunta Pisapia dimostrano la “non emendabilità” di tale modello.
E’ sintomatico che la sovrapposizione di ruoli, e il relativo conflitto di interesse, prevista per la procedura di Valutazione Ambientale Strategica, unitamente all’aleatorietà delle previsioni di sviluppo dei PGT, ne abbia ridotto la funzione a un mero iter burocratico, depotenziandone gli aspetti di valutazione e verifica della effettiva sostenibilità delle trasformazioni territoriali proposte.
Non è casuale che la maggioranza dei casi di malversazione e corruzione evidenziati dall’azione della magistratura e che hanno investito Giunta e membri del Consiglio Regionale delle due ultime legislature, insieme ai “cicloni” che hanno fatto saltare diverse amministrazioni comunali, abbiano quale scenario di riferimento questioni connesse con la pianificazione urbanistica o l’attuazione di interventi di “valorizzazione immobiliare”. In questo scenario, chi oggi si candida a svolgere un ruolo di governo dell’istituzione regionale deve avere la consapevolezza che la riforma della legge urbanistica costituisce una necessità urgente e inderogabile.
In sintesi, questa azione di rinnovamento dovrà porsi il sostanziale compito di riconvertire il modello di città e territorio plasmati dai giochi della rendita, così ben codificato dalla legge 12/2005, in un modello di territorio e città dei cittadini: di coloro che lo usano per viverci e ne costituiscono il capitale umano e sociale.
I passaggi di questa riconversione dovranno necessariamente confrontarsi con la necessità di:
- restituire alla pianificazione e al suo sistema di regole e strumenti la capacità di rendere evidenti e riconoscibili le strategie e i fini della sua azione;
- reintrodurre nella pratica urbanistica parametri e norme redazionali in grado di valutare e rendere esplicito il legame tra la capacità insediativa dei piani e gli obiettivi e le strategie che ne hanno guidato il dimensionamento. La legge 12/2005, mediante l’eliminazione dell’obbligo del calcolo della capacità insediativa, libera i Comuni dalla responsabilità di dimostrare e giustificare la quantità e il dove si intende consentire la nuova edificazione, e impedisce di valutare i nuovi carichi insediativi e ambientali introdotti dal piano; impedisce altresì di dimostrare, e quantificare, la correttezza del rispetto degli standard minimi, con l’effetto, grave, di impedire una corretta e certa valutazione quali-quantitativa, in sede di Valutazione Ambientale del Piano, dei nuovi carichi ambientali previsti;
- promuovere una riflessione approfondita e un intervento legislativo sulla disciplina e il dimensionamento degli oneri di urbanizzazione, oggi prelevati in misura largamente insufficiente rispetto alle necessità della “città pubblica” (infrastrutture, nuove tecnologie, verde e servizi) e della “città solidale” (edilizia sociale) e lontanissima dalle migliori pratiche internazionali (come Germania, Regno Unito, Francia);
- rilanciare la capacità di regia della pianificazione urbanistica da parte della pubblica amministrazione, anche attraverso il ripristino di strumenti in grado di assicurare alla “città pubblica” spazi per i servizi e le funzioni strategiche;
- ricostruire un rapporto virtuoso e cooperativo tra dimensione prettamente locale (comunale) e dimensione di area vasta dei sistemi urbani e territoriali, riordinando le specifiche competenze ed evitando sovrapposizioni e commistioni funzionali tra i diversi enti locali. Cio’ significa, in termini immediati, restituire alla Provincia poteri pianificatori coerenti con i disposti della legge 142/1990 e dare sostanza vera alla pianificazione territoriale e paesistica regionale, e in parallelo avviare subito la costruzione della Città metropolitana;
- inibire la possibilità di utilizzare la pericolosa pratica della “perequazione sconfinata” rendendo trasparente e limitato l’uso di strumenti di tipo perequativo e il mercato dei diritti edificatori.
Riteniamo in estrema sintesi che, per poter realizzare politiche in grado di coniugare la tutela delle risorse ambientali con uno “sviluppo di qualità” fondato su processi di autentica valorizzazione sociale ed economica, sia necessario impegnarsi per predisporre un radicalmente rinnovato sistema di governo e pianificazione del territorio. Invitiamo quindi tutti coloro che si candidano a un ruolo elettivo nel nuovo Consiglio Regionale ad accogliere queste considerazioni e a trasformarle in prospettiva di azione di rinnovamento delle politiche di governo e gestione del territorio in Lombardia.
Milano, 21 gennaio 2013
- Gianni Beltrame
- Giuseppe Boatti
- Maria Cristina Gibelli
- Michele Monte
- Edoardo Salzano
- Maria Pia Guermandi
- Vezio De Lucia
- Fabrizio Bottini
- Sergio Brenna, Politecnico di Milano
- Vittorio Emiliani, Presidente Comitato per la Bellezza
- Serena Righini, Urbanista, Melzo
- Mara Appiani, studentessa Laurea Magistrale in Pianificazione territoriale. Politecnico di Torino
- Valentino Ballabio, sociologo
- Luciano Laverda, architetto, Milano
- Graziella Tonon, Politecnico di Milano
- Giancarlo Consonni, Politecnico di Milano
- Daniela Poli, Università degli studi di Firenze
- Sandro Roggio, Urbanista, Sassari
- Giuseppe Las Casas, Università degli Studi di Basilicata
- Paola Bonora, Università di Bologna
- Roberto Camagni, Politecnico di Milano
- Andrea Quattrociocchi, Presidente della Commissione Attività Produttive del Consiglio di Zona 9, Milano
- Donato Belloni, architetto, Varese
- Luca Nespolo, Università degli Studi di Firenze
- Emanuele Garda , Università degli Studi di Milano
- Giuseppe Natale ( Forum Civico Metropolitano , www.forumcivicometropolitano.it), Milano
- Marco Massa, Universita' degli studi di Firenze
- Giovanna Cantarella, psicoanalista, Milano
- Pietro Lucchini, Melzo
- Nadia Boaretto, insegnante, Milano
- Per l'associazione "Vivi e progetta un'altra Milano" Il presidente: Rolando Mastrodonato
- Cesare Chiericati, giornalista, Varese
- Stefano Deliperi, presidente del Gruppo d'Intervento Giuridico onlus, Cagliari
- Riccardo Cappellin, Università Roma 2 Tor Vergata
- David Fanfani , Università di Firenze
- Marina Cavallo Codecasa, Milan
- Marina Rotta, Movimento Salviamo il paesaggio difendiamo i territori, Parabiago
- Oscar Mancini, dirigente sindacale della CGIL Veneto
- Alessandra Vergani
- Ezio Righi, urbanista, Modena
- Antonio Baracchi, impiegato, Milano
- Luigi Piccioni, Università della Calabria
- Donato Salzarulo, assessore alla pubblica istruzione di Cologno Monzese
- Mario Artali, presidente del Circolo De Amicis, Milano
- Paolo Berdini, urbanista, Roma
- Villy G. Deluca, architetto, Monza
- Claudio Benzoni, Varese
- Claudio Cristofani, architetto promotore di orti urbani, Milano
- Alessandro Dal Piaz, Università di Napoli
- Stefano Benedetti, Piacenza
- Vincenzo Argente, Carugate
- Michele Sacerdoti, Presidente della Commissione Lavoro, Attività Produttive e Sicurezza. Rappresentante della zona 3 in Commissione per il Paesaggio, Consiglio di Zona 3, Milano
- Leonardo Cribio - Vicepresidente Commissione Territorio, CdZ9 , Milano
- Gianandrea Piccioli, Milano
- Gaia Varon, Milano
- Diego Massalongo, Canegrate (MI)
- Fabio Corgiolu, già membro dell'esecutivo regionale dei Verdi lombardi, San Donato Milanese
- Mario Pozzoni, Cassina de’ Pecchi (MI)
- Mario De Gaspari, Pioltello (MI)
- Graziano Polli, Immagina Lomazzo, Lomazzo
- Cristiana Agliardi, Milano
- Lucia Bertolini, insegnante, Legnano
- Domenico Finiguerra, sindaco, Cassinetta di Lugagnano
- Marco Oliva, architetto, Cavallasca (Co)
- Mauro Baioni, urbanista
- Mauro Sabbadini, vicepresidente provinciale Arci Varese, Cantello (VA)
- Mario Barbaro, Melzo
- Anna Maria Duca, architetto e insegnante in pensione, Varese
- Andrea Ferè, Fagnano Olona (VA)
- Giorgio Majoli, architetto, Monza
- Giansandro Barzaghi, già Assessore all'Istruzione della Provincia di Milano
- Sergio Parini, Associazione Nerviano Viva
- Alberto Proietti, Consiglio di Zona 2 – Milano Commissione Urbanistica, Edilizia Privata e Demanio – presidente
- Alessandra Kustermann, Direttore UOC di PS Ostetrico-Ginecologico, responsabile SVS&D Mangiagalli, Milano- Renato Aquilani, Basiglio, Milano
- Teresa Cannarozzo, Università di Palermo
- Carlo Rodini, psicologo, Milano
- Maurizio Cremascoli del costituendo Movimento "Salviamo il Paesaggio e la Terra di Cislago" (Varese)
- Erika Patriarca , impiegata presso l'aeroporto di Malpensa
- Renzo Riboldazzi, Politecnico di Milano
- Paolo Boatti architetto, Milano
- Riccardo Clerici, Lomazzo (CO)
- Giuseppe Di Giampietro, Webstrade.it, Milano
- Eugenio Comincini, sindaco di Cernusco sul Naviglio (MI)
- Viviana Vestrucci, Giornalista, Milano
- Francesco Vescovi, architetto, Archivio Bottoni/Politecnico di Milano
- Giansandro Barzaghi, Milano
- Roberto Morgese, Parabiago
- Giorgio Garavaglia, architetto, Milano
- Kisito Prinelli, presidente, a nome dell' Associazione per il Parco Sud Milano
- Alberto Secchi, urbanista, Milano
- Marina Terragni, giornalista, Milano
- Nadia Boaretto, giornalista, Milano
- Alberto Giangolini, architetto, Milano
- Simona Flavia Malpezzi, assessore comunale a Pioltello
- Giuliana Nuvoli, Unversità Statale, Milano
- Jacopo Gardella, architetto, Milano
- Massimo Almagioni, urbanista, Milano
- Paola Monti, Consigliere comunale a Segrate
- Marco Engel, urbanista, Milano
- Silvano Cavalleri, urbanista, Como
- Elisabetta Cavalleri, architetto, Como
- Carlo Baccalini, architetto, Milano
- Piero Nobile, urbanista, Milano
- Filippo Porcheddu, urbanista, Milano
- Giulia Gresti, architetto, Milano
- Valentina Beltrame, biologa, Reggio Emilia
- Valentino Podestà, urbanista, Milano
- Lucia Leone, architetto, Cabiate
- Mario Morganti, architetto, Milano
- Mariuccia Morganti, architetto, Milano
- Giancarlo Lissoni, urbanista, Varese
- Sergio Agostoni, architetto, Como
- Franco Alberti, architetto, Milano
- Gianni Drago, architetto, Milano
- Francesco Baccalini, architetto, Milano
- Ugo Genchi, Coordinatore Comitato “Salviamo l’acquedotto di Carugate”
- Giulio Cengia, via Cadamosto 2, Milano Associazione Eco-Alba Onlus di Albairate
- Liliana Bellu, Presidente Eco-Alba Onlus Laura Fregolent, Università IUAV di Venezia
- Ferruccio Mandelli, Brugherio
- Rita Cellerino, Università del Molise
- Michele Albini , architetto, Domodossola (VB)
- Elio Veltri, Democrazia e Legalità
- Paolo Baldeschi, Università di Firenze
- Bruno D. Lanza, ricercatore e docente, Milano
- Graziella Guaragno, Regione Emilia-Romagna, Servizio Programmazione Territoriale e Sviluppo della Montagna
- Valentina Montemurri, architetto urbanista, Milano
- Marina Lagori, Milano
- Sergio Villa, Melzo
- Vincenzo Ortolina, già presidente consiglio Provincia Milano
- Dario Predonzan, WWF Friuli Venezia Giulia
- Stefano Fatarella, Regione Friuli Venezia Giulia
- Umberto Gravina, sindaco di Carugate(MI)
- Franca Leverotti, consigliere nazionale di Italia Nostra
- Melitta Rodini, Milano
- Carlo Bruno Vanetti , Università di Pavia
- Emilio Guastamacchia, Assessore Urbanistica e Edilizia pubblica e privata al Comune di Corsico (MI)
- Giorgio Sgarbi, Milano
- Enrica Noseda, Milano
- Mauro Torriani, Assessore all'Ecologia e Ambiente, Comune di Lodi Vecchio (LO)
- Giuseppe Camerini, Bastida Pancarana (PV)
- Amalia Navoni, Milano
- Emiliano Abbati, Salviamo il Paesaggio-Nord Milano, Paderno Dugnano
- Ernesto Pedrini, Vimodrone
- Francesco De Carli, Responsabile Relazioni Esterne Comitato Tutela Territorio e Fontanili di Milano
- Edoardo Uberti, studente di Urbanistica, Milano
- Alessandro Del Piano, Direttore Settore Pianificazione Territoriale e Trasporti, Provincia di Bologna
- Andrea Bonessa, architetto, Milano
- Antonietta Mazzette, Università degli Studi di Sassari
- Ornella Arlenghi, Milano
- Giorgio Centola, Milano
- Giorgio Majoli, architetto, Monza
- Paolo Zuffinetti, Busto Arsizio (Va)
- Alessandro Oliveri, Milano
- Rolando Mastrodonato, Milano
- Arturo Calaminici, consigliere provincia di Milano
- Alfredo Viganò, urbanista, Monza
- Adele Bugatti, Milano
- Titina Ammannati, Milano
- Gianpietro Vitelli, Milano
- Gaetano Brusati, Dervio (LC) - Associazione Parco Visconteo
- Gabriella Friso, Dervio (LC)
- Michelangelo Savino, Università degli studi di Messina
- Luigi Crosti, Milano
- Paola Caretta, Milano
- Mario Villa, Gorgonzola
- Franco Caviglia, Arenzano
- Giorgio Fiorese, Milano
- Marta Balestri, architetto, Bochum
- Emanuele Lazzarini, consigliere comunale a Milano
- Giovanni Perego, architetto, Monza
- Renata Lovati, Cascina Isola Maria, Albairate
- Silvia Tarulli, urbanista, Milano
- Lodo Meneghetti, urbanista, Milano
- Virgilio Baccalini, giornalista, Verbania - Comitato La Goccia, per una Goccia verde e libera dalla speculazione
- Smaranda Chifu, studentessa di Urbanistica al Politecnico di Milano
- Maria Teresa Roli, architetto urbanista a Torino, consigliere nazionale Italia Nostra onlus
- Paolo Calzavara, Movimento 5 Stelle Milano
- Laura Cibien, urbanista, Milano
- Giovanni Monaco, Basiglio
- Paolo Pinardi - ilponte.it
- Amedeo Bellini, Politecnico di Milano
- Piero Bevilacqua, storico, Roma
- Daniela Colombo, ingegnere, Olgiate Olona (VA)
- Giancarlo Capitani, Politecnico di Milano
- Maria Pompeiana Iarossi , Dip. ABC - Architettura Ingegneria delle Costruzione e Ambiente Costruito, MILANO
- Salvatore Anastasi, architetto urbanista
- Martin Broz, Laureato in pianificazione urbana e Dottorando in pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio
- Gabriele Amadori, Politecnico di Milano
- Paola Rosso, Milano
- Alberto Roccella, Università degli Studi di Milano
- Veronica Dini, Milano
- Monica Maroni, Lodi
- Maria Pacifico, Carbonara al Ticino (PV)
- Alice Beverlej, Missaglia(LC)
- Mariateresa Lardera, Milano
- Massimo Gatti, Capogruppo Lista civica Un'altra Provincia-PRC-PdCI, Provincia di Milano
- Eugenio Grandinetti, Milano
- Graziella Marcotti, urbanista, Milano
- Giorgio Baldizzone, architetto, presidente ENSEA - European Network for Strategic Environmental Assessment
- Pietro Di Lascio, Erba
- Roberta Madoi, Milano
- Francesca Rebecca, architetto, Milano
- Gianpaolo Maffioletti, architetto, Milano
- Chiara Ciampa, urbanista, Pisa
- Luciana Bordin , Milano
- Fiora Pezzoli, Biassono (MB)
- Cristina Omenetto, fotografa , Milano
- Mila Barletta, Missaglia (LC)
- Alessandro Tiraboschi, Bergamo e Roma
- Luciano Vecchi, urbanista del servizio “Riqualificazione Urbana” dell’Emilia-Romagna
- Valeria Santurelli, Università di Napoli
- Paola Dallasta, urbanista, neolaureato al Politecnico di Milano
- Lidia Diappi, Politecnico di Milano
- Maria Finzi, Milano
- Francesco Stucchi, architetto, Assessore ai Lavori Pubblici e patrimonio del Comune di Bellusco (MB)
- Luisa Tomaini docente di storia dell'arte e del territorio presso Istituto Luosi, Mirandola (MO)
- Alfredo Drufuca, ingegnere, Milano
- Gianantonio Chinellato, architetto, Seregno (MB)
- Antonello Boatti, Politecnico di Milano
- Micaela Hollrigl Bertini, architetto, funzionario responsabile del settore edilizia privata-urbanistica di un piccolo comune della provincia di Varese
- Nicola Dall’Olio, capogruppo PD consiglio comunale di Parma, regista de ‘Il suolo minacciato’
- Movimento Stop al Consumo di Territorio
- Giovanni Vanoglio, fotografo, Brescia
- Giorgio Wetzl, Politecnico di Milano
- Rafael Bon, urbanista, Milano
- Lorenzo de Stefani , Politecnico di Milano
- Carlo Lissoni architetto, 35 anni di attività al Centro Studi PIM
- Giorgio Ferri, ingegnere, Milano
- Alice Ranzini, Milano
- Simona De Lima Souza, avvocato, Milano
- Gustavo Cecchini, presidente associazione Asiter, Università di Palermo
- Stefano Komel, agronomo Comune di Avezzano (AQ)
- Vega Guidone, Caronno Pertusella (VA)
- Piergiorgio Bellagamba, Scuola Architettura Ascoli Piceno
- Angela Vezzani, Milano
- Ines Patrizia Quartieri, capogruppo SEL Comune di Milano
- Monica Pietropoli, assessore comunale di Novate Milanese (MI)
- Angelo Sofo, progettista di giardini, Garbagnate Milanese
- Enrico Piazza, architetto, Sesto San Giovanni
- Luisa Salvatori , Assessore alle Politiche Ambientali , Comune di Vizzolo Predabissi (Mi)
- Elio Veltri
- Donato Belloni
- Alfredo Viganò
- Luciano Grecchi , coordinatore della LISTA CIVICA "UN'ALTRA PROVINCIA" , Milano
- Gianluigi Malerba, assessore all'urbanistica del Comune di Seveso dal 1994 al 1998
I candidati alle prossime elezioni che hanno sottoscritto l’appello letto su eddyburg:
- Silvana Carcano, candidata "portavoce" alla Presidenza della Regione Lombardia per il Movimento 5 Stelle
- Bernardo Barra, candidato alle elezioni Regione Lombardia nella lista Sel
- Laura Cenerini Farinella, Candidata Regione Lombardia per il Movimento 5 Stelle
- Igor Bonazzoli, candidato ETICO A SINISTRA - Per un'altra Lombardia - Milano e provincia
- Mirko Baruffini, candidato per il PD nel collegio di Como e provincia alle elezioni regionali
- Enrica Porta, medico, candidata al Consiglio Regionale Lombardo nella lista "Centro Popolare Lombardo"
- Cinzia Colombo, candidata al Consiglio Regionale Lombardo nella lista “Sinistra Ecologia Libertà"
- Rita Barbieri, Presidente Commissione Cultura Zona 6 Comune di Milano, Candidata elezioni Regionali Lombardia, Milano e provincia, nella lista di Sinistra Ecologia e Libertà
- Andrea Guido Barcucci, candidato ecocivico e verde, indipendente nella lista Italia dei Valori, per le Regionali 2013 di Lombardia in provincia di Varese
- Andrea Fiasconaro, candidato consigliere regionale, MoVimento 5 Stelle, provincia di Mantova
- Michela Scognamiglio, Candidata al Consiglio Regionale Elezioni Lombardia 2013 per il Movimento 5 Stelle
- Giulia Barbieri, candidata come consigliere regionale per la circoscrizione di Pavia in Regione Lombardia, Movimento 5 stelle
- Eugenio Casalino, candidato capolista della provincia di Milano alle prossime elezioni regionali lombarde per il Movimento 5 Stelle
- Stefano Zamponi, capolista di Italia dei Valori, Membro della Commissione consiliare regionale "Territorio"
- Antonio Endrizzi, candidato alla Regione Lombardia per il Movimento 5 stelle nella provincia di Como
- Mariangela Raffaglio, candidata PD provincia di Lodi al Consiglio Regionale
- Pietro Mezzi, Candidato alle elezioni regionali per Sinistra Ecologia Libertà (Circoscrizione della Provincia di Milano), Assessore al Territorio della Provincia di Milano dal 2004 al 2009
- Elisabetta Bardone, candidata del MoVimento 5 stelle per il Consiglio Regionale della Lombardia
aggiornato al 7 febbraio 2013
Insieme a Enzo Scandurra ho redatto un testo su «la Roma che vogliamo» - pubblicato sul manifesto del 21 settembre a cui ha aderito un folto gruppo di intellettuali, che non nomino per brevità, ed è stato poi sottoscritto da centinaia di cittadini e varie personalità. Quel documento sta mettendo in moto un crescente e per ora sotterraneo dibattito in vari ambienti politici cittadini.
Finalmente, dopo tanti anni di inerzia, si discute non di liste, di nomi di candidati, ma viene abbozzata un'idea possibile di città, le linee di un progetto che faccia uscire Roma dall'imbarbarimento culturale e civile in cui è precipitata negli ultimi anni. Mi preme ricordare che le iniziative e le discussioni intorno a questo documento stridono oggi in maniera fragorosa con le mosse recenti dei partiti politici e più precisamente del Pd . La possibilità che si è aperta, con le dimissioni di Renata Polverini, di elezioni regionali anticipate, ha subito messo in moto il solito meccanismo da gioco degli scacchi per le candidature. Nicola Zingaretti, attuale presidente della provincia di Roma, designato a concorrere alla carica di sindaco, viene immediatamente spostato, come una pedina qualunque, alla presidenza regionale, mentre per la sede di sindaco, si predispone - chiamato dalla panchina dove riscaldava i muscoli - Enrico Gasbarra, attuale segretario regionale del Pd del Lazio. Il partito nomina, dispone, candida, ecc.
Queste procedure, già in sé scandalose, appaiono inquietanti se si considera la tranquilla normalità con cui ne trattano i giornali di tutte le fedi e correnti, come se fosse la pratica più ovvia. Ma qualcuno si è per caso fatto un problema di che cosa ne pensano in merito i cittadini? Un tempo i partiti erano luoghi di discussione e, pur con i noti limiti di democrazia interna, rappresentavano pur sempre il sentire prevalente dei cittadini, militanti. Le loro scelte avevano un qualche legame con quell'entità che oggi chiamiamo "gente". Ma oggi? Nominare alla candidatura sindaci o presidenti di regione sembra un diritto ereditario, una specie di lascito feudale rimasto in mano a pochi. Ricordo che i partiti politici oggi incarnano una contraddizione che muove gli italiani alla rivolta: essi sono soggetti privati, che vivono e prosperano utilizzando e sperperando danaro pubblico, e nominano per via di "trattativa privata" i candidati alle cariche pubbliche. Potremmo affermare, senza troppo esagerare, che in questo caso la candidatura di un uomo del Pd a sindaco di Roma, si presenta quasi come una designazione diretta a questa carica. I cittadini sono solo chiamati a ratificare una scelta già avvenuta.
Ebbene, queste pratiche, questa cultura oligarchica diventata senso comune, devono essere spazzate vie. I cittadini devono essere messi in condizione di esprimere i propri bisogni, gridare la propria rabbia, rivendicare i propri obiettivi, prima di essere chiamati a eleggere il candidato incoronato dal partito. Bisogna assolutamente capovolgere questo metodo, che costituisce un'ulteriore, drammatica rivelazione di quanto è degenerata la democrazia nel nostro paese.
Per questo il movimento che sta nascendo intorno al manifesto de "la Roma che vogliamo", intende praticare la strada inversa rispetto a quella dominante. Esso si propone di coordinare, con assoluta apertura a tutte le forze di buona volontà - e oggi sono numerosissimi i gruppi e i comitati che si occupano di Roma - tutti coloro che pongono al primo posto i problemi rilevanti e gravi della città. Dei candidati si parlerà dopo. Ma ora, da subito, si discute delle questioni e dei contenuti, nell'intento di elaborare un programma organico e credibile, fondato sui bisogni molteplici dei cittadini.
Il giorno 27 ottobre nella facoltà di Ingegneria della Sapienza si discuterà, con i tanti firmatari del manifesto e con le reti e i gruppi aderenti, del profilo che deve possedere il nuovo sindaco, delle caratteristiche della nuova giunta (presenza femminile, competenze professionali, ecc) e delle iniziative da intraprendere.
E' nostra ferma convinzione che prima di avanzare la candidatura di sindaco e assessori occorre battere il territorio della città, organizzare incontri nei quartieri, all' università, nei luoghi di lavoro, nelle scuole per domandare ai cittadini che cosa chiedono a chi si candida a governare la capitale d'Italia.
La Regione Campania si appresta ad approvare il disegno di legge “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”: un provvedimento che, a dispetto del titolo, avrà conseguenze gravissime su un territorio fragilissimo, già martoriato da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che nonostante tutto conserva ancora aree preziosissime, tra le quali spicca, anche per il suo valore simbolico, la Costiera Sorrentino-Amalfitana, patrimonio dell’Unesco sul versante amalfitano, nonché parte dell’area protetta del Parco Regionale dei Monti Lattari.
Con questo disegno di legge, che andrà in Consiglio Regionale il 18 settembre, la Regione Campania si accinge a dismettere proprio il suo più importante strumento di tutela: il Piano Urbanistico Territoriale della Penisola Sorrentina-Amalfitana*, il baluardo di civiltà che da un quarto di secolo ha evitato l’assalto finale alla costiera più famosa del mondo.
La nuova legge prevede l’esclusione dal Piano urbanistico territoriale della cinta dei comuni pedemontani della Penisola. Sarebbero così nuovamente affidati alla pianificazione dei singoli comuni le delicatissime aree pedemontane ed i versanti montani, sino al crinale dei Monti Lattari.
In tal modo, in assenza del Piano paesaggistico previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, il nefasto regime derogatorio del “piano casa” della Campania acquista direttamente efficacia nel cuore dell’ecosistema e del paesaggio della Penisola, mutilando irreversibilmente il regime di tutela unitaria previsto con saggezza, lungimiranza e rigore pianificatorio dal PUT.
Questa iniziativa legislativa dai contenuti chiaramente eversivi, irrispettosi delle prerogative di tutela di esclusivo appannaggio dello Stato, va svolgendosi nel silenzio degli organi centrali e periferici del Ministero dei beni culturali.
Le sottoscritte Associazioni, prime firmatarie dell’Appello aperto alla sottoscrizione di cittadini, istituzioni, associazioni, che hanno a cuore la difesa del territorio e del paesaggio come bene comune, si rivolgono al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei Beni Culturali affinché scongiurino l’approvazione di un provvedimento che rischia di compromettere la valenza territoriale e paesaggistica della Campania, a partire dall’attacco a uno dei paesaggi più celebri e celebrati d’Italia e del mondo.
*Com’è noto, la legge Galasso (n.431/1985) prevede che i territori sottoposti a tutela debbano essere sottoposti, in alternativa, a piani paesistici, oppure a “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali”. Il piano urbanistico-territoriale (Put) della Costiera amalfitana e Penisola sorrentina è sicuramente il migliore dei piani formati in attuazione della legge Galasso e fu addirittura approvato con legge regionale nel 1987, in una straordinaria e non ripetuta stagione di sensibilità ambientalistica della Campania.
Per aderire all'appello, inviate una mail a:
risorsasrl@libero.it
Adesioni giunte alle ore 17.00 del 2 ottobre 2012
Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale Italia Nostra
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente
Stefano Leoni, presidente WWF Italia
Alberto Asor Rosa, presidente Rete dei comitati per la difesa del territorio
Marisa Dalai Emiliani, presidente associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Edoardo Salzano, direttore di eddyburg.it
Francesco Amato, consigliere del Comune di Maiori
Luigi Andena, ornitologo
Giovanni Antonetti, Resp. Idv Coord. Provinciale Penisola Sorrentina
Franco Arminio, scrittore
Stefania Astarita, Coordinatrice PD Penisola Sorrentina
Giuseppe Aulicino, Dottore di ricerca
Paolo Baldeschi, urbanista
Mirella Barracco, Presidente Fondazione Napoli 99
Simona Bassano Tufillo, fumettista
Paolo Berdini, urbanista
Irene Berlingò, presidente Assotecnici
Piero Bevilacqua, storico
Michele Buonomo, presidente regionale Legambiente Campania
Francesco Caglioti, storico dell’arte
Vincenzo Califano, giornalista
Giuseppe Campione, geografo
Nicola Capone, segretario Assise di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia
Petronia Carillo, fisiologo vegetale
Oriana Cerbone, archeologo
Pierluigi Cervellati, urbanista
Gennaro Cioffi, parrucchiere
Antonio Coppola, WWF Penisola sorrentina
Nino Criscenti, giornalista
Sandro Dal Piaz, urbanista
Antonio D'Aniello, Consigliere comunale
Antonino De Angelis, Presidente Centro “Francis Marion Crawford”
Luidi De Falco, Assessore all’Urbanistica Comune di Napoli
Ugo De Luca, chirurgo pediatra
Vezio De Lucia, urbanista
Francesco De Notaris, Dirett. Bollettino Assise Città di Napoli e Mezzogiorno
Antonio De Rosa, presidente ISEA onlus
Antonio di Gennaro, agronomo
Raffaella Di Leo, presidente regionale Italia Nostra Campania
Agostino Di Lorenzo, architetto
Gioacchino Di Martino, WWF Costiera amalfitana
Giuseppina Di Tuccio, storica dell'arte
Giovanni Dispoto, urbanista
Francesco D'Onofrio, architetto
Andrea Emiliani, storico dell’arte
Enzo Esposito, presidente Unitre Penisola Sorrentina
Gino Famiglietti, direttore regionali Beni culturali e paesaggistici del Molise
Stefano Fatarella, urbanista
Andrea Fienga, Consigliere WWF Campania
Mauro Forte, architetto
Paola Gargiulo, Centro “Francis Marion Crawford”
Elio Garzillo, ex Direttore Regionale bb.cc. Sardegna
Alessandro Gatto, presidente WWF Campania
Maria Pia Guermandi, vicedirettore di eddyburg.it
Giuseppe Guida, urbanista
Pier Giovanni Guzzo, archeologo
Carlo Iannello, presidente Fondazione Antonio Iannello
Girolamo Imbruglia, storico
Francesco Innamorato, pianificatore junior
Sabrina Iorio, storica dell'arte
Ivano Leonardi, urbanista
Natale Maresca, Pediatra, Consigliere Comunale Vico Equense
Gaetano Marrone, Positano
Oscar Mancini, sindacalista
Lodovico Meneghetti, urbanista
Lisa Miele, storica
Annamaria Migliozzi, Minturno
Domenico Moccia, urbanista
Tomaso Montanari, storico dell'arte
Loredana Mozzilli, architetto
Giovanna Mozzillo, scrittrice
Paola Nicita, storica dell’arte
Paolo Nicoletti, geologo
Benedetta Origo, presidente Comitato Val d’Orcia
Giuseppe Palermo, Roma
Gaia Pallottino, ex segretario generale Italia Nostra
Rita Paris, direttrice del Museo Archeol. Naz. di Palazzo Massimo
Desideria Pasolini dall’Onda, ex presidente e fondatrice di Italia Nostra
Luigi Piccioni, economista
Fabio Massimo Poli, cittadino napoletano
Nabil Pulita, restauratore
Lina Ranieri, insegnante
Carlo Ripa di Meana, presidente Italia Nostra Roma
Mario Russo, Sorrento
Tiziana Russo, architetto
Ersilia Salvato, ex parlamentare
Valeria Santurelli, architetto
Anna Savarese, vicepresidente Legambiente Campania
Alessandro Schisano, Consigliere Comunale Partito Democratico Sorrento
Salvatore Settis, archeologo
Mauro Smith, architetto
Nicola Spinosa, storico dell'arte
Giovanni Squame, vicepresidente Lega Autonomie Locali della Campania
Michelangelo Sullo, architetto
Francesco Torcoletti, studente
Sauro Turroni, urbanista
Silvia Urbini, storica dell'arte
Maria Vitacca, Coordinamento "Salviamo il Paesaggio "di Salerno
Antonio Vitiello, giovane disoccupato
Maria Rosa Vittadini, docente Iuav
Antonio Volpe, Circolo Endas Penisola Sorrentina
Paola Zanin, insegnante
Il prossimo 7 ottobre gli storici dell’arte italiani sono chiamati a riunirsi all’Aquila.
È la prima volta che tutti gli storici dell’arte si incontrano: senza distinzioni tra insegnanti di scuola, professori universitari, funzionari del Mibac o di altri enti, studenti, dottorandi, laureandi, pensionati.
Lo faranno all’Aquila, perché nell’abbandono del centro monumentale della città devastato dal terremoto la Repubblica italiana tradisce se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione» (articolo 9 della Costituzione). Lo stato terribile dell’Aquila, divisa tra monumenti annullati e new towns di cemento, è una metafora perfetta di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro edilizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni
Gli storici dell’arte vogliono dire con forza che è giunto il momento di ricostruire: ricostruire, restaurare e restituire alla vita quotidiana dei cittadini il centro dell’Aquila; ricostruire il tessuto civile della nazione; ricostruire il ruolo della storia dell’arte come strumento di formazione alla cittadinanza e non come alienante ancella dell’industria dell’intrattenimento culturale.
Programma
Dalle 11 alle 13 gli storici dell’arte visiteranno, in corteo o silenziosa processione, i luoghi simbolo del patrimonio monumentale colpito dal sisma e abbandonato a se stesso.
Dalle 14 alle 17 si riuniranno in Piazza del Duomo (nel ridotto del Teatro Comunale in caso di pioggia). L’assemblea si articolerà in tre gruppi di interventi: la voce dell’Aquila; la testimonianza dell’Emilia egualmente colpita dal terremoto nel suo patrimonio; e infine tre riflessioni generali sul senso della storia dell’arte in relazione alla scuola, alla tutela, alla ricerca. La lettura di brani fondamentali della letteratura artistica italiana accompagnerà questa articolazione, collegando i nodi del presente ad una identità secolare.
Concluderà Salvatore Settis.
Le autorità nazionali (a partire dai ministri Lorenzo Ornaghi e Francesco Profumo) e locali sono calorosamente invitate ad ascoltare. In modo tutto particolare gli storici dell’arte sperano di avere come interlocutori (il 7, e soprattutto da quel giorno in poi) la Direzione regionale dei Beni culturali, le Soprintendenze aquilane e il Comune: e cioè gli attori istituzionali a cui è affidato il destino del centro monumentale della città.
L’Aquila 7 ottobre. Storici dell’arte e ricostruzione civile è un’idea che nasce dalla comunità scientifica degli storici dell’arte italiani.
È promossa da:
AAA/Italia (Associazione nazionale Archivi di architettura contemporanea)
Anisa (Associazione nazionale insegnanti di storia dell’arte)
Comitato per la Bellezza
Cunsta (Consulta universitaria di storia dell’arte)
Eddyburg.it
Italia Nostra
Patrimoniosos
TQ.
Per chiarimenti sullo spirito dell’iniziativa è possibile scrivere a:
tomaso.montanari@unina.it
Per informazioni logistiche è possibile scrivere a:
laquila7ottobre@gmail.com
È necessario aderire entro il 20 settembre, inviando una email a:
laquila7ottobre@gmail.com
Dopo mesi in cui la politica ha omesso il confronto e il dialogo necessari con la popolazione della valle, la situazione di tensione in Val Susa ha raggiunto il livello di guardia, con una contrapposizione che sta provocando danni incalcolabili nel fisico delle persone, nella coesione sociale, nella fiducia verso le istituzioni, nella vita e nella economia dell'intera valle. Ad esserne coinvolti sono, in diversa misura, tutti coloro che stanno sul territorio: manifestanti e attivisti, forze dell'ordine, popolazione.
I problemi posti dal progetto di costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione non si risolvono con lanci di pietre e con comportamenti violenti. Da queste forme di violenza occorre prendere le distanze senza ambiguità. Ma non ci si può fermare qui. Non basta deprecare la violenza se non si fa nulla per evitarla o, addirittura, si eccitano gli animi con comportamenti irresponsabili (come gli insulti rivolti a chi compie gesti dimostrativi non violenti) o riducendo la protesta della valle - di tante donne e tanti uomini, giovani e vecchi del tutto estranei ad ogni forma di violenza - a questione di ordine pubblico da delegare alle forze dell'ordine.
La contrapposizione e il conflitto possono essere superati solo da una politica intelligente, lungimirante e coraggiosa. La costruzione della linea ferroviaria (e delle opere ad essa funzionali) è una questione non solo locale e riguarda il nostro modello di sviluppo e la partecipazione democratica ai processi decisionali. Per questo è necessario riaprire quel dialogo che gli amministratori locali continuano vanamente a chiedere. Oggi è ancora possibile. Domani forse no.
Per questo rivolgiamo un invito pressante alla politica e alle autorità di governo ad avere responsabilità e coraggio. Si cominci col ricevere gli amministratori locali e con l'ascoltare le loro ragioni senza riserve mentali. Il dialogo non può essere semplice apparenza e non può trincerarsi dietro decisioni indiscutibili ché, altrimenti, non è dialogo. La decisione di costruire la linea ad alta capacità è stata presa oltre vent'anni fa. In questo periodo tutto è cambiato: sul piano delle conoscenze dei danni ambientali, nella situazione economica, nelle politiche dei trasporti, nelle prospettive dello sviluppo. I lavori per il tunnel preparatorio non sono ancora iniziati, come dice la stessa società costruttrice.
E non è vero che a livello sovranazionale è già tutto deciso e che l'opera è ormai inevitabile. L'Unione europea ha riaperto la questione dei fondi, dei progetti e delle priorità rispetto alle Reti transeuropee ed è impegnata in un processo legislativo che finirà solo fra un anno e mezzo.
Lo stesso Accordo intergovernativo fra la Francia e l'Italia sarà ratificato solo quando sarà conosciuto l'intervento finanziario della UE, quindi fra parecchi mesi. E anche i lavori sulla tratta francese non sono iniziati né prossimi.
Dunque aprire un tavolo di confronto reale su opportunità, praticabilità e costi dell'opera e sulle eventuali alternative non provocherebbe alcun ritardo né alcuna marcia indietro pregiudiziale. Sarebbe, al contrario, un atto di responsabilità e di intelligenza politica. Un tavolo pubblico, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, da convocare nello spazio di un mese, è nell'interesse di tutti. Perché tutti abbiamo bisogno di capire per decidere di conseguenza, confermando o modificando la scelta effettuata in condizioni del tutto diverse da quelle attuali.
Un Governo di «tecnici» non può avere paura dello studio, dell'approfondimento, della scienza. Numerose scelte precedenti sono state accantonate (da quelle relative al ponte sullo stretto a quelle concernenti la candidatura italiana per le Olimpiadi).
Noi oggi chiediamo molto meno. Chiediamo di approfondire i problemi ascoltando i molti «tecnici» che da tempo stanno studiando il problema, di non deludere tanta parte del Paese, di dimostrare con i fatti che l'interesse pubblico viene prima di quello dei poteri forti. Lo chiediamo con forza e con urgenza, prima che la situazione precipiti ulteriormente.
primi firmatari:
1) don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)
2) Livio Pepino (giurista, già componente Consiglio superiore magistratura)
3) Michele Curto (capogruppo Sinistra, ecologia e libertà, Comune Torino)
4) Ugo Mattei (professore diritto civile, Università Torino)
5) Marco Revelli (professore Scienza Amministrazione, Università del Piemonte orientale)
6) Giorgio Airaudo (responsabile nazionale auto Fiom)
7) Nichi Vendola (presidente Regione Puglia)
8) Monica Frassoni (presidente Verdi europei)
9) Michele Emiliano (sindaco di Bari)
10) Luigi De Magistris (sindaco di Napoli)
11) Tommaso Sodano (vicesindaco di Napoli)
12) Paolo Beni (presidente nazionale Arci)
13) Vittorio Cogliati Dezza (presidente nazionale Legambiente)
14) Filippo Miraglia (Arci)
15) Gabriella Stramaccioni (direttrice Libera)
16) don Armando Zappolin (presidente nazionale Cnca)
17) don Tonio dell'Olio (Libera international)
18) Giovanni Palombarini (giurista, già Procuratore aggiunto Cassazione)
19) don Marcello Cozzi (Libera)
20) Sandro Mezzadra (professore Storia dell dottrine politiche, Università Bologna)
21) Angelo Bonelli (presidente dei Verdi)
22) Norma Rangeri e il collettivo del manifesto
Mancano pochi giorni alla scadenza per inviare al Cio (Comitato Olimpico Internazionale) le lettere formali di garanzia firmate dal Governo per iscrivere ufficialmente Roma alla corsa per le Olimpiadi del 2020. Le lettere devono arrivare a Losanna entro la mattina del 15 febbraio, mercoledì prossimo. La Spagna (per Madrid), la Turchia (per Istanbul) e finanche l’Azerbaijan (per Baku), hanno già provveduto. Manca l’Italia, la cui candidatura è in bilico. Il tempo stringe, il Presidente del Consiglio Monti temporeggia e allora sono fioccate nei giorni scorsi le prese di posizione tra favorevoli e contrari.
Il fronte del sì, aperto da sessanta tra gli sportivi più popolari del Paese, è affollatissimo. L’abc della politica italiana: Alfano, Bersani e Casini in rappresentanza dei tre maggiori partiti italiani e a seguire, Enrico Letta e Giulia Buongiorno, il sindaco Alemanno, la Polverini. E poi, la Camera di commercio e la Fondazione Roma, Emma Marcegaglia, decine di artisti tra i quali ,Albertazzi, Verdone, Morandi, Fiorello, Pippo Baudo e i premi Oscar Tornatore e Morricone. Tutti a parlare di “occasione unica per lo sviluppo, che non si può assolutamente perdere”. Ovviamente il presidente del Coni Petrucci, forte di tali e tanti appoggi, ha dichiarato qualche giorno fa: “Ora manca solo la penna per la firma”.
Eppure esiste e si mobilita anche il fronte del no, Associazioni e Comitati di Quartiere i quali pensano e scrivono che Roma non ha bisogno delle Olimpiadi nel 2020 e che esse serviranno solo ad arricchire, palazzinari, banchieri, assicuratori, speculatori di ogni sorta, che in realtà la città si impoverirà sotto tanti nuovi metri cubi di cemento, tanti i morti sul lavoro (vi ricordate quanti ne morirono nei cantieri della maledetta Italia ’90?) un vero e proprio disastro ecologico-sociale come nei recenti mondiali di nuoto. Le Autorità preposte alla preparazione della candidatura si sono ovviamente preoccupate di tenere lontano questo mondo di Associazioni, CdQ, Comitati sportivi, ambientalisti e culturali. Ogni loro richiesta di poter prendere visione dei progetti sono state sistematicamente ignorate. Altro che evento partecipato!!
Alla mozione contraria si sono aggiunti i dossier delle maggiori organizzazioni ambientaliste del Paese. Legambiente mercoledì ha scritto a Monti di “un progetto che non convince”. Sulla stessa lunghezza d’onda sono intervenute anche Fai (Fondo Ambiente Italiano) e WWF, che in un dossier congiunto inviato alla Presidenza del Consiglio, non mettono in discussione la candidatura in sé ma esprimono forti dubbi su come sia stata pensata. Italia Nostra ha chiesto che il suo giudizio sostanzialmente negativo, sia inserito nel questionario del Comitato Internazionale Olimpico e ha invitato il Presidente Monti a riflettere e ad esaminare criticamente i vari aspetti da lei segnalati con l’ausilio dei Ministri dei Beni Culturali e dell’Ambiente.
I fatti però sono più duri del cristallo e parlano da soli smentendo gli entusiasmi, le speranze, di chi vede nei giochi l’occasione per rilanciare lo sviluppo della città e per fare grandi affari.
Le Olimpiadi del 2004 sono annoverate tra le cause non secondarie del default della Grecia. A Londra stanno diffondendosi fortissime preoccupazioni, perche' i costi dei giochi olimpici 2012 sono quadruplicati, lo stato britannico colpito dalla crisi ha tagliato i contributi, e i ritorni -gia' ora a gennaio quando si iniziano a delineare gli affari all'orizzonte- non sembrano quelli sperati. Se guardiamo In italia poi, la Regione Piemonte e il Comune di Torino, che hanno finanziato nel 2004 le olimpiadi invernali, sono oggi rispettivamente la prima regione e il l terzo comune piu' indebitati d'Italia !
LA "CASA DELLA CITTA” LUNEDI' 13/02 SU FM 103.3 DALLE ORE 11.30 ALLE 12.30 (ascoltabile anche in streaming)
In trasmissione abbiamo invitato a parlare di tutto questo Paolo Berdini e Bernardo Rossi Doria, entrambi urbanisti, Mario Attorre – coordinatore dei comitati di Roma Nord direttamente coinvolti dalla realizzazione delle strutture olimpiche), Andrea Staffa – coordinatore di TG-Talenti. Sentiremo anche Mirella Belvisi – Italia Nsotra Sez., Lorenzo Parlati – presidente di Legambiente Lazio.
Ma voremmo sapere voi che pensate:
ASPETTIAMO LE VOSTRE TELEFONATE ALLO 06899291, GLI SMS AL 3938992913 E LE MAIL A DIRETTA@RADIOPOPOLAREROMA.IT.
Di seguito l’appello rivolto al presidente del Consiglio, Mario Monti, per chiedere un ripensamento sul progetto dell'Alta velocità ferroviaria Lione-Torino
Onorevole Presidente, ci rivolgiamo a Lei e al Governo da Lei presieduto, nella convinzione di trovare un ascolto attento e privo di pregiudizi a quanto intendiamo esporLe sulla base della nostra esperienza e competenza professionale e accademica. Il progetto della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, inspiegabilmente definito “strategico”, non si giustifica dal punto di vista della domanda di trasporto merci e passeggeri, non presenta prospettive di convenienza economica né per il territorio attraversato né per i territori limitrofi né per il Paese, non garantisce in alcun modo il ritorno alle casse pubbliche degli ingenti capitali investiti, è passibile di generare ingenti danni ambientali diretti e indiretti, e infine è tale da generare un notevole impatto sociale sulle aree attraversate.
Diminuita domanda di trasporto merci e passeggeri.
Nel decennio tra il 2000 e il 2009, prima della crisi, il traffico complessivo di merci dei tunnel autostradali del Fréjus e del Monte Bianco è crollato del 31%. Nel 2009 ha raggiunto il valore di 18 milioni di tonnellate di merci trasportate, come 22 anni prima. Nello stesso periodo si è dimezzato anche il traffico merci sulla ferrovia del Fréjus, anziché raddoppiare come ipotizzato nel 2000. La nuova linea, tra l’altro, non sarebbe nemmeno ad Alta Velocità per passeggeri perché, essendo quasi interamente in galleria, la velocità massima di esercizio sarà di 220 km/h, con tratti a 160 e 120 km/h. L’effettiva capacità della nuova linea ferroviaria Torino-Lione sarebbe praticamente identica a quella della linea storica, attualmente sottoutilizzata nonostante il suo ammodernamento terminato un anno fa.
Assenza di vantaggi economici per il Paese
Per quanto attiene gli aspetti finanziari, ci sembra particolarmente importante sottolineare l’assenza di un effettivo ritorno del capitale investito.
1. Non sono noti piani finanziari di sorta.
2. Il ritorno finanziario appare trascurabile, anche con scenari molto ottimistici. Le analisi finanziarie preliminari sembrano coerenti con gli elevati costi e il modesto traffico, cioè il grado di copertura delle spese in conto capitale è probabilmente vicino a zero.
3. Ci sono opere con ritorni certamente più elevati: occorre valutare le priorità,ì come riabilitare e conservare il sistema ferroviario “storico”.
4. Il ruolo anticiclico di questo tipo di progetti sembra trascurabile.
5. Ci sono legittimi dubbi funzionali, e quindi economici, sul concetto di corridoio.
Bilancio energetico-ambientale negativo.
I costi energetici e il relativo contributo all’effetto serra da parte dell’alta velocità sono enormemente acuiti dal consumo per la costruzione e l’operatività delle infrastrutture (binari, viadotti, gallerie) nonché dai più elevati consumi elettrici per l’operatività dei treni, non adeguatamente compensati da flussi di traffico sottratti ad altre modalità. Non è pertanto in alcun modo ipotizzabile un minor contributo all’effetto serra, neanche rispetto al traffico autostradale di merci e passeggeri.
Risorse sottratte al benessere del Paese
La nuova linea ferroviaria Tori-no-Lione, con un costo totale del tunnel transfrontaliero di base e tratte nazionali, previsto intorno ai 20 miliardi di euro (e una prevedibile lievitazione fino a 30 miliardi e forse anche di più), penalizzerebbe l’economia italiana con un contributo al debito pubblico dello stesso ordine all’entità della stessa manovra economica che il Suo Governo ha messo in atto per fronteggiare la grave crisi economica e finanziaria che il Paese attraversa. È legittimo domandarsi come e a quali condizioni potranno essere reperite le ingenti risorse necessarie a questa faraonica opera, e quale sarà il ruolo del capitale pubblico.
Sostenibilità e democrazia
L’applicazione di misure di sorveglianza di tipo militare dei cantieri della nuova linea ferroviaria Tori-no-Lione ci sembra un’anomalia che Le chiediamo vivamente di rimuovere al più presto, anche per dimostrare all’Unione europea la capacità dell’Italia di instaurare un vero dialogo con i cittadini.
Per queste ragioni, Le chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell’opera. Non ci sembra privo di fondamento affermare che l’attuale congiuntura economica e finanziaria giustifichi ampiamente un eventuale ripensamento e consentirebbe al Paese di uscire con dignità da un progetto inutile, costoso e non privo di importanti conseguenze ambientali, anche per evitare di iniziare a realizzare un’opera che potrebbe essere completata solo assorbendo ingenti risorse da altri settori prioritari per la vita del Paese.
Con viva cordialità e rispettosa attesa,
Sergio Ulgiati, Università Parthenope, Napoli, Ivan Cicconi, Esperto di infrastrutture e appalti pubblici, Luca Mercalli, Società Meteorologica Italiana, Marco Ponti, Politecnico di Milano
L'UNIVERSITÀ CHE VOGLIAMO
Un appello di docenti e ricercatori universitari al ministro Profumo e al Governo Monti
L'Università italiana sopravvive, difficoltosamente, in una condizione di disagio e di crescente emarginazione che ha pochi termini di confronto nella storia recente. Essa ha visto fortemente ridotte le risorse economiche per il suo funzionamento, molto prima che si manifestasse la crisi mondiale e malgrado le modeste dotazioni di partenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. Tutti i saperi umanistici e buona parte delle scienze sociali sono da tempo sfavoriti, a beneficio di discipline che si immaginano più direttamente utili alla crescita economica, o genericamente al “Mercato”. Si tratta di una tendenza in atto da anni che ci accomuna all'Europa e a larga parte del mondo. A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato, altrimenti sono ritenuti economicamente non sostenibili.
Perciò oggi si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo, le Università europee sono sotto l'assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà – docenti, studenti, personale amministrativo – è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici.
Noi crediamo che questo modello di Università europea, avviato con il cosiddetto “processo di Bologna” abbia rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l'autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società. Tutto ciò riguarda non solo il nesso saperi/mercato, ma anche il modello sociale, come è evidente alla luce dell'innalzamento delle tasse d'iscrizione, delle politiche di numero chiuso e della scelta di segmentare, alla luce di politiche classiste, il sistema universitario nazionale facendosi schermo del mito dell'eccellenza.
Al fondo di questo fallimento c'è una esperienza storica recente che illumina sinistramente l'intero quadro europeo. È quello che possiamo chiamare il grandioso scacco americano. Gli USA, elaboratori del modello che l'UE ha voluto tardivamente imitare, sono il Paese che in assoluto ha investito di più nella formazione universitaria e nella ricerca, finalizzate ad accrescere la potenza economica. Ma a dispetto dell'immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. Per concludere con una apoteosi: gli USA, che hanno visto trionfare negli ultimi decenni nuove tecnoscienze come l'informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi 80 anni.
Questa lezione storica ci dice che il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire. Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l'erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto.
Per tale ragione, i firmatari del presente Manifesto indicano i punti programmatici cui dovrebbe ispirarsi un progetto di università che avvii la fuoriuscita dal modello liberistico di un'Europa ormai sull'orlo del collasso.
Occorre al più presto abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall'organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli.
Occorre abolire i crediti (i famigerati CFU) come criteri di valutazione degli esami. Il fatto che essi siano utilizzati anche nel resto d'Europa è una buona ragione per incominciare a scardinare il misero economicismo che è stato iniettato anche negli atenei del Vecchio Continente.
Occorre ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici. Noi crediamo giusto che l'Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. Una condizione che implica anche un controllo – certamente mediato, ma serio, non propagandistico – del buon uso delle risorse provenienti dal contributo fiscale di tutti i cittadini. Ma tale controllo deve riguardare soprattutto i Consigli di Amministrazione degli Atenei, che devono diventare assolutamente trasparenti, con adeguata pubblicità, nelle loro scelte e nei loro bilanci.
L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano.
Occorre ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato abolita dalla legge Gelmini. Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori, con liste nazionali di idoneità, che tengano conto della produzione scientifica, dell’esperienza maturata nell’attività didattica, nell’attività gestionale, e nell’organizzazione culturale: le Facoltà dovranno poter scegliere all’interno di quelle liste e chiamare liberamente gli idonei.
Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d'Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà. Oggi si piangono ipocrite lacrime sulla disoccupazione della gioventù. Ma quale migliore occasione per il governo in carica di fornire risorse ai ricercatori senza lavoro, ai tanti giovani che passano dai dottorati ai master senza mai trovare un approdo, una istituzione in cui continuare studi e ricerche?
È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università. La complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, ci chiede un dialogo tra le discipline, una organizzazione degli studi che non esalti la solitaria eccellenza individuale, ma la cooperazione fra campi diversi della conoscenza, così come la società ci chiede la cura collettiva dei beni comuni.
15 gennaio 2012
Promotori: Piero Bevilacqua (Storia contemporanea, Sapienza, Roma), Angelo d’Orsi (Storia del pensiero politico, Università di Torino).
Per aderire scrivere qui: universitachevogliamo@gmail.com
29 OTTOBRE 2011
GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE
CONTRO LE CENTRALI A CARBONE
Contro l’uso del carbone, per un lavoro degno, per contrastare i cambiamenti climatici e tutelare la salute dando speranza al nostro futuro - Appello per una manifestazione nazionale a Porto Tolle e presidi davanti alle centrali a carbone
La scelta di incrementare l’uso del carbone per la produzione di energia elettrica è una scelta nociva e sbagliata, soprattutto oggi che i cambiamenti climatici costituiscono una minaccia per il futuro del Pianeta e le fonti rinnovabili, insieme all’efficienza energetica, rappresentano l’alternativa efficace e praticabile. La combustione del carbone in centrali elettriche rappresenta, infatti, la più grande fonte “umana” di inquinamento da CO2, più del doppio di quelle a gas. A parole tutti sono per la lotta ai cambiamenti climatici, ma in Italia si fanno scelte in senso contrario, nonostante l’Unione Europea abbia assunto la decisione di ridurre entro il 2020 di almeno del 20% le emissioni di gas serra, rispetto ai livelli del 1990.
Il carbone è anche una grave minaccia per la salute di tutti: la combustione rilascia una cocktail di inquinanti micidiali (Arsenico, Cromo, Cadmio e Mercurio, per esempio), che coinvolgono un’area molto più vasta di quella intorno alla centrale. L’Anidride solforosa emessa, combinandosi con il vapore acqueo, provoca le piogge acide, per non parlare dei danni alla salute derivanti dalle polveri sottili.
La consapevolezza del legame tra danno ambientale e minacce per la salute umana, con inevitabili costi per la collettività, dovrebbe ormai costituire una consapevolezza comune. Ciò nonostante, e per mere convenienze proprie legate all’attuale prezzo del carbone (peraltro in salita), alcune aziende insistono per costruire nuove centrali a carbone o riconvertire centrali esistenti.
Con i recenti referendum oltre 26 milioni di italiani hanno rivendicato il diritto a decidere del proprio futuro, un futuro in cui i cambiamenti climatici non raggiungano livelli distruttivi per l’ambiente, il benessere e la stessa specie umana, un futuro di vera sicurezza energetica, un futuro di vera e stabile occupazione. Rivendichiamo anche il diritto a essere coinvolti in scelte chiare, fondate su strategie e piani condivisi e non dettati dalle lobby energetiche, ma dall’interesse di tutti e dal bene comune.
Proponiamo il territorio polesano come laboratorio nazionale per cominciare ad immaginare ed attuare l'alternativa energetica, per uscire dalle fonti fossili.
Cominciamo questo percorso con una giornata di mobilitazione nazionale contro il carbone il 29 ottobre, e con una manifestazione nazionale nel Polesine.
A Porto Tolle, l'ENEL vuole – anche con modifiche alle leggi e alle normali procedure, operate da una politica compiacente – convertire una centrale a olio combustibile in una centrale a carbone della potenza di 2000 MW, nel mezzo del parco del Delta del Po. Questa centrale a carbone emetterebbe in un solo anno 10 milioni di tonnellate di CO2 (4 volte le emissioni di Milano), 2800 tonnellate di ossidi di azoto (come 3.5 milioni di auto), 3700 tonnellate di ossidi di zolfo (più di tutti i veicoli in Italia), richiedendo lo smaltimento di milioni di tonnellate di gessi e altre sostanze.
La centrale a carbone di Porto Tolle non ha alcun senso.
La riconversione avverrebbe al di fuori e contro di ogni strategia di riduzione delle emissioni di anidride carbonica (strategia che ancora oggi non c’è) e persino di ogni logica energetica, dal momento che l’Italia ha una potenza istallata quasi doppia rispetto al picco della domanda, al punto che i produttori di energia elettrica lamentano che gli impianti vengono oggi usati per un terzo della loro potenzialità.
Non solo: oggi le maggiori prospettive di nuovi posti di lavoro, nel mondo e in Italia, sono nei settori delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, con numeri che in alcuni Paesi ormai superano l’industria tradizionale; al contrario, la centrale a carbone porrebbe a rischio l’occupazione già esistente, e quella futura, nell’agricoltura, nel turismo e nella pesca.
La riconversione a carbone avverrebbe con una tecnologia di combustione che, pur spinta ai suoi migliori livelli, resta sempre assai più inquinante di quella basata sul gas naturale, e dannosa per la salute; nel caso di Porto Tolle, i dati di rilevazione e le epidemiologie mostrano che l’inquinamento e i danni sanitari si estenderebbero per buona parte della Pianura Padana.
Il ricatto occupazionale di ENEL, dunque, va rifiutato da tutti con dignità e fermezza, perché oggi più che ieri il futuro è nell’economia sostenibile per l’ambiente e la salute, tanto più che, sul piano occupazionale, la bonifica dell'area ed una sua riconversione verso impianti e produzioni nel settore delle energie rinnovabili pulite darebbero lavoro stabile e sicuro ad un maggior numero di persone.
Con la giornata del 29 ottobre ci rivolgiamo a tutti, anche a coloro che subiscono il ricatto occupazionale, nel Polesine e ovunque in Italia vi siano centrali a carbone o progetti di costruzione di nuove centrali o di ampliamento di quelle esistenti, per rifiutare tutti insieme la contrapposizione tra lavoro ambiente e salute, cominciando invece a costruire un lavoro dignitoso, una società basata sull’interesse comune e non sugli interessi di poche lobbies, sulla possibilità di un futuro per tutte e tutti.
Le straordinarie mobilitazioni di fine agosto dei sindaci e amministratori dei piccoli Comuni italiani, minacciati di estinzione da un decreto finanziario del governo di dubbia costituzionalità, hanno evidenziato con forza una consapevolezza diffusa del ruolo di presidio della democrazia nei suoi aspetti comunitari, che la tradizione dei Comuni italiani può ancora svolgere. A maggior ragione questa funzione di presidio è strategica nei quasi duemila piccoli Comuni sotto i mille abitanti minacciati di morte. Questi riguardano per lo più le aree dello spopolamento collinare e montano (un quarto dei Comuni italiani che riguarda non più di un milione e mezzo di abitanti), aree che con fatica cercano di ripensarsi con nuovi equilibri socioeconomici e culturali del dopo-sviluppo industriale delle pianure. Per fare solo un esempio, nella Comunità Montana Alta Langa in Piemonte 35 su 39 Comuni sarebbero stati falcidiati.
Abituati come siamo ormai a vedere le debolezze delle amministrazioni locali (connivenze per ragioni di cassa con la rendita, le operazioni immobiliari, il consumo di suolo, e cosi via), molti di noi (esegeti del paesaggio, associazioni ambientaliste) hanno invocato in tempi recenti poteri forti dello Stato per limitare e controllare i poteri corruttibili dei sindaci e degli assessori. Con ciò dimenticando quanto le mobilitazioni di questi giorni hanno riproposto culturalmente alla ribalta: il ruolo insostituibile, per la democrazia, delle istituzioni di prossimità agli abitanti. Questo soprattutto in una fase storica di vertiginoso allontanamento dei sistemi di decisione economico finanziari dai luoghi di produzione e riproduzione della vita, e di conseguente riconsiderazione, da parte delle comunità reali degli abitanti, dei patrimoni territoriali come beni comuni. E’ in particolare proprio dai piccoli Comuni dimenticati che il ruolo della gestione dei beni comuni territoriali nell’economia può divenire indicazione strategica per il futuro dei nuovi equilibri socioeconomici dell’intero paese.
Per questi motivi, in appoggio agli amministratori e a quanti si sono mobilitati per la difesa dei presidi comunali, consideriamo nostro dovere di intellettuali, da decenni impegnati nella ricerca relativa alle problematiche identitarie e alla progettazione di istituti di democrazia partecipativa, nonché nella formazione universitaria delle nuove classi dirigenti, precisare le ragioni di questo appello, che chiediamo di firmare a quanti lo condividono.
La ripartizione dei nostri Comuni non è una eredità del passato, obsoleta, costosa ed inutile, quindi modificabile in funzione di necessità contabili del momento, e neanche un’icona intangibile da conservare per ragioni di foklore e di immagine, quindi di marketing territoriale. In una visione di lungo periodo che comunque ci rimanda all’antichità romana, la suddivisione del territorio in municipia, arricchita ed accresciuta nel medioevo e nell’età moderna da nuove ripartizioni territoriali – le Comunità poi Comuni – dal nord al sud, dall’est all’ovest, e nelle isole, costituisce l’elemento primario di identificazione delle nostre popolazioni con i loro territori. Unica realtà politica non sovrastrutturale, ma intrinseca, che radica appartenenze, cultura locale, specificità, e in quanto tale attraversa i secoli, dal medioevo, agli antichi stati regionali, alla realtà unitaria. Si può discutere oggi sull’opportunità o meno di eliminare comunità montane, province, regioni, come già si è sempre fatto nel tempo per altre ripartizioni amministrative negli antichi stati regionali e nello stato unitario, in quanto sovrastrutture con un loro valore ed una loro durata nel tempo misurabile su diversi parametri, economici, politici, sociali
Il Comune non può essere una questione numerica, né meramente burocratico/amministrativa. Le odierne amministrazioni comunali sono la traduzione contemporanea dell’essere Comune, che si affianca alle precedenti, diverse nei secoli, continuando ad esprimere organi di governo locale. L’entità territoriale e numerica di ogni nostro Comune è una entità unica, costruita sul lungo o medio periodo, che traduce un modo di essere. Queste cellule, che per essere vitali vanno preservate nella loro unicità, contengono tutte le potenzialità che rendono il nostro paese così unico e così grande, pur nella sua complessità e nelle difficoltà che ne conseguono. La civiltà occidentale ci è debitrice di questa forma di governo locale, il cui principio abbiamo esportato in Europa. Che l’ha fatta sua e la difende gelosamente. Non a caso la Francia, Stato storicamente centralizzatore per antonomasia, non ha mai toccato l’individualità territoriale e la conseguente esistenza amministrativa dei suoi oltre 36.000 Comuni. Anche nella sua riforma territoriale in corso, volta a “rafforzare il binomio comune-intercomunalità che rappresenta il livello che offre la maggior capacità di risposta alle aspettative dei cittadini in termini di progettazione del territorio e gestioni dei servizi di prossimità”, riafferma “la preminenza del comune nell’organizzazione territoriale”.
Ci sono state nella nostra storia, pre e post unitaria, altre riforme di accorpamento, come quella Leopoldina che ha riguardato il Granducato di Toscana nella seconda metà del Settecento o quella del 1928 voluta dallo stato fascista. Tutti gli amministratori che hanno governato o governano Comuni nati da accorpamenti conseguenti a riforme di questo tipo possono raccontare come l’identificazione unica degli abitanti nelle nuove realtà accorpate non si sia mai di fatto realizzata e come questo abbia pesato e pesi sulla gestione del locale.
Anche se la gestione dei loro servizi richiede oggi capacità manageriali, i Comuni non sono aziende. Nella nostra cultura le aziende non generano e non mantengono attraverso le generazioni la carica simbolica e identificativa, che ogni nostro Comune, indipendentemente dalla sua entità e dalla sua collocazione geografica, possiede. Di questa il sindaco è investito in quanto eletto, e la sua figura non può essere ridotta a quella di un qualsiasi ufficiale di stato civile, pena il venir meno della coincidenza fra rappresentanza e identificazione.
Fin dalle sue origini, ogni Comune è stato e continua ad essere luogo di primaria e vera identificazione dei suoi abitanti, di quelli nati al suo interno come di quelli, da sempre numerosi, provenienti da fuori. Attraverso l’acquisizione di pratiche sociali, “stili di vita”, abitudini e percezioni che fanno di ogni nostro connazionale, di qualunque origine esso sia, innanzi tutto il cittadino di un Comune. Da secoli è sul territorio del Comune che si misura e si realizza l’integrazione reale dell’individuo. E’ questa una nostra specificità che non possiamo accettare di veder cancellare per ignoranza politica. I decreti legge non possono modificare la coscienza sociale. Al massimo le impongono degli adeguamenti, i cui costi sociali sono comunque da valutare.
Mantenere la ripartizione territoriale dei Comuni significa assumere la nostra storia nella sua interezza, anche come condizione imprescindibile di una concezione del federalismo fondata sulla partecipazione e sulla solidarietà, a partire dal municipio e dalle sue reti. Significa anche accettare tutto quanto ci ha portato ad essere uno stato nazionale, attraverso molti secoli di non unità politica. Imporre nuove ripartizioni su basi meramente numeriche significa non solo ignorare i fondamenti della nostra cultura, il nostro modo specifico di fare politica, ma privare i futuri cittadini del nostro Paese di una ricchezza secolare che è loro di diritto, qualunque sia la storia individuale che li ha portati ad essere, per nascita o per scelta, italiani.
Per questo chiediamo al sistema politico, abbandonando definitivamente l’infelice ipotesi di scioglimento/accorpamento dei piccoli Comuni, di prendere soprattutto coscienza della loro rilevanza vitale.
Per aderire: www.societadeiterritorialisti.it
Noi siamo indignati. Siamo indignati contro i governi europei, che stretti tra la crisi e le politiche liberiste e monetariste imposte dalla Bce e dall'Fmi, accettano di essere esautorati delle funzioni democratiche per diventare semplici amministratori dei tagli della spesa sociale, delle privatizzazioni, della precarizzazione del mondo del lavoro e della costruzione di opere faraoniche, incuranti dell'ambiente e delle popolazioni. Siamo indignati perché le classi dirigenti continuano a proporci l'austerity per le popolazioni, mentre le rendite e i privilegi della finanza, dei grandi possidenti e della politica rimangono intonse, quando non crescono. Siamo indignati in particolare contro il governo italiano, che ha deciso di rispondere alla crisi con una manovra i cui contenuti cambiano di ora in ora ma i cui pilastri restano sempre gli stessi: taglio ai servizi, privatizzazioni, attacco ai diritti dei lavoratori.
Siamo indignati perché il governo ha deciso di abolire per decreto il diritto del lavoro, permettendo alle aziende di derogare ed eludere contratti e leggi, compreso l'art.18 dello Statuto dei lavoratrici e dei lavoratori, proseguendo sulla strada della cancellazione della libertà e della democrazia nei luoghi di lavoro.
Siamo indignati perché in questo modo si elimina la democrazia nei luoghi del lavoro e si estende a tutti i lavoratori il ricatto della precarietà, e della clandestinità per i migranti, con cui negli ultimi due decenni si sono livellate verso il basso i diritti e le condizioni di vita di migliaia di giovani, esclusi dal sistema di welfare e da ogni orizzonte di emancipazione.
Siamo indignati perché poco più di 2 mesi fa abbiamo votato, insieme alla maggioranza assoluta del popolo italiano, per la ripubblicizzazione dell'acqua e per le energie rinnovabili, e ora vediamo il nostro governo riproporre esattamente le vecchie ricette basate sulla svendita dei beni e su un modello di sviluppo energivoro.
Siamo indignati perché si potrebbe fare altro; perché vorremmo uscire dalla crisi attraverso un grande processo di innovazione, attraverso al costruzione di un nuovo modello di sviluppo che colga la sfida della riconversione ecologica dell'economia e di uno sviluppo sociale partecipato, basato sulla centralità dei saperi e dell'innovazione. Invece il nostro governo continua a impoverire la scuola pubblica, l'università e la ricerca, ignorando i milioni di studenti, dottorandi, precari, ricercatori che si sono mobilitati negli scorsi mesi e preferendo ascoltare la voce delle rendite baronali e dei profitti aziendali.
Siamo indignati perché i governi europei inseguono il dogma del pareggio di bilancio, cercando di far quadrare i conti della finanza, appesi come sono ai giudizi delle agenzie di rating o dei mercati di borsa, invece di fare i conti con le esigenze e i bisogni dei loro cittadini.
Siamo indignati perché in questo modo non abbiamo più una reale sovranità democratica, che è affidata alle stesse élite finanziarie transnazionali che prima hanno generato la crisi, poi hanno chiesto di essere salvate dagli stati e ora vorrebbero far pagare il conto a noi, giustificando con lo stato di necessità dichiarato della crisi la privatizzazione della vita delle persone e della natura.
Siamo indignati perché vediamo il serio rischio che a una vera alternativa al governo di Berlusconi e della Lega, si tenti di sostituire un'alternanza, fatta delle stesse politiche con maggioranze diverse, perché tutto cambi senza che in realtà nulla cambi.
E allora sappiamo che siamo indignati, ma indignarsi non basta.
Il cambiamento non arriverà da sé. Ce l'hanno insegnato le vicende degli scorsi mesi: le grande battaglie per i saperi, le lotte dei lavoratori in difesa del contratto nazionale, i diritti e i beni comuni in Italia, le rivolte del Mediterraneo, ora la crescita di un sentimento di ribellione contro le manovre finanziarie insostenibili e tutto ciò che ci viene propinato in nome della crisi.
Noi non ci limitiamo a indignarci, ma intendiamo darci da fare. Abbiamo in mente un mondo migliore del loro, e siamo pronti a mobilitarci per realizzarlo. Per il 15 ottobre in tanti stanno promuovendo appelli, discussioni pubbliche, verso la giornata internazionale United for global change.
Noi crediamo sia necessario aprire una discussione pubblica nel paese, tra tutti coloro che si stanno prodigando sulla mobilitazione internazionale del 15, ma anche e soprattutto con tutti coloro che pagano sulla loro pelle quanto sta accadendo. Vorremmo, iniziando dalla giornata di sciopero generale del 6 settembre, cominciare una consultazione ampia e trasversale, che raggiunga realtà sociali e di lotta, forze politiche e sindacali, movimenti e singole persone, per far sì che quella giornata sia una grande mobilitazione di tutti per l'alternativa, condivisa e partecipata. Consultazione che vorremmo far proseguire con un'assemblea pubblica a Roma, sabato 24 settembre alle ore 10. Un'occasione importante per qualificare il profilo politico della manifestazione del 15 ottobre, ma anche per far incontrare le tante questioni sociali che nella crisi vivono la loro drammatizzazione. Connettere i fili della resistenza alla crisi, per immaginare e costruire un'alternativa politica e di sistema nell'assemblea del 24, con la manifestazione del 15 ottobre, pensando a queste scadenze come a un passaggio e non a un punto d'arrivo, con passione e spirito d'innovazione.
Costruire tutti insieme una grande mobilitazione a Roma contro le politiche di austerity, significa immaginare e proporre per il nostro paese e per l'Europa un nuovo modello di sviluppo basato sulla democrazia reale, la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale.
Ugo Mattei, Guido Viale, Giulio Marcon, Luciano Gallino, Alessandro Ferretti, Gianni Ferrara, Francesco Garibaldo, Tiziano Rinaldini, Bruno Papignani, Andrea Amendola, Giorgio Molin, Michele De Palma, Laura Spezia, Loris Campetti, Angelo Mastrandrea, don Andrea Gallo, Nicola Mancini, Francesco Raparelli, Luca Cafagna, Mario Pianta, Isabella Pinto, Augusto Illuminati, Gianni Rinaldini, Luca Casarini, Stefano Bleggi, Monica Tiengo, Sergio Zulian, Alessandro Metz, Luca Tornatore, Giuseppe Caccia, Tommaso Cacciari, Michele Valentini, Marco Baravalle, Vilma Mazza, Nicola Grigion, Luca Bertolino, Gianni Boetto, Enrico Zulian, Sebastian Kohlsheen, Olol Jackson, Francesco Pavin, Marco Palma, Cinzia Bottene, Antonio Musella, Pietro Rinaldi, Andrea Morniroli, Egidio Giordano, Eleonora de Majo, Francesco Caruso, Gianmarco de Pieri, Manila Ricci, Daniele Codeluppi, Roberto Musacchio, Patrizia Sentinelli, Roberto Cipriano, Andrea Alzetta, Giovanna Cavallo, Ada Talarico, Massimo Torelli, Claudio Riccio, Luca Spadon, Mariano Di Palma, Francesco Sinopoli, Giuseppe De Marzo, Emiliano Viccaro, Daniele De Meo, Matteo Iade.
Per aderire a questo appello scrivere a:
15ott2011@gmail.com. Io l’ho fatto (e.s.)
In tutta la discussione nazionale in atto sulla manovra finanziaria, che ci costerà 20 miliardi di euro nel 2012 e 25 miliardi nel 2013, quello che più mi lascia esterrefatto è il totale silenzio di destra e sinistra, dei media e dei vescovi italiani sul nostro bilancio della Difesa.
È mai possibile che in questo paese nel 2010 abbiamo speso per la difesa ben 27 miliardi di euro? Sono dati ufficiali questi, rilasciati lo scorso maggio dall’autorevole Istituto Internazionale con sede a Stoccolma (SIPRI). Se avessimo un orologio tarato su questi dati, vedremmo che in Italia spendiamo oltre 50.000 euro al minuto, 3 milioni all’ora e 76 milioni al giorno. Ma neanche se fossimo invasi dagli UFO, spenderemmo tanti soldi a difenderci!!
È mai possibile che a nessun politico sia venuto in mente di tagliare queste assurde spese militari per ottenere i fondi necessari per la manovra invece di farli pagare ai cittadini? Ma ai 27 miliardi del Bilancio Difesa 2010, dobbiamo aggiungere la decisione del governo, approvata dal Parlamento, di spendere nei prossimi anni, altri 17 miliardi di euro per acquistare i 131 cacciabombardieri F 35. Se sommiamo questi soldi, vediamo che corrispondono alla manovra del 2012 e 2013. Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra, semplicemente tagliando le spese militari. A questo dovrebbe spingerci la nostra Costituzione che afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali…”(art.11) Ed invece siamo coinvolti in ben due guerre di aggressione, in Afghanistan e in Libia. La guerra in Iraq (con la partecipazione anche dell’Italia), le guerre in Afghanistan e in Libia fanno parte delle cosiddette “ guerre al terrorismo”, costate solo agli USA oltre 4.000 miliardi di dollari (dati dell’Istituto di Studi Internazionali della Brown University di New York). Questi soldi sono stati presi in buona parte in prestito da banche o da organismi internazionali. Il governo USA ha dovuto sborsare 200 miliardi di dollari in dieci anni per pagare gli interessi di quel prestito. Non potrebbe essere, forse, anche questo alla base del crollo delle borse? La corsa alle armi è insostenibile, oltre che essere un investimento in morte: le armi uccidono soprattutto civili.
Per questo mi meraviglia molto il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica. Il Vangelo di Gesù è la buona novella della pace: è Gesù che ha inventato la via della nonviolenza attiva. Oggi nessuna guerra è giusta, né in Iraq, né in Afghanistan, né in Libia. E le folle somme spese in armi sono pane tolto ai poveri, amava dire Paolo VI. E da cristiani come possiamo accettare che il governo italiano spenda 27 miliardi di euro in armi, mentre taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali?
Ma perché i nostri pastori non alzano la voce e non gridano che questa è la strada verso la morte? E come cittadini in questo momento di crisi, perché non gridiamo che non possiamo accettare una guerra in Afghanistan che ci costa 2 milioni di euro al giorno? Perché non ci facciamo vivi con i nostri parlamentari perché votino contro queste missioni? La guerra in Libia ci è costata 700 milioni di euro!
Come cittadini vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’armi. Noi vogliamo sapere quanto lucrano su queste guerre aziende come la Fin-Meccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto-Melara, l’Alenia Aeronautica. Ma anche quanto lucrano la banche in tutto questo.
E come cittadini chiediamo di sapere quanto va in tangenti ai partiti, al governo sulla vendita di armi all’estero (Ricordiamo che nel 2009 abbiamo esportato armi per un valore di quasi 5 miliardi di euro).
È un autunno drammatico questo, carico di gravi domande. Il 25 settembre abbiamo la 50° Marcia Perugia-Assisi iniziata da Aldo Capitini per promuovere la nonviolenza attiva. Come la celebreremo? Deve essere una marcia che contesta un’Italia che spende 27 miliardi di euro per la Difesa. E il 27 ottobre sempre ad Assisi, la città di S. Francesco, uomo di pace, si ritroveranno insieme al Papa, i leader delle grandi religioni del mondo. Ci aspettiamo un grido forte di condanna di tutte le guerre e un invito al disarmo.Mettiamo da parte le nostre divisioni, ricompattiamoci, scendiamo per strada per urlare il nostro no alle spese militari, agli enormi investimenti in armi, in morte. Che vinca la Vita!
Per aderire all’appello di Alex Zanotelli andare qui
Per questo, unendoci ai diversi appelli che si moltiplicano nel Paese, chiediamo alla politica e alle istituzioni un gesto di razionalità: si sospenda l’inizio dei lavori e si apra un ampio confronto nazionale (sino ad oggi eluso) su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternati-ve. In un momento di grave crisi economica e di rinnovata attenzione ai beni comuni riesaminare senza preconcetti decisioni assunte venti anni fa è segno non di debolezza ma di responsabilità e di intelligenza politica.
Il Comitato per la Bellezza propone ad altre associazioni culturali di organizzare una campagna mediatica per "Va' pensiero" strumentalizzato dalla Lega Nord in funzione anti-unitaria e quindi anti-italiana. Nel periodo in cui lo scrisse per "Nabucco", Giuseppe Verdi era, fra l'altro, animato da spiriti fortemente mazziniani. Per cui scrisse all'amico e librettista Francesco Maria Piave. "Sì, sì, ancora pochi anni, forse pochi mesi, e l'Italia sarà libera, una e repubblicana". Nel 1861 "libera e una" lo fu, "repubblicana" soltanto nel 1946. Ma Giuseppe Verdi la pensava così fin dal 1848. Non solo: nel gennaio del 1849 "inaugurò", si può dire, la seconda Repubblica Romana (soltanto ora rivalutata appieno, con un suo Museo inaugurato da Giorgio Napolitano), rappresentando al Teatro Argentina la "prima" della "Battaglia di Legnano", opera più di ogni altra patriottica e italiana. Presenti gli stessi Mazzini e Garibaldi, il successo fu così fragoroso che il teatro venne invaso dal pubblico che agitava bandiere tricolori e reclamava il bis dell'intero ultimo atto (come avvenne).
In questo 150° dell'Unità d'Italia dobbiamo quindi riappropriarci di "Va' pensiero", non per contrapporlo all'Inno di Mameli (operazione musicalmente priva di senso), bensì per rifarne a pieno titolo uno dei canti fondamentali del nostro Risorgimento nazionale ed europeo (sottolineiamo, europeo), sottraendolo ad un uso ormai chiaramente anti-italiano. Questo dobbiamo fare con la più solenne delle dichiarazioni collettive.
p. il Comitato della Bellezza
Vittorio Emiliani -
v.emiliani@virgilio.it
Signor Presidente, lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell'unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benchè nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani". Alcuni di noi hanno anche avuto l'ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l'Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso. Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l'interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l'interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l'interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull'interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso. Ma l'Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l'istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l'obbligo di fare qualcosa per arrestarne l'avanzata.
Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo. Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare. Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l'autoritarismo che al colmo dell'insulto si definisce democratico: questa è l'eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli. Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini. Firenze, 11 aprile 2011
BREVE SCHEDA BIOGRAFICA
DI DON LORENZO MILANI
Don Lorenzo Milani, morto nel giugno 1967, è salito alla ribalta della scena italiana per essersi dedicato, corpo e anima, all'elevazione culturale di operai e contadini affinché potessero affrancarsi dall'oppressione e dall'ingiustizia.
Persona tutta d'un pezzo, appena nominato cappellano a Calenzano (Firenze), scosse l'Italia per la sua costante denuncia di tutte le situazioni che provocano ingiustizia e violazione dei diritti, indipendentemente da chi le provocasse o avallasse. Ciò gli procurò molti nemici anche all'interno della sua stessa Chiesa, che per neutralizzarlo lo confinò a Barbiana, un villaggio sperduto sugli Appenini toscani. Ma la sua notorietà crebbe ulteriormente perché creò una scuola del tutto innovativa, per contenuti, finalità e metodi. L'atto finale fu la stesura di Lettera a una professoressa, un testo collettivo scritto assieme agli allievi per denunciare il carattere classista e discriminatorio della scuola italiana.
Don Milani è famoso anche per la Lettera ai Giudici, nella quale sostiene il primato della coscienza sulle leggi dell'uomo proponendo la disobbedienza come via estrema per evitare all'umanità il ripetersi delle atrocità che ha conosciuto.
Da qualche settimana è stato pubblicato un volume che raccoglie gli scritti di Antonio Cederna sulla Lombardia, a cura del Consiglio regionale lombardo di Italia Nostra. Giulio, Camilla e Giuseppe, i figli di Cederna, ne hanno criticato radicalmente l’impostazione come distorsiva del pensiero del loro padre.
A nostra volta riteniamo che questa operazione nella quale le idee di Antonio Cederna sull’urbanistica e le sue analisi, limpidamente espresse in decine di articoli quasi sempre di drammatica lungimiranza, appaiono distorte o criticate senza contraddittorio, sia da respingere con fermezza.
Ancor più perchè si ammanta delle insegne dell’Associazione che Antonio Cederna, forse più di ogni altro, contribuì a sviluppare e che nel suo pensiero e nelle sue battaglie – moltissime delle quali di assoluta attualità – si dovrebbe riconoscere.
La critica, anche radicale, del pensiero è esercizio legittimo e incoercibile: la distorsione e falsificazione di tale pensiero – per incapacità, ignoranza o faziosità – non lo è affatto. Il testo reca come autore Antonio Cederna, mentre riteniamo al contrario che egli non l’avrebbe mai licenziato come tale: la selezione dei suoi scritti occulta molte delle posizioni espresse dal giornalista sui temi dell’urbanistica e della tutela del centro storico e le fa addirittura introdurre da almeno due interventi di esponenti di posizioni antitetiche, mentre nessuno degli urbanisti a lui legati è chiamato almeno all’espressione di un dibattito degno di questo nome.
Unendoci alla comprensibile indignazione dei figli di Antonio Cederna richiediamo pertanto all’editore che provveda al ritiro immediato del volume come doverosa tutela postuma e a Italia Nostra che lo smentisca nei contenuti, confermandosi nel solco della tradizione cederniana.
Oltre che indispensabile atto riparatorio, un’azione di questo tipo appare peraltro un riconoscimento – seppur tardivo – alla preveggenza di chi, come Antonio Cederna, aveva puntualmente previsto i disastri che l’urbanistica contrattata sta infliggendo alla sua amatissima terra lombarda, da Milano alla Valtellina.
Gianfranco Amendola
Alfredo Antonaros
Rosellina Archinto
Clelia Arduini
Luisa Arrigoni
Alberto Asor Rosa
Paolo Baldeschi
Roberto Balzani
Anna Rita Bartolomei
Giuseppe Basile
Leonardo Benevolo
Paolo Berdini
Irene Berlingò
Maddalena Biliotti
Cini Boeri
Giovanna Borgese
Giulia Borgese
Sergio Brenna
Marta Bruscia
Alessandro Cederna
Anna Cederna
Edoardo Cederna
Enrico Cederna
Lorenzo Cederna
Pier Luigi Cervellati
Valeria Cicala
Andrea Costa
Giulia Maria Crespi
Nino Criscenti
Marisa Dalai Emiliani
Stefano De Caro
Vezio De Lucia
Anna Donati
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Donatella Fagioli
Fernando Ferrigno
Goffredo Fofi
Marina Foschi
Alberto Fossati Bellani
Elio Garzillo
Giuseppe Giulietti
Maria Pia Guermandi
Adriano La Regina
Giovanni Losavio
Gianni Mattioli
Lodovico Meneghetti
Federico Orlando
Arturo Osio
Bernardino Osio
Gian Lupo Osti
Gaia Pallottino
Francesco Pardi
Rita Paris
Desideria Pasolini dall’Onda
Carlo Pavolini
Gianandrea Piccioli
Valentino Podestà
Paolo Ravenna
Sandro Roggio
Francesca Roveda
Susanna Tamplenizza
Luisa Tanzi
Marco Tenucci
Bruno Toscano
Sauro Turroni
Edoardo Salzano
Nicola Spinosa
Corrado Stajano
La funesta parola “sfruttamento” torna ad affacciarsi sul Vajont. Già c’erano stati, in passato, altri progetti, tutti giustamente naufragati sull’onda dell’indignazione che avevano suscitato. Ora viene presentato il progetto di un nuovo impianto idroelettrico, i cui contenuti sono ancora tutti da chiarire, ma che ha comunque un inaccettabile punto di partenza: l’utilizzo dell’acqua del torrente Vajont, in un territorio dove la logica della privatizzazione di un bene comune, l’acqua, è arrivata alle sue estreme conseguenze.
La parola “sacro” non va spesa alla leggera, ma quel territorio, quella diga, quei paesi non possono essere un’altra volta oggetto di sfruttamento in nome di un malinteso “sviluppo”. Quel territorio e quell’acqua sono “sacri” perché non soltanto conservano i segni di una tragedia, ma custodiscono una memoria comune, delle popolazioni del Vajont e dell’umanità intera.
Il Vajont ha ottenuto nel 2008 (Anno internazionale del Pianeta Terra) un riconoscimento significativo dall’Onu: quello di essere stata la più grande tragedia al mondo che si poteva evitare, provocata dall’incuria umana, cioè dall’uomo e non dalla natura, esempio negativo del fallimento di ingegneri e geologi. Il Vajont è così entrato al primo posto di una graduatoria mondiale che, per quanto “negativa”, lancia un monito a lavorare tutti per evitare che tragedie simili si ripetano. Se le cause della tragedia del Vajont sono da ricercare nella corsa al profitto e nello sfruttamento delle risorse della natura, l’iniziativa propugnata dalle Società EN&EN – Martini e Franco e dalle Amm. di Castellavazzo, Longarone ed Erto Casso va nella direzione opposta.
L’affermazione più sconcertante viene da Franco Roccon, sindaco di Castellavazzo, che rende più che esplicito il punto di caduta culturale e politico: l’Associazione Superstiti e Comitato sopravvissuti, dice Roccon, “difendono la memoria”, mentre gli altri, quelli che “vivono oggi sui territori devastati un tempo dalla tragedia, guardano al futuro”. I superstiti, dunque, sarebbero persone prigioniere di un passato che non vuol passare, ancorati a una tragedia superata? E a quale futuro bisognerebbe guardare?
Il “futuro” è contenuto nel nuovo progetto idroelettrico che evidentemente tanto “progetto” non è, visto che già ci sono accordi precisi con il Bim Gsp, che gestirà l’opera e di cui è presidente, guarda caso, proprio il sindaco Roccon. Nessuno, fino ad oggi, ne sapeva niente: ma evidentemente il piano è già stato presentato negli uffici e condiviso dai sindaci, prima ancora di essere sottoposto alla discussione e al vaglio della popolazione.
Quel “futuro” è un passato già visto. Già visto sul Vajont, dove la gente a suo tempo è sempre stata tenuta all’oscuro di che cosa si consumava sulla sua pelle. Già visto nei molti comuni dove in anni più recenti si è continuato a saccheggiare un bene comune, l’acqua, e a compromettere l’ambiente e gli ultimi torrenti della montagna con la richiesta e la costruzione di decine di nuove centrali idroelettriche. La filosofia di fondo è ancora quella di una volta: “valorizzare”, “sfruttare”, “utilizzare” fino all’ultima goccia l’acqua della montagna, in nome dello “sviluppo” e assecondare la progressiva privatizzazione di beni comuni paradossalmente riconosciuti come patrimonio dell’umanità.
Altro che ricchezza inutilizzata. La vera miseria è l' assenza di un’idea di futuro sostenibile fondata sulla bellezza di queste montagne: è la miseria di amministratori rassegnati che si dicono costretti a svendere il territorio per far fronte ai tagli indiscriminati di un governo “amico” e federalista; è la miseria morale di chi dice che il passato è passato e che è meglio sfruttare noi ogni rivolo d’acqua comprese quelle del Vajont prima che ci pensi qualcun altro.
La storia del Vajont in realtà ci ha lasciato l’inesauribile valore e testimonianza di chi ha denunciato gli scempi del prima e del dopo, di chi ha lottato per la giustizia sociale ed ambientale, di chi ha sempre ribadito che la dignità e la memoria non avevano e non hanno un prezzo. Da questi esempi e da questa ricchezza partiranno i cittadini bellunesi per impedire la realizzazione di questo progetto.
Associazione culturale “Tina Merlin” – Comitato Acqua Bene Comune