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Era un uomo duro ma scriveva versi così: «Mai un autunno come questo amaro / già conoscemmo / di sparse foglie / che il vento raduna e trascolora». Sì, era scontroso ma riuscì a diventare il sindaco più amato nella storia di Roma. Quel 27 settembre del 1979 nessuno ci avrebbe scommesso. Luigi Petroselli salì sullo scranno di sindaco e parlò così: «Signor presidente, il sentimento che ora prevale è di umiltà». Disse proprio: umiltà. Con questo spirito l'uomo venuto da Viterbo, figlio di un tipografo (come racconta Angela Giovagnoli in un bel libro), affrontò la sfida più difficile. Sapeva di avere gli occhi puntati addosso. Ma accettò. «Come un combattente », ci ha ricordato spesso Amato Mattia, il suo uomo-ombra morto anche lui troppo presto. Petroselli, che era un funzionario di partito, riuscì a stupire tutti e stabilì una corrente di orgoglio e di simpatia con la città. «Accadde perché aveva concretezza e forza politica - ricorda Walter Veltroni che allora era un giovane consigliere comunale - Il suo rapporto con la città era profondo. Si capiva che ci credeva». Aggiunge Renato Nicolini, inventore dell'Estate Romana: «Non ti guardava mai in faccia, vestiva come un vecchio pugile.Eperò aveva un fortissimo spirito di servizio. E si vedeva ».

Quando Petroselli siede sotto la statua di Giulio Cesare ha 47 anni. Prende il posto di Giulio Carlo Argan, primo “capo” della prima giunta di sinistra. L’ultimo sindaco dc, Clelio Darida, era stato travolto dal voto del 20 giugno 1976. Il Pci diventa primo partito, Petroselli fa il pieno di preferenze: 130 mila, più di Andreotti. Dietro questa vittoria c'era l'idea che Roma si salva se fa saltare il muro che la divide in due: la città dei ricchi e quella degli esclusi, il centro e le borgate. Argan e Petroselli ci credono. Petroselli con più coraggio. «Ha avuto due idee forti in quegli anni - dice Veltroni - Da una parte il risanamento delle borgate e la demolizione dei borghetti e dall'altra ha attribuito un grande valore all'Estate romana in tempi di terrorismo». Erano anni bui, quelli. Dopo il delitto Moro l'Italia fu devastata dagli attacchi terroristici.ARomaforse più che altrove: un elenco lungo di morti e feriti nelle strade. La città aveva paura e Petroselli riuscì a rompere l'assedio. Ricorda Nicolini: «Ha creduto nell'Estate Romana che con lui prende il volo. Era convinto che l'effervescenza culturale serviva alla città». Nasce allora il grande Progetto Fori, la domenica si passeggia in via dei Fori Imperiali chiusa al traffico, poi arriva la nuova linea del metrò che porta nel centro i cittadini della periferia. Roma comincia a legarsi anche se nei «salotti buoni» qualcuno storce il naso. Le borgate saranno l’altro fronte della battaglia di Petroselli. Un pezzo di città allora viveva nell’abusivismo, cittadini di serie B abbandonati. Quasi ombre. Fu un'opera immensa ma per la prima volta gli esclusi videro che la giustizia esisteva. Arrivarono acqua, luce, asili nido e scuole. Si cancellarono a colpi di scavatrice le baracche in legno e lamiera nei borghetti. Ancora oggi in quelle zonediRomaquelli che hanno i capelli grigi ricordano le visite del sindaco, “Joe banana”comelo chiamavano affettuosamente.

Non si risparmiava Petroselli, non si fermava davanti a nulla. All' inizio dell'81 i tranvieri cominciarono uno sciopero a oltranza che piegò la città. Lui era preoccupato. E allora, contro il parere di tutti, decise di presentarsi all'assemblea dei lavoratori al deposito di Porta Maggiore. Il clima era teso, la folla fece largo per farlo passare, qualcuno gettò una monetina che finì sul palco tra i piedi del sindaco. Lui la raccolse, guardò i lavoratori e disse: «Questo non lo permetto, sulla mia Onestà non si scherza». Si fece silenzio, lui cominciò a parlare. Alla fine li convinse, lo sciopero fu sospeso. Uscì dal capannone e al cronista de "l'Unità" che gli si avvicinò spiegò con uno sguardo sereno: «Questo vuol dire fare davvero il sindaco...».

Petroselli è morto sul lavoro. Solo due anni dopo infatti si accasciò dopo aver parlato al Comitato Centrale del Pci. Per Roma fu un colpo durissimo. Ai suoi funerali partecipò tutta la città. Oggi quell’uomo tozzo e scontroso sembra figlio di un’altra era. Quella in cui la politica non era glaciale. Ma era grande passione, rapporto con i cittadini, fatica quotidiana. Basta guardarsi attorno per misurare la distanza. Petroselli era come Berlinguer: due uomini che sono stati grandi leader con umiltà, senza restare prigionieri del leaderismo. E a noi che lo abbiamo conosciuto sembra ancora di vederlo quel piccolo grande uomo, con la sigaretta tra le dita, quando passava in Cronaca all’Unità, in via dei Taurini. Veniva a tarda sera a prendere la prima copia del giornale. E finiva la sua giornata sempre così: «Ragazzi, niente di nuovo?».

Postilla

“Petrus, l’amarissimo che fa benissimo”: così, parafrasando la pubblicità di un liquore, lo definiva Giggetto, il sarcastico custode della Federazione del PCI quando Petroselli ne diventò il segretario. La sua intelligente umanità era dissimulata sotto la sua dura scorza di etrusco. Esplose quando divenne sindaco. Come i veri grandi, riuscì a saldare gli interessi dei deboli, dei poveri, degli emarginati (del popolo che Pasolini ha vissuto e descritto) con quelli della grande cultura europea e di uno sviluppo liberato dalla rendita immobiliare. L’Estate romana, il sublime piano urbanistica del Progetto Fori, e l’alleanza con i “costruttori onesti” per l’edilizia sociale su aree pubbliche, furono i tasselli principali della sua idea di città. Peccato che sia subentrata l'ideologia delle recinzioni, del “pianificar facendo”, della prevalenza degli immobiliaristi e dei loro interessi. Ma l’insegnamento rimane, ed è il lievito di un possibile futuro.

Premessa

Se volessimo sintetizzare le nostre esperienze urbanistiche a Napoli in questo primo secolo di unità nazionale, potremmo dire di aver conosciuto il ventennio dell'abbandono, fino all'80, quello dello sven­tramento fino al '900, quello delle bonifiche fino all'avvento del fascismo ed i conseguenti smantellamen­ti in pace ed in guerra, ed infine questi ultimi venti anni di progressiva disarticolazione con la benedizio­ne clericale.

In tutti questi lunghi anni di direzione quasi incontrastata della attuale classe dirigente la capitale del Mezzogiorno è stata ridotta ad un caos nel quale la maggioranza dei napoletani sopravvive solo per virtù della sua capacità di adattamento e del suo coraggio nelle lotte per la vita e la affermazione dei suoi diritti. Se la popolazione non deve sopportare le crisi acute delle epidemie dell'86 e del '19 o le distruzioni belliche del '14 e del '40, le sue sofferenze quotidiane non sono meno dure e senza alcuna giustificazione; tanto più intollerabili se paragonate all'accrescimento di ricchezza ed all'accentramento di benessere nelle mani di pochi gruppi di privilegiati i quali dirigono, nel quadro di tutta una politica di rapina, anche la programmazione economica e la pianificazione urbanistica nel loro egoistico interesse.

Denuncia

Dati statistici generali e considerazioni particolari documentano drammaticamente questa denuncia. Risulta infatti dagli stessi dati ufficiali del Comune che la durata media della vita dei lavoratori è di circa 20 anni inferiore a quella dei ceti possidenti, ed il loro reddito medio dieci volte minore.

Questo contrasto è direttamente visibile nei porticciuoli di Borgo Marinaro e di Mergellina dove nulla è mutato nella tradizionale miseria dei pescatori e dei barcaiuoli, mentre si sono moltiplicati in questi ultimi anni panfili e motoscafi, per valori di miliardi, e dove non a caso spiccano quelli delle nobili casate dei Lauro, dei Fiorentino, degli Ottieri, dei loro soci ed amici.

D'altra parte, tutte le categorie di cittadini pagano il prezzo del caotico sviluppo edilizio e l'arretratezza della rete stradale determinate dal prevalere della speculazione negli indirizzi programmatici della pubblica Amministrazione. Infatti, la riduzione della velocità media del traffico ed il forzato regime dei motori degli automezzi è causa di un maggior consumo di carburanti per un valore di circa 50 milioni al giorno. Va così disperso il reddito corrispondente ad un capitale di circa 200 miliardi che potrebbero essere utilmente investiti per l'ammodernamento delle opere di pubblica utilità.

I disagi provocati dal caotico sviluppo della città sono divenuti normale condizione di vita, grave per tutti, gravissima per i lavoratori e per i ceti ancora meno abbienti.

Centinaia di migliaia di napoletani escono di casa al mattino alla ricerca angosciosa di un minimo guadagno per sopravvivere. Migliaia di famiglie attendono, in alloggi fatiscenti fino al tardo pomeriggio, per sapere se sarà possibile fare la spesa o se sarà ancora necessario ricorrere allo scarso credito del bottegaio, o al pegno o all'usura. La sopravvivenza di costoro è legata ad un precario equilibrio ambientale, e quando vengono scacciati dal vicolo o dal quartiere per far posto alla speculazione edilizia, si profila in tutta la sua drammaticità lo spettro della fame.

Molti di questi napoletani si improvvisano artigiani, nei più vari e paradossali mestieri, e sono costretti spesso a lottare per incassare un modesto credito assai più che per la ricerca dello stesso lavoro. Anche peggiore è la condizione del contadino che coltiva il proprio pezzo di terra in un ambiente urbanistícamente ancora più arretrato. Egli è costretto a vendere i suoi prodotti a prezzi usurari, ma questo prodotto aumenta vertiginosamente il suo prezzo, passando per le mani di innumerevoli parassi­ti, nelle varie tappe della speculazione, contribuendo ad elevare il costo della vita senza che l'Ammini­strazione locale prenda nessuna delle iniziative che la legge le consentirebbe. Gli alti indici di disoccu­pazione, le incertezze e i disagi della emigrazione fanno poi spesso gravare sul bilancio delle famiglie che hanno la fortuna di un modesto reddito fisso il mantenimento del parente disoccupato o fornito di una pensione di fame.La incapacità di elaborare programmi razionali determina però il disagio maggiore nel campo della abitazione. Le carenze e gli sperperi in questo settore vengono accentuati dalla ubicazione fortuita dei nuovi quartieri, dalla mancanza dei servizi e delle opere pubbliche, dal caotico modo di produzione della edilizia. Trascorrono anni di stentati lavori per realizzare quartieri inabitabili, già vecchi e decrepiti prima ancora di essere occupati. A Fuorigrotta un quartiere INA, impostato con criteri relativamente più organici, viene squarciato da una strada di intenso traffico per favorire la speculazione edilizia privata realizzata alle spalle. A Soccavo, a Secondigliano, nella stessa zona di Fuorigrotta tra la ferrovia e la collina, le aree per i nuovi quartieri vengono scelte con evidenti criteri speculativi e si sviluppano come mucchi di case, in genere a molti piani, senza prevedere nessuno dei servizi essenziali al vivere civile. A Ponticelli le aree del nuovo quartiere vengono pagate non in base al loro primitivo valore di zone agricole, né a 1.200 lire a mq. secondo la richiesta dei proprietari, ma a 7.000 lire a mq. in base alle risultanze di una scandalosa perizia giudiziaria. l lavori si trascinano in questo quartiere per anni e si è costretti ad ubicare in maniera irrazionale un modesto Centro Sociale perché in base alle norme di esproprio si possono costruire solo vani di abitazione e non servizi, pena la retrocessione delle aree all'antico proprietario.

Questo per quanto riguarda le stentate realizzazioni della edilizia economica e popolare, mentre una lava di cemento trabocca dal Vomero verso i Colli Aminei, i Camaldoli e Soccavo, con volumi sproposi­tati, non solo senza programma urbanistico, ma in contrasto con la regolamentazione vigente, e senza alcuna previsione di attrezzature civili. La intera collina di Posillipo, sui due versanti di Fuorigrotta e del Golfo, denuncia iniziative incontrollate e l'intemperanza giunge fino alla approvazione di stralci partico­lari del Piano Regolatore bocciato per favorire particolari iniziative dei Cafiero, dei Russo e Scarano, dei Comòla.

Da molte zone della provincia, ancora più arretrate e disorganizzate, si spostano giornalmente a Napoli, con circolazione a carattere pendolare, altre masse in cerca di lavoro e molte decine di migliaia di famiglie emigrano stabilmente nella città. Sulla via Petrarca sorge un intero quartiere di aversani, mentre le famiglie dei militari della Nato hanno creato i loro quartieri a Posillipo, sulla via Manzoni, con proprie attrezzature scolastiche e sportive, per sopperire, come in un paese coloniale, alle deficienze locali.

Molta vecchia edilizia è pericolante per la impossibilità di manutenzione di gran parte della piccola proprietà, ma su questo nuovo dramma si innesta la speculazione che sfrutta pericoli reali o ipotetici per potersi accaparrare nuove aree nel centro urbano e disporne a suo piacimento; per invocare l'interesse pubblico di un maggior numero di nuovi vani allo scopo di violare le attuali norme edilizie ed accrescere gli illeciti arricchimenti. Pesa così, in misura ogni giorno crescente, sulla cittadinanza ed in modo particolare sui lavoratori il costo dell'alloggio o della bottega, annullando i risultati delle dure lotte rivendicative condotte per mesi per un adeguamento del salario reale. A questa situazione fa riscontro in maniera contraddittoria il disagio dei piccoli proprietari, numerosissimi a Napoli per il frazionamento della proprietà edilizia, vittime anch'essi, per altro verso, del disordine e dell'indirizzo speculativo della politica edilizia delle classi dirigenti.

Nella città si aggrava ancora un'altra situazione, in maniera sempre più appariscente. La circolazione il più delle volte è completamente paralizzata, e non solo nelle ore di punta del traffico. Eppure, si continua a tamponare le falle più gravi, solo con mutamenti quotidiani della segnaletica adattando alla meglio giorno per giorno i servizi pubblici su strada ordinaria e ferrata. Ma il piano di Ricostruzione della via Marittima resta incompiuto, ma il tracciato della Circumflegrea procede da quindici anni con lentezza esasperante, e la Piedimonte d'Alife, la Circumvesuviana, i vecchi pullman insufficienti conti­nuano a rappresentare l'incubo quotidiano di quanti sono costretti a servirsene. Ma l'ing. Vanzi si fa liquidare circa 70 milioni dalla Circumvesuviana ed affidare dal Volturno il progetto di metropolitana che dovrebbe, con il suo tracciato, sventrare ancora una volta per qualche anno la Riviera di Chiaia ed il Rettifilo, le sole strade disponibili oggi tra l'occidente e l'oriente della città.

A centinaia potrebbero elencarsi le inconcludenze e le speculazioni che nessuno ormai tenta più di nascondere e nemmeno di giustificare. Basterà citarne due. La Radiotelevisione spende 6 miliardi per un impianto a Fuorigrotta, in aree sottratte alla Mostra d'Oltremare, e che per la loro posizione non consentiranno di trasmettere direttamente spettacoli dal S. Carlo; ma esso rischia di non poter addirittu­ra funzionare perché ubicato di fronte ai nuovi laboratori dell'Istituto di Elettrotecnica che dovranno operare su alte tensioni di oltre 1.500.000 di Wolts. E la stessa nuova Sede della Facoltà di Ingegneria, cardine di ogni programma di industrializzazione del Mezzogiorno, si trascina nella fase esecutiva da oltre sei anni senza prospettive di rapido completamento di attrezzature proporzionate alle esigenze della ricerca scientifica moderna e dell'insegnamento. ll nuovo Palazzo di Giustizia viene ubicato secondo le scelte di un Commissario Prefettizio ed altri sei miliardi verranno investiti in una zona assolutamente errata dal punto di vista urbanistico e perfino contro il parere della attuale Commissione del Piano Regolatore.

Il volto di questa città esprime quindi la completa anarchia nel suo sviluppo economico ed urbanistico, sotto la spinta di una legge inesorabile, quella del massimo profitto. La speculazione edilizia ne è uno degli aspetti più evidenti, perché materializzata nel cemento e nel ferro, ma l'indirizzo generale della classe dirigente pesa anche in modo determinante sui costi di distribuzione, sulla alterazione del valore nutritivo degli alimenti, sconvolge tutto il settore dei prodotti farmaceutici, blocca il settore del credito ai limiti della usura e della discriminazione, fa crescere il costo della vita ogni giorno in modo più intollerabile.

La situazione è resa particolarmente grave dall'assetto di tipo precapitalistico ed addirittura feudale delle strutture economiche nel Mezzogiorno, dai contratti agrari ai rapporti nella fabbrica, ai processi distributivi. ll clientelismo democristiano e la camorra laurina sono possibili appunto su un tale terreno. Processi di questo tipo deteriore, che nel quadro della stessa economia liberista e di mercato sono stati stroncati da oltre un secolo in altri paesi capitalistici, si sviluppano ancora qui a Napoli contrastati solo dalla lotta inflessibile della classe operaia e dei suoi alleati. Si tratta spesso di aperte violazioni delle leggi stesse che sono a base del sistema.

Alcuni aspetti del fenomeno sono giunti a tale livello che anche certi settori della classe dirigente ritengono necessario un intervento. Di qui nascono i tentativi di razionalizzare i processi, senza toccare le basi del sistema. Così, fra incessanti contraddizioni, si cerca di sanare le situazioni più scandalose ed intollerabili con enunciazioni programmatiche, salvo a sabotare ogni pratica iniziativa, anche limitata­mente rinnovatrice, quando essa minaccia qualche gruppo di interessi particolari. Così avviene per le municipalizzazioni, dove servizi essenziali vengono riconsegnati nelle mani della speculazione attraver­so la scelta dei nuovi dirigenti fedeli al sistema, così per la pianificazione urbanistica, dove alla iniziativa formale non fa seguito alcun impegno continuativo e deciso per stroncare la speculazione, dove i Piani democraticamente elaborati e talvolta perfino approvati non vengono adottati dagli organi periferici di un governo che vanta la programmazione come base dei suoi programmi. Né questo può sorprendere in uno schieramento politico che non ha la capacità ed il coraggio di realizzare i propri programmi, di affrontare i gruppi più conservatori e rinvia da anni le leggi fondamentali sull'ordinamen­to regionale, sulla disciplina della attività urbanistica, sulla riforma agraria, su quella degli Enti Locali, rifiutando la collaborazione del possente movimento rivendicativo dei lavoratori ed anzi contrastando in ogni modo la spinta rinnovatrice che viene da ogni parte del paese.

Cause

Tra le cause principali di questo processo di degradazione della città è la proprietà privata del suolo e tutta la catena di speculazioni che questa disponibilità suggerisce, sia nel caso di proprietà diretta, dentro e fuori i limiti consentiti dalla legge, sia nel caso di acquisizione della disponibilità di suolo pubblico attraverso l'uso del potere nelle pubbliche Amministrazioni.

Come esempio del primo caso, si hanno fatti quali la autonomia da qualsiasi Regolamento Edilizio, da oltre 40 anni, di una intera zona della città, alla radice della collina di Posillipo, proprietà privata di una famiglia che maschera appena i suoi interessi sotto la sigla di Società Partenopea Edilizia Moderna Economica, una modernità che opera in regime quasi feudale di concessione, una economia che ha fruttato agli interessati parecchi miliardi di lire.

Come esempio del secondo caso vi è la sottrazione dell'intero arenile di Mergellina al lavoro produttivo dei pescatori per concederlo alla speculazione dei pescivendoli, dei locali di trattenimento, delle linee di navigazione di lusso del Golfo. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda la caotica promiscuità degli altiforni e del Cementificio con la edilizia multipiani nella zona dell'llva di Bagnoli; per la iniziativa napoletana dell'lng. Foddis, divenuto famoso per lo scandalo romano della Teti, di costruzione dell'edifi­cio della Società Esercizi Telefonici, un nuovo blocco di cemento in sostituzione dell'ultima zona verde di Monte Echia, un suolo di cui sarà interessante conoscere il nome del proprietario ed il prezzo di acquisto.

In nessun caso il carattere sociale della produzione è più marcato come nell'aumento di valore dei suoli urbani attraverso il lavoro di tutta una collettività, né l'odioso carattere privato della appropriazione più evidente come quando al massimo profitto consentito dalle leggi economiche capitalistiche si aggiunge un ulteriore guadagno, ricavato dalla complicità e dalla corruzione dei poteri pubblici nell'infrazione delle leggi e dei regolamenti vigenti, nel sabotaggio delle norme in corso di elaborazione.

Uno degli aspetti più caratteristici di questa azione è lo stato di arretratezza di tutta la cartografia, per la quale sono pur state spese decine di milioni. Si può certamente affermare che Napoli manca di una cartografia aggiornata perché talune precisazioni di confini sono di ostacolo all'azione di chi ha interes­se di operare sull'equivoco. Infatti, una delle prime azioni della Amministrazione laurina fu quella di distruggere materialmente tutta la documentazione approntata con grandi sacrifici nella formulazione del Piano del '46, perfino un plastico altimetrico della città ed il rilievo del sottosuolo, così importante per la sicurezza dell'edilizia e per la soluzione di alcuni problemi essenziali della circolazione.

Tutto questo spiega l'accanimento ad affossare il Piano Regolatore di Napoli che la Amministrazione unitaria uscita dai Comitati di Liberazione pose a base dei suoi programmi nel '46 per promuovere una rapida ed ordinata ricostruzione, per avviare la realizzazione di una città modernamente attrezzata per un radicale cambiamento del vivere civile, per creare uno sbarramento alle prevedibili aggressioni della speculazione sulle aree fabbricabili. Per far risorgere una città ordinata e moderna dalle rovine della guerra fascista, quel Piano prevedeva 70 miliardi all'anno, per 12 anni, razionalmente investiti e demo­craticamente controllati. 640 sono stati i miliardi investiti a Napoli dai gruppi speculativi facenti capo ai gruppi monarchici e democristiani, per disarticolare una città, comprometterne gli sviluppi futuri e non affrontare nessuno dei suoi problemi di fondo. Oltre 50 miliardi sono stati intascati dai proprietari delle aree fabbricabili che niente avevano fatto per guadagnare una tale immensa ricchezza.

Ma se è così evidente la sofferenza dei cittadini costretti tuttora a vivere nei tuguri e nelle baracche, se la durata stessa della loro vita è ridotta rispetto al resto della cittadinanza, non meno doloroso è il calvario giornaliero dei lavoratori che debbono usare di una rete di trasporti pubblici frammentaria ed insufficiente. Si tratta di linee gestite da privati in modo tanto inadeguato da aver determinato vere e proprie sollevazioni popolari da parte di utenti esasperati. Ma non solo queste linee date abusivamente in concessione sono motivo di disordine e di disagio. Anche quelle a gestione pubblica sono a tal punto condizionate dall'intervento di interessi privati, in particolare per la manutenzione ed i criteri generali di amministrazione, da rappresentare nella vita quotidiana dei lavoratori, già tanto dura a sopportare, i due periodi più dolorosi, all'alba ed alla fine della giornata.

Infatti, nessun tentativo è stato fatto per unificare gli orari e le tariffe di tutta la rete dei trasporti pubblici, delle Ferrovie dello Stato, dell'Ente Autonomo Volturno, del Comune, per quanto riguarda il risparmio del tempo libero, la salute, l'incidenza sul salario dei lavoratori.

In questa situazione esaminiamo quale è la linea di condotta degli attuali responsabili politici ed amministrativi di questo stato di cose.

Essi non possono sfuggire alla discussione su tali gravi argomenti, ma tendono a spostarla sul piano puramente tecnicistico, mentre la programmazione economica e la pianificazione urbanistica sono scelte politiche interdipendenti, vincolative a tutti i livelli delle strutture e degli sviluppi. Questo non può essere ignorato dagli esperti che a tali opere sono chiamati a dare il loro contributo. Questo non è mai ignorato dai responsabili della direzione politica ed amministrativa i quali fanno le loro scelte con obiettivi precisi ed in tal senso precostituiscono i gruppi di lavoro disposti alla collaborazione.

Le ragioni della proprietà del suolo condizionano tutta la vita economica e culturale, dalla scelta degli investimenti, agli indici di occupazione, agli indirizzi della scuola. L'intera città compromette il suo aspetto e l'ambiente nel quale si era formata nel tempo, e si degrada per rispondere alle scelte della appropriazione.

A questo processo, di cui non riescono a nascondere gli effetti disgregatori, gli avversari non sanno opporre che vaghi impegni programmatici per qualche concentrazione di investimenti con l'intervento dei Monopoli Industriali, nei settori di massimo profitto, per i quali hanno inventato la denominazione di Poli di Sviluppo.

Su dati imprecisi ed ormai superati per il mutare della situazione, su cartografie non aggiornate è stato elaborato un meccanismo di sviluppo della economia campana e sono state indicate le prospettive di espansione della occupazione e del reddito nella Regione. Ma, essendo partiti non dalle aspirazioni delle popolazioni campane e dalle loro capacità, ma dai limiti degli investimenti che sono disposti a fare in questa Regione, vengono non indicati nemmeno sulla carta programmi di piena occupazione ma si teorizza sulla necessità di una emigrazione forzata di oltre 450 mila abitanti senza neanche precisare dove si trovano le nuove fonti di lavoro per questi cittadini.

Di fronte ad una tale insostenibile promessa, di fronte alla reazione dei lavoratori, gli industriali non hanno potuto sostenere un tal Piano e lo anno formalmente abbandonato, senza peraltro sostituirlo con nuovi programmi, mostrando di voler insistere nella loro intenzione di dare mano libera ai Monopoli e di non prevedere nessun intervento massiccio delle industrie a partecipazione statale.

E così si continua a procedere sulla stessa strada attraverso i programmi dei Consorzi indicati dalla Legge proroga per la Cassa per il Mezzogiorno, e delle relative Aree di Sviluppo Industriale, facendo di nuovo venire dall'alto scelte fortuite, intese solo a potenziare quelle già fatte nelle varie zone in modo discontinuo e speculativo, con programmi di insediamenti industriali che non avranno nessuna funzione di serio incentivo regionale perché non tengono alcun conto della situazione generale degli altri settori produttivi, sopratutto della agricoltura, e non considerano né la necessità economica, né gli impegni costituzionali di profonde riforme di struttura.

A questo punto occorre ribadire ancora una volta i criteri che il Partito Comunista pone a base, anche nella nostra città, di una pianificazione urbanistica democratica.

Elementi di Alternativa

Poiché tutti i limiti ed i mali provengono dal sistema della proprietà dei suoli urbani, noi ci battiamo per concrete misure intese a realizzare la nazionalizzazione del suolo. A questo fine tende la proposta di legge dei nostri parlamentari sulla disciplina della attività urbanistica. Essa precisa come elementi fondamentali, ai quali non è possibile rinunciare, il rapporto di interdipendenza tra programmazione economica e pianificazione urbanistica, onde garantire alle pubbliche Amministrazioni gli strumenti necessari a determinare le caratteristiche strutturali dello sviluppo e la loro traduzione in Piani Territo­riali. Questa proposta indica inoltre la dimensione regionale come punto di incontro tra le scelte di carattere nazionale e quelle di carattere locale, facendo assumere a tutta la materia urbanistica la funzione di centro democratico di elaborazione e direzione dei processi di sviluppo. La proposta di legge suggerisce infine un radicale intervento pubblico per eliminare l'appropriazione privata dell'incre­mento della rendita urbana derivante dalla spesa pubblica.

Vi sono dunque premesse di fondo che hanno le loro radici fuori del territorio comunale. Infatti, abbiamo dati sufficienti per conoscere le condizioni di arretratezza o di sviluppo in quelle zone del territorio in cui l'attività produttiva prevalente resta quella agricola. Lo studio degli insediamenti resta quindi legato alla scelta delle strutture capaci di condizionare le trasformazioni colturali, gli incrementi di produzione, i collegamenti tra produzione e consumo, è condizionato dalla gradualità degli investi­menti necessari per riproporzionare la distribuzione della popolazione attiva su un territorio più vasto di quello comunale, degli addetti tra i nuovi ed i tradizionali settori di produzione, anche allo scopo di predisporre una razionale rete di viabilità, principale e minore, per gli spostamenti pendolari delle masse lavoratrici di tutto il territorio che gravita intorno al centro urbano, per evitare gli attuali sperperi e le improvvisazioni.

Inoltre, va tenuto conto delle esigenze di concentrazione della produzione industriale in zone determina­te, adeguatamente attrezzate e collegate con le fonti di materie prime, con la distribuzione della popolazione, con i nodi di smistamento dei mercati di consumo interni, locali e regionali, verso le correnti di esportazione.

Ma queste zone non devono essere intese come poli di sviluppo intorno ai quali vengano abbandonate al loro destino altre zone storicamente arretrate e depresse, nelle quali più impegnativi e di reddito meno immediato possano risultare gli investimenti.

Ed ancora, insieme all'analisi dello sviluppo di queste attività produttive, in zone particolari, vanno considerati anche i mezzi a disposizione dei centri urbani per contribuire al contemporaneo sviluppo della produzione a carattere artigiano, la quale si è dimostrata perfettamente idonea, in una economia moderna, allo sviluppo delle sue capacità produttive senza rinunciare alle caratteristiche economiche e culturali del proprio settore.

Tutto questo dimostra come la scelta degli obiettivi, degli strumenti, dei programmi rappresenti un momento unitario di qualsiasi programmazione economica e delle conseguenti linee direttrici dell'inter­vento urbanistico.

L'aumento della popolazione, le aspirazioni crescenti degli abitanti a migliori condizioni di vita, le iniziative pubbliche e private condizionate dalla ricerca del massimo profitto sul mercato delle aree e delle abitazioni, il disordine crescente dovuto alle precise scelte di politica edilizia da parte degli Enti Locali, hanno creata una nuova dimensione del problema delle abitazioni sul territorio comunale. È anzitutto urgente arrestare questa frana edilizia, ed occorre una scelta precisa nelle definizioni delle norme e nella loro applicazione intransigente ad ogni livello.

Questa scelta va diretta verso la creazione di nuovi quartieri residenziali, capaci di inserirsi nelle zone più salubri e nei paesaggi tradizionali, senza interferire con le scelte relative ai problemi delle trasforma­zioni culturali, della ubicazione delle zone industriali, e sopratutto rispondenti ai livelli del reddito medio degli abitanti. Quartieri completi di tutti i loro elementi, dal verde pubblico ai servizi, alle attrezzature culturali e sanitarie adeguate ad una vita civile. Quartieri ubicati in base a criteri urbanistici e non secondo i confini amministrativi, assolutamente inadeguati ai grandi processi di espansione quantitati­va e di rinnovamento radicale della vita civile.

Questa scelta è legata in due modi a quella delle zone di lavoro. Da un lato si pone il problema delle distanze in rapporto alla velocità dei moderni mezzi di trasporto collettivi. Ma si pone d'altro lato il problema del costo delle abitazioni in rapporto al reddito, il problema cioè di produzione degli elementi costituenti l'abitazione e le altre attrezzature edilizie con i mezzi culturalmente più avanzati ed economi­camente più adeguati della produzione industriale.

Non saranno quindi soltanto i percorsi tra le zone residenziali e quelle di lavoro, nelle città e nelle campagne, a guidare le scelte, ma anche le dimensioni produttive ed i raggi di influenza più convenienti delle industrie fornitrici di elementi normalizzati.

Impostata in questo modo la nostra pianificazione urbanistica si presenta non solo come elemento determinante di tutta la nostra azione politica per il rinnovamento della vita civile di Napoli, nei settori del lavoro, della abitazione, della circolazione, dei servizi e delle opere pubbliche, ma anzitutto come precisa alternativa alla impostazione che ancora una volta la D.C. intende dare alla soluzione dei problemi della città, affidandone lo studio a Commissioni ed Enti privati legati ai gruppi dirigenti, responsabili nel passato più lontano ed in quello recente, della disgregazione del tessuto urbano, della speculazione che abbiamo solo in parte documentato finora, in tutti i settori e gli interventi pubblici e privati.

Questi gruppi hanno già manifestato le loro intenzioni per quanto riguarda gli indirizzi generali, le premesse economiche e gli sviluppi urbanistici del Piano, per quanto riguarda le decisioni in merito alla prosecuzione delle iniziative edilizie speculative, alla applicazione della Legge 18 Aprile 1962, n° 167 sulle aree fabbricabili, alla utilizzazione dei fondi della Legge Speciale e, come si è visto, principalmen­te alla impostazione antidemocratica e monopolistica dei Consorzi industriali. Per quanto riguarda le premesse economiche, problema fondamentale della città di Napoli è il raggiungimento del nostro obiettivo di accrescere la forza politica, la capacità contrattuale e le prospettive di partecipazione alla direzione ed alle scelte da parte della classe operaia e di tutti i suoi alleati, nei vari settori della produzione e della cultura.

Anzitutto, per quanto riguarda lo sviluppo della agricoltura, nelle zone del Giuglianese, del Frattese, delle Padule, del Nolano, dei Colli Vesuviani, delle Foci del Sarno, è possibile raccogliere dalla collabo­razione delle masse contadine le indicazioni essenziali per le necessarie trasformazioni colturali, per la creazione delle premesse, per le riforme di struttura, per l'arresto della fuga della rendita fondiaria, per la creazione di condizioni di lavoro proporzionate alle possibilità di una agricoltura industrializzata e moderna, svincolata da tutte le forme di oppressione e di ricatto economico che oggi ne limitano lo sviluppo. Questa analisi ci dirà con precisione le aliquote di addetti alla agricoltura che dovranno trovare nuovi posti di lavoro in altre attività produttive.

Inoltre, l'analisi di questo particolare problema rappresenta ancora un contributo alle scelte di fondo nel settore delle abitazioni. Indica infatti la possibilità per gli attivi che dovranno spostarsi in altri settori di produzione, di abitare eventualmente nei nuovi quartieri previsti da un Piano Regolatore Comprensoria­le e della applicazione della Legge 167 anche nella zona agricola, nel quadro delle scelte generali per le direttrici di espansione e gli attuali centri urbani.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle aree industriali, occorre ribadire, per quanto riguarda gli indici di occupazione e gli investimenti, le critiche in merito alle scelte ed alla concretezza; mentre è possibile indicare nei dettagli gli impegni da richiedere al Ministero delle Partecipazioni Statali per quanto è di sua competenza.

A fianco di questi settori produttivi vi è a Napoli il grosso problema della pesca, sia come razionalizza­zione dell'allevamento nelle acque interne, sia come industrializzazione della pesca costiera e d'alto del mare che interessa nella provincia di Napoli 20 mila addetti e circa 120 mila abitanti. Questo problema va considerato sia nel settore cantieristico per quanto riguarda la produzione di pescherecci, che per la sistemazione dei porti e degli approdi di armamento e dei relativi servizi a terra (frigoriferi, mercati, industrie di trasformazione, assistenza ai pescatori) e quello delle zone di abitazione destinate stabil­mente a questo settore produttivo, nelle zone adatte.

Per quanto riguarda il turismo, il primo modo di contribuire allo sviluppo di questo notevole settore produttivo è la elevazione delle condizioni di vita civile in tutti i centri urbani vicini alle zone di interesse archeologico, paesistico e balneare e di porre un freno definitivo alle rovine che degli ambienti famosi in tutto il mondo, va compiendo la speculazione edilizia. L'altro problema riguarda le attrezzature recettive, incrementando dal punto di vista qualitativo e quantitativo anche i posti di lavoro in questo settore.

Per quanto riguarda lo sviluppo urbanistico, avvenuto in modo disordinato sotto la spinta della specula­zione edilizia, con la conseguente disarticolazione di questi centri della provincia e di quello di Napoli in particolare, occorre premettere che il primo elemento della soluzione consiste nello sviluppo delle fonti di lavoro. Ma è anche indispensabile operare delle scelte di fondo per quanto riguarda un nuovo sistema urbano articolato. Questo non significa soltanto il vecchio concetto di espansione e non rappresenta la subordinazione del nucleo abitato al luogo di lavoro, ma un collegamento razionale dei vecchi e nuovi quartieri residenziali con tutti i settori di lavoro del comprensorio. Occorre anzitutto combattere vigorosamente una impostazione intesa a favorire lo sviluppo a macchia d'olio, caro ai padroni delle aree. Costoro sostengono che il centro urbano di Napoli è bloccato a sud dal mare, a occidente dalle colline, a nord dall'altopiano, a sud-est dal Vesuvio. Non resterebbe quindi altra soluzione che sbloccare lo sbarramento artificiale creato dagli impianti ferroviari verso oriente, spostandoli di qualche chilometro. Questa impostazione sulla quale tenta di tornare oggi la nuova Commissione del Piano Regolatore, fu già proposta nel Piano del `39 dalla Commissione della SME e del Risanamento e venne bocciata per la opposizione delle Ferrovie dello Stato alle quali non si offriva alcuna alternativa.

Questo indirizzo speculativo poggia su equivoche premesse urbanistiche: infatti, i quattro settori a nord-ovest, a sud-ovest, a sud-est e a nord-est di possibile ampliamento possono essere perfettamente serviti migliorando e coordinando la rete di trasporti pubblici su strada ordinaria e ferrata, seguendo, sopratutto per questa seconda rete, le notevoli esperienze fatte da oltre cento anni nei maggiori agglomerati urbani di molti paesi. Si tratta quindi di realizzare non delle direttrici di espansione ma un nuovo sistema urbano articolato.

L'influenza determinante su questa scelta è data dalla posizione del porto di Napoli che è fra le principali fonti di lavoro della città e che dovrà vedere decisamente migliorate le sue attrezzature ed i collegamenti viari e ferroviari con la rete nazionale autostradale e ferroviaria, così come era previsto fin dal `47 nel Piano di Ricostruzione.

Il coordinamento di tutti i mezzi di trasporti collettivi dovrà considerare la unificazione degli attuali tracciati ferroviari della rete da Villa Literno a Castellammare e a Cancello con gli anelli della Circumvesuviana, della Circumflegrea e della Piedimonte d'Alife opportunamente integrata per i brevi tratti di galleria tra Quarto e Marano, per il tratto da Piazza Amedeo a via Gianturco, lungo il confine tra la via Marittima e la zona portuale, nei tratti tra Piscinola e Montesanto, tra S. Maria dell'Arco e S. Pietro e Patierno.

Questo programma potrà realizzare, con una spesa limitata, largamente compensata dalla valorizzazio­ne delle nuove aree edificabili da essa servita, una efficiente rete metropolitana capace di collegare rapidamente qualsiasi zona di abitazione con le zone di lavoro nelle aree industriali e nelle campagne, con una incidenza sui redditi dei lavoratori non superiore al 3% dei salari reali.

Una tale impostazione dello sviluppo urbano di Napoli presuppone evidentemente una articolazione del Piano su scala comprensoriale.

Le stesse ragioni che fanno opporre la nostra alternativa alle iniziative del Consorzio Industriale ed a quella ancora più determinante del Nuovo Piano Regolatore di Napoli impostato dalla Amministrazione D.C., consigliano di estendere il comprensorio a tutti 163 Comuni nella zona di Quarto, Casoria, Volla, Nola e Foci del Sarno, per complessivi 100 mila ettari circa, con una popolazione che si avvicina ai due milioni di abitanti, in modo da formare un Consorzio unico di questi Comuni, legati dagli stessi interessi politici, economici ed urbanistici, capaci di opporsi unitariamente al disegno dei Monopoli e di far prevalere alternative democratiche sia nella impostazione che nella gradualità, anche in previsione dell'impegno di azione di questo Comprensorio nel quadro degli sviluppi urbanistici della intera Regione.

Con la collaborazione responsabile di tutti gli abitanti degli attuali piccoli e grandi centri urbani del Comprensorio si possono cercare le soluzioni per la ubicazione ed il dimensionamento dei nuovi nuclei lungo gli assi delle strade ordinarie e ferrate.

Questo sviluppo degli insediamenti periferici, collegati da zone di verde pubblico con gli attuali centri ed i loro nuclei storici, determinerà un riproporzionamento di valori delle aree edificabili e della proprietà immobiliare nei centri attuali, favorendo tutti gli interventi di restauro e le zone storiche di risanamento dell'edilizia malsana, di sostituzione dell'edilizia fatiscente. La scelta generale di questo indirizzo avrà una influenza determinante sui criteri di applicazione della legge n° 167, per un vincolo immediato delle aree edilizie e delle zone da destinare a verde pubblico.

Ma proprio in previsione di questa pianificazione urbanistica a largo raggio occorre pronunziarsi su alcuni problemi di emergenza che richiedono scelte e decisioni immediate, per arrestare il caotico sviluppo delle iniziative in corso, l'aumento indiscriminato dei suoli edificatori. Per quanto riguarda la politica edilizia delle Amministrazioni comunali, in rapporto alla concessione di licenze edilizie fino alla entrata in vigore del nuovo Piano, la nostra azione si deve proporre di portare le licenze edilizie alla approvazione del Consiglio comunale, ritirando le deleghe ai sindaci, e previo esame della Commissio­ne del Piano Regolatore Generale ed apportando qualche variante essenziale al Regolamento Edilizio in vigore.

In quanto alla Legge 18 Aprile '62, n° 167, essa potrebbe essere applicata come stralcio immediato del Piano Regolatore comprensoriale, seguendone i criteri di impostazione generali e particolari. Questo indirizzo potrebbe essere legato al tracciato della nuova Metropolitana, unificata sotto la gestione democratica di un Ente a partecipazione statale sul tipo dell'Ente Autonomo Volturno, e con rappresen­tanza degli Enti Locali nel Consiglio di Amministrazione.

Per quanto riguarda la utilizzazione dei fondi della Legge Speciale, essa può essere valutata secondi i criteri già indicati dal gruppo consiliare di Napoli, utilizzandola in parte per un primo finanziamento delle opere interessanti il settore delle attrezzature e dei servizi delle aree acquisite dal Comune attraverso la applicazione della Legge n° 167, di quelle interessanti la realizzazione dei primi allaccia­menti essenziali della rete metropolitana ed il completamento dei servizi essenziali per le attrezzature civili.

Politica di Pianificazione

Queste nostre enunciazioni non sono nuove. Nuovo vuole essere l'impegno di lotta per avviarle a realizzazione. Questa nostra lotta è più che mai attuale ed ha probabilità di riuscita, poiché il suo potere, nel quadro della pianificazione democratica, risiede proprio nella attuale situazione politica. Essa si inserisce infatti con una propria qualificazione nella spinta rivendicativa generale così estesa e vigorosa in tutte le categorie dei cittadini, ma in modo particolare nelle testimonianze più recenti che continua a darne la classe operaia. Si tratta infatti della lotta non solo per i miglioramenti del salario ma per tutti gli aspetti della condizione operaia, all'interno ed all'esterno della fabbrica. Si tratta di tutte le azioni al livello delle Assemblee elettive, con la partecipazione dei cittadini nella loro funzione di stimolo e di controllo. Si tratta delle lotte politiche generali per attuare il programma delle riforme strutturali.

Un carattere particolare della nostra azione nasce da considerazioni di carattere storico. Nei paesi socialisti la classe operaia ha conquistato anzitutto il potere ed ha poi avviato l'opera di programmazio­ne e di pianificazione. Noi operiamo sin d'ora, in questa fase di lotta democratica per divenire maggio­ranza, nel corso di questa azione di denuncia e di rivendicazione. Infatti, mentre rivendichiamo alle classi lavoratrici il diritto di piena partecipazione alla direzione politica ed economica del paese, indichiamo a tutta la popolazione le cause profonde delle sue sofferenze e delle sue insoddisfazioni, ed indichiamo ancora quali sono i mezzi, gli strumenti, i sistemi per cambiare finalmente le cose in Italia e giungere non solo ad una pacifica coesistenza con gli altri popoli, non solo ad un aumento della produttività, ma ad una giusta distribuzione del reddito fra tutti i cittadini.

Non crederemo ai miracoli finché con essi ci si limita a moltiplicare pane e pesci sulle mense dei ricchi ed a lasciare gli altri a contentarsi dei resti. Crediamo solo alle lotte organizzate per trasformare la realtà intorno a noi a favore della maggioranza dei cittadini.

Alla organizzazione di questa lotta devono tendere tutte le nostre forze se vogliamo riuscire. Negli anni duri della dittatura aperta e senza maschera, furono il coraggio, la tenacia, la resistenza, lo studio, la organizzazione ad avere infine ragione della violenza e del male. Quella vittoria ha posto oggi nelle nostre mani un grande strumento di lotta organizzata.

Su questi temi e nel quadro della nostra linea politica generale, ogni sezione di città e di provincia, ogni circolo democratico, ogni Assemblea deve diventare centro di elaborazione e di chiarificazione, per la nostra grande azione rivoluzionaria che ha per obiettivo di affidare finalmente nelle mani dei napoletani la loro città con le sue grandi ricchezze economiche, con le sue spiccate capacità di lavoro, con la tradizione della sua cultura.

La relazione è stata ristampata, a cura della sezione “G. dello Jacovo” del PCI nella brochure Luigi Cosenza: l’uomo, il compagno, Napoli 1985, pp. 62-76.

Non si è risparmiato in nessuno dei mestieri che ha praticato per servire i suoi ideali e agire secondo i principi in cui credeva...Urbanista e politico, organizzatore culturale e protagonista di iniziative volte a migliorare la comprensione tra culture diverse, lo abbiamo trovato sempre sul versante giusto della ricerca e dell’azione. Quando le lagrime saranno asciutte cercheremo di contribuire alla prosecuzione del suo lavoro.

La camera ardente è presso la Sala Consiliare del Comune di Bolzano mercoledì 30 aprile 2008, dalle ore 9 alle 13. La messa e il ricordo degli amici presso il Duomo di Bolzano a partire dalle 14..

Qui un suo scritto su democrazie e partecipazione.

Il testo che segue contiene la relazione e il successivo intervento, entrambi rivisti dall’autore, svolti nel corso del convegno organizzato dalla Compagnia dei Celestini, dal Dipartimento di Architettura e Pianificazione dell’Università di Sassari e dal Dipartimento di Pianificazione dell’Università Iuav di Venezia. In calce il programma del convegno. Ringraziamo Piergiorgio Rocchi che, in memoria di Silvano, ha inviato a eddyburg il materiale

Relazione

Vorrei centrare questo mio contributo sul rapporto tra partecipazione e politica visto dalla parte della politica. Intendo cioè assumere il punto di osservazione che si possiede “stando seduti” ai tavoli della partecipazione dalla parte dove stanno gli amministratori pubblici.

Lo faccio mettendo a frutto la mia condizione di urbanista a cui è toccato un “turno di servizio” come assessore comunale. Per l’analisi dei processi partecipativi è un buon punto di osservazione: direi che è la ... trincea avanzata. Mi scuserete il linguaggio bellicista, ma è proprio quel posto che, se lo occupi, ti espone al doppio fuoco e sei spesso colpito dalle tue retrovie! Fuor di metafora: sei messo in mezzo. E da lì vedi, sotto nuova luce, dispiegarsi le complesse dinamiche dei conflitti urbani e dei processi partecipativi.

Ciò premesso, non esito a dichiarare che ritengo intrinseco al ruolo di amministratore comunale il compito di governare “sul campo” i processi di trasformazione territoriale in rapporto diretto con le dinamiche socio-culturali della comunità che su quel territorio esprime i suoi bisogni e i suoi diritti. Intendo con ciò connotare specificamente la mission della politica comunale in quanto segnata dall’obbligo dell’ hic et nunc territoriale e comunitario, cioè dall’imperativo etico e pratico della vicinanza-concretezza-particolarità-...., distinguendola dai ruoli assai diversi degli altri livelli politici e istituzionali (superiori?!) che possono e forse devono connotarsi per distanza-astrazione-generalità-....

Se queste considerazioni, per quanto sommarie, hanno un fondamento, allora non c’è scampo: la frontiera comunale della politica non può non essere la frontiera avanzata della democrazia partecipativa.

Allora si profilano compiti di grande delicatezza e di grande fatica, dove la complessità supera largamente le previsioni e i risultati appaiono sempre minori (o diversi) delle attese. Diffidiamo di ogni esaltazione dei risultati concreti e sforziamoci di studiarne le dinamiche, cogliendone sempre le contraddizioni e le difficoltà assieme agli esiti più propriamente politico-culturali.

Veniamo dunque ad alcune considerazioni sulla fenomenologia della partecipazione, vista dalla parte dell’amministrazione.

Si è già fatto cenno negli interventi precedenti alle resistenze del ceto politico e delle istituzioni a fare propria una autentica cultura della partecipazione, prima ancora che ad utilizzarne le tecniche e le procedure, che fanno della partecipazione l’elemento strutturale e qualificante dei processi di pianificazione e di governo della città.

E’ vero: il sistema politico-amministrativo esprime una diffusa avversità ai processi partecipativi. Quand’anche non fosse un pregiudizio ideologico e culturale (peraltro assai diffuso, purtroppo non solo nelle amministrazioni più conservatrici!), è diffusamente presente come pregiudizio ... funzionale. Ho esperienza diretta di amministratori di sicura fede democratica che temono (e osteggiano) i processi partecipativi perché li considerano “generatori di conflittualità”. Ovviamente questo timore ha una sua fondatezza. Ma qui sta il nocciolo della questione. Se si crede nel valore democratico del processo partecipativo, non è legittimo temere che esso produca esiti irreversibili di “presa di coscienza” e dunque di implementazione della conflittualità. E’ l’innesco di un processo virtuoso di “presa di potere” da parte dei cittadini, secondo le varie modulazioni che dal potere di conoscenza passa al potere di pronunciamento e dunque al potere di condizionamento delle decisioni... fino al potere autentico di co-determinazione.

Nessuna meraviglia dunque di fronte al senso di paura degli amministratori. Una classe dirigente e un ceto politico, che sono predisposti culturalmente ad una gestione etero-diretta e gerarchizzata del potere all’interno di istituti di democrazia delegata, non possono che essere impauriti e preoccupati. Ma nessun amministratore può programmaticamente rifiutarsi ai processi partecipativi.

Si forma di conseguenza un secondo atteggiamento che definirei di “riduzione del danno”: la declinazione del processo partecipativo secondo una pura formula comunicativa. Ci si convince che noi amministratori siamo bravissimi (e appositamente delegati) a pensare, decidere, programmare e possiamo avvalerci di tecnici eccellenti che danno forma compiuta alle nostre decisioni, ma alla fine il vero difetto è che non siamo capaci di vendere il prodotto!

Allora scattano le contromisure: il processo partecipativo viene scisso in fasi distinte. C’è una prima fase detta “di ascolto” in cui il cittadino è chiamato ad esprimere le sue attese. La seconda fase “di progetto” viene delegata ai tecnici. La terza fase “di decisione” viene consumata rigorosamente nel chiuso delle stanze della politica. La terza fase “di informazione” si ri-apre ai cittadini, ma rigorosamente a valle delle decisioni che sono ormai ... blindate! Un simile processo, pur nobilmente comunicativo, è totalmente spogliato di ogni potenzialità-pericolo di condizionamento reale dei processi progettuali e decisionali.

L’incremento del tasso di comunicazione dei processi amministrativi è certamente cosa buona e utile, ma è molto distante e radicalmente diversa dai processi partecipativi autentici ai quali vogliamo riferirci. Infatti, attraverso la partecipazione nella sua forma radicale non si tratta di comunicare decisioni già assunte per farle conoscere e accettare, ma si tratta di implementare e riconvertire dal basso i processi di analisi e di decisione, secondo la prassi più avanzata della “ricerca-azione”.

Devo dire che mi è capitato di subire pesanti interferenze e condizionamenti dalla politica che frena e minimalizza i processi partecipativi, più che da quegli amministratori che ne sono semplicemente spaventati.

C’è però un terzo atteggiamento che rappresenta lo stadio più avanzato della evoluzione opportunistica dell’amministrazione. Cresce infatti la propensione di molti ad appropriarsi di questi processi in forma esplicitamente strumentale. C’è infatti chi pensa di aver capito quale e quanta funzione possa avere la processualità partecipativa in ordine alla formazione del consenso ad esclusivo favore del soggetto gestore del processo stesso, sia esso il singolo assessore o un intero schieramento politico. In questo caso la politica si appropria di raffinate strumentazioni e di abili consulenti, emulando metodi e strumenti dei sistemi di consulenza aziendale che ormai sul mercato offrono prestazioni di altissimo livello tecnico. Il processo partecipativo si ammanta di sofisticate procedure e di buoni linguaggi per diventare una macchina di costruzione e manipolazione del consenso.

Dentro questa gamma di atteggiamenti, dalla timorosa resistenza passiva al minimalismo comunicativo fino alla strumentalizzazione propagandistica, si misura l’alternatività vera e sostanziale dei processi partecipativi autenticamente democratici. E la loro autenticità si misura nel pieno diritto di cittadinanza riconosciuto ai conflitti come luogo della partecipazione.

C’è un unico vero test d’ingresso: il giudizio sui conflitti urbani! Chi ne dà un giudizio negativo può al massimo accettare un processo partecipativo per mitigare il conflitto ovvero per vanificarlo, ma non accetterà mai di attivare processi di autentico protagonismo civico. Chi, invece, riconosce la conflittualità urbana, con tutte le sue asprezze e le sue contraddizioni, come risorsa sorgiva della democrazia, accetterà di porsi programmaticamente il problema di governare i conflitti ed accetterà di mettersi in gioco promuovendo processi partecipativi autenticamente democratici. Si tratta infatti di riconoscere nella conflittualità urbana la propensione al protagonismo dei cittadini e di ricondurla all’interno di trame partecipative complesse. E di riconoscere, al tempo stesso, che il problema fondamentale è di governare il conflitto attraverso processi virtuosi di negoziazione e di mediazione, non solo tra i cittadini e l’amministrazione, ma anche i conflitti infra-comunitari, cioè fra i cittadini stessi.

L’universo urbano è sempre più caratterizzato dall’insorgenza di fenomeni di micro-conflittualità diffusa e spontanea. I cittadini hanno imparato a protestare, a organizzarsi in comitati, a praticare forme di lotta, ad usare i media ... E’ la forma spontanea della partecipazione agita e rivendicata! Prevalgono ovviamente i toni contestativi: si denunciano situazioni di disagio, di fastidio, di disservizio .... si polemizza con l’amministrazione. Ma si tratta, nella grande generalità dei casi, di problematiche che, nella loro sana concretezza, scontano necessariamente caratteri di mono-tematismo, di settorialismo, di particolarismo e, in fondo, di “egoismo”. Sia essa la lotta contro il traffico “nella nostra strada” che prescinde dalla valutazione sul traffico delle strade limitrofe; ovvero la reazione alle cosiddette “localizzazioni indesiderate” (discariche o case per stranieri, ecc.) di cui “si chiede solo di farle in un altro quartiere”: al conflitto con l’amministrazione si mescola immediatamente il conflitto con altri cittadini ....

Generare partecipazione democratica significa riconoscere legittimità ad ogni istanza che comincia a esprimersi “in particolare e in negativo” per implementarla “in generale e in positivo”, attraverso un percorso che incrocia la complessità dei problemi e l’interesse collettivo.

Questa procedura è, per la politica, un esercizio complicato ma obbligato. Perchè inerisce al fondamento stesso della democrazia e si insinua proprio nel cuore della crisi attuale della politica. E qui si aprirebbe un discorso assai lungo....

Le risposte nel corso del dibattito

Dal dibattito emergono interrogativi di fondo sul “senso di necessità” della partecipazione. In alcuni momenti la riflessione ha assunto una dimensione di carattere talmente generale da coinvolgere il concetto stesso di democrazia. Su questo livello ho difficoltà ad esercitarmi e tendo a riferirmi più specificamente a quel frammento della democrazia che si sviluppa all'interno dei processi amministrativi e, in particolare, nel settore dell’urbanistica. Ma, pur in questo ambito “minore”, voglio essere radicale: la partecipazione nella gestione degli enti locali e, in particolare, nei processi di pianificazione territoriale è politicamente indispensabile, intrinsecamente funzionale e virtuosamente innovativa.

Verso esperienze di democrazia sostanziale

Il grado di necessità deriva dalla capacità propria dei processi autenticamente partecipativi di generare senso civico collettivo e, di conseguenza, sviluppo di democrazia sostanziale . Perfino quando la partecipazione non è coronata da successi pratici direttamente misurabili ai fini diretti dell’iniziativa, lascia sul campo esiti irreversibili di riconversione culturale del modo di fare politica. Induce i cittadini a riappropriarsi di conoscenze e di poteri in ordine agli usi del territorio e alla attività di governo della cosa pubblica e della casa comune. Costringe i politici a rifondare il proprio rapporto con i cittadini, uscendo dalla mera liturgia elettoralistica e dalla totale autoreferenzialità del sistema politico contemporaneo. Introduce elementi di innovazione gestionale in una macchina amministrativa ferma nella sua rigidità secolare di stampo autocratico, separato, ostile ed opaco.

A parità di quadro politico e istituzionale, che conserva la normale routine amministrativa, sia a livello progettuale che a livello decisionale, il processo partecipativo su una specifica attività di pianificazione o di progetto modifica decisamente la filigrana dell’operazione stessa. Restano nella forma le procedure amministrative, gli iter di approvazione e di decisione, ma modalità partecipative di approccio alle procedure “di diritto” producono mutazioni di senso, facendo virare “di fatto” i contenuti della manovra e gli atteggiamenti dei singoli attori del processo verso esperienze irreversibili di approssimazione alla democrazia sostanziale.

Su questa sfida per l’implementazione sostanziale dei processi democratici, ho investito molto nell’assolvimento del mio ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Bolzano. Ho voluto, costantemente e programmaticamente, segnare in questa direzione la mia pratica amministrativa, agendo con libertà e pragmatismo, nella piena consapevolezza di non possederne la “ricetta”. Intendo dire che non credo in un metodo certificato per “fare partecipazione”. Non c’è il manuale pronto per l’uso, ma esiste un ricco patrimonio di saperi e di buone pratiche a cui possiamo attingere secondo le geometrie variabili e lo spirito di sperimentazione che la peculiarità delle situazioni richiede. Perché a seconda delle varie esigenze, delle varie tipologie di procedure amministrative, delle diverse condizioni di partenza, delle peculiarità locali, ecc. sono possibili, anzi,sono necessarie declinazioni autonome, creative e sempre diverse del programma partecipativo.

In questa prospettiva posso presentare sinteticamente tre concrete esperienze bolzanine che evidenziano la diversità di declinazione pratica della stessa logica partecipativa.

Il progetto CasaNova

Abbiamo sviluppato (e felicemente concluso) un’esperienza di partecipazione attiva e diretta su un progetto di pianificazione attuativa. Si trattava di elaborare il piano di attuazione su un’area di 10 ettari destinata all’edilizia sociale. Era prevista la realizzazione di un nuovo quartiere di iniziativa pubblica per insediarvi mille famiglie, attraverso l’intervento dell’Istituto Case Popolari e delle Cooperative. Il tutto nasceva in un clima di aperta conflittualità. I contadini e gli ambientalisti si opponevano alla sottrazione di aree agricole. Gli abitanti delle zone limitrofe si opponevano alla nuova edificazione e confliggevano con i “senza casa” che aspiravano alle assegnazioni. Gli ordini professionali rivendicavano un concorso di progettazione e confliggevano con il movimento cooperativo che pretendeva l’assegnazione delle aree e la piena libertà di auto-pianificazione. E via confliggendo!

Ho scelto di mantenere saldamente in mano pubblica la regia pianificatoria dell’operazione con l’obiettivo programmatico di garantire alla manovra tre eccellenze: l’eccellenza urbanistica, l’eccellenza ambientale e l’eccellenza partecipativa. Si è proceduto ad un concorso pubblico non tra progetti, ma tra progettisti. Un bando europeo, già esplicito sul “programma di triplice eccellenza”, basato su “curricula professionali e concepts progettuali” ha prodotto l’affidamento dell’incarico ad un gruppo interdisciplinare italo-olandese coordinato da Frits Van Dongen. Il mandato era esplicito e formalmente contrattualizzato: il progetto andava gestito work in progress sulla base di scenari progettuali da valutare e sviluppare attraverso una serie di workshop a partecipazione diretta da parte di tutti i “portatori di interessi e di sensibilità” coinvolti nella manovra.

E così è stato. Si è costituito un tavolo di co-progettazione a cui sedevano i progettisti incaricati, i tecnici dell’IPES (istituto case popolari), i rappresentanti delle cooperative, i rappresentanti degli abitanti già insediati in zona, i tecnici dei vari uffici comunali competenti. Il tavolo ha lavorato in 6 workshop, a cadenza mensile, a partire da tre diversi scenari progettuali (variabili: densità edilizia, impianto insediativo, tipologia, morfologia) elaborati dai progettisti incaricati. Fissate le invarianti di eccellenza ambientale (basso consumo energetico a 35 KWh/mq. anno, teleriscaldamento a co-generazione ed energia solare, gestione integrale del ciclo dell’acqua, ecc.), il tavolo ha progressivamente valutato comparativamente gli scenari, procedendo consensualmente alla scelta del modello da assumere e alla sua concreta declinazione progettuale. In sei mesi il piano di attuazione è stato così compiutamente elaborato e, con la forza del consenso realmente costruito nel vivo della sua elaborazione, è stato rapidamente e unanimemente approvato dal Consiglio Comunale. Il Progetto CasaNova è ora in fase di concreta attuazione, attraverso i singoli progetti edilizi direttamente elaborati dall’IPES e dalle Cooperative che sono divenute assegnatarie dei singoli lotti edificabili.

Non si pensi che questa operazione sia stata semplice come una ... passeggiata. È stata un'operazione assai complicata, che ha continuamente generato contraddizioni e conflitti. Ma i conflitti venivano gestiti in corso d’opera e producevano virtuosi avanzamenti del processo. Cito, a titolo di esempio, i conflitti tra il movimento cooperativo e l’IPES in quanto rappresentanti di due diverse tipologie di destinatari finali degli alloggi. Ovvero i conflitti tra i destinatari delle nuove case e i cittadini già insediati nel quartiere: i primi avrebbero preteso esclusivamente per se stessi il nuovo verde e i nuovi servizi in dotazione all’insediamento; i secondi giustamente rivendicavano il verde e i servizi come integrazione alla qualità urbana della più vasta area gia urbanizzata.

In conclusione Bolzano ha un nuovo quartiere, coerente con il programma delle “tre eccellenze”, e ne va giustamente fiera. E ha vissuto un’esperienza di partecipazione su cui basare l’avanzamento del processo di sviluppo urbano e di riqualificazione della sua periferia.

La mappa dei conflitti

Mentre procedeva l’esperienza del CasaNova e si misuravano le virtù partecipative di quell’operazione puntuale, è cresciuta (fortemente in me, molto meno nella mia Giunta!) la curiosità politica generale verso la dinamica più generale dei conflitti urbani nella città intera.

Va detto preliminarmente che Bolzano ha un ingombrante ... scheletro nell'armadio. Ha nella sua storia e nella sua “pancia” un problema di conflitto etnico. Non posso qui dilungarmi e schematizzo: l’Alto Adige è l’antico Tirolo del Sud annesso all’Italia per esito bellico e sottoposto ad italianizzazione forzata sotto il regime fascista; Bolzano ne è il capoluogo ed è città mistilingue ma a maggioranza italiana in una provincia a maggioranza tedesca... Ne deriva che, in ogni momento e su ogni questione, si teme o si rischia o si paventa o si alimenta ... il conflitto etnico, pur sopito grazie al raffinato modello istituzionale della speciale autonomia provinciale. C’è dunque una contraddizione latente, un umore di fondo, una linea d'ombra sempre pronta a riemergere. Come, ad esempio, quando la giunta municipale, formata dal centro sinistra e dalla SVP (il partito maggioritario di rappresentanza tedesca), ha deciso (udite, udite!) di cambiare il nome di una piazza. La piazza della Vittoria, caratterizzata dalla presenza del monumento di Piacentini dedicato alla vittoria contro i tedeschi nella prima guerra mondiale, veniva ri-nominata Piazza della Pace. La ribellione dei cittadini italiani di Bolzano, alimentata dalle forze politiche della destra nazionalista, ha imposto e stravinto il referendum che ha ripristinato Piazza della Vittoria. Sic!

In seguito a questa vicenda ho attivato il gruppo di Avventura Urbana per un lavoro di mappatura dei conflitti urbani, ponendo una serie di interrogativi, compreso quello etnico, per cercare di capire se e quanto covi ancora sotto la cenere la brace del conflitto etnico e come questo male oscuro interferisca con la miriade di micro-conflitti urbani che attraversano costantemente la città. Ne è uscita una mappa dei conflitti territoriali e dei loro attori, così ricca di suggestioni e di conoscenze, che mi induce a consigliare vivamente un simile lavoro a tutte le amministrazioni. Se ne ricavano infatti significative chiavi di lettura analitica della complessità urbana.

Abbiamo lavorato sul riconoscimento dei temi del conflitto e sul loro contenuto valoriale, sulla dimensione territoriale e sulla capacità di penetrazione, sul grado di coinvolgimento sociale con la capacità di mobilitazione e sull’effetto di organizzazione, sulla durata nel tempo e sul potere di interferenza con le politiche urbane, ecc. Abbiamo ricostruito un'immagine nuova ed inedita della nostra città che esprime un’alta numerosità di questi conflitti, caratterizzati da una dimensione prevalentemente minuscola, gestita da piccoli comitati a dimensione micro-territoriale, con modesta capacità di diffusione e di organizzazione in rete. Prevalgono nettamente i conflitti estemporanei e fugaci, spesso su temi di scarso spessore valoriale (bar fracassoni...) o di evidente segno negativo (contro gli immigrati, i tossici, i diversi, ...), comunque segnati da un fondamentale mono-tematismo e da limiti localistico-egoistici (non nel nostro cortile, non nella nostra strada, non nel nostro quartiere, ...). E le forme di espressione del conflitto restano fondamentalmente destrutturate e occasionali, largamente inconcludenti e a scarsa incisività politica, anche quando si manifestano con forte combattività e su contenuti obiettivamente nobili (traffico, rumore, inquinamento, sicurezza...).

Limiti e contraddizioni, dunque, ma la diagnosi complessiva è positiva! La notevole presenza di conflittualità urbana non è “inquinata” dal tradizionale conflitto etnico locale e costituisce un segno di vitalità civica che merita di essere messa a frutto attraverso un’offerta qualificata di “arene partecipative” strutturate, capaci di implementare i processi partecipativi attorno alla complessità dei temi e al loro radicamento territoriale e sociale. La conflittualità urbana bolzanina si presenta dunque come una risorsa da valorizzare, capovolgendo il tradizionale approccio difensivo o ostile della politica.

Il progetto OHA!

Con questa consapevolezza, ha preso corpo un progetto di sperimentazione della progettazione partecipata applicata alla complessità di un brano territoriale omogeneo.

Abbiamo scelto un intero quartiere Oltrisarco-Haslach-Aslago e lo abbiamo messo al centro del Progetto OHA! E’ un ambito territoriale sufficientemente grande e sufficientemente omogeneo per superare il limite del localismo e per rappresentare la complessità urbana. E’ un quartiere ricco di identità propria e ricco di micro-conflittualità monotematiche (contro il traffico stradale, contro l’inquinamento della zona industriale, contro la condizione di perifericità e la scarsità di servizi, ...). A quell’intero quartiere, all’intera comunità in esso insediata, ai suoi numerosi (e settoriali) comitati di lotta e al suo consiglio di circoscrizione, all’intero spettro delle sue problematiche urbanistiche e delle sue criticità sociali ... a questo piccolo, ma completo, universo di urbanità abbiamo offerto l’occasione di auto-gestirsi un progetto integrato e partecipato di riqualificazione urbana. Abbiamo messo a disposizione un gruppo qualificato di consulenti (gli urbanisti di Avventura Urbana e l’antropologa Marianella Sclavi), con il ruolo di “facilitatori” del processo partecipativo, e un gruppo di 12 funzionari comunali di varia competenza amministrativa, con il ruolo di interfaccia in progress con la macchina amministrativa. Abbiamo riconosciuto ai partecipanti la piena dignità del protagonismo civico.... e li abbiamo lasciati camminare.

Ci è così successo di assistere alla straordinaria liberazione di risorse creative e al dispiegarsi di un’esperienza di intensa e diffusa partecipazione attiva, che ha coinvolto centinaia di persone di tutte le etnie, età, genere, estrazione sociale.... E alla fine ci siamo trovati tra le mani un progetto di straordinario fascino e di assoluta concretezza: per la qualità dei suoi contenuti, per la trasversalità delle sue attenzioni, per la operatività delle sue proposte, per la centratura delle sue risoluzioni, per il senso di responsabilità delle sue indicazioni operative, per l’intrinseco tasso di condivisione diffusa. E ci siamo trovati di fronte un gruppo di cittadini che è diventato protagonista (e non intende smettere di esserlo) e un gruppo di funzionari comunali irreversibilmente ri-convertiti, ri-qualificati e ri-motivati.

La sfida di OHA! è ovviamente aperta, ma c’è già chi in altri quartieri comincia a chiedersi “perché noi no?”.

Di Silvano Bassetti, su eddyburg, si veda anche lo scritto su democrazia e partecipazione. Sul convegno di Bologna anche l'intervento conclusivo di Edoardo Salzano

La laurea in architettura l’ha presa solo nel 2004. Honoris causa. Ippolito Pizzetti, il più illustre fra i progettisti di giardini, disegnatore di forme e di profili paesaggistici, oltreché botanico, in realtà si era laureato in Letteratura italiana con Natalino Sapegno, anno accademico 1950. Argomento: Cesare Pavese. E la formazione umanistica ha sempre condizionato il suo sguardo sulla natura.

Pizzetti è morto ieri a Roma. Aveva ottantun anni. «Sono diventato naturalista quasi per caso», ha raccontato una volta. «Come Vita Sackville West», diceva. Il suo sogno era quello fin da quand’era bambino, ma con il passare degli anni nella sua vita è comparsa la letteratura, sono apparsi Goethe e Stifter, Lawrence e Thomas Hardy. «Non mi rendevo conto che diventavo un paesaggista leggendo Etruscan places di Lawrence oppure Nachsommer di Stifter».

Pizzetti è stato un cultore del paesaggio come luogo al quale si accede da molti punti d’osservazione, ma la cui fisionomia mescola le competenze, scioglie le discipline che rischiano, se fossilizzate, di sezionarlo a seconda se chi lo percepisce è un esperto di fiori, di architettura o di estetica. È stato il primo in Italia a ritagliare uno spazio specifico, dal punto di vista culturale, per la cura, la manutenzione e il restauro del verde. Pizzetti è stato insegnante universitario (prima a Roma, Venezia, Palermo, ora a Ferrara) e autore di saggi ( Il libro dei fiori del 1968, diventato poi una Garzantina nel 1998, Piccoli giardini, Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto). Gran parte della sua popolarità è legata alla collaborazione a giornali e riviste (dal 1975 al 1985 ha curato la rubrica "Pollice verde" sull’ Espresso, ma ha scritto anche per il Corriere della Sera, per La Stampa e molto per Repubblica), diventando divulgatore in un senso pieno del termine. Infine è stato progettista, da solo e con celebri architetti: fra gli altri, Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo, Gino Valle, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino. In tutte queste occasioni ha saputo offrire di un paesaggio e di un giardino un’immagine unitaria, un assetto definito nei suoi aspetti fisici e compositivi. Di essi ha fornito la narrazione viva, scrutandoli nella loro storia, nella storia dei loro elementi, nelle relazioni che intessono con il contesto.

Nel paese in cui il cemento avanza con andatura militaresca, Pizzetti non ha fatto mancare la sua voce quando si è trattato di difendere i diritti del verde - il verde inteso sia nella sua componente più naturale che in quella di artificio. È stato lui, ad esempio, a denunciare insieme ad altri la distruzione del patrimonio di ulivi secolari in Puglia.

Era nato a Milano, figlio di Ildebrando, musicista di grande notorietà durante il fascismo, operista e organizzatore culturale. Ma ha vissuto quasi sempre a Roma. Dopo la laurea, si è impegnato come traduttore. Si racconta sia stato Pietro Citati, un giorno, verso la metà degli anni Sessanta, a chiedergli un parere su un libro di orticoltura che stava per essere pubblicato da Garzanti. Pizzetti lo giudicò noiosissimo. «Perché non lo scrivi tu?». Nacque così Il Libro dei fiori, seguito dalla collaborazione all’ Espresso.

Negli ultimi anni Pizzetti abitava fra la Cassia e Corso Francia, in una palazzina con un grande terrazzo esposto a mezzogiorno. Un giardino può vivere anche sul terrazzo di un quartiere residenziale, teorizzava. Perché il giardino è l’espressione di una poetica. E questa può realizzarsi ovunque. Ma il suo paesaggio ideale era un paesaggio del Nord, ha detto una volta in una intervista. «Penso alla quercia e all’ornello, che sono le piante del Nord, come quelle del Sud sono l’ulivo, la sughera e il carrubo». Aveva in mente un bosco profondo, ormai scomparso.

Nelle sue fibre si agitava una vena polemica che si condensava in una scrittura asciutta e colta, tagliente e argomentata. «È assurdo», diceva, «ma in Italia i giardini non hanno alcun rapporto con le piante del luogo. I parchi pubblici, in Emilia, sono pieni di conifere. Le ha volute la moda, il gusto dell’altro, il rifiuto di piante che sentissero le stagioni». Cercava di bandire i luoghi comuni. Detestava i boschi costruiti, diceva, dalla forestale, da improvvisati botanici «che distruggevano il paesaggio delle coste piantando forsennatamente eucalipti». Un’avversione, quella per gli eucalipti, che faceva il paio con quella per le ossessioni geometriche. «Fin dall’infanzia ho avuto un profondo orrore per la geometria», e ciò lo rendeva diffidente verso il giardino all’italiana. Il giardino era ai suoi occhi come l’otium dei latini, il luogo di un piacere privato, un piacere che si esaltava nella cultura araba perché si nutriva di odori e di tatto. «Invece nella tradizione cattolica un giardino può essere bellissimo, ma resta un luogo di peccato, come quello di Klingsor, nel Parsifal».

Fino a che non gli hanno dato la laurea honoris causa era un paesaggista non architetto. Non la sentiva come una diminuzione. «I giardini io non li disegno, io vado sul luogo e decido come mettere le piante, poi magari faccio anche fare un disegno: ma per me è molto più importante conficcare dei bastoncini nel terreno e dire: qui ci va questo, qui quest’altro».

Si è spento domenica Michele Sernini. Ha affrontato la malattia col consueto piglio ironico, con quel tratto personale che gli conferiva a volte un che di altero, di scostante.

Nelle aule dello Iuav di Venezia ci sconcertava col suo comportamento. Quando non reagivamo alle sollecitazioni ci guardava come preso da un'improvvisa malinconia, poi appoggiava la fronte contro il muro o giocherellava col gesso in attesa che qualcuno parlasse.

Sapeva far nascere curiosità, stimolare interessi: dalla sua borsa magica uscivano libri a noi sconosciuti, nelle sue lezioni toccava anche discipline diverse dai saperi del territorio che costituivano il nostro riferimento: sapeva di filosofia, di sociologia, di diritto.

Era giunto all'insegnamento universitario nel 1972, chiamatovi dopo un articolo in cui analizzava criticamente i sociologi urbani francesi. Divenuto professore, fu collaboratore della rivista di studi urbani vicina a il manifesto, Città/classe, che vide riuniti alcuni degli studiosi più brillanti di quella generazione. Non fu mai un accademico. Orgoglioso della propria indipendenza intellettuale, sprezzante di cordate e di lobbies, sempre tagliente nei giudizi, era costretto a giocare per lo più la parte dell'ospite scomodo. Era coraggioso: dopo gli arresti del 7 aprile 1979, inserì nei suoi seminari alcuni libri di Antonio Negri, che stimava come studioso, pur non condividendone le posizioni. La cosa attirò l'attenzione degli inquisitori, e fu sottoposto a un paio di perquisizioni.

Un carattere poco incline ai compromessi e spigoloso non poteva permettergli una carriera lineare: promosso e rimosso si ritrovò ad insegnare a Reggio Calabria, dove rimase fino al pensionamento. Il suo libro più importante, La città disfatta, vide la luce sul finire degli anni '80 ed è uno dei testi fondamentali per capire le trasformazioni urbane dell'epoca. Si tratta di una difesa della città e della dimensione di vita metropolitana nei confronti dei teorici della fine dell'urbano e del trionfo della «città diffusa».

Convinto assertore della centralità dell'urbano, polemizzò tanto con i fautori del liberismo in campo urbano che con il localismo dei primi anni '90. Capì presto che la partita decisiva per le città europee si sarebbe giocata sul terreno delle loro capacità di rinnovarsi e di integrare la presenza di nuovi venuti, di accettare i migranti e di riuscire a garantire un minimo di urbanità per tutti. Negli ultimi anni, preoccupato per la piega che assumeva il clima politico-culturale, era incline al pessimismo, temeva un uso improprio dei suoi lavori; si sarebbe accontentato di lasciare in eredità istanze riformiste anche minime, di cui non gli pareva di vedere traccia. Diffidava delle enunciazioni dogmatiche e nutriva un'avversione per chi pontificava, eppure insegnò molto, con il suo modo colloquiale, sempre attento e disponibile.

Mi sono laureato con lui. Col tempo il rapporto divenne più paritetico, anche se il suo giudizio rimaneva per me importantissimo. Per oltre dieci anni è stato tra i primi lettori e critici dei miei scritti. Se il parere era positivo mi sentivo sollevato: un testo che andava bene per Michele andava bene per il mondo. Non era ipercritico, come alcuni pensavano: era rigoroso. In un mondo accademico dalla produzione scientifica sempre più approssimativa figure come la sua divengono rare. Fino all'ultimo è rimasto uomo di libri: al capezzale del suo letto d'ospedale tra gli altri, gli scritti di Paul Ricoeur sulla morte.

Qui il sobrio sito di Michele Sernini

Senza Licinio Ferretti, senza la sua capacità di applicare l’intelligenza imprenditoriale all’amore per la conoscenza del territorio, senza la generosità e la costanza del suo impegno nell’utilizzare tutte le risorse della tecnologia e dell’impresa nella documentazione geografica del territorio, né noi né i nostri posteri conoscerebbero, con la precisione delle più evolute tecniche volta per volta disponibili, le configurazioni assunte dal suolo dell’Italia negli ultimi cinquant’anni. Questa è una prima ragione per cui è necessario essere grati a Licinio Ferretti.

La pianificazione territoriale e urbana e, più in generale, il governo del territorio hanno sempre avuto la necessità di poggiare le scelte su un sistema di conoscenze puntualmente riferite alla realtà fisica del suolo.

Lo aveva compreso la veneziana Repubblica Serenissima quando, nel 1460, disponeva che si provvedesse “perché nella nostra Cancelleria e nella sede del nostro Consiglio di Dieci vi sia, veridicamente disegnata, l'immagine di tutte le nostre città, terre, castelli, provincie e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all'opinione di chicchessia”.

Lo ha compreso l’urbanistica moderna, da Patrick Geddes a Giovanni Astengo, quando ha posto l’analisi territoriale quale base necessaria della pianificazione urbanistica.

Lo hanno compreso, in Italia, le Regioni, quando nella prima fase della loro attività hanno costituito il Centro Interregionale di Coordinamento e Documentazione per le Informazioni Territoriali, in margine alla prima Conferenza Nazionale di Cartografia del 1979, e quando, più recentemente, hanno posto a cardine dei nuovi sistemi di pianificazione la “descrizione fondativa” del territorio come esplicito fondamento delle scelte di conservazione e di trasformazione.

Se oggi, in Italia, le amministrazioni pubbliche e gli altri soggetti impegnati nel governo del territorio hanno a loro disposizione strumenti di conoscenza adeguati (in molti casi all’avanguardia nel mondo) il merito è in gran parte di Licinio Ferretti, e questa è un’ulteriore ragione per essergli grati.

Licinio Ferretti ricorda quegli imprenditori del XIX secolo per i quali l’attività del capitalista era in primo luogo esplorazione delle strade del progresso scientifico come condizione per una evoluzione tecnologica capace di migliorare la produzione, e l’accumulazione era finalizzata a rendere possibile l’applicazione sempre più larga delle scoperte della scienza e della tecnica ai processi produttivi.

Ed egli può essere accostato a quei pochi, tra gli imprenditori dei secoli trascorsi, per i quali l’efficacia della propria azione non era misurata solo dal mercato, ma anche (e forse in primo luogo) dall’utilità sociale dei prodotti che erano capaci di inventare e di diffondere, dal contributo che essi davano all’accrescimento della conoscenza, della sicurezza e del benessere.

Al di là dei rischi impliciti nell’attività imprenditoriale, Licinio Ferretti ha saputo assumere quelli derivanti dall’incertezza del ritorno economico di talune iniziative che egli sapeva necessarie e (per quanto riguarda le capacità tecniche di cui si era fornito) possibili: come la realizzazione della monumentale impresa costituita dall’ortofotocarta digitale a colori in scala 1:10.000 dell’intero territorio nazionale, nota con la denominazione Programma “IT2000”™. In questa e altre circostanze Licinio Ferretti ha sostituito la sua azione a quella che – in più evoluti assetti politici e istituzionali – sarebbe stata propria dello Stato, esercitando nei confronti di questo una supplenza che solo tardivamente è stata riconosciuta.

Nei rapporti tra pubblico e privato Licinio Ferretti ha saputo testimoniare che il privato, quando la sua azione è alimentata da una tensione per la ricerca di un progresso finalizzato all’utilità sociale, può svolgere un ruolo di stimolo e finanche di guida dell’azione pubblica, invece di considerare questa la mansueta riparatrice e compensatrice dei propri errori e dei propri egoismi. E il cospicuo investimento dei profitti nell’attività di ricerca, orientata a un miglioramento non solo aziendale della qualità della produzione, testimonia della possibilità dell’impresa, anche in Italia, di svolgere un’attività di ricerca volta sia all’applicazione economica che all’evoluzione generale delle tecniche e delle conoscenze.

E’ per merito di Licinio Ferretti e dell’attività di produzione e di ricerca della sua Compagnia Generale Ripreseaeree che l’Italia è all’avanguardia nei campi dell’aereofotogrammetria, della cartografia ortofotografica a colori e del suo sviluppo ai fini della pianificazione e gestione territoriale. Lo testimoniano molte delle iniziative che ha sviluppato.

Con Licinio Ferretti, sembrano rivivere i tempi eroici dei pionieri italiani della fotogrammetria, ingegneri honoris causa Ermenegildo Santoni ed Umberto Nistri, che esponendo nei vari congressi internazionali le loro innovazioni ed apparecchiature fotogrammetriche avanzate, ottenevano allora attenzione e ammirazione dalle diverse assemblee di studiosi e specialisti dello stesso settore disciplinare. Proprio come avviene ancor oggi con la sua produzione fotocartografica innovativa ed accurata!

Ma c’è ancora di più, poiché trascorso il tempo degli sviluppi e dell’affermazione della metodologia fotogrammetrica, il suo attuale impegno imprenditoriale costituisce ormai un tangibile e concreto esempio di come l’innovazione tecnologica e metodologica possa garantire al lavoro italiano una competitività operativa senza confronti, in campo nazionale ed internazionale, suscettibile inoltre di prevenire e soddisfare sempre ogni nuova necessità o domanda del mercato dell’informazione territoriale.

Essenziale è risultato, a questo proposito, il suo contributo alla realizzazione negli anni 1982-85 del fotopiano degli insediamenti storici di Venezia alla scala 1:500, che ha costituito per l’epoca della sua formazione una completa innovazione nella descrizione degli edificati urbani e nell’analisi dei fenomeni di degrado ambientale della Laguna di Venezia, oltre a fornire affidabili elementi per lo studio dell’evoluzione urbanistica del centro storico.

Così come è risultato determinate il suo impegno scientifico ed imprenditoriale per lo sviluppo, in prosieguo di tempo, delle ortofoto digitali a colori del territorio italiano, con la possibilità di viste prospettiche tridimensionali, ottenute dalla combinazione delle stesse ortofoto digitali a colori col modello digitale del terreno (DTM), finalizzate sempre verso la protezione del paesaggio, verso la difesa civile e la salvaguardia ambientale.

Di grande interesse scientifico e sociale è poi risultato anche il suo impegno per la formazione di una regolare copertura aerofotografica del territorio nazionale mediante riprese ad alta quota relativa come: il Volo Italia 1988-89 ed il Volo Italia 1994, realizzati entrambi alla scala 1:75.000 con una risoluzione al suolo di 1 m, ed il Volo “it2000” 1998-99 alla scala 1:40.000, sviluppato nell’ambito del Programma “IT2000” inerente appunto la formazione di ortofoto digitali a colori di tutto il territorio italiano.

Notevole importanza ha avuto anche l’intenso e costante impegno delle Società del Gruppo CGR nel campo informatico e dei controlli agricoli integrati della comunità europea; in questo settore le Società hanno realizzato gli schedari oleicolo e viticolo del territorio nazionale e, successivamente, sviluppato un sistema integrato per la gestione e il controllo delle coltivazioni (seminativi) nell’ambito delle Politiche Agricole Comunitarie, applicando metodologie aerofotogrammetriche ed elaborazioni informatiche digitali. Questo sistema è stato proficuamente applicato con continuità dalla CGR non solo sin Italia per conto dell’AIMA, ma anche in Irlanda, Portogallo, Albania e Grecia per conto della Comunità Europea

Meritevoli di segnalazione risultano infine i suoi più recenti impegni professionali per sviluppare l’impiego di altri sensori tesi al monitoraggio delle Lagune di Orbetello; al rilevamento del fondale del Lago di Garda; al rilevamento e monitoraggio della frana del Corniglio; alla formazione dell’Ortofoto digitale della grande Genova alla scala 1:10.000, realizzata in occasione del G8 2002; all’applicazione del Laser Scanner e alle riprese aeree con Camera metrica digitale a colori associata a GPS, ecc.

Lodevole e benemerita è risultata comunque tutta la sua azione imprenditoriale per rendere sempre più aggiornate, efficienti e competitive le Imprese del Gruppo da lui formato e diretto, grazie anche all’adesione ad un Consorzio scientifico col CNR e l’Università di Parma, nell’intento di migliorare sempre più la qualità dei prodotti fotografici, ortofotografici e cartografici delle sue Imprese e di innovare i processi relativi alla loro formazione, mediante un armonico sviluppo eperfezionamento continuo, secondo gli intendimenti del “sistema qualità” e le specifiche di standardizzazione internazionale ISO TC 211, individuanti il reference model richiesto per l’interscambio dei dati geografici spaziali di interesse generale comune.

La consapevolezza della qualità della sua produzione e la sua volontà di svolgere un servizio a vantaggio della collettività sono infine testimoniati dalla organizzazione e gestione di un Archivio fotografico aereo di interesse scientifico e storico, che complessivamente annovera circa tre milioni di negativi relativi alle riprese eseguite sul territorio nazionale a varie scale e con diversi tipi di emulsione, dall’organizzazione di una esposizione museale di una raccolta personale di strumenti geodetici, topografici, fotogrammetrici e camere metriche dei secoli XIX e XX presso il Palazzo Ducale di Colorno (Parma), nonché dalle numerose pubblicazioni scientifiche.

Un complesso di iniziative dunque, che oltre a promuovere l’imprenditore Licinio Ferretti al ruolo di grande esperto delle scienze geotopocartografiche, proiettato verso le problematiche contingenti dell’informazione territoriale contemporanea, lo segnalano anche come un grande maestro preoccupato di assicurare il trasferimento culturale di cognizioni scientifiche, geografiche e storiche, alle nuove generazioni di tecnici ed esperti della pianificazione territoriale.

Relazione ufficiale preparata per il ciclo di seminari Verso il Piano di indirizzo territoriale 2005-2010 , organizzati dalla Regione Toscana e dalla Sezione toscana dell’Inu. Primo incontro su “La buona urbanistica”, Capalbio 15 settembre 2006.

Non esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministratori.

Se alla Toscana è stato riconosciuto qualche merito negli assetti e negli usi del territorio, si deve agli uomini e alle donne che fin dalla Ricostruzione seppero governare con capacità e lungimiranza prima le trasformazioni dello sviluppo economico e sociale, poi il consolidamento di una struttura territoriale che è ancora il patrimonio più prezioso su cui contare.

E’ a questo progetto politico e culturale, a cui contribuirono partiti, intellettuali, settori professionali, funzionari pubblici, sindacati, che ci si dovrebbe riferire quando si parla di modello toscano di pianificazione territoriale: non uno schema da riprodurre meccanicamente.

Ci chiediamo ancora se il cosiddetto modello toscano di pianificazione territoriale possa ambire a divenire riferimento per l’intero Paese, quanto meno utile indirizzo di riforma nazionale.

Ci dobbiamo confrontare con altre domande.

La prima: questo modello, che ha fatto della Toscana un territorio di eccellenza, può contare su capacità politiche, culturali, amministrative e tecniche – malgrado la proliferazione degli strumenti e delle procedure, la pervasività burocratica, il continuo mutamento di disposizioni e indirizzi – per contrastare – se contrastare si deve! – le iniziative di un’economia nuova che proprio su quella eccellenza fa aggio per piazzare sul mercato mondiale insediamenti ricadenti in zone dichiarate patrimonio culturale dell’umanità?

Si deve prendere atto della divaricazione tra gli strumenti che pretendono essere di governo del territorio – tuttavia mi chiedevo nel librino dello scorso anno: Chi governa, cosa? Chi effettivamente governa? – e il valore che il nuovo capitalismo (appunto globale) annette a territori (a luoghi, a città) come quello toscano, per strategie che non possono essere definite (unicamente) rendita immobiliare, tanto meno speculazione edilizia – quella che la politica urbanistica combatteva 50/40 anni fa – e che si avvalgono di progetti di qualità (anche su questo fronte la battaglia risulta persa)?

Il territorio deve costituire una vertenza nazionale per la nuova compagine governativa che fino ad oggi ha dimostrato scarso interesse per questo fronte di scontro economico e sociale?

Sussistono le condizioni e le capacità politiche, amministrative, economiche e sociali generatrici di quel modello? Quali suoi fondamenti risultano “esportabili”, se non è un fenomeno “locale” prodotto da quelle particolari condizioni? Se la pianificazione territoriale non è separabile dalla conquista e dalla gestione del potere, a seguito delle trasformazioni politiche e culturali il modello è destinato al collasso (ma non lo riteniamo un esito scontato)?

Pretendere di innovare e di progredire senza cambiamenti radicali è illusorio: per quanto possa dispiacerci, dobbiamo congedarci dal modello toscano di pianificazione territoriale?

Nondimeno l’operatività della pianificazione non è mai stata pre-stabilita, imposta, calata dall’alto; si è fatta nell’esperienza politica, amministrativa e tecnica, da cui scaturiva la condivisione di criteri, indirizzi, convinzioni, regole, che nel tempo hanno dato luogo a una riconoscibile figura di piano.

E’ emersa da questo piano la forma del territorio toscano: la Toscana dell’odierno immaginario collettivo, la Toscana come è percepita universalmente, non solo dal turista ma anche dalla popolazione autoctona.

Se il successo di un’operazione si giudica dai risultati, si può definire urbanistica buona il risultato di una parte consistente della storia del territorio che copre i 50 anni dal 1945 al 1995, durante i quali l’urbanistica pretende la propria autonomia dalla programmazione economica, in quanto tesa a realizzare il disegno del territorio regionale.

La separazione della pianificazione territoriale dall’urbanistica, già presente nella legge regionale del 1995, sancita definitivamente dalla 1/2005, se da un lato ha dato luogo ad un proficuo chiarimento, ben individuando le finalità e i contenuti degli strumenti di pianificazione, ha contemporaneamente disperso l’urbanistica, annullando il piano come forma, figura del territorio, come disegno, strumento compositivo dello spazio che ha rappresentato la grande tradizione degli architetti-urbanisti italiani: Giovannoni, Piacentini, Piccinato, Quaroni.

Edoardo Detti soleva dire che un piano bello è necessariamente un piano buono.

La crisi è anche di una figura professionale, divaricando il solco tra architettura, sempre più autoreferenziale e l’urbanistica che ne era il presupposto (nel 1935, Piccinato sosteneva la “netta subordinazione dell’architettura al fatto urbanistico”).

Quando si immagina la Toscana – il grande porto, la piattaforma logistica, le fasce infrastrutturali nord-sud, est-ovest, gli interporti, le ferrovie metropolitane, le città –, si sta disegnando il territorio regionale, si propone una forma territoriale, si rilancia sul tavolo l’assetto urbanistico.

Ma nella 1/2005 gli atti conformativi – che danno luogo all’assetto, al disegno, alla forma –, sono presenti solo a livello comunale (regolamento urbanistico, piani attuativi, piani complessi di intervento).

Quanto tempo c’è voluto per creare la cultura, inscindibilmente urbana e rurale, del territorio toscano? Un artefatto prezioso da conservare, pur senza pretesa di verità.

Quando può dirsi conclusa l’evoluzione del territorio toscano? Quando la cultura del territorio toscano si stabilizza in un patrimonio indisponibile? Quando la società regionale, nel suo insieme, trascurando aspetti e situazioni pur rilevanti, assume la conservazione integrale come riferimento stabile della politica territoriale?

La rottura del secolare legame città/campagna, dopo il termine della mezzadria e l’esodo dalla campagna, per un momento profila un collasso territoriale e sociale che la stabilizzazione della cultura del territorio, pur privata dei suoi motivi strutturali, per cause fortuite ma soprattutto per la scelta responsabile della classe dirigente toscana, in breve evita.

Più che in termini economici e sociali, quanto accade e si consolida attiene a una coscienza collettiva diffusa, trasfusa in un patrimonio politico e culturale che caratterizzerà da allora in poi la società toscana, delineandone una figura riconoscibile nel complessivo panorama italiano, le cui trasformazioni territoriali avrebbero allontanato il resto del Paese dalla Toscana.

Ricorrerà da allora l’immagine di isola, inevitabilmente felice in contrapposizione alle vicende cariche di traumatismi e di costi che investono le altre regioni italiane.

Tanto più la situazione è eccezionale o almeno tale la si giudica, tanto più viene difesa con l’energia che a volte sfiora l’arroganza, pur necessaria a fronte di interventi di puro sfruttamento dell’eccellenza ambientale; l’allarme di documenti recenti di varia provenienza, in merito ai mutamenti economici, sociali e territoriali che vengono avvertiti come una minaccia alla quiete e al benessere finora assicurati, provano quanto si fosse convinti di vivere in un isolamento dei cui vantaggi possono godere i toscani ma anche coloro che provengono da altrove, confidenti di una felicità territoriale in gran parte reale ma in qualche misura dovuta anche a un mito astutamente creato.

Le reazioni, a volte scomposte, di chi ha perso un progetto, invece di insistere sulle peculiarità regionali e di affermare l’eccezionalità di una cultura, sembrano rivolgersi verso prospettive estranee, lasciando in un contenzioso diretto, senza pervasive mediazioni politiche, coloro – in primo luogo gli amministratori locali –, che si trovano a dover decidere in merito all’irruzione sui propri territori di iniziative nei cui confronti possono avvertire di essere privi di tale progetto; per altro verso non indifferenti sia per migliorare i magri bilanci comunali sia per affidarsi a una speranza di sviluppo. Dover contare esclusivamente sulle proprie capacità negoziali, concentrate necessariamente sulla contingenza, può aprire brecce nelle condizioni di minore avvertenza e comunque distrae dalla necessità di un progetto politico complessivo di cui si avverte l’insufficienza se non la mancanza.

Appunto un modello: per questo motivo, il riferimento al dialogo.

Il dialogo non è praticabile in presenza di una pretesa di verità assoluta; è altrettanto necessario che gli interlocutori riconoscano un patrimonio comune di diritti e di valori, pur nella convinzione che ciascun individuo è responsabile del suo progetto di vita.

Esiste tuttavia un limite oltre il quale comprensione e tolleranza decadono in rinuncia (ai diritti) e dispersione (dei valori).

Distratti dagli aspetti procedurali, non abbiamo colto la innovazione contenuta nella legge regionale del 2005 sul governo del territorio: la netta separazione tra pianificazione territoriale e urbanistica, tra piano e progetti, l’abbandono del modello di piano suddiviso tra parte strutturale e parte operativa, presente nella legge regionale del 1995, che nel passaggio in corso tra piani strutturali e regolamenti urbanistici, sta identificando il regolamento urbanistico con un piano, se non con il piano regolatore generale di cui ripete contenuti e fisionomia.

Un’ambiguità rintracciabile nella legge del 2005, vuoi perché ripropone il regolamento urbanistico come piano, vuoi perché non libera il piano strutturale dalla parte strategica, dando modo di confondere ancora una volta piano e progetti.

I tre strumenti di pianificazione territoriale (regionale, provinciale, comunale) sono inoltre simili: nei tre compaiono una parte statutaria e una strategica e nei tre lo statuto del territorio ha gli stessi contenuti, come matriosche.

Cosa si propone? Di togliere dagli strumenti di pianificazione territoriale (piano di indirizzo territoriale regionale, piano territoriale di coordinamento provinciale, piano strutturale comunale) il contenuto strategico, spogliando inoltre il regolamento urbanistico dalla connotazione di piano, assimilato a un testo di regole urbanistiche e edilizie.

Lo strumento di pianificazione territoriale si riconosce esclusivamente nello statuto del territorio: quel qualcosa di immutabile, identificabile con la cultura del territorio toscano, nella consapevolezza della sua storicità.

Malgrado la complessità, non sempre evidente, della definizione e dei contenuti dello statuto del territorio negli articoli della legge regionale, lo statuto del territorio risulta essere compiutamente uno strumento di pianificazione territoriale.

Lo statuto contiene le invarianti strutturali che sono elementi cardine della identità dei luoghi, di cui lo statuto stabilisce le regole d’uso, i livelli di qualità e le relative prestazioni; persegue la tutela del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile e a questo fine si compone di un nucleo di regole, vincoli e prescrizioni.

Individua inoltre i sistemi territoriali e funzionali che definiscono la struttura del territorio, e ha valore di piano paesaggistico.

Lo statuto del territorio è il contenuto della pianificazione territoriale regionale, provinciale, comunale; l’urbanistica opera esclusivamente in ambito comunale. Come è noto, negli strumenti di pianificazione territoriale non risultano localizzazioni edificatorie, non si conoscono le aree ma nemmeno gli intorni (le utoe) di edificazione; determinate aree divengono edificabili solo al momento del progetto (indifferentemente d’iniziativa pubblica o privata): è il progetto che rende edificabile un’area e quindi soggetta a regime fiscale (Dl 223/2006, art. 36, comma 2).

Le strategie degli strumenti di pianificazione sono confutabili, controvertibili, soggette a mutamenti anche in tempi brevi, non lo statuto del territorio.

Solo lo statuto del territorio è pubblico, attiene alla totalità sociale.

Lo statuto del territorio (il piano pubblico) è per così dire, bendato nei confronti delle iniziative, dei programmi, dei progetti, degli usi delle risorse a fini di sviluppo e delle prestazioni che da esse si attendono: in generale dei propositi e delle azioni dei soggetti pubblici e privati che operano sul territorio (è qualcosa di simile alla “posizione originaria” di Rawls, nella quale gli individui, all’oscuro della loro posizione nella società), stabiliscono le regole.

I progetti (programmi d’impresa, pubblica o privata) non sono predisposti, non fanno parte del piano: rispondono alle esigenze e agli interessi (alle strategie) di coloro (indifferentemente soggetti pubblici o privati) che li promuovono, in modi anche concorrenziali. Essi fanno i conti non tanto con la disponibilità di beni e risorse, quanto con la capacità (Amartya Sen), con le funzioni che si è in grado (si è capaci di) esercitare effettivamente con quei beni e quelle risorse.

I progetti presuppongono la fiducia nei confronti di coloro che li attivano e la loro responsabilità personale: questo indirizzo limita la pervasività burocratica, ostacolo all’innovazione, fonte di formalismi e moltiplicatrice di strumenti e procedure.

Queste conclusioni non pretendono una terza legge regionale dopo che due leggi si sono succedute in breve tempo sottoponendo amministratori, tecnici, operatori a un notevole impegno di risorse, scelte e decisioni; nondimeno non acquietano la domanda essenziale: quanto l’apparato di strumenti di pianificazione territoriale e di atti di governo del territorio, oltre che di procedure, risponde, è adeguato alla nuova tipologia di sviluppo?

Si avverte che la legge dello scorso anno non ha determinato quel sussulto politico e culturale che seguì la precedente legge.

Indubbiamente non ci si poteva attendere una reazione paragonabile a quella di dieci anni fa: la stagione dei nuovi strumenti urbanistici avviata dalla 5, non è affatto conclusa (è noto che mancano ancora alcuni piani strutturali e molti regolamenti urbanistici, mentre viene dato fondo alle previsioni dei precedenti piani regolatori). Inoltre la 1 è stata considerata modifica e integrazione della precedente legge: per questo motivo non è considerata il riferimento per le nuove linee di sviluppo (i contenuti del PIT in circolazione profilano – o no? - un congedo dalla 1, malgrado le affermazioni di coerenza).

La pianificazione ha tempi lunghi: c’è voluto mezzo secolo per sostituire la 1150 con le leggi regionali di riforma della pianificazione; gli assetti e gli usi del territorio toscano sono stati governati per 50 anni con utensili poveri: la legge del 1942, le zone omogenee e gli standard del Dm. 1444.

Di nuovo, gli strumenti di pianificazione definiti dalla legge vigente sono adeguati alla governance della città globale? Sono capaci di governarne le contraddizioni? Rispondono alle esigenze del cittadino-produttore (produttore politico, economico, culturale)? Sono utilizzabili da parte della società del rischio?

La domanda è tanto più plausibile se si “visiona” l’intera regione come città globale - non una sua parte -, in cui urbano e rurale sono connessi, inscindibili, ovunque presenti contemporaneamente. L’urbano storico – le città, i borghi, i nuclei, persino i casolari sparsi - non sopravvivrebbe se non fosse emergenza di un contesto rurale, della campagna: Anghiari è, insieme, l’edificato entro le mura e la collina di cui fa parte, fino a comprendere la piana della famosa battaglia: la collina è indisponibile.

La piana di Bagno a Ripoli è altrettanto indisponibile della collina di Anghiari!

La collina a sé stante, non esiste; separarla dal territorio e sottoporla come tale, a tutela, a salvaguardia – tutt’altra cosa dalla conservazione –, non ne garantisce l’incolumità; la salvaguardia può essere disattesa (accade, e questa non è buona urbanistica), anche in nome di un’equivoca architettura di qualità.

Il metaobiettivo della collina è la metafora (l’allusione) del territorio (della cultura del territorio toscano): la norma di PIT che lo riguarda darebbe corpo al divieto di ulteriore impegno di suolo per insediamenti, contenuto già nella 5, ma rimasto inascoltato.

Un criterio di pianificazione che per altro prende atto dell’assenza di una grande capitale regionale, di un forte baricentro urbano, dovuta alla costante, a mio giudizio voluta ma anche per motivi storici, estraneità di Firenze nei confronti del territorio regionale.

I comuni toscani sono molto più di centri politico-amministrativi: per un verso sono un patrimonio di democrazia, di appartenenza civica, per altro verso i depositari della cultura urbana, di formazione storica, costituenti con le loro identità la fisionomia della città globale toscana, definibile come un insieme piuttosto che un sistema.

Già Foscolo aveva paragonato la Toscana tutta a un giardino: è pacifico che nessuno vuole morire giardiniere, ma l’immagine illumina uno stato di eccellenza, oggi piazzato sul mercato mondiale, a volte con risultati insoddisfacenti. La conservazione del territorio è un dovere per la società toscana: la premessa dell’innovazione e della creatività del nuovo corso di sviluppo.

Il modello toscano di pianificazione territoriale che qui si ripropone in quanto espressione di un’irrinunciabile cultura del territorio, non è il procedimento unico o il quadro conoscitivo, la valutazione integrata o la perequazione: è anche questo certo, ma è oltre. È ancora un progetto politico e culturale per una possibile classe dirigente.

In ricordo di Romano Viviani

di Giuseppe De Luca

«Fare Urbanistica? Prima di tutto cultura e poi politica». E’ con queste parole che Romano chiudeva una lunga lettera di risposta ad alcuni miei rilievi epistolari fatti in occasione dell’uscita di uno dei suoi numerosi asciutti e densi “libricini” (Postposturbanistica della casa editrice Alinea) nell’inverno del 1997. In queste poche parole può racchiudersi l’esperienza di vita e di lavoro accademico, professionale e politico di Romano Viviani. Scomparso improvvisamente, martedì 21 novembre all’età di 79 anni, nel pieno di una intensa attività di lavoro come pianificatore. Aveva appena visto adottare il Piano strutturale e relativo Regolamento edilizio e urbanistico di Gioia Tauro, era occupato all’aggiornamento del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Siena, alla redazione dei Piani strutturali e relativi Regolamenti Urbanistici di Sassetta, Capoliveri, Monteverdi, del Regolamento Urbanistico di Signa, all’avvio del Quadro conoscitivo di Palmi; ma anche di una selezionata attività di progettista, l’ultimo in ordine di tempo l’ampliamento della Fiera di Massa Carrara (inaugurata qualche settimana addietro); nonché di una altrettanto intensa attività di esploratore “sul campo” – come amava definirla – sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Non frequentava più le aule universitarie da molti anni, un po’ le mancavano, ma continuava a dare assistenza a studenti e giovani laureati, convinto com’era che il sapere tecnico oltre ai percorsi formativi accademici trovasse ninfa rigenerante soprattutto nell’incrocio con le pratiche del reale quando, ponendo interrogativi e prospettando soluzioni, si libera dall’aureola elitaria, per miscelarsi, contaminandosi fino a mettersi in discussione, nelle comunità e nei territori della quotidianità. Di questo sua attività di indagatore amava parlare e discutere a lungo, quasi a voler testare la sua capacità di interpretazione, condividendola, e confrontandola con l’altrui pensiero. Non ho avuto mai l’occasione di lavorare direttamente con lui professionalmente. Ho lavorato molto, moltissimo intellettualmente e su diverse ricerche, facilitato in questo dall’aver diviso e condiviso da molti anni lo spazio di lavoro e il desinare giornaliero. Questo suo “giovanile” spirito irrequieto emergeva in maniera istintiva, nel commento di letture o documenti di piano, nello scambio di numerose lettere (pur avendo le stanze attigue), negli schizzi e schemi che affidava alla provvisorietà del tovagliolo di carta, ma soprattutto dalla consuetudine di trasferire le sue riflessioni in documenti, molti dei quali destinati alla stampa.

«Urbanistica è politica» continuava a ripetermi; e «il piano lo strumento per darle senso». Concepiva il piano come un processo cooperativo interistituzionale che tramite azioni specifiche doveva tendere a correggere il tessuto economico e sociale esistente, più che la forma della città e del territorio. Rivendicando, in tal modo, una sorta di “politicità” essenziale nell’operare tecnico, di “olivettiana” memoria. Se urbanistica è politica, di conseguenza, il piano non può che essere pubblico. Questo il suo più forte messaggio che lo accosta ai grandi pensatori del Novecento, proiettandolo al futuro. Solo il piano pubblico, infatti, può affrontare le questioni dell’equità distributiva e della regolamentazione del mercato, di quello edilizio prima di tutto. Il piano pubblico, nella visione di Romano, non era altro che un progetto implicito di governo del territorio, non solo di urbanistica. Un piano atto a indicare i solchi da seguire e al contempo la matrice con la quale controllare quanto avviene nella quotidianità, lasciando alla libera estrinsecazione dell’azione privata la trasposizione del progetto implicito in progetto di trasformazione esplicito.

Proprio per questo, continuava a dire, l’attenzione deve essere rivolta verso «la cultura politica e l’apparato amministrativo», sono loro infatti che svolgono un ruolo essenziale nella costruzione del progetto implicito, che danno cittadinanza alle idee di trasformazione, che «conservano attivamente» e «costruiscono» i paesaggi e il territorio. La disciplina, gli strumenti, il sapere tecnico stratificato hanno certo un peso e un ruolo significativo nella definizione delle politiche pubbliche e nel loro trasferimento in piani, programmi e progetti. Ma è la sensibilità della cultura delle classi dirigenti, dei politici e degli amministratori che dà vibrazione e gambe al governo pubblico delle città e dei territori.

Questo è il percorso che Romano ha praticato e che lascia a noi, alla maniera dei grandi maestri, come insegnamento.

“Lucio Gambi è il più grande geografo italiano, il primo dell’Italia democratica”, così me lo definì, molti anni fa, un addetto ai lavori qual era Francesco Compagna, direttore di “Nord e Sud”. Ebbene, questo scienziato di straordinario valore è scomparso senza che i grandi giornali, in tutt’altre faccende affaccendati, gli abbiano dedicato, a quanto ne so, una riga di ricordo. Così va l’Italia. Eppure Gambi, legato ai geografi francesi, curatore dei volumi sulla megalopoli americana di Jean Gottmann, impresse ai nostri studi di geografia umana un’autentica svolta, a partire dagli anni ’50. “La polemica che da vari anni sto conducendo contro le impostazioni tradizionali di una geografia calcificata in un antiquato schematismo…”, scrisse nei primi anni ’60 parlando delle trasformazioni di Ravenna dove era nato nel 1920. Nemico quindi di una geografia come “disciplina puramente descrittiva e misurativa di oggetti e fenomeni”.

Lucio – posso chiamarlo così per aver avuto lunga consuetudine con lui – veniva dall’esperienza formativa della Resistenza alla quale aveva partecipato come azionista. Di lui si ricorda, prima che s’incamminasse verso gli alti studi, la creazione in Romagna di una radio popolare che seguiva in diretta i processi ai gerarchi fascisti. Un impegno politico che, sia pure espresso in termini culturali, non venne mai meno. Negli anni cruciali e febbrili del Movimento, dopo il ’68, Gambi fu, con Marino Berengo e Franco Catalano, il docente che più si espose, alla Statale di Milano, nel partecipare al tentativo di dare un altro senso all’Università sin lì “baronale”, con la cattedra lontana, a volte lontanissima, dagli studenti.

Poi – pur mantenendo sempre casa a Firenze - tornò nella sua terra, cioè in Emilia-Romagna avendo cattedra a Bologna. Dove fu anche il primo presidente dell’Istituto Regionale dei Beni Culturali, che negli intendimenti dei fondatori doveva essere un organismo di alta qualità scientifica al servizio della programmazione e della pianificazione regionale. Uno dei dati di fondo della vita e del magistero di Lucio Gambi, fra l’altro oratore suadente e lucido scrittore, rimase sempre la visione larga, planetaria, dei problemi della geografia umana e, insieme, l’interesse puntato sui problemi della storia e dell’esistenza, individuale e collettiva. Convissero in lui gli studi sulla megalopoli e quelli sulla casa rurale dell’Appennino o della pianura, la vasta monografia sulla Calabria, oppure il lavoro di gran mole su Milano (una delle fatiche più recenti) e la partecipazione al convegno locale, per esempio sulla marineria romagnola, adriatica in generale, dal quale, grazie anche alla sua regìa, doveva poi scaturire, a Cesenatico, il solo museo galleggiante dedicato alla gente del mare, alle sue barche con le vele giallo ocra e rosso scuro, a losanghe, coi simboli di famiglia.

Una volta disse che “difronte alla complessità della realtà umana, la ricostruzione di un paesaggio topografico è poco più di un elementare schizzo”. Un’idea, quest’ultima, che riprese mentre componeva il magistrale affresco della introduzione alla Storia d’Italia di Einaudi. Un modo laico di porsi di fronte alla storia. Lucio Gambi aveva speso molte delle proprie energie nello studio del paesaggio umano, osservandolo, studiandolo in una fase di trasformazione tanto profonda - per esempio, la estirpazione della “piantata” di pianura, risalente agli Etruschi e ai Celti - da prefigurarne la scomparsa. Specie in quella pianura resa dalle macchine sempre più piatta e pelata. Era uomo di improvvise accensioni, con gli umori tipici delle sue origini. Un anno, al premio Cervia per l’Ambiente, dove lui era in giuria, dopo la cerimonia nel piccolo, delizioso teatro della città delle saline e delle pinete, proprio in un enorme magazzino dei “pignaroli”, alla Bassona, si tenne una cena affollatissima. Siccome faceva già un freddo autunnale, il sangiovese corse generosamente. Alla fine, insomma, un coro intonò la famosa canzona degli “scariolanti” ravennati, i braccianti della bonifica, che già nella notte si avviano al lavoro con le carriole (“A mezzanotte in punto/ si sente un gran rumor”) e, nell’attacco, il noto geografo Lucio Gambi, alzatosi in piedi, esibì, da solista, una nitida voce tenorile.

Nota: Di Lucio Gambi, su eddyburg_Mall un contributo sul tema delle circoscrizioni amministrative (f.b.)

Titolo originale: Jane Jacobs, Social Critic Who Redefined and Championed Cities, Is Dead at 89 – Scelto e tradotto per eddyburg_Mall da Fabrizio Bottini

Jane Jacobs, scrittrice e studiosa che aveva rivolto il suo sguardo penetrante e profondo alla danza sui marciapiedi delle strade nel suo Greenwich Village, in un libro che ha sfidato e trasformato il modo in cui la gente guarda le città, è morta ieri a Toronto, dove si era trasferita dal 1968. Aveva 89 anni.

Si trovava in ospedale, ha detto una lontana cugina, Lucia Jacobs, che non ha riferito particolari sulle cause specifiche del decesso.

Col suo libro, The Death and Life of Great American Cities, scritto nel 1961, la Jacobs aveva raggiunto l’enorme risultato di andare oltre le proprie fulminanti critiche alla pianificazione urbanistica del XX secolo, proponendo principi radicalmente nuovi per ripensare le città.

In un’epoca in cui sia il senso comune che il pensiero più ispirato auspicavano di radere al suolo gli slum per aprire nuovi spazi urbani, le indicazioni della Jacobs erano per più diversificazione, densità, dinamismo: di fatto, verso un maggior affollamento di persone e attività insieme, in una gioiosa confusione urbana.

La sua critica alle città del paese spesso viene accorpata al lavoro di scrittori che negli anni ’60 scuotevano le fondamenta della società americana: l’attacco di Paul Goodman alle scuole; l’aspro ritratto della povertà di Michael Harrington; il fuoco di sbarramento di Ralph Nader contro l’industria automobilistica; o lo spietato percorso di Malcolm X attraverso le divisioni razziali dell’America, solo per citarne alcuni. E ancora oggi, continua ad influenzare una terza generazione di studiosi.

" Death and Life" prescriveva tre raccomandazioni base per realizzare varietà locale: 1. La strada, o distretto, doveva svolgere numerose funzioni. 2. Gli isolati dovevano avere dimensioni limitate. 3. Gli edifici dovevano essere diversi per età, condizioni, usi. 4. La popolazione doveva essere addensata.

La tesi della Jacobs si sviluppava attraverso letture eclettiche e approfondite. Ma la cosa più irresistibile era la descrizione della vita quotidiana osservata dalla casa sopra il negozio di dolciumi al 555 di Hudson Street, vicino all’incrocio con l’11°.

In quelle descrizioni, scende a portare la spazzatura, in bambini vanno a scuola, lavanderia e barbiere stanno aprendo le serrande, le donne escono a chiacchierare, i portuali entrano al bar del quartiere, gli adolescenti tornano da scuola e si cambiano per uscire con gli amichetti, e un altro giorno è passato. Qualche volta succede qualcosa di diverso: uno zampognaro appare in una sera di febbraio, per la gioia di chi si raccoglie ad ascoltarlo. Vinci o estranei, tutti si sentono al sicuro perché non sono mai soli.

"La gente che conosce bene queste strade animate di città sa com’è" scriveva la Jacobs.

Robert Caro, storico, ha dichiarato ieri in una intervista che la Jacobs non era certo la prima ad enfatizzare l’importanza del vicinato e della comunità. "Ma nessuno l’aveva mai raccontato in modo tanto brillante prima" ha aggiunto. "Diede voce a qualcosa che aveva bisogno di essere raccontato".

Alcuni critici hanno usato aggettivi come "trionfante" o "germinale" per descrivere " Death and Life". Altri, non pochi dei quali col dente avvelenato, sono stati meno gentili. Lewis Mumford, critico e storico sviscerato dalla Jacobs nel libro, scrisse in una recensione sul New Yorker che dimostrava “filisteismo estetico e vendetta”.

Le battaglie di cui ha acceso la scintilla sono ancora in corso, e le critiche erano probabilmente inevitabili, visto che un lavoro tanto ambizioso veniva da una persona che non aveva nemmeno terminato gli studi superiori, né aveva un ruolo professionale nel settore.

Indiscutibilmente, il libro fu una sfida radicale al pensiero corrente, come nel caso di Silent Spring di Rachel Carson, uscito l’anno successivo e che contribuì a lanciare il movimento ambientalista, o The Feminine Mystique di Betty Friedan, che influenzò profondamente i rapporti fra i sessi, del 1963.

Come queste due altre scrittrici, anche la Jacobs riuscì ad evocare prospettive nuove. Alcuni le liquidarono come dilettantismo, ma per molti altri si trattò di un punto di vista non solo accettabile, ma improvvisamente ed eminentemente ragionevole.

"Quando un intero campo di riflessione sta andando dalla parte sbagliata, quando l’applicazione routinaria del pensiero corrente ha prodotto risultati disastrosi come credo avvenisse per l’urbanistica e le trasformazioni urbane degli anni ’50, allora probabilmente toccava a qualcuno dal di fuori indicare l’evidenza" ha scritto Alan Ehrenhalt nel 2001 su Planning, la rivista della American Planning Association.

"Ecco cosa fece Jane Jacobs 40 anni fa" ha concluso.

Azioni, non solo parole

Jane Jacobs non si limitò alle parole. Nel 1961, insieme ad altri contestatori fu allontanata da un’udienza della City Planning Commission su un progetto di urban renewal per il Greenwich Village a cui si opponevano, dopo che si erano alzati dai posti a sedere e avevano raggiunto la presidenza.

Nel 1968, fu arrestata con accuse di sommossa e comportamenti criminali, per il disturbo di una seduta dedicata all’approvazione di un’autostrada urbana che avrebbe tagliato in due la Lower Manhattan e distrutto un tessuto centinaia di famiglie e attività. La polizia sostenne che aveva cercato di strappare il nastro con le trascrizioni stenografiche.

La battaglia contro quell’autostrada lanciò la signora Jacobs in una battaglia impari contro Robert Moses, l’immensamente potente autocrate e grande costruttore dell’epoca. Gli oppositori vinsero.

La Jacobs si trasferì a Toronto nel 1968 per l’opposizione alla Guerra in Vietnam e per evitare il servizio militare ai suoi due figli in età di leva, impegnandosi rapidamente anche nelle battaglie urbane locali. Si trovò quasi subito alla guida di una lotta per fermare una freeway anche qui.

Divenne un’apprezzata intellettuale di frontiera, caratteristica con la sua faccia rotonda, il sorriso birichino, le scarpe da tennis, la frangetta e gli occhiali spessi. Ma Roger Starr, ex amministratore per l’edilizia popolare a New York City spesso avversario della Jacobs, fa notare la tempra d’acciaio dietro quella gentilezza.

"Che personaggio, caro e dolce, che non era" ha detto.

Dopo essere stata allontanata dall’udienza della Planning Commission nel 1961, sono le sue stesse parole a sottolineare l’atteggiamento indomito. "Siamo stati solo uomini e donne spintonati" dichiarò.

Ma scontrarsi col governo, anche essere arrestata insieme a Susan Sontag e Allen Ginsberg durante una protesta contro la leva obbligatoria, era qualcosa che, dichiarava, era stata obbligata a fare di fronte a decisioni “spaventose”.

Quello che odiava di più, di questa attività, era il fatto che le togliesse tempo alla scrittura, a quello che definiva il suo modo di pensare. E almeno in cinque ambiti di riflessione lo faceva in modo profondo e innovativo: urbanistica, storia della città, economia regionale, moralità dell’economia e natura dello sviluppo economico.

Ciascuno dei suoi libri principali portava naturalmente al successivo. Partendo dal rapporto fra le persone e la città, analizzò il ruolo delle città nella nazione, i rapporti delle nazioni l’una con l’altra, il ruolo di ciascuna in un mondo di principi morali in conflitto, e infine la crescita economica in quanto sviluppo di organismi biologici.

Un piccolo libro del 1980 che sosteneva la separazione del Quebec creò una certa tensione in Canada, e una memoria del 1996 che curò sull’esperienza di una nipote insegnante nell’Alaska rurale, impressionò la critica per la sua semplice saggezza.

Ma fu " Death and Life", pubblicato da Random House, a scuotere il mondo dell’architettura e dell’urbanistica.

Da un lato, era il primo attacco progressista all’idea progressista di urban renewal. Contemporaneamente, il critico del New York Times Brooks Atkinson ci lesse una visione antica della comunità che paragonò a quella del Grover's Corners immaginato da Thornton Wilder. La stessa Jacobs riteneva che l’attualità rinnovata del libro stesse nel suo scavare in profondità la natura umana, come in un buon romanzo.

Nel 2003, Herbert Muschamp, principale critico di architettura del Times, scrisse che il libro della Jacobs era stato "uno degli eventi più traumatici del XX secolo per l’architettura" anche perché metteva in secondo piano l’importanza della progettazione.

Negli anni più recenti, era diventato di ispirazione per architetti e urbanisti che avevano abbracciato il cosiddetto New Urbanism, tentativo di promuovere l’interazione sociale inserendo caratteri “jacobsiani”, come i negozi al pianterreno, nei complessi suburbani.

Patrick Pinnell, architetto di questa corrente, dice che " Death and Life" ha rappresentato l’ultima espressione di ottimismo sulle città americane. Già nel 1974, John E. Zuccotti, allora presidente della New York City Planning Commission, definì la Jacobs profetica, e sé stesso "neo-jacobsiano" annunciando un approccio alle trasformazioni urbane più sensibile e attento alla piccola dimensione. La Jacobs era nata Jane Butzner il 4 maggio 1916, a Scranton, Pennsylvania. Suo padre era medico e la madre insegnante. Ha ricordato di essere stata un’alunna indisciplinata, che faceva stupidaggini come gonfiare e far scoppiare sacchetti di carta in refettorio. Preferiva leggere libri sotto il banco che ascoltare l’insegnante.

In un’intervista a Azure del 1997, ha raccontato la sua abitudine di immaginarsi conversazioni con Thomas Jefferson mentre faceva commissioni. Quando non riusciva a pensare più a niente da dirgli, lo sostituiva con Benjamin Franklin.

"Anche lui, come Jefferson, era interessato a cose elevate, ma pure a piccolo cose terrra-terra" raccontava, "come il motivo per cui il vicolo dove stavamo passeggiando non era asfaltato. Si interessava di tutto, e quindi era una compagnia interessante".

Anni dopo, capì di aver sviluppato il proprio talento per esporre idee complesse in termini semplici, proprio facendo pratica con l’immaginario Franklin. Si guadagnò anche un altro amico interiore grazie a Alfred Duggan, romanziere storico inglese. Era Cerdic, capo sassone. Anni dopo, continuava a chiacchierare con lui sbrigando faccende in casa.

"C’erano solo due cose in casa che gli erano familiari" scriveva; "il fuoco (anche se non capiva il camino) e la spada," souvenir della Guerra Civile. "Tutto il resto dovevo spiegarglielo".

Non volendo andare al college, trovò un posto non retribuito come giornalista di rubriche femminili per The Scranton Tribune. Nel 1934, raggiunse a New York la sorella, di sei anni più anziana, e trovò lavoro nel settore arredamenti di Abraham & Straus, grande magazzino di Brooklyn. La sorella abitava in cima a un edificio di sei piani senza ascensore a Brooklyn Heights.

La metropolitana porta verso il lavoro

Ogni giorno, Jane saliva sulla metropolitana e sceglieva a caso una fermata per scendere a cercar lavoro. Dato che le piaceva il suono “Christopher Street”, scese lì e trovò prima un appartamento al Greenwich Village, e subito dopo un posto di segretaria in una fabbrica di dolciumi.

Lavorò come segretaria cinque anni. Le sorelle non avevano molti soldi, e spesso sopravvivevano a fiocchi d’avena e banane, come ha ricordato la Jacobs in un’intervista a Metropolis Magazine del 2001.

Cominciò allora, a scrivere articoli, prima per una rivista del settore metalli. Vendeva gli articoli in varie zone della città, come quella delle pellicce, a Vogue, guadagnando 40 dollari a pezzo quando ne prendeva 12 la settimana come segretaria. Pubblicò tra l’altro pezzi domenicali per il New York Herald Tribune e altri articoli per Q Magazine sui tombini.

Anche se lavorava, frequentò la School of General Studies della Columbia University per due anni, corsi di geologia, zoologia, diritto, scienze politiche ed economia. Nel 1944, mentre lavorava allo Office of War Information, partecipò a una festa nell’appartamento di una delle colleghe d’ufficio. Fra gli ospiti c’era Robert Hyde Jacobs Jr., architetto specializzato nella progettazione di ospedali. Era aprile, si sposarono in maggio.

La Jacobs ha raccontato a Azure che non avrebbe mai scritto nessun libro senza l’incoraggiamento del marito. Fu lui a decidere che la famiglia si spostasse a Toronto nel 1968, dopo che i figli avevano dichiarato che sarebbero andati in prigione piuttosto che prestar servizio in Vietnam. Mr. Jacobs è morto nel 1996. Jane Jacobs lascia i figli, James, a Toronto, e Ned, a Vancouver; la figlia, Burgin Jacobs, a New Denver, British Columbia, e una nipote.

Sorgono sospetti

Nel 1952, Jane Jacobs trova un lavoro da giornalista per Architectural Forum, dove rimarrà dieci anni. Questo le da’ un punto di vista da cui osservare i progetti di urban renewal. Durante una visita a Filadelfia, nota che le strade di un quartiere sono deserte, mentre quelle di una zona più vecchia lì vicino sono affollate.

"Così, sono diventata sospettosa sull’intera faccenda" ha raccontato al Toronto Star nel 1997. "L’ho fatto notare al progettista, ma era assolutamente disinteressato. Non gli interessava, quanto funzionassero le cose.

"Non gli interessava quanto piacesse alla gente. Aveva un’idea completamente estetizzante, staccata da tutto il resto".

I dubbi crescono quando William Kirk, allora direttore dello Union Settlement a East Harlem, le insegna nuovi modi per guardare ai quartieri. Inizia a considerare le idee urbanistiche correnti, ovvero la demolizione di fabbricati bassi nei quartieri poveri e la loro sostituzione con alti edifici ad appartamenti e spazi aperti, come una specie di fede superstiziosa, non diversa da quella della medicina del XIX secolo sui salassi.

"Esistono qualità anche più sinistre dell’esplicita bruttezza o del disordine" scrisse in Death and Life, "si tratta dalla disonesta maschera del falso ordine, ottenuto ignorando o abolendo quello autentico che lotta per esistere ed essere osservato”.

William H. Whyte, direttore di Fortune e autore di libri sulla vita urbana oltre al celebrato " Organization Man," chiese nel 1958 alla signora Jacobs di scrivere per Fortune un articolo sui centri urbani. Il saggio, ristampato poi in The Exploding Metropolis (Doubleday, 1958), si trasformò nella traccia del suo primo libro.

"Progettare una città da sogno è facile" concludeva. "É ricostruirne una vitale, che richiede fantasia".

L’articolo su Fortune attirò l’attenzione della Rockefeller Foundation, che le offrì una borsa per tutto il 1958 per scrivere sulle città. Due rinnovi della borsa e tre anni più tardi, terminava il manoscritto di Death and Life sulla macchina da scrivere Remington che userà sino alla morte.

Le sue apparentemente semplici ricette per la diversificazione dei quartieri, le dimensioni degli isolate, densità di popolazione e mescolanza di edifici hanno rappresentato un grande ripensamento dell’urbanistica moderna. Si accompagnavano alla feroce condanna degli scritti di urbanisti come Sir Patrick Geddes o Ebenezer Howard, oltre all’architetto Le Corbusier e a Lewis Mumford, che sostenevano torri aggraziate al centro di meravigliosi spazi aperti. Mumford si trattenne per un anno, prima di rispondere in un articolo per il New Yorker, sardonicamente intitolato " Home Remedies for Urban Cancer".

"Come una squadra di operai che spazza via tutte le abitazioni di un quartiere, buone o cattive che siano” scriveva Mumford, "lei spazza via dall’esistenza qualunque auspicabile innovazione urbanistica dell’ultimo secolo, insieme a qualunque altra idea alternativa, senza nemmeno tentare una valutazione critica".

Più forma che sostanza?

Anche il critico di architettura Paul Goldberger, pur esprimendo profonda ammirazione per la Jacobs in un articolo sul New York Times del 1996, ammette che possa aver sovrastimato l’importanza della forma fisica delle città.

"Qualche volta anche le grosse e brutte torri funzionano benissimo” scrive.

Il libro successivo della Jacobs, The Economy of Cities (Random House, 1969), metteva in discussione l’idea che le città nascessero su una base economica rurale; piuttosto, sosteneva, erano le economie rurali ad essere costruite direttamente attraverso quelle delle città. Poi venne The Question of Separatism: Quebec and the Struggle for Sovereignty (Random House, 1980). Sosteneva che Canada e Quebec sarebbero stati meglio ognuno per conto suo, secondo l’idea generale che piccolo è bello.

Si tuffò nel profondo dei rapporti fra città ed economia con Cities and the Wealth of Nations: Principles of Economic Life (Random House, 1984), dove sosteneva che i governi nazionali indeboliscono le economie delle città, considerate i motori naturali dello sviluppo.

Il suo Systems of Survival: A Dialogue on the Moral Foundations of Commerce and Politics (Vintage, 1994) guarda ai fondamenti morali del lavoro esaminando diversi sistemi di valori. The Nature of Economies (Modern Library, 2000) paragona l’attività economica a un ecosistema. Il suo ultimo libro, Dark Age Ahead (Random House, 2004), sostiene che la cultura nordamericana è al collasso, suggerendo modi per invertire la tendenza.

Negli ultimi anni, in Canada si sono organizzate conferenze in onore di Jane Jacobs. Per gli abitanti di New York, la sua immagine è ancora quella della famosa foto con birra e sigaretta alla White Horse Tavern del Greenwich Village, oltre ai ricordi dei suoi racconti sulle nefandezze municipali in qualche assemblea al Village. Per generazioni di urbanisti, architetti, studiosi delle città, quella della Jacobs resta un’influenza germinale.

Forse pensava a sé stessa come ad un’avventuriera intellettuale in grado di seguire il proprio brillante, spesso donchisciottesco istinto, verso territori sempre più affascinanti.

In Systems of Survival, uno dei suoi personaggi si preoccupa di non essere competente.

"Perché non noi?" risponde l’uomo che ha invitato tutto il gruppo. "Se ci stanno provando persone più competenti, meglio per loro. Ma siamo capaci anche noi, no?"

Nota: la comparazione fra le "rivoluzionarie" Jacobs, Rachel Carson e Betty Friedan, qui su Mall in un recente articolo da The Nation ; interessante anche la comparazione fra i giudizi della Jacobs e i temi specifici della città europea in questo articolo di Jonathan Glancey dal Guardian ; da un altro numero di The Nation un ragionamento sulla metodologia scientifica della Jacobs (f.b.)



here English version

Titolo originale: Building civilisation – Traduzione di Fabrizio Bottini

Da ragazzo, Richard Rogers era considerato stupido, e fu mandato in una scuola per bambini ritardati. Quando alla fine riuscì ad uscire dal sistema di educazione formalizzato (dopo aver tentato troppo a lungo di superare almeno un esame), fu per diventare uno dei più amati e ammirati architetti della Gran Bretagna. Nominato cavaliere nel 1991, pari nel 1996, ha superato la dislessia per diventare la coscienza dei nostri spazi pubblici, convincendo il paese che la progettazione delle città è sintomo e indicatore di salute sociale. Ha fatto più di chiunque altro per diffondere l’idea che edificando bene si diventa più civili, ci si arricchisce culturalmente ed emotivamente.

La scorsa settimana è stato inaugurato uno dei più importanti progetti mai intrapresi dalla Richard Rogers Partnership (RRP): il nuovo terminal all’aeroporto Barajas di Madrid, più di un milione di metri quadri di edifici, con investimento di un miliardo di Euro. Questo audace hub, disseminato di cortili luminosi e ricoperto da un calmo tetto di bambù conformato come l’ala di un gabbiano, è un tipico progetto di Rogers: integrato nel tessuto urbano, preoccupato non solo dei bisogni della clientela, ma anche di quelli generali della città.

È stata una grande settimana per la RRP, dato che si è aperto alle attività anche il nuovi edificio governativo dell’Assemblea del Galles (che non sarà inaugurato formalmente se non il giorno di San David, il 1 marzo, dal Principe Carlo). Commissionato originariamente nel 1988, l’edificio dell’Assemblea può aver avuto una lunga gestazione, ma valeva la pena di aspettare. La struttura di acciaio, lastre di vetro e legno che si affaccia sul mare, con la sua trasparenza e gli spazi pubblici, sembra pronta a diventare uno dei più bei monumenti moderni della Gran Bretagna.

Non pensereste mai, guardando l’agenda di Lord Rogers, o qualunque altra cosa lo riguardi, che ha superato i settant’anni. Parla anche, velocemente, le parole con l’inflessione italiana che rotolano l’una sull’altra nella fretta di uscirgli dalla testa, probabilmente prima che debba lasciarsele dietro per prendere un altro aereo. Ogni volta che l’ho visto negli ultimi mesi, stava per partire in qualche direzione, soprattutto New York, dove la RRP sta realizzando un centro congressi “grande come Central Park” sulle rive dell’Hudson.

”Quando c’era il concorso per il centro congressi ci hanno detto ‘Se ve lo diamo, capisce che ci aspettiamo lei resti qui 45 giorni senza muoversi?’. Gi ho risposto che ero troppo importante”. Ride, perché è uno scherzo, anche se da un certo punto di vista non lo è affatto. “Ma Ruthie mi ha dato di gomito sussurrando ‘E dai, è New York!’ Così ho accettato”.

Così adesso è bloccato lì, anche se sta con quarto dei cinque figli, che abita in un loft in centro. E riesce anche a sgattaiolare a Londra di tanto in tanto. Ha passato il giorno precedente al nostro colloquio a consultarsi con Ken Livingstone, di cui è uno stretto collaboratore. Il giorno dopo, portava 130 persone dallo studio all’edificio dell’Assemblea in Galles per un “picnic” di celebrazione.

Lavorare a New York è stata un’esperienza strana, racconta Rogers, perché per molto tempo dopo il progetto per il Centro Pompidou, gli era stato chiesto di concentrarsi su un’unica cosa. La maggior parte del tempo, essere presidente della RRP comporta stare al centro di un turbine di attività. Ci sono i grandi progetti, come l’aeroporto di Madrid, o il Terminal Cinque a Heathrow, o il concorso per riprogettare Darling Harbour, a Sydney (sono tra i primi cinque); poi ci sono i progetti piccoli, come una casa da 60.000 sterline (per dimostrare che gli alloggi poco costosi possono essere diversi da un modello disneyano), o un Maggie’s Centre, in fondo alla stessa strada dello studio.

Quest’ultimo sta particolarmente caro a Rogers. Conosceva Maggie Keswick Jencks, nel cui nome si realizzano i centri, prima della scomparsa precoce per cancro al seno. Era un ammiratore del suo classico libro sui giardini cinesi e conosce suo marito, il critico di architettura Charles Jencks. “E a dire il vero – racconta guardandosi attorno qui nel River Cafe – lei tenne una magnifica cena qui quando stava meglio”.

I Maggie's Centres offrono ogni tipo di sostegno non medico per i malati di cancro; questo, sui terreni del Charing Cross Hospital, sarà il primo al di fuori della Scozia, dove Frank Gehry e Zaha Hadid ne hanno progettati altri. E ha il problema di aver creato uno spazio domestico e tranquillo che si affaccia sulla rumorosa e brutta Fulham Palace Road.

E si tratta di un problema, per la RRP, molto più di quanto non sarebbe per molti studi di architettura, perché se c’è qualcosa a mettere insieme i molteplici progetti a varie dimensioni di Rogers, è la preoccupazione per gli spazi fra e attorno agli edifici.

Molto dell’orientamento progettuale oggi, come vi diranno gli osservatori, viene da due soci giovani, Graham Stirk e Ivan Harbour. Ma anche lo stesso Rogers continua ad offrire due contributi fondamentali: la capacità di mettere insieme persone di talento e una grande incombente etica dello spazio pubblico. Rogers mi racconta che la sua novantenne madre adottiva ama stare seduta sui gradini di ingresso della casa (a dire il vero, due case pressate insieme, dove occupa l’alloggio al pianterreno) e guardare il mondo che passa. “Dovremmo poter tutti stare seduti in veranda” dice. È sostanzialmente un essere sociale, che crede nelle possibilità creative di passare il tempo con altre persone. Sua moglie, Ruthie, afferma: “Non ho mai sentito Richard dichiarare ‘ Ho bisogno di più tempo da solo’ e ridendo mi dice che ‘il nostro soggiorno è una piazza’”.

Sostiene di essere capace di concentrarsi anche quando è circondato da persone. “Mi concentro bene. Amo lavorare nei caffè. Quando ero un bambino a Trieste, c’era un piccolo caffè austriaco di fronte al nostro appartamento. C’era un contabile che arrivava tutti i giorni alle 9 del mattino, gli portavano un caffè e un telefono, e lavorava lì tutto il giorno. Quando avevo sei anni, pensavo che quella fosse la vita ideale”.

Richard Rogers è nato in Italia nel 1933 da genitori anglo-italiani. Suo padre era dottore, sua madre ceramista, e da buoni continentali di ceto medio possedevano un arredamento stile Bauhaus. Suo cugino sarà tra i più importanti architetti italiani del dopoguerra. È cresciuto, racconta, “senza la paura del nuovo del dopoguerra inglese”.

La famiglia si trasferisce in Inghilterra nel 1939, ed era un momento non facile per essere italiani alla scuola inferiore, anche senza essere dislessici. E Rogers lo era, profondamente. “L’unico vantaggio di essere dislessico – dice ora – è che non sono mai tentato di guardarmi indietro e idealizzare l’infanzia”. Ricorda di aver dovuto imparare l’inglese – “era abbastanza difficile, e tutti ridevano” – ma non era niente rispetto alla sensazione di essere respinto perché stupido. “La dilessia non era riconosciuta, e così la conclusione era che eri incapace di pensare. Ho perso fiducia. È stato un grave limite, per quasi vent’anni della mia vita”.

Ora che è circondato da persone che possono selezionare la sua pronuncia e sintassi, dice che l’unica traccia visibile e fastidiosa della sua dislessia è qualche “occasionale vuoto di parola, se sto parlando con due o tre persone. Qualche volta, che c’è Ruthie, semplicemente riempie quel vuoto. Ma la cosa curiosa è che non succede quando sto tenendo una conferenza, e comunque quando sono sotto pressione”.

Non vuole dare troppo peso alla parte italiana della sua cultura, ma seduti nel ristorante River Cafe di sua moglie, è difficile non farci caso. Ama il cibo. La cucina di sua madre ha influenzato sia Ruthie che Rose Gray, la socia nel River Cafe. È vestito benissimo in un soffice maglione di cashmere color limone, una tonalità in cui pochi inglesi sarebbero completamente a proprio agio. E anche se ricorda di essere stato in imbarazzo per i vestiti a colori sgargianti di sua madre quando era alle scuole medie, ora dice: “Non capisco perché tutti debbano vestirsi di nero, grigie e bianco”.

È il Signor Piazza, felice in piazza e per strada, a conversare, a confrontarsi con altre persone. E la famiglia ha una profonda importanza per lui, come una passione. I due si sono scontrati, quando ha incontrato Ruthie. Lui era a metà del trent’anni, lei ne aveva 19, studentessa americana di arti in anno sabbatico. Lui era sposato, con Su Brumwell, che era anche sua socia di studio (avevano fondato Team 4 con Norman Foster e sua moglie, Wendy) e avevano tre figli piccoli.

Sembra che in qualche modo lui abbia fatto un compromesso dove stanno al primo posto sia la passione che la famiglia. Parla di Su con gratitudine un paio di volte nel corso della conversazione. Con Ruthie, nel frattempo, restano vicini a tutti e cinque i figli e nove nipoti. Quando gli faccio presente che anche il ruolo di primo piano della famiglia potrebbe essere una cosa italiana, risponde: “Non so da dove venga. Ruthie è molto simile a me in questo, ed è ebrea. C’è anche una tradizione ebrea della famiglia, ma se è per questo non tutte le famiglie italiane o ebree sono unite. Mia madre era molto legata alla famiglia. E io amo stare coi miei figli”.

Anche lo studio, non è molto diverso da una famiglia. Beviamo qualcosa insieme il venerdì sera e facciamo un sacco di cose come andare domani in Galles a celebrare. Praticamente non c’è nessuno che se ne va”. Robert Booth, direttore di Building Design, dice: “La tecnica di Rogers è di creare un piccolo cerchio magico all’interno del quale è molto bello stare, e all’esterno del quale ci si sente molto a disagio. Se si dovesse tracciare un albero genealogico dei suoi collegamenti – e un alcuni casi si tratta davvero di un albero di famiglia – si otterrebbe una rete molto potente che si estende agli affari e alla politica”.

Vedendo poca divisione fra lavoro, tempo libero e famiglia, e tentando costantemente di erodere quella che ancora esiste, vuole continuare a lavorare per sempre? “No. Abbiamo uno statuto che dice dopo i 70 anni, il presidente deve rinnovare il mandato ogni anno. Quindi, in qualche momento [i suoi occhi brillanti scintillano ancora di più], probabilmente decideranno che ne hanno avuto abbastanza di me. Parte del mio lavoro è preparare quel passaggio di funzioni. Ma mi piace pensare che sarò in grado di fare qualche tipo di lavoro, anche se non sono presidente”. C’è un punto di domanda dal punto di vista professionale, sulla possibilità dello studio di continuare ad operare con successo anche senza di lui, afferma Booth : “non per mancanza di capacità, che è indiscutibile, ma perché tanta dell’attività si basa su potere e reti di relazione in tutto il globo”.

Oltre ad avere avuto la possibilità di costruire in tutto il mondo, una delle prime generazioni di architetti per cui ciò è stato possibile, ed è un bel traguardo per chi non riusciva ad avere i massimi punteggi a scuola, è diventato un’importante voce dal punto di vista politico, contro i costruttori avidi e senza immaginazione, contro l’urbanistica incompetente, insistendo sul fatto che una buona progettazione conduce all’inclusione sociale.

Lo scorso autunno, ha pubblicato una versione aggiornata del rapporto Urban Task Force, studio del gruppo di lavoro di nomina governativa che ha coordinato sei anni fa. L’incarico all’epoca era di riferire sullo stati dei centri urbani nazionali. L’aggiornamento loda la nuova attenzione della politica per le città, ma avverte contro un’edificazione troppo scoordinata e kitsch, oltre che di basso livello (“abbiamo gli standards residenziali peggiori dell’intera Europa occidentale”), i troppi organismi sovrapposti responsabili per la rigenerazione urbana, oltre alla mancanza di potere concreto da parte delle amministrazioni cittadine e regionali, e la costante tendenza alle enclaves monoculturali. Si tratta di una denuncia decisa, con pungenti implicazioni politiche.

Alcuni critici giudicano che Rogers stia battendo sullo spesso punto da troppo tempo. Ma di fronte alla crescente infiltrazione suburbana, all’americanizzazione delle città, la sua fede nella città come grande piazza non può che rinnovarsi. Naturalmente, non tutti hanno sempre ammirato sia le sue architetture che i suoi punti di vista. Il Principe Carlo per un certo periodo è stato piuttosto ostile. “Ha avuto un’influenza sfavorevole. Alla fine abbiamo perso parecchio lavoro, come risultato immediato. Ma su queste cose si diventa fatalisti. Quando stavamo facendo il Centro Pompidou, non abbiamo avuto un articolo favorevole sulla stampa per tutti i sei anni, salvo n pezzo davvero memorabile sul New York Times. Siamo stati fatti a pezzi sino al giorno in cui si sono aperte le porte. Allora da un giorno all’altro i media hanno cambiato atteggiamento. È pericoloso prendersela troppo a cuore per le cose che dicono su di noi: sia le buone che le cattive. Il giudizio su quello che si fa deve venire da più vicino.

”Nessuno ama essere attaccato direttamente. Ruthie mi dice di non leggere la cattiva stampa, ma è difficile non farlo. Però la dislessia mi ha fatto capire che chi dice “ ma non puoi fare questo” non conta davvero molto. Non li prendo troppo sul serio, questi “no”.

nota: qui alcuni estratti dal rapporto Urban Task Force

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Titolo originale:Frank Wilkinson's Legacy– Traduzione di Fabrizio Bottini

Gli articoli commemorativi in occasione della scomparsa di Frank Wilkinson, morto il 2 gennaio all’età di 91 anni, si concentrano principalmente sul suo ruolo di oppositore di punta del maccartismo e la fervente dedizione al Primo Emendamento. Gli anni trascorsi lottando per le nostre libertà fondamentali furono catalizzati dall’esperienza personale del 1958, quando fu una delle ultime persone imprigionate per aver sfidato lo HUAC [ House Un-American Activities Committee]. Dopo la prigione, formò quello che poi divenne il National Committee Against Repressive Legislation, e sino alla morte dedicò le proprie energie e acume ai nostri diritti fondamentali.

Perdiamo un campione proprio al momento in cui l’assalto alle nostre libertà civili si sta intensificando: Patriot Act, spionaggio della National Security Administration, sono solo i più evidenti tentativi dell’attuale Amministrazione di distruggere ciò che Frank aveva difeso.

La dedizione di Frank alle libertà civili varrebbe da sola un intero libro di memorie. Comunque, dobbiamo ricordarci che cominciò la sua carriera come attivista per le case popolari. La sua crociata per il primo emendamento in realtà iniziò quando fu licenziato dalla Los Angeles Housing Authority per le sue scelte politiche radicali.

Per la generazione di idealisti a cui appartiene Wilkinson – maturata durante la Depressione degli anni ’30 – l’abitazione pubblica fu parte di un vasto movimento per le riforme sociali e la giustizia economica. Il fatto che la casa popolare oggi porti impressi i segni del fallimento, non si deve certo ai valori di progresso che ispirarono Wilkinson e altri, ma all’influenza politica delle forze di destra che lottarono si dall’inizio per indebolire l’abitazione pubblica.

Los Angeles e altre città si trovano ora di fronte a gravi carenze di case a prezzi accessibili. Molte delle stesse battaglie combattute da Wilkinson 50 anni fa – per l’urbanistica, i sussidi governativi ai bassi redditi, l’integrazione razziale, contro l’opposizione “ not in my backyard” alle case economiche – sono ora quelle dell’attuale generazione di funzionari pubblici ed esponenti della società civile.

Frank Wilkinson era cresciuto a Beverly Hills, era un Repubblicano da studente alla UCLA, e pensava seriamente di diventare pastore metodista. Entrò nella nuova Los Angeles Housing Authority nel 1942, quando era un ufficio indipendente con la missione di porre fine all’esistenza degli slums in città. Sotto il sindaco dell’epoca Fletcher Bowron, riformista liberale Repubblicano eletto nel 1938, la LA Housing Authority sosteneva l’idea di costruire case dignitose per poveri e famiglie a basso reddito, e credeva nell’integrazione razziale per lo sviluppo urbano.

Dopo la seconda guerra mondiale, Bowron tentò di ampliare il programma, in particolare per i molti veterani che si trovavano di fronte una disperata carenza di alloggi. Sostenne un piano per radere al suolo alcune case nella zona di Chavez Ravine e sostituirle con un grande intervento di edilizia pubblica progettato dall’architetto di fama mondiale Richard Neutra, con due dozzine di edifici da 13 piani e oltre 160 case a due piani, oltre a campi da gioco e scuole. Bowron, Wilkinson e altri riformatori vedevano nel piano per Chavez Ravine un modo di migliorare le condizioni di vita dei poveri losangelini. L’opposizione al progetto venne dagli immigrati che abitavano nell’area, allora essenzialmente una zona rurale con un insediamento di baracche, strade sterrate e priva di fogne. Questa opposizione era comprensibile, dato che nonostante le condizioni la gente considerava queste alture come la propria casa. Uno degli incentivi offerti ai residenti fu la promessa assoluta che sarebbero stati i primi a trasferirsi nelle nuove abitazioni. Nel 1950, fu presentato loro il progetto.

Se Frank e la Housing Authority volevano ricostruire la zona per chi ci abitava, altri in città – imprenditori e politici di destra – erano d’accordo sulle demolizioni ma per altri motivi. Terreni tanto vicini al centro valevano molto più per la rendita dell’offerta di case popolari. Utilizzando le tattiche maccartiste del “ Pericolo Rosso”, queste forze si unirono per bollare la proposta di Chavez Ravine – e in generale le case popolari – come pianificazione socialista. L’attacco si concentrò sul sostenitore principale – Frank Wilkinson – dipingendolo come pericoloso comunista. Condotto di fronte allo House Un-American Activities Committee, rifiutò di ripondere alle domande in base al Primo Emendamento, e fu licenziato dal suo lavoro, processato e messo in una prigione federale.

Poi gli stessi interessi che si erano opposti a Wilkinson e alle case popolari misero fine alla carriera politica di Bowron. Scelsero il rappresentante al Congresso Norris Poulson per candidarlo contro Bowron e ne orchestrarono l’elezione a sindaco nel 1953. Durante la campagna, Poulson si impegnò a fermare il piano per Chavez Ravine e altri esempi di spesa “antiamericana”. Con Poulson, la municipalità ricomprò l’area di Chavez Ravine dal governo federale a prezzo di favore.

Los Angeles lasciò Chavez Ravine a laguire nel suo stato di slum e semiabbandono sino alla metà degli anni ‘50, quando il consigliere municipale Kenneth Hahn face fare al proprietario dei Brooklyn Dodgers, Walter O’Malley, un giro in elicottero, indicandogli la vicinanza dell’area alle freeways e al centro. Per far sì che O’Malley portasse la sua squadra a Los Angeles, la città fece radere al suolo dalle ruspe le case restanti, evacuando con la forza gli ultimi abitanti. Nessuno venne ricollocato in abitazioni migliori, non si realizzò nessuna casa dignitosa per i poveri che abitavano lì. I profondi avvallamenti furono colmati per realizzare il piatto campo da gioco del Dodger Stadium.

La “ battaglia di Chavez Ravine” è diventata una leggenda dell’urbanistica, ha ispirato un lavoro teatrale del gruppo Culture Clash, un recente album del chitarrista Ry Cooder, e molti libri e studi accademici.

L’attacco a Frank Wilkinson in quanto sostenitore dell’edilizia pubblica per i meno abbienti fu solo uno dei molti, replicati in molti modi in tutto il paese.

Fino alla Depressione, la maggior parte dei leaders d’opinione americani riteneva che le forze private di mercato, sostenute dalla mano della filantropia, potessero rispondere ai bisogni nazionali della casa. Nei primi tre decenni del XX secolo, alcuni sindacati e riformatori per la casa realizzarono interventi modello per le famiglie della classe lavoratrice, ma senza sussidi governativi. Il collasso economico offrì ai riformatori lo spiraglio politico per far avanzare le proprie idee “radicali” secondo cui il governo federale avrebbe dovuto sostenere “case sociali” e aiutare a creare un settore non commerciale, libero dal profitto e dalla speculazione. Come i loro corrispondenti europei, essi pensavano anche ai ceti medi oltre che ai poveri.

Questi riformatori – attivisti sindacali, economisti, urbanisti, architetti, operatori sociali e giornalisti – avevano fiducia nel ruolo propositivo del governo riguardo alla società e alle città. Credevano che abitazioni ben concepite con servizi adeguati potessero elevare i poveri. Volevano progetti di abitazioni destinati a ceti a vario reddito, non commerciali, sussidiati dal governo, sostenuti dai sindacati, dalle associazioni religiose, da altre strutture non-profit, dagli uffici pubblici. Nei primissimi anni, il New Deal realizzò alcuni insediamenti modello che riflettevano questa visione. Comprendevano centri day care e campi da gioco, coinvolgevano gli abitanti in attività culturali e di istruzione, erano formalmente belli e attraenti anche perché ci abitassero le famiglie del ceto medio.

Ma sui riformatori ebbe presto la meglio il settore immobiliare. Preoccupati che abitazioni ben concepite, a buon mercato e sostenute dal governo potessero competere coi privati nell’offerta ai consumatori della middle-class, questi sventolarono lo spettro del “ socialismo”. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’impennata della domanda e il timore per la concorrenza delle abitazioni pubbliche, il settore mobilizzò una grossa campagna contro questi programmi. Specialmente nel caso dello housing act del 1949, i privati sabotarono il programma esercitando pressioni sul Congresso perché tagliasse i finanziamenti, lasciasse alla discrezionalità degli enti locali se e dove realizzare gli interventi, li limitasse ai ceti più poveri. I Senatori degli stati del Sud fecero sì che le amministrazioni locali avessero la possibilità di mantenere la segregazione razziale nell’edilizia pubblica.

Con un bilancio limitato, molti progetti furono mal realizzati e/o mal concepiti: brutti contenitori per poveri, col termine “ case pubbliche” a stigmatizzare un’abitazione di livello infimo. Le autorità locali per la casa – generalmente dominate dai rappresentanti delle imprese e del settore immobiliare – spesso collocavano gli interventi in aree senza servizi adeguati di negozi, trasporti, scuole, isolati dai quartieri della middle-class, contribuendo alla concentrazione dei poveri all’interno delle città. I problemi che ora associamo alle case pubbliche non erano inevitabili. Furono il risultato di scelte fatte dal Congresso e a livello locale.

Le abitazioni pubbliche si identificarono con la guerra della droga e il crimine, posti dove i bambini avevano paura a camminare sino a scuola, dove per gli anziani androni e ascensori erano pericolosi quanto le strade, e avevano paura a uscire dai propri appartamenti, posti dipinti come una trappola anziché uno strumento di elevazione sociale. Alla fine, furono costruiti soltanto 1,3 milioni di alloggi pubblici – meno dell’1% delle abitazioni a livello nazionale – e le realizzazioni terminarono nell’era Nixon. Poi sono stati attuati altri programmi – buoni casa per gli inquilini poveri e finanziamenti per alcune piccole realizzazioni – ma di fatto gli Stati Uniti si allontanarono dalla responsabilità di dare alloggio a tutti – compresi i più poveri nel momento in cui abbandonammo l’edilizia pubblica.

Oggi, Washington fornisce qualche tipo di sostegno all’abitazione per meno di un quarto dei poveri a livello nazionale. E anche se questo numero di poveri è aumentato da quando è entrato in carica il Presidente George W. Bush, la sua amministrazione ha tagliato i sussidi per la casa alle famiglie a basso reddito.

Si utilizzano ancora alcuni fondi federali per costruire nuove case per poveri. Ironicamente, la maggior parte delle abitazioni con sussidio governativo di oggi è costruita da organizzazioni locali non-profit. Generalmente sono ben progettate per inserirsi all’interno dei quartieri, e di piccole dimensioni paragonate ai massicci progetti residenziali costruiti negli anni ’50 e ‘60. un numero crescente di questi complessi è per redditi misti, e comprende asili nido, formazione professionale, programmi di educazione e animazione. In altre parole, assomigliano al tipo di progetti che i primi riformatori per la casa e i loro discendenti politici, come Frank Wilkinson, avevano ideato. Ma senza sufficienti sussidi federali, queste organizzazioni locali mancano delle risorse per rispondere seriamente alle carenze per i poveri.

E ancora oggi, i politici di destra usano lo stereotipo delle case pubbliche per attaccare la stessa idea di intervento governativo. Durante la sua campagna del 1996, il candidato alla nomination Repubblicana Bob Dole disse che l’abitazione pubblica è “uno degli ultimi baluardi del socialismo nel mondo”, definendo gli uffici responsabili “padroni di casa della miseria”. Più di recente, dopo l’uragano Katrina, il rappresentante al Congresso Richard Baker (repubblicano della Louisiana) è stato ascoltato mentre diceva ai lobbisti, “Abbiamo finalmente fatto piazza pulita delle case popolari di New Orleans. Noi non ci eravamo riusciti, ma Dio sì”.

Il fatto che il governo federale abbia girato le spalle all’idea della casa per tutti non ha posto fine alla crisi. Le città del paese affrontano sempre una seria crisi delle abitazioni, e senza avere a fianco le autorità federali. A Los Angeles, dove Frank trascorse l’intera esistenza, consiglieri eletti e attivisti stanno tentando di misurarsi coi risultati dell’assenza governativa, compresi gli 80.000 homeless e un mercato immobiliare dove anche le famiglie di ceto medio non possono permettersi l’acquisto di una casa. Ora il sindaco progressista Antonio Villaraigosa si rivolge ai sostenitori cittadini dell’edilizia pubblica – e allo spirito di Frank Wilkinson – per trovare soluzioni alla soverchiante crisi, trovare risorse per un trust fund locale, sperimentare politiche come lo housing inclusivo, “appartamenti dei nonni” e maggiori densità, oltre a spingere i proprietari a riparare gli edifici dei quartieri degradati.

Dopo che Wilkerson uscì di prigione, non gli venne consentito più di lavorare per l’edilizia pubblica. Continuò invece fino a diventare uno dei principali esponenti nazionali dei diritti civili. Come nel caso della sua battaglia per le garanzie del Primo Emendamento di libertà di parola, Frank Wilkinson vedeva nell’abitazione dignitosa, sicura e a buon mercato un diritto fondamentale. Fu di ispirazione per decine di migliaia di attivisti di questo paese. In sua memoria, rinnoviamo il nostro impegno allo smantellamento del Patriot Act, nello stesso modo in cui lui lottò per quello della HUAC. E in sua memoria lottiamo per un luogo sicuro, dignitoso e alla portata di tutti, da chiamare casa.

Nota: anche in Italia, il quotidiano Il manifesto ha ricordato la figura di Wilkinson in questo articolo di Luca Celada (f.b.)

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Titolo originale: A look back: planner Ed Bacon – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edmund N. Bacon, l’ultimo di una generazione di urbanisti di forte impegno è scomparso il 14 ottobre. Come Robert Moses a New York o Edward Logue a Boston, Bacon ha lasciato un’impronta incancellabile sulla città di Filadelfia negli anni del dopoguerra. Come direttore generale della City Planning Commission dal 1949 al 1970, ha rivitalizzato un centro in decadenza con un insieme di strategie paragonabili a quelle di Sisto V per Roma nella visione progettuale di obiettivi.

Negli anni ’50 Bacon iniziò a trasformare una malconcia vecchia zona fra Independence Hall e il fiume Delaware, eliminando il mercato delle carni e isolati di case in linea in decadenza per Society Hill. Edifici storici del XVIII e XIX secolo furono rinnovati, aggiunti edifici negli spazi vuoti, inseriti parchi e percorsi pedonali; il tutto culminante nelle alte torri ad appartamenti di I.M. Pei. A ovest della sede del municipio, sostituì alla stazione di Broad Street della Pennsylvania Railroad, e alla “Muraglia Cinese” del viadotto lungo otto isolati, il Penn Center: un complesso per uffici nello stile del Rockefeller Center, collegato ai trasporti pubblici, con piazze, corti ribassate, grandi viali pedonali.

Come ha osservato Alex Garvin, ex vicepresidente della Lower Manhattan Development Corporation, nel 2003, “Nel 1970, i proprietari avevano recuperato più di 600 elementi storici di Society Hill, i valori immobiliari erano più che raddoppiati, e la popolazione aumentata di un terzo”. Le attività riempivano i palazzi per uffici dei centro, e cominciò un rinascimento che, anche se piuttosto duro a volte, fu rivoluzionario per i suoi tempi.

Bacon ebbe l’energia e la semplice volontà di collaborare con amministrazione e costruttori privati per rende re possibili le cose. “Utilizzò un insieme di disparate idee urbanistiche, come demolizioni o tutele puntuali, mettendo il tutto insieme in un unico progetto” dice G. Craig Schelter, che collaborò con Bacon nella commissione urbanistica, prima di diventarne a sua volta capo negli anni ‘80.

Le audaci trasformazioni urbanistiche di Bacon, non sorprende, disturbarono molti. Per esempio, il suo contenere il deflusso dei ceti medi e alti dalla città, attirando giovani e agiati dal suburbio verso il centro e Society Hill non aiutarono i poveri. Circa 1.000 famiglie furono spostate dalla gentrification di Society Hill. E nei grandi progetti urbani sviluppati in altezza non ci fu spazio per gli architetti più creativi di Filadelfia, Louis Kahn – che presentò schizzi di massima per il Penn Center negli anni ’50, come membro del Citizens Advisory Committee – o Venturi Scott Brown – che collaborò a stroncare l’idea molto alla Moses di Bacon per un’autostrada urbana veloce lungo South Street. Bacon preferì architetti come Vincent Kling e Emery Roth, che progettarono anonime torri per uffici da inserire nel piano del grandioso Penn Center. Anche abbattere il terminal ferroviario del 1893 e la Muraglia Cinese significò distruggere l’opera di Frank Furness, ora l’architetto del XIX secolo più stimato di Filadelfia.

Al cune delle altre visioni di Bacon – la rivitalizzazione di Market Street East, una via commerciale e a uffici che collega City Hall a Independence Mall e che era andata deprimendosi negli anni – impiegarono più tempo a consolidarsi. Un piano per trasformare Chestnut Street in un passeggio pedonale si limitò ad accelerare la trasformazione di quella che un tempo era una via commerciale in una fascia di attività a basso profilo. E Penn’s Landing, il progetto per 15 ettari di colmata sulle rive del fiume per attività varie, non ha sviluppato in pieno il proprio potenziale, in parte per il collocamento della Intestate 95 parallela alla sponda, che rende difficile per i pedoni raggiungerla (Bacon la voleva sotterrata, ma lo fu solo in parte a causa dell’alto costo).

Dopo aver preso la laurea in Architettura alla Cornell University nel 1932, Bacon lavorò a Shanghai e studiò urbanistica con Eliel Saarinen a Cranbrook, prima di tornare a Filadelfia nel 1939 come direttore esecutivo della Housing Authority. Uomo dalle decisioni sempre nette, Bacon si arruolò in Marina durante la seconda guerra mondiale, anziché registrarsi come obiettore di coscienza. Nel 1947, si unì all’amico architetto Oscar Stonorov (allora socio di Louis Kahn) per progettare la “ Better Filadelfia Exhibition” ai grandi magazzini Gimbel, dove Bacon presentò idee urbanistiche basate su grandiose vedute, sequenze percettive, sistemi per il movimento pedoni, modalità di trasporti interconnesse. Nel corso di questi anni portò la sua famiglia nella città che stava trasformando: sei figli, tra cui Karin Bacon, ora progettista e organizzatrice di eventi, e Kevin Bacon, l’attore, vivevano in una casa di città a Locust Street.

Dopo le dimissioni dalla City Planning Commission nel 1970, Bacon diventò vicepresidente dello studio Mondev di Montreal, e insegnò in varie università. In questi anni Bacon, sempre un combattente, rimase impegnato nelle questioni urbanistiche di Filadelfia. Ruppe i rapporti con Willard Rouse quando Rouse costruì Liberty Place, violando il gentlemen’s agreement secondo cui nessun edificio poteva superare i 150 metri della statua di William Penn sulla cima di City Hall.

Alla cerimonia di commemorazione di Bacon a Filadelfia il 23 ottobre, il sindaco Street ha annunciato che intendeva proporre una risoluzione al legale municipale per cambiare lo statuto, in modo che il responsabile dell’urbanistica potesse avere un posto fisso nel gabinetto del sindaco, anziché un ruolo solo consultivo.

A trentacinque anni dal pensionamento di Bacon, l’eredità della sua direzione è ancora evidente (compresa l’istituzione della Ed Bacon Foundation nel 2004) anche se le filosofie dell’urbanistica e i modi di attuazione hanno subito grandi mutamenti. Pianificare ora significa tener maggior conto dei gruppi di abitanti, che ritenevano come si dedicasse troppa attenzione alle grandi visioni autocratiche, a spese delle comunità e delle abitazioni economiche. E anche se la partecipazione dei privati ai progetti di trasformazione urbana fu tanto importante nella rinascita della Filadelfia di Bacon, ora, coi finanziamenti statali e federali sempre più ristretti, questo tipo di alleanze ha portato spesso ai un’influenza determinante dei privati nella progettazione della città. Nondimeno, come osserva Schelter, “Bacon fu la persoone perfetta per la Filadelfia dell’epoca”.

Nota: il testo originale al sito di Architectural Record; qui su Eddyburg uno dei primi articoli dopo la scomparsa, e qualche link (f.b.)

Titolo originale: Edmund Bacon, 95, Urban Planner of Philadelphia, Dies – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edmund N. Bacon, uno dei principali urbanisti del dopoguerra, che ha ricostruito gran parte di Filadelfia, è morto venerdì nella sua casa. Aveva 95 anni.

La morte è stata annunciata dalla figlia, Elinor Bacon.

Direttore esecutivo della City Planning Commission di Filadelfia dal 1949 al 1970, Bacon ha avuto sulla sua città natale un’influenza paragonata da alcuni a quella di Robert Moses nel suo lungo regno su New York.

Rappresenta, anche un’epoca finita, quando gli urbanisti erano considerati delle celebrità, come oggi il figlio minore di Bacon, l’attore Kevin. Nel 1964 Bacon fi ritratto sulla copertina della rivista Time nel numero dedicato al rinnovo urbano in America. Nel 1965 Life dedicò un’altra copertina alla sua opera. Del 1967 il suo libro, Design of Cities, tuttora considerato un testo fondativo per l’urbanistica contemporanea.

Il suo segno su Filadefia risulta forse più evidente nel Penn Center, enorme insediamento nel centro città degli anni ’50 e ‘60. Il complesso, che comprende uffici e alberghi, era il più grande che si fosse visto in città dagli anni ‘20.

Sostituendo la cosiddetta Muraglia Cinese, insieme di ferrovie sopraelevate che dividevano la città, Bacon intendeva fissare una solida spina est-ovest. Aggiunse edifici nell’area attorno alla Stazione della 30° Strada al margine occidentale del centro città. Le idee del progetto di Bacon portarono anche agli insediamenti di Market East, Penn’s Landing, Society Hill, Independence Mall e Far Northeast. “Univa una filosofia demolisci-ricostruisci da urban renewal all’inizio della cultura della conservazione storica” scrisse Paul Goldberger sul New York Times nel 1988.


Il suo lavoro di urbanista non fu sempre giudicato positivamente dalla critica. Nel 1998 Herbert Muschamp scrisse sul New York Times che il Penn Center era “famigerato come uno dei primi esempi di disastrosa urbanistica moderna: discutibile nella geometria essenziale dei suoi edifici, la sua scarsa considerazione per la vitalità della strada tradizionale”.

Dal punto di vista personale, Bacon era noto per essere pungente, come può verificare chiunque nel documentario del 2003 My Architect, sul leggendario architetto Louis Kahn. Nel film, realzizzato dal figlio di Kahn, Nathaniel, Bacon difende vigorosamente – a dire il vero in modo irritabile – la sue decisione di respingere il progetto urbano di Kahn per Filadelfia.

Vigilò sempre attentamente sugli elementi storici fondamentali della città; per esempio, favorì il mantenimento di un tetto all’altezza massima degli edifici di Filadelfia, onorando la tradizione secondo cui nessuno poteva superare i 150 metri, ovvero l’altezza della statua di William Penn sopra il palazzo comunale. “Una volta infranta, non esiste più” dichiarò Bacon nel 1984.

Contrario al grattacielo One Liberty Place, si rifiutò di partecipare alla cerimonia di apertura del cantiere del 1986 e tolse il saluto al suo amico Willard G. Rouse III, che lo costruiva. “Credo che sia molto, molto distruttivo, il fatto che lui, lui solo abbia scelto di distruggere una tradizione storica che ha conferito belle e regolari forme alla città”, dichiarò Bacon all’epoca.

Contemporaneamente, si scontrava coi conservazionisti per la demolizione e ricostruzione di tanta parte della città.

Nativo di Filadelfia, Bacon aveva conseguito un bachelor in architettura alla Cornell University nel 1932, e poi continuato gli studi alla Cranbrook Academy of Art di Bloomfield Hills, Michigan, con l’architetto e urbanista finlandese Eliel Saarinen. Lavorò come architetto in Cina e a Filadelfia, prima di diventare urbanista municipale a Flint, Michigan

Da Flint, Bacon si spostò a Filadelfia come direttore della Housing Association, per cui progettò l’Esposizione Better Philadelphia del 1947, una mostra di piani e progetti modello. Fu anche fra i primi membri del City Policy Committee, protagonista del movimento politico riformista di Filadenfia.

Dopo le dimissioni dalla City Planning Commission nel 1970, Bacon fu vicepresidente della Mondev International Ltd., studio di urbanistica privato. Produsse anche Understanding Cities, una serie di film sull’urbanistica.

Fu professore associato all’Università della Pennsylvania, e insegnò anche a quella dell’Illinois a Urbana-Champaign. I riconoscimenti ricevuti comprendono tra l’altro lo American Institute of Planners Distinguished Service Award e il Philadelphia Award.

Oltre a Elinor, che abita a Washington, e a Kevin, che vive a New York, Bacon lascia altri quattro figli: Karin e Michael, a New York; Hilda, a Cherry Hill, New Jersey; e Kira, a Vashon, Washington, oltre a sei nipoti e un pronipote.

Bacon ha continuato sino alla morte a sostenere le proprie idee per Filadelfia, con modifiche a Independence Mall, Penn’s Landing e la Benjamin Franklin Parkway negli anni ‘90. Nel 2002 aveva protestato per la proibizione degli skateboard nel parco urbano di LOVE, nell’area orientale della parkway, attraversandolo illegalmente su proprio su uno skateboard.

Nota: il testo originale al sito del New York Times ; per capire meglio il contesto dell'opera di Edmund Bacon, si veda per esempio il saggio (disponibile online) di Mimi e John Lobell: The Philadelphia School 1955-1965 - A Sinergy of City, Profession and Education (f.b.)

L’italia possibile di Manlio Rossi-Doria

Il "finito di stampare" reca la data del 17 gennaio 1981. Appena due mesi dopo il tremendo terremoto del 23 novembre 1980, il Centro studi di Portici diretto da Manlio Rossi-Doria aveva già pronto un volume con un’indagine puntigliosa dell’area investita dal sisma – quasi trecentomila ettari fra Campania e Basilicata – , una sua descrizione geografica, economica e antropologico-culturale, un’indagine che si chiudeva indicando una serie di direttrici da seguire per la ricostruzione.

È in questa esperienza di studio militante, di analisi e di concretezza politica rigorosamente concepita sui campi lunghi della storia, che si condensano il metodo e la personalità stessa di Rossi-Doria, economista agrario, meridionalista e uomo di battaglie civili di cui in questi giorni ricorre il centesimo anniversario della nascita (ieri la sua figura è stata commemorata a Roma da Giorgio Napolitano durante un convegno organizzato dal Senato e dall’Animi, Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia).

Rossi-Doria nasce a Roma, figlio di un assessore della giunta radicale di Ernesto Nathan, ma a diciannove anni le sue passioni lo conducono verso il Mezzogiorno, dove si iscrive alla facoltà di Agraria di Portici. È il luogo dove il Sud viene indagato al riparo dalle grandi sintesi storiche e ideologiche che lo descrivono come un universo compatto: Rossi-Doria studia chimica, botanica, entomologia, microbiologia, mineralogia e geologia. In Val d’Agri, in Lucania, impara da Eugenio Azimonti, un grande agronomo, come si conduce un’azienda, quali sono le pratiche colturali e zootecniche. Azimonti è anche autore di un libro, Il Mezzogiorno qual è, che contiene già nel titolo un programma d’azione avverso alle fumisterie o alle illusioni che deformano la percezione della realtà.

Il Mezzogiorno e la sua arretratezza. I paesaggi coperti di immensi possedimenti fondiari in mano a poche persone, incolte e incapaci di migliorare. I terreni abbandonati, la miseria contadina, una natura ostile: sono questi gli spezzoni d’immagine che si stampano nei suoi occhi e che il giovane studioso porta con sé nel carcere fascista, dove resta dal 1930 al 1935, nel confino in Basilicata – dove partecipa alle discussioni che conducono Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a scrivere il Manifesto di Ventotene – nel partito d’Azione e poi nella Resistenza romana.

Nel ‘44 al Nord la guerra continua, ma Rossi-Doria ha lo sguardo concentrato sugli elementi di fondo che attraversano la società italiana, con o senza il fascismo. E ammonisce quei compagni azionisti convinti che nel ventre del Sud vibri un fermento rivoluzionario: «Ormai», scrive in una lettera a Leo Valiani, «camminavo tenendo davanti agli occhi la diversa prospettiva che la rivoluzione non ci sarebbe stata, che il vecchio avrebbe preso il sopravvento sul nuovo, che la sinistra sarebbe stata sempre sconfitta sino a quando non avesse imparato a fare i conti con la realtà e ad acquistare le doti dei cavalli dal fiato lungo».

L’argomento razionale, la sua verificabilità, la costante messa in discussione dei dati acquisiti sono i cardini della sua mentalità di studioso e di politico. L’analisi e la passione civile. Rossi-Doria partecipa al dibattito sulla riforma agraria, alla fine degli anni Quaranta, spinge affinché lo Stato rompa gli assetti proprietari, distribuendo le terre a chi le avesse fatte fruttare. Critica l’opposizione dei comunisti e fra il ‘49 e il ‘52 lavora in Calabria, cura gli espropri e gli accorpamenti delle particelle fondiarie. Ma poi rimane molto scettico quando constata che la Democrazia Cristiana oltre che avviare lo sviluppo dell’agricoltura, agevolando la formazione di moderne aziende, intende soprattutto creare una truppa di piccoli contadini proprietari del solo terreno, incapaci però di renderlo produttivo, perché senza mezzi e senza cultura, una truppa che avrebbe ingrossato l’elettorato clientelare e le file dell’emigrazione (non è un caso che qualche anno dopo Rossi-Doria sarà l’autore di un rapporto-denuncia sugli scandali di quel grande baraccone che era la Federconsorzi).

Rossi-Doria rifiuta di chiudersi entro confini specialistici e anzi pratica un dialogo fitto fra i saperi tecnico-scientifici e quelli umanistici. Prima della guerra ha collaborato con i grandi artefici delle bonifiche, fra i quali Arrigo Serpieri, e ha appreso quanto fosse difficile riportare fertilità in luoghi paludosi senza indagare, oltre che le condizioni fisiche dei suoli, anche la storia degli uomini e delle loro pratiche, i rapporti sociali, le abitudini culturali.

È la stessa attitudine che ispira l’indagine nelle zone colpite dal terremoto dell’80. Rossi-Doria ha settantacinque anni, è ancora mentalmente agilissimo e non sopporta i luoghi comuni che si abbattono sulle regioni piagate, quasi un secondo sisma. Sente dire che quella è una civiltà che andava estinguendosi, infetta dalla miseria e ormai senza storia, senza destino se non quello di distruggere e sbaraccare tutto, gli uomini e le bestie, di trasferire i paesi altrove e di avviare uno sviluppo industriale tutto incentivato e che non avesse alcun rapporto con i saperi locali: una specie di tabula rasa urbanistica e sociale. È il solito Mezzogiorno di cui molti parlano, che pochi conoscono, salvo le sue classi dirigenti che lo conoscono bene ma hanno l’occhio lungo sugli affari e sui modi per conservare potere.

Le frasi del rapporto (il volume si intitola Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980 ed è edito da Einaudi) sono dettate da limpidità di stile, dall’umile e ironica consapevolezza del sapiente rispetto allo sfoggio magniloquente: «Il dato che deve far meditare di più coloro che all’improvviso sono venuti in contatto durante l’ultimo mese con questi luoghi e questa gente, è di trovarsi in una regione antica, di antica e solida civiltà». Qui le popolazioni hanno vissuto per secoli «con la durezza e la modestia delle migliori società contadine d’Europa, accompagnate da un tenore di vita e da una dignità superiori a quelle allora esistenti altrove». Altro che civiltà in coma, che attende l’eutanasia delle ruspe: «Si è avuto, negli ultimi anni, un notevole consolidamento e rinnovamento dell’agricoltura, una diffusione delle attività terziarie tipica di una società in sviluppo e persino il sorgere (sia pure nelle forme sommerse tanto frequenti oggi anche altrove) di nuove piccole iniziative industriali». La ricetta di Rossi-Doria e dei suoi collaboratori, detta molto sinteticamente, esclude trasferimenti di popolazione e prevede interventi capillari, molto dettagliati e aderenti allo statuto dei luoghi, seguendo il motto: "per problemi diversi, politiche diverse".

La strada che viene intrapresa è tutta diversa: il cemento invade colline e vallate, i centri storici (non tutti, ma quasi) si svuotano, le aree industriali sono allestite su terreni golenali, le aziende nascono già morte, le opere pubbliche sono inservibili, i paesi senz’anima. E, dopo una pausa che durava da decenni, i più giovani tornano a emigrare. Le terapie proposte da Rossi-Doria, una specie di cura omeopatica che facesse perno sulle risorse di un organismo debilitato, ma non morente, restano sul fondo, ma non pietrificate, avvolte dalla nebulosa delle politiche e degli affari, eppure capaci di of

Un grande merito del libro di Marco Biraghi (Progetto di crisi: Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, Edizioni Marinotti, pagg. 318, euro 22) è certamente quello di aver dedicato un lavoro di trecento pagine al più intrigante e geniale storico dell’architettura italiano dell’ultimo mezzo secolo: Manfredo Tafuri. Scomparso undici anni or sono e rapidamente dimenticato, dopo il numero doppio di Casabella da me diretta del gennaio 1995.

Tafuri era nato a Roma nel 1935 ed ha insegnato all’Istituto Universitario di Venezia dal 1968. Collaboratore della rivista Contropiano ed autore di una monografia sul suo maestro Ludovico Quaroni, i suoi testi, a partire da Teoria e storia dell’architettura del 1968 (una delle analisi più acute ed inventive della nozione di avanguardia in architettura), Progetto ed utopia (1973), La storia dell’architettura italiana dal ‘44 all’85, La sfera e il labirinto (1980), sino a Raffaello architetto del 1984, a Venezia ed il Rinascimento (1985) ed a Ricerca del Rinascimento sono analizzati da Biraghi con acutezza critica, che, giustamente, soggiace anche al fascino del modo di scrivere per ribaltamento e rotture del grande storico.

Dopo l’introduzione dedicata all’idea tafuriana di storia come progetto in opposizione sia allo storicismo positivista sia alla critica prescrittiva («Il modo con cui guardo ai fenomeni storici può dirsi progettuale anche se continuo a rifiutare qualsiasi categoria operativa», scriveva Tafuri nel 1980), l’interpretazione di Biraghi del lavoro storico-critico di Tafuri (la distinzione tra le due attività era per lui impossibile e la critica non deve porsi come semplice ornamento delle opere) si concentra, come propone il titolo del libro, sull’idea di "progetto di crisi", come incessante costruzione di ipotesi critiche sugli avvenimenti dell’architettura interconnessi con il mondo storico delle mentalità e delle condizioni di produzione, che hanno il compito di lavorare sullo spazio di relazione e quindi sulle divergenze e le contraddizioni ideologiche della stessa architettura.

Il metodo storico di Manfredo Tafuri gli permette di parlare sempre delle questioni del presente anche quando, o forse specialmente quando, egli parla con grande rigore investigativo del Sansovino a Venezia o delle vicende della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma (le poche pagine introduttive del libro sul Rinascimento a Venezia ne sono un esempio).

Biraghi percorre nel suo studio (con abbondanza di citazioni filosofiche) le varie fasi del percorso di Tafuri, con i giudizi critici su Louis Kahn e Robert Venturi, sulla linguistica strutturale, sui temi delle tecniche e delle politiche della realtà; concludendo giustamente con un giudizio di decisa appartenenza del pensiero di Tafuri alla cultura ed al progetto moderno. Un’appartenenza senza illusioni, ma credo, per quello che l’ho conosciuto, senza disperazioni.

Giustamente Biraghi si chiede però ad un certo punto se «la crisi che scuote incessantemente l’analisi storico-critica è la medesima a cui è stato sottoposto il reale» e se, aggiungo io, proprio negli anni recenti, dopo la sua morte non abbiamo fatto coincidere le due cose e che quindi, proprio il lavoro storico di Tafuri abbia (non tanto inconsciamente) previsto come, a partire dal piano inclinato delle nuove condizioni, l’architettura sarebbe finita nel cinismo del "gioco delle perle di vetro"; anche se dobbiamo constatare che le perle sono diventate false e persino il vetro è fatto di materia plastica, cioè la finzione dell’arte è divenuta finzione del suo stesso essere pratica artistica.

La "crisi del referente" di cui Tafuri ha sovente scritto (a partire da Robert Klein) con tanta acutezza, dopo cinque secoli di contraddizioni irriducibili si è finalmente risolta incollandosi entusiasticamente, e con vantaggi, alla condizione postsociale, e mettendo in questione l’ontologia stessa della nostra pratica artistica.

«Non è compito della storia», scriveva Tafuri in Ricerca del Rinascimento, «ricomporre l’infranto ma neanche identificarsi con i vincitori e con l’apologia del presente».

L'immagine è tratta da www.archfranzine.fiume10

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