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POCHE parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.

«Non c´è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L´unico che può temerle è chi è ricattabile»: sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale "prestazione" costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.

Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall´inizio all´altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).

Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l´imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell´illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole:

«Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all´uno e una volta all´altro e si sta a posto con la coscienza. No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro».

L´imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un´equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono. Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito - un compito che nell´ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato - di stabilire i confini tra il lecito e l´illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com´è la nostra, il terreno dell´inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che "costituzionalizzasse" tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.

È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la "tenuta" delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del "non ci sto", fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell´opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto.

Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l´eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide. Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: "ho compreso" e un "sappiate che cedimenti non sono alle viste". Che cosa "ho compreso"? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d´allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé poco evidenti, ma tali da sommarsi l´uno all´altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi. Qui, nel "bel paese là dove il sì suona" troppo frequentemente, i "no" scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi "no" (senza "il di più" satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell´alleanza Lega-Forza Italia nel 1994. Quei "no" hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere "plebiscitato" contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d´inciampo nella marcia verso qualcosa d´inquietante, una sorta di "democrazia d´investitura" personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.

Ma altri, importantissimi "no" sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli - cattolicissimo - rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l´evangelica rettitudine del sentire e dell´agire. Questo spiega l´ottimo rapporto personale - ch´egli soleva ricordare - con tanti galantuomini d´altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.

Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all´ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch´essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale. Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione "io non l´ho pagata nella Resistenza […] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai". Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.

. IL CAMPO DEL DOMINIO

di Marco D'Eramo

A dieci anni dalla morte, l'opera dello studioso francese continua ad offrire raffinati strumenti di comprensione del presente. E a fornire elementi per una critica dello status quo

Dieci anni fa, giorno per giorno, moriva Pierre Bourdieu. Ma quanto ci manca il grande sociologo francese (1930-2002)! Lo vorremmo qui, proprio in questa fase in cui la violenza simbolica, di cui tanto scrisse e che tanto chiarì, si esercita con ferocia inaudita azzerando le distanze. Che altro è se non violenza simbolica allo stato più puro il verdetto di retrocessione di uno stato emesso da un'agenzia di rating? Quell'agenzia è apparentemente inerme, non dispone né di eserciti, né di armi (si potrebbe parafrasare in questo caso la famosa, sardonica domanda di Stalin «Ma di quante divisioni dispone un'agenzia di rating?» e il sarcarsmo sarebbe altrettanto malposto quanto quello originale che si riferiva al Vaticano). Eppure il mondo intero si piega alle sue sentenze, paesi orgogliosi della propria grandeur vengono umiliati pubblicamente e - quel che più conta - nessuno osa contestare né i verdetti né i giudici.

Infatti quel che più stupisce in questa fase è la passività con cui i popoli subiscono la selvaggia repressione sociale cui sono sottoposti. Qualche protesta, certo. Ma niente di serio. Conquiste duramente ottenute con decenni, a volte con secoli di lotte furibonde vengono cedute, abbandonate sul campo con una indifferenza sconcertante. Di fronte a tanta apatia sorge spontanea la domanda: quale è la ragione della «sorprendente facilità con cui i dominanti impongono il loro dominio?» (in Raisons pratiques. Sur la théorie de l'action). E questa è proprio la domanda chiave che Bourdieu si pone e da cui deriva la sua teoria del dominio: «come è possibile che un ordine sociale palesemente fondato sull'ingiustizia possa perpetuarsi senza che venga posta la questione della sua legittimità?», per formularla nei termini usati da Gabriella Paolucci nella sua Introduzione a Bourdieu (Laterza).

Proprio le agenzie di rating ci mostrano la rilevanza e la profondità delle domande che Bourdieu si pone: da dove deriva la loro legittimazione? cosa ci impedisce di mettere in discussione l'arbitrarietà del loro dominio e ci impone di riconoscerlo, accettarlo e subirlo come legittimo?

Intendiamoci, la violenza simbolica non è mai disgiunta dai rapporti di forza oggettivi che la rendono possibile, né dalla violenza fisica che sullo sfondo si staglia all'orizzonte: ma il processo di legittimazione di un dominio consiste proprio nel fatto che la violenza simbolica, «dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificatamente simbolica, a questi rapporti di forza» ( La reproduction). Nella violenza simbolica c'è sempre un'atto di dissimulazione.

La violenza simbolica è tale perché opera attraverso i simboli e sui simboli, ma i suoi effetti non hanno niente di simbolico: gli anziani che perdono le pensioni, i malati che non saranno più curati sono quanto di più materiale e meno simbolico si possa immaginare, ma se il verdetto può avere questi effetti è perché la legittimità della sentenza è interiorizzata da chi la subisce. L'effetto su colui che subisce una violenza simbolica è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza. La violenza simbolica agisce sulle categorie cognitive del dominato che, per pensare il proprio rapporto con il dominante, dispone solo di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata della struttura del rapporto di dominio, fanno apparire tale rapporto come naturale» ( Méditations pascaliennes).

È questo il meccanismo per cui ci appare «naturale» che una retrocessione formulata da una ditta privata in un paese lontano abbia come effetto diretto che un giovane non può più frequentare l'università o un lavoratore deve essere licenziato.

Noi la vediamo tutti i giorni all'opera questa violenza simbolica, questo «potere di dire ciò che è e di far esistere ciò che si enuncia» (Méditations pascaliennes). Ci dicono che esiste un'entità plurale eppure singolare chiamata i Mercati ed ecco che per un gioco d'«impostura legittima» questa entità acquista una sua esistenza autonoma che viene riconosciuta e temuta.

Naturalmente il gioco della violenza simbolica è insieme più sottile e più efferato, ma a noi manca disperatamente un pensatore - e un osservatore pensante - che riporti alla luce la sua natura di violenza dissimulata, proprio per effetto della coercizione simbolica, sotto le forme del «naturale», dell'«inevitabile», «inesorabile»: è «naturale» che vi siano sfruttati (e sfruttatori), che alcuni guadagnino 10.000 volte più della media dei propri dipendenti, la legge «di mercato» è una «legge di natura» come la gravitazione universale.

È qui che entra in campo il rapporto tra la sociologia e la politica. Che non può essere - come è così spesso, e in modo tanto sconsolante nei nostri giorni - un non rapporto. Ma che non può essere nemmeno quello dell'i ntellectuel engagé alla Sartre che grida il suo impegno politico, il suo essere di parte. Perché non serve a nessuno.

C'è invece bisogno di un sociologo come Bourdieu che si situi (come lui fece per tanti anni, fino al 1990) «al di qua» della politica, perché la guarda come un campo relativamente autonomo, in cui gli agenti operano spinti dalle proprie traiettorie sociali, dai propri habitus. L'impegno politico del sociologo si rifiuta al libro inteso come comizio politico. Fa politica senza dirlo: «La conoscenza esercita di per sé un effetto - che mi pare liberatore - tutte le volte che i meccanismi di cui stabilisce le leggi di funzionamento debbono una parte della loro efficacia al disconoscimento, cioè tutte le volte che ha a che vedere con i fondamenti della violenza simbolica» ( La leçon sur la leçon). Il sociologo fa politica nello smontare i processi di violenza simbolica, nel palesarli (essi sono di per sé nascosti e soggetti a denegazione), fa politica decostruendo le motivazioni sociali del discorso militante e filosofico, come ha fatto Bourdieu in quel classico della demistificazione del galateo filosofico che è L'ontologia politica di Martin Heidegger (1988), dove infine la filosofia non viene letta come pretende di esserlo, cioè ontologicamente, all'indicativo presente della terza persona singolare («l'esserci è»), ma contestualizzandola e senza facili cortocircuiti tra heideggerismo e nazismo (come invece aveva fatto Victor Farias nel suo libro del 1987). Il sociologo fa politica ricercando sul campo i meccanismi della «costruzione politica dello spazio» geografico e sociale, come nella straordinaria, commovente opera collettiva del 1993, in cui compaiono gli ultimi testi più densamente teorici: La Misère du monde, un volumone di 950 fitte pagine che fu venduto a 300.000 copie in Francia e tradotto in 13 lingue. Dice Marc Saint-Upéry (già direttore delle edizioni La Dècouverte): «Citando il poeta Francis Ponge, Bourdieu dichiarò un giorno che in fondo il suo lavoro mirava ad aiutare le persone a 'parlare con le parole proprie', a sfuggire ai meccanismi ventriloqui del dominio e ai modi imposti dai poteri o dai falsi contro-poteri».

Insomma, cercasi disperatamente nuovo Bourdieu, una filosofia della società e una sociologia della politica che guardino con lucidità, ma con partecipazione, questo terrorizzante mondo di oggi.

PIERRE BOURDIEU IL POTERE COSTITUITO CHE SI RIFLETTE NELLE DIVERSE DISCIPLINE DEL SAPERE

Un pensiero combattente

ARTICOLO

Dalla provincia a Parigi, dalla filosofia alla sociologia, dall'Algeria all'analisi critica della globalizzazione. Diario di un percorso teorico

Guascone, Pierre Bourdieu nasce nel 1930 in un paesetto del Béarn da padre contadino. Ottimo studente, viene notato da un professore che gli suggerisce di «salire a Parigi» per preparare l'ingresso alle Grandi Scuole. Nel 1949 entra nell'École Normale Supérieure della Rue d'Ulm, nella stessa classe di Jacques Derrida e Emmanuel Le Roy Ladurie; diventa allievo del filosofo della scienza Georges Canguilhem. Nel 1954 ottiene l'agrégation in filosofia che va a insegnare in un liceo nella banlieue parigina. Inizia una tesi di dottorato con Canguilhem sulle strutture temporali della vita afffettiva.

Ma l'esperienza che gli fa abbandonare la carriera filosofica e gli fa intraprendere il cammino sociologico è il servizio militare in Algeria dal 1956 al 1958 durante la guerra d'indipendenza (1954-1962). E infatti nel 1958 esce nella collezione Que-sais-je delle Presses Universitaires de France il suo primo libro, Sociologie de l'Algerie. Per continuare a studiare la società kabile, Bourdieu ottiene un posto di assistente all'università di Algeri dal 1958 al 1960. È nell'osservazione delle forme simboliche di quella società, delle sue risposte ai mutamenti violenti apportati dal colonialismo e dal capitalismo che prende forma la sua teoria sociologica.

Tornato a Parigi, nel 1960 diventa assistente di Raymond Aron che ne fa il segretario del suo Centre de sociologie européenne. Nel 1962 si sposa con Marie-Claire Brizard con cui avrà tre figli. Ma è il 1964 l'anno che segna la sua ascesa accademica: entra all'École Pratique des Hautes Études (che nel 1975 diventerà l'École des Hautes Études en Sciences Sociales), assume la direzione della collana «Le Sens Commun» presso le Éditions de Minuit e inizia la sua collaborazione con Jean-Claude Passeron con cui pubblica Les héritiers. Les étudiants et la culture, opera che avrà un grande successo e notevole influenza sul movimento del 1968. Proprio su questo movimento si produce la sua rottura con Aron, di cui abbandona il centro per fondarne uno suo: il Centre de Sociologie de lì éducation et de la culture.

Dal 1964 fino alla morte prosegue la sua infaticabile attività di ricercatore e di organizzatore delle ricerche altrui. Si succedono i libri e i saggi (più di 200 in tutto), tra cui è possibile citare. Le déracinement (con A. Sayad, 1964), Les héritiers (con J.-C. Passeron, 1964), Un art moyen: essay sur les usages sociaux de la photographie (con L. Boltanski, R. Castel e J-L. Chamboredon, 1965); L'amour de l'art (con A. Darbel, 1966); Le métier du sociologue, con J.-C. Passeron e J.-C. Chamboredon, 1968); Pour une sociologie des formes symboliques (1970); La reproduction (con J.-C. Passeron, 1971); Esquisse d'une théorie de la pratique (1972); La distinction: critique sociale du jugement (1979); Le sens pratique (1980); Ce que parler veut dire (1982); Leçon sur la leçon (1982); Homo academicus (1984); L'ontologie politique de Martin Heidegger (1989); Réponses: pour une anthropologie réflexive (con L. Wacquant, 1992); Méditations pascaliennes (1997), Science de la science et Réfléxivité (2001).

Nel 1975, con l'appoggio di Fernand Braudel, fonda e dirige la rivista Actes de la recherche en sciences sociales che raccoglie le ricerche sue e della sua scuola in un formato anti-accademico (foto, disegni, formati non convenzionali). Nel 1981 diventa professore al Collège de France, la più alta posizione del sistema scolastico francese. A partire da allora, oltre a continuare la sua attività di ricercatore e organizzatore di ricerche, Bourdieu moltiplica le prese di posizione pubbliche diventando un punto di riferimento per il movimento altermondialista (diventato poi no global); «per dar voce a chi è considerato irresponsabile dalla politica ufficiale» fa il caporedatore della rivista di tendenza Inrockuptibles. A questo nuovo impegno corrispondono testi come La misère du monde (a cura di, 1993); La domination masculine (1998); Sur la télévision (1996).

Muore il 24 gennaio 2002 di un tumore ai polmoni (non l'ho mai visto fumare). Ma per chi vuole avere un contatto di prima mano con l'uomo e il pensatore Bourdieu consigliamo il documentario su di lui La sociologie est un sport de combat (2001) di Pierre Carles. (m. d'e.)

BOURDIEU: UN CLASSICO IGNORATO

NELLA PROVINCIA ITALIANA

di Gabriella Paolucci

Eterodosso e non accademico. Uno studioso ai margini nelle scienze sociali del nostro paese

Se si dovesse valutare la notorietà e l'influenza di Pierre Bourdieu dai libri che gli sono stati dedicati in Italia, o dall'attenzione che si dà al suo lavoro nei manuali di sociologia nostrani, si dovrebbe concludere che il suo posto nelle scienze sociali è alquanto marginale. Poco amato e ancor meno studiato, nel nostro paese Bourdieu è un «ospite di scarso riguardo» (secondo la definizione di Angelo Salento), che non conviene affatto portare nei salotti buoni della sociologia, pena l'esclusione dai giochi che hanno come posta il potere accademico e la stessa definizione dei confini del campo disciplinare.

Ma per fortuna il caso italiano costituisce un'eccezione, davvero più unica che rara, in un panorama mondiale di tutt'altro segno. Se nel nostro paese il processo d'importazione dell'opera bourdieusiana, pur iniziato nei lontani anni Settanta, è stato discontinuo e frammentario, e si è risolto, salvo rare eccezioni, in una sostanziale rigetto, a livello internazionale, al contrario, Bourdieu è uno degli intellettuali più conosciuti e influenti, sia dentro che fuori dai confini del campo sociologico. La notorietà internazionale di Bourdieu è attestata non solo dalla traduzione sistematica delle sue opere in moltissime lingue e in numerosi paesi, ma anche dal costante proliferare della letteratura critica consacrata al suo lavoro di ricerca e al suo pensiero. Se nei paesi anglosassoni, ma anche in Germania, nei Paesi scandinavi e in America Latina, per non parlare naturalmente della Francia, si guarda ormai a Bourdieu come a un classico, un punto di riferimento ineludibile per molti campi della ricerca sociale, in Italia dobbiamo confrontarci con uno sconcertante primato negativo, che colloca il nostro Paese tra i più refrattari all'opera di Bourdieu. Lo stesso milieu culturale che ha accolto quasi con reverenza altri esponenti delle scienze sociali d'oltralpe - si pensi anche solo ad Alain Touraine e Raymond Boudon, a Jürgen Habermas e Niklas Luhmann, ad Anthony Giddens, Erwin Goffman e, da ultimo, a Zygmunt Bauman - e che ha eletto costoro a prestigiosi indicatori del superamento del provincialismo nostrano, ha riservato a Bourdieu un'accoglienza fredda e distaccata. Cosa peraltro testimoniata non solo dalla incredibile scarsità di letteratura critica che gli è stata dedicata. E se altrove coloro che ritengono di non poter condividere la prospettiva bourdieusiana si sono quanto meno misurati con il dibattito pubblico, da noi si è preferito più che altro ostentare indifferenza e astenersi dal confronto aperto.

Naturalmente questa vicenda ci parla molto più della sociologia italiana di quanto non ci parli di Bourdieu: «Il senso e la funzione di un'opera straniera sono determinati dal campo di ricezione almeno quanto dal campo di produzione» scrive lo stesso sociologo francese in un articolo pubblicato nei «Cahiers d'histoire des littératures romanes» ( Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, 1990). Proviamo dunque a seguire il suo suggerimento, e a ipotizzare alcune delle ragioni che possono aver influito sulla pessima ricezione italiana.

Non c'è dubbio che uno dei motivi risieda nella postura radicalmente eterodossa rispetto ai tradizionali codici della sociologica accademica. Il modus operandi di Bourdieu, autentica sfida alla tradizione sociologica, ha certamente favorito incomprensioni e rigetti. E ha certamente influito sulla scarsa considerazione riservatagli anche il ribaltamento della gerarchia degli oggetti scientifici «legittimi» consacrata dall'accademia, così come la sostanziale noncuranza per le frontiere - «false» e «artificiali» - che strutturano la divisione del lavoro interna alle scienze sociali, contro la quale Bourdieu si è sempre battuto. Un motivo d'incomprensione, quest'ultimo, per chi, cultore specialistico dei diversi segmenti in cui è parcellizzata la sociologia, ha difficoltà a cogliere la complessiva portata teorica del raffinato e rigoroso lavoro scientifico prodotto da Bourdieu.

Ma quel che ha reso Bourdieu così poco digeribile da noi, è la critica, durissima, che egli ha lanciato contro la sociologia corrente, giustamente accusata di «omettere una radicale messa in questione delle proprie operazioni e dei propri strumenti di pensiero» e di riprodurre così, sotto forma di senso comune scientifico, il «pensiero di Stato», ultima e più efficace forma di legittimazione del dominio.

Basterebbe del resto dare una scorsa alle 650 pagine del volume che raccoglie i corsi sullo Stato tenuti al Collège de France dal 1989 al 1992, uscito proprio in questi giorni per Seuil ( Sur l'État, Seuil) per avere un'idea del perché Bourdieu abbia trovato tanta resistenza a casa nostra. Quest'esposizione sistematica del pensiero bourdieusiano sullo Stato, finora inedita, mostra tutta la radicalità di un progetto scientifico che non può non venire percepito come minaccioso da parte di un campo sociologico che ha una così scarsa propensione per la critica dell'esistente e che è così incline, in questo nostro sconcertante presente, a farsi sedurre dal «pensiero di Stato». «Il nostro pensiero e le strutture stesse della coscienza attraverso la quale noi costruiamo il mondo sociale (...) hanno buone chances di essere il prodotto dello Stato», leggiamo nella pagina d'apertura del volume. «Finzione collettiva» al servizio del «monopolio dell'universale», «banca centrale del capitale simbolico» e «principio dell'ortodossia» indispensabile alla produzione e riproduzione della sottomissione dossica all'ordine delle cose, lo Stato è all'origine della credenza nella legittimità del dominio e dell'ordine sociale così com'è.

E la sociologia, scienza politica per la natura stessa del suo oggetto, è naturalmente coinvolta nelle strategie di dominio in cui è inevitabilmente inserita, a meno che non metta in atto quel «dubbio radicale» che è indispensabile per non rimanere preda dell'inconscio collettivo che, inscritto nelle teorie, nelle categorie, e negli stessi problemi che guidano la costruzione dell'oggetto di ricerca, non fa altro che riproporre la semplice trascrizione del senso comune. Che altro non è che il punto di vista dei dominanti, travestito da punto di vista universale. Per l'originalità dell'impianto teorico e la radicalità degli esiti, questa idea di sociologia, mentre contribuisce a dare un senso alla particolarità della ricezione italiana, al contempo colloca a pieno titolo l'opera di Bourdieu nell'alveo del pensiero critico del Novecento, accanto a coloro che hanno inteso praticare la scienza sociale come «critica della società», che si contrappone programmaticamente alla «sociologia ufficiale, la quale procede - invece - secondo le regole di una scienza classificatoria», secondo la nota formulazione dei francofortesi. Nella convinzione bourdieusiana che il compito della sociologia consista nell'analisi razionale del dominio, e nella polemica nei confronti di chi, «apologeta dell'esistente, mette i propri strumenti razionali di conoscenza al servizio di un dominio sempre più razionalizzato» ( Méditations pascaliennes), non possiamo mancare di scorgere uno dei motivi di fondo dell'accoglienza così poco ospitale che l'Italia

PIETRO INGRAO

Quella notte insieme

prima dell'XI Congresso

Scrivo sgomento, pensando al modo in cui Lucio ha voluto lasciare la vita. Penso a quella ferita così dolorosa, che anch'io ho subito otto anni fa, della perdita della propria compagna. Penso al senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni. Sono pensieri, non spiegazioni: un gesto come il suo rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio. Sarebbe però profondamente ingiusto dare addio a Lucio Magri solo con il silenzio. Bisogna dire, ricordare, trasmettere il ricordo ai più giovani e continuare ad ascoltare la sua voce e i suoi pensieri, che ancora hanno tanto da dirci.

Con lui ho condiviso un percorso lungo, appassionante, intenso: non avrebbe senso, tentare di ripercorrerlo in poche righe. Mi limiterò solo a brevi immagini.

Erano gli anni '60, Lucio era stato licenziato da Botteghe Oscure, era momentaneamente senza lavoro. Veniva a pranzo a casa nostra, quasi tutti i giorni. Mia moglie si interrogava, molto prosaicamente: forse non ha i soldi per mangiare. Era solo una battuta: in quei pranzi e in quelle ore passate insieme, si consolidava fra me e Lucio una comune visione del mondo, una tensione al cambiamento che vedeva nel partito il suo soggetto centrale, ma che delle regole del partito sentiva ormai troppo rigidi i vincoli e le liturgie.

Ricordo nitidamente la nottata passata con Lucio nella mia casa di via Balzani a preparare l'intervento che avrei pronunciato all'XI Congresso del Pci, pesando con cura ogni parola: era la prima volta che nel partito veniva rivendicato il diritto al dissenso. Terminammo di lavorare alle due di notte, ed io ero convinto che all'angolo di strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta "vigilanza" del partito, a controllare chi a quell'ora veniva da me. Non era vero, naturalmente; ma a questo ci portava, sentire addosso la condanna ossessiva del cosiddetto "frazionismo", che nel Pci demonizzava ogni sodalizio, ogni condivisione di pensiero, ogni vero dibattito interno.

Fu quella condanna a portare alla drammatica espulsione dal partito di lui e degli altri compagni del Manifesto: è per me ancora una ferita, ricordare che allora non ebbi il coraggio di oppormi. Prevalse in me un'errata concezione dell'unità del partito. Un errore che ancora mi brucia dentro, anche se poi, nei lunghi anni seguiti a quella rottura, fra me e Lucio, e con tutti i compagni del Manifesto si ricostruì nuovamente uno scambio intenso e fattivo, che prese ancora più slancio dopo la svolta dell'89 e la fine del Pci.

Oggi Lucio ci ha lasciati, in giorni bui dominati da gelide dispute sulla Borsa e i bilanci. Un altro ricordo: era il maggio del 1962, in un convegno dell'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo. Si discusse animatamente, la nostra critica alla relazione di Amendola fu uno dei primi segni visibili della nostra ricerca di un nuovo sguardo sul mondo. In quell'occasione, Lucio parlò del bisogno di una critica a quella che lui chiamò "la società opulenta": la pervasività del mito dell'opulenza in ogni luogo della vita, a colpire l'autonomia dei bisogni umani. In questo presente così aspro e difficile, in cui la politica sembra aver ceduto le armi di fronte ai luoghi della finanza, ho risentito l'eco di quelle parole: non più solo nei miei ricordi, ma negli slogan di chi si accampa davanti a Wall Street.

Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove, perfino di fronte al tempio del capitalismo mondiale.

LUCIANA CASTELLINA

Il suo peccato più grande,

andarsene in quel modo

Non è facile per me scrivere in morte di Lucio Magri: oltre ad aver condiviso più di mezzo secolo di impegno politico, siamo stati anche compagni di vita, sia pure in un tempo ormai molto remoto. E tuttavia scrivo, cedendo alla richiesta dei compagni del giornale, perché Lucio era ormai fuori dalla vita politica pubblica da moltissimi anni, e in tanti mi domandavano cosa stesse facendo, dove stava.

In un'epoca in cui tutta la politica è immagine lui aveva perso visibilità: perché aveva rinunciato ad essere rieletto parlamentare già nel '94, ormai non scriveva più sui giornali, solo raramente raccoglieva l'invito a partecipare a qualche iniziativa. I più giovani, poi, quelli nati quando il Pci stava sciogliendosi e il Pdup aveva già posto fine alla sua storia, forse non l'avevano nemmeno mai sentito nominare, se non dai padri sessantottini.

Per questo vorrei raccontare, soprattutto a chi non l'ha conosciuto, o conosciuto male. Non era disimpegnato, Lucio, neppure ora, tutt'altro. Intanto ci sono gli anni più recenti, quelli in cui fu pubblicata la seconda serie della Rivista del manifesto, fatta assieme al vecchio gruppo che aveva fatto la prima e ad alcuni compagni che allora erano restati nel Pci, fra loro Ingrao e Tortorella. Durò cinque anni, dal 1999 al 2003, e poi, per tante ragioni, cessò. Peccato, perché vi invito a rileggerla, è piena di scritti, di Lucio e di altri compagni, molto interessanti. Fino a qualche tempo fa era leggibile nell'archivio del sito del manifesto, credo ci sia ancora.

Da allora Lucio si è impegnato a scrivere il libro che è uscito due anni fa, ora in edizione economica, già tradotto in Inghilterra da Verso, in Spagna, in Argentina, attualmente in traduzione in Brasile. Un grosso lavoro, non una autobiografia, una ricerca documentata sul comunismo italiano visto nel contesto internazionale, una riflessione attenta, forse la sola che c'è stata, sul più grande partito comunista d'occidente, sulle ragioni del suo successo e su quelle che lo hanno portato a scomparire. Non manca - e questo di continuare ad interrogarsi sul proprio stesso operato era un pregio di Lucio - anche una riflessione critica su alcune semplificazioni nostre, del gruppo del Manifesto, anche se di questa esperienza non si parla direttamente. Il libro si chiama Il sarto di Ulm, titolo di una parabola di Bertold Brecht: il sarto diceva che l'uomo avrebbe volato, il vescovo principe non ci credeva, alla fine, stufo delle insistenze, gli dice «provaci, vai sul campanile e buttati». Il sarto si butta e si sfracella. Ma chi aveva ragione? Perchè è vero che allora il sarto non era riuscito a volare, ma poi l'uomo ha volato. La parabola vale per il comunismo: per ora non ce l'ha fatta, ma domani forse ce la farà.

Non è pessimista né disfattista il libro di Lucio sul comunismo italiano. C'è anzi la testarda dimostrazione che sebbene fosse necessario un rinnovamento profondo del Pci, c'erano motivi validissimi per andare avanti e, in appendice, il documento che aveva scritto nel 1988 come piattaforma per il XVIII congresso che, anche a leggerlo adesso, dopo più di vent'anni, appare documento strategico attualissimo.

Perché Lucio aveva una grande capacità anticipatrice: con Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, negli ultimi tempi, aveva cominciato a raccogliere tanti scritti e documenti della nostra storia, quella di prima del '68, l'epoca della cosidetta corrente ingraiana, poi del Manifesto e del Pdup, moltissimi redatti da lui stesso. Sono di grande interesse perché molte tematiche che sembrano scoperte da poco sono già esplicitate: dalla questione ecologica, alla crisi della democrazia, al declino della supremazia americana e le sue conseguenze. Le "nuove contraddizioni della nostra epoca" non sono invocate come è rituale, ma finalmente analizzate e spunto per una nuova strategia. Credo che dovremmo raccoglierli e farli circolare questi scritti, magari cogliendo così l'occasione di ricordarlo che ora ci manca perché ci ha lasciato detto che non voleva cerimonie funerarie.

Andando in giro per l'Italia trovo tanti, davvero tante compagne e compagni, che mi dicono che la stagione politica vissuta assieme è stata decisiva nella loro formazione. Anche la storia del Pdup, nato come proseguimento di quello che si era chiamato "Movimento Organizzato del Manifesto" quando ci unificammo con il gruppo ex psiuppino di Vittorio Foa, penso dovrebbe esser rivisitata e fatta conoscere.

Questo partito l' avevamo sempre pensato transitorio, perché ci premeva ricomporre le fila del comunismo italiano e non cristallizzare un partitino, una scelta difficile e che molti gruppi della nuova sinistra non capirono e ne fecero anzi motivo di irrisione. Nell'84 avviammo la discussione per decidere se rientrare o meno nel Pci: si era in pieno regime craxiano e un nuovo anticomunismo conquistava terreno, restare divisi non aveva senso, anche perché c'era stata quella che fu chiamata la "seconda svolta di Salerno", quando Berlinguer aveva posto fine all'unità nazionale, denunciato la deriva della politica, e rotto definitivamente con l'Unione sovietica. Fu proprio Berlinguer che, senza preavviso, venne ad ascoltare la relazione di Lucio al nostro congresso del 1984, e poi ci chiese di rientrare, visto che i dissensi che ci avevano diviso erano ormai largamente superati. Forse avvertiva che c'era bisogno, nel Pci, dell'energia dei nostri quadri, per combatterne le derive normalizzatrici . Ma pochi mesi dopo morì e ci ritrovammo in un Pci che era oramai altra cosa, peggiore di quello che ci aveva cacciati. E così fu Lucio a trovarsi in realtà alla testa della contestazione - non conservatrice ma rinnovatrice - allo scioglimento del partito. Il rapporto che tenne ad Arco, dove si tenne l'ultima assemblea della mozione del no alla svolta per il XXI congresso del Pci, quello del gennaio '91, è - anche questo - un lucido e moderno programma per la sinistra. Anch'esso andrebbe riletto.

Lucio non aveva un carattere facile. Il suo più grande amico, Michelangelo Notarianni, diceva di lui che aveva grandissime qualità, ma gli mancavano i sentimenti intermedi. Era assolutamente vero: intellettualmente generosissimo - una quantità di testi non firmati sono in realtà suoi, ma non gliene importava niente che gli venissero attribuiti, gli interessava che quelle idee circolassero - sembrava sgarbato a arrogante; pronto a riflettere sui suoi errori, non perdonava quelli degli altri, perché era oltremodo, fastidiosamente integralista.

Ma il suo peccato maggiore è stato di andarsene così come se ne è andato. Riteneva di non poter più dare niente per una rinascita della sinistra di cui diceva «ci sarà, ma ci vorranno decenni e io comunque non sono più in grado di dare alcun contributo». Sbagliava, naturalmente, perché avrebbe potuto ancora aiutarci. Ma la depressione che lo aveva colto dopo aver seguito giorno per giorno, per tre anni, la terribile agonia di Mara, la compagna con cui ha trascorso gli ultimi 25 anni e che amava moltissimo, l'ha spezzato. Non aveva più motivi che lo trattenessero e noi amici e compagni non siamo riusciti a dargliene di sufficienti.

Parlato: ho cercato di fermarlo ma non ci sono riuscito

intervista di Simonetta Fiori

«Che volete sapere da me? Posso dire che è un gesto che attiene alla sua personalità, mescolanza di razionalità pura e di passione. E poi l´anagrafe non è cosa da sottovalutare. Avere ottant´anni, che si fa più? Solo un avvenire di malattie, questo Lucio me lo ripeteva spesso». Valentino Parlato passa veloce nei corridoi del Manifesto, le spalle leggermente incurvate, il sorriso accennato, lo sguardo affettuoso. I redattori lo salutano con serena sobrietà, l´abbracciano ma senza lutto, coi padri si fa così, li si rassicura per esserne rassicurati. Arriva una telefonata della Rossanda, che racconta il suo ultimo viaggio con Lucio. È stata lei, la sorella maggiore, l´amica forte e generosa, ad accompagnarlo in Svizzera. L´ex direttore Barenghi tenta di alleggerire l´atmosfera con ricordi di zuffe lontane. Parlato asseconda, è gentile, ma come distante: «Mi mancano i miei amici. Mi manca Luigi. E mi manca Aldo Natoli. Con loro mi sarebbe piaciuto parlare di Lucio, del suo gesto».

Lei, Parlato, come lo decifra?

«È il prodotto di una razionalità estrema, ma non possiamo trascurare la cifra sentimentale, la scomparsa della moglie. Per un uomo avventuroso come lui, Mara rappresentava l´ordine, l´ancoraggio forte. Lucio ha cominciato a morire insieme a lei».

Ve ne parlava?

«Sì, raccontava che avrebbe voluto morire con Mara, ma che lei gliel´aveva impedito. No, devi finire il libro, devi scrivere il saggio sul comunismo, ci tieni tanto. E io - diceva - le ho tenuto fede, ho concluso il libro. E ora sono arrivato al termine».

Un singolare impasto di raziocinio e romanticismo.

«Ma Lucio era questo, anche nella sua vita politica. Passione e ragione. Se penso a tutte le volte che abbiamo litigato...».

L´ultima volta?

«No, recentemente ci azzuffavamo non sulla politica ma su questa sua decisione di farla finita, però niente da fare. Lucio è sempre stato così, quando si mette in testa una cosa... Litigi accesissimi ci furono quando il Pdup nel 1973 annunciò di voler fare del Manifesto un organo di partito. Figurarsi Luigi, Rossana ed io, che i partiti li detestavamo, poi anche il Pdup non è che ci piacesse tanto».

Ma è vero che non "vi pigliavate", caratteri diversi?

«Lui raziocinante e incline alla teoria, io "arrangista" e fatalista: due modi diversi di stare al mondo...».

E tra Magri e Pintor erano scintille?

«Un rapporto conflittuale e insieme solidale. Avevano due personalità mica da ridere, con due opposte concezioni del giornale e della politica. Maggiori affinità legavano Lucio e Rossana, attenti alle ragioni della ricerca teorica e appassionati entrambi di filosofia tedesca. A Luigi della filosofia non gliene fregava niente».

Il fratello Giaime era un grande germanista.

«Sì, Luigi amava molto Rilke. Ecco proprio su questo classico di recente ho litigato con Lucio. Recensendo il libro di Luciana Castellina, scrissi che senza Rilke il Manifesto non ci sarebbe stato. Lucio la prese malissimo, "ma che cazzo c´entra Rilke con la lotta di classe?"...».

Vi vedevate spesso?

«Sì, abitiamo vicini, lui in piazza del Grillo e io in via del Boschetto. Ci capitava di giocare a scopone. Se non vinceva, si seccava».

Manie di protagonismo?

«Era un po´ egocentrico, narciso sì, d´una vanità singolare. Era convinto di essere bello».

Lo era.

«Sì, ma anche di essere agile. Quando salivamo le scale, faceva quattro scalini per volta. Anche negli ultimi tempi».

E i suoi amori un po´ spettacolari, il legame con Marta Marzotto?

«Cazzate di Lucio».

Era un perfezionista?

«In tutte le cose che faceva, era costituzionalmente spinto ad eccellere. Anche quando scriveva un articolo. Io riesco a farli così così, lui no, poteva starci giorni. Era molto meticoloso».

Lo è stato anche in morte: tutto deciso nel dettaglio.

«Sì, le pompe funebri già allertate, la lettera ai compagni».

Una morte estetica?

«No, una morte pulita. Voglio morire senza sfasciarmi sul selciato o in qualche altro modo atroce. Avrebbe voluto che passasse sotto silenzio. Cosa impossibile».

Un gesto che secondo lei ha un valore politico?

«Solo nel senso di dire "no". Un "no" alla politica italiana dell´ultimo ventennio, sinistra inclusa. "La sinistra italiana che conosciamo è morta", scrisse Luigi poco prima di morire. Così la pensava anche Lucio».

Ma lui voleva dare al suo suicidio un carattere di denuncia?

«No, è stato un gesto personale. Però non gli saranno sfuggite le conseguenze pubbliche. Voglio anche aggiungere che questo suicidio fa crescere il peso della sua personalità, la sua capacità di governare la vita fino in fondo».

Lei difende il diritto al suicidio?

«Sì, se uno è padrone della vita è anche padrone della sua fine. Nella Costituzione non c´è scritto che tutti i cittadini hanno il dovere di campare finché morte naturale non li fulmini».

Per uno che ha fatto politica per tutta la vita non è una fuga?

«No. È un giudizio definitivo sulla propria condizione, e sullo stato più generale delle cose, come se dicesse: per me, a 80 anni, non c´è più niente da fare».

Eretico in vita. Ed eretico in morte.

«La verità è che questo suicidio mi turba profondamente. Ho come l´impressione di non aver fatto abbastanza. Non mi sono arrabbiato abbastanza. L´ho subìto, insomma, e non me lo perdono».

L´ultima eresia di Lucio Magri è polemica sul suicidio assistito

di Maria Novella De Luca

Alla fine ciò che prevale sono il silenzio e il rispetto. Il ricordo dell´uomo, per molti dell´amico. Le polemiche ci sono, scoppiano ma non divampano. Per fortuna. Quella scelta così lucida e determinata, quella così chiara ammissione di dolore, fermano il mondo politico sulla soglia del pudore davanti alla morte di Lucio Magri. Che si è ucciso, pochi giorni fa, in Svizzera, con l´aiuto di un medico amico. Suicidio assistito. In Italia è vietato, di là, oltre il confine, è permesso. Si affollano piuttosto le immagini di chi Magri l´aveva visto ancora di recente, a Montecitorio per esempio, come Walter Veltroni, che «con tristezza e commozione» lo ricorda «come una delle menti più brillanti e originali della politica italiana». Racconta Veltroni: «Lucio ha voluto lasciare nel suo ultimo libro il suo testamento intellettuale, per poi ritirarsi per sempre dal dolore per la tragica scomparsa della moglie Mara». Anche da un cattolico praticante come Pierferdinando Casini, arrivano parole di rispetto: «Sono molto rattristato per la scomparsa di Lucio Magri, che ho conosciuto come appassionato intellettuale», scrive il leader dell´Udc in un breve messaggio affidato a Twitter, mentre il suo collega di partito Rocco Buttiglione prega perché «Lucio Magri venga accolto nella braccia del signore». Ma monsignor Sgreccia, voce della Chiesa, rammenta: «Non siamo padroni della nostra vita».

Prevale la commozione, ma anche l´amarezza, tra chi da anni si batte perché anche in Italia sia concessa la libertà di scelta sul "fine vita". «Spero che la vicenda umanissima di Lucio Magri, che ha deciso di non soffrire più, e ha posto fine al suo dolore, sia insegnamento» ammonisce Maria Antonietta Coscioni, deputata radicale. «Magri riteneva intollerabile vivere, preda di una depressione che lo faceva scivolare inesorabilmente in un "buio" provocato da ragioni pubbliche e private che sono insondabili e non vanno giudicate. Per porre fine al suo dolore, ha però dovuto "emigrare", un viaggio con un biglietto di sola andata...». Ma Ignazio Marino invita a non riaccendere il tifo da stadio da "pro-vita e pro-morte". «A Lucio Magri è dovuto un rispettoso silenzio, ci sono luoghi della nostra coscienza intorno ai quali nessuno deve permettersi di esprimere giudizi. Ma adesso non dividiamoci: il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana».

Dolore più che fragilità, un dolore insopportabile, una depressione cupa che assediava Lucio Magri da anni, da quando sua moglie Mara era morta, portata via da un tumore. Afferma Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori del Pdl: «Non entro nelle scelte personali, ma non è possibile pretendere che le compia lo Stato». Mina Welby risponde indirettamente, ricordando che se «Lucio Magri, ha scelto di morire, vuol dire che considerava la sua depressione senza via d´uscita e la scelta dell´individuo è l´unica cosa che conta». E rispetto esprime anche Beppino Englaro, ricordando come nel caso di Eluana, ciò che vale «è solo e sempre il primato della coscienza personale». Pacato ma netto il commento di Eugenia Roccella, ex sottosegretario al Welfare e in prima linea nelle battaglie pro-life: «La morte di Magri è un atto amaro e non va associata ad una scelta di libertà. Si tratta comunque di un suicidio, un gesto senza speranza».

"Ho deciso di morire" L´addio di Lucio Magri ai compagni di una vita

di Simonetta Fiori

Ha deciso tutto con lucidità. La fine in Svizzera, poi la sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici hanno tentato di dissuaderlo, ma lui era depresso per la morte della moglie

S´era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d´una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all´età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.

A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c´è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c´è più.

Da questa casa Magri s´è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l´aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: «Ma no, non preoccupatevi, torno domani». La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L´ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.

Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s´era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. «Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare», racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un´ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei.

Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un´insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.

Aspettando l´ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E´ affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l´edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c´è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s´era spenta la sua stella, così scrive anche nell´ultima lettera ai compagni.

Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un´espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. «A Emma, il suo nonno». Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.

Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L´ultimo viaggio, questo sì davvero l´ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s´appoggia allo stipite della porta, tramortita: «Non avrei mai immaginato che finisse così». Il tempo dell´attesa è concluso, comincia quello del dolore.

Pci una storia a sinistra fuori dagli schemi

di Nello Ajello

Un pilastro portante del "Manifesto", rivista e partito. L´interprete d´una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata - dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato - un´origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.

Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile "Per l´azione", un organo dei giovani della Dc cui si consentivano attacchi quasi temerari alle «brutture del capitalismo». Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d´una vita: «Era ammirato dalle compagne di scuola», così egli ricorda, «per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello». Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato «alla politica» veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, "Il Ribelle e il Conformista", è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma di Cesare Colombi (è uno pseudonimo di Magri) un articolo dal titolo "Bilancio del centrismo", nel quale di delinea un´ipotesi di apertura a sinistra - «senza contemplare una contrapposizione» fra il Psi e quel Pci, che in casa democristiana è il nemico. Sta intanto per uscire un´ennesima rivista, "Il Dibattito politico", che, legata all´orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l´ingresso dell´Italia nell´Unione europea occidentale.

Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è «la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo». Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso «la sinistra storica» è nei fatti.

La "vita democristiana" di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il Pci e poi la permanenza in quel partito. Nell´estate del ´58, Giorgio Amendola, responsabile dell´organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c´è il quasi gemello Chiarante. «Parlammo un po´ di tutto», racconterà quest´ultimo. L´impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l´illustre ospite li ritenesse «forse non a torto, degli intellettuali un po´ astratti». Gli raccomandò, comunque, «di avere delle esperienze di base». Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell´ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraiani erano tanti.

Lo aiutò alquanto l´amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d´ingresso in Polonia dove si svolgeva un´assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera.

Nel Pci si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l´avvento di Krusciov. Non fu occasionale l´accoglienza che a Magri riservò il settimanale "Il Contemporaneo", diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle "bestie nere" di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase dc, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra.

Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa. Ma non fu certo suo esclusivo merito l´evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l´arrivo in edicola, a Roma, della rivista "Il Manifesto", che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo "Il Principe", ma poi rinunzia. In un suo volume, "Ritratti in rosso", Massimo Caprara descriverà i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso». A Magri assegna un superlativo: «ferratissimo».

Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra Pci e Dc. Sotto il titolo "Praga è sola", si tesse un elogio della "primavera" di quella capitale, che Mosca ha represso.

A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da "Rinascita" all´Unità" i preannunzi d´un "redde rationem" rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta "la Quinta", presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto. Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà - è ormai il novembre ´69 - la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo «provvedimento amministrativo» (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del "ferratissimo" Magri.

Fine anni Cinquanta: fuori dalla Dc. Fine anni Sessanta: fuori dal Pci. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po´. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del Pci, e questa sua protesta trova l´appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l´episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del Pci, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Pdup, partito di unità proletaria, con il quale il gruppo del Manifesto s´era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel Pci, quando il Pdup vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito. Fino alla finale dissoluzione del Pci, Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al Pci (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell´occasione conserva un´immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l´esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!».

INVIATO A PIEVE DI SOLIGO -
Qui nell’alta marca trevigiana ci sono piccole zone incontaminate che resistono. Posti dimenticati come Refrontolo che hanno una felicità in sé e conservano un loro incanto. Ma ormai non si può più nemmeno pensarlo, il vecchio Veneto. «In giro c’è una ferocia tale che si esprime in un impulso alla velocità, alla fretta…» dice il poeta Andrea Zanzotto. Oggi compie 90 anni e per l’occasione verrà presentato un libro celebrativo intitolato Nessun consuntivo con un saggio di Carlo Ossola, contenente una lettera del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Da Pieve di Soligo, da quel mondo collinare che ha fatto da fondale ai quadri eterni di Giorgione, Tiziano e Tintoretto, poi devastato dall’industrializzazione selvaggia e dai capannoni del mitico Nord Est, il più cosmopolita dei nostri poeti continua a guardare alle cose del mondo e a tutti noi. Non senza rovelli e nuovi spettri. Zanzotto, a casa sua, è seduto al centro di un piccolo divano, coperto da un berretto rosso e un plaid marrone. Il suo viso è scavato dall’età e dagli acciacchi, ma gli occhi si muovono vispi. La testa mobile e curiosa, da indignato cronico.



È vero che segue da vicino la crisi finanziaria mondiale?


«Questa modernità cannibale mi ossessiona. La stoltezza che circola si palpa come un vento».



«In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato o se ingoio…», scrisse qualche tempo fa. Aveva forse previsto tutto?


«La mia cultura è soprattutto letteraria. Per questo mi trovo a inseguire delle realtà con il dubbio di non raggiungere nessuna e benché minima formulazione di un quadro attendibile. C’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente che sento di non poter controllare».



Se per questo anche gli economisti non hanno previsto nulla. Zanzotto lei è in buona compagnia…


«Questo è vero. In alcuni momenti credo di poter formulare qualcosa di abbastanza stabile. Forse è soltanto il potere della poesia a far sì che riesca a mantenere un contatto con il mondo nonostante il senso di disappartenenza in cui mi trovo costretto a vivere, anzi a sopravvivere. Ma poi mi accorgo che anche questa è un’illusione. Tutto è pressappoco e ci si trova con il fumo nelle mani…».



Lei parla di illusioni. Però le sue battaglie contro la cementificazione selvaggia che si sta mangiando mezza pianura del Piave, sono fatti molto concreti. Qui a Pieve di Soligo si ricordano tutti quella, vinta, a difesa del prato di via delle Mura. Doveva nascere un mega palazzetto, lei è riuscito a fermare le ruspe… 


«La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia. Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare».



Un’altra battaglia che combatte da anni è quella contro l’imbroglio della cultura leghista…


«Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».



Eppure nei comuni qui attorno, in questi luoghi del quartiere del Piave sacro alla patria – Moriago e Nervesa della Battaglia, il Montello degli ossari dove correva la linea del fronte della Grande Guerra, l’isola dei morti dove il 26 ottobre 1918 gli arditi sfondarono le linee austriache - la Lega e la sua retorica anti italiana fanno il pieno di voti da anni, com’è possibile?


«Perché esiste una contraddizione molto forte tra la tradizione dell’Italia una e indivisibile e un paese reale diviso dal punto di vista economico. Questo dualismo lasciato marcire per anni ha confuso i piani producendo l’imbroglio di due paesi altri tra loro. Arrivando all’equivoco padanico».



Invece riaffermare nel corso del suo 150esimo anniversario l’unità d’Italia è stato come un urlo liberatorio. Come se Napolitano avesse gridato: “il re è nudo”, sgonfiando d'incanto la retorica secessionista.


«Il viaggio in Italia di Napolitano in occasione del 150˚ anniversario dell’unità ha come riscoperto un patriottismo sopito. In precedenza si era sottostimato quel che era il bisogno di proclamazione unitaria».



In effetti anche l’ex sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, al dunque si rimette in testa il cappello da alpino e sventola il tricolore. Il sindaco di Verona Flavio Tosi pure. Continua però l’abuso del dialetto, strumentalizzato a fini politici dai dirigenti leghisti… 


«La riaffermazione di Napolitano spero dipani anche questo grande equivoco identitario. Come ci ricorda Gian Luigi Beccaria nel suo splendido libretto Mia lingua italiana , per prima è venuta la lingua. Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il desiderio e il progetto di una nazione italiana. A partire da Dante, Petrarca e Boccaccio. Naturalmente ci sono mancanze e ritardi in un processo forse non del tutto riuscito che ha portato all’Italia unita».



In che senso?


«Storicamente le lingue erano frazionate, c’era una radicalità di dialetti, questo è vero. I mille sbarcati in Sicilia non si capivano, Cavour e la classe colta piemontese parlavano francese. Pittoreschi contrasti che però convergevano verso l’unità del paese, perché la lingua e la nostra tradizione letteraria ci hanno insegnato cosa significasse essere italiani e non soltanto fiorentini, lombardi, veneti, piemontesi o siciliani...».

Una lezione che i novant’anni di Andrea Zanzotto, veneto di Pieve di Soligo, la vandea leghista, ricordano a tutti a futura memoria.

Aldo Natoli è stato un combattente per la libertà e la democrazia in Italia. È stato un intellettuale raffinato e insieme un uomo politico impegnato a fianco dei lavoratori, sempre in sintonia con i bisogni popolari. Negli anni Trenta da giovane ricercatore in medicina si trova a Parigi, nell'istituto di ricerca sui tumori, ma presto la lotta al nazifascismo lo sottrae agli amati studi e lo chiama all'impegno politico nella clandestinità. Entra nella lotta partigiana, nel gruppo romano di Amendola, Ingrao, Alicata, Lombardo Radice . Viene arrestato e condannato a cinque anni di carcere dal Tribunale Speciale.

Nel Parlamento della Repubblica sin dalla prima legislatura e poi nelle quattro successive viene eletto deputato come esponente di spicco del Partito comunista italiano. Nel contempo come consigliere comunale di Roma si impegna contro la speculazione edilizia nella famosa campagna «Capitale corrotta, nazione infetta». I suoi discorsi nell'aula Giulio Cesare del Campidoglio analizzano in modo originale e rigoroso i meccanismi della rendita urbana e divengono presto saggi scientifici studiati dalla più moderna cultura urbanistica italiana del tempo. Natoli diede un contributo peculiare a quel movimento riformatore, forse il più ambizioso e insieme il più osteggiato della storia repubblicana. Le sue idee, infatti, furono riprese dal progetto del Ministro democristiano Fiorentino Sullo con la legge dei suoli, quel progetto - ricordiamolo - battuto da una pesante controffensiva conservatrice cui non fu estraneo il «rumore di sciabole» del generale De Lorenzo. Se avessero vinto le idee di Natoli e di Sullo avremmo forse salvato parti preziose del paesaggio italiano e oggi avremmo città più vivibili.

Il ricordo vola poi ad un passaggio decisivo della sua biografia e del dibattito interno al Partito comunista. Natoli fu infatti radiato nell'ottobre del 1969 da quel partito e insieme al gruppo de Il Manifesto nel vivo di un contrasto politico che riguardava questioni rivelatesi poi cruciali negli anni successivi: le risposte da dare ai movimenti culturali e sindacali del biennio 1968-1969, la rottura con l'Unione Sovietica e il fallimento delle esperienze dei Paesi del socialismo reale già reso evidente dai carri armati di Praga e, infine, la libertà del dissenso nel dibattito interno al partito. Natoli fu protagonista di quel duro confronto politico e culturale.

Dopo la rottura e nonostante la rottura rimase legato all'idea tipica di quella generazione che si potesse fare politica soltanto all'interno di grandi forze popolari e rifiutò di partecipare a formazioni politiche minoritarie. Abbandonò l'impegno politico diretto negli anni successivi e tornò a coltivare l'amor per la ricerca culturale motivata non tanto da astratte teorie ma dall'insopprimibile esigenza di comprendere l'epoca in cui si era trovato a vivere. Per questo focalizzò gli studi sulla storia del movimento comunista internazionale, sia sulle sue tragedie sia sulle sue migliori espressioni, da cui vennero studi importanti sulle origini dello stalinismo e sulla figura di Antonio Gramsci, interpretata in modo originale con gli occhi di Tatiana Schucht in un bellissimo libro dal titolo significativo Antigone e il prigioniero.

Da circa quarant'anni Natoli dunque non era più attivo nella politica italiana e questo ne fa oggi, secondo le mode correnti, una figura inattuale. Eppure, se pensiamo allo stato di salute non brillante di parti non secondarie del ceto politico attuale dobbiamo augurarci per il futuro che sorga una nuova generazione di politici appassionati, di politici colti, di politici sensibili ai bisogni popolari.

Se questo serve al futuro del Paese, uomini come Aldo Natoli, al di là delle ideologie che hanno rappresentato, possono essere additati come esempio ai giovani che si impegnano in politica

RICORDO

Aldo Natoli, un comunista per amico

di Rossana Rossanda

È sulla fine degli anni cinquanta che ho conosciuto Aldo Natoli. Lui era Roma, io Milano, lui il quadro più rilevante di quella federazione, io un quadretto della federazione milanese, lui all'ultimo processo del regime nel 1936, quando io ero ancora al ginnasio, lui deputato e consigliere comunale in Campidoglio che aveva assestato, assieme agli ex azionisti romani, il primo duro colpo alla speculazione con il famoso «Capitale corrotta, nazione infetta», io che facevo il mio apprendistato a Palazzo Marino, lui da tempo, forse da sempre, nel Comitato centrale del Pci ed io appena entrata. Là ci eravamo, se si può dir così, «annusati», a qualche anno dal 1956, rientrata ogni speranza in un cambiamento dell'Urss, ma il nostro partito in crescita e in eccitazione. L'accento comune, che aveva permesso di ascoltarci e riconoscerci era: più avanti, più a sinistra - una sinistra che non aveva niente a che vedere con lo stalinismo che, una volta per sempre e senza dovercene mai pentire, avevamo capito essere di destra.

Aldo era un bellissimo uomo, agile ed elegante, di quelli che vestono sempre perfettamente e allo stesso modo sia che entrino alla Camera o in una sezione della Garbatella, era un medico ma faceva il militante comunista a tempo pieno, parlava tedesco e aveva in alcuni eminenti scienziati antifascisti tedeschi uno dei riferimenti del cuore, suo fratello era il francesista Glauco Natoli. Fui dunque lusingata quando mi invitò, un giorno del Cc, a colazione. Ricordo una giornata di sole, una caffetteria in via Veneto, l'immediato intendersi nel giudizio, in quel che ci premeva e avremmo voluto. Al momento di pagare, l'inappuntabile gentiluomo cerca inutilmente il portafoglio, l'aveva lasciato in un'altra giacca e il suo, per me assai meridionale, imbarazzo, ci mise in allegria. Eravamo diventati amici e lo siamo rimasti sempre.

Compagni e amici. Nella stupidità attuale neppure si immagina che cosa è stato il legame fra comunisti allora, un rapporto totale e riservato, un vedersi camminare assieme, inciampare e raddrizzarsi assieme, sorridersi da lontano. Non credo di aver messo piede in casa sua, né lui nelle mie due stanze a Roma, quando le ebbi. Una volta mi mostrò un disegno di Bruna, e così venni sapere che aveva anche una figlia. Senza di lui sapevo di Claudio. Oggi so che pensare della distinzione fra pubblico e privato, ma so anche che allora ci fu un modo di essere pubblico che non poteva essere più interiore e interiormente condiviso.

Una differenza c'era fra noi sul rispettivo polo di interesse: Natoli era una figura carismatica per il popolo di Roma, lo ascoltavano dovunque, conosceva tutti, sapeva parlare allo stesso modo, senza fronzoli né lunghezze, in piazza e in Parlamento, ma la sua testa non stava a Roma, scrutava nelle vicende del comunismo internazionale. Io ero stata tutta dentro Milano, nella vicenda d'una classe operaia che il partito elogiava ma non prediligeva, mi volevano abbastanza bene ma carisma zero, la testa interamente in Italia sul presente.

Aldo aveva sentito la sfuriata di Togliatti su Amendola quando questi, per la prima e ultima volta nella sua vita, aveva definito un peso il rapporto con l'Urss. Io pensavo alla Breda e ai pendolari dalle cinque alle otto verso l'entroterra milanese. Ci pareva, e tutto sommato era, lo stesso identico problema.

Nel '58, credo, Togliatti ribaltò la molto ortodossa redazione di Rinascita, sua rivista personale, immettendovi dei bizzarri come Natoli, Trentin, altri giovani e me. In quella riunione mensile, cui non mancava mai, si discorreva con libertà - per libertà intendevamo allora, ma è insolito oggi, suonare ognuno sullo stesso filo musicale, che tutti interpretavamo e nessuno avrebbe spezzato (forse come nel jazz dei tempi gloriosi). Nei momenti migliori degli anni Sessanta fu così, dopo la morte di Togliatti la sfida divenne conflitto. Io dirigevo gli intellettuali, nel senso che mettevo fine alle direttive care ai Sereni e agli Alicata, Ingrao e Reichlin aprivano un pericoloso dibattito sul centrosinistra imminente, i colpi che ci menavamo non erano leggeri.

Nel 1966 cademmo tutti, Ingrao con onore, Natoli confermato come figura nobile ma periferica, Pintor fuori da l'Unità, Castellina fuori dai giovani, Magri fuori dal lavoro di massa, io fuori del tutto da qualsiasi incarico. Gli ingraiani furono definiti dall'occhiuta direzione del Pci prima che da se stessi. Nel 1968, studenti e invasione della Cecoslovacchia ci trovano tutti dalla stessa parte. Al XII Congresso votammo tutti, nelle rispettive istanze, contro le tesi della direzione. Natoli, Pintor ed io fummo, per così dire, distillati fra coloro che restavano ancora nel Cc, pochi ma rispettati, rispettati ma pochi. E là ci infilarono come farfalle gli obiettivi dei fotografi ammessi a riprendere i tre che il Cc radiava. Per aver fatto e mantenuto fermo il manifesto rivista. A Aldo Natoli, che parlò per ultimo dopo tre lunghi dibattiti, non fu perdonato che dicesse: non occorre una tessera per essere comunisti.

Del manifesto abbiamo parlato altre volte. A guardar bene, si era coagulato in tutti gli anni Sessanta. Il mensile che decidemmo di fare, andando ogni giorno in piazza del Grillo, fu un bel lavoro. Il suo successo fu strepitoso. Aldo, che era tornato dal Vietnam e vi aveva molti compagni, scrisse soprattutto sul comunismo internazionale e avrebbe fatto, assieme a Lisa Foa, tre pezzi sulla Cina di Mao che, a mia conoscenza, sono rimasti senza uguali in Italia. Non fu entusiasta quando si passò al quotidiano, opera soprattutto di Pintor, ma vi lavorò come sempre, assieme a Lisa Foa, Luca Trevisani e me e con successo. Su due questioni puntò i piedi, sull'andare con la nostra lista alle elezioni nel 1972 e sul diventare presto un partito. Ero dello stesso avviso, ma più accomodante di lui. Lui era più anziano, più provato, più scettico sui tempi e forse sul fine. Fece la campagna elettorale ma non andò oltre. Oggi, con gli occhi del femminismo che allora non conoscevo, penso che i tre uomini, Magri, Pintor e Natoli avevano idee più simili di quanto permettessero i loro caratteri. Sono le donne che fanno precedere al carattere le idee. Nessuno fece clamore, quando prese le sue decisioni, non ci fu un giorno in cui si consumarono adesioni e rotture. Aldo restò un amico ma sempre più appartato, con un suo giudizio ben fermo, che noi più giovani non volevamo ammettere: il comunismo avrebbe richiesto tempi più lunghi. Non so se immaginasse con quanta disinvoltura i cugini di Amendola e i figli di Berlinguer avrebbero fatto a pezzi il partito dei comunisti.

Studiava e scriveva. All'Istituto Gramsci scoprì il carteggio, intonso, fra Antonio Gramsci e Tatiana Schucht, la compagna russa cui alcuni, forse l'esecutivo dell'Ic, affidò la cura del prigioniero ormai nel carcere di Turi. Tatiana era sorella di Julia, sposata da Gramsci a Mosca, e dunque aveva diritto di visita a nome della famiglia. Gli sarebbe rimasta accanto per oltre dieci anni, andando a Turi appena ne aveva il permesso, portandogli libri e le povere cose di cui aveva bisogno, fino alla semilibertà in una clinica di Formia e poi, sempre più ammalato, nella clinica Quisiana di Roma, dove si sarebbe spento nel 1937.

Di Tatiana, che chiama Antigone in uno dei suoi libri, Aldo quasi si innamorò, tanto era lei stessa innamorata di Antonio, senza dirglielo né dirselo, ricevendo tutte le sue angosce e qualche volta le sue ire, devota alla sorella e alla sua curiosa famiglia, e insieme più fiduciosa nel Pcus che nel Pc d'Italia. Non scrisse che cosa pensava dei sospetti di Antonio su una lettera, che gli parve incongrua, di Grieco né dell'isolamento in cui lo lasciarono i compagni di galera quando criticò la linea del «muro contro muro» dell'Ic. Gramsci non capiva perché Togliatti non facesse il massimo per ottenere la sua liberazione. Con uno scambio? Per mezzo del Vaticano? Stava sempre peggio, della sua sofferenza e amarezza Tatiana fu indolenzita testimone, alla fine convinta di una sorta di persecuzione degli italiani di Mosca, infuriata perfino con Piero Sraffa, accorso per parlare con Gramsci prima della fine. Che cosa si dissero non sappiamo. Certo Antonio dovette scoprire molte verità. Non era davvero libero, era stato condannato non solo dai fascisti, come aveva già scritto, non sarebbe andato né a Mosca né nei pressi di Ghilarza. Pochi giorni dopo morì. Tatiana raccolse le sue cose, mise in salvo i quaderni, lo fece incenerire e seppellire in un funerale senza seguito, tornò nell'Urss e vi morì durante la guerra.

Di questo carico di dolore nessuno ha scritto come Aldo Natoli - anni prima, forse, e anche lui non amato dal Pci, Peppino Fiori. Neanche i gramsciani, mi sembra, hanno adorato questo outsider, precisissimo ma non nella cerchia degli addetti ai lavori, che nel destino di Gramsci scrutava le pieghe terribili del comunismo degli anni Trenta, all'epoca di Stalin su cui avrebbe scritto un altro bel libro. Su Togliatti, Aldo non ebbe mai uno sguardo men che severo.

Non so se ne abbia scritto e se lo troveremo nelle sue carte. Dopo la morte di Mirella, la moglie, da alcuni anni non stava più bene. Non avrebbe cambiato la sua vita per un'altra, ma le solitudini del secolo le ha conosciute tutte. Sotto il fascismo quella del carcere, poi l'impegno della resistenza e il breve entusiamo della rinascita, presto la durezza della guerra fredda nella Roma papalina ma colorata di rosso, le asperità degli scontri nel partito, altra solitudine nel 1956, altra speranza nei Sessanta, poi l'esclusione dal partito, nuova speranza e nuove difficoltà nel manifesto e, dopo, il ritiro. Solitudini mai esibite, sempre nella sua eleganza e riserbo. Non credo che abbia mai chiesto aiuto, né gli è stato dato, né l'avrebbe tollerato. Era un comunista, stirpe di signori nel Novecento. La terra gli sarà lieve.

PARLA PIETRO INGRAO

«La militanza e l'amicizia»

di Tommaso Di Francesco

«Provo un grande dolore - Pietro Ingrao parla lieve, con una voce rotta dall'emozione che lo interromperà più volte nelle risposte - e non solo per la grande stima ma per l'affetto che io e tanti come me sentiamo per Aldo, per la sua umanità così profonda e così indirizzata alla militanza, insomma, puoi capire quanti ricordi adesso passano per la mia mente e quante immagini di fratellanza con una figura come Aldo, così fortee appassionata...è una grande perdita.»

Come vi eravate conosciuti?

«L'ho conosciuto alla fine degli anni Trenta.. Io ricordo gli incontri che abbiamo avuto al momento in cui si formò questa aggregazione politica comunista, nell'area romana e lui fu in prima linea nella costruzione di questo schieramento. Era pieno di passioni e poi contemporaneamente aveva anche un'ironia,sempre, quando parlava poi delle nostre lotte, dei nostri tentativi e anche degli approcci che facevamo, della visione in generale della lotta nel mondo».

Come maturarono le tue, le vostre scelte politiche?

«Per me sia l'incontro con lui, sia un po' il mio modo di leggere le cose maturarono tra il '36 e il '39. Direi che è lì che per me avviene lo stacco dalla passione per la letteratura e l'impegno politico a tutto campo e lì conobbi anche la sua umanità. Tieni conto che ci fu anche una presenza femminile, la mia fidanzata, Laura Lombardo Radice era molto amica di Mirella che è stata la compagna di Aldo e questo intreccio di passioni umane e di insieme impegno nella cospirazione e nello schierarsi furono parecchio fuse e fecero per me un insieme molto stretto tra la passione politica e al tempo stesso l'amicizia umana».

Quale fu l'evento che caratterizzò l'impegno comunista e che ruolo ebbe Aldo Natoli?

«Sono emozionato al ricordo, scusami. Per me il punto chiave dell'impegno ed insieme quindi la conoscenza del mondo con cui poi dopo imparai a cospirare fu l'aggressione di Franco in Spagna, lo sbarco, l'attraversata dello stretto di Gibilterra e l'inizio della guerra fascista e nazista spagnola. Lì fu un evento che mi disse che tutto cambiava nella mia vita e fondava soprattutto ed in primo luogo la capacità di militanza e come allora bisognava procedere con pienezza, direi, d'impegno nell'azione quotidiana alla pratica e alla predica della lotta comunista e per la liberazione dell'Europa. Questi prodromi che poi sfociarono nella straordinaria, grande, emozionante guerra di Spagna mi trascinarono alla cospirazione e all'impegno militante e in quegli anni l'incontro con Aldo è stato di grande importanza. Con Aldo, con Lucio che erano nel carcere di Civitavecchia e che per noi erano grandi punti di riferimento, furono loro gli esempi che ci trascinarono all'azione».

Poi, nel dopoguerra, c'è stata una lunga storia di rapporti di militanza nel Pci. Anche lì c'era Aldo, nei momenti cruciali come l'attentato a Togliatti, o come nell'impegno rigoroso contro le trasformazioni sociali e di potere della città di Roma, con la campagna memorabile, giornalistica e politica «Capitale corrotta, nazione infetta»...

«Sì, fu il suo un lavoro proprio sulla metropoli. Sul cambiamento della metropoli e questo sogno anche della nuova capitale aprì per tutti noi, nel partito ma anche fuori, uno squarcio capace di portare tutta una nuova generazione all'impegno militante, quando tutta la vita, tutta la giornata viene presa e viene spostata a lavorare per il comunismo e per la rivoluzione».

E alla fine degli anni '60 ci fu la questione del manifesto, e fu una rottura dolorosa...

«Bè, furono vicende laceranti e lì io pure sbagliai e non seppi realizzare l'invenzione dello scarto che mi portasse a capire la novità anche dell'impegno di compagni come Aldo, Rossana. Lì commisi degli errori che ho ancora duri nella mente, però poi ripresi una conoscenza e un contatto con Aldo che mi restituì tutta la forza della sua umanità. In questo ci fu anche un intervento della mia compagna, Laura, che veniva dal ceppo dei Lombardo Radice. S'impegnò nell'incontro con la famiglia di Aldo e quindi la trama dell'amicizia e del rinnovamento si allargò ancora di più, divenne più stretta. In qualche modo l'amicizia con Aldo divenne ancora più salda».

Se tu dovessi raccontare ad un giovane che cosa perdiamo con Aldo Natoli, cosa diresti?

«È una perdita grande, quella di una figura che aveva una capacità intensa di vivere e suscitare militanza e coinvolgimento umano. Una perdita grande...»

MEMORIA

14 luglio 1948, l'attentato a Togliatti

di Luciana Castellina

«Il Pci - amava ripetere Togliatti - è una giraffa». Intendeva dire che era un animale bizzarro, anomalo, molto dissimile dagli altri partiti comunisti. Ebbene, Aldo Natoli è stato, sin dall'inizio, una giraffa nella giraffa e io, quando l'ho incontrato per la prima volta, sono in effetti rimasta sbalordita. Era il 18 novembre 1947 e si votava per le elezioni amministrative di Roma: la sinistra unita nel Blocco del Popolo, simbolo l'effige di Garibaldi. La sera prima, in una colluttazione fra ragazzi che attaccavano gli ultimi manifesti, a Piazza Vittorio, un giovane democristiano, Gervasio Federici, era rimasto sul terreno, ammazzato. Furono accusati e arrestati a casa loro molte ore dopo un gruppo di giovani comunisti. Erano tempi feroci e la provocazione all'ordine del giorno. Questa era destinata a influenzare il voto e lo influenzò, seminando il terrore dei «rossi». Ricordo bene quel giorno perché fu quel giorno che, rompendo i restanti indugi, chiesi la tessera del PCI, misi piede per la prima volta nella sede della Federazione romana e conobbi Aldo Natoli, che poco dopo ne divenne segretario. Io, certo, sapevo che i comunisti non mangiavano i bambini, ma per una ragazzetta come ero io non era da poco scoprire, in quel duro `47, la guerra fredda appena scatenata, l'anticomunismo più rozzo all'apice, che il capo dei «rossi» della capitale era un intellettuale particolarmente raffinato, sotto il braccio sempre opere letterarie preziose o un disco di musica del `700 («dopo non c'è più stata musica all'altezza», ricordo che mi disse nella prima conversazione personalizzata e le sue parole hanno segnato il mio gusto da allora).

Negli anni successivi, nelle tante riunioni nello stanzone di piazza S. Andrea della Valle, o nel salone della sezione Ponte Regola, in via Banchi di S. Spirito, dove si tenevano gli «attivi» del martedì, ho avuto modo di capire che quell'intellettuale così difforme dal cliché dei dirigenti «rossi» dell'epoca era anche il leader riconosciuto - amato, stimato - dei comunisti romani. L'uomo di cui avevano fiducia, non solo per le sue analisi brillanti (ricordo il suo rapporto sull'edilizia romana, al terzo congresso della Federazione, nel dicembre del `47 - pochi mesi dopo uno sfortunato sciopero generale per le case popolari e il risanamento delle borgate - in cui individuò il nemico vero, la proprietà fondiaria dell'aristocrazia nera e l'incipiente affarismo bancario, contro ogni iimpostazione assistenzialista); ma anche nei momenti drammatici, nel fuoco dello scontro. Ho ancora impressa nella memoria la sua immagine quel 14 luglio 1948 quando, solo poche ore dopo l'attentato a Togliatti si riversò sul centro di Roma paralizzato da un immediato sciopero generale, a bordo di improvvisati gremiti trasporti, il popolo inferocito delle borgate e tutto poteva accadere. A piazza Colonna furono Aldo Natoli e, se non ricordo male, Sandro Pertini, a cercare di calmare i compagni, a far defluire il corteo.

Solo l'autorità indiscussa che gli veniva riconosciuta poteva riuscire. Aveva alle spalle, è vero, la lotta clandestina e il carcere che gli avevano dato prestigio; e aveva il sostegno di Edoardo D'Onofrio, un uomo che da lui non avrebbe potuto esser più diverso e che però ebbe la lungimiranza di sceglierlo come suo delfino e che a tutti noi, in un Pci ancora tanto operaista, insegnò a occuparci del sottoproletariato della cintura rossa senza disprezzare né ladri né puttane, ma senza nemmeno populismo o compiacimento, e anzi per portare a Primavalle o al Tufello cultura e coscienza di classe. E «coscienza nazionale», come si diceva allora. (Non è un caso se quando, nel `60, scoppiò nel Partito la polemica su Pasolini, quel gruppo dirigente si schierò dalla parte dell'autore di «Una vita violenta»). È così che è stato costruito il «partito nuovo», anomalo come una giraffa. Poi sono accadute tante cose e nel `69 ci siamo ritrovati, con Aldo, nel Manifesto. Ho voluto ricordare in questo giorno doloroso le pagine più antiche della sua storia di militante comunista, quegli anni in cui il centro delle nostre vite era quel palazzo un po' scalcinato fra corso Rinascimento e corso Vittorio, negli uffici e alla mensa dove per tanto tempo abbiamo continuato a consumare assieme il pasto di mezzogiorno e dove molti di noi, un po' più giovani, hanno imparato quasi tutto.

UN NASTRO DI PAROLE

«Ho conosciuto gli operai e i contadini in carcere»

di Alessandro Portelli

Nel 1987, aggirando un'antica soggezione, andai con Nicola Gallerano a parlare con Aldo Natoli per un numero su Roma dei Giorni Cantati. Ci raccontò l'impatto nel dopoguerra con una sconosciuta Roma popolare, in termini resi emozionanti da quel suo ritegno rigoroso, da un senso della propria diversità che fonda una passione senza populismo: «Io sono un meteco a Roma, un siciliano che ha vissuto sin dalla mia prima giovinezza qui», spiegava, «ma non posso dire di essermi mai profondamente acclimatato con gli umori popolari. In fondo, io prima di diventare comunista ero un giovane intellettuale aristocratico. O per lo meno pretendevo di esserlo. Ma stavo molto bene con loro; e in questo forse vi era il ricordo del modo come io mi ero proletarizzato, in un certo senso, quando stavo in galera. Però dal punto di vista culturale in fondo io ho mantenuto sempre questa ristrettezza - stavo per dire autonomia, ma preferisco dire ristrettezza aristocratica». «Nell'attività politica che ho svolto prima di essere arrestato, fra la fine del `35 e la fine del'39, non ho mai avuto un contatto con un operaio. Il partito ci indicava l'interdizione di avere contatti in ambiente operaio. Questo derivava (anche) dal fatto che l'ambiente operaio romano, di sinistra, comunista in particolare, era stato semidistrutto dalla repressione, e dall'infiltrazione, poliziesca. Quindi io non avevo mai conosciuto un operaio, un contadino. La mia prima conoscenza avvenne in carcere. E rese più agevole dentro di me lo svilupparsi di alcuni processi di mitizzazione relativamente alla classe operaia e ai contadini. Cioè, quando io ricordo i rapporti che io ebbi in carcere, con operai e contadini, debbo resistere alla mitizzazione. Capisci?» C'è chi mitizza la classe in astratto, e poi si dice deluso; e chi costruisce sulla conoscenza un legame che dura tutta la vita.

Riascoltando il nastro, mi accorgo che «capisci?» non è un intercalare ma la parola chiave: non racconta avventure, del passato, ma ci aiuta a capire che cosa è Roma, che cosa siamo noi. I fornaciai di Valle Aurelia, le donne di Trastevere che andavano al Divino Amore ma erano furiose contro l'articolo 7, il Quarticciolo («al Quarticciolo c'era il Gobbo, in quel tempo. Capisci? Quindi c'era un intreccio, fra le frange del partito e non solo questa piccola delinquenza locale ma il clan del Gobbo. E il Gobbo pretendeva di essere lui il comunista, lì»): «Capisci, noi avevamo verso il sottoproletariato delle borgate, una posizione che non aveva niente a che fare con il perbenismo. E in questo magma sottoproletario, con una percentuale altissima di immigrati del Sud - senza lavoro, gente che si arrangiava - il partito aveva un enorme prestigio. Questi vedevano il partito come lo strumento della redenzione». Non si trattava solo di andarci, nelle borgate, ma di riportarle dentro Roma: «La lotta contro il patto Atlantico: come avremmo potuto fare quella lotta nel centro di Roma se non ci fosse stata la partecipazione delle borgate? Ma alla fine del `47, sulle questioni della disoccupazione, noi facemmo uno sciopero generale che durò due giorni. Con una azione, organizzata, formidabile - di interventi nel centro e nella periferia. E perfino con azioni gappistiche: nel senso per esempio di paralizzare i trasporti distruggendo gli scambi dei tram; oppure spargendo i chiodi a quattro punte. Ma in certe borgate organizzavamo scioperi a rovescio. Per esempio, costruivamo le strade». Nel congedarci, raccontava: «Giorni fa mi ferma per strada un tranviere» (l'amore di Natoli per Roma proletaria è stato intensamente ricambiato) «e mi chiede: Natoli, che fai? E io: sono un comunista senza partito». È doloroso. Ma da quel giorno sono stato fiero di esserlo anch'io.

ALDO NATOLI

Vita e storia di un comunista «senza partito»

Aldo Natoli (Messina 20 settembre 1913- Roma 8 novembre 2010) è stato medico, antifascista e deputato del PCI per cinque legislature.

Laureatosi in medicina e chirurgia, fu inviato dall'Istituto italiano del cancro all'Institut du cancer a Parigi nel 1939; partecipò con Bruno Sanguinetti, Lucio Lombardo Radice e Pietro Amendola al gruppo comunista romano, una delle esperienze più emblematiche del nuovo antifascismo che si stava formando in Italia alla fine degli anni '30; stabilì, insieme con Bruno Corbi, un collegamento con il Centro estero del Pci a Parigi in stretto contatto con il fratello Glauco, lettore di lingua italiana all'Università di Strasburgo. Rientrato in Italia, fu arrestato nel dicembre 1939 insieme ai militanti del gruppo di Avezzano (tra cui Bruno Corbi e Giulio Spallone) e condannato a cinque anni di carcere dal Tribunale Speciale. La «scuola del carcere» fu, come egli stesso ebbe a testimoniare nel libro «Il Registro», decisiva per la sua definitiva «scelta di vita» comunista.

Dopo tre anni di reclusione a Civitavecchia, poté avvalersi di un provvedimento di indulto e di amnistia e fu scarcerato nel dicembre 1942. Dopo la breve parentesi del servizio militare, durante la quale si guadagnò la fama di medico antifascista, tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 entrò nell'organizzazione del PCI. Partecipò alla Resistenza romana, lavorando alla redazione de l'Unità clandestina ed occupandosi dei contatti radio con le regioni liberate.

Dopo la Liberazione fu dapprima vicesegretario e poi segretario della Federazione di Roma e del Lazio del PCI, dedicandosi alla costruzione del «partito nuovo» attraverso una vasta azione di acculturazione politica e di crescita civile nei quartieri popolari e nelle borgate. Fu anche protagonista della grande stagione degli «scioperi a rovescio» dei braccianti e dei lavoratori del basso Lazio. Nel 1948 fu eletto deputato nel Lazio e riconfermato al Parlamento sino alle elezioni del 1972. Consigliere comunale di Roma dal 1952 al 1966, fu capogruppo del PCI in Campidoglio. Qui condusse una battaglia contro la politica delle amministrazioni centriste, contro il «sacco di Roma» da parte delle grandi società immobiliari, in stretto rapporto con le correnti culturali più avanzate in campo urbanistico. Nel 1956 entrò in contrasto con la direzione del Pci sull'invasione dell'Ungheria, pur continuando la militanza nel partito. Negli anni '60 fu impegnato sulle tematiche delle riforme di struttura, a cominciare dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Nel 1965 fece parte di una delegazione del Pci che si recò in Vietnam, incontrando il presidente Ho Chi Minh e aprendosi ai temi dell'internazionalismo e della lotta per la pace.

Nell'ottobre 1969, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, in dissenso con la direzione del Pci sui rapporti con il Pcus e sul «carattere socialista» dell'Urss, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri e Luciana Castellina e fu tra i fondatori della rivista e del quotidiano il manifesto, per il quale curò il settore internazionale.

Distaccatosi dal gruppo e poi dal giornale, si è dedicato per un ventennio ad un'intensa attività storiografica, pubblicando saggi e volumi sul comunismo cinese, sulle origini del stalinismo, sulla storia del PCI e sulla vita e l'opera di Gramsci. Su questi temi ha svolto corsi presso l'Università di Urbino e seminari presso la Freie Universität di Berlino.

(s. d. r.)

«Voglio assolutamente avere una copia di quella lettera». Baldina Di Vittorio è emozionata, felice. Suona orgogliosa al telefono da Roma la voce della figlia del mitico "Peppino", l’ immarcescibile leader dalla Cgil: «Quel manoscritto rivela più di qualsiasi altra cosa il carattere di mio padre, onesto e coraggioso». Di Vittorio che gentilmente rifiuta un pacco-dono del conte Giuseppe Pavoncelli, proprietario terriero di Cerignola e che su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa " Lafalce" spiega le ragioni di quel rifiuto: «Io e lei siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia immagine politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. E’ necessaria anche l’ onestà esteriore». Ecco perché «a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo moltissimo, sono costretto a non accettare il regalo. Perciò la prego di mandarmi qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati». Eppure era un cadeau goloso: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia, era l’epoca della povertà assoluta. Sì, insomma, non era facile rifiutare quel po’ di ben di Dio, come scrive papà. Alla vigilia di Natale, poi...».

La data della missiva, che era rimasta inedita fino all’altro giorno, è quella del 24 dicembre 1920. Racconta la signora Baldina: «E’ l’anno in cui io sono nata e per me questo documento acquista un valore particolare. Ne avevo sentito parlare in famiglia, di quelle poche righe indirizzate al conte Pavoncelli, titolare di un’azienda che continua ad essere viva e vegeta e che produce olive la cui qualità è famosa in tutto il mondo: la "Bella di Cerignola", così si chiamano. In fondo è grazie al nipote Stefano che salta fuori questo biglietto da cui emerge la generosità e la correttezza di Giuseppe Di Vittorio». Altri tempi? «No, un uomo diverso rispetto a quelli dei giorni nostri. I tempi, inevitabilmente, cambiano. Non voglio fare paragoni, per carità, con gli uomini politici e i sindacalisti di questo nuovo secolo. Però sono convinta che mio padre avrebbe seguito le stesse regole, soprattutto morali, rispettate scrupolosamente quando era in vita». "Peppino" muore esattamente cinquant’ anni fa. La Rai gli dedicherà un film, che in parte sarà girato proprio a Cerignola. Fa sapere l’ indomabile Baldina, che indossa i suoi 87 anni con la leggerezza di un’adolescente: «Proporrò agli sceneggiatori d’inserire questo episodio nella pellicola. Sì, loro già lo conoscono perché durante i sopralluoghi nella città natale di papà prima di cominciare le riprese hanno incontrato Stefano Pavoncelli, che gli ha fatto vedere l’epistola. Sì, sarebbe bello se fosse immortalata in questo lavoro cinematografico. Perché è istruttiva e mette in risalto comportamenti che devono essere validi perfino nel terzo millennio».

Baldina Di Vittorio è un fiume in piena e l’età non tradisce la freschezza delle sue parole. Insiste: «Comportamenti, visti a distanza di quasi novant’anni, che non sono quelli di un marziano. Piuttosto, sono naturali. Mio padre predicava l’opportunità di avere rapporti con tutti, ma non tollerava l’ incoerenza. Negli altri e meno che mai da parte sua». L’essere e l’apparire, insomma, dovevano rappresentare il "lato A" e il "lato B" della stessa medaglia. Come la moglie di Cesare, bisognava essere al di sopra di ogni sospetto. «è un insegnamento che io stessa non dimentico, ma che tutti dovrebbero ricordare. Più degli altri, quelli che rappresentano il popolo. O la gente, come si dice adesso».

Il 17 gennaio 1954, in occasione delle onoranze nazionali ai sette fratelli Cervi fucilati a Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943 dai nazisti, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il vecchio padre Cervi, trattenendolo affettuosamente a colloquio.
Il testo che qui pubblichiamo è apparso su "Il Mondo" il 16 marzo 1954, ed è raccolto nel volume Il buongoverno di Luigi Einaudi, pubblicato dalla casa editrice Laterza che ringraziamo per la gentile concessione.

Einaudi

Entrano nello studio del presidente della repubblica il padre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini, il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino, l'on. Boldrini, medaglia d'oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore e pittore, il quale reca l'originale del ritratto da lui dipinto dei sette fratelli.

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria, ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidente aveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei sette fratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista "La Riforma Sociale", un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico e dice al padre della sua commozione per poter cosí pensare con orgoglio ad un suo rapporto spirituale coi martiri.

Il padre racconta:

- Sí, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano di imparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, si sforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto, ed erano 53 biolche di 2.922 metri quadrati l'una (circa 15 ettari e mezzo), vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terra sopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terreno sarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio. Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e si diedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche. 1 vicini passavano, guardavano e scuotevano la testa: "I Cervi sono usciti pazzi. Dove andrà l'acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto come un biliardo, l'acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ed erbai intristiranno annegati". Ma i figli avevano dato al terreno, fatto piano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero e quando d'accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti alla stessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acque ed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua non ce n'è piú. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconoscono che noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.

- Anch'io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare i fossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed invece eseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate su piede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo aver resecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallo stradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se ne andavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videro però che le viti venivano su piú belle di quelle dei fossati e del letame, ci ripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.



Il presidente: - Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?

Il padre: - Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, in tutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamo ricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochi arnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossi lavori ed uno piú piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici, aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro. Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro lo comprammo in Svizzera, ma viene dall'Olanda ed è originario americano. Col toro ci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quando abbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo come carne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo dò via neppure se mi offrono un milione di lire. Questo - trattori, macchinari, fondo di vettovaglie, vacche, toro - è il "capitale" ed è nostro, di tutti noi".

- Anche del nipote?

- Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e, tornato a casa, non trovai piú i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidi il nipote.

Le nuore: - È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.

- Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buon ragazzo, radunai le nuore e: "Bisogna stabilire le cose per il nipote. Lo teniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salario che gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato ad anno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti del salariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spetta come parente. Che cosa ne dite voi?"

Le nuore: - Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovete decidere.

Il padre: - No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei morti sono vostri figli. Voi dovete parlare.

Le nuore: - Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.

Il padre: - Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel che pensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare. Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero.

- E le donne ritornarono al lavoro.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore attoniti ascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendole per fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostre contrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po' di tutto questo. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, il pazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell'uomo saggio.

- Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donne tornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consiglio rispetto al nipote è anche il nostro.

Il padre: - Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?

Le donne: - Sí, padre, noi lo sappiamo.

Il padre: - Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlato al padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia ed entrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e non sono contenti.

Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote, che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volere rimanere con noi.

Il fratello e la cognata: - Lo sapevamo. Il figlio l'aveva detto quando era partito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti. Noi siamo contenti.

- Se cosí è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa, radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognata sono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sono stati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo, che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso piú fare come una volta. Il nipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci sarò piú, il "capitale" sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattro nuore ed il nipote.

Cosí fu deciso e cosí si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sue forze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende.

Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene di tutti.

Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c'era in casa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte che gli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed io dissi: noi non l'avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a far parte del "capitale". Diventerà proprietà comune; e come il resto sarà diviso in cinque parti.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore guardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all'ombra del sicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia. Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosse ancora stato scritto.

Il presidente, rivolto allo scrittore-pittore, il quale conosce i contadini dei suoi paesi - e sono uguali ai contadini di tutta Italia - interrogò: forseché i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po' pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della "lingera" e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?

Lo scrittore-pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d'oro consentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch'io di no e strinse la mano al padre ed a tutti.

Qui potete scaricare e leggere il libro di Renato Nicolai e Alcide Cervi, I miei sette figli

La Repubblica
Il politico gentiluomo che scelse il riformismo
di Nello Ajello

È morto ieri a Roma, all'età di novantacinque anni, Antonio Giolitti. Prima che l'età lo costringesse a chiudersi in un garbato silenzio, la sua presenza nella vita politica italiana è stata intensa e, a tratti, incisiva. Deputato comunista fin dai tempi della Costituente, nel 1957 uscì dal partito di Togliatti passando al Psi. In due riprese, nel 1963-'64 e nel 1970-'74, è stato ministro del Bilancio e della Programmazione economica nei governi di centrosinistra. Nel 1987 era stato eletto senatore come indipendente di sinistra.

Nipote di Giovanni Giolitti, sembrava vocato alla politica per tradizione familiare. La sua giovanile adesione al Pci apparve come un segno dei tempi. «Quanti cari nomi sento risuonare tra i giovani comunisti!», esclamava Arturo Carlo Jemolo in un articolo pubblicato sulla rivista fiorentina Il Ponte. Ed elencando gli eredi di queste dinastie famose - Giolitti appunto, Amendola, Calamandrei, Lombardo Radice - il grande giurista confessava: è anche per la loro presenza che, nei riguardi del comunismo, «io non riesco a sentire quell'avversione profonda» che «avvertivo di fronte al nazismo». Era il novembre del 1945. All'epoca Giolitti, trentenne, faceva parte di quell'ambiente culturale giovanile che Palmiro Togliatti considerava una sorta di lievito del Pci uscito dalla clandestinità. E nei decenni successivi, dopo il distacco da Botteghe Oscure, egli avrebbe continuato a rappresentare una voce viva della sinistra italiana. Percorrendone l'impervio tracciato. Esprimendo i suoi consensie dissensi con quieto coraggio. Assurgendo a modello di una " gentilhommerie" che è banale attribuire all'altro secolo.

Aveva partecipato, Giolitti, alla guerra partigiana, prima sul monte Bracco, in Piemonte, poi nelle valli di Lanzo, come commissario politico delle Brigate Garibaldi.

Ferito casualmente a una gamba, era passato in Francia per curarsi. Tornando a Roma dopo la Liberazione aveva ripreso, accanto all'attività di partito, il suo lavoro presso la casa editrice Einaudi. Gli avevano tenuto in serbo per due anni - così egli raccontava - il suo tavolo, «in una bella stanza dove lavorava Cesare Pavese».

Così cominciava la stagione più impegnativa per questo intellettuale che si era trovato «suo malgrado a fare politica per colpa della Resistenza». Sui ricordi dei suoi anni verdi, si profila l'ombra profetica del «grande nonno». In una lettera che Giovanni Giolitti inviò a suo figlio Giuseppe, padre di Antonio, il 10 maggio del 1915, si leggeva fra l'altro: «L'affrontare l'impopolarità è in alcuni casi il più assoluto dovere». Queste righe, Antonio le ha riprodotte ad apertura di un proprio libro, Lettere a Marta (così si chiama una sua nipote), una sorta di autobiografia pubblicata dal Mulino nel 1992. In realtà, il dovere dell'impopolarità Giolitti junior lo condividerà fino a farsene un abito esistenziale.

Roma, gli studi, un breve soggiorno in carcere per antifascismo, e poi la politica. Il Piemonte, teatro delle campagne elettorali e luogo di villeggiatura. Sono questi i luoghi di Antonio Giolitti. Gli amici di Roma e Torino popolano la sua vita. Fra i primi, quel gruppo di giovani che alla vigilia della guerra comincia a formare un'ossatura di "intellettuali organici" per ciò che sarà il Pci: da Bufalini a Trombadori, da Alicata a Ingrao. Poi, i colleghi di lavoro alla Einaudi: da Pavese a Balbo, da Muscetta a Giaime Pintor, da Bobbio a Venturi, da Calvino a Massimo Mila.

Fra gli incontri fatti in Piemonte, spiccano i compagni dell'avventura partigiana: Geymonat, Pompeo Colajanni, Giorgio Agosti, Mario Andreis. E infine, la villeggiatura al mare di Castiglioncello, dove Antonio entra in contatto con il clan D'Amico: una ragazza di questo cognome, Elena, diventerà nel '39 sua moglie. Gli sarebbe stato sempre caro Lele D'Amico, cugino di Elena. E altri due frequentatori delle estati al mare, Paolo Milano e Furio Diaz, sarebbero rimasti fra gli amici di una vita. La biografia di Giolitti è soprattutto il racconto d'un trauma: quello che deve affrontare, in politica, un uomo di sinistra dotato di un'onestà intellettuale che rasenta l'intransigenza. Il suo battesimo pubblico come polemista si colloca alla fine del '56, in occasione dell'VIII congresso del Pci. La sua figura è relativamente poco nota. Nelle cronache di quell'assise, il Corriere della Sera sente il bisogno di presentarlo ai lettori.

«L'onorevole Giolitti è un giovane quarantenne alto, bruno, elegante. Si dice che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». Ed ecco che questo comunista prediletto in alto loco afferma che, in definitiva, per il Pci, «si tratta di cambiare e di correggere», e di «cambiare anche gli uomini che non si possono correggere». È l'allusione più esplicita che sia risuonata nel palazzo dei congressi dell'Eur, benché pronunziata senza enfasi, senza apparente malanimo. E anche in seguito, le polemiche che l'abiura di Giolitti alimenterà non raggiungeranno mai l'apice dell'animosità. Quando il deputato piemontese esce dal Pci con una motivazione che investe l'intera politica del partito e che egli illustra nel saggio Riforme e rivoluzione, dai vertici comunisti non partono contro di lui quelle bordate "definitive" che hanno colpito altri dissidenti. In una lettera mai recapitata per un disguido, Togliatti gli chiede anzi un favore: avere con lui «un incontro» che preluda «a una migliore comprensione».

Ricucire con Togliatti e il suo partito? Una simile svolta non rientra nelle sue prospettive. Giolitti s'incammina ormai sulla «via del riformismo», man mano che la fede nella dottrina marxista lascia spazio, in lui, alla scoperta del New Deal rooseveltiano, delle idee di Keynese della pratica di governo in uso nelle socialdemocrazie d'Europa. Nel partito di Nenni, cui Giolitti aderisce, si parla, soprattutto ad opera di Riccardo Lombardi, di "riforme di struttura". Albeggia il centrosinistra. Giolitti e Lombardi vi formeranno un tandem operativo.

Programmazione: una prassi di cui Giolitti si sforza di dimostrare l'indispensabilità. E lo fa tra molti ostacoli. L'allarme suscitato nel mondo degli affari e l'insofferenza, da parte della Dc dorotea, nei confronti di «quello che viene giudicato uno spericolato zelo riformatore» decretano il fallimento dell'esperienza. Dopo l'insuccesso socialista alle elezioni del 1976, si entra nell'era craxiana. Nei governi che si susseguono, entra in ombra la politica di piano. Abbandonati gli incarichi di governo, l'«uomo della Programmazione» vive perciò relativamente appartato, parte di quell'ambiente che egli stesso definisce dei «senzatetto di sinistra». Il suo stesso staff, capeggiato da Giorgio Ruffolo, si vede allontanato dall'area ministeriale. Dal 1977 al 1985 Giolitti è a Bruxelles, membro italiano della Commissione delle Comunità europee. Il Psi lo ha deluso. Nella nuova gestione di Craxi scorge un'intolleranza non meno grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Assiste al consolidarsi «una consensuale e sistematica prevaricazione dei partiti di governo sulle istituzioni». Craxi? «Ho smesso d'incontrarlo quando è andato a palazzo Chigi», dichiara Giolitti nel maggio 1987. Un mese più tardiè eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. È la sua ultima campagna elettorale. Da allora apparterrà a una sinistra «impaziente e insoddisfatta». Le sue ricomparse nella cronaca saranno, nella primavera del 2006, la visita che gli fa il presidente Napolitano, fresco di elezione al Quirinale, e, nell'estate, la dichiarazione, sempre di Napolitano, nella quale gli si dava ragione per aver assunto nel "fatale '56", una posizione severamente critica contro l'Unione sovietica e il Pci. F ino all'ultimo, rievocando la sua gioventù e maturità questo «timoroso riformista» (così amava definirsi) ha sempre usato un elegante understatement. Ciò che lo animava era il tentativo di passare «dall'illusione dell'utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire il «rapporto sempre problematico tra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici».

Saranno pure state prediche da nonno. Ma è difficile ascoltare, in giro, parole più attuali.


Antonio Giolitti, i sorci e le riforme
di Giorgio Ruffolo

Sono stato legato ad Antonio Giolitti da una lunga fraterna amicizia. Ricordo ancora con emozione il giorno che lessi una sua recensione di un mio articolo sulla disoccupazione pubblicato su Moneta e Credito, ero un giovanotto, e ne fui molto fiero. Cominciò così, a partire da un successivo incontro alla Casa Einaudi, dove lui lavorava, e poi nel partito socialista dove lui era entrato dopo i fatti d'Ungheria, nella corrente della sinistra nella quale i «giolittiani» costituivano un gruppo particolare, si chiamava Impegno Socialista, tra il 2 e il 4 per cento degli iscritti al partito: più 2 che 4, se ricordo bene. E poi nell'esperienza di programmazione. Anni di impegno vero, tormentato ed esaltante al tempo stesso. Anni di grandi riforme, lo si può dire oggi che di riformismo non si fa che parlare, allora non se ne poteva neppure parlare, a sinistra, perché il riformismo era considerato poco meno di un cedimento al nemico, si doveva dire, per carità: riformatori, non riformisti.


Però le riforme, in quella stagione di centro sinistra, si fecero davvero. In quegli anni cambiò la scuola, cambiò il sistema pensionistico, si introdusse il sistema sanitario, si fece lo statuto dei lavoratori, si completò la grande rete autostradale, si costituirono le regioni. Gli uffici della programmazione si installarono in un grande corridoio dove enormi sorci inseguivano timidi gattini. Era il tentativo di inserire una strategia di progresso sociale e di equilibrio territoriale in uno sviluppo economico poderoso ma tumultuoso disordinato, iniquo. Erano sogni? Forse: diventarono incubi, quando le contraddizioni che si erano inserite nel contesto politico italiano, non corrette da una politica di programma, esplosero, in una congiuntura sempre più difficile. La sinistra, che è immemore, dovrebbe riflettere su quella esperienza: e soprattutto su quale dovrebbe essere il contributo di una cultura aggiornata a una progettazione politica che oggi brilla per assenza.


Giolitti era il rappresentante di una classe politica di cui si sono molto affievolite le tracce: quando politica e cultura diventavano parte di un solo messaggio. Con lui si poteva parlare di politica, naturalmente: ma anche di musica, della quale era particolarmente esperto, e di arte e di letteratura, e ci si poteva divertire scherzando, lasciandosi guidare dal suo stile ironico e arguto. In compenso, non ricordo di avergli sentito raccontare una sola barzelletta.


Egli resterà con me e per me, per il resto della mia vita, un modello di professione politica, nel senso weberiano, non del mestiere, ma della vocazione; prima che quella vocazione si identificasse, in modo così desolante, con il nudo potere, con il denaro, con la volgarità.

Sono passati dieci anni dalla morte di Nilde Jotti; ma dieci anni drammatici e difficili. Siamo veramente entrati in un altro millennio. Quale è oggi il contesto in cui ci troviamo a ricordarla?

Un contesto difficile per le donne, segnato da un attacco contro le conquiste ottenute: pensiamo alla parità di retribuzione: impressionanti i dati sulle disparità salariali emerse, pochi giorni fa, dalla assemblea delle consigliere di parità, al diritto al lavoro: tra i lavoratori precari, la maggioranza sono donne; l’Italia è agli ultimi posti in Europa per la presenza delle donne nel mondo del lavoro sono sotto attacco anche la tutela della maternità, l’autodeterminazione nella maternità, nella procreazione assistita, nell’interruzione volontaria di gravidanza: ultimo episodio di questi giorni l’assurdo voto in Senato contro la commercializzazione della pillola RU486; permane la sottorappresentazione ai vertici della politica e delle istituzioni, in tutti i luoghi decisionali, (che provoca un impoverimento della democrazia), un trend opposto a quello che, nell’ormai lontano 1979, con la elezione di Nilde alla Presidenza dellaCamera dei Deputati sembrava si stesse aprendo.

Insomma vengono minacciate le conquiste che le donne hanno ottenuto in anni e anni di lotte e a cui Nilde Jotti aveva dedicato tanta passione e tanta parte della sua attività.

Questi diritti e queste conquiste sono minacciate anche dal preoccupante e crescente rigurgito della violenza maschile sulle donne. Giustamente invece nel suo editoriale di alcuni giorni fa Concita de Gregorio sottolineava che razzismo, violenza e sguaiataggine verbale creano un clima che incita gli uomini alla violenza e che tende a conculcare la presenza delle donnenella vita sociale, economica e culturale. Donne viste come prede, come oggetti, non come cittadine con pari diritti. Chi meglio di Nilde Iotti può costituire il modello di donna da indicare alle nuove generazioni?

Ripenso aquando l’ho conosciuta, a Firenze, al primo Congresso dell’UDI, quello della fusione con i GDD. Eletta nel ’46 alla Costituente, Nilde faceva parte di quella nutrita pattuglia di giovanissimi, che il Pci aveva voluto affiancare ai militanti e alle militanti storiche che venivano dai lunghi anni dell’esilio, del carcere e del confino. Nilde ha avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della nostra Costituzione, facendo parte della Commissione dei 75, ed essendo relatrice, assieme a un parlamentare DC molto conservatore, Camillo Corsanego, sui problemi della famiglia. Avevano, come è facile immaginare, idee assai diverse, e perciò presentarono due relazioni distinte. Le formulazioni che Nilde proponeva, che non sono quelle poi adottate definitivamente sono molto più vicine, sebbene vecchie di 60 anni, a quello che pensiamo oggi.

Nilde era stata d’accordo che la questione del divorzio non venisse inserita nella carta costituzionale; non la riteneva matura. Ma fu Nilde a insistere, al X Congresso del PCI, contro le timidezze e le tiepidezze di molti, perché ci si decidesse ormai a affrontare la questione, e poi per l’approvazione della legge in parlamento e la sua conferma nel referendum. Nilde Jotti contribuì alla elaborazione dell’articolo 3 della Costituzione, l’articolo che sancisce la pari dignità sociale ed eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»; cui segue la basilare affermazione del secondo comma: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Principio totalmente nuovo, unico anche rispetto alle coeve carte costituzionali antifasciste», quella francese del ’46, quella della RF di Germania del ’49, che segna il passaggio dal sistema liberale al sistema democratico, a una democrazia segnata da contenuti di progresso sociale.

Erano state le donne costituenti a ottenere che il sesso fosse collocato all’inizio dell’elencazione e a voler precisare, inserendo l’inciso «di fatto», la natura e l’ampiezza degli ostacoli che dovevano essere rimossi. Non è dunque casuale che i movimenti delle donne, nel corso di molti decenni, abbiano fatto riferimento soprattutto a questo articolo. Nel corso della sua lunga vita politica, Nilde divenne Anche l’autorevole presidente di Montecitorio. Ma forse non tutti si rendono conto della straordinarietà di questo fatto. Io ho ancora ben presente l’emozione che tutte noi, donne, provammo quel giorno del 1979, - sono passati ben 30 anni - quando fu eletta presidente della Camera dei deputati. Era la prima volta nella storia italiana che una donna e per giunta una dirigente comunista, di un partito dell’opposizione, veniva chiamata a un così alto incarico. Un incarico, quello di presidente della Camera – altro fatto straordinario – che lei ha ricoperto per ben 13 anni, rieletta per tre legislature; una così lunga permanenza nell’incarico non ha precedenti nella storia del Parlamento italiano, a riprova della stima e della fiducia che aveva conquistato nell’assemblea.

Non soltanto, dunque, una donna che presiedeva la Camera,ma una donna che lo ha fatto con straordinaria capacità, conquistando stima e apprezzamento, rendendo onore alle donne, anche in anni difficili, in momenti di aspro confronto parlamentare, (si pensi all’ostruzionismo radicale, non privo di volgari attacchi alla sua persona, nel novembre del 1981) quelli della prima grave crisi della democrazia italiana, e della stessa funzionalità del parlamento, seguita all’assassinio di Aldo Moro. E Nilde, con coraggio e prudenza, mise mano a una riforma del regolamento per cercare di uscire dallo stallo per coniugare rappresentanza e capacità di decisione. La sua sensibilità, direi la sua passione, nata alla Costituente, per i problemi istituzionali, è stata una costante del suo impegno fino agli ultimi anni, ad esempio nella Commissione bicamerale sulla riforma della Costituzione. Proprio lei, che era stata magna pars nella elaborazione della Costituzione era consapevole che occorrevano norme nuove per armonizzare l’autorità del Parlamento con l’efficienza dell’Esecutivo e i poteri delle Regioni; ma,come risulta chiaro nel suo ultimo discorso parlamentare del ’98, un anno prima della sua morte, rimase sempre schierata nella difesa dei lineamenti fondamentali della Costituzione del ’48, contraria a modifiche che potessero alterare l’equilibrio tra i poteri dello Stato e aprire la strada a derive autoritarie.

Grandissimo fu anche il contributo di Nilde per far approvare in parlamento leggi fondamentali per le donne, quali, ad esempio, la pensione alle casalinghe, il riconoscimento del valore del lavoro delle donne contadine, la riforma del Diritto di famiglia, la legge del ’93 sulla presenza delle donne nelle liste elettorali, intervenendo perché si mantenesse la norma dei due terzi introdotta al Senato contro un emendamento Bonino che voleva abolirla. Sebbene presidente della Camera volle apporre la sua firma alla legge di iniziativa popolare sui tempi. Sulla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, rifiutando sia la tesi radicale dell’aborto come diritto civile, sia la pretesa clericale di considerare l’aborto un reato, Nilde si mosse sulla linea (che era anche dell’Udi), della lotta all’aborto clandestino per sconfiggere il ricorso all’aborto, considerato come violenza imposta alle donne; per la gratuità dell’interruzione di gravidanza praticata nelle strutture sanitarie pubbliche; per il diritto delle donne all’autodeterminazione. Quella piattaforma consentì di uscire dalla paralizzante contrapposizione tra una semplice liberalizzazione e la puntigliosa casistica, prevista inizialmente nei testi legislativi proposti dai diversi gruppi politici.

Mi ci sono soffermata per sottolineare come Nilde, su leggi difficili, che investivano problemi delicati e aprivano unforte conflitto, restasse ferma sui principi, ma fosse capace di ascolto e di comprensione per le posizioni diverse dalle sue, diretta a ricercare sul terreno della laicità dello Stato e rifiutandole contrapposizioni ideologiche, una possibile intesa.

Engels ne “L’origine della famiglia” distingueva tra “la produzione delle merci e la produzione degli uomini”, che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all’interno del sistema capitalistico) l’oggetto centrale della scienza economica. Mentre “la produzione degli uomini” se n’è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.

Questo non ha però impedito all’economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell’interesse politico ma dell’esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso “valore” prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell’agire collettivo, dall’altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della “produzione delle merci” sulla “produzione degli uomini”, ma tendenzialmente inducendo l’assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell’altra.

Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell’economico rispetto a ogni altro momento dell’umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell’esistere che Engels appunto indicava come “produzione degli uomini”, e che la moderna sociologia definisce “riproduzione”. Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.

In questo senso va letto questo titolo un po’ criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell’88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo “Tempo da vendere – Tempo da usare”, sottotitolo “Produzione e riproduzione nella società microelettronica”. Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell’analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita “venduti” a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo “usato” in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l’ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.

Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l’omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.

In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell’idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un’equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.

In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi “sacralizzazione” della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d’altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l’occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.

La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti. E però, notava Claudio, c’è anche altro. C’è “il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica “. Claudio insiste su questo aspetto: “Nella tradizione teorica del movimento operaio non c’è una rottura con l’ideologia borghese del lavoro”, dice; e parla di “una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”.

Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.

Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all’obbligo dell’efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi “utili” secondo la convenzione.

E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un’influenza decisiva il superamento dell’attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell’intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l’aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il “femminile”, potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell’approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di “appropriarci della realtà come di un tutto”, e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.

In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all’ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l’inquinamento dell’aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E’ qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente”. Una diagnosi dell’insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell’iperproduttivismo gravemente malato.

Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”.

Pivano: Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco?

Spoon River l'ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

P./Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c'era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell'animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.

P.

/Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?

F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo...)

P./Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l'invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ignoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l'aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi?

F. Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

P. /Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie?

F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte devo dire che vorrei incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent'anni, un disco all'anno, sarei l'autore di canzoni più prolifico del mondo.

P. /Puoi spiegarmi meglio l'idea del malato di cuore come alternativa all'invidia?

F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall'invidia e in qualche maniera l'hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l'enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l'ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell'invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e...

P./ Possiamo dire che ha scavalcato l'invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell'amore?

F. Ma sì, l'avrei detto io se non lo avessi detto tu.

P./ E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?

F. Sì, a trionfare sono i "disponibili".

P. /Anche per il gruppo della scienza hai trovato un'alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c'è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell'ordine come fatto repressivo e l'ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un'alternativa?

F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E' disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?

P./Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River?

F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall'atmosfera della morte per tentare un'indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters.

P. /E' chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un'idea che non era in Masters, quella della "mela proibita", cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema.

F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un'immagine così metafisica.

P. /Mi diceva Bentivoglio che se la "mela proibita" non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l'uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male.

F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall'uomo e comunque la "mela proibita" è ancora sulla terra e noi non l'abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

P. /Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.

F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche.

P. /Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?

F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.

P./Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l'aggiunta di questo concetto della "mela proibita" non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D'altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c'è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l'altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell'ottico visto come proposta di un'espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi.

F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c'era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un'idea, dev'essere proprio la storia a comprendere in sé l'idea.

P./ Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice "un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c..." e di avere per esempio inserito immagini come "le cosce color madreperla" in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata?

F. Perché anche il vocabolario al giorno d'oggi è un po' cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente.

P. /Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d'altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt'altro che asettico e asessuato: il gruppo dei Neo-Umanisti lo aggredì come "iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo".

F. Capirai.

P./ Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell'antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel '71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

F. Non c'è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per pure divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt'altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.

Fernanda PIVANO

F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt'altra tendenza. E' successo tra il '37 e il '41: quando questo ha significato coraggio.

Fabrizio DE ANDRE'

(Intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971. Qui tratta da :lmasetti/percorsi_incrociati/spoonriver che ringrazio)

Studioso della società industriale più attento ai conflitti che la attraversavano, ha poi cercato di importare elementi di socialismo in campo liberale, arrivando a definire il Novecento un secolo socialdemocratico. Per poi trovarsi a difendere il modello sociale europeo dagli attacchi dei neoliberisti

Il suo nome è stato quasi sempre accostato a Isaiah Berlin e a Karl Popper, come espressione di un liberalismo che non aveva timore di confrontarsi con i conflitti della modernità. Un triumvirato messo a presidio di una concezione del mondo e della democrazia che trovava piena cittadinanza solo in Europa. Ralf Dahrendorf aveva più volte affermato che il liberalismo, per continuare a esistere, doveva fare propri molti dei principi del suo avversario storico, il socialismo. Una convinzione tanto profonda da portarlo a scrivere, pochi anni prima dell'Ottantanove, che il Novecento non era stato un «secolo americano», bensì socialdemocratico, perché erano stati proprio i socialdemocratici e i laburisti a salvare il capitalismo dal nemico storico, il comunismo. Il welfare state aveva infatti creato le condizioni affinché il capitalismo e la forma politica a esso congeniale, la democrazia liberale e rappresentativa, potessero sopravvivere in un mondo che aveva guardato all'Unione Sovietica prima e la Cina dopo il 1949 come a modelli di società «funzionanti» e che potevano rappresentare un'alternativa credibile al capitalismo.

La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del socialismo reale, la scelta cinese di intraprendere riforme propedeutiche allo sviluppo di una economia capitalistica smentirono le sue tesi, portandolo a guardare al processo di costruzione europea come la strada maestra per salvare il capitalismo dall'estremismo dei neoliberisti. Con la scomparsa di Ralf Dahrendorf scompare però proprio quel liberalismo novecentesco che aveva cercato di innovare la chiave di lettura della modernità. Del «suo» secolo socialdemocratico ci sono solo flebili echi in Germania e Svezia, mentre nel vecchio continente il neoliberismo arretra di fronte alle armate di un populismo tanto feroce, quanto capace di interpretare e dare risposte politiche seppur regressive ai conflitti del capitalismo. E non è un caso che il suo ultimo libro si chiami Quadrare il cerchio ieri e oggi (Laterza) dove lo studioso tedesco propone più che un punto di vista un metodo per diradare le nebbie di uno «spirito del tempo» certo non prodigo né di tolleranza, libertà e tanto meno di eguaglianza.

Autorevole in nome del potere

In questo breve saggio, Dahrendorf propone un ritorno alle sue origini di studioso, quando la questione dell'esercizio del potere diventava il nodo da sciogliere e che per farlo occorreva assumere le ragioni di una delle parti in conflitto e stabilire il frame affinché quelle ragioni fossero inscritte in un quadro di equilibrio tra interessi diversi. Una proposta di metodo avanzata con lo stile piano che gli era proprio, ma segnata dall'inquietudine profonda di chi ha visto svanire il suo mondo.

Ralf Dahrendorf era nato a Amburgo nel 1929 e aveva conseguito la laurea in filosofia per poi trasferirsi in Inghilterra e completare i suoi studi. Ed è stato proprio a Londra che aveva conseguito il Ph. D alla London School of Economics. Ma negli anni Sessanta il nome di Dahrendorf è legato sostanzialmente al volume Classi e conflitto di classe nella società industriale (Laterza), un volume dove lo studioso tedesco analizza il conflitto di classe come espressione di una lotta di potere. Per Dahrendorf, infatti, la società industriale è plasmata nel suo divenire attorno al nodo del potere, inteso come il potere di imporre la propria volontà e le proprie decisioni ad altri.

Nel capitalismo questo significa che i proprietari dei mezzi di produzione impongono ad altri di svolgere alcune mansioni. Da qui il conflitto dei «subordinati» rispetto proprio a quell'esercizio del potere. Ma se questa griglia analitica risente delle tesi weberiana sull'agire strumentale e sulla crescente burocratizzazione della vita sociale, ben diversa è la concezione delle classi che lo studioso tedesco elabora in una polemica a distanza con l'analisi marxiana delle classi sociali. È noto che per Marx le classi sono il risultato di determinati rapporti sociali di produzione, mentre per Dahrendorf invece le classi sono fatte discendere proprio dai rapporti di potere esistenti nella società. Così gli operai diventano classe operaia perché subordinati alla gerarchia di fabbrica, la quale definisce altri figure sociali che possono essere considerate appartenenti a una classe piuttosto che a un altra. Ed è così per l'insieme della società. I conflitti tra le classi sono dunque espressione dei rapporti di potere esistenti e del tentativo di modificarli a proprio vantaggio.

Travolto dal Sessantotto

Aspre e radicali furono le critiche che i marxisti riservarono a Dahrendorf, ritenendolo un teorico della stratificazione sociale che individuava nelle norme definite dall'amministrazione e dal sistema politico lo strumento per regolare i rapporti di potere, lo status e i livelli di redditi attraverso l'esercizio dell'autorità. L'esaltazione della democrazia liberale e la stigmatizzazione di qualsiasi proposta di una trasformazione radicale dei rapporti sociali lo portarono ad aderire al «Freie Demokratische Partei», il partito liberale della Repubblica federale tedesca, candidandosi alle elezioni. E fece scalpore a quel tempo il confronto serrato tra Dahrendorf e uno dei leader del Sessantotto tedesco Rudi Dutschke, che lo accusò di essere un paladino della società autoritaria e al dominio di classe esercitato dal capitale. Accuse che il sociologo tedesco rifiutò, ma che lo portarono a preferire l'Inghilterra alla «sua» Germania.

Questo è stato il libro più significativo di Dahrendorf dal punto di vista teorico. Il resto della sua produzione editoriale è da considerare una brillante variazione attorno al grumo tematico lì sviluppato. Ben diversa è stata invece le traiettorie impresse alla carriera politica e accademica.

Dahrendorf si trasferisce infatti in Inghilterra e diventa docente alla London School of Economics, diventando anche direttore per poi assumere la carica di amministratore delegato di Oxford. Dopo l'esperienza di deputato liberale al parlamento della Repubblica federale tedesca, è invece chiamato a partecipare a una delle prime commissioni europee per definire le tappe dell'unificazione economica e politica del vecchio continente. Per lo studioso tedesco, il cosiddetto modello renano doveva diventare il modello sociale europeo, anche se questo non gli ha impedito in anni recenti di esprimere dubbi e «scetticismo» su come si stava strutturando l'Unione europea, senza prendere le distanze da un cosmopolitismo old style, molto apprezzato in Inghilterra, una seconda patria che lo premiò con il titolo di lord.

Il crollo del Muro di Berlino, le tante «rivoluzioni di velluto» nell'est europeo, la crisi fiscale del welfare state mandano però in frantumi molte delle sue analisi sulla modernità. E così il vecchio studioso, che aveva lavorato per importare un po' di socialismo in campo liberale, si ritrovò a polemizzare con quanti, in nome della società aperta e del libero mercato, si definivano liberali, puntando a demolire il suo modello ideale di società liberale. Negli Erasmiani, un libro che può essere considerato una specie di testamento teorico, Dahrendorf propone una figura di intellettuale che interviene nell'arena pubblica per orientare le scelte, senza però mai rinunciare alla ricerca della verità. Con coraggio, ma senza mai rompere le compatibilità di fondo della società capitalistica. Un riformismo debole, il suo, e destinato a essere sommerso dalla marea di un dilagante populismo che ambisce a prendere il posto di potere occupato dai suoi avversari dell'ultima ora, quei neoliberisti che avevano già fatto carta straccia del suo timido liberalsocialismo.

La scena si colloca tra la più grande stagione di lotta operaia - l'autunno caldo del '69 - e la strage di stato - le bombe di piazza Fontana. Sullo schermo l'avvocato Agnelli di bianco vestito che esce dalla stanza del ministro del lavoro Donat Cattin, dopo aver preso atto che quella volta, per la prima volta, aveva perso la partita. Sotto c'era una didascalia che in pochi hanno potuto leggere: «Sarò l'uomo più elegante del mondo ma questa volta me l'hanno messa in quel posto». Racconta Ugo Gregoretti, il regista della più straordinaria testimonianza sull'autunno caldo, «Contratto»: quando Bruno Trentin, leader della Fiom e punto di riferimento di quella «classe lavoratrice», la vide, ne pretese la cancellazione.

Era un uomo fermo, colto, intransigente con sé e la sua parte, radicale nei contenuti e attento alle forme di lotta, rispettoso degli avversari a cui non faceva sconti. Attento al linguaggio, estraneo agli estremismi («parolai») ma non ai messaggi politici e alla domanda di cambiamento che quegli estremismi mandavano al sindacato e alla politica. Ci fu una stagione in cui parte del sindacato, quella di Trentin, seppe comprendere i messaggi che la politica - lo stesso Pci - non capì, o rimosse insieme a un'inedita esperienza di partecipazione di massa e a un sogno collettivo.

Trentin era un vero sindacalista e, per questo, un politico di qualità. Si interessava di tutto, parlava a tutti. Il bellissimo film di Franco Girardi «Con la furia di un ragazzo», presentato alla Casa del Cinema di Roma, ci racconta attraverso la voce e gli sguardi di Trentin il «terribile Novecento». Storie conosciute, la guerra civile spagnola o la Resistenza, chiedono una chiave di lettura che nelle parole dell'anziano sindacalista assumono il volto, l'impegno, le speranze, i progetti di uomini e donne che raccontano l'antieroismo, che è poi, in alcuni passaggi storici particolari, un eroismo di massa. Uomini e donne che hanno attraversato gli anni duri, i Cinquanta, e guidati da dirigenti politici e sindacali di cui il nostro tempo ha perduto l'eredità, hanno costruito con passione e disciplina una nuova storia. Il biennio '68-'69 non nasce dal nulla, è costruito nel passaggio dalla resistenza al protagonismo dei lavoratori; prima del contratto subìto da Agnelli nel '69 c'è quello, sempre dei meccanici, del '63. Perciò il '68 studentesco e il '69 operaio sono una rottura, ma costruita con una fatica, un coraggio, che segnano il passaggio dalle lotte d'avanguardia alle lotte di massa.

Trentin racconta la nascita di una democrazia diretta nei luoghi di lavoro con l'invenzione dei delegati di reparto. Racconta anche la sconfitta dell'80 alla Fiat subita sul campo, figlia della perdita di consenso in fabbrica. Non è la lotta a oltranza la chiave di volta, spesso nasconde difficoltà concrete. E' con la lotta articolata - la guerriglia e non la guerra aperta, si potrebbe dire - e con le assemblee, la democrazia, che si costruiscono egemonia e vittorie. Avendo al fianco la cultura e la scienza, Maccacaro e le 150 ore.

Con Trentin è venuta meno una voce importante, ma la storia da lui raccontata nel film di Franco Girardi era già stata archiviata, frettolosamente. Dev'essere dura, per chi oggi fa il sindacalista, raffrontare il suo lavoro e la sua passione con quella di Trentin, e il contesto di oggi con quello che milioni di persone avevano tentato di costruire.

Lo scorso 21 novembre il Centro per la riforma dello stato (Crs) ha promosso un incontro pubblico su Claudio Napoleoni a venti anni dalla sua scomparsa. Del suo straordinario contributo teorico e politico ne hanno discusso Mario Tronti, Raniero La Valle, Fausto Bertinotti, Luciana Castellina, Gian Luigi Vaccarino. Lavoro teorico e impegno politico: due campi difficilmente separabili per Claudio Napoleoni che, infatti, diceva «Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico». La politica, quindi, vista come attività verso la quale finalizzare lo studio e la ricerca, ma anche come «lo strumento di una liberazione».

Perché è importante riprendere la linea di ricerca di Claudio Napoleoni e provare a scavare attorno alle sue ultime e drammatiche domande? Proprio su questo sono stati diversi gli spunti di riflessione emersi nel corso del convegno. Qui ci soffermiamo solo su una questione. È possibile individuare un filo conduttore nella ricerca teorica e nel lavoro politico di Claudio Napoleoni? Rispondendo a tale quesito, infatti, è possibile capire meglio la sua attualità. Ci sono studiosi che individuano quale possibile filo conduttore della sua opera la polemica costante e ricorrente di Napoleoni contro la rendita e il parassitismo visti come tratti peculiari del capitalismo italiano. Lotta alla rendita, quindi, come terreno di iniziativa della stessa sinistra e del movimento operaio. Questo tema nel lavoro di Napoleoni indubbiamente c'è. Come però ci ricorda Lucio Magri nell'intervento al convegno di Biella (pubblicato poi su Critica Marxista), a 10 anni dalla scomparsa di Napoleoni, il suo contributo non può essere racchiuso in questo ambito. E infatti ciò è del tutto evidente se si riflette su alcune tappe importanti del suo lavoro teorico e del suo impegno politico. Già nella Rivista Trimestrale fondata con Franco Rodano (fine anni '50) prende corpo un'analisi critica del consumismo quale tratto saliente del nuovo capitalismo. A questa critica si coniuga una proposta di politica economica che, a partire dai bisogni sociali e collettivi, possa determinare nuove scelte e opportunità di investimento. Già allora, quindi, emergeva la critica alle nuove forme che il capitalismo veniva assumendo e l'esigenza di battersi per un diverso sviluppo e una diversa programmazione dell'economia. Questione, questa, che si riproporrà alla fine degli anni '60, arricchita da un elemento decisivo: proprio i contenuti avanzati delle lotte operaie di quegli anni e le forme di democrazia diretta davano la possibilità di fondare la programmazione e l'intervento pubblico nel vivo della società e dei suoi conflitti.

Nel 1978 - con Luciana Castellina e Stefano Rodotà - dà vita alla rivista Pace e Guerra. E proprio sul primo numero della rivista, riflettendo sul tema dell'austerità, Napoleoni scrive che quanto si aspettano «i destinatari» di quella proposta (cioè i soggetti sociali protagonisti delle lotte in particolare degli anni '60-'70) «non è soltanto una migliore amministrazione dell'esistente ma un inizio di superamento sia della condizione implicita del lavoro salariale sia dei modi di consumo impliciti nella produzione mercantile». Come si vede, anche da questo passo emerge una critica al modello capitalistico di sviluppo e l'esigenza del suo superamento. Negli anni '80 la riflessione di Claudio Napoleoni si trova di fronte due questioni assai delicate e gravide di conseguenze: cominciano a dispiegarsi le politiche neoconservatrici con i loro effetti sull'economia ma anche su quei soggetti protagonisti delle lotte degli anni '60-'70; in secondo luogo, si apre una discussione nel Pci proprio su come affrontare e contrastare quelle politiche. Nel 1986 in un seminario promosso dal Cespe e dal Crs Napoleoni si chiedeva perché mai la sinistra dovesse assumere come propri gli obiettivi del risanamento finanziario e della «stabilizzazione del ciclo economico intorno a un trend positivo». La leva del bilancio pubblico andava utilizzata, secondo Napoleoni, non per produrre una spesa inflazionistica ma per «dirigere risorse verso quei settori che sono più suscettibili di allentare la nostra dipendenza dall'estero». O verso una politica di investimenti «per grandi programmi di modificazione del territorio che hanno valore in se stessi e che possono essere giudicati dei beni finali e non dei beni strumentali a altro». Investimenti, quindi, per ridurre l'inquinamento, produrre servizi, risanare le città e le aree urbane.

Sappiamo come questa discussione si è conclusa. La domanda radicale che Napoleoni si pone negli ultimi anni della sua vita porta forse il segno di una riflessione che risente molto della sconfitta che la sinistra subisce proprio a partire degli anni '80. Si chiede infatti Napoleoni «posto che la storia contemporanea culmina in una società dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l'uomo ha un carattere distributivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica?». È il dubbio che lo assillava negli ultimi anni della sua vita. E proprio a fronte di questo dubbio sollecitava, nel suo ultimo libro, «cercate ancora».

Quel filo conduttore di cui abbiamo parlato all'inizio e che troviamo in tante parti della sua riflessione teorica e politica sta proprio nella critica radicale del moderno capitalismo a cui si associa una costante ricerca delle strategie che - pure in presenza di vincoli e condizionamenti che il sistema produce - portino a un suo superamento. L'attualità del suo lavoro e dei problemi che esso pone sta proprio qui. E infatti guardiamo a ciò che oggi sta avvenendo. Quel capitalismo così «pervasivo» che distrugge l'ambiente e ingenti risorse è nel pieno di una crisi drammatica non solo della finanza. È una crisi che tocca e riguarda in primo luogo l'economia reale. Così il tema della redistribuzione del reddito verso il lavoro torna a essere centrale. Ma c'è di più. Paradossalmente la necessità dell'intervento pubblico in economia viene riconosciuta da tutti. Ma, ecco il punto, l'intervento pubblico non può limitarsi a tamponare gli effetti più devastanti della crisi per poi tornare alla condizione precedente. C'è l'esigenza, invece, che quell'intervento sia funzionale a un progetto capace di modificare la qualità della produzione e dell'occupazione. E ciò è possibile se si risponde alle tante domande inevase che ci sono nella società e su di esse si orienta uno sviluppo diverso: risanamento del territorio e delle aree urbane, nuove politiche energetiche e nuove politiche industriali, progetti per una mobilità sostenibile etc. Non sta anche in questo l'attualità del pensiero di Claudio Napoleoni? Forse una costituente per un nuovo soggetto della sinistra dovrebbe partire anche da lì.

«Certo, l'economia, in quanto disciplina autonoma, è nata come scienza del capitale; e tale è sostanzialmente rimasta…». Così, più di vent'anni or sono, Claudio Napoleoni rispose a una mia domanda che per un attimo lo aveva lasciato perplesso: «Esiste un'economia di sinistra?».

Quella risposta fu per me un'illuminazione, che ha continuato a chiarirmi molte cose della politica delle sinistre, alle quali, pur senza mai essere iscritta a nessun partito, ho sempre fatto riferimento e dato il mio voto. Anche quando, in Italia e non solo, le sinistre avevano solida consistenza e autorevolezza, nel concreto del loro operare mi pareva infatti di avvertire una critica troppo blanda, episodica e parziale, verso il capitalismo, il nemico storico contro il quale erano nate e che ancora affermavano di combattere. La sensazione è andata poi accentuandosi via via che il capitalismo andava trionfando in tutto il mondo, e (fatte salve le rituali quanto sacrosante accuse di crescente sfruttamento del lavoro, di sempre più pesanti disuguaglianze, ecc.) la lotta contro di esso andava ormai riducendosi a una serie di tentativi, parziali e separati, di emendare un sistema con tutta evidenza sempre meno emendabile. Mai (mi pareva) si tentava una critica organica alla gran macchina dell'economia capitalistica nella sua interezza.

Né, a quanto ne so, mai ha avuto luogo un'impegnata analisi di quel "cambio di fase" che si produsse nel trentennio dell'immediato dopoguerra, in cui l'espansionismo del capitale si orientò verso le masse lavoratrici come bacino di utenza adeguato a quella gigantesca dilatazione dei consumi che presto si sarebbe imposta come decisiva dimensione culturale dell'umanità; ciò che d'altronde per un periodo non breve ha certo notevolmente migliorato le condizioni delle popolazioni industrializzate.

Così che, mentre la "rivoluzione" ancora rimaneva l'obiettivo ultimo della lotta, la politica quotidiana (impegnata in quelle rivendicazioni - salari, orari, pensioni, assistenza sanitaria, ecc. - che furono base dello "stato sociale") di fatto si limitava un'operazione riformistica. Si combatteva contro il capitalismo per obiettivi immediati di maggiore giustizia, ma non per la rimessa in causa della sua logica, basata sull'accumulazione di plusvalore, cioè su una crescente produzione di ricchezza della quale prima o dopo (si prometteva) tutti avrebbero potuto godere. E ciò andava creando una sorta di dipendenza psicologica nei confronti dello stesso sistema che si affermava di voler abbattere, e alla fine l'adesione al paradigma ideologico industrialista, che dà la crescita produttiva quale strumento necessario garantire il benessere collettivo.

Già nei primi anni Novanta si verificarono però dei fatti che avrebbero dovuto far suonare più d'un campanello d'allarme . Mentre in tutto il mondo, dopo alcune più o meno piccole crisi, l'economia aveva ripreso a marciare a pieno ritmo, dovunque l'occupazione andava diminuendo. Per la prima volta veniva meno quella regola, per due secoli indiscussa, che aveva garantito il lavoro a traino della produzione. Accadeva cioè qualcosa che (mentre di nuovo già si allargava il divario tra ricchi e poveri) avrebbe dovuto aprire seri interrogativi sulle politiche delle sinistre, e sulle ragioni per cui i movimenti operai, certo senza mai dichiararlo, avevano in realtà fatto propri non pochi valori e certezze del capitalismo. Avrebbero insomma dovuto aprirsi dubbi sulla totale positività della crescita, ormai impostasi come una verità di fede. Tanto più che, in modi sempre più allarmanti, e con dati sempre meno discutibili, la scienza andava richiamando l'attenzione del mondo sul crescente squilibrio degli ecosistemi, e ne indicava le cause in uno sfruttamento delle risorse naturali fortemente superiore alla loro capacità di autorigenerazione: nella crescita cioè, nell'accumulazione capitalistica.

Molte riflessioni avrebbero potuto insomma aver luogo, prima che da un lato la crisi ecologica toccasse livelli di pericolosità da molti ritenuti irreversibili, e dall'altro si avviasse e rovinosamente avanzasse nel mondo globalizzato quel processo di sempre più duro attacco al lavoro che Serge Halimi ha chiamato "Il grande balzo all'indietro". Forse (magari con l'ausilio di profetiche letture della realtà firmate da osservatori politici quali Gorz, Wallerstein, Chomsky) ciò sarebbe stato possibile anche prima che la crisi del capitale clamorosamente esplodesse. E prima che la divaricazione tra ricchi e poveri toccasse vertici quasi surreali nei dati più recenti, secondo cui l'1% della popolazione del mondo possiede il 50% della ricchezza.

Nulla di tutto ciò è accaduto. E ora? Ora, non risolto ma in qualche misura contenuto ad opera di pubblico intervento lo tsunami finanziario, mentre ancora pericolosamente continua l'altalena delle borse, e nessuno dubita più della recessione prossima ventura, anzi già in atto, ora da ogni parte, con rinnovato empito, si invoca ripresa, rilancio produttivo, insomma crescita, Pil. Con qualche novità però. Dopo un periodo in cui la crisi economica aveva totalmente oscurato le tematiche ambientali, oggi di ambiente si parla molto, ma per motivi e in modi che con una effettiva salvaguardia degli ecosistemi ha davvero poco a che fare. Da Merkel, a Obama, a Sarkozy, a Veltroni, a più di un esponente sindacale, tutti parlano con entusiasmo di energie rinnovabili e di "business verde" nelle sue forme più diverse, pensando a una forte ripresa produttiva che potrebbe seguire al loro impiego su vasta scala, dunque con deciso rilancio dell'organizzazione economica attuale, cioè sulla la causa prima dello squilibrio degli ecosistemi.

D'altronde in perfetta coerenza con un passato in cui politica e economia, dopo aver a lungo ignorato il rischio ecologico, ha iniziato ad occuparsene solo di fronte all'allarme di un prossimo esaurimento del petrolio, polarizzando poi l'attenzione su effetto serra e mutamenti climatici, in gran parte generati dall'uso dei carburanti tradizionali; per puntare infine sulle energie rinnovabili quale certa salvezza del pianeta. Del tutto ignorando quella miriade di altri guasti (crescente mancanza di acqua potabile, desertificazione, scomparsa di migliaia di specie viventi, gigantesco accumulo di rifiuti, tossicità diffusa dovuta a pesticidi e materiali chimici di uso comune, malformazioni e tumori che si moltiplicano, ecc.), problemi di diversa gravità, ma tutti parte decisiva di quel problema enorme che riguarda la stessa nostra sopravvivenza.

A questo modo, da parte dei potenti, della più vasta informazione che sempre delle posizioni dei potenti risente, e anche di non pochi ambientalisti sinceramente impegnati, si è posta in essere una sorta di operazione riduttiva, tendente a ignorare la molteplice realtà della crisi ecologica, per identificarla con il mutamento del clima (certo la sua manifestazione più vistosa e carica di rischi, ma non l'unica) e la sua soluzione con le energie rinnovabili. Prospettando così un possibile futuro libero da inquinamenti e scarsità energetica, in cui non esistano più limiti a produzione e circolazione di auto, moto, aerei, ecc. né alla moltiplicazione di consumi di ogni tipo.

Nessuno di quanti hanno pubbliche responsabilità sembra sospettare l'esistenza di un nesso tra crisi economica e crisi ecologica. Ciò che viceversa molte e autorevoli voci rilevano, d'altronde largamente riprese dalla stampa mondiale. Ne cito solo alcune, che riconducono ambedue le crisi a una sola causa: la crescita del prodotto. Il primo a dirlo era stato André Gorz ( Entropia N.2, 2007) a pochi mesi dalla morte. E lo affermano George Mombiot (con ripetuti interventi sul Guardian ), l'economista indiano Prem Shankar Jha ( il manifesto ), il biologo Edward O. Wilson ( Il Sole 24 Ore ), il filosofo Paul Virilio ( Le Monde ), l'antropologo Jared Diamond con il suo celebre libro Collasso (Einaudi). Tutti si dicono convinti che la Terra è troppo piccola per la velocità assunta dalla storia; che il futuro di tutti noi è condizionato dalla realtà ecologica, che cioè «in un mondo finito è necessaria una riduzione drastica del prodotto».

Tutti costoro sono inoltre convinti che, essendo l'economia capitalistica la causa dello squilibrio planetario, sia impossibile trovare soluzione entro la logica e le regole del capitale. Dello stesso parere si sono recentemente dichiarati anche: il filosofo sloveno Slavoj Zizek ( N.Y.Times ); l'economista Immanuel Wallerstein ( ); un'ampia "Rete di intellettuali e artisti sudamericani", che a partire da questa convinzione firmano un complesso Appello, dopo un convegno svoltosi di recente a Caracas; perfino Gorbaciov il quale dichiara senza mezzi termini che «il neoliberismo ha fallito in ogni senso» ( La Stampa ). Sono tutte opinioni innegabilmente "di sinistra", ma tutte espresse a titolo personale, da osservatori che non fanno riferimento a organismi politici. E i partiti, le sinistre organizzate, come si pongono?

Per limitarci alla situazione italiana, occorre dire che da qualche tempo si notano dichiarazioni esplicitamente e duramente anticapitaliste firmate da personaggi di rilievo di Prc. Faccio un paio di esempi. E' lo stesso segretario Ferrero a scrivere su questo giornale: «Noi ci battiamo per il superamento del capitalismo» (2 novembre); «Il capitalismo sta diventando, palesemente, il maggior nemico dell'umanità» scrive a sua volta Rina Gagliardi (4 novembre). Sono però affermazioni di solito non corredate da indicazioni operative conseguenti. Combattere il precariato, aumentare i salari, tassare i redditi più alti, potenziare i servizi, difendere il diritto a scuola e ricerca, sono in genere i provvedimenti auspicati: tutti condivisibili, certo, ma che non vanno oltre le politiche di sempre, senza affrontare l'eccezionalità della situazione.

E anche proposte capaci di una valenza decisamente rivoluzionaria, come la «riconversione ambientale e sociale dell'economia», auspicata da Ferrero ( 5 novembre), rimane appunto un auspicio, se non è debitamente elaborata e pianificata in un programma organico. Cosa di cui non si ha notizia. Anche le sinistre estreme, non solo in Italia, in genere esprimono il proprio impegno ambientale soprattutto nella battaglia contro i "mutamenti climatici" mediante energie rinnovabili (una linea, come dicevo, fatta propria dalla grande industria per la continuità e il rilancio della crescita), oppure si battono per la difesa dell'acqua, per il trattamento razionale dei rifiuti, contro opere pubbliche indifendibili come la Tav, il Ponte sullo Stretto, ecc: tutte attività in sé utilissime, ma ben difficilmente capaci di risolvere un problema quale quello che ci troviamo a confrontare.

Nessuna sinistra, a quanto ne so, sembra orientata ad assumere lo squilibrio ecologico come materia base di un impegno totale, nella cognizione piena di tutte le problematiche che ne sono parte, in una libera lettura della radicale trasformazione prodottasi negli ultimi decenni nel mondo; insomma di tutte le verità alle quali non può non fare riferimento ogni programma politico nella sua interezza e in ogni singola scelta. Tra discussioni per la difesa dei simboli e delle identità storiche, tra scissioni già in atto o minacciate, richieste di nuovi congressi (tutte cose, confesso, che non mi appassionano affatto, che trovo anzi dispersive e pericolose) è nata recentemente un'Associazione, di cui chiunque, abbia o no una tessera in tasca, può essere parte. Mi illudo se penso che questo potrebbe essere un organismo in grado di impegnarsi seriamente a ripensare la società e l'economia, per il superamento di una realtà costruita sullo sfruttamento sempre più duro del lavoro e la distruzione sempre più insensata della natura? Insomma per una rottura definitiva tra sinistre e capitale?

Forse no, se questo nuovo soggetto politico sarà capace di muovere da una piena consapevolezza del mutamento oggi in atto, assumendolo in tutta la sua radicale, eversiva portata: in cui "il capitalismo ha aderito come una seconda pelle all'antropologia del post-moderno", e in questo processo perfino «la lotta di classe, il lavoro come principio di significazione sociale, la religione civile dell'antifascismo (…) tutto è entrato in una sorta di centrifuga storica, la memoria si è mutata in fiction e caos pubblicitario», come scrive Nichi Vendola ( Liberazione 16 novembre). E Nichi Vendola è appunto uno dei promotori della nuova Associazione.

Scritti online di Claudio Napoleoni sono nel sito di Vittorio M. Tranquilli, Katciu-Martel, soprattutto nella sezione “LEZIONI, da Autori di un recente passato”. Una commemorazione lucida e commossa è quella che di Alfredo Reichlin, disponibile qui.

Mario Rigoni Stern è morto l’altro ieri sera ad Asiago, nel vicentino, dove era nato nel 1921 e dove era tornato a vivere subito dopo la guerra. Rispettando le volontà dello scrittore, la notizia della sua scomparsa è stata diffusa dai familiari soltanto ieri a funerali avvenuti.

«Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Me basta e vanza. ‘Desso posso morir in pase». Così disse il vecchio quando andai a trovarlo l’ultima volta nella sua casa al limitare del bosco, sull’altopiano di Asiago. Era metà marzo, e lui stava in cucina sulla sedia a rotelle, un maglione di lana grezza addosso, davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso. Appena toccai la corteccia della mano - la stretta fu forte come sempre - sentii che non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, le cinciallegre e i fringuelli sparavano trilli fenomenali, l’ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava. Così ricordai quanto mi aveva detto un anno prima. «La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».

Ma per me il tempo del Mario era l’inverno. Quando nevicava, il primo pensiero era per lui. Ovunque fossi, cercavo la direzione dell’altopiano e dicevo tra me: il vecchio sarà contento, si sarà fregato le mani, avrà buttato altra legna sul fuoco. Insomma, Mario c’era, stava lassù, ed era bello saperlo. Era la garanzia che non tutto era perduto, la natura stava ancora nei binari. «Sono nato alle soglie dell’inverno - così esordisce il suo libro dedicato alle stagioni - e la neve ha accompagnato la mia vita. All’asilo infantile le suore ci avevano insegnato una canzoncina che diceva di un bambino che dormiva in una culla e di una vecchia che cantava, il mento sulla mano: «Nel bel giardino il bimbo s’addormenta / la neve fiocca lenta lenta lenta».

La Bianca Signora gli aveva portato via i compagni in Russia, ma non la odiava per questo. Quando turbinava in silenzio, usciva arruffato e felice, guardava la radura con quella foresta di capelli matti da giovanotto, barba gelata dal fiato, occhi umidi da cane pastore, poi andava a rovistare in legnaia. Per lui l’inverno era «la tavola grande dove si sta in tanti», gli sci in spalla, la dispensa piena, le corse e le capriole nella neve. Era soprattutto il tempo della scrittura, della memoria e del racconto. D’inverno vivi e morti si avvicinavano, il Sergente nella Neve tornava, le porte del cielo erano spalancate.

Aveva capito tutto: la montagna è l’ultimo baluardo, l’ultimo serbatoio di risorse in un mondo dilapidato. Sapeva che va difesa a ogni costo, e lui lo faceva: s’era buttato nella sfida con passione civile, a ottant’anni suonati, intervenendo sulla stampa nazionale contro la strategia dell’abbandono. «Il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare - ripeteva - ma consumando consumiamo anche la natura, e quindi l’uomo». Un giorno s’è augurato di «vivere abbastanza per vedere il mondo rinsavire un po’, con la fine degli sprechi, delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che nascondono le stelle». Senza il suo magistero morale, ora la battaglia per la sopravvivenza di quest’ultimo pezzo di mondo incontaminato diventa più difficile. Oggi non è solo la letteratura che perde un protagonista; è anche la montagna italiana che perde un difensore.

Mario nasce ad Asiago nel novembre del 1921, tre anni dopo la fine della guerra che ha devastato l’Altopiano. E’ quello il Grande Evento fondativo della sua immaginazione. Ha radici profonde; una storia di famiglia lunga mille anni, tutta lassù, tra i liberi Comuni dei Cimbri. Vive un’infanzia brada, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni, va alla scuola militare alpina di Aosta, dove scopre la grande montagna. Ma è subito la seconda guerra, l’aggressione alla Francia e la campagna di Russia con le scarpe di cartone. Nella ritirata compie quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera, sganciandosi dal suo caposaldo senza perdere nemmeno un uomo. Torna a casa, ma dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nordest di Varsavia.

La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento. E’ anche il tempo della scrittura. Il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra Polonia e Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario.

Come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alle memoria per non impazzire. Come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo contadino da cui proviene. Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio della sua piccola patria.

Dall’esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve, che cinquant’anni dopo sarà trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi - racconterà all’attore - combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita». Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto la Storia di Toenle, dove si narra di un contadino, pastore e contrabbandiere che trova nell’attaccamento alla sua terra l’unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l’Altopiano. Scrive perché la memoria non sia perduta: il Sergente è dedicato a quelli che non sono ritornati, Toenle ai racconti dei nonni, L’anno della vittoria alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese. E poi, recentissimo, Le Stagioni, dedicato alla natura. Un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio.

Una vita piena, attaccata alla sua montagna. «Non potrei vivere in nessun altro luogo» diceva tra una sciata e una gita. Persino Asiago-paese era troppo grande e rumoroso per lui. Ha aspettato di avere ottantadue anni per andare a caccia di camosci la prima volta in vita sua e impallinare una bestia al primo colpo. Aveva una mira infallibile e nel bosco vedeva quello che gli altri non vedevano. Una notte di due anni fa ci trovammo a Jesolo per un evento letterario. Lui fece notte in allegria, cenando con le autorità locali in un casone sperduto della Bassa veneta, oltre la muraglia di cemento della Riviera, ma poi a un tratto disse: «Fioi, no vedo l’ora de tornar su in montagna». Era anarchico e partigiano nell’anima; si imboscava appena possibile e odiava la pianura perché c’era troppo rumore e troppa luce.

Era grande nella scrittura, ma ancora di più nella narrazione orale. Era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto, fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro. Le evocava, ne sentivi la ruvidezza e l’odore. «La parola detta - spiegò in un incontro pubblico a Torino - viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». Come Claudio Magris, altro grande battitore di boschi e brughiere, anche per lui l’andatura era ritmo, metrica, dunque narrazione.

Lamentava: «Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l’operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più».

Un giorno lo andai a trovare e mi accompagnò a piedi verso Malga Zevio, nella zona delle trincee raccontate da Emilio Lussu. Camminò sulle rocce dove erano morti migliaia di soldati, ascoltò il silenzio dell’Altopiano, interrotto solo dal ronzio dei mosconi. Poi disse: «Di questi tempi c’è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l’uomo ha bisogno delle parole, sennò non le manderebbe a memoria. Primo Levi si salvò recitando la Commedia. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti». Disse che in Russia - che lui chiamava commosso «la mia Russia» - la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì declamava, fremeva, piangeva, evocando parole dette chissà quanti anni prima.

Sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell’atmosfera. Guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i movimenti degli animali. «Guarda - mi disse quell’estate, la tremenda estate rovente del 2003 - gli abeti sono in esuberanza, sono pieni di strobili e polline». Poi imitò il trillo di un uccello: «Le allodole - aggiunse - sono salite sopra i 1500 metri, lo capisci dal canto all’alba che non si sente più attorno al paese». S’era accorto che le zecche non c’erano più, e le vespe germaniche pure. I funghi erano scomparsi, le vipere invece si erano moltiplicate. C’erano «troppe ortiche», lamentò. «Se la politica non aiuta chi lavora su in malga, le erbe matte arriveranno fin dentro la piazza di Asiago».

«Spegnete la televisione, prendete un libro» disse a sorpresa un anno fa davanti a milioni di telespettatori nell’unico talk-show cui aveva accettato di partecipare. Non aveva paura di nessuno, e parlava volentieri soprattutto con i giovani. Sentiva l’urgenza di un messaggio da lasciare. A un raduno di cacciatori «gentiluomini» in Val Badia mi disse di essere ai ferri corti con la televisione, mezzo «volgare e banale». «Lo dirò un giorno ai loro direttori - sbottò - vi prego, tenetemi sveglio almeno durante il telegiornale». Fuori pioveva in modo impressionante sulle Dolomiti, e lui si sedette accanto al fuoco per raccontare. Evocò storie di preti-bracconieri e i favolosi racconti sulle battute di caccia della letteratura russa, tra le betulle del Nord, il suo albero preferito. Sobbalzando sulla poltrona, raccontò di un commilitone uscito allo scoperto dalle linee, sotto il tiro dei russi, per correre dietro a un volo di starne.

Chiamarsi Rigoni e morire in una contrada di nome Rigoni - Asiago è una rete di frazioni sparse sui pascoli - , vivere in una terra dove basta chiedere «dov’è la casa del Mario» per farsi indicare la strada, tanto il cognome è sottinteso, credo sia una grande fortuna in questo tempo di stradicamenti e meticciati selvaggi. Quando ci andai l’ultima volta, mi bastava nominare il Mario e la gente abbassava la voce, come per non disturbare l’evento misterioso che si compiva, come se tutto l’altopiano aspettasse col fiato sospeso la caduta della quercia e ogni alberello sapesse che l’equilibrio del bosco sarebbe mutato con la sua assenza. Di certo, la foresta lo chiamava, e non era una foresta qualunque, era quella che l’aveva visto nascere. La fine del Mario era davvero un inizio.

«No go paura de morir» disse con voce flebile. Ma le guance erano rosse come sempre, e nell’occhio stanco ardeva una luce febbrile. Continuò: «Mi avevano detto che non sarei arrivato a febbraio, e adesso è marzo. Non so se arriverò alle elezioni, ma mi piacerebbe che Quello Lì andasse a casa». Quello Lì era l’innominabile, il grande manipolatore, e la luce negli occhi erano i carboni ardenti della passione civile. Ero arrivato da lui con una coppia di amici che gli avevano portato un cesto di uova ruspanti, raccolte il giorno prima nel pollaio di casa. «Uova partigiane», dissero, mandategli dagli ultimi testimoni-protagonisti della Resistenza sulla Linea Gotica. Lui fece il baciamano a lei e diede la zampaccia a lui. Era contento. Poi disse: «Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali. Niente cori e discorsi. Che si sappia una settimana dopo».

Uscendo, ci fermammo nel soggiorno inondato di sole e bevemmo un bicchiere con la moglie Anna e il figlio Alberico, una montagna d’uomo, assessore all’ambiente del Comune di Asiago. Il Mario continuava a mangiare in silenzio, in cucina, e noi promettemmo di tornare, l’estate, a fare il giro delle malghe, «perché lassù si gioca una battaglia importante». Bisognava continuare il lavoro del vecchio, non mollare al cemento. Salutammo.

Avevamo già addosso il suo odore, i suoi scarponi e il maglione. Poi salimmo verso l’Ortigara, fin dove la neve bloccò la strada. Eravamo felici.

L’ultimo, bellissimo articolo ("L’immondizia nel paese che si è rotto") era uscito il 20 gennaio scorso. Ieri Pasquale Coppola è morto, improvvisamente dopo una lunga e tormentata malattia. Scrittore brillante e analista tra i più anziani e acuti tra quelli la cui firma ricorre spesso su queste pagine, non ha bisogno di presentazioni. Aveva il gusto innato, anzi la passione, per la comunicazione a mezzo stampa; passione che non aveva trasformato in vero e proprio mestiere a tempo pieno, ma aveva saputo trasmettere alla amatissima figlia Alessandra, redattrice degli esteri de "Il Corriere della Sera".

Pasquale Coppola era soprattutto, come sanno generazioni di studenti toccati dalla sua didattica chiara e coinvolgente, un professore universitario e aveva piena consapevolezza della responsabilità delle sue funzioni. Le esercitava come magistero a tempo pieno dividendosi tra la cura per l’insegnamento e la paterna attenzione profusa nei confronti di una moltitudine di allievi che ha continuato caparbiamente a tirar su anche quando il far scuola era diventato ormai incompatibile con lo stato delle risorse della nostra università.

Geografo sensibile e aggiornato, era stato allievo di Domenico Rocco ed era entrato a insegnare, giovanissimo, all’Università "L’Orientale". Vi era giunto in tempo per partecipare, all’inizio degli anni Settanta, alla trasformazione di questa istituzione in un ateneo multifacoltà, proteso a superarsi e reinventarsi al di là di un’antica e specialistica connotazione filologico letteraria. Aperto allo studio di una geografia umana profondamente influenzata dal magistero di Lucio Gambi, Coppola fu tra i fondatori della facoltà di Scienze politiche e tra i fautori di uno studio interdisciplinare che seppe animare con ricerche e iniziative scientifiche di livello internazionale. Attento da sempre alla "questione Mezzogiorno" ha dedicato a questo tema numerosi studi concentrandosi in particolare sul significato delle nuove morfologie produttive della Basilicata. Ma la sua attenzione si è anche rivolta ad altri temi che scaturivano dall’infittirsi di un quadro di relazioni scientifiche internazionali che gravitava in larga parte sul mondo francofono a cui era particolarmente legato. Uno studio sul Marocco e vari contributi sull’area mediterranea mettono bene il luce questo settore della sua attività che si conclude, poco prima della sua scomparsa, con una ricerca condotta con alcuni allievi e dedicata agli insediamenti dell’immigrazione straniera in Campania. Sono tutte testimonianze di un percorso scientifico e culturale solido e apprezzato ai livelli più alti della comunità scientifica, ma che rendono solo parzialmente conto della ricchezza della sua personalità.

Pasquale Coppola mostrava di possedere naturalmente un forte senso di appartenenza a un’istituzione, l’Università considerata come depositaria di valori e di pratiche civili essenziali per il funzionamento e la sopravvivenza della società democratica costruita sulle rovine della guerra. Di questa visione, schernita e impoverita dai cattivi costumi accademici e dalle disgreganti omissioni delle classi politiche nazionali si sentiva, senza alcuna ingenuità, depositario e rigido difensore. Un indiano della riserva o un dinosauro, nella affettuosa espressione di qualche giovane allievo. Sicuramente una persona che ci mancherà molto e di cui cercheremo di continuare a seguire l’esempio.

Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l’ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po’ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d’una generazione, e anche il destino d’una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all’indomani dell’armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall’arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C’est la lutte finale!», la Marsigliese e l’Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.

«Quando Marcelle Padovani me l’ha mostrato, è stata un’emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe.

Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell’ordinata scansione in paragrafi, perfino nell’accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l’editore, «si riconosce la naturale eleganza dell’autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».

A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all’emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D’Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l’indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l’atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.

«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell’episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t’ammazzo…». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.

Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L’arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l’organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all’azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l’Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d’un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.

Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall’iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l’eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d’oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell’oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d’una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».

Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell’ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell’aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l’interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all’opra!». È l’unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l’analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l’arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un’occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l’attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s’aggiunge il peso simbolico della successione. Nell’aprile del 1944 Bruno è già in montagna.

Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un’urgenza perentoria l’idea che c’è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell’una e dell’altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell’antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull’equivoco».

BRUNO TRENTIN

pagine dal diario

22 settembre 1934

Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell’armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall’annuncio dell’occupazione integrale dell’Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall’8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.

L’8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l’armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l’Italia vera.

Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.

Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L’11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall’ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L’11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.

25 settembre 1943

Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d’animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell’impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.

Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l’onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell’isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all’invasore nazista. Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c’è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l’onore del loro paese e la loro libertà.

8 ottobre 1943

L’automobile s’inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l’automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell’esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l’aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario.

Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos’altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.

Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po’ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po’ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po’ pieni di illusioni.

Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c’è anche un’Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un’Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell’uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.

Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un’altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!

Quel popolo che era sul Piave contro l’Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...

Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch’io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L’automobile scende nella notte: un’ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l’elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...

© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008

Cesco Chinello si è spento a Venezia nella notte di sabato, «tranquillo e lucido come aveva sperato», testimoniano i suoi. Era malato da un pezzo, di quelle malattie anche di fatica che afferrano i non più giovani. Gli erano diventate difficili anche le scale dell'appartamento a Sant'Elena, nella modesta casa giusto dietro l'imbarcadero dei giardini. Aveva corso sempre, da quando poco più che ragazzo era entrato nella Resistenza, e fra un'azione e l'altra avevano deciso in quattro o cinque, per svegliare una città sonnolenta, una pericolosa goliardata interrompendo uno spettacolo al Goldoni davanti ai tedeschi occupanti per leggere un appello a resistere. E poi erano riusciti a scappare, giovani e matti, fra vicoli e canali, e continuando a rendere incerta la presenza della Wehrmacht assieme alle brigate dell'entroterra. Dove continuò a correre in bicicletta, a guerra finita, per contendere metro per metro alla chiesa un Veneto profondo bianco, del quale ancor oggi Venezia resta un'isola democratica e di sinistra davanti alla marea di una Lega dilagata negli spazi della vecchia Democrazia cristiana.

I giorni di Cesco sono stati un ostinato contrappunto alla vicenda della città, che il dopoguerra trovava sospesa fra un turismo élitario e il pessimo sogno fascista degli anni Trenta - quello del «conte» Volpi - di fare un avamposto industriale della zona fra la Marittima e Marghera, pesante appendice cementificata fra la città periclitante sulla laguna e Mestre. Nel dopoguerra sarebbero cresciute le manifatture dove un tempo c'erano stati navigazione interna e commerci e barene, sarebbe arrivato lo sciagurato canale dei petroli e il Petrolchimico dei veleni. Ognuno di questi poli, che sarebbero durati assai meno del secolo breve e furono terreno di un assai poco gloriosa frangia del poco glorioso capitalismo italiano, aggrumava una manodopera che veniva dall'entroterra contadino e dalla ex città di mare.

Un'aggregazione che cresceva negli anni Sessanta fino quel 1968 che ancor oggi i residui operai veneti, specie delle metallurgie, ricordano come se fosse stato tutto loro, un risveglio tumultuoso, la conquista di impensati diritti.

Cesco Chinello, dopo aver percorso la provincia in tutte le direzioni, era diventato l'uomo di quella gente, assieme ad altri quadri operai, straordinari e ritrosi come il Peri Granziera che non so quanto a lungo abbia creduto nel partito e per niente nei gruppi. Cesco nel partito credette sul serio e a lungo, fu segretario di quella federazione a calle del Remer (da tempo non ce n'è poi stata una se non a Mestre), dove passavano anche musicisti e pittori, Gigi Nono in polemica con Zdanov e i pittori in polemica fra loro, Vedova presto deluso contro Zigaina prediletto dalla direzione romana. Vi approdavamo anche noi ingraiani, ma Cesco non veniva con noi a tarda sera, con Gigi, alla taverna della Fenice. Forse pensava di noi come aveva scritto con ironia Noventa «credevamo di stare all'osteria e invece stavamo nella storia». Lui stava nella storia quotidiana, si alzava presto, correva a Marghera, passava da una riunione all'altra, cercava di convincere i compagni e il centro di quel che stava cambiando, aveva fiducia in Ingrao e in Trentin, che la fabbrica la conosceva davvero. Ma in verità ben prima del Muro di Berlino il Pci l'aveva lasciata cadere, se pure era mai stata al centro dei suoi dirigenti, più intenti alla geopolitica che a quel conflitto che connotò il secolo. Così dopo l'undicesimo congresso anche lui fu più o meno sordamente accantonato, fatto anche deputato quando si pensava ancora alla Camera come una onorevole messa da parte.

Si interrogava sulla crescita e sulla caduta. C'è una storia di Venezia che non somiglia a nessuna altra città, nei secoli e nel Novecento, declino dopo declino cui nessuno ha voluto o saputo metter un freno - oggi ha meno della metà degli abitanti di un secolo fa, e non cessa di perderne. Cesco la conosce, la ha annotata, la ha scavata - felice quando una biblioteca privata benevolmente gli si aprì - e ha potuto inserire nel lontanissimo passato le radici o almeno l'humus di quel che aveva raccolto nel presente, vicende, lotte, nomi, vite, decisioni, rinunce, volantini - tutto. Fedele alla memoria del Pci consegnò molto di quel suo prezioso materiale al locale Istituto Gramsci pensando di metterlo in salvo, finché un giorno vi si imbatte per caso, ammucchiato su una fondamenta in attesa della passata della spazzatura. Non so chi ne fosse allora il geniale direttore. Ma fu un altro passo nella solitudine, cui solo pose rimedio l'intelligenza dell'Istituto storico della Resistenza diretto da Mario Isnenghi. C'è da riflettere sulla smania autodistruttiva degli ex partiti comunisti, che si credono una classe dirigente senza avere imparato dalla borghesia che dal proprio passato si distingue ma lo salva.

Negli ultimi anni Cesco ha aderito alle sinistre delle sinistre, interessato specie al lavoro dei Verdi - ci siamo scontrati sul Mose, difeso da me e infido per lui. Ma soprattutto ha studiato, scritto, pubblicato sui conflitti operai a Venezia, interrogandosi senza pace sugli anni Sessanta e il rovescio che li ha seguiti. Ha concluso con una autobiografia che non è di sé se non come di uno fra i molti, non solo le vicende e le idee, ma nomi, cognomi, vite, caratteri, tentativi, fallimenti, anche le poche vittorie. Una storia appassionata, di parte, raramente distratta, spietata con pochi, generosa con molti, nella quale la sua Venezia si ritroverà.

Non ha veduto l'uscita di questo suo libro che è appena finito di stampare. All'Istituto andranno tutti i materiali cui non ha potuto dare spazio. Vorrei scrivere che Cesco vivrà a lungo, come il ricordo di coloro di cui ha voluto segnare per il tempo destino e lineamenti. Ma in questo momento più mi pesa che se ne sia andato anche lui, doveva partire dopo di me, tanto pochi siamo i sopravvissuti alle guerre di classe di cui oggi nessuno più vorrebbe sentir parlare.

Se n’è andato alle 8,50 del mattino, l’ora in cui, dopo la colazione («Per l’onorevole - era scritto su un cartello nella cucina della casa di riposo - caffè, biscotti, uova, marmellata») si avvicinava al tavolo per la prima partita della giornata. Giocava a beccaccino, una specie di briscola. Anche i suoi compagni di carte lo chiamavano onorevole, non più Bulow. Arrigo Boldrini, comandante partigiano, padre costituente, ha finito la sua vita ieri, all’ospedale di Ravenna. Il 6 settembre aveva compiuto 92 anni. «Nostro compito - ha scritto nel suo ultimo messaggio come presidente dell’Anpi - è raccontare la nostra esperienza partigiana, con le sue luci e le sue ombre. Perché possa essere di esempio e monito per fare comprendere il valore della libertà, il rischio di perderla, il sacrificio che occorre per riconquistarla».

Accompagnati da figli e nipoti, alla camera mortuaria della città arrivano gli ultimi suoi compagni di lotta, che combatterono nelle valli della Romagna. Arriva il sindaco Fabrizio Matteucci e dice che Ravenna «è orgogliosa di averlo avuto fra i suoi figli migliori». «Abbiamo perso un grande italiano. Quando ero ragazzo, i racconti dei partigiani si respiravano nell’aria: la Resistenza è stata la chiave che ci ha spinto all’impegno politico».

Domani alle 15 ci saranno i funerali in piazza del Popolo. In questa stessa piazza il 4 febbraio 1944 il generale Richard Mc Creery, comandante dell’VIII Armata inglese, gli consegnò la medaglia d’oro al valor militare per avere liberato la città di Ravenna quando il nord Italia ancora era occupato dai nazisti. Sempre in piazza del Popolo, nel novembre 1989, Arrigo Boldrini tenne l’orazione funebre per Benigno Zaccagnini. Avevano stretto un patto, lo studente di agraria diventato partigiano comunista e il pediatra che sarebbe diventato segretario nazionale della Dc. «Quando uno di noi se ne andrà - giurarono quando ancora erano in armi e si chiamavano Bulow e Tommaso Moro - l’altro parlerà al suo funerale».

Stamane verrà aperta una camera ardente in municipio. «In questo triste momento - ha scritto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - vorrei ricordare anzitutto l’amico sincero, dal tratto umano sensibile e aperto, con cui ho condiviso importanti momenti di comune impegno democratico. E rappresentare la gratitudine dell’intero Paese per il prezioso patrimonio di dedizione alla causa della libertà e dell’indipendenza nazionale».

Non era bravo a parlare, il comandante Bulow. «Me lo dissero - ha scritto nel libro "Corsari in jeep" Vladimir Peniakoff, comandante del reparto inglese che partecipò alla liberazione di Ravenna e salvò la basilica di Sant’Apollinare in Classe - i suoi stessi compagni. "Ha le qualità del capo, sa organizzare la guerriglia ma non sa parlare". In verità non era un oratore. Era un giovane piccolo di statura, vivacissimo. Era stato scelto da Luigi Longo, uno dei capi della Resistenza, perché aveva un’esperienza militare come ufficiale dell’esercito. Lo incontrai durante la liberazione della città. Noi entravamo da est, lui da nord. Bulow era ferito a un braccio, lo feci medicare e lo condussi nel mio alloggio. Era il giorno della vittoria ed egli era l’eroe ferito nella liberazione della sua città. Sarebbe rimasto a godersi il trionfo? Attivo e irrequieto come al solito, non ebbe pace finché non ripartì per le paludi, dove aveva vissuto tanto a lungo la vita di un ranocchio. Egli e i suoi vivevano in capanne di canne fangose, pochi centimetri sopra il livello dell’acqua. Ogni notte facevano una sortita contro i tedeschi, durante il giorno giacevano sul fango».

Finisce la guerra, Arrigo Boldrini resta per tutti Bulow. Non è facile scrollarsi di dosso i soprannomi in una terra romagnola dove i padri hanno il coraggio di chiamare i figli Rivo, Luzio e Nario, oppure Sole, Dello, Avvenire. «E’ stato un altro partigiano - raccontò Boldrini - a darmi questo soprannome. Si chiamava Michele Pascoli, era un barbiere comunista che sarebbe stato fucilato dai nazisti. Io spiego agli altri, in una riunione, che la guerra ai nazifascisti si può fare anche dove non ci sono montagne. Mi metto a parlare di "pianurizzazione". Il compagno Pascoli mi guarda e dice: "mo’ chi sit, Bulow?". Ma chi credi di essere, quel Bulow che ha sconfitto Napoleone?. Così quel nome mi è rimasto attaccato».

Subito dopo la guerra, il capo partigiano viene accusato dell’eccidio di Codevigo, in Veneto. Decine di militari e civili della Repubblica sociale furono uccisi. Arrigo Boldrini viene processato e assolto. Entra in Parlamento, diventa un padre della Costituzione. Diventa presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani. Scrive tutti i suoi discorsi, non parla mai a braccio, anche quando deve andare a celebrare il 25 Aprile nelle più piccole frazioni del ravennate. «Noi abbiamo combattuto - racconta - per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per chi era contro…».

Arrivano gli anni del tramonto. Nell’aprile 2005 Bulow viene accompagnato dal figlio Carlo nella casa di riposo di un prete, don Ugo Salvatori, a Marina di Ravenna. Si guarda intorno stupito, assieme al sacerdote vede anche quattro suore. La sua mente non è più quella di un tempo ma qualche ricordo ritorna. «Ma lo sa - dice a don Ugo - che da piccolo, nella chiesa di Santa Maria del Porto, facevo il chierichetto? Il nostro capo chierico era Benigno Zaccagnini». Verso sera, nella nebbia ravennate, un’agenzia annuncia che «Bulow si era avvicinato alla fede». Lo avrebbe annunciato don Ugo, raccontando che «prima di Natale aveva partecipato alla Messa». Il sacerdote si affretta a smentire. «Io non ho mai parlato di conversione. Ho solo detto che prima di Natale l’onorevole era stato accompagnato alla Messa da suo figlio e che era gentile con me. Tutto qui». Anche nel 2005, nei primi giorni nella casa del prete, il vecchio comandante era andato a Messa. «Stavo giocando a carte e vedo che tutti vanno via. Dove andate? A Messa, mi dicono. Io non sono andato, perché nessuno mi aveva invitato. Ma a Pasqua il prete mi ha invitato, e allora anch’io sono entrato nella cappella». Una mente lucida per i conti della partita a beccaccino e per qualche ricordo lontano. Gli occhi alle carte e alla pineta, oltre la quale ci sono le valli con la palude e i canneti. Era qui che Bulow faceva «la vita del ranocchio», per la libertà dell’Italia.

Ieri, alle ore 15, in un micidiale caldo di agosto, eravamo in tanti a dare l'ultimo saluto a Bruno Trentin. Dobbiamo dire grazie al corsivetto di Galapagos sul manifesto di domenica: invece della mortificante delegazione annunciata dagli uffici dei Ds c'erano D'Alema, Fassino, Veltroni, Mussi e poi anche i presidenti di camera e senato (peraltro ex sindacalisti) il presidente del consiglio e poi tanti altri compagni, vecchi e invecchiate amicizie.

Lì, davanti alla sede storica della Cgil, c'era un popolo partecipe, ma, viene da dire, un popolo di sconfitti al funerale di un grande sconfitto.

Quel che resta di una stagione di grandi speranze e di grande impegno personale e politico.

Anche i discorsi che hanno monumentalizzato la figura di Bruno, erano, come spesso i monumenti, funebri o strumentali alle opportunità dell'oggi.

Ho conosciuto Bruno Trentin negli anni '50, quando costruì e diresse l'ufficio studi della Cgil. Allora in quegli anni piuttosto rozzi e di scontro duro e rozzo, mettere su un ufficio studi e non di «lotta dura senza paura» era una straordinaria innovazione. E quell'ufficio studi fu un vivaio di idee, di iniziative.

E c'erano compagni straordinari come Ruggero Spesso, Camillo Daneo e altri ancora dei quali non ricordo il nome. Quando - spesso in compagnia di Mario Mazzarino - andavo lì a parlare e soprattutto ad ascoltare, ne uscivo pieno di idee, di voglia di studiare, capire.

Allora lavoravo alla sezione economica del Pci e l'ufficio studi della Cgil mi appariva come il più libero e fertile territorio di ricerca, di scoperta del nuovo che in quegli anni stava maturando nell'economia e nella società italiana. E Bruno era il caposcuola: serio, riservato, profondamente ironico e, insieme, appassionato. Questo mix di ironia e passione era la componente forte del suo fascino.

Poi fu un leader indiscusso, quasi carismatico ai tempi della Flm, dell'unione dei tre sindacati metalmeccanici. Allora la triade Trentin, Carniti, Benvenuto faceva furore: i metalmeccanici erano la vera avanguardia della società italiana in trasformazione, erano la politica e la democrazia che si rinnovava.

Ma quella fertile stagione arrivò al suo declino e le cose cambiarono anche quando Bruno divenne il più prestigioso segretario generale della Cgil. Gli anni '70 furono - senza che molti di noi, anche io, lo capissero - quelli della controffensiva capitalistica. Controffensiva vincente: gli anni '80 e '90 sancirono la sconfitta, o almeno la fine di un ciclo. E i funerali di ieri mi sono apparsi come la certificazione di questa sconfitta.

Ora che la morte di Bruno quasi materializza la sconfitta, dobbiamo tornare - oso dire - al suo ufficio studi, al coraggio e alla pazienza della ricerca. Questo - a mio parere - l'insegnamento più valido che Bruno Trentin (con il quale ci siamo anche scontrati) ci lascia. Proviamoci. «Cercare ancora» diceva un altro importante defunto, Claudio Napoleoni, che non credo fosse in grande sintonia con Bruno. Ma entrambi ci mandavano lo stesso messaggio: cercare

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