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Per chi abbia vissuto la straordinaria stagione della costruzione dell’unità sindacale a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, la morte di Bruno Trentin è non solo dolore per la perdita di un amico e di un maestro, ma occasione per rievocare un’esperienza che avrebbe dovuto essere, credo più di quanto non sia stata, ricca di insegnamenti preziosi per la sinistra. Non a caso una riflessione seria su quell’esperienza che consentì al sindacato di acquisire molto potere, un potere non sempre utilizzato con lungimiranza, non è stata ancora fatta.

Il ruolo di Bruno nella vicenda fu fondamentale (forse solo Pier Carniti può essergli equiparato). Bruno era una persona particolare. Da un lato, era portatore di una visione del mondo molto originale, anche se permeata dalle ideologie del movimento operaio; dall’altro, era guidato dalla ragione e questa gli consentiva di mettere egregiamente a frutto capacità analitiche basate su una vasta cultura. La prima componente è esemplarmente testimoniata dal libro pubblicato da De Donato alla fine dell’autunno caldo (come fu denominata l’ultima parte del 1969, per i caratteri assunti dal rinnovo contrattuale dei metalmeccanici): “Da sfruttati a produttori”. La seconda dalla relazione sulle trasformazioni del capitalismo tenuta a un convegno dell’Istituto Gramsci nel 1963 (cito a memoria).

Certo era stata importante nella formazione di Bruno la vicenda familiare: un padre di grandissime qualità intellettuali e morali che rifiutò di sottomettersi alle leggi fasciste sui dipendenti pubblici del 1925 – lui docente universitario – ed emigrò in Francia, dove dovette adattarsi ai più svariati mestieri per mantenere la propria famiglia. Che rientrò in Italia con il figlio durante la guerra per contribuire all’organizzazione della lotta partigiana entro il movimento di Giustizia e Libertà, fu catturato con il figlio e imprigionato, e pochi mesi dopo morì. Un padre, in sostanza, con cui Bruno si misurò sempre, sentendosi (ho spesso avuto questa impressione) non di rado inadeguato.

Ciao Bruno. Avresti meritato di più, anche perché ci hai dato molto.

L'immagine lo ritrae a un comizio a Venezia nel 1971. E' tratta dal documentario di Manuela Pellarin, Porto Marghera. Gli ultimi fuoochi

Il boia abbassò l'interruttore alle ore 0,19 per Nicola Sacco. Sette minuti dopo per Bartolomeo Vanzetti. Nella prigione di Charlestown (Massachusetts) la sedia elettrica funzionò perfettamente e i due italiani (Sacco era nato nel foggiano, Vanzetti nel cuneese) furono giustiziati il 23 agosto 1927.

Sono passati 80 anni e il ricordo di quella esecuzione di due innocenti colpevoli solo di essere anarchici è ancora viva. Sacco e Vanzetti sono diventati il simbolo della lotta alle ingiustizie, prima fra tutte la pena capitale.

I due emigrati italiani erano accusati di aver preso parte ad una rapina uccidendo un cassiere e una guardia del calzaturificio "Slater and Morrill" a South Baintree, sobborgo di Boston. Nonostante le prove evidenti della loro innocenza e la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che scagionava.

Bartolomeo Vanzetti era nato nel 1888 a Villafalletto, in provincia di Cuneo. Figlio di un agricoltore, a vent'anni entra in contatto con le idee socialiste e, dopo la morte della madre Giovanna, decise di partire per il "Nuovomondo", a caccia di una vita migliore come tanti italiani all'alba del Novecento.

Come Nicola Sacco, più vecchio di Vanzetti di tre anni, nato il 27 aprile 1891 a Torremaggiore (Foggia), che arrivato in America nel 1908 fece l'operaio alla Slatter.

I due si conosco nel maggio 1916 a Boston in una riunione di anarchici. Insieme ad altri militanti scappano in Messico per evitare di essere arruolati. Tornano nel Massachusetts a settembre e iniziano a scrivere per "Cronaca sovversiva", giornale anarchico. Da allora, Nick e Bart, come vengono soprannominati oltreoceano, diventano inseparabili.

La lotta agli anarchici da parte della polizia è fortissima. Molti amici di Sacco e Vanzetti vengono arrestati e i due pensano anche di tornare in Italia per fuggire alla persecuzione. Il 5 maggio 1920 vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni dopo i due vengono accusati anche della rapina al calzaturificio, avvenuta poche settimane prima.

Dopo tre processi pieni di errori e incongruenze, Sacco e Vanzetti vengono condannati a morte nel 1921. A nulla valse neppure la mobilitazione della stampa, la creazione di comitati per la liberazione degli innocenti e gli appelli più volte lanciati dall'Italia.

Il verdetto fu fortemente condizionato dal clima da caccia alle streghe contro gli anarchici che in quel momenti caratterizzava gli Stati uniti e da un evidente sentimento razzista nei confronti degli immigrati italiani. Contro l'esecuzione di Sacco e Vanzetti si mobilitarono non solo gli italiani d'America, ma anche intellettuali in tutto il mondo, tra i quali Bertrand Russel, George Bernard Shaw e John Dos Passos.

«Mai vivendo l'intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Così Bartolomeo Vanzetti si rivolse alla giuria che lo condannò alla pena di morte. La stessa frase sarà detta da Gian Maria Volontà in uno dei momenti più toccanti del film di Giuliano Montalto del 1971. Una pellicola divenuta presto un cult grazie anche alla colonna sonora di Ennio Morricone, interpretata da Joan Baez, autrice dei testi. «Voi restate nella nostra memoria con la vostra agonia che diventa vittoria»: sono le parole di "Here's to you" che, insieme alla "Ballata per Sacco e Vanzetti", è entrata nel repertorio internazionale della canzone d'autore sollevando le coscienze negli Usa su un caso da molti dimenticato.

Il loro caso non solo smosse le coscienze degli uomini dell'epoca, ma come un fantasma continuò ad agitare l'America per decenni. Finché nel 1977, cinquant'anni dopo la loro morte, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis (riparando parzialmente all'errore del suo predecessore Fuller, che nonostante gli appelli non fermò il boia) riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.

La loro figura, anche alla luce del rinnovato impegno italiano nella campagna contro la pena capitale, torna alla ribalta. L'ottantesimo anniversario dell'esecuzione verrà ricordato il 23 agosto a Torremaggiore (Foggia), la città d'origine di Sacco nel cui cimitero sono custodite le ceneri dei due italiani, attraverso una serie di manifestazioni e la costituzione di un'associazione che porta il loro nome.

L'associazione sarà animata da Fernanda Sacco, nipote di Nicola Sacco, che da anni è impegnata nella valorizzazione del messaggio contro la pena di morte lanciato dal sacrificio dei due anarchici. Nonostante i 75 anni, Fernanda è arzilla e continua a girare le scuole per tramandare la storia di quel suo famigliare così particolare e impegnarsi nella battaglia contro la pena di morte.

Il Quirinale, in una lettera indirizzata all'associazione Sacco e Vanzetti e da essa resa nota, ha trasmesso «l'apprezzamento» del presidente della repubblica Giorgio Napolitano per l'iniziativa che, «nel tenere viva la memoria dei due emigranti italiani, intende contribuire al movimento per l'abolizione della pena di morte, tappa fondamentale per la difesa dei diritti umani, sulla quale si è di recente registrato l'unanime consenso dell'Unione europea».

A San Biagio della Cima, paese in provincia di Imperia, giovedì 23 alle 17 intitolerà la nuova piazza del Comune a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine della cerimonia seguirà il dibattito: "Pena di morte, a quando la moratoria Internazionale?" al quale parteciperanno membri di associazioni e del mondo della cultura.

Sono passati 20 anni da quella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987, quando Federico Caffè uscì silenziosamente dalla sua casa e si dissolse nel nulla.

L'avevo conosciuto, anni prima, a Roma, in casa di Edoardo Volterra, insieme a Riccardo Lombardi, al quale era legato da una profonda comunanza di idee e di valori.

Ho pensato spesso quale potesse essere il legame fra uomini così diversi per interessi culturali e storia personale, e sono giunto alla conclusione che questo legame era soprattutto il rigore civile e morale verso se stessi e verso gli altri.

Quando Lombardi morì, nel 1984, Caffè scrisse di lui: "...era un indispensabile punto di riferimento al quale si era portati a rivolgersi nel succedersi delle illusioni e delle delusioni, che hanno contraddistinto la vita del nostro Paese".

In queste due parole io sento la stessa malinconia che aveva contraddistinto l'ultima parte della vita di Riccardo Lombardi, quella "solitudine del riformista" che fece scrivere amaramente a Caffè "l'odierna voga del ritorno al mercato costituisce, in definitiva, una pavida fuga dalle responsabilità".

Ma questa malinconia non deve essere scambiata né in Federico Caffè né in Riccardo Lombardi, in rinuncia, perché " la fiducia che le idee finiscono per prevalere sugli interessi costituiti non può essere abbandonata da chi ne abbia fatto il fondamento della propria visione della vita".

E' questo il messaggio più bello che ci ha lasciato Federico Caffè.

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Vent'anni dopo, la lettura dei suoi scritti induce ad alcune domande. Chi era in realtà Federico Caffè? Un liberale? Se si riflette sul pensiero liberale nella concezione dei suoi due massimi esponenti italiani, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, si sarebbe portati a rispondere positivamente a questa domanda.

Benedetto Croce nella "Storia d'Europa nel secolo decimonono", così definiva gli utopisti: "Utopisti furono quelli che si dettero a credere che la questione sociale o ‘la questione della Storia' sarebbe stata bella e risoluta con l'innalzare gli espedienti economici liberistici a principi assoluti, a legge della umana convivenza, ripromettendosi da ciò la pacificazione di tutti i contrasti, l'appianamento di tutte le difficoltà, la felicità umana; il che non si poteva pensare se non ponendo, in ultima analisi, la legge della storia al di là della storia".

Luigi Einaudi nelle sue "Lezioni di politica sociale" così definisce il mercato: "il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni".

Si può considerare Caffè un liberale progressita? Si, se si pensa a Franklin Delano Roosevelt, che nel 1933 inviò al Congresso degli Stati Uniti un messaggio per accompagnare due disegni di legge che assunsero una importanza storica: il Public Utilities Company Act (che era la base istituzionale per la lotta contro i gruppi elettrico-finanziari) e la creazione della Tennesse Valley Authority.

"Contro le concentrazioni di ricchezza e di potere economico che le holding hanno creato nel campo dei servizi pubblici", scriveva il Presidente Roosevelt, "una regolamentazione ha poche possibilità di successo".

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Ma Federico Caffè scrisse, per un lungo periodo, solo su un quotidiano comunista, il Manifesto. Perché lo fece? Per mantenere una assoluta indipendenza di giudizio, io credo. Egli era contro il mercato fine a se stesso, contro cioè quella dottrina del "laissez faire" che affida alla cosiddetta "mano invisibile" il governo del mondo.

Ma la sua battaglia più dura fu contro il mercato finanziario. E' memorabile la sua definizione della borsa, che egli considera "un gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione e il pratico spossessamento dei loro peculi".

Ma egli fu anche un uomo delle grandi istituzioni dello Stato, alla cui funzione credette fermamente. E' noto, a questo proposito, il suo legame con la Banca d'Italia.

Ho ritrovato recentemente un significativo ricordo di Carlo Azeglio Ciampi:

"Negli anni settanta tutto il volume della Relazione Annuale veniva letto e discusso ad alta voce due volte. La prima volta il dattiloscritto veniva letto pagina per pagina in aprile. La seconda volta veniva letto in bozze da un gruppo fisso che comprendeva Carli, Baffi e uno dei due vice-direttori generali, il Capo Servizio Studi e di volta in volta i capi degli uffici interessati. Oltre a costoro, era sempre presente, seduto in silenzio, Federico Caffè. I suoi interventi erano i più misurati. Caffè era della idea che le osservazioni più gravi si dovevano fare sempre e soltanto a quattrocchi, mai in pubblico. La presenza di Caffè era utilissima, perché spesso gli animi si scaldavano, e quando c'erano contrasti o critiche, contraddizioni molto forti, mentre noi discutevamo, Caffè con la sua matitina vergava sul margine delle bozze la soluzione che accontentava tutti. Era un forte elemento di moderazione, anche linguistica, proprio lui che veniva considerato "di sinistra".

Allora chi era Federico Caffè?

Egli si definisce un riformista, e anche da questa definizione nasce la gratitudine che gli dobbiamo, perché la parola riformista si presta oggi a pericolosi equivoci.

Non è quindi inutile ripetere quella definizione che è diventata ormai famosa: "il riformista è convinto di operare nella storia, ossia nell'ambito di un sistema di cui non intende essere né l'apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito di apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell'immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all'utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del sistema".

Per Caffè, d'altra parte, utopia non era affatto una brutta parola:"per uno scienziato quel che gli altri definiscono utopia è solo anticipazione di esiti che debbono superare le resistenze del presente".

Queste parole sono più che mai attuali, in un momento nel quale noi, uomini e donne della Sinistra, abbiamo idee diverse e confuse, perché ci aiutano a riflettere su noi stessi, per ritrovare, speriamo, dall'insegnamento di questi Maestri, la "diritta via", che abbiamo smarrito.

Su Federico Caffè leggi anche, su questo sito, l'articolo di Francesco Morello su . Se non sai chi era Federico Caffè guarda qui su wikipedia

Scriveva alla metà degli anni ’80 Giorgio Ruffolo: ”La programmazione […] fornisce il solo quadro coerente entro il quale una politica di arricchimento sociale può essere efficacemente perseguita. Essa è la risposta razionale, “illuministica” della sinistra alla degradazione mercatistica dell’ambiente e dello spazio. L’abbandono dell’impegno riformatore in questo campo costituisce uno degli aspetti più gravi e caratteristici della crisi attuale della sinistra”.

Il “riformista”, l’”amendoliano”, il “migliorista”, il “destrorso” Gianni Pellicani a questa degenerazione, destinata a un aggravamento esponenziale negli anni seguenti alla denuncia di Ruffolo, si oppose nei termini forse più efficaci, e certamente a lui più congeniali. Volendo, supportando, cercando di accompagnare all’entrata in vigore (il più delle volte lavorando nell’ombra, come sapeva impareggiabilmente fare, e talvolta ricorrendo a mosse spregiudicate fino al cinismo, che riusciva paradossalmente a rendere perfettamente compatibili con la sua alta moralità) gli strumenti della ripianificazione urbanistica comunale e quello della pianificazione territoriale comprensoriale della laguna e del suo entroterra (“importando” a Venezia Edoardo Salzano per la prima operazione e Vezio De Lucia per la seconda). E inventando, e riuscendo a fare due volte redigere, in tali casi sotto la sua personale responsabilità, e varare dal Consiglio comunale (con tutti i compromessi del caso, certamente!), uno strumento atipico che denominò “piano-programma”, e il cui scopo essenziale era quello di dare coerenza sistemica, e generale rispondenza a talune prescelte finalità, a tutte le attività, le azioni, gli interventi di realisticamente prevedibile concretizzazione nell’arco temporale del mandato amministrativo comunale, al contempo valutandone la fattibilità in relazione ai previsti flussi finanziari del comune, e in genere alle risorse credibilmente mobilitabili. Suppongo che oggi, per essere adeguatamente trendy, li si chiamerebbe “piani strategici”: ma non sono sicuro che i loro contenuti sarebbero altrettanto risolutamente fatti discendere dall’assunzione di precisi, e anche tra loro gerarchizzati, interessi collettivi.

Ignorare questo quadro concettuale e operativo dell’azione di Gianni Pellicani, per affastellare elenchi più o meno compiuti di interventi di cui fu variamente promotore, come mi pare si sia per lo più fatto negli organi d’informazione in questi giorni, significa impoverirne il ruolo a quello di un pubblico amministratore straordinariamente capace ed efficiente (e non sarebbe poco!) ma privo, o carente, di quella che la politologia anglo-americana chiamerebbe “visione”: cioè di ciò che Gianni sommamente ambiva possedere (e discutere, e, se lo ritenesse, correggere, rettificare, arricchire).

Di quello che ho sostenuto mi permetto di considerarmi un testimone qualificato, non foss’altro che perché la convinta, appassionata adesione di Gianni Pellicani alla “cultura della pianificazione” ha potentemente contribuito a orientare, e poi a condizionare irreversibilmente, la mia vita.

Essendo allora militanti in partiti politici diversi (io nel PRI, lui, come ognuno sa, nel PCI), e svolgendovi diversificati ruoli, la riscontrata convergenza su finalità, obiettivi, contenuti specifici riguardanti Venezia (e, a ben vedere, non Venezia soltanto) ci aveva portato a collaborare, talvolta pubblicamente, talaltra “clandestinamente”, nei processi di elaborazione della “legge speciale” del 1973, e poi, ancor più, dei relativi decreti di attuazione (soprattutto di quello sul risanamento della città storica), e quindi degli “indirizzi” governativi per la redazione del piano comprensoriale della laguna e del suo entroterra, mentre contemporaneamente ci si confrontava sugli emendamenti, e talvolta sulle vere e proprie proposte di rielaborazione, che io predisponevo relativamente alle normative degli strumenti urbanistici comunali.

Io, pur avendo fatto, oltre all’attività politica e istituzionale, vari “mestieri”, non avevo ancora deciso “cosa fare da grande” (pur non essendo proprio un ragazzino). Nel 1977, un giorno, mentre si parlava non ricordo più di che, Gianni mi disse: “Senti Gigi, visto che sai maneggiare benissimo le norme, soprattutto quelle urbanistiche e ambientali, e soprattutto sai scriverle, perché non fai di questa capacità la tua professione?”. Di fronte alla mia faccia sbalordita, aggiunse: “Potresti cominciare con l’essere responsabile della redazione delle norme del piano comprensoriale”. Provvide lui, intuendo il mio imbarazzo, a parlarne con Toni Casellati, designato Presidente del Comprensorio, repubblicano come me e mio carissimo amico, e a fissarmi un colloquio con Vezio De Lucia, nel corso del quale scoccò il fulmine di un’intesa che avrebbe fatto di quest’ultimo un altro mio fraterno amico (esattamente com’era successo, due anni prima, quando mi aveva fatto incontrare Eddy Salzano: che avesse un tocco magico?). E io ebbi, e svolsi, il mio primo incarico professionale di redazione delle norme di un piano territoriale. L’incarico professionale immediatamente successivo, alla fine del 1980, non essendo più io consigliere comunale, me lo conferì Gianni stesso, comunicandomelo con il modo di fare di chi dà notizia di una cosa già decisa: si trattava di coordinare, come suo consulente di fiducia, la redazione delle osservazioni del Comune di Venezia al piano comprensoriale della laguna e del suo entroterra, per cercare di farne concludere l’iter formativo, nonché la stesura del “piano-programma” del secondo mandato amministrativo. Fu un’altra esperienza appassionante, e la mia vita professionale ebbe il suo definitivo indirizzo.

Chissà perché, non ho mai detto a Gianni quanto avesse contato anche negli aspetti più personali della mia esistenza. Immagino che, se glielo avessi confidato in questi ultimi anni, in cui i fautori della “cultura della pianificazione” sono trattati, quando gli va bene, come gli ultimi soldati giapponesi nascosti nelle giungle delle isole del Pacifico, mi avrebbe borbottato, con il suo umanissimo sarcasmo autoironico: “Che bella fregatura ti ho dato, Gigi, eh?” (naturalmente l’avrebbe detto in veneziano, e avrebbe usato un altro termine).

Grazie, Gianni. Quando ci si becca quel tipo di fregature da persone come te, si può sperare di riuscire a vivere, e quando viene il momento di morire, come te, da persone degne di stima, di ricordo, di rimpianto.

«Siano avvertiti il Partito e l’Università di Padova». Così si leggeva su un biglietto che i familiari trovarono indosso a Concetto Marchesi nel momento della sua morte, a Roma, il 12 febbraio 1957, cinquant’anni fa. Quel biglietto, Marchesi lo portava con sé da alcuni giorni, in previsione dell’unico viaggio per il quale (diceva) non si sarebbe recato alla stazione con un quarto d’ora d’anticipo.

Il commiato dalla vita del grande umanista - nativo di Catania, ha appena compiuto settantanove anni - avviene in un quadro a suo modo sontuoso. Vi partecipano, appunto, l’ateneo padovano in cui ha insegnato per trent’anni, e soprattutto il Pci, nel quale ha militato dal 1921. L’Unità gli dedica quattro fitte pagine, con firme molto note, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Francesco Flora, da Vincenzo Arangio Ruiz a Gabriele Pepe. Di fronte alla salma, la scrittrice Sibilla Aleramo sprofonda nel lirismo: «Giuro che avrei voluto essere io in sua vece, stesa in tanto limpido riposo». È piena di confronti con De Sanctis e Gramsci l’orazione pronunciata da Togliatti. A "coprire" la cronaca provvede Gianni Rodari. Secondo il quale, uscendo dal suo appartamento in via Cristoforo Colombo per raggiungere la clinica Sanatrix, Marchesi avrebbe detto, in greco, a un suo discepolo: «Oichomai», me ne vado. Nell’articolo di Luigi Russo, celebre italianista anche lui siciliano, si trova un ritratto dell’amico: «Piccolo, snodato, aveva un’aria d’un bambino, o d’un "angelone", come quelli che ricorrono nei nostri paesi nelle cerimonie cattoliche».

Di conversione, nessuno parlò. Marchesi non era il tipo, benché in una delle sue ultime opere, L’Antologia della letteratura latina per i licei, avesse curato con particolare amore la parte relativa agli scrittori del primo cristianesimo, Arnobio, Tertulliano, Prudenzio. Dichiarando poi: «Noi comunisti ci inchiniamo davanti a tutte le fedi», anche a quella «degli apologisti e dei padri della Chiesa». Ecco un modo di ribadire che la sua Chiesa era un’altra. E anche di rispondere in anticipo a una diffusa perplessità, come quella espressa, proprio nel febbraio ‘57, dal Corriere della sera: come si spiega (s’è chiesto il giornale) una ispida «passionalità di accenti» politici in «un uomo che ha studiato con penetrazione alcune delle più serene figure del mondo classico», Marziale, Seneca, Petronio, Fedro, Orazio, Apuleio?

Di fatto, convivevano in Marchesi un filologo e un uomo politico. Impetuoso, quest’ultimo. Beffardo. Incurante di apparire settario. Così egli era stato fin da adolescente. Sulle sue origini aleggiava un precedente suggestivo. Si voleva che egli discendesse da lombi aristocratici, i nobili d’Angiò. Un sacerdote, suo antenato, essendogli nato un figlio naturale, lo aveva dato ad allevare a una coppia di contadini: e il cognome Marchese, diventato poi Marchesi, alludeva a quella origine patrizia. In politica, la precocità di Concetto si manifestò in forme prorompenti, "sovversive". Lucifero, un giornale catanese che egli fondò nel 1894, a sedici anni, venne subito sequestrato per aver osannato al «furore ideologico» che conduceva al patibolo gli anarchici di Parigi. Condannato a un mese di reclusione per apologia di reato, si risparmiò al direttore la prigione: era un ragazzo.

Ma nel ‘96, appena Concetto ebbe compiuti i diciotto anni, la sentenza divenne esecutiva ed egli fu arrestato nella sede dell’Università di Catania: vi si era recato per ascoltare una lezione di Remigio Sabatini (il professore del quale sarebbe restato "discepolo a vita" sposandone la figlia Ada). Dopo il primo mese di carcere, gliene inflissero un secondo per aver commesso «oltraggio a pubblico ufficiale», dando del «rospo» a una guardia.

Su simili episodi Marchesi s’intrattiene nei volumi di memorie Il cane di terracotta, Il letto di Procuste e Il libro di Tersite. S’intitolava Battaglie un libretto di poesie a sua firma uscito nel ‘96 a Catania: egli avvertì che lo aveva scritto «con la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e la fede di chi ha un ideale da raggiungere». L’autore avrebbe poi sconfessato quei versi giovanili, ma lo spirito che li connotava gli sarebbe rimasto inalterato lungo un’intera carriera di cattedratico - a Messina e poi a Padova - e di «militante».

Il ventennio fascista coincise con la sua piena maturità. Non era iscritto al fascio, ma adempì nel 1931 all’obbligo, per i professori, di giurare fedeltà al regime. Nei giorni della morte fu Ludovico Geymonat a rimproverargli quel gesto, mentre Cesare Musatti lo difese (e poi Giorgio Amendola nelle sue memorie rivelò che era stato Togliatti ad autorizzare il giuramento). Gli amici di Marchesi andarono a cercare nel suo capolavoro, la geniale Storia della letteratura latina (1927), certi giudizi interpretabili in chiave di critica al fascismo. A partire da quello su Giulio Cesare: «Quest’uomo, giunto al sommo dell’umano potere, lasciò che tutti parlassero, perché le bocche si chiudono quando si è servi della ventura e non signori della storia». Ezio Franceschini, suo biografo, ricorda che nel 1942 Marchesi, rievocando a Perugia Cornelio Tacito, inserì nel discorso acuti sapori antitedeschi. Quello di guardare alla storia come eterno presente era un vezzo del professore catanese. Sedici anni più tardi, nel 1956, all’VIII Congresso del Pci, il nome del massimo storico del Principato gli sarebbe tornato sulle labbra in un contesto sarcastico, contro la demolizione della personalità di Stalin: «Tiberio uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», egli ricordò, «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev». Aveva così rassicurato il partito in merito alla sua fedeltà. Compiacendo Togliatti. Al quale, anni prima, aveva rilasciato una patente di umanista. Si può parlare - s’era chiesto - della «cultura classica» del segretario del Pci? «Certo», era stata la risposta, «se per classico s’intende "di prima classe"».

Il partito ricambiava. Con stupore ammirativo veniva ricordato il coraggio mostrato dal latinista nei tardi anni del regime, i più duri. Di quando, per esempio, clandestino a Milano, si faceva passare per l’avvocato Antonio Mancinelli. Lui stesso usava spesso commemorare la notte di Natale del ‘43, allorché nella casa in cui si nascondeva piombarono «come lupi affamati» i compagni di partito Scoccimarro e Li Causi. «Tutti e due insieme!», esclamava il professore. «Sarebbe stata una bella festa se ci avessero presi». Nel maggio di quell’anno, a Padova, Marchesi aveva conosciuto Giorgio Amendola che, pur molto ammirandolo, trovò i suoi argomenti politici «settari e anche ingenui».

Un’accentuata freddezza mostrerà poi nei suoi riguardi Luigi Longo, imputandogli di aver accettato la carica di Rettore, a Padova, nei mesi di Salò. Ma a riportarlo nella "linea" del partito valsero le dimissioni da quella carica, accompagnate, il 1. dicembre 1943, da un vigoroso appello agli studenti di Padova perché si unissero alla Resistenza, a «questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo».

Febbraio ‘44: Marchesi si rifugia in Svizzera. In settembre eccolo nell’Ossola, nelle file della Resistenza. C’è stato, ai primi dell’anno, un altro colpo di scena a sua firma. Commentando un articolo di Giovanni Gentile sul Corriere della sera, nel quale si invocava la concordia nazionale, Marchesi così aveva reagito: «Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere: non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggine». E più avanti: «Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino». Questa Lettera aperta a Gentile venne stampata nel giornale «La Lotta» del gennaio 1944. In marzo, essa venne ripubblicata nella rivista clandestina del Pci «La nostra lotta». Era scomparsa la firma. Sotto un nuovo titolo - Sentenza di morte - era stata aggiunta una frase finale: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!». Si sarebbe saputo più tardi che a rimaneggiare il testo aveva provveduto Girolamo Li Causi.

Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile viene assassinato a Firenze. E fra gli enigmi connessi al delitto se ne profila uno con al centro, appunto, la figura di Marchesi. Per tentare di decifrarlo, lo storico dell’antichità Luciano Canfora scriverà assai più tardi, nel 1985, edito da Sellerio, un libro affascinante, una sorta di noir dal vero. S’intitola La sentenza. L’autore percorre l’intero arco delle ipotesi che accompagnano la morte di Gentile (se alla base dell’attentato ci sia un ordine emanato dal Pci, se si debba invece pensare a un’iniziativa "dal basso", e così via). Ma Canfora esamina soprattutto il ruolo che svolse, all’interno del «caso», Concetto Marchesi. Ne ripercorre la carriera di militante comunista. Ricorda le roventi accuse che egli rivolse a Gentile. Esclude che quella variante finale, in cui si parla esplicitamente di morte, apposta da Li Causi al testo di Marchesi, possa essere passata senza la sua approvazione.

Canfora definiva comunque quell’attentato un «fotogramma sfocato». Tale forse è destinato a rimanere. Offuscando, di scorcio, la biografia - che si vorrebbe luminosa - d’un grande umanista.

Sigmund Freud (si pronuncia Froid) era un medico nato nel 1856 e vissuto quasi sempre a Vienna. Si occupava di persone con certe malattie che si dicono nervose, e scoprì un metodo per curarle. Il metodo non consisteva nel prescrivere medicine, ma nello scoprire determinati pensieri che questi ammalati avevano dentro di sé. Erano strani pensieri: conservati nella mente, senza che gli stessi ammalati sapessero che c'erano. Che sia possibile avere dentro di sé idee e desideri, aspirazioni e timori, senza saperlo, sembra certamente assai curioso; e ai tempi di Freud molti non credevano a questa teoria. Essa permetteva di curare facendo ritrovare e ricordare queste cose dimenticate, ed eliminando in tal modo il loro effetto dannoso. Anche con i bambini il metodo poté essere applicato. Il primo bambino curato con questo sistema era il piccolo Hans. Senza alcuna ragione si spaventava di fronte a grossi cavalli da trasporto, anche se veduti soltanto da lontano; stava perciò tappato in casa per il terrore di incontrarli. La paura era dovuta a idee che Hans si era messo in mente quando era ancora molto piccino, e che aveva del tutto dimenticate. Quando Hans ritrovò, con l'aiuto del metodo di Freud, queste idee, ogni paura scomparve.

Molte fobie che spesso qualche bambino prova per animali inoffensivi, ma anche altre paure, come ad esempio quella del buio, hanno simile origine e possono essere curate con questo sistema, che si chiama psicoanalisi.

Il metodo si usa però, soprattutto, con persone adulte, tormentate da fissazioni, paure, incapacità di affrontare certi lavori, difficoltà a stare in mezzo alla gente, o a costituirsi una famiglia, oppure sofferenti per dolori in varie parti del corpo, senza che vi sia nulla di malato nel loro organismo.

Spesso, incidenti che passano inosservati, impressioni provate quando si era piccini, e poi dimenticate, preoccupazioni sentite in modo esagerato, ma a cui si è cercato di non pensare più, rimangono dentro di noi e provocano disturbi, che sembrano del tutto incomprensibili e privi di senso. Molte di queste impressioni nascoste in noi risalgono all'infanzia.

I grandi avevano una volta l'abitudine di raccontare un sacco di frottole ai loro figli, a proposito di problemi che interessano molto i bambini, e che gli adulti considerano argomenti proibiti. Ad esempio, di fronte alla curiosità infantile sulle diversità tra il corpo maschile e quello femminile, su come vengono al mondo i neonati, o su quel che fanno tra loro i genitori nel lettone, non venivano fornite spiegazioni chiare, anzi questi argomenti venivano circondati di mistero. Ne derivavano nei bambini angosce, fantasie del tutto lontane dalla realtà, e sentimenti di colpa per la propria persistente curiosità: anche queste impressioni, successivamente dimenticate, potevano essere causa di futuri disturbi.

Se oggi si è più franchi con i bambini, questo è dovuto in gran parte alla diffusione delle idee di Freud. Ma il suo merito principale è quello di avere scoperto come si possa vedere dentro di noi, anche le cose che in noi sono coperte e dimenticate. Per giungere a questo obiettivo, Freud e gli psicoanalisti che ne hanno seguito la lezione, osservano tutti i minimi gesti, il modo di comportarsi e di parlare, e anche i sogni che a ciascuno capita di fare durante la notte. E questo non perché i sogni annuncino direttamente qualche cosa che deve accadere, o che si deve temere (come credono i superstiziosi), ma perché attraverso i sogni si manifestano proprio quei pensieri segreti che sono in noi e di cui non sappiamo nulla.

La psicoanalisi è un metodo complicato e richiede molto studio per poter essere adoperato in maniera efficace e corretta; del resto non serve soltanto per curare le persone malate o disturbate, ma più in generale per comprendere meglio gli altri e il loro modo di agire. Perciò l'importanza dell'opera di Freud non riguarda soltanto la medicina, dell'uomo.

Sigmund Freud ora è famoso e ricordato con riconoscenza, ma durante la sua vita subì molte persecuzioni, come accade spesso a coloro che annunciano al mondo idee nuove; inoltre, in quanto ebreo, era mal visto da certa gente stupida e cattiva, che giudica le persone non per il loro valore, ma per la loro diversa razza o religione. Quando le armate tedesche dei nazisti occuparono nel 1938 l'Austria, poco prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, Freud fu costretto a lasciare Vienna e a rifugiarsi a Londra, dove morì nel 1939.

Credevo non sarebbe mai morto, non lui. Gianni Pellicani sembrava a me e a molti altri compagni, fatto di una materia insensibile al tempo e alla corrosione, come nemmeno una statua, come, invece, riuscivano a essere alcuni dei «quadri» che il vecchio Pci sfornava. Forte, intelligente molto, capace di decidere, di convincere, pragmatico, rapido, capace di sbagliare e di ammetterlo: un uomo di governo, togliattiano - se queste categorie hanno ancora valore - nella abilità di trovare sorprendenti vie d’uscita ai problemi senza contraddire il suo telaio morale. Ma non solo, perché Gianni non era semplicemente il pezzo ottimamente funzionale di un ingranaggio messo a punto in quella grande officina della politica che è stato il Partito comunista. A fragoroso dispetto delle apparenze era persona dolce - lo so, qualcuno si sorprenderà ma è tutta la verità - dotato di un humour densissimo spesso solo bisbigliato, affascinato dalle manifestazioni di intelligenza e di fantasia che persino le istituzioni - e Gianni è vissuto di politica e istituzioni, lo sanno bene i suoi adorati famigliari - di tanto in tanto si lasciano sfuggire.

Era nato in Puglia, settantre anni fa, ma la sua vita è trascorsa a Venezia, tra un «centro storico» che Edoardo Salzano - allora assessore all’Urbanistica - s’ingegnava a restaurare davanti a una platea vasta quanto la terra e una Terraferma (Mestre) dove abitava volentieri e alla quale ha dedicato ben più di un pensiero. Se il cuore di Mestre non è oggi il sottoscala di una periferia ma il sorprendente soggiorno di una città «inventata» nell’arco di una generazione scarsa, lo si deve soprattutto a Gianni Pellicani, il «vicesindaco».

Non se la prenda Mario Rigo, il sindaco socialista di allora, ma Gianni Pellicani non è mai stato il suo vice senza che per questo tra i due amministratori ci sia mai stata tensione o nervosismo. Merito di tutti e due, una bella lezione di stile. Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta, confinati nell’angolo rosso (Venezia) di un Veneto bianco come un lenzuolo e Pellicani - con una formazione da commercialista mitigata da un ventaglio amplissimo di interessi culturali - si accingeva, in nome di una giunta di sinistra, a promuovere vitalità e sviluppo compatibile in uno degli angoli più pregiati e delicati d’Italia.

Ricordo solo un paio di appuntamenti: il risanamento del centro storico e la salvaguardia di Venezia e della sua laguna. Materie complicatissime, paludose, tutt’ora molto aperte. Pellicani, nella sala del Consiglio, trascinava il convoglio con una forza costante riuscendo intanto a bloccare la speculazione nel centro storico, acquisendo tra gli strumenti di governo quella cultura ambientalista avanzata che solo più avanti si sarebbe identificata in uno specifico soggetto politico. Messa così, pare si stia parlando di un sant’uomo. Gianni non lo era, era un lottatore duro, implacabile ma leale. Così in laguna come a Roma dove per cinque legislature si è impegnato, per il Pci e per i Ds poi, nei banchi della Camera. Ai tempi di Natta e di Occhetto ha anche fatto parte della segreteria nazionale del Pci con uno spirito di servizio e un rigore che hanno sempre riscosso stima e rispetto anche da chi non lo amava. Un pezzo forte e indimenticabile della nostra storia.

Per oltre un trentennio Gianni Pellicani è stato senza dubbio l’uomo politico più rappresentativo della sinistra veneziana. Forse proprio perché era un politico «sui generis», refrattario al mestiere del burocrate e del funzionario, anche se sempre perfettamente consapevole della necessità che per fare davvero politica è necessaria una forte e capillare organizzazione. La politica per lui era vocazione vera, fatta di competenza, passione e impegno civile. Competenza anzitutto sui temi economici e finanziari, e impegno di tutta una vita per far nascere una grande e unitaria forza democratica e riformista sul modello delle grandi socialdemocrazie europee. Troppo intelligente e disincantato, troppo lontano da ogni frase ad effetto e da ogni demagogia per baloccarsi con i «nuovismi», con le nuove Terze o Quarte vie, ma troppo buon politico insieme per non volere e cercare innovazioni realistiche e per non capire che le trasformazioni necessarie, quando riconosciute tali, devono essere fatte rapidamente e coerentemente, cioè con la massima decisione.

Così Gianni Pellicani affrontò i momenti di svolta del suo partito, del movimento operaio italiano, della sinistra. Fu quello, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, il momento forse più difficile e insieme felice per lui, nel quale si spese tutto, prima come coordinatore del governo ombra accanto a quella che era e rimase la sua «stella fissa», Giorgio Napolitano.

Poi per la nascita del Partito democratico della Sinistra, affinché in Italia si aprisse davvero una fase costituente, culturalmente e politicamente, per l’intera sinistra. Credo si debba anche dire che la sua delusione su come poi andarono le cose sia stata cocente.

Ma malgrado questo, mai in Gianni Pellicani venne meno quel legame di fedeltà al proprio partito, che era l’opposto dell’obbedienza o dell’inerzia, ma che significava per lui senso di responsabilità, di solidarietà umana e di grande, mai spenta, speranza.

E’ quasi superfluo a questo punto e sulle pagine di un giornale della città, ricordare il ruolo che vi ebbe Gianni Pellicani. Non vi è un provvedimento, non vi è un legge, non vi è un atto amministrativo riguardante Mestre e Venezia che abbiano avuto per noi un significato positivo, che non porti, direttamente o indirettamente, la sua firma. Non solo, ma gli stessi funzionari dirigenti del nostro Comune si sono formati alla sua scuola.

E quel bene, poco o tanto che sia, che riescono e riusciamo a esprimere nell’amministrazione di questa città a lui in grandissima parte ancora lo dobbiamo.

A ottant’anni dalla morte Piero Gobetti rimane, nell’Italia di oggi, figura inquieta. Certamente non conciliata, né conciliante. Nonostante l’approdo di pressoché tutte le culture politiche del nostro paese a una formale adesione al liberalismo, il «liberale» Gobetti non è stato unanimemente accolto, come forse superficialmente ci si sarebbe potuto aspettare, nel novero dei «padri della patria» ma continua, come ogni buon «eretico» che si rispetti, a ricevere - accanto a minoritarie ma convinte adesioni - scomuniche e anatemi.

Nonostante il suo liberalismo. O forse proprio a causa del suo (particolare) liberalismo.

Che tipo di «liberale» era dunque Gobetti? Forse per comprenderlo la via più breve, e sintetica, è la lettura della densa serie di scritti che pubblicò sulla sua rivista di battaglia, Rivoluzione liberale nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, nel momento drammatico e intensissimo in cui, potremmo dire, Gobetti diventò Gobetti, e nel naufragio del vecchio mondo definì il senso della propria azione politica e culturale: «Abbiamo sempre saputo - scriveva, ad esempio, in un articolo del 23 novembre, intitolato “La Tirannide” - di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione». «La nostra - aggiungeva nello stesso numero, in una nota dedicata a “Questioni di tattica” - è un’antitesi di stile. Noi non combattiamo specificamente il ministero Mussolini, ma l’altra Italia». E precisava nella pagina accanto, sotto il titolo definitivo, “Elogio della ghigliottina”: «Il fascismo vuol guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale dei cittadini, tutti abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel professare delle convinzioni si limitasse tutta la praxis sociale. Si può valorizzare il regime, si può cercare di ottenerne tutti i frutti: [Noi] chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro». Considerando il fascismo «autobiografia della nazione» - la prova provata e il frutto delle nostre «tare storiche», della fragilità del nostro Risorgimento e della nostra coscienza politica -, affidava la possibilità di emendarsene a una rottura netta nella continuità delle classi dirigenti - a una «rivoluzione», appunto - e offriva se stesso e il proprio gruppo in consapevole «sacrificio».

Questo era dunque il liberalismo di Gobetti. Un liberalismo non accademico, lontano anni luce dall’estenuata cultura notabilare dei liberali del suo tempo, forgiato nel fuoco di uno scontro politico mortale con la dittatura incipiente e proprio per questo attento più ai valori dell’autonomia, alle pratiche della liberazione, alla dimensione antropologica ed etica che non a quella giuridica e istituzionale. L’unico tipo di liberalismo capace di far fronte al vitalismo selvaggio del fascismo sorgente. Certo esso si nutriva più del culto einaudiano per il libero e aperto confronto (diciamolo pure: per lo scontro) tra le classi sociali - dell’idea del valore salvifico del «conflitto» per una sana cultura civile - , che non della problematica anglosassone della separazione dei poteri e della ingegneria costituzionale. E declinava l’idea di libertà in una chiave apertamente attivistica, come capacità («dovere») di ognuna delle parti in campo di perseguire con chiarezza e con nettezza il proprio progetto, di «mantenere le posizioni» con intransigenza (come «libertà positiva», libertà «di»), più che come passiva tolleranza e indifferenza (come «libertà negativa», libertà «da»). Con una visione che può anche definirsi «elitistica»: affidata a minoranze virtuose. Venata persino di una non taciuta vocazione «pedagogica». E tuttavia, per un paese cui era mancata, storicamente la propria «rivoluzione», che non aveva mai vissuto una vera rottura col passato, giudicata necessaria per conquistare la propria tardiva modernità.

Si spiega così - con questo nucleo sostanzialmente etico del liberalismo gobettiano - il sospetto, quando non l’aperta antipatia nei suoi confronti da parte dei tardivi neo-liberali di fine secolo. Domenico Settembrini e Lucio Colletti, alla domanda sulla sua attualità, in occasione della riedizione de La rivoluzione liberale nel 1995, avevano risposto rispettivamente: «Nessuna» e «Quel libro serve solo a D’Alema», mentre Cofrancesco la commentava sul Corriere della Sera sotto il titolo “La rivoluzione inattuale”, e la rivista Liberal apriva il fuoco con Giuseppe Bedeschi. Il suo veniva incluso tra i «linguaggi non secolarizzati», tipico più di un riformatore religioso che di un politico pragmatico; la sua visione giudicata obsoleta perché «il conflitto non verteva su consistenti interessi mondani, ma su impegnative concezioni del mondo». Ernesto Galli della Loggia, infine, ne contesterà l’asimmetria nel giudizio su fascismo e comunismo, e soprattutto l’eticizzazione del liberalismo gobettiano, come forma paradossalmente interna all’«ideologia italiana».

Né quest’ostilità stupisce. Il liberalismo etico di Gobetti era infatti incompatibile con ogni «cerchiobottismo», con ogni vocazione bi-partisan, con ogni pratica di accomodamento e di neutralizzazione di cui - aldilà della retorica «polarizzante» del maggioritario - era avida la nascente seconda repubblica.

Esso rompeva con ogni cultura del compiacimento e dell’autocompiacimento nazionale. Praticava una sobria ed esigente cultura del disagio: un’impietosa denuncia dei propri vizi e delle proprie insufficienze. Era «anti-italiana» nella sua sostanza programmatica. Non poteva che entrare in conflitto con l’Italia avida di unanimismo, bisognosa di riconciliazione, che apriva le porte a ogni proprio passato tenera con i propri tanti vizi, aspra con le poche virtù: l’Italia desiderosa di continuità e assoluzione delle proprie classi dirigenti entrata finalmente nell’epoca del liberalismo edonistico e del cittadino-consumatore.

L'immagine è un disegno di Felice Casorati

Chi è Piero Gobetti

Io considero l’avvento di Berlusconi una sciagura nazionale. Proprio quando l’Italia cessava di essere il terreno di scontro, combattuto senza esclusione di colpi fra comunisti e anticomunisti, col sostegno anche finanziario delle due superpotenze, e poteva avviarsi sul cammino della civiltà, si è invece affermata Forza Italia.

Siamo ancora un paese anormale. Tre reti televisive nazionali ufficiali, più due ufficiose, più due giornali, più due case editrici del peso della Mondadori e dell’Einaudi e vasti organismi pubblicitari, danno a chi li controlla, cioè a Berlusconi, un potere enorme di condizionamento dell’opinione pubblica. Lo stesso Berlusconi riconobbe questo fatto e nominò una commissione di tre saggi per trovare un rimedio, ossia il blind trust. Ma un rimedio di quel genere che consiste nell’affidare il proprio patrimonio a fiduciari che lo gestiscono autonomamente e senza informare il titolare, che può essere ipotizzato nel caso di un patrimonio composto da titoli o da beni interscambiabili, non è neppure concepibile nel caso di reti televisive la cui attività è tutt’altro che "cieca". L’Economist, che prima delle elezioni del maggio 2001 dedicò un lungo articolo a Berlusconi, scrisse che «in qualunque paese normale gli elettori - e forse la legge - non avrebbero concesso a Berlusconi l’opportunità di presentarsi alle elezioni senza prima obbligarlo a spogliarsi di molti suoi beni e delle sue vaste attività imprenditoriali». Con l’ascesa al potere di Berlusconi e dei suoi soci la situazione diventa ancora più grave, giacché l’uomo controlla anche le reti televisive pubbliche e in tal modo diventa il monopolista dell’intero sistema televisivo.

Uno storico come Denis Mack Smith, nell’ultimo capitolo della sua Storia d’Italia dal 1961 al 1997, afferma che Berlusconi dopo il 1994 aveva «urgente bisogno di riconquistare il potere politico per conservare il monopolio della televisione commerciale» e per «controllare la magistratura». Fu brutalmente esplicito col giornalista Curzio Maltese il principale collaboratore dell’azienda di Berlusconi, Fedele Confalonieri, quando gli disse: «Io ero contrario che facesse politica senza vendere le sue aziende, come si fa in democrazia. Ma se non l’avesse fatto oggi saremmo sotto un ponte con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento per il lodo Mondadori». L’intervista è stata pubblicata da la Repubblica il 25 giugno del 2000 e non è stata mai smentita.

Il giudizio di Mack Smith e l’affermazione di Confalonieri spiegano perché divento nervoso quando mi dicono che la Casa delle libertà rappresenta la destra o il centro-destra: il capo è un ricco personaggio che pensa principalmente alla sua azienda e ai suoi problemi giudiziari. Che diavolo c’entra la destra?

Il riferimento di Confalonieri alla mafia è agghiacciante. Basta leggere il libro L’odore dei soldi di Elio Veltri e Marco Travaglio per valutare, ad esempio, il significato dei rapporti tenuti da Berlusconi con un personaggio che si rivelerà un mafioso acclarato come il celebre "fattore" di Arcore Vittorio Mangano.

Il brano è ripreso da la Repubblica dell'8 dicembre 2005

Sul finire degli Anni Quaranta era già ad Harvard per studiare con Joseph Schumpeter, uno dei pilastri della storia del pensiero economico. In America viveva nello stesso cottage di Gaetano Salvemini, che lì insegnava storia: dal vecchio maestro – raccontò – ho imparato che la chiarezza nello scrivere e nel parlare è lo specchio dell’integrità morale. Conobbe Franco Modigliani, futuro premio Nobel emigrato negli Usa per le leggi razziali: con lui strinse un sodalizio che, come quello con Giorgio Fuà, sarebbe continuato per sempre. Nel 1960, appena quarantenne, frequentò Piero Sraffa, economista amico di Gramsci e Keynes: «Ma quando esce questo libro? Sono anni e anni che lo aspettiamo», gli chiese con un po’ di faccia tosta ma con grande pertinenza. Singolarmente quelle 99 pagine che cambiarono il corso della teoria economica, Produzione di merci a mezzo di merci, di lì a poco – dopo una meditazione trentennale – furono stampate.

Incardinato nella storia del pensiero economico del Novecento Paolo Sylos Labini ne è stato un grande protagonista. Il più cosmopolita degli italiani, in grado di guardare con eguale interesse ed impegno alle meraviglie dell’innovazione d’Oltreoceano e all’orrore della miseria del Terzo mondo. Ed è proprio questa la cifra del suo pensiero e della sua instancabile ricerca: progresso tecnico e sviluppo economico.

Da giovane voleva fare l’ingegnere perché era attratto dalle tecnologie e dalle invenzioni: erano tempi difficili e dovette rinunciare; ripiegò su giurisprudenza, ma la sua tesi di laurea fu già una scelta di campo ben precisa: si intitolava Gli effetti economici delle invenzioni sull’organizzazione industriale. Nel 1956 la sua "opera prima", che John Kenneth Galbraith volle far tradurre negli Usa: Oligopolio e progresso tecnico.

Questa sua passione per l’innovazione tecnologica lo fece considerare un "eretico". «Forse tra cinquant’anni quando sarò appollaiato su una nuvoletta, mi daranno ragione, per ora vengo ritenuto un anomalo, un eterodosso», osservava con divertito rammarico Sylos Labini. Per molti, invece, avrebbe meritato il Nobel.

Paradossalmente, infatti, nell’era segnata dal protagonismo della scienza, dall’informatica alla biotecnologia, la teoria che oggi domina in economia, cioè il "paradigma neoclassico" – da Paul Samuelson, che ha inondato le università di mezzo mondo con tre milioni di copie del suo manuale, a Solow a Robertson – trascura il progresso tecnico. Non considera che le innovazioni entrano inevitabilmente e progressivamente nella vita delle imprese e riducono i costi. Non è un aspetto marginale perché, se non si punta sulla ricerca e sulle nuove tecnologie, l’unica strada per ridurre i costi resta quella di tagliare i salari o licenziare.

Invece per Sylos Labini le innovazioni contano. Eccome! Anzi il «"cuore" dell’economia», «l’Amleto», «il principale personaggio del dramma» è la produttività del lavoro che delle innovazioni è il risultato. Se si guardano le cose da questo punto di vista la prospettiva muta radicalmente, l’economia cessa di essere un esercizio astratto e si manifesta in un concreto umanesimo. Così la produttività diventa la radice della politica dei redditi che, sul finire degli Anni Sessanta, l’economista scomparso illustrò nel celebre Salari, inflazione, produttività, scritto come sempre per Laterza. La tesi è che i salari devono aumentare proporzionalmente alla produttività, con l’effetto di far crescere la domanda e di contenere il costo del lavoro. Il che, notava Sylos Labini, conviene a imprenditori ed operai.

Lo avevano ben capito gli economisti classici, che vissero tra la fine del Settecento e l’Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale. Lo aveva capito soprattutto Adam Smith («Lo considero un mio amico», indugiava Sylos Labini) ma ne era consapevole anche David Ricardo. Sulla base delle analisi dei classici, in una sorta di nuova sintesi, Sylos Labini aveva costruito la propria equazione della produttività, basata su divisione del lavoro e nuove macchine. Con i piedi nel passato e lo sguardo rivolto al futuro.

Per andare dove? L’obiettivo è lo stesso per cui Smith aveva scritto la Ricchezza delle nazioni: sradicare la miseria e accrescere lo sviluppo civile. Qui il messaggio si fa nitido ai più ed emerge il punto di contatto con gli illuministi milanesi e la loro percezione dell’economia come "incivilimento", e poi con Carlo Cattaneo. Un itinerario che incrocia l’insegnamento di Ernesto Rossi e sul quale Paolo Sylos Labini ha sviluppato la sua testimonianza etica e scientifica.

Innegabile è la fortuna di alcune formule gramsciane nel linguaggio politico contemporaneo. Da "egemonia" a "nazional-popolare", da "riforma morale" a "guerra di posizione", il lessico di Antonio Gramsci rimbalza talvolta deturpato in tribuni insospettabili, frequentatori di Arcore o paladini del mito padano. Eppure questo grande classico - l´autore che Benedetto Croce acclamò come "patrimonio di tutti, anche di chi è di altro o opposto partito", una bibliografia internazionale che conta oltre diecimila titoli in una vasta varietà di lingue da Afrikaans a Turkish - in Italia appare oggi oscurato dal crollo del comunismo, come se la sua elaborazione intellettuale possa estinguersi insieme a quell´esperienza storica.

Per comprenderne tutta la vitalità di "classico" soccorre una preziosa monografia scritta da Antonio A. Santucci, lo studioso recentemente scomparso che insieme al suo maestro Valentino Gerratana ha più contribuito all´edizione critica dell´opera di Gramsci. «Il maggiore esperto di studi gramsciani», lo definisce Eric J. Hobsbawm nella Premessa al volume postumo che Sellerio pubblica col titolo (a cura di Lelio La Porta, con una nota introduttiva di Joseph Buttigieg, pagg. 192, euro 12,00: ne parleranno oggi alle 18 a Roma, nella Libreria Mondadori di via Appia Nuova 51, Alberto Burgio e Buttigieg, che insegna letteratura alla Notre Dame University dell´Indiana e ha curato l´edizione americana dei Quaderni).

Santucci scrisse questo ritratto politico e intellettuale del grande sardo per la collana Libri di Base diretta da Tullio De Mauro: da qui lo stile nitido e sobrio, non sprovvisto di ironia, che rende la lettura adatta anche a un pubblico di liceali. C´è il Gramsci giornalista (magistrale nello stile sapido) e il teorico della cultura, il promotore del primo gruppo dirigente del Pcd´I e l´analista economico, lo storico e il militante dell´Internazionale. «La via migliore per accostarsi all´eredità intellettuale di Gramsci», la giudica tuttora De Mauro. L´idea di fondo - che attraversa queste pagine, arricchite da un più recente intervento su Gramsci dopo il 1989 - è che dialogare con l´autore dei Quaderni sia ancora possibile. Santucci si propone come brillante e scrupoloso interprete, senza mai "sollecitare i testi", ossia far loro dire più di quel che realmente dicano. Inclinazione, questa, che Gramsci giudicava tra le più "deprecabili" e di cui ancora oggi continua a esser vittima

Era sera, rientrava dal lavoro come tutte le sere e si sedette nel primo posto che trovò. Non era uno di quelli «riservati» ai neri, le ultime quattro file in fondo al bus. Ma non c'era tanta gente. Di fianco a lei, un uomo, anche lui di colore, guardava fuori dal finestrino. Altre due donne, nere, stavano sedute in una fila vicina. Salirono dei bianchi e l'autista ordinò al «quartetto» di alzarsi per fare posto (il mondo, allora a Montgomery, Alabama, andava così: il bianco pigliava tutto). Rosa, chiusa nel suo cappotto e quasi nascosta sotto il suo cappellino, lentamente ruotò il bacino e piegò le gambe per lasciar passare il suo vicino ma restò come inchiodata al sedile. Subito dopo, le altre due «intruse» oltre il corridoio si alzarono per lasciar sedere l'unico bianco che era rimasto in piedi. Lei, invece, no.

Fu così che Rosa Louise McCauley maritata Parks, 42 anni, figlia di Leona e James, due contadini di Tuskegee, Alabama (insegnante lei, falegname lui), moglie innamorata di Raymond, barbiere, e lavoratrice instancabile (faceva la rammendatrice ai grandi magazzini di Montgomery e per questo portava un paio di severi occhiali con la montatura di metallo) divenne un simbolo della lotta per i diritti civili.

Era il 1˚dicembre 1955. Rosa aspettò paziente l'arrivo degli agenti che la portarono in prigione per violazione delle leggi segregazioniste (reato che comportava dieci dollari di multa e quattro di spese processuali).

Non era la prima volta che una persona di colore finiva in carcere per quel motivo. E anche in quel caso tutto si svolse, almeno in quelle prime ore, in modo pacifico, ordinato. Poi la Storia, inopinatamente, decise di dare uno strappo. E per farlo «sequestrò» una signora timida e minuta e l'autobus su cui viaggiava (oggi parcheggiato allo Henry Ford Museum) e li trasformò in bandiere del movimento per i diritti civili.

Nel giro di pochi giorni, attorno al caso di Rosa si mobilitò l'intera comunità afroamericana di Montgomery, arringata, fra gli altri, anche da un giovane e semisconosciuto reverendo, Martin Luther King Jr. Dai pulpiti delle chiese (quelle dei neri), sulle prime pagine dei giornali (il Montgomery Adviser,

anch'esso «black»), su migliaia di volantini, fu stampato un annuncio che invitava a non prendere più gli autobus. Per 381 giorni, l'intera comunità si arrangiò altrimenti, con i pochi taxisti neri della città che mettevano a disposizione le proprie macchine per dieci cents (il prezzo di un biglietto di autobus), e la maggior parte dei pendolari (40 mila persone, pari a circa il 70 per cento degli utenti di mezzi pubblici) che andavano al lavoro a piedi, chi anche per decine di chilometri (ma con un danno non indifferente per la locale compagnia di trasporti). Furono giorni durissimi, con arresti, pestaggi e bombe nelle chiese. Il caso divenne nazionale e il 13 novembre 1956 la Corte Suprema americana dichiarò che la segregazione sugli autobus era illegale. Una vittoria storica, un primo, fondamentale, passo nella lotta per il riconoscimento dei diritti civili ai neri. Ma Rosa perse il lavoro e suo marito pure. Alla fine, dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte, fu costretta a lasciare Montgomery per Detroit, dove è stata a lungo assistente di un deputato democratico di colore e dove è morta lunedì notte a 92 anni.

All'epoca dei fatti ne aveva 50 in meno e, cosa rarissima per il suo tempo, aveva un diploma di scuola superiore che il marito, attivista politico, l'aveva convinta a prendersi. Da qualche tempo, pure lei lavorava, a titolo volontario, come segretaria di E.D. Nixon, presidente della sezione locale dell'NAACP, una delle più antiche e importanti organizzazioni dei diritti civili americani.

L'autista che le aveva ordinato di alzarsi non la conosceva. Ma lei sì. Si chiamava James F. Blake, e un'altra volta, dodici anni prima, l'aveva già costretta a scendere dal «suo» autobus perché lei si era rifiutata, dopo aver pagato il biglietto, di scendere e rientrare dalla porta posteriore, come imponeva la versione locale delle famigerate Jim Crow laws (le leggi sulla segregazione razziale che prendevano il nome da un personaggio di una canzonetta sudista su un contadino nero, «naturalmente» straccione e ignorante).

Quella volta, Rosa decise di restare dov'era. «Dissero che ero stanca — raccontò nella sua biografia —. Ma io non ero stanca, non in quel senso. Ero solo stanca di arrendermi». Come ha ricordato ieri il reverendo Jackson, «Rosa restò seduta perché tutti noi potessimo levarci in piedi».

«Pensai al nonno e al suo carretto e non mi mossi»

L'autista voleva che ci alzassimo, tutti e quattro.

All'inizio non ci muovemmo, ma lui disse: «Liberate questi posti». E gli altri tre si spostarono. Io, no.

Ripensai a quando me ne stavo alzata tutta la notte senza riuscire a prendere sonno e mio nonno teneva la pistola vicino al camino o a quando lui andava in giro con il suo carretto tirato da un cavallo e nascondeva una pistola nel retro del carro. Arrivò un poliziotto, chiamato dall'autista, e mi arrestò. Ricordo che gli chiesi: «Ma perché fate i prepotenti con noi?». E l'agente rispose: «Non lo so, ma la legge è legge, e tu sei in arresto».

Ementremi arrestavano pensai che quella era davvero l'ultima volta che sarei stata umiliata in quel modo. La gente racconta che io non mollai il mio posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca, non fisicamente almeno.

E comunque non più di quanto lo fossi sempre alla fine di una giornata di lavoro. Non ero vecchia, anche se un sacco di gente ha un'immagine di me come se io fossi già stata vecchia allora. Avevo quarantadue anni.

No, l'unica cosa di cui ero stanca era di arrendermi».

(il brano è tratto dall'autobiografia di Rosa Parks «My Story», 1992)

Fu politico e artista: eppure hanno fatto di lui il simbolo della doppiezza

«I l fine giustifica i mezzi». Non sono le idee a muovere la storia, o la muovono solo a certe condizioni: «I profeti armati vinsero, quelli disarmati rovinarono», le idee vincono se hanno o si procurano le armi per vincere. Nella politica si conta se si vince; e si vince usando le arti della volpe (astuzia, simulazione, dissimulazione) e le arti del leone (la forza, l'aperta violenza). I nemici vanno spenti (se si può) o vezzeggiati (se non si può o fin quando non si può eliminarli). Da tutto ciò una massima famosa: «Con l'arte e con l'inganno / si vive mezzo l'anno. / Con l'inganno e con l'arte / si vive l'altra parte».

Questa è solo una piccola antologia dei luoghi comuni correnti su Machiavelli e le sue dottrine. Nessuno gli nega acutezza e profondità di pensiero, ma gli si imputa una sostanziale indifferenza alle ragioni della morale rispetto alla politica, e non parliamo di spirito religioso, poiché ne sono noti il mordace anticlericalismo e la visione della religione come instrumentum regni, strumento della politica anche per le chiese di tutte le religioni.

Perfino nel linguaggio corrente, per dire di un espediente astuto, di un raggiro sottile, si dice che è «un machiavello». E «machiavellismo, machiavellico, machiavelleria» sono termini diffusissimi, e non positivi.

È utile, perciò, ribadire che l'immagine «machiavellica» di Machiavelli riflette poco una personalità e una riflessione fra le più geniali del pensiero europeo. Lo conferma la rilettura delle sue Opere, ora esemplarmente ripubblicate (in tre volumi, edizioni Einaudi-Gallimard, con un ricco e illuminante corredo di introduzioni, note e indici) da Corrado Vivanti.

Naturalmente, se la fama di Machiavelli è quella che è, non può essere tutto e solo effetto di incomprensione o di volontaria adulterazione e diffamazione.

Se ne può, anzi, scorgere la radice nel senso profondo della sua maggiore conquista intellettuale.

Una conquista ardua e aspra, che rivendica alla politica un'autonomia sostanziale e incoercibile rispetto agli altri settori della vita umana e sociale, e in specie rispetto alla morale e alla religione: autonomia di valori e di criteri, di strumenti e di procedure. Era facile, su questa base, vedere in Machiavelli solo esaltazione della ragion di Stato e insensibilità ai valori morali e religiosi. Un vero scialo accusatorio tanto per spiriti etici e religiosi quanto per farisei, gran sacerdoti, zelanti, fanatici e fondamentalisti di tutte le morali e di tutte le religioni.

Non senza qualche ragione, però. Machiavelli dà, infatti, la dovuta evidenza all'autonomia della politica, ma non anche a ciò che lega la politica ad altre esigenze umane e sociali, e che non ne fa un orto chiuso in se stesso, né solo un esercizio da volpi e da leoni. Tuttavia, quella «scoperta della politica» resta una grande liberazione della mente e dello spirito e fa capire più a fondo l'agire umano in società, di cui la politica è una componente-principe. Se lo si dimentica, i risultati non sono buoni. Si ha, tra l'altro, quella ricorrente confusione tra religione e politica, con l'invasione di campo della prima nella seconda, dei cui danni si hanno ieri e oggi tante riprove. A patto, è ovvio, di non farsi poi una religione della politica, con un'invasione di campo di segno opposto, ma di uguale, se non peggiore, danno.

Del resto che di Machiavelli non si potesse fare a meno lo dimostrò la stessa condanna del suo pensiero nell'Europa delle lotte di religione. Dovendo ormai accettarli, si fingeva di prendere da altri (ad esempio, da Tacito) i principi e i modelli di una concezione moderna della politica. Su Machiavelli, invece, riprovazione fierissima. Perfino Federico II di Prussia, un campione della più fredda ragion di Stato, si sentì in dovere di scrivere un Antimachiavel.

E pensare che nel serrato discorso machiavelliano si sono potute ben cogliere note di ingenuità, utopia, perfino provincialismo, oltre che riserve morali, più o meno trasparenti nello smaliziato edificio logico del «puro politico» che vi si costruisce.

Ma Machiavelli ha anche voluto dire Italia, la grande Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento. Ne aveva profondamente assorbito la cultura, di cui fu egli stesso un'alta espressione. Dal concludersi della storia dei Comuni e delle Signorie e dal triste destino degli Stati italiani nel momento della verità, ossia nelle guerre europee di allora, la sua nativa intelligenza storica e politica trasse spinte e suggestioni di pensiero decisive, così come, del resto, da tutta l'esperienza europea del tempo. Quell'Italia rinascimentale segnò, peraltro, anche l'origine o il consolidamento dei luoghi comuni più negativi sugli italiani e il loro Paese. Era, quindi, quasi fatale identificare l'Italia come patria di Machiavelli e gli italiani come suoi modelli e allievi.

Una pessima sorte per lui, implacabile analista dei vizi italiani, che aveva auspicato un forte riscatto «nazionale», indicando «le possibilità — nota Vivanti — di un rinnovamento e la forza della riflessione politica ai fini di una profonda rigenerazione morale». E ciò in pagine avvincenti, tali da far credere che rimirarsi un po' di più nello specchio di Machiavelli farebbe agli italiani un gran bene.

Pagine memorabili anche per le virtù di scrittore che fanno di lui uno dei vertici della prosa italiana: con poco di tradizione classicheggiante, una prosa asciutta, nervosa, dal periodare breve ed essenziale, moderna anche nelle immagini e metafore, nell'analisi psicologica problematica e inquietante con cui legge l'uomo e le sue parti nelle tragedie e commedie del mondo (e per la vita quotidiana, oltre che per la grande storia: la sua Mandragola èla cosa migliore del teatro italiano prima di Goldoni).

Insomma, un letterato-artista, che non cede di molto al ben più famoso politico.

I libri: le opere complete di Niccolò Machiavelli, edite in Italia da Einaudi e in Francia da Gallimard a cura di Corrado Vivanti, sono così suddivise: «Opere I: I primi scritti politici» (pp. CXLIV-1243, e 61,97), «Opere II: Lettere, legazioni, commissarie» (pp. XXX-2006, e 67,14), «Opere III» (pp. XLVI-1280, e 85)

L’immagine: Niccolò Machiavelli in un dipinto di Santi di Tito (Archivio iconografico Corbis)

Per oltre mezzo secolo, da quella domenica di fine agosto del 1950 in cui Cesare Pavese si tolse la vita al terzo piano dell´Albergo Roma di Torino, il foglietto dalla grafia di colore violetto, annotato a matita sul retro di una comune scheda di prestito bibliotecario, non è mai stato divulgato. E in tutto questo tempo è stato custodito gelosamente da Maria, la sorella dello scrittore scomparsa qualche anno fa, e in seguito da Franco Vaccaneo, direttore fin dall´inizio del Centro studi pavesiano di Santo Stefano Belbo.

Maria glielo aveva regalato nel 1980, in segno di stima, di amicizia e d´incoraggiamento nei confronti di quel ragazzo, fresco di laurea, che stava cercando di mettere insieme carte e manoscritti, affinché Santo Stefano, «il più bello di tutti i paesi», onorasse dopo troppo oblio la memoria del suo concittadino più illustre.

Ora, a pochi giorni dall´anniversario della morte dell´autore de La luna e i falò, con il consenso degli eredi, le nipoti Cesarina e Maria Luisa, le figlie di Maria Pavese, lo studioso langarolo ha deciso di far conoscere un documento che può essere considerato, sia pure nella sua brevità, «un vero testamento umano, spirituale e letterario», risalente con ogni probabilità ai giorni precedenti il suicidio. Venne ritrovato la sera del 27 agosto di cinquantacinque anni fa nella camera dell´hotel torinese di piazza Carlo Felice, in cui Pavese si suicidò con i sonniferi. Fu rinvenuto sul comodino a fianco del letto, fra le pagine dei Dialoghi con Leucò su cui Pavese scrisse le sue ormai celeberrime parole d´addio: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Il cartellino di prestito è della Biblioteca Nazionale di Torino, porta la data del 16 gennaio 1950 e il numero progressivo 2920. Sul retro Pavese vi appuntò tre frasi. Nella prima, tratta proprio dai Dialoghi con Leucò, esattamente da quello intitolato Le streghe, si legge: «L´uomo mortale, Leucò, non ha che questo d´immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». La seconda è una citazione dal diario, cioè da Il mestiere di vivere, e venne scritta qualche giorno prima della sua fine drammatica: «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti». La terza frase, che secondo Vaccaneo potrebbe essere stata pensata e messa sulla carta da Pavese nelle ore estreme della sua esistenza, è lapidaria: «Ho cercato me stesso».

Ma perché soltanto adesso riemerge il biglietto-testamento? Spiega Vaccaneo: «A pochi giorni dall´anniversario di Pavese ho ripensato a Maria, la sorella che aveva accudito Cesare fino all´ultimo come una mamma, e poi a quel foglietto che mi aveva donato tanto tempo fa, quando la nostra conoscenza si era fatta di grande confidenza. Il rapporto con Maria si era consolidato dopo che, nel giugno del 1980, avevamo organizzato a Bucarest, in Romania, una mostra di carte originali pavesiane, che riscosse un notevole successo. Quella fu anche la prima e l´unica volta in cui i manoscritti di Pavese, che successivamente furono consegnati all´Università di Torino, uscirono dall´Italia». Di quel passo d´addio, delle tre frasi emblematiche, continua, «non ne avevo mai parlato, pur sapendo quanto fosse importante, perché lo ritenevo strettamente privato, sigillo dell´amicizia che era nata fra un giovane come me e un´anziana signora, una donna assolutamente fuori dal comune, di grande generosità, come era Maria. È stato il suo ricordo, vivissimo, che mi ha indotto a staccare il foglietto dalla cornice in cui lo conservo da allora».

Appartenente con più che verosimile certezza al periodo conclusivo della tormentata vita dello scrittore nato a Santo Stefano nel 1908, il documento finora inedito, dice Vaccaneo, «potrebbe essere stato vergato il giorno stesso della morte, sebbene, a differenza delle parole estreme appuntate con una stilografica sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, questo sia invece stato scritto con una matita. Ma, a ogni modo, le tre frasi riassumono in pieno il bilancio della sua vita. Sono una sorta di testamento. È un messaggio più che profetico per un uomo che sta per uccidersi. Il fatto, inoltre, che Pavese lo avesse messo nella copia dei Dialoghi, il libro che aveva portato con sé nella stanza dell´Albergo Roma, è molto significativo. E lo è in ogni caso. Può essere, insomma, che il cartellino della Biblioteca Nazionale sia stato infilato da Pavese nel libro qualche tempo prima di decidere di togliersi la vita, però non credo per sbaglio. Oppure la scelta di riunire quelle citazioni, non casuali, dai Dialoghi e dal Mestiere di vivere, oltre a quel "ho cercato me stesso", forse risale alle ore precedenti la morte: un´ipotesi, questa, che non può essere esclusa, nonostante l´uso di una semplice matita dalla punta viola anziché della penna stilografica. In ogni caso, il valore resta immutato».

Potranno essere gli esperti, aggiunge Vaccaneo, «ad esaminare con maggiore attenzione il biglietto di Pavese. Adesso è giusto che venga conosciuto da tutti coloro che hanno letto e amato i suoi romanzi, i suoi racconti, i suoi saggi e le sue poesie».

Il foglietto ritrovato, per il direttore del Centro studi, non ha soltanto un valore affettivo, ma ha anche rappresentato una specie di viatico della speranza, un´esortazione a «non mollare», nei giorni neri del novembre del 1994, durante la terribile alluvione che sconvolse il Piemonte e le Langhe. «L´allora sede del nostro centro - conclude Vaccaneo - venne investita dalla furia del Belbo, il torrente cantato da Pavese. E nel fango finirono libri, carte, quadri, fino alla copia dei Dialoghi con Leucò ritrovata nella camera dell´Albergo Roma. In quelle sere, tornando a casa, ripensando a quel biglietto regalatomi da Maria, e a quelle parole di un viola sbiadito dal tempo, recuperavo la forza per non arrendermi e per tentare di ricostruire quanto l´alluvione aveva danneggiato o portato via. Anche per questa ragione, oggi ho sentito il bisogno di spezzare il silenzio che ha circondato quel breve testamento di Cesare Pavese».

John Huston, il regista che tentò di tradurre per il cinema la sceneggiatura dei Misfits e fare finalmente di Marilyn Monroe una grande attrice drammatica, ricordava nelle sue memorie: «Una sera, alla fine delle riprese nel mezzo di un deserto, vidi un uomo seduto da solo ai bordi della strada, al quale nessuno aveva dato un passaggio. Marilyn, Clark (Gable), Montgomery (Clift) se ne erano già andati via insieme e tutti si erano dimenticati di lui. Rallentai la macchina e vidi chi era quell´uomo. Era Arthur Miller, l´autore, il marito di Marilyn. Nessuno si era ricordato di caricarlo, neppure Marilyn». Quell´uomo solo, dimenticato nel mezzo di una nazione che per lui era ormai diventata un deserto, è morto ieri a quasi 90 anni, di cancro, portando via un tempo, un´epoca, un´America che ormai lo aveva lasciato a piedi.

Miller era un gigante. Realmente. Alto due metri, con mani enormi come pale e l´incedere sempre lievemente curvo delle persone molto alte circondate da uomini e donne più piccoli, come lo ricordano all´Actors´ Studio di Manhattan dove spesso parlava agli aspiranti attori, si muoveva con quella timidezza gentile del più grosso che i newyorkesi, come lui era, spesso nascondono dietro la scontrosità e la ruvidezza.

Era nato da una famiglia di immigrati ebrei in una guerra, la Grande Guerra, ed era cresciuto nella guerra sociale della Depressione, quando l´esplosione di un´altra bolla di Borsa aveva spazzato via la bottega di abbigliamento femminile del padre, Isidore Miller.

Apparentemente, nulla nella sua infanzia e nella sua adolescenza aveva segnalato in quello spilungone costretto a fare sport al liceo dalla statura un futuro da intellettuale engaged, impegnato, come si sarebbe detto molti anni dopo. «Le mie letture erano i giornali di Hearst», ricordava, quella yellow press, la stampa scandalistica e chiassosa da tabloid che lo accompagnava ogni mattina nei trasferimenti in treno dalla casetta di Brooklyn dove la famiglia aveva dovuto rinchiudersi dopo il fallimento, verso il grossista di ricambi per auto, dove lavorava. Ma tra i fogli della spazzatura giornalistica di Hearst, si insinuò un libro, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Gli venne voglia di scrivere.

Andò a studiare lontano da New York, nell´Università del Michigan. Giornalismo, all´inizio, la solita scorciatoia degli aspiranti scrittori. Merito di Dostevskij o del talento naturale insospettato, Arthur scoprì di saper scrivere bene, talmente bene da vincere il primo premio in una competizione nazionale di scrittura fra gli studenti, vinto anche da un certo Tennessee Williams, il futuro autore di Un tram chiamato desiderio e La gatta sul tetto che scotta. Come si dice per tagliar corto, aveva trovato la sua vocazione, il teatro, ma la sua vocazione ancora non aveva trovato lui. La prima opera rappresentata, L´uomo che aveva tutte le fortune, aprì a Broadway una sera di primavera del 1944. E chiuse la sera dopo.

Avrebbe dovuto aspettare cinque anni, e altri due mezzi fiaschi teatrali consolati dai complimenti della critica, per scrivere e mettere in scena, il lavoro che avrebbe per sempre, nel sempre della letteratura e della cultura, inciso il suo nome fra i giganti, non più soltanto fisici. Il 1949 fu l´anno di Willy Loman, il protagonista di quella Morte di un commesso viaggiatore che gli studenti di cose americane e gli esploratori di questa nazione dovrebbero leggere come guida indispensabile all´America.

La storia del piazzista di successo, che da un giorno all´altro si trova senza lavoro dunque senza più la propria ragione di essere, e finisce nel suicidio per permettere alla moglie di incassare la polizza per la vita e continuare a vivere il sogno americano, resta la parabola essenziale di una nazione che è, prima di essere ogni altra cosa, una nazione di instancabili venditori di cose, di immagini e di sogni, riassunto nella frase del presidente Calvin Coolidge, «the business of America is business», gli affari dell´America sono gli affari.

Il successo del Commesso viaggiatore, maturato nel clima di una cultura post depressione impregnata di «realismo», «esistenzialismo», «rooseveltismo» che stava producendo i film di Elia Kazan, il teatro di Williams, di O´Neill e la generazione di attori «ribelli senza una causa» alla Brando e James Dean, spinse «l´uomo più fortunato del mondo» inesorabilmente in quel crogiolo di politica, di fama, di antipatie e di rancori ideologici che avrebbe preso il nome di Mccarthysmo. Miller fu accusato di essere un «compagno di viaggio», un utile idiota, un comunista e come tale fu trascinato davanti al patetico e feroce Torquemada dell´inquisizione anti-rossi. Dovette confessare la colpa atroce di avere partecipato a qualche riunione di intellettuali sponsorizzate - pubblicamente - dal partito comunista americano e di avere firmato appelli per la pace.

Gli fu tolto il passaporto e non poté partire per Bruxelles, dove sarebbe stato rappresentato il suo dramma Il crogiolo, ricostruzione volutamente allegorica dei processi e delle impiccagioni di streghe nella Salem del 1692 e dei fenomeni di isteria collettiva. Quando rifiutò di fare nomi di altri «comunisti» come lui davanti all´Inquisitore, fu condannato per «oltraggio al Parlamento», una condanna che i tribunali ordinari annullarono nel 1958, restituendogli il passaporto.

Ma non la pace, che la vita, i fiaschi, i trionfi, i processi e i successi gli avevano consumato per sempre.

Proprio negli anni della persecuzione maccarthysta, nel 1956, «l´uomo più fortunato del mondo» aveva sposato, in seconde nozze, la donna che tutti gli uomini del mondo meno fortunati avrebbero voluto sposare, Norma Jean, una Marilyn Monroe trentenne, fresca del divorzio da Joe Di Maggio e non ancora devastata dalla propria insicurezza, dall´alcol e dalle pillole. La relazione tra «il gufo e la gattina», come fu prevedibilmente battezzata quell´unione tra l´allampanato scrittore newyorkese ormai perennemente nascosto dietro i suoi enormi occhiali e la succulenta bionda californiana (Marilyn era nata a Los Angeles, il primo giugno del 1926) fu inevitabilmente la materia per ogni tipo di elucubrazione psicoanalitica, di interpretazioni metaforiche, di facili simbolismi. Ma se il matrimonio era costituzionalmente destinato a fallire, come accadde infatti nel 1961 in uno squallido divorzio messicano, nessuna biografia o memoria ha mai stabilito se questi due esseri umani si fossero amati davvero, oltre all´attrazione fra opposti.

Marilyn cercava in lui quel visto di uscita dalla gabbia dei bamboleggiamenti sexy, di mutandine esposte da sbuffi di aria, di stupidità bionda da copione che gli studios le imponevano. Arthur, che per lei scrisse la sceneggiatura del pessimo Misfits (Gli spostati, 1961), chiedeva vita, corpo, carnosità per un´esistenza che rischiava di evaporare nell´intellettualismo. Ma se era Miller a nutrire i sogni di emancipazione di Marilyn, era Marilyn a nutrire il portafogli di Miller. Pagava lei, per esempio, gli alimenti alla prima moglie di Arthur Miller.

La loro «story» andò a intercettare, e ad alimentare, un tempo che produceva miti indimenticati e crudeli, i Kennedy, l´alba della rivolta di una nuova generazione di baby boomers inquieti e destinati al Vietnam, l´integrazione razziale, la noia della prosperità post bellica, il confronto sempre più scottante con l´Urss, verso i missili di Cuba. La vita di Arthur Miller non finì con il divorzio da Marilyn, come invece finì la vita di lei, suicida appena un anno dopo, nel 1962, ma nella sua produzione artistica, il periodo «post Marilyn» non tornò mai allo splendore del periodo «pre Marilyn». Dovette trascorrere quasi un decennio, dal matrimonio del ´56, perché tornasse in teatro con Dopo la caduta, un lavoro ovviamente ispirato, nella protagonista che si autodistrugge, alla vita della ex moglie, ma le opere degli anni Novanta passarono accolte dal rispetto, ma non dal successo, riservato al mito, più che alla realtà.

«Il teatro probabilmente non è morto» disse in quegli anni «ma la televisione, con le cifre che paga ad attori bravi o cattivi, lo sta dissanguando di talenti». Ci fu, e ancora continua, una piccola resurrezione teatrale, con il ritorno alla scene dei vecchi classici, dell´immortale Commesso viaggiatore, del Crogiolo, rinverdito dalla nuova isteria repressiva da terrore attizzata dai politicanti in cerca di voti, ma l´attualità dei simboli stride contro il tramonto di un tempo americano che l´ultimo dei suoi grandi cantori ha portato via con sé, ieri.

Novella Sansoni è scomparsa qualche giorno fa, dopo una dura malattia. Il suo nome, molto probabilmente, non dirà nulla ai nostri giovani e, purtroppo, anche a molti non giovani. La memoria, si sa, non è un terreno coltivato, di questi tempi, nella sinistra. Eppure, la figura di Novella è stata molto importante per almeno un ventennio, nell'ambito politico e culturale, a Milano e non solo. Tra l'altro, il suo è stato, credo, un caso unico nel panorama del mondo politico italiano. Esaurito il suo mandato di presidente della Provincia di Milano, decise di ritirarsi, nonostante le fosse stata proposta la candidatura al parlamento. Scrisse anni dopo: «sono contenta di avere preso questa decisione da sola, in piena autonomia... la decisione di considerare chiusa la mia attività pubblica e di tornare al mio lavoro professionale di architetto». Perché lo fece?

Aveva cominciato a lavorare nel collettivo di architettura che si era costituito a Milano negli anni Cinquanta. Era anche stata la prima donna ad essere nominata alla segreteria di una sezione del Pci di questa città e poi fu eletta nel comitato centrale. Come professionista si era dedicata in particolare all'edilizia scolastica: aveva progettato scuole «aperte», con pareti mobili all'interno e nessun muro o cancello «di protezione» all'esterno. Perché vi fosse un'osmosi continua tra scuola e società e dentro la scuola.

Mi raccontò, molti anni più tardi, che però le scuole erano state presto «riadeguate» con aule separate e involucri esterni. Ciascuno amava delimitare il proprio territorio. Nel 1964 fu eletta in Consiglio provinciale, dopo il successo del Pci nel 1975 divenne assessore alla cultura e nell'83 assunse l'incarico di presidente.

Era una donna bella, elegante e anche allegra e ricca di fantasia: ma ciò che la distingueva era soprattutto il rigore assoluto con il quale conduceva il suo lavoro, in qualsiasi campo. Tuttora per molti versi, la città e la provincia di Milano sono segnate dalle sue iniziative culturali spesso duramente contrastate non solo dagli avversari.

Il cinquantesimo anniversario della morte di Alcide De Gasperi - avvenuta il19 agosto 1954 a Sella Val Sugana, il piccolo paese di montagna dove era solito trascorrere le ferie estive – è stata per la destra italiana l’occasione per una campagna di stampa volta a collocare lo statista trentino, in quanto paladino dell’anticomunismo, nel quadro della più rigida tradizione conservatrice, e quindi per presentare l’attuale maggioranza di governo come la sua naturale erede.

Più prudenti, naturalmente, sono stati gli storici di professione. Ma non a caso proprio nei giorni del cinquantenario da più parti si è tornati a parlare, ai margini del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, di “unità politica dei cattolici”, naturalmente da realizzarsi nell’ambito dello schieramento di centro-destra e come articolazione del Partito Popolare europeo. In particolare lo stesso Presidente del Consiglio, non contento di rivendicare in ogni occasione la sua personale amicizia con Bettino Craxi, si è riproposto in più di un caso come il vero continuatore dell’opera di De Gasperi, soprattutto nella costruzione della “diga” diretta a sbarrare la strada alla sempre perdurante minaccia del comunismo.

Chi ha vissuto i difficili anni, ormai lontani, dell’avvio della costruzione della democrazia postfascista e della promozione di un più moderno e avanzato sviluppo della società italiana ( e tanto più chi, come è il mio caso, ha avuto occasione di un diretto rapporto con De Gasperi) non può che respingere il volgare strumentalismo di questo rovesciamento della realtà dei fatti. Non si tratta – sia chiaro – di presentare De Gasperi come un uomo di sinistra (cosa che certamente egli non era), né di nascondere la sua avversione al comunismo, che era senza dubbio netta e dichiarata. Ma non si può dimenticare che il leader democristiano non solo fu, nell’immediato dopoguerra, il Presidente del Consiglio di un governo di unità antifascista in cui erano largamente rappresentati socialisti e comunisti; ma che dell’esperienza della lotta contro il fascismo e il nazismo e dei valori condivisi maturati negli anni della Resistenza egli trasse la convinzione che tutte le grandi forze popolari che avevano combattuto la dittatura dovevano essere protagoniste di un impegno comune per la definizione di un nuovo ordinamento istituzionale dello Stato.

Per questo operò – come del resto fecero, dall’altra parte dello schieramento politico Togliatti e Nenni – in modo che anche dopo la rottura del cosiddetto governo “tripartito” nella primavera del ‘47 e nonostante l’asprezza dello scontro che si determinò cosí nelle questioni interne come su quelle internazionali, continuasse però nell’Assemblea costituente la collaborazione fra i cattolici democratici (con un articolare impegno del gruppo di giovani intellettuali riuniti attorno a Dossetti) e le forze della sinistra di derivazione marxista, cosí da giungere al varo di una Costituzione concordemente accettata. Nacque cosí la Carta Costituzionale del 1948: che proprio per il modo in cui fu elaborata e per i valori cui si ispirava (una visione democratica e solidaristica, che era il punto di compromesso fra i cattolici democratici e i partiti della sinistra) ha rappresentato il quadro entro il quale è avvenuta la crescita democratica del paese e si è realizzato quel tanto di “Stato sociale” che è stato decisivo per un effettivo ammodernamento e per il progresso civile dell’Italia .

Ma c’è un secondo momento (generalmente meno ricordato, ma per molti aspetti anch’esso determinante) nel quale la scelta di De Gasperi fu fondamentale per respingere i rischi di una grave repressione della democrazia italiana. Fu, precisamente, nel 1952: quando, prendendo occasione dalla crescita nelle elezioni amministrative della destra monarchica e fascista, alimentata dalla protesta dei ceti più retrivi contro le misure sia pure parziali di riforma agraria e contro gli altri interventi dello Stato nell’economia, ripresero fiato quei settori del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane che non avevano mai accettato con troppa convinzione una scelta democratica e soprattutto reclamavano – nello spirito della scomunica del ‘49 – più rigide misure anticomuniste.

L’occasione per questa offensiva di destra fu, in vista delle elezioni comunali a Roma che dovevano svolgersi nel ‘52, il timore che l’amministrazione della “Città eterna” passasse sotto il controllo di una maggioranza di sinistra. Fu perciò lanciata la proposta (la cosiddetta “operazione Sturzo”) di una lista di unità nazionale che includesse assieme alla DC e agli altri partiti di centro, anche monarchici, neofascisti, altri esponenti di destra. Era, chiaramente, un banco di prova per un ipotesi più generale di svolta a destra nelle elezioni politiche del 1953. L’ostilità di De Gasperi fece cadere la proposta per Roma; e creò uno sbarramento a destra (sia pure al prezzo, come dirò più avanti, dell’adozione di una legge maggioritaria) anche per le successive elezioni politiche. L’esperienza centrista era però alla fine: e quella vicenda di conseguenza segnò, per lo statista trentino, l’avvio di un declino personale, sanzionato dalla sconfitta della “legge truffa” nel voto del 7 giugno ‘53. Ma sul piano politico generale il risultato fu la sconfitta del tentativo di spostare a destra l’equilibrio complessivo del paese, e quindi un consolidamento della giovane democrazia italiana.

E’ su quest’ultima fase della parabola del centrismo che ho la possibilità di fornire, personalmente, qualche testimonianza diretta a proposito del dibattito interno alla DC (e in particolare sull’opera di De Gasperi): e ciò a causa del ruolo che dal 1953 ebbi occasione di svolgere fra i dirigenti in campo nazionale della sinistra giovanile democristiana. Mi riferisco, in questa testimonianza, soprattutto al rapporto con De Gasperi e al giudizio sulla sua politica. Ed è proprio dai problemi posti dalla sua scomparsa che mi pare opportuno partire.

La notizia della morte di De Gasperi mi giunse il 19 agosto 1954 a Roma proprio mentre stavo per partire per il Trentino dove, su suo invito, mi recavo per incontrarlo. L’invito mi era stato rivolto (come spiegherò meglio in seguito) nel corso di una breve conversazione svoltasi il 16 luglio, al termine della riunione di insediamento del nuovo Consiglio nazionale della DC, eletto 15 giorni prima dal Congresso del partito che si era svolto a Napoli alla fine di giugno. Di quell’organismo anch’io – benché giovanissimo: non avevo infatti 25 anni – ero stato eletto a far parte, in rappresentanza sia della nuova corrente della “sinistra di base”, da poco costituita, sia dell’ala sinistra del Movimento dei giovani democristiani.[1]

Al Congresso di Napoli del 1954 De Gasperi giungeva – come ho già accennato – nella condizione di chi ancora godeva di grandissima autorevolezza e prestigio, ma era, politicamente, un uomo sconfitto. L’esperimento centrista, al quale il leader democristiano aveva legato il suo nome, si era andato infatti progressivamente esaurendo nel corso del quinquennio fra il ‘48 e il ‘53, nonostante lo straordinario successo nelle elezioni del 18 aprile che avevano dato alla DC più del 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta in Parlamento. La maggioranza di centro era stata via via logorata da un lato dall’emergere, soprattutto nel Sud, di una consistente opposizione di destra che si raccoglieva attorno al partito monarchico e a quello neofascista; dall’altro lato (e anzi soprattutto) dalla ripresa della sinistra socialista e ancor più di quella comunista, che avevano saputo reagire con vigore alla sconfitta del ‘48, allargando l’iniziativa e consolidando la presa elettorale.

Appariva chiaro, in sostanza, che da una parte c’era una vecchia Italia, retriva e nostalgica, che si ribellava alle sia pur modeste riforme economiche (in particolare la riforma agraria stralcio) poste in atto dai governi di centro, e più in generale al nuovo costume democratico; e che, d’altronde, il cauto riformismo centrista e lo stesso sviluppo economico che pure si andava avviando non erano sufficienti a porre in difficoltà l’opposizione di sinistra, che anzi traeva nuova forza dalle acute tensioni sociali del momento e dalla capacità del PCI, sotto la direzione di Togliatti, di interpretare incisivamente le istanze di rinnovamento della società italiana.

Alla crisi della formula centrista, che si andava perciò delineando, De Gasperi aveva dapprima cercato di reagire respingendo con successo l’offensiva della destra integralista cattolica, guidata da Luigi Gedda[2], che proponeva (ho già parlato dell’“operazione Sturzo” per le elezioni comunali a Roma nella primavera del 1952) la formazione di un blocco nazionale anticomunista aperto a monarchici e neofascisti. Poi si era proposto di consolidare e rendere in qualche modo permanente l’alleanza tra dc, socialdemocratici, liberali e repubblicani attraverso l’adozione per le successive elezioni politiche di una legge maggioritaria – la famosa “legge truffa” – che avrebbe dato il 65 per cento dei seggi alla Camera ai “partiti apparentati” che avessero raggiunto il 50,01 per cento dei voti.

Quel tentativo fu però sconfitto nelle elezioni del 7 giugno 1953. Sia pure per poche decine di migliaia di voti, l’alleanza di centro rimase infatti al di sotto della maggioranza assoluta; e ciò non solo per il buon risultato ottenuto dalle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma anche per il dissenso espresso – per ragioni di correttezza democratica – da gruppi qualificati di esponenti repubblicani o socialdemocratici (Parri, Calamandrei) e liberali (Corbino) che diedero vita a liste che furono definite “di disturbo” ma che raccolsero diverse centinaia di migliaia di voti.

Apro a questo proposito una parentesi. Vi e’ chi anche di recente ha messo in dubbio (fra gli altri lo stesso Presidente del Senato Marcello Pera) che De Gasperi all’indomani del 7 giugno abbia fatto bene a lasciare che fosse subito proclamato l’esito del voto, dando così per scontato che la nuova legge elettorale non era passata. Vi erano invece 900.000 voti contestati; si poteva perciò insistere per un nuovo conteggio, che avrebbe potuto portare allo “scatto della legge”, evitando così che si tornasse a un “proporzionalismo esagerato”. Chi sostiene (anche solo in forma dubitativa, come e’ il caso di Pera) questa posizione, non si rende ben conto dei pericoli che – nel clima di aspra tensione sociale e politica che si era determinato – un’eventuale contestazione del risultato del voto popolare avrebbe provocato. Allora fu opinione pressoché generale che De Gasperi si era al contrario attenuto a una regola di buona correttezza democratica. Nessuno, del resto, aveva dubitato che questo sarebbe stato il suo comportamento. Nel clima politico di oggi e’ forse giusto, invece, dargli atto di aver operato, in quella situazione, con molta prudenza e saggezza.

In ogni caso, il voto del 7 giugno 1953 segnò di fatto la fine dell’era degasperiana. Il governo che aveva portato alle elezioni ovviamente si dimise e il presidente Einaudi incaricò De Gasperi, come leader del maggior partito, di tentare la formazione di un nuovo governo. Considerando esaurita la formula centrista (pur avendo i quattro partiti di centro, a causa dei meccanismi elettorali, un’esigua maggioranza in Parlamento) De Gasperi si presentò alle Camere con un monocolore democristiano, cercando di raccogliere sul programma una maggioranza non precostituita; ma il tentativo fu battuto. DeGasperi lasciò allora definitivamente la Presidenza del Consiglio (il suo posto fu preso da Pella, con un governo palesemente aperto a destra) e di lí a poco fu rieletto segretario nazionale della DC.[3]

Ma anche nel partito la situazione era ormai avviata verso un radicale ricambio. La sconfitta del 7 giugno sollecitava la cosiddetta “seconda generazione” democristiana (costituita da quadri che si erano formati negli anni del fascismo e si erano affacciati alla politica nella Resistenza o subito dopo la Liberazione) a cercare strade nuove, per rinnovare il partito e dare ad esso una diversa prospettiva politica e di governo. Era una generazione che, ormai, aveva un ruolo dirigente nella maggioranza delle organizzazioni provinciali della DC; e che aveva il suo punto di riferimento nella corrente di “Iniziativa democratica”, che si era organizzata già sul finire del 1951 sulla base dell’incontro fra la maggioranza dei dossettiani, che non avevano seguito il loro leader nel ritiro dalla politica e nella scelta culturale e religiosa, e larga parte della corrente di centro – soprattutto i più giovani – che aveva sempre sostenuto De Gasperi ma avvertiva l’esigenza di un cambiamento. Non a caso i due massimi esponenti della nuova corrente erano Amintore Fanfani, cioè l’ex dossettiano che con il suo accordo con De Gasperi nella crisi di governo dell’estate ‘51 era stato una delle cause del ritiro di Dossetti[4]; e Mariano Rumor, un esponente della maggioranza degasperiana che però proveniva da un’esperienza aclista ed era apprezzato per la sua “sensibilità sociale”.

Perciò, mentre a livello governativo dopo il ritiro di De Gasperi di susseguivano il monocolore Pella, chiaramente orientato a destra, e il governo centrista di Scelba, sostenuto dalla ristrettissima maggioranza di centro presente alla Camera, nel partito sin dai primi mesi del 1954 si avviava la preparazione del nuovo Congresso nazionale – il quinto nella storia della DC – che avrebbe formalmente sancito l’ascesa al potere di una nuova classe dirigente.

Ho ritenuto opportuno richiamare in modo sintetico questa vicenda – per quanto generalmente ben conosciuta – allo scopo di ricostruire il clima politico in cui si aprì il Congresso che si svolse a Napoli, al Teatro San Carlo, dal 26 al 30 giugno 1954.

L’esito del Congresso era scontato: si sapeva ormai da qualche mese che esso avrebbe segnato l’affermazione di “Iniziativa democratica” e che alla segreteria sarebbe stato eletto Fanfani, col consenso (per la verità non troppo entusiasta) dello stesso De Gasperi. In questo ambito l’assise congressuale era praticamente chiamata a precisare solo due punti: quale sarebbe stata la maggioranza con cui la nuova corrente egemone avrebbe guidato il partito; e quale orientamento sarebbe prevalso fra le posizioni, non sempre e non del tutto concordi, che convivevano dentro “Iniziativa democratica”.

Per quel che mi riguarda non ero, a Napoli, al mio primo congresso nazionale. Avevo già infatti partecipato, pur avendo appena compiuto 23 anni, al precedente Congresso, quello che si era tenuto a Roma nell’autunno 1952. Ma, allora, ero un delegato alle prime armi, eletto dal Congresso provinciale di Bergamo – la città in cui vivevo – dove il gruppo che si qualificava come ex-dossettiano era nettamente in maggioranza. Al Congresso di Napoli giungevo, invece, avendo già compiuto un’esperienza politica nazionale. Innanzitutto da diversi mesi ero entrato a far parte, in rappresentanza della sinistra, del gruppo dirigente ristretto del Movimento nazionale dei giovani democristiani, e dagli inizi del 1954 mi ero perciò trasferito a Roma. Inoltre sin dalla formazione avevo aderito (assieme ad altri esponenti di sinistra della DC bergamasca, come Lucio Magri, Luigi Granelli, Carlo Leidi, Piero Asperti, per ricordare solo i nomi più noti) alla nuova corrente della “sinistra di base”, formata nell’autunno del’53 dall’incontro fra un gruppo di ex-dossettiani, delusi dal pragmatismo tatticistico e compromissorio di “Iniziativa democratica”, e numerosi quadri di base, prevalentemente lombardi e piemontesi, che provenivano dall’ancora vicina esperienza partigiana. Nella nuova corrente ero anzi divenuto uno dei dirigenti più attivi, assieme a Giovanni Galloni, a Lucio Magri, a Luigi Granelli e ad Alberto Marcora.

Il principale problema che in vista del Congresso di Napoli si poneva per la “sinistra di base” (che sin dall’inizio si era pronunciata per l’”apertura a sinistra”, innanzitutto verso il PSI ma senza escludere un diverso rapporto anche con i comunisti) era quello di cercar di condizionare efficacemente, sia pure partendo da una posizione indiscutibilmente minoritaria, il gruppo già considerato vincente di “Iniziativa democratica”. Per questo la proposta per il Congresso, ampiamente illustrata sin dalla primavera del ‘54 in diversi editoriali pubblicati da Giovanni Galloni sul quindicinale “La Base”, era quella di dar vita a una maggioranza congressuale che comprendesse tutte le sinistre: ossia, oltre ad “Iniziativa democratica” e alla stessa “Base”, anche il gruppo che faceva capo a Gronchi, quello dei sindacalisti che avevano come riferimento la CISL e le ACLI, la sinistra giovanile che era in netta maggioranza fra i giovani dc. Il metodo maggioritario che era in vigore per l’elezione del Consiglio nazionale (17 posti su 21 alla lista vincente, sia fra i parlamentari sia fra i non parlamentari) avrebbe dato all’insieme delle sinistre una nettissima maggioranza, ma nell’ambito della sinistra avrebbe assicurato un ruolo non marginale ai gruppi più avanzati.

La proposta non andò però a buon termine non solo per le resistenze “esclusiviste” di “Iniziativa democratica”, ma perché Gronchi, che già pensava alle ormai prossime elezioni presidenziali, preferiva mantenere un buon rapporto con i notabili del centro-destra della DC (la cosiddetta “Concentrazione”) e considerava invece Fanfani un suo avversario; e perché la pattuglia dei sindacalisti considerava più conveniente limitarsi a un ruolo di “gruppo di pressione”, conquistando la minoranza. Per la “sinistra di base” – che si era costituita da poco, aveva una base consistente quasi solo in Lombardia e si poneva l’obiettivo di affermare in congresso un proprio ruolo nazionale – era quindi una strada pressoché obbligata quella di un’intesa con “Iniziativa democratica”: facendo pesare, in tale intesa, il fatto che il suo apporto, benché minoritario, sarebbe stato probabilmente determinante – come in effetti fu – per respingere la proposta, annunciata da Gronchi, di una pregiudiziale per modificare in senso proporzionalista il metodo di elezione del nuovo Consiglio Nazionale. Pesava inoltre, in questa scelta, un disaccordo di sostanza fra la “base”, che in coerenza con le origini dossettiane intendeva qualificarsi come “sinistra politica”, e il carattere di “sinistra sociale” che era invece sottolineato sia da Gronchi sia dai sindacalisti.

L’accordo congressuale con “Iniziativa democratica” fu siglato definitivamente a Napoli, a Congresso già aperto,in un incontro abbastanza ristretto (nel corso di un pranzo, fra la seduta del mattino e quella del pomeriggio) al quale per la “sinistra di base” partecipai anch’io, insieme con Galloni, Marcora e Ripamonti, mentre per “Iniziativa democratica” c’erano Fanfani, Rumor, Colombo e altri esponenti del vertice della corrente. Era presente, come massimo responsabile dei Gruppi giovanili, anche Franco Maria Malfatti. Fu concordata una lista comune, nella quale fui incluso. Come risultato di quell’intesa, la “sinistra di base” riuscì a far eleggere nel nuovo Consiglio nazionale quattro suoi esponenti, ossia Galloni, Ripamonti ed io, più Leandro Rampa che fu eletto quale rappresentante dei delegati della Lombardia. Nelle votazioni ottenni un buon risultato, giungendo, in base alle preferenze, al nono posto fra i 21 non parlamentari eletti. Si trattava, per me, di un piccolo successo personale: era infatti la prima volta che un giovane con meno di 25 anni veniva eletto nel Consiglio Nazionale della DC, che era allora un organo di vertice, con poco più di 60 membri.

Dell’andamento del Congresso di Napoli, e in particolare del ruolo che vi svolse De Gasperi, ricordo bene l’impressione che mi fece la sua relazione di apertura:un’impressione sostanzialmente negativa, come fu quella della gran parte dei delegati di sinistra. Era il discorso che fu detto “dei notabiliari”: nel quale De Gasperi si dilungò in un’analisi dell’articolazione della società italiana, nella quale sottolineava il ruolo che avevano e l’influenza che esercitavano molteplici figure “notabili” (medici, farmacisti, avvocati, ingegneri e geometri, giornalisti, maestri e professori, sacerdoti, ceti imprenditoriali ecc.) nonché le organizzazioni economiche, culturali, sociali sia del mondo cattolico sia d’altro orientamento. Il corollario di questa analisi era che le decisioni politiche spettavano, certamente, agli organi di partito: ma che nell’elaborazione degli indirizzi e delle proposte conveniva “consultare anche l’esperienza, la tecnica, la cultura” e prendere contatto con “le rappresentanze degli interessi generali o locali”.

Parve a me, come a molti altri, un discorso proiettato verso il passato: che sollecitava a dedicare particolare attenzione agli interessi corporativi o categoriali e agli orientamenti di un vecchio mondo che era invece da superare. Solo più tardi mi resi conto che il significato politico dell’impostazione data da De Gasperi alla sua relazione era assai più complesso. Certo, l’orientamento era conservatore: ma il segno fondamentale era la preoccupazione, che in quel discorso De Gasperi esprimeva, per la tendenza di Fanfani e del gruppo dirigente di “Iniziativa democratica” (ad eccezione di pochi, fra i quali Moro) di concepire come scopo fondamentale del loro impegno politico il rafforzamento dell’organizzazione del partito e, a questo fine, l’occupazione di posizioni di potere nello Stato, nel sottogoverno, nella società.

Era in sostanza un richiamo – contro l’efficientismo totalizzante di Fanfani – all’esigenza di una più prudente linea di mediazione verso i molteplici aspetti della realtà sociale: e in questo era inclusa anche la sollecitazione a tener conto dell’esistenza, nel complesso della società italiana, di una pluralità di orientamenti ideali e politici, che non erano semplicemente assorbibili o contrastabili.

Questo punto, da noi sottovalutato, non sfuggì invece a Togliatti, che lo rimarcò anche successivamente nel suo ampio saggio “Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi” pubblicato in più puntate su “Rinascita”, fra l’ottobre 1955 e il giugno ‘56[5]. Al leader comunista, tuttavia, non solo sembrò di ispirazione conservatrice il richiamo al ruolo fondamentale dei “notabili”; ma gli parve che vi fosse una “contraddizione non risolta” fra l’aspirazione a rappresentare nella sua interezza il “mondo” o il “blocco” dei cattolici, e l’ammonimento al partito di “non ridursi” a tale blocco. Questa contraddizione, in effetti, era intrinseca al centrismo degasperiano e contava molto nel determinare lo sbocco moderato della sua politica.

A parte la relazione di De Gasperi, il Congresso di Napoli ebbe come momento saliente il dibattito e il voto sulla pregiudiziale di Gronchi a favore della proporzionale nell’elezione degli organismi dirigenti. La pregiudiziale fu battuta, ma con uno scarto di voti (594.000 contro e 534.000 a favore) abbastanza ristretto. Risultò così confermato che “Iniziativa democratica” disponeva di una considerevole maggioranza relativa: ma che per raggiungere la maggioranza assoluta erano necessari i voti della “sinistra di base” e della sinistra giovanile. Ciò diede alla “sinistra di base” e alla parte più avanzata del Movimento giovanile una indubbia autorevolezza politica: come fu confermato, nelle votazioni, dal primo posto fra i non parlamentari ottenuto dal delegato giovanile nazionale Malfatti (per altro sempre più orientato verso un accorso anche sostanziale con Fanfani) e dal terzo posto di Giovanni Galloni, nonché della mia elezione al nono posto, di Camillo Ripamonti al tredicesimo e di Leandro Rampa come rappresentante della Lombardia. Ma il risultato politico fu che “Iniziativa democratica” poté, in questo modo,assicurarsi una netta maggioranza politica nel nuovo Consiglio Nazionale: e ciò favorì il prevalere della linea decisionistica e della tendenza all’occupazione del potere tipica di Fanfani. Il che portò molto presto la nuova sinistra (e in particolare la sua parte più avanzata, della quale io facevo parte) a scontrarsi duramente con la nuova segreteria.

Il 16 luglio 1954 si riuniva a Roma per la prima volta, a Piazza del Gesù, il nuovo Consiglio nazionale della DC che era stato eletto dal Congresso di Napoli. Con quel Congresso si era chiusa anche formalmente – come ho detto - l’era degasperiana. Era perciò scontato che il Consiglio avrebbe eletto Fanfani alla segreteria del partito (con Mariano Rumor come vice-segretario); mentre a De Gasperi sarebbe stato affidato l’incarico – prestigioso, ma privo di poteri effettivi – di Presidente.

Anch’io – come ho detto – ero stato eletto nel nuovo Consiglio nazionale, che era un organo molto ristretto, di poco più di 60 membri. Mi ero iscritto alla DC nel 1950: provenivo da posizioni di sinistra cattolica e dopo molte incertezze mi ero deciso a optare per un impegno di partito soprattutto per il richiamo esercitato dalle posizioni di Dossetti e della sua corrente, che avevo conosciuto principalmente attraverso la lettura di “Cronache sociali”. Dopo il ritiro di Dossetti dalla politica, avvenuto alla fine dell’estate del 1951, mi ero impegnato nella sinistra del Movimento giovanile dc; ma avevo anche aderito sin dall’inizio alla nuova corrente della “sinistra di base”, che si era costituito col convegno di Belgirate dell’autunno 1953.

La differenza di linea politica tra la “sinistra di base” e “Iniziativa democratica” era sostanziale. Un punto era comune, ossia il ripudio dell’apertura a destra, verso monarchici e neofascisti, che la destra cattolica aveva cercato di imporre (la già ricordata “operazione Sturzo”) in occasione delle elezioni comunali a Roma della primavera 1952. Ma “Iniziativa” pensava di reagire alla crisi del centrismo, diventata palese con le elezioni del 7 giugno 1953, soprattutto rafforzando l’organizzazione di partito e allargando la sua influenza nella società tramite l’occupazione di posizioni di potere. La “Base” riteneva invece necessaria una soluzione politica, ossia “l’apertura a sinistra”, da realizzarsi attraverso un’intesa di governo con il Partito socialista e riaprendo il dialogo anche con il PCI (i due partiti, del resto, erano allora legati, ancora, dal patto di unità d’azione).

Quando si riunì il Consiglio nazionale del 16 luglio, non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere personalmente De Gasperi. Lo avevo infatti solo incontrato in riunioni di partito piuttosto affollate. Il 16 luglio, nel palazzo di Piazza del Gesù, presi posto in una delle prime file della sala delle riunioni. Ero vestito – poiché eravamo in piena estate – non in giacca e cravatta come pressoché tutti gli altri consiglieri, ma in una tenuta estiva più giovanile, con pantaloni beige e una camicia azzurra. Fosse anche per questo abbigliamento, poco consueto per quella sede, De Gasperi – che era seduto alla presidenza in quanto segretario uscente – notò subito la mia presenza e fu particolarmente colpito dalla mia giovane età. Chiese perciò a Mariano Rumor, che stava al suo fianco e che mi riferì la cosa durante un intervallo della riunione, chi fossi, quanti anni avessi, da quale parte politica fossi stato eletto membro del Consiglio. L’intero episodio fu poi raccontato più estesamente da Corrado Corghi, membro del Consiglio come rappresentante dell’Emilia, in un saggio intitolato “Nel tramonto di De Gasperi”, pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1981 della rivista “Vita sociale”.[6]

Al termine della riunione del Consiglio nazionale l’anziano leader, che era molto affaticato, volle parlarmi brevemente, per conoscermi personalmente e per rivolgermi in modo diretto l’invito ad andarlo a trovare in Val Sugana, in modo da avere un colloquio più disteso e approfondito. Restammo d’accordo che mi sarei recato a Sella nell’ultima decade d’agosto. Debbo dire che l’invito non mi sorprese e neppure mi parve il segno di quel comportamento paternalistico che molto spesso gli uomini famosi, giunti all’età senile, amano assumere nei confronti dei più giovani. Sapevo infatti – ne avevamo anzi specificamente discusso negli organi dirigenti del Movimento giovanile, per le conseguenze politiche che quell’orientamento poteva avere – che dopo la sconfitta del 7 giugno e la caduta del suo ultimo governo, De Gasperi aveva in più occasioni sottolineato, tornando a dirigere la segreteria del partito, il suo interesse per i nuovi orientamenti che venivano emergendo fra i giovani democristiani: sia quelli che continuavano ad operare nei Gruppi giovanili della DC, sia quelli che – come Bartolo Ciccardini e Gianni Baget Bozzo – si erano collegati al gruppo di Felice Balbo per dar vita a una rivista con più spiccate ambizioni culturali (ma con esiti in verità piuttosto inconcludenti ed anche sconcertanti) come “Terza Generazione”.

In particolare De Gasperi (che era stato fortemente sostenuto da “Per l’Azione”, la rivista dei giovani dc, già nel suo scontro del 1952 con Gedda e con la destra cattolica) dopo il suo ritorno alla segreteria della DC, aveva affermato la necessità di dare ai giovani “maggiore respiro nel partito, cosa che Gonella non aveva capito ne’ attuato”[7]. Anche per questo aveva voluto, già prima del Congresso di Napoli, l’elezione di Franco Maria Malfatti nella segreteria del partito; e sostenne anche con un contributo finanziario personale, fino alla morte, la rivista “Terza Generazione”, della quale leggeva e annotava ogni numero, non mancando di esprimere qualche riserva sul linguaggio troppo astruso e quasi da iniziati, ma apprezzando l’impegno di studio e di ricerca.

Era, in sostanza, come se, dopo l’esaurimento del centrismo, lo statista trentino avvertisse che un capitolo di storia si era chiuso; e che, ancor prima di ricercare un ricambio con nuove alleanza di governo, occorresse approfondire l’analisi della realtà e non chiudere la porte – di qui l’attenzione per i giovani – verso nuovi orizzonti. Anche per questo ero curioso di vedere su quali basi avrebbe impostato l’incontro al quale mi aveva invitato a Sella di Val Sugana. Tanto più fui perciò colpito dall’improvvisa notizia della morte. Mi parve come un segno premonitore: l’annuncio del venir meno di un punto di equilibrio rispetto alla segreteria Fanfani e quindi un’anticipazione delle crescenti difficoltà che avrebbero incontrato, per proseguire il loro impegno all’interno della Democrazia cristiana, quei giovani che – come me – erano impegnati su una linea di ricerca per un sostanziale rinnovamento – in collaborazione con altre forze e in particolare con socialisti e comunisti – dello Stato e della società italiana.

Il 20 agosto, all’indomani della morte di De Gasperi, mi telefonò Mariano Rumor – che in quanto vicesegretario aveva anche assunto la direzione del settimanale ufficiale del partito, “La Discussione” – per chiedermi di scrivere a tamburo battente un articolo di sintesi che tracciasse un bilancio del ruolo svolto dallo statista trentino sia come dirigente politico sia come responsabile del governo. Sarebbe stato, mi disse, l’articolo che avrebbe qualificato quel numero della rivista: ed infatti così fu, perché venne pubblicato al centro della pria pagina col titolo “Nella storia d’Italia”. In pratica, fu quello il primo e ultimo gesto di fiducia nei miei confronti compiuto dalla nuova segreteria dc.

Ho riletto nei giorni passati quel mio lontano articolo, ricavandone un’impressione abbastanza soddisfacente: soprattutto perché gli altri interventi – assai numerosi – raccolti in quel numero del settimanale avevano in generale un carattere puramente agiografico o insistevano tutt’al più sul ruolo che le politiche di De Gasperi svolto avevano come barriera contro la minaccia del comunismo. Invece nel mio articolo l’accento era posto, in particolare, sul contributo che lo statista trentino aveva dato, prima, alla costruzione della nuova Italia democratica e al varo della Costituzione, avviando verso questo sbocco, con l’alleanza tripartita, “l’ondata resistenziale; e poi, dopo la rottura del’47 e la vittoria del 18 aprile, “alla sopravvivenza e allo sviluppo della democrazia italiana”, opponendosi alla costituzione di un indistinto “blocco anticomunista” e impedendo così “che lo Stato italiano tornasse a configurarsi come Stato reazionario di classe”. Sottolineavo, anche, che l’ormai avviata “disgregazione delle forze di destra monarchica e fascista” confermava le solide fondamenta che la politica di De Gasperi aveva gettato nel paese, facendo della “formula dell’unita’ politica dei cattolici” una “formula di sostegno dell’ordinamento democratico”; e concludevo che solo difendendo e consolidando “il patrimonio democratico che “De Gasperi ha fissato nel nuovo ordinamento repubblicano dello Stato, solo salvaguardando gli istituti di libertà e democrazia e’ possibile avviare su una linea di organico sviluppo la società italiana”.

In sostanza, le argomentazioni che sviluppavo in quel primo articolo di bilancio dell’opera di De Gasperi pubblicato su “La discussione”, riprendevano l’analisi che il Movimento giovanile democristiano era venuto elaborando nella sua stagione politicamente più felice, ossia fra il ‘52 e il ‘54: quando la rivista “Per l’Azione” – sia pure con molte ingenuità giovanili – divenne in qualche modo l’erede, dopo il ritiro di Dossetti, delle speranze alimentate dal dossettismo e al tempo stesso fu il canale attraverso il quale circolò, nel mondo dei giovani dc, il pensiero di Franco Rodano, conosciuto tramite gli articoli che apparivano sulla rivista “Lo Spettatore italiano”. Intrecciando queste due linee di tendenza, “Per l’Azione” fu, soprattutto a cavallo del 1953, una rivista particolarmente vivace. In sostanza essa analizzava e sottolineava, sulla scia dell’insegnamento di Dossetti, la grave crisi morale e sociale del paese (e in particolare della cattolicità italiana), che richiedeva un profondo impegno di rinnovamento a partire dal piano culturale e ideale; al tempo stesso sosteneva con fermezza (e al riguardo acquistava rilievo l’influsso di Franco Rodano) che condizione indispensabile per quest’opera di rinnovamento era comunque la difesa risoluta delle istituzioni democratiche dall’insidia dell’integralismo e dell’eversione di destra. A tal fine occorreva, contro l’insidia che veniva dalla destra cattolica, appoggiare con decisione – questa era la linea della rivista – la politica di De Gasperi ed operare per riaprire un positivo confronto, nel comune obiettivo di evitare uno spostamento a destra, con socialisti e comunisti. Queste tesi furono esposte da “Per l’Azione” in articoli il cui titolo era di per sé illuminante, come “Alcide De Gasperi o dello Stato in Italia”, oppure “Difendere lo Stato per la rivoluzione”.

In effetti, sia pure con molta enfasi e qualche forzatura, si trattava di una linea interpretativa che coglieva aspetti essenziali (anche se non i soli, come hanno messo in luce le ricerche storiografiche più recenti) della politica di De Gasperi: ossia il suo impegno per ancorare i cattolici italiani, attraverso la formula dell’unita’ dei cattolici e la costituzione di un partito quale la Democrazia cristiana, a una scelta politica democratica, sia pure di stampo moderato. Era la linea che il leader dc aveva sostenuto già nel ‘44-’45, riuscendo a farla prevalere rispetto alle suggestioni che spingevano autorevoli ambienti vaticani a preferire un più indistinto blocco conservatore non caratterizzato esplicitamente per l’ispirazione cristiana (nel quale, ovviamente, avrebbero trovato spazio anche forze di destra nostalgiche di vecchi assetti politici e sociali); e che aveva poi difeso nei primi anni cinquanta, contro l’offensiva culminata nell’ “operazione Sturzo”. Sottolineare questi aspetti dell’opera di De Gasperi non significava, ovviamente, presentarlo – del tutto impropriamente – come un uomo di sinistra: ma piuttosto mettere in evidenza che il prevalere di un linea liberal-democratica, quale quella da lui sostenuta, non era affatto scontato, e che non era scontato, soprattutto, il rapporto di “convivenza conflittuale” che si era stabilita con la sinistra socialista e comunista e che costituiva l’asse portante del nuovo ordinamento democratico del Paese.

Nell’articolo sulla “Discussione” non affrontavo, invece, il problema di un giudizio sulla politica economica e sociale che aveva caratterizzato il ciclo degasperiano. Su questo terreno, infatti, il giudizio mio e della “sinistra di base”, come quello a suo tempo espresso da Dossetti, era del tutto negativo: ci sembrava infatti che il consenso necessario per il varo della Costituzione e per il consolidamento delle istituzioni democratiche fosse stato bilanciato da De Gasperi con un appoggio ai “poteri forti” della destra economica e quindi con una politica di sostanziale immobilismo sociale, solo qua e là attenuata da un più che timido riformismo. Ci parevano invece necessarie, per aprire al paese un nuovo sviluppo, riforme economiche e sociali ben più incisive. Era questo il punto che ci separava, del resto, anche dalla segreteria Fanfani: proprio su questi temi, oltre che quelli della pace e de riarmo, sarei presto giunto – assieme agli altri esponenti giovanili che condividevano queste valutazioni, come Magri, Baduel, Leidi, Boiardi, per citare solo i nomi più noti – a un duro scontro con il nuovo gruppo dirigente del partito, sino a uscire dalla DC già nel 1955, per dar vita all’esperienza della rivista “Il dibattito politico”.

In effetti, che De Gasperi fosse, sul terreno economico e sociale, orientato in senso moderato, e’ assolutamente fuori di dubbio. Ma è proprio vero che la sua politica si qualificasse su questo terreno essenzialmente come “immobilistica” , secondo il giudizio allora dato così dalla sinistra interna della DC come dalla sinistra socialista e comunista?

Se si considerano le cose a distanza, ormai, di diversi decenni, vi sono due aspetti che vanno, a me pare, nettamente distinti. Da un lato è indubbio che la scelta da lui compiuta nel ‘47 per il “quarto partito”(cioè per le forze dell’economia, il cui appoggio egli considerava indispensabile per la ricostruzione e lo sviluppo del paese) significò un’opzione per l’ordinamento capitalistico, confermata del resto anche della collocazione e dalle alleanze internazionale. Ma questa scelta significò affatto totale adesione a una politica liberistica e privatista: al contrario gli strumenti dell’intervento pubblico (anche col concorso delle idee e degli uomini della corrente dossettiana) furono ampiamente utilizzati da De Gasperi: sia per misure di temperamento delle contraddizioni sociali e di vera e propria riforma (la riforma agraria stralcio, l’azione degli enti riforma) sia per dare basi più robuste e autonome per lo sviluppo dell’economia italiana (l’ammodernamento dell’industria siderurgica, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, il ruolo svolto per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, l’appoggio dato a Mattei per il rilancio dell’AGIP, la concessione del monopolio per la ricerca del gas in Val Padana, l’istituzione dell’ENI).

In sostanza De Gasperi fu tutt’altro che un rigido liberista[8] e un privatista: e tanto più dopo i guasti prodotti, negli ultimi anni, dall’adozione di una politica di sfrenato liberismo e d’indiscriminate privatizzazioni (guasti che oggi si pagano col preoccupante regresso economico dell’Italia) è giusto riconoscere che la politica di intervento pubblico nell’economia praticata dai governi presieduti dallo statista trentino ebbe un ruolo di rilievo nell’ammodernamento delle strutture economiche del paese e nell’avvio di quel processo di ristrutturazione e di sviluppo che già nella seconda metà degli anni cinquanta avrebbe portato al cosiddetto “miracolo italiano”. Certo, quella politica ebbe un chiaro segno di classe, a favore dell’impresa e della borghesia imprenditrice, e comportò parecchi costi, almeno per tutto il decennio, a carico dei ceti popolari, soprattutto del Sud. Fu, infatti, l’epoca della grande emigrazione, verso il Nord e verso l’estero. Ma la sinistra commise un grave errore di valutazione (dovuto a un limite ideologico che il marxismo novecentesco non ha mai superato: ossia a convinzione che il capitalismo, per i suoi vizi intrinseci, non avesse la possibilità di promuovere il pieno sviluppo delle forze produttive) interpretando quel che stava accadendo come restaurazione e immobilismo e non vedendo la dinamica che, invece, si era posta in atto. Di qui il brusco risveglio, dopo il 1955, di fronte alle sconfitte sindacali nelle fabbriche determinate, il larga misura, dai processi di ristrutturazione o di riorganizzazione produttiva.

Ma questo è un discorso che va molto al di là di quel che qui mi proponevo. Ossia sottolineare che l’intervento pubblico in campo sociale ed economico - sia a fini di temperamento dei conflitti sociali sia allo scopo, soprattutto, di creare le condizioni per lo sviluppo – fu una caratteristica essenziale della politica dei governi presieduti da De Gasperi. Anche questo fatto differenzia sostanzialmente quella politica da quelle, del tutto regressiva, posta in atto dall’attuale governo di centro-destra.

[1] Alcune delle informazioni, particolarmente quelle di carattere più strettamente biografiche, contenute in questo scritto, sono state parzialmente anticipate, in forma più succinta, in due articoli pubblicati sul Manifesto del 12 maggio e sull’Unità del 18 agosto scorsi.

[2] Va ricordato che Gedda era allora particolarmente forte non solo perché disponeva di autorevoli appoggi in Vaticano (in certa misura dello stesso Pontefice), ma perché aveva guidato i Comitati Civici, che avevano avuto un peso determinante nella campagna elettorale del 18 aprile ’48 e perché era Presidente dell’Azione Cattolica, che aveva allora molti più iscritti della democrazia cristiana.

[3] Il ritorno d De Gasperi alla segreteria della DC, in sostituzione di Gonella, avvenne nel Consiglio nazionale del 26-29 settembre 1953. E’ da notare che in quell’occasione, mentre Gonella espresse un pieno appoggio a Pella, De Gasperi manifestò non poche riserve verso le scelte sia di politica interna sia di politica internazionale (la questione di Trieste, in particolare) del nuovo Presidente del Consiglio.

[4] In occasione di quella crisi Dossetti, che era vicesegretario del partito, cercò di forzare la situazione chiedendo una svolta nella politica economica del governo, e a tale scopo la sostituzione di Pella, che era deciso fautore di una politica di stampo liberista, con un ministro della corrente di “Cronache Sociale”. Ma mentre questo scontro politico era in corso, Fanfani avviò una trattativa riservata con De Gasperi, in base alla quale entrarono ne governo sia lui sia Vanoni, ma restava anche Pella e non veniva data alcuna seria garanzia di nuove scelte in materia economica. Dossetti vide in quella vicenda una conferma della convinzione, che era in lui maturata, circa l’impossibilità di ottenere dalla DC una politica più avanzata e riformatrice. Ciò lo indusse ad accelerare la decisione del ritiro dalla politica, che fu da lui annunciato in due convegni tenuti al castello di Rossena, sull’Appennino emiliano, fra l’agosto e il settembre 1951.

[5] Palmiro Togliatti – Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi in “Rinascita” num. 10, 11, 12 del 1955 e num. 3, 5, 6 del 1956. Questo lungo saggio di Togliatti non riscosse particolare interesse né all’epoca né dopo. Ciò dipese probabilmente per due fattori: per il suo carattere eminentemente dottrinario, poco accattivante; e perché ormai venivano alla ribalta altri avvenimenti. Fra l’altro è degli inizi del ’56 il famoso rapporto Krusciov all’VIII Congresso del PCUS sugli errori e sui crimini di Stalin. Riletto a distanza di quasi 50 anni quel saggio presenta invece notevole interesse. Non solo per l’analisi minuziosa che Togliatti compie sia degli scritti di De Gasperi intorno al pensiero sociale cattolico sia delle sue fonti. Ma anche per le valutazioni più strettamente politiche. Al riguardo, pur esprimendo un giudizio nettamente negativo sull’anticomunismo di De Gasperi e sulle conseguenze antipopolari della sua politica (fra i due uomini, fra l’altro, c’era un’evidente antipatia) Togliatti sottolinea a più riprese il sincero antifascismo del leader democristiano: e gli dà atto, anche, di aver dimostrato “di voler restar fedele alle regole democratiche” respingendo in più di un’occasione la proposta di misure eccezionali anticomuniste. Più pesante è il giudizio nella politica economica di De Gasperi: accettando la logica dei due tempi (prima il risanamento e poi le riforme) avrebbe in sostanza giustificato e teorizzato una scelta di immobilismo.

[6]Racconta infatti Corghi “De Gasperi mi aveva invitato a costituire col più giovane consigliere Giuseppe Chiarante e col rappresentante della Valle d’Aosta il seggio elettorale per l’elezione dei membri della Direzione. Mentre si scrutinavano le schede …. De Gasperi dopo avermi fatto notare la giovane età di Chiarante (che portava una maglietta estiva distinguendosi nettamente anche per l’abbigliamento dagli altri consiglieri) mi chiede: Che ne pensi se incontrassi questi giovani consiglieri? … Vedi penso sia cosa utile che il vecchio presidente racconti la sua storia, ma non qui, a Roma: a Sella sotto i pini. Bisogna parlare insieme, perché la storia continua, giovani e vecchi come me, insieme”. Più sinteticamente, la sorpresa di De Gasperi perché “parecchi consiglieri, giovanissimi, gli erano sconosciuti” e la sua decisione di conoscerli individualmente dopo un periodo di riposo estivo, sono ricordati anche da Giulio Andreotti nel libro “De Gasperi e il suo tempo”, edito da Mondatori nel 1974.

[7] Corrado Corghi, ibidem

[8] Anche Togliatti, nel saggio già citato, sottolinea che a differenza di Sturzo, che rientrava dall’esilio negli Stati Uniti riportando “dal nuovo continente un orientamento nettamente liberistico e di piena fiducia nel regime capitalistico”, De Gasperi si presenta sulla scena politica, nel ’44-45, con posizioni che non escludono “misure di socializzazione”. Più limpida e più avanzata gli pare però la posizione di Dossetti e del gruppo di “Cronache Sociali”.

Una biografia di De Gasperi

Ovunque venga sepolto al momento del trapasso, verrà il giorno in cui i suoi resti saranno trasferiti da un governo palestinese libero nei luoghi sacri di Gerusalemme. Yasser Arafat fa parte della generazione dei grandi leader sorti dopo la seconda guerra mondiale.

La statura di un leader non è determinata semplicemente dalle dimensioni dei risultati raggiunti, ma anche dalle dimensioni degli ostacoli che ha dovuto superare. Sotto questo aspetto, Arafat non ha rivali al mondo: nessun altro leader della nostra generazione è stato chiamato ad affrontare delle prove così crudeli, e a lottare contro tali avversità.

Quando apparve sul palcoscenico della storia, alla fine degli anni `50, il suo popolo era prossimo ad essere dimenticato. Il nome Palestina era stato sradicato dalla carta geografica. Israele, la Giordania e l'Egitto si erano divisi il paese tra di loro. Il mondo aveva deciso che non c'era nessuna entità nazionale palestinese, che il popolo palestinese aveva cessato di esistere come le nazioni degli indiani d'America - ammesso che fosse esistito davvero.

La palla tra i regimi arabi

All'interno del mondo arabo la «causa palestinese» veniva ancora citata, ma serviva solo come palla da rimpallare tra i regimi arabi. Ciascuno di essi cercava di appropriarsene per i suoi interessi egoistici soffocando brutalmente, allo stesso tempo, qualsiasi iniziativa palestinese indipendente. Quasi tutti i palestinesi vivevano sotto delle dittature e, nella maggior parte dei casi, in circostanze umilianti.

Quando Yasser Arafat, all'epoca un giovane ingegnere in Kuwait, fondò il «Movimento per la liberazione della Palestina» (le cui iniziali alla rovescia formavano il nome Fatah), egli intendeva prima di tutto la liberazione dai vari leader arabi, così da mettere in grado il popolo palestinese di parlare e agire autonomamente. Questa fu la prima rivoluzione dell'uomo che, nel corso della sua vita, ha realizzato almeno tre grandi rivoluzioni.

Era una rivoluzione pericolosa. Fatah non aveva una base indipendente. Doveva funzionare nei paesi arabi, spesso subendo persecuzioni spietate. Un giorno, ad esempio, l'intera leadership del movimento, compreso Arafat, fu gettata in prigione dal dittatore siriano del giorno, dopo avere disobbedito ai suoi ordini. Solo Umm Nidal, la moglie di Abu Nidal, restò libera e così fu lei ad assumere il comando dei combattenti. Quegli anni ebbero una influenza formativa sullo stile caratteristico di Arafat. Egli doveva destreggiarsi tra i leader arabi, metterli l'uno contro l'altro, ricorrere a trucchi, mezze verità e discorsi ambigui, sfuggire alle trappole e aggirare gli ostacoli. Diventò un campione mondiale di manipolazione. Così salvò il movimento di liberazione da molti pericoli nei giorni della sua debolezza, finché esso non poté diventare una forza potente.

L'emergente forza palestinese indipendente preoccupò Gamal Abd-al-Nasser, il capo egiziano che all'epoca era l'eroe dell'intero mondo arabo. Per soffocarla in tempo, egli creò l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e mise alla sua testa un mercenario politico palestinese, Ahmed Shukeiri. Ma dopo la vergognosa disfatta degli eserciti arabi nel 1967 e l'elettrizzante vittoria dei combattenti di Fatah contro l'esercito israeliano nella battaglia di Karameh (marzo 1968), Fatah prese il controllo dell'Olp e Arafat diventò il leader indiscusso dell'intera lotta palestinese.

A metà degli anni `60, Yasser Arafat cominciò la sua seconda rivoluzione: la lotta armata contro Israele. La pretesa era quasi ridicola: una manciata di guerriglieri male armati, non molto efficienti in questo, contro la potenza dell'esercito israeliano. E non in un paese di giungle impenetrabili e catene montuose, ma in un fazzoletto di terra piccolo, piatto, densamente popolato. Ma questa lotta impose la causa palestinese all'agenda mondiale. Va detto francamente: senza gli attacchi omicidi, il mondo non avrebbe prestato attenzione alla domanda di libertà dei palestinesi.

Il risultato fu che l'Olp fu riconosciuto come il «solo rappresentante del popolo palestinese», e trent'anni fa Yasser Arafat fu invitato a tenere il suo storico discorso all'assemblea generale dell'Onu: «in una mano ho un fucile, nell'altra un ramo di ulivo».

Per Arafat, la lotta armata era semplicemente un mezzo, nient'altro. Non un'ideologia, non un fine in se stesso. Gli era chiaro che questo strumento avrebbe rinvigorito il popolo palestinese e conquistato il riconoscimento del mondo, ma non avrebbe sconfitto Israele.

La guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 causò un'altra svolta del suo atteggiamento. Egli vide come gli eserciti dell'Egitto e della Siria, dopo una brillante vittoria iniziale ottenuta grazie alla sorpresa, erano stati fermati e, alla fine, sconfitti dall'esercito israeliano. Questo lo convinse infine che non era possibile avere la meglio su Israele con la forza delle armi.

Perciò, immediatamente dopo quella guerra, Arafat cominciò la sua terza rivoluzione. Decise che l'Olp doveva arrivare a un accordo con Israele e accontentarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Due passi avanti, uno indietro

Questo lo mise di fronte a una sfida storica: convincere il popolo palestinese a rinunciare alla sua posizione storica di negazione della legittimità dello stato di Israele, e ad accontentarsi di un mero 22% del territorio della Palestina anteriore al 1948. Senza che fosse dichiarato esplicitamente, era chiaro che questo comportava anche la rinuncia al ritorno illimitato dei profughi nel territorio di Israele.

Arafat cominciò a lavorare a questo obbiettivo nel suo modo caratteristico, con tenacia, pazienza e stratagemmi, due passi avanti, uno indietro. Quanto immensa sia stata questa rivoluzione, lo si può vedere da un libro pubblicato dall'Olp nel 1970 a Beirut, che attaccava violentemente la soluzione con due stati (chiamata «il piano Avnery», perché io ero all'epoca il suo principale promotore.)

Giustizia storica vuole che si affermi chiaramente che fu Arafat a pensare l'accordo di Oslo, in un'epoca in cui Yitzhak Rabin e Simon Peres puntavano ancora sull'irrealizzabile «opzione giordana», cioè l'idea che si potesse ignorare il popolo palestinese e restituire la Cisgiordania alla Giordania. Dei tre premi Nobel per la pace, Arafat è quello che lo ha meritato di più.

A partire dal 1974, sono stato testimone dell'immenso sforzo messo in campo da Arafat per far accettare al suo popolo il suo nuovo approccio. Passo dopo passo, esso fu adottato al Consiglio nazionale palestinese, il parlamento in esilio, dapprima con una risoluzione che stabiliva di istituire una autorità palestinese «in ogni parte della Palestina liberata da Israele», e, nel 1988, con la decisione di istituire uno stato palestinese vicino a Israele.

La tragedia di Arafat (e nostra) è stata che ogni qual volta si avvicinava a una soluzione di pace, i governi israeliani si tiravano indietro. I termini minimi di Arafat erano chiari e sono rimasti immodificati dal 1974 in poi: uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; la sovranità palestinese su Gerusalemme Est (compreso il Monte del Tempio ma escluso il Muro Occidentale e il quartiere ebraico); il ripristino del confine anteriore al 1967 con la possibilità di scambi limitati ed equivalenti di territorio; l'evacuazione di tutti gli insediamenti israeliani nel territorio palestinese e la soluzione del problema dei profughi d'accordo con Israele. Per i palestinesi questo è assolutamente il minimo, non possono fare rinunce ancora maggiori.

Il partner Yitzhak Rabin

Forse Yitzhak Rabin si avvicinò a questa soluzione verso la fine della sua vita, quando dichiarò in tv «Arafat è il mio partner». Tutti i suoi successori l'hanno rifiutata. Essi non sono stati disposti a rinunciare agli insediamenti ma, al contrario, li hanno allargati incessantemente. Hanno resistito a ogni tentativo di fissare un confine definitivo, poiché il loro tipo di sionismo richiede un'espansione perpetua.

Perciò essi vedevano in Arafat un pericoloso nemico e hanno cercato di distruggerlo con tutti i mezzi, ivi compresa una campagna di demonizzazione senza precedenti. Così Golda Meir («non esiste un popolo palestinese»). Così Menachem Begin («un animale con due zampe, l'uomo con i peli in faccia, l'Hitler palestinese», così Binyamin Netanyahu, così Ehud Barak («gli ho strappato la maschera dalla faccia»), così Ariel Sharon, che tentò di ucciderlo a Beirut e da allora ci ha sempre riprovato.

Nell'ultimo mezzo secolo, nessun combattente per la libertà si è trovato di fronte degli ostacoli così immensi come i suoi. Egli non ha dovuto confrontarsi con un odioso potere coloniale o una invisa minoranza razzista, ma con uno stato nato dopo l'Olocausto e sostenuto dalla simpatia e dai sensi di colpa del mondo. Da tutti i punti di vista militari, economici e tecnologici, la società israeliana è molto più forte di quella palestinese. Quando gli è stato chiesto di istituire l'Autorità palestinese, Arafat non ha preso il comando di uno stato esistente e funzionante, come Nelson Mandela o Fidel Castro, ma di pezzi di terra scollegati e impoveriti, le cui infrastrutture erano state distrutte da decenni di occupazione. Egli non ha preso il comando su una popolazione che vivesse sulla sua terra, ma su un popolo composto per una metà dai profughi dispersi in molti paesi e per l'altra metà da una società fratturata lungo direttrici politiche, economiche e religiose. Tutto questo, mentre la battaglia per la liberazione va avanti.

Avere tenuto insieme questo pacchetto e averlo guidato verso la sua destinazione in queste condizioni, passo dopo passo, è il risultato storico di Yasser Arafat.

«Lui è andato avanti»

I grandi uomini hanno grandi colpe. Una colpa di Arafat è la sua inclinazione a prendere da solo tutte le decisioni, specialmente da quando tutti i suoi collaboratori più stretti sono stati uccisi. Come ha detto uno dei suoi critici più severi: «Non è colpa sua. Siamo noi da biasimare. Per decenni è stata nostra abitudine scappare da tutte le decisioni difficili, che richiedevano coraggio e audacia. Dicevamo sempre: facciamo decidere Arafat!». E lui decideva. Come un vero leader, è andato avanti e il suo popolo lo ha seguito. Così ha affrontato i leader arabi, così ha iniziato la lotta armata, così ha teso la mano a Israele. Per il suo coraggio si è guadagnato la fiducia, l'ammirazione e l'amore del suo popolo, al di là delle critiche.

Se Arafat dovesse morire, Israele perderà un grande nemico, che sarebbe potuto diventare un grande partner e alleato. Con il passare degli anni, la sua statura crescerà sempre di più nella memoria storica. Per quanto mi riguarda: lo rispettavo come patriota palestinese, lo ammiravo per il suo coraggio, capivo le costrizioni con cui lavorava, vedevo in lui il partner per costruire un nuovo futuro per i nostri due popoli. Ero suo amico.

Come dice Amleto di suo padre: «Egli era un uomo, preso tutto insieme, di cui non vedrò un'altra volta l'uguale».

Traduzione di Marina Impallomeni

Chi è Uri Avnery

Lasciando l'ultima delle sue sette vite così, in punta dei piedi e per di più in esilio, Yasser Arafat ha fatto ancora una volta la cosa giusta per il popolo palestinese. La sua presenza nella prigione della Muqata a Ramallah aveva negli ultimi anni rappresentato, che lui lo volesse o no, un ostacolo per ogni tentativo di pace con Israele. E soprattutto aveva impedito l'emergere di una nuova classe dirigente palestinese: finché il raìs era ancora vivo, l'unico vero capo era lui. Gli uomini del suo entourage non nascondevano il disagio per questa situazione, ma poco potevano fare. Per il suo popolo, anche per i palestinesi schierati con leader e organizzazioni diverse dalle sue, lui era un'icona della causa tanto potente che definirlo mr. Palestine, come facevano gli anglosassoni, appariva quasi inadeguato al ruolo quasi sacrale che in sessanta dei suoi settantacinque anni di vita era riuscito a conquistarsi fra la sua gente e fra la gente dei paesi arabi, compresi quelli i cui governi non lo amavano, anzi lo temevano e lo pagavano senza troppe chiacchiere per tenerlo il più possibile lontano.

Arafat, non dimentichiamolo, è stato l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo: non sembra giusto che se ne vada senza avere avuto il bene di vederlo nascere compiutamente. E tuttavia se lo Stato di Palestina nascerà davvero, questo si dovrà in parte al fatto che lui non ci sia più, che la sua bandiera sia stata ammainata per sempre. Nel 2002, di fronte all'inviato del Washington Post, aveva recitato compunto la sua preghiera: «Per favore, Signore Dio, lasciami l'onore di essere uno dei martiri per la santa Gerusalemme». Allah non lo ha accontentato. Ma è giusto che il suo popolo lo consideri comunque un martire della causa palestinese perché in effetti questo è sempre stato, nel bene come nel male.

Non è un caso se il suo arcinemico israeliano, Sharon, non vuole che venga sepolto a Gerusalemme. Durante una polemica di molti anni fa, a chi sosteneva che egli era nato il 24 agosto del 1929 al Cairo, lui replicava con estremo vigore di essere nato proprio quel giorno lì, ma a Gerusalemme. Tutto ciò aveva molto senso per lui perché durante tutta la sua vita ha gridato che Gerusalemme doveva essere la capitale dello Stato palestinese, magari una capitale in condominio con gli israeliani, ma comunque la capitale. «Chiunque rinuncia ad un solo metro di Gerusalemme non è né un arabo né un musulmano», aveva tuonato ancora nel 1993, aumentando l'irritazione di Sharon e di tanti israeliani nei suoi confronti.

Dove che sia nato, Arafat viene -questo è accertato- da una cospicua famiglia di commercianti di Gerusalemme. A quattro anni perde la madre, a 15 il padre lo manda a studiare nel cuore della cultura araba, cioè al Cairo. Nella capitale egiziana a quei tempi emergevano molti fermenti, da quelli panarabi che in seguito Gamal Abdel Nasser avrebbe predicato con successo, ma anche dal nascente integralismo religioso incarnato allora dai «Fratelli musulmani». Arafat assorbe tutto, ma il suo pensiero dominante va alla Palestina. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la sua famiglia aveva dovuto trovare rifugio a Gaza. Lui studia ingegneria (riuscirà anche a laurearsi) ma quando nel 1956 scoppia la crisi di Suez fa parte con le brigate palestinesi dell'esercito egiziano, col grado di sottotenente. Nello stesso anno fonda al Fatah, l'organizzazione che resterà «sua» per i molti anni a venire, comincia a svolgere azione clandestina, gli egiziani, per niente grati dei suoi trascorsi militari, lo mettono in galera. Ci resta poco, poi si trasferisce in Kuwait, dove trova il fantasma dell'Olp, un'organizzazione nelle mani dei paesi arabi e di vecchi militanti ormai a riposo. Lui e altri capi palestinesi più radicali di lui come Mayef Hawatmeh e George Habbash partecipano alla guerra dei sei giorni. Quella guerra fu persa, ma la sconfitta permise ad Abu Ammar -così si chiamava allora Arafat- e agli altri duri di prendersi l'Olp. Così Arafat ne diventa presidente nel '69, una carica che manterrà continuamente nel corso degli anni, nonostante il fatto che le sue scelte siano state spesso contestate, anche vivacemente, da una parte dei suoi seguaci. Lo hanno rimproverato i politici più maturi per l'adesione al terrorismo che lo accomuna agli altri due «giovani leoni».

Dal ‘67 in poi sono anni brutti. Israele occupa la Cigiordania palestinese e la striscia di Gaza, lasciando intendere che mai restituirà quei territori. Il ricorso al mitra, ai sequestri, ai dirottamenti aerei sembra a molti palestinesi inevitabile. Probabilmente per non venire scavalcato dalla sua sinistra Abu Ammar si associa a quella politica, ma non la condivide fino in fondo. Il passato terrorista gli resterà comunque incollato addosso per tutta la vita, e vanamente lui cercherà di scrollarselo dalle spalle. Nel 1970 proclama ancora una volta al Washington Post: «L'obbiettivo della nostra lotta è la fine di Israele, e su questo non possono esserci compromessi». Questa linea gli lascia aperti i rapporti con i paesi arabi, che nel 1974 a Rabat definiscono l'Olp come «unico rappresentante del popolo palestinese» ma lo fa apparire sotto una luce sinistra in Occidente. Arafat lo sa benissimo e lavora per portare a piccoli passi la sua organizzazione lontano da una tale sciagurata deriva. Pochi gli credono ma alla fine lui otterrà dalla sua gente che la clausola statutaria dell'Olp che prevedeva come prima cosa l'eliminazione dello stato ebraico venga ritirata e sostituita da un implicito riconoscimento di Israele. Da lì spiccherà il volo per un negoziato duro che passerà da Madrid e da Oslo per approdare a Washington nel '94 quando stringerà la mano di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, accomunati nello stesso anno dal Nobel per la Pace.

Ma mentre a livello politico si svolgono negoziati e intrallazzi, Arafat assume in qualche modo l'immagine del pastore dei suoi connazionali. Durante il famoso settembre nero del 1970, quando re Hussein di Giordania decide di chiudere i conti con gli esuli palestinesi divenuti troppo ingombranti prendendoli a cannonate, Arafat è con loro, fugge da Amman vestito da donna. La dirigenza dell'Olp si trasferisce temporaneamente a Tunisi. Implacabili come sempre i caccia israeliani andranno a bombardare anche quegli edifici, nella speranza di colpire in primo luogo Arafat. Ma l'uomo ha veramente sette vite, sopravvive, si trasferisce con la sua gente in Libano, dove i profughi palestinesi mettono in crisi il precario equilibrio politico del paese e vengono ricompensati nel 1976 col massacro di Tel at Zatar dove i falangisti (il braccio militare dei cristiani maroniti), con la complicità dei falsi amici siriani e perfino del gruppo dissidente palestinese di As Saiqa, sparano senza ritegno sui profughi, donne e bambini compresi. Arafat scampa a questo massacro come era scampato nel '73 ad una bomba esplosa nel suo ufficio che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Quando i palestinesi cominciano ad allargarsi troppo nel Libano (e Arafat non li dissuade, anzi) Ariel Sharon trova nel 1982 il giusto pretesto per scavalcare le frontiere libanesi arrivando fino a Beirut ed oltre e macchiandosi, ancora con la complicità dei falangisti, degli orrendi massacri di Sabra e Shatila. Ma Sharon cerca lui, l'uomo diventato per il vecchio generale un'idea fissa. Si racconta che il 30 agosto uno dei tiratori scelti israeliani riesca ad inquadrare Arafat nel suo mirino. Sharon, chissà poi perché, non dà l'ordine di fare fuoco.

Certamente Allah, pur non essendo Arafat uno scaccino, ha per lui una certa simpatia. Come si spiega altrimenti che due attentati contro di lui falliscano, poi gli succeda di cappottare in macchina sulla via di Bagdad uscendone senza un graffio, sia addirittura l'unico superstite di un incidente che carbonizza il suo aereo. E quando nel 1994 ritorna in Palestina come capo dell'Autorità Nazionale palestinese, la sua vita si fa sempre più difficile. Ai tradizionali avversari come Mayef Hawatmeh o George Habbash si aggiungono i gruppi dissidenti di Abu Nidal e Ahmed Jibril, entrambi finanziati dalla Siria che non vede di buon occhio la nascita di uno stato palestinese organizzato democraticamente ai suoi confini. Poi ci sono gli integralisti di Hamas, coi quali Arafat riesce però a mantenere aperto un canale di comunicazione, e gli altri gruppi jihadisti che si votano al martirio kamikaze. Abu Ammar da una parte li tira per la giacchetta, dall'altra sfrutta politicamente con gli israeliani il terrore che essi provocano e del quale, va detto, lui non è responsabile. Di altre cose sono responsabili lui in prima persona e tutto il suo entourage. I soldi che continuano ad arrivare come sempre dai regimi arabi sotto botta vengono amministrati in maniera clientelare, molti militanti diventano imprenditori e affaristi, il raìs lascia fare convinto che tutto questo non conti poi molto. E invece conta soprattutto a Gaza, dove Hamas, oltre che spedire kamikaze in Israele, intraprende tutto un lavoro di bonifica sociale e di solidarietà che riluce in contrasto con le miserie dei territori amministrati esclusivamente dall'Autorità Nazionale.

E poi non mancano gli errori politici più evidenti, come l'appoggio dato a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, il Desert storm, quando contro il tiranno di Baghdad sono schierati non solo gli Stati Uniti ma anche qualcuno fra gli interlocutori privilegiati della diplomazia di Arafat come la Comunità europea e molti stati moderati. Il presidente palestinese non è contento dell'iniziativa irachena di invadere il Kuwait, visto che la violazione della sovranità territoriale è proprio quello di cui i dirigenti palestinesi accusano da sempre Israele,in più sa di essere inviso a Saddam al quale si deve fra l'altro l'uccisione di Abu Iyad, uno dei suoi principali collaboratori. Ma su ogni ragionamento politico prevale in lui il vecchio capopopolo, i campi profughi palestinesi sono pieni di ritratti di Saddam Hussein, le «sue» masse stanno tutte con l'uomo di Baghdad e Arafat non riesce a tirarsi indietro. Tutto questo gli costerà in termini di credibilità e di autorevolezza, ma Allah gli vuole bene, l'errore viene dimenticato presto, soffocato dai clamori dell'Intifada che Arafat sponsorizza quasi in pieno.

Come a riscattare il suo errore, un anno dopo Desert storm sposa una palestinese cristiana, Suha Tawil, e ne fa nascere la figlia a Parigi, fra i brontolii degli ulema. Gli stessi brontolii che hanno accompagnato la sua decisione di curarsi all'ospedale di Percy, dove è morto lontano dalla sua Palestina. E dopo aver vissuto sette vite spera che almeno gli consentano di riposare per sempre in un fazzoletto di terra piccolo, quanto basta a venire coperto dalla sua kefiah, un simbolo che per più di mezzo secolo ha saputo portare sempre con dignità e perfino con una qualche ironìa.

È possibile, a quarant’anni dalla morte, formulare un giudizio equilibrato su Palmiro Togliatti, o almeno sul Togliatti «italiano» del periodo 1944-64? E può tentarlo, questo giudizio, il segretario di un partito nato sulle ceneri del vecchio Pci? Piero Fassino pensa di sì. Ma a due condizioni. «La prima: non piegare la valutazione storica alle contingenze della politica attuale. La seconda: guardarsi dalla tentazione di rimuovere, perché nessuna nazione e nessun partito possono avere un futuro se recidono le proprie radici».



Cosa rappresenta Togliatti per la democrazia italiana?

«Come De Gasperi, Nenni, Saragat e La Malfa, Togliatti è stato un padre della Repubblica. La svolta di Salerno ha cementato l’unità antifascista, decisiva per la scelta repubblicana e la Costituzione. Il sì all’articolo 7 ha posto le basi per superare una contrapposizione ideologica fortissima in un Paese segnato dalla questione cattolica, l’amnistia ai repubblichini ha contribuito a voltare pagina e andare oltre...».

È d’accordo con chi sostiene che il comunista Togliatti è riuscito dove avevano fallito i socialisti, a costituzionalizzare un movimento operaio intriso, ben prima del ’21, di sovversivismo e di estremismo?

«Sì. E direi anche che, in qualche modo, Togliatti ha ripreso il grande disegno di Turati e Giolitti, spezzato dalla prima guerra mondiale e dal fascismo. E alla tradizione riformista Togliatti si è rifatto, in alcuni casi anche esplicitamente, nella lotta politica condotta all’interno stesso del Pci nel ’45 contro chi voleva "fare come in Grecia"».



In questo senso, si potrebbe anche dire che Togliatti è stato un rifondatore. Forse l’unico nella storia del Pci.

«Forse, considerando il suo tempo, è stato anche qualcosa di più, il fondatore di una sinistra nuova nella storia nazionale. Il suo Pci, il "partito nuovo", non è più quello della clandestinità e della cospirazione. È un partito di massa, radicato in una società che si sforza di interpretare e di rappresentare. È un partito che diventa rapidamente il punto di riferimento di una parte grandissima dell’intellettualità. E non è un partito ideologico. Il primo volume pubblicato dagli Editori Riuniti non è Il Capitale di Marx ma il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Prefato da Togliatti».



Non teme che le piovano addosso accuse di continuismo, o addirittura di apologia per un leader comunista che è stato tra i principali collaboratori di Stalin?

«Quello che sto dicendo su Togliatti lo potrei dire, in ambiti diversi, per tutti gli altri padri fondatori della Repubblica, a cominciare da De Gasperi. Ciascuno di loro, all’indomani della guerra, ha ricostruito la propria parte politica con l’ambizione di darle una funzione nazionale, e sapendo bene che in nessun modo sarebbe bastato rifarsi alle esperienze e alle identità dell’Italia prefascista. Anche per questo tutti i partiti democratici, che sono stati grandi scuole di formazione delle classi dirigenti, hanno contribuito in misura determinante a incivilire l’Italia».



A differenza dagli altri padri fondatori, Togliatti fu, e si considerò sino ai suoi ultimi giorni, un autorevolissimo dirigente del movimento comunista internazionale. E le sue scelte, e le sue svolte, non erano affatto in contraddizione con la strategia di Stalin e dell’Urss.

«Sì, il Togliatti "italiano" coesisteva con il Togliatti esponente di primo piano del comunismo internazionale. Ma proprio questa contraddittoria coesistenza precluse al Pci la possibilità di essere una credibile alternativa di governo. Togliatti cercò di limitarne i danni: la teoria dell’"unità nella diversità" e del policentrismo, elaborata a cominciare dal ’56, vanno lette anche in questa chiave...».



Il ’56 è l’anno del XX Congresso, e della denuncia, da parte di Krusciov, dei crimini di Stalin: ma Togliatti non apprezzava affatto né Krusciov né la destalinizzazione. Il ’56 è anche l’anno della sanguinosa repressione della rivoluzione ungherese: ma Togliatti apprezzò, anzi, a dire il vero, invocò, il secondo intervento dell’Armata Rossa a Budapest.

«È verissimo, la diffidenza verso Krusciov e la destalinizzazione, e l’atteggiamento sull’Ungheria, sono una terribile e incancellabile responsabilità di Togliatti. In realtà è solo dopo la rottura tra i sovietici e i cinesi, tra il ’62 e il ’64, nei suoi ultimi anni di vita, che Togliatti pone con più forza, come dimostra il Memoriale di Yalta, la questione dell’autonomia. Non bastava davvero. Il tentativo fallì definitivamente nel ’68, con la "normalizzazione" della Cecoslovacchia di Dubcek e la teoria brezneviana della "sovranità limitata". Fu allora che Longo, con la condanna dell’intervento, superò di fatto l’"unità nella diversità". E iniziò un cammino che avrebbe portato il Pci prima all’eurocomunismo, poi allo "strappo" di Berlinguer con Mosca, nell’81, e infine, alla svolta di Occhetto».



Riconoscerà che 21 anni sono molti, per prendere atto dell’irriformabilità di un sistema resa evidente già dalla repressione del tentativo di «riforma dall’interno» di Dubcek.

«È vero, il cammino è stato troppo lento. La svolta avremmo potuto farla già nel ’70, di fronte alla prima crisi polacca; alla fine di quel decennio, di fronte all’intervento sovietico in Afghanistan; nell’81, di fronte al golpe militare a Varsavia. Di volta in volta, Berlinguer accentuò la durezza delle critiche, ma non le portò alle estreme conseguenze, nella speranza che, in un mondo meno segnato dalla guerra fredda, quelle critiche potessero aiutare, a Est, le forze più riformatrici».



Non crede, dunque, che sia stata determinante la preoccupazione per la reazione di militanti e simpatizzanti ancora molto legati al mito dell’Urss?

«Una preoccupazione di questo tipo la nutriva già Togliatti, che pure con l’Urss non intendeva affatto rompere: e infatti cercò costantemente di far sì che nessuna novità della sua politica potesse essere vissuta da una parte importante del partito come uno smarrimento di identità. Berlinguer non poteva e non voleva tornare all’antico. L’eurocomunismo, l’intervista sulla Nato, il voto unitario sulla mozione di politica estera di tutti i partiti dell’arco costituzionale: tutto questo appartiene agli anni della solidarietà nazionale. E tuttavia anche Berlinguer è frenato dalla paura di smarrire le radici. Quando denuncia l’"esaurimento della spinta propulsiva" del modello sovietico, il compromesso storico è già entrato in crisi, e la politica del Pci si indurisce anche per rassicurare il partito: l’ulteriore presa di distanze da Mosca non comporta "cedimenti" in Italia».



E siamo alla «svolta di Occhetto». Che avviene un minuto dopo la caduta del Muro, non un minuto prima.

«Ma era in incubazione dall’autunno dell’88. E, se fossimo stati meno autoreferenziali, e più capaci di metterci in sintonia con i tempi della storia e della politica, avremmo potuto farla sei mesi prima, dopo Tien An Men. Ciò non toglie che si trattò di una rottura di continuità vera: così vera che una minoranza importante del Pci non la condivise, e ci fu una scissione. Non cambiammo solo il nome. Mutò la forma del partito, con l’abbandono del centralismo democratico. Mutò, con l’adesione all’Internazionale socialista, la sua collocazione internazionale. Non sapemmo, è vero, indicare con nettezza l’approdo socialdemocratico cui doveva giungere il nostro lungo percorso: lo abbiamo fatto negli anni successivi».



E di Togliatti, cosa resta?

«Viviamo in un’epoca, in un mondo e in un’Italia del tutto diversi, è quasi inutile dirlo. Ma una lezione, di sostanza, non di metodo, resta viva. E cioè l’idea che un partito non si fonda sull’ideologia, ma sulla sua capacità di mettere radici nella società, e di esercitare una funzione nazionale. Al governo come all’opposizione. Nel ’44 Togliatti lavorò per una sinistra capace di concorrere alla costruzione della democrazia, e si inventò per questo un partito nuovo. Oggi, in tempi di bipolarismo, al più grande partito della sinistra spetta il compito decisivo di concorrere alla riorganizzazione del centrosinistra, creando, con la federazione dell’Ulivo, una forte guida riformista. Sarà il tema del nostro Congresso».

Una biografia di Palmiro Togliatti

Il quadro di Renato Guttuso

La meglio gioventù

Sono contento che ti sia molto piaciuto . Non ho ancora avuto l'occasione di vederlo ma da quando ho percepito il senso del film mi sono ripromesso che devo vederlo perché credo che possa essere il mio film.

Quando ho visto in un trailer parte della scena dei camion militari a Firenze vicino agli Uffizi nel novembre del '66, ho avvertito un brivido: non ero a Firenze allora, andai poi a Grosseto da miei nonni e lìvidi la rotta dell'Ombrone vicino all'Aurelia dopo il ponte Mussolini. Però feci apposta sega a scuola coscientemente (ero appena entrato in quarta ginnasio) poi con l'autorizzazione dei miei, per andare per 4/5 giorni di seguito dalla mattina alla sera, a pulire i libri che portavano a camionate dalla biblioteca nazionale di Firenze. Eravamo a centinaia di ragazzi e ragazze in uno edificio all'Eur. Si era in saloni immensi, impregnati di umido, odore di muffa e di gasolio, ad adagiare su banchi di legno migliaia di libri manoscritti corredati di splendide miniature; si sollevava con massima cura e cautela ogni pagina, servendoci di pinzette, cercando di separarle senza romperle o strapparle. Dentro c'era di tutto: fango, piscio, benzina, sigarette, pezzetti di vetro, schifezze di ogni genere. Si puliva con attenzione ogni pagina usando piccole spugne morbide imbevute di acqua, poi ogni pagina veniva asciugata con fogli di carta assorbente. Il lavoro veniva svolto a coppie; io quattordicenne facevo coppia con una bellissima ragazza del primo anno di lettere (una donna per me: me ne invaghii). Ogni volta che si finiva di pulirne uno, la sala scoppiava in un applauso. Non so se ti rendi conto del significato emblematico dell'applauso: applausi così non li ho mai più sentiti né con le orecchie né col cuore. Era molto toccante e commovente: giorni intensi e indimenticabili.

Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese. Ho più che qualche dubbio. Forse la scuola di allora, nonostante tutto, nonostante i sette in condotta, nonostante la giusta severità, nonostante le espulsioni se facevi il cretino (e io lo feci), nonostante fosse la scuola autoritaria dei padroni, anche questo era riuscita a farci capire: il rispetto della cultura nazionale. Purtroppo questo capitava solo in alcune scuole e solo per un parte della cultura nazionale, quella repubblicana e anti-fascista essendo al più e al meglio trattata alla fine dell'anno scolastico e in fretta facendo cenni di Levi, Calvino, Fenoglio e sempre che si avesse la fortuna di trovare un docente colto e sensibile, ma era già qualche cosa rispetto al vuoto di oggi. Magari proprio quella scuola autoritariadei padroni, oltre alla solida scuola di famiglia, mi ha insegnato a capire il senso dell'appartenenza alla res-pubblica. Io non so quanti di noi ragazzi riflettevano pulendo quei libri, ma molti ci si buttarono con slancio, con semplice idealità, senza chiedersi tanto il perché. Ci sentivamo che si doveva farlo, forse perché dentro, in fondo, si pensava semplicemente che fosse un nostro dovere civico e morale. Cominciò così, dal pulire quel fango fetente, quella lunga marcia che mai sarà compiuta da noi; così cominciò a prendere forma quella meglio gioventù che oggi, in parte, costituisce una fetta importante di quello che viene definito in maniera cretina, inadeguata e un po’ offensiva il "ceto medio riflessivo". Quei giovani uomini e donne che hanno gettato se stessi talvolta, che hanno comunque scelto di stare dalla parte dello Stato, a servizio di una collettività nazionale e che non si vergognano dell'idea di essere italiani, ma che anzi di questo modo di essere cittadini italiani sono fieri. Ed è questa quella Bella Italia che molti oltre il Brennero osservano con stupore e ammirano. E noi lo sappiamo e vorremmo che fosse così lo stile italiano di sempre. Altro che l'urlo assordante una volta ogni qualche anno intorno ad un pallone bianco tra i piedi di undici uomini vestiti in azzurro Savoia !

Chiedi: “Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese”. Ho paura di rispondere alla tua domanda, Stefano. Perché se la risposta è no, la colpa è anche nostra.(e.s.)

L’Italia, com’era

Edoardo ho una certezza. Che non si avrebbe oggi la stessa risposta, con la stessa forza. Io non mi sento affatto in colpa se le giovani generazioni di oggi non risultano così reattive e sensibili ai richiami del senso del dovere, della giustizia, dell'equità, del senso di appartenenza alla comunità nazionale e se a questo antepongono, nei comportamenti quotidiani e per la maggior parte di loro - da che mi pare di cogliere - spesso anti-valori. Forse voi all'università avete qualche cosa da chiedervi e lo sai. Non mi sento in colpa se il 51% degli italiani hanno votato Berlusconi.

Certo io ho avuto la grande fortuna di avere un padre che si è fatto colto e intellettuale; che da una famiglia di proletari semianalfabeti (nonno Modesto classe 1891 manovale delle FFSS e prima palafreniere a un soldo al giorno al deposito equino del Reale Esercito Italiano coi cavalli maremmani in mezzo alla malaria della piana del marais tra mare e Grosseto; nonna Maria contadina casalinga) già a sedici anni scriveva cose splendide, che era amico carissimo di Luciano Bianciardi, che da socialista combattè contro i fascisti prima della guerra, durante la guerra e nella lotta partigiana affianco ai contadini del Monte Amiata e della sua Maremma. Studiò alla facoltà di magistero a Roma, lavorando come un povero cristo, perché Modesto non aveva i soldi. Poi lo chiamarono alla guerra. Alla fine si fece il culo per lavorare.

Con mia madre andarono a lavorare per l'UNRA-CASAS alla Martella (ti dice nulla ?) assieme ai loro due piccoli figlioli. In quel borgo di contadini e contadine ignoranti organizzarono i capifamiglia ad occupare le terre. E fummo buttati fuori da li con il foglio di via dei Carabinieri. Papà fu cacciato dalla Rai dopo aver fatto bellissimi documentari sulla vita dei camionisti, sulle scuole inglesi e sull'inaugurazione dell'autostrada Milano-Bologna, perché non volle prendere la tessera della DC. Io ho fatto e faccio la mia parte e mio fratello pure (è stato anche in galera, seppure perpoco– assieme ad un altro ragazzo e ad un operaio edile furono incolpatidi blocco stardale e di resistenza a pubblico ufficiale: protestavano assieme ai genitori di una scuola media inferiore di una borgata di Roma per i tripli turni: quella gente voleva semplicemente avere servizi pubblici rispettosi dei loro diritti - e pure quando mio padre lavorava a Regina Coeli. Papà per estremo senso della giustizia non lo volle neppure vedere: non perché se ne vergognasse, ma solo perché voleva che avesse lo stesso identico trattamento degli altri cittadini carcerati.).

Mia madre è di altra origine: la piccola borghesia veneziana catto-fascista. Lasua famiglia di Venezia-Cannaregio è piena di medaglie di guerra, pure d'oro. Mio padre solo d'argento ma per la guerra di liberazione contro i nazi-fascisti. Mamma Elettra è stata sottotenente delle ausiliare della Repubblica di Salò; comandante di un reparto di repubblichine ad Alessandria venne imprigionata e come POW (Prisoner Of War) internata per un bel po’ in un campo di prigionia americano a Lucca. La guerra aveva fregato anche lei: era al primo anno di fisica quando si convinse che il basco repubblichino in testa era un gran cosa. Poi, dopo, comprese tutto e divenne mia madre: severa, onestissima, attaccata al dovere peggio di una vite saldata, grandissima lavoratrice, grandissima generosità sul lavoro, con Bollea al neuro-psichiatrico infantile e poi al tribunale dei minori con il fratello di Aldo Moro. La vedevo trascorre le ore di notte e le domeniche spessissimo a scrivere relazioni e relazioni. Era al quarto anno di psicologia quando morì atrocemente a 59 anni. Le mancavano due esami e la tesi.

Casa nostra era negli anni sessanta e settanta un porto di mare aperto a tutti e tutto. Gli studenti del CEPAS di Piazza Cavalieri di Malta, dove papà insegnò Storia dell'Assistenza Sociale in Europa per più di vent'anni, spesso erano la sera a cena da noi dopo riunioni interminabili con papà. C'era di tutto: eritrei, somali, campani, lucani, calabresi, siciliani. Poi c'erano gli Ossicini, i Lombardo-Radice, i Calogero, i Goffredo Fofi, i Cancrini, i compagni avvocati del Soccorso Rosso e tanti, tanti compagni di Lotta Continua, di Potere Operaio, del Manifesto, del PCI e del PSI. Io ero dentro quel porto, con mio fratello e i miei due maestri.

Non mi sento in colpa di nulla. Prenderei a calci nel culo quegli imbecilli di genitori, magari anche più giovani di me, che hanno prodotto figli così deboli; sparerei raffiche di mitra a quei ministri che hanno ridotto la scuola italiana a quella fogna oscena di ignoranza e inciviltà che è; attaccherei sai ben dove quei capi di governo che hanno ridotto la televisione pubblica così com'è. Non condivido il vizio di colpevolizzarsi di qualche cosa, sempre. Se Leopardi scrisse certe cose sugli italiani già il secolo scorso, scusa due secoli fa, pensi che ci siano ragioni per mutare quelle sue osservazioni ? Se mezza Italia ha votato per decenni per i fascisti, se ha votato per la DC per sessant'anni e poi per bananopoli, se gli italiani sono refrattari a mettersi la cintura di sicurezza in auto, se mezza Italia è abusiva, se ai giovani l'idea che accettare un comportamento illecito è giusto, di chi pensi che sia la responsabilità: della sinistra? Non abbiamo fatto abbastanza, immagino che tu dica. Di che mi devo sentire in colpa? Che Pinelli è stato ucciso, delle bombe di Stato, delle lotte sindacali per i diritti civili e sociali, che si era in migliaia in piazza, che si è fischiato all'università di Roma a Lama, che partecipavo alle riunioni dei Proletari in divisa quando facevo il militare, che le città italiane sono delle schifezze invivibili, che il mercato del lavoro è così com'è, che hanno sfasciato la sanità, che impediranno un futuro dignitosi agli anziani, che hanno rubato il domani ai giovani? Non scherziamo. Se colpa c'è a sinistra mi ci tiro fuori e non da ora perché la sinistra non ha fattosempre bene la sinistra. Se pensi che la colpa sia genericamente degli italiani adulti, non sono d'accordo. A mio padre rinfacciavo sempre che la colpa era di Togliatti, di loro in fondo, di non aver voluto fare quello che si doveva fare quando si poteva fare. Al termine della sua vita forse se ne stava convincendo

Italia oggiMercato del lavoro, flessibilità, controllo

E poi leggi ancora queste righe, le avevo scritte tempo addietro e avrei voluto inviartele quando è uscita la legge Biagi. Te le mando ora qui in appresso. È una storia a lieto fine e chi l'ha vissuta si è fatto il culo senza aiuti di papà e mammà.

Mi laureai nel marzo del 1980, un po’ in ritardo per vicende di ordinaria vita: prestai servizio militare e per gravi ragioni familiari: assistetti mia madre agonizzante, devastata dalle metastasi che le avevano mangiato ogni cosa. Per nove lunghi mesi ogni giorno in ospedale al Policlinico Gemelli, dalla mattina alle sette alla sera alle dieci. La mia pelle odorava di ospedale mentre mio padre e mio fratello si erano trasferiti in un altra città per il lavoro. Ci si passa tutti in quel tunnel senza fine; non so quanto bene faccia. A me non ha fatto bene.

Per caso in una di quelle uniche e strane circostanze della vita trovai lavoro. Trovai è il termine più appropriato, come quando uno trova cento lire per terra e le raccoglie. Il mio primo impiego pochi mesi dopo la laurea e proprio per la mia professione: una fortuna rara, unica.

Il comune era piccolo ma completamente distrutto, forse più ancora nell'animo delle persone rese aride e cattive dalla terribile vicenda. In verticale non c'era più nulla, solo una grande spianata bianca di calcinacci e polvere e qualche muro in piedi. Dall'altra parte un'altra spianata bianca ma densa di casette bianche tutte uguali.

Fu grande avere uno stipendio; potei iniziare a pensare a un futuro anche se il contratto era da precario, rinnovabile di anno in anno. Il lavoro era duro, impegnativo, concreto. Richiedeva flessibilità, adattamento, dedizione e cura particolare. La teoria, la disciplina erano lontano secoli dall’urgenza di fare e di fare bene. Fino ad allora la mia vita era stata un po’ caratterizzata da una certa mobilità territoriale. I luoghi nuovi non mi erano estranei, eppure in quel paesello non era facile avere i rapporti con le persone. Però mi piaceva il lavoro, era il mio, ci credevo e ci presi gusto ad essere utile per gli altri. Era bello vedere crescere le cose, dalle delibere, ai programmi, ai progetti, agli appalti, era un prendere corpo giorno dopo giorno. Ti sentivi responsabile. Molte sere restavo in comune per la giunta o il consiglio, senza straordinario retribuito ma solo per dedizione. Tornavo a casa a notte fonda contento dopo una pizza assieme alla giunta.

Mi ricorderò la sera di un consiglio comunale in cui per le piogge torrenziali chiusero il ponte sul grande fiume perché si era rovinata una campata; o quando nel nuovo municipio di tanto in tanto i vetri e le nuove strutture vibravano e oscillavano come fossero di plastica per lunghi secondi, come se la terra non fosse paga del disastro; o quando portai a braccia una signora, immobilizzata nelle gambe, nella nuova casa in costruzione perché potesse rendersi conto della larghezza delle porte, dello spazio nelle stanze, nel bagno, nella cucina, dell'altezza degli interruttori delle luci, delle maniglie delle porte e delle finestre, dello spazio attorno ai sanitari nel bagno; le feci fare la rampa dalla strada all'ingresso di casa perché potesse entrare da sola. Era contenta la signora ma non poche furono le difficoltà per farmi comprendere dal progettista, duro di testa, e dall'amministrazione comunale altrettanto insensibile. Le feci fare la rampa con una pendenza inferiore ai limiti massimi di legge e trovai la soluzione perché la spesa fosse garantita per intero dalla Regione. Strana attenzione dedicai a quella signora, neppure presagissi la malattia che mi avrebbe colpito poi. O quella volta che quell'anziano uomo, piccolo e tarchiato dal viso rubizzo, contadino socialista, vedovo e solo, uno dei pochi sopravvissuti ad una delle tante stragi in cui perirono centinaia di poveri uomini in divisa in mezzo al Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale: contento della nuova casa mi fece dono di un coniglio intero. Me lo appoggio sul banco dell'ufficio, appena ucciso, spellato, grondante di sangue tiepido. L'unico regalo in dieci anni trascorsi in quel comune. Non lo scorderò e mi sento fiero di questo. Ma fui costretto anche a chiamare i Carabinieri per effettuare lo sgombero dopo la procedura di occupazione di un suolo su quale c'era ... un pollaio: si spostò il pollaio vicino alla baracca e vissero tranquilli e contenti, galline e uomini, per un po’.

Dopo alcuni anni per stabilizzarci nell'impiego - molti di noi furono assunti con contratti a termine in quei comuni - decisero di farci fare un esame scritto. Partecipai con buona sicurezza, avevo lavorato sodo; con alcuni colleghi ci si trovava la sera dopo il lavoro per ripassare, approfondire, anche perché dalla teoria alla prassi del lavoro in quei comuni, così diversi perché straordinario era stato l'evento immane, la disciplina valeva molto poco: il lavoro quotidiano era un campo di sperimentazione continuo, spesso fuori dalle regole auree ordinarie.

Così feci l'esame: finalmente uscivo dal precariato. Capitò in quella occasione, come capita nella vita, di andare in tilt : mi prese l'ansia e sragionai. Fu un fiasco. Ma fu un dramma. Perdetti la possibilità di trovare un lavoro stabile e sicuro; mi ero sposato qualche tempo prima, mia moglie pure era precaria. La prospettiva di non riuscire a pagare l'affitto ci angosciava il giorno e la notte. Mi sentivo crollare il mondo addosso. In qualche brutto modo riuscii a campare, male, ma campammo, facendoci forza e prendendo quel che la vita passava.

Sperimentai in anni molto lontani i contratti di lavoro Co.Co.Co. Dodici, sei, tre mesi! Tre mesi: erano un lampo, da impazzire per la paura di restare senza soldi. Ci fu una volta in cui arrivai al giorno prima della scadenza del contratto senza che alcuno, né il sindaco né il segretario comunale, mi dicessero qualche cosa, cosa volevano fare di me: si erano dimenticati, quelli imbecilli; per fortuna deliberarono subito. Mia moglie non riusciva a mettersi in salvo sulla ciambella dello stipendio sicuro.

Niente più pensione, niente più ferie retribuite, niente più assenze per malattia pagate. Ogni cosa era diventata aleatoria e incerta. Poi qualche legislatore decise che a certi concorsi regionali potevano partecipare anche i laureati come me, cosa rara, da prendere al volo subito. Lo feci e riuscii bene agli esami con buone votazioni sia agli scritti che all'orale. Mi sentivo maturo e con esperienza pluriennale non mi detti pena neppure di studiare. Al concorso ci fu una selezione reale: da alcune decine iniziali, ne uscimmo in dieci. I posti erano tre. Il mio punteggio era elevato ... ma di un filo appena sotto il terzo in graduatoria. Abile ma non arruolato. Ancora un volta fuori dal giro.

Si diceva che avevano bisogno di gente come me in Regione, che entro la validità della graduatoria concorsuale avrebbero pescato altri. Nel frattempo bisognava sopravvivere e tirare avanti inventandosi qualche cosa e scoprendosi parte del popolo della partita IVA, della carta carburanti, dei versamenti trimestrali, del registro clienti, del registro acquisti, del registro fatture, ecc.

Il tempo passava e passò la validità della graduatoria e gli anni trascorrevano, si era vicini agli anta. Mia moglie ancora non riusciva ad aggrapparsi alla ciambella. Eravamo su un canottino minuscolo e sgonfio in mezzo ai marosi. L'affitto di casa saliva, l'equo canone sparì, il rinnovo del contratto di locazione comportò il raddoppio dell'affitto: una bomba. Si viveva alla giornata o poco più. I programmi erano un lusso non per noi. Ogni tanto osavamo per vedere solo uno spicchio di cielo: un quarantottore a Salisburgo, come essere militari in fuga. Un sabato pomeriggio a Treviso, una domenica a Venezia a ricordarsi e ritrovarsi ancora mano nella mano. Ma tutto con attenzione a non spendere una lira più del previsto perché domani chissà.

Poi uno spiraglio, forse quello buono, in Regione. Nuove funzioni, nuove figure professionali. Si ripesca nella graduatoria scaduta ma, ancora una volta, con contratto a termine, anche se biennale rinnovabile una volta sola per altri due anni: tanto poi si passa di ruolo, assicuravano. Mia moglie sempre precaria lontano dalla ciambella. Io ancora lì, in mezzo al guado: precario anche se con un lavoro e anche se mi dovevo svegliare alle cinque e mezza per prendere il treno alle sei e mezzo per andare a Trieste e se la sera prima delle otto non ero a casa.

A me andò bene: a quarant'anni entrai di ruolo. Poi anche mia moglie riuscì con un concorso a stabilizzarsi. Se mi fossi ammalato quando ero co.co.co., con pochi soldi e senza la rete della protezione sociale, sicuramente non ce l'avrei fatta a sopportare le grandi spese mediche che oggi sopporto perché lo stato sociale è uno sfascio. Meno male che la malattia mi ha colpito quando ero ormai dipendente di ruolo.

Ora lo stipendio è buono, il lavoro lo amo e credo di essere brevetto ma è troppo devastante quello che sta accadendo, c'è poco da essere fieri a dirsi italiani in questa Italia. E un po’ di stanchezza inizia a fare capolino superata la boa della metà del viaggio. In fondo quello che si vuole è essere un paese civile normale, che abbia rispetto di se e dei suoi cittadini, che sia giusto ed equilibrato. Non altro.

Ecco, anche questo è vivere con contratti di lavoro atipici, questa è la facile prospettiva di molti dei ragazzi di oggi ma anche di molti uomini e donne da rottamare, un pezzo oggi e un pezzo domani, magari insieme moglie e marito. Umiliazioni, barbarie, vessazioni, paure e angosce. Così si mercifica l'anima.

Due signori. Tutt’e due comunisti "aristocratici" (il personaggio che rievochiamo lo era di nascita e il nostro intervistato prima di accettare la tessera del Pci si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200 cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momento che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi innovatori televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e Ugo Gregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, dove il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gregoretti, con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a tentare invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cinque anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’episodio che ne fece un personaggio popolarissimo. E svelando un altro punto di contatto

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Nanni Loy

«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61, I nuovi angeli. Venni "scoperto" in virtù di una rubrica che tenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e della novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mi propose di fare un film. Mi trovai così promosso regista di cinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi reduce da Londra con sotto il braccio il "format" - si direbbe oggi - della candid camera propose a me Specchio segreto. Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Controfagotto, mentre la formula si fondava proprio sulla irriconoscibilità del "provocatore". Venne allora in mente a entrambi Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori di talento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».

Ha rivelato un retroscena...

«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinità elettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che ancora oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi mi dice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliato quel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vorrei apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita la camera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scalinata incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: ma come, lei non era morto?».

Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la sensibilità della commedia cinematografica italiana.

«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redattore, anzi un praticante del telegiornale che sognava di diventare regista di cinema e aveva un occhio di riguardo per la commedia all’italiana. Il mio Controfagotto conteneva materiali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollon sull’occupazione di una tipografia gli operai romani che recitavano se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’erano già molte esperienze, in me la contaminazione da giornalistino televisivo che applicava i moduli della commedia ai suoi "pezzi". Impostavo le interviste come se fossero sketch, parenti poveri di un film».

Il modello di Specchio segreto e la successiva evoluzione (o involuzione?) della formula candid camera nella tv italiana.

«Specchio segreto si avvalse subito di una componente non so se già presente nella sperimentazione anglosassone anteriore: autori e sceneggiatori che venivano dal cinema, Nanni per primo. E di una comicità, di un umorismo che andavano oltre l’invenzione di gag e rimandavano a uno spaccato antropologico e sociale. Uno spessore mai visto prima, né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupidità di oggi e agli abissi di faciloneria provocatoria ma stolta, vacua. La forza e la classe di Nanni erano nel non essere mai offensivo pur essendo così pungente. Un meccanico autocontenimento faceva sì che quando si avvicinava troppo al confine della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia, l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti primati di Specchio segreto - oltre a quello cronologico e a quello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di denuncia che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto di un paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straordinaria varietà umana - ce n’è anche un altro. Si scoprì lì la famosa "liberatoria": cioè, dopo aver "incastrato" le persone a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per andare in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, la stragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».

Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che quella tv così governativa, prudente, bacchettona, consentiva spazi anticonformisti come Specchio segreto.

«Più che "di Bernabei" parlerei di Rai monopolio. Sentivamo la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tallone di ferro della censura democristiana eravamo severamente invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse di casa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuirono pochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, portarono la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televisiva. Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici della radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv optando per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista che era Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle immagini sonore, ciò che ignorava la tradizione del documentario cinematografico italiano che disprezzava la tv. Inventammo le inchieste televisive aggiungendo con le voci lo spessore mancante al documentarismo "artistico". Le cose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era teso a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolio questo è finito. E dico che ha contribuito a renderci più perspicaci proprio la censura. Una ginnastica, una palestra. Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso le sue maglie. Uno strumento pedagogico».

Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?

«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo imbruttimento mentre allora c’era un’estetica. E la censura è stata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha il potere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe essere strumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Filippi non sarebbe cosa sana?».

Chi è Nanni Loy

Una volta, anni fa, Cesare Cases mi disse che non amava il «Freund Hein», come i tedeschi chiamano scherzosamente e scaramanticamente la morte, forse perché il culto della morte — Viva la muerte — era intrinseco a quella cultura della decadenza e dell'irrazionale in cui egli, come il suo amato Thomas Mann, vedeva sfociare e degradarsi la grande civiltà borghese, in un imbarbarimento del mondo che egli, come Mann, cercava di esorcizzare e di combattere in nome di un umanesimo illuminista e marxista. Però quella volta aggiunse che — nella febbrile smania di fare, produrre, parlare e organizzare che stava prendendo il mondo, soffocando ogni pausa e ogni riflessione — la morte riacquistava valore e significato, perché era un limite umano e ricordava che, dopo tutto, pure il perverso e frenetico attivismo che ci possiede come un ballo di San Vito non può durare, grazie a Dio, in eterno, e si placa anch'esso nell'eterno riposo implorato nella preghiera per i defunti.

Cesare Cases è non solo un grande germanista, bensì anche un protagonista della cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo, che — per ironia, intelligenza troppo acuta, randagia autosufficienza ebraica — ha scelto una posizione laterale, seppure ben profilata, nella parata permanente della società culturale. È impossibile, nell'emozione che la notizia della sua morte provoca in chi gli è amico da più di quarant'anni, tracciare un bilancio adeguato della sua personalità e della sua opera, di rilevanza fondamentale nella storia culturale, letteraria e politica del nostro Paese. La sua appartenenza a una famiglia ebraica — che non lo ha mai condizionato né ristretto in alcuna identità sottolineata e difensiva, ma è stata da lui vissuta semplicemente, affettuosamente e liberamente come una componente importante, ma non determinante — gli ha fatto conoscere presto, con le leggi razziali fasciste, il groviglio di barbarie che si annida nella nostra società, come rivela la sua splendida e frammentaria autobiografia. Marxista convinto e lucido, Cases ha vissuto con passione, e insieme con distacco, tutta l'avventura del marxismo italiano e delle forze che lottavano per un'altra Italia e un altro assetto del mondo, ma ha anche colto con straordinaria precocità l'involuzione e l'autonegazione del socialismo reale ed è stato uno dei primi a denunciare, in un memorabile saggio di cinquant'anni fa, l'anchilosata tirannide della Repubblica democratica tedesca, Paese — egli scriveva allora — in cui metà degli abitanti è occupata a spiare l'altra metà (e che dunque si capisce debba andare in malora).

A Cases si deve la penetrazione della grande cultura e letteratura tedesca, soprattutto hegeliana e marxista, in Italia, ma anche la sua anticipata critica, come indicano tanti suoi eccellenti saggi su Lukács, Brecht, Benjamin e altri. In questo senso ha avuto un ruolo centrale nell'opera della casa editrice Einaudi, che oggi è costume sbeffeggiare, ma che è stata una o la colonna portante della cultura italiana per tanti decenni. Come ogni cultura realmente egemone e dominante, la casa editrice Einaudi ha avuto i suoi grandissimi meriti storici che nessun livore può diminuire, le sue colpe e prepotenze aristocratiche che vanno spregiudicatamente criticate, ma senza il risentimento plebeo di chi non si dà pace di essere stato escluso, in quei grandi anni, da quel cantiere in cui, fra tante geniali e ardite scoperte e alcuni anche pesanti errori, si creava la cultura italiana, così come, in un altro senso, ma in un'analoga simbiosi di meriti e chiusure, l'aveva creata La Critica di Benedetto Croce. Naturalmente è più facile riconoscere tutto questo per chi è stato a suo tempo fraternamente accolto, magari giovanissimo, in quei mercoledì einaudiani in cui nascevano tante cose, che non per chi, magari ingiustamente, è stato bocciato agli esami d'ammissione.

Cases era un lievito di quegli incontri, di quel crogiuolo culturale. Se la sua visione del mondo era segnata dalle filosofie della totalità — Hegel, Marx — il suo acutissimo senso della crisi moderna, della sua stessa indole (sorniona, a volte pigra e assonnata, ma sempre vigile e fulminea nei giudizi) lo portava al frammento, al saggio breve piuttosto che al libro esaustivo (non ne ha scritti mai), all'introduzione piuttosto che alla monografia. C'era in lui una forte tensione intellettuale fra un marxismo classico, che voleva farsi superatore ma soprattutto erede della tradizione grande borghese e avversava dunque le stridule fratture trasgressive delle avanguardie, e una saltuaria fascinazione per quelle rotture culturali e politiche, che negavano tale tradizioni. Tutto ciò si riflette nei suoi saggi — di letteratura tedesca, di politica, di patrie lettere — come nelle oscillazioni delle sue simpatie politiche fra comunismo e sinistra extraparlamentare. La sua cultura più vera resta comunque quella classica, il sogno di saldare grande civiltà borghese e marxismo, come il suo Mann, di cui è stato un grande interprete. Il suo epistolario con Sebastiano Timpanaro, grande dialogo di due marxisti in cui Cases difende le ragioni della «decadenza», è, come ha scritto Maria Fancelli, il documento di un'altra Italia, di una cultura oggi obsoleta, in cui, come in ogni vera cultura, sono in gioco le cose ultime.

Beffardo e caustico, talora oltre la giusta misura, non era esente, nel suo sarcasmo, da alcune cadute in una sgradevole volgarità intellettuale, ma si riscattava in un'ironia illuminista che celava una pudica intensità di affetti. Fortini lo vedeva come un Mefistofele geniale e canzonatorio; a me ogni tanto sembrava uno di quegli ebrei orientali sballottati dalla storia, dovunque fuori posto e dovunque a casa nel mondo, perplessi fra il desiderio di cambiare quest'ultimo e una rassegnazione spinoziana alla necessità del tutto

Postilla



Alcuni lustri fa, ho avuto il privilegio di assistere ad alcune lezioni di Cesare Cases, per curiosità nei confronti del personaggio, più che per affinità di interessi: ma Cases si ascoltava e si leggeva "a prescindere", perchè come solo i grandissimi sanno fare, riusciva a parlare dei grandi temi politici ed intellettuali dell'oggi e di sempre a partire magari da una pagina di Teophil Spoerri. "Testimone secondario" come amava definirsi, un 'non allineato' per eccellenza, feroce fino al sarcasmo contro le mode culturali (gli strutturalisti francesi, fra gli altri), di ironia leggendaria, ma spietato soprattutto verso se stesso. In quelle lezioni ne ho ammirato, soprattutto, lo sfolgorio intellettuale espresso in aforismi fulminanti (come non accostargli, immediatamente, gli amatissimi Adorno e Karl Kraus) e una sorta di disincanto malinconico nei confronti dei nostri tempi che nulla di senile aveva in sè e che, a distanza di anni, suona piuttosto come monito precorritore.

In un'intervista per i suoi 80 anni, ad Antonio Gnoli che lo interrogava sulla diversità fra 'destra' e 'sinistra' rispondeva:

"chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare impresa vana. Se non altro perchè dubito che ci sia un pensiero." (m.p.g.)

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