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A Sud, 8 settembre 2018. Un articolo da non perdere, che riassume la non volontà di affrontare il problema di questa città e la miopia dei nostri governi nel concepire il concetto di sviluppo, progresso e civiltà. (i.b.)



Prologo

È difficile scrivere qualcosa su quello che sta accadendo a Taranto in questi giorni per una ragione molto semplice: non c’è niente di nuovo. Che il popolo tarantino fosse stato sacrificato sull’altare del progresso e del profitto era un dato che avevamo acquisito già da tempo. Che ogni reale tentativo di mettere un freno a questa situazione dovesse cadere nel vuoto, lo avevamo visto nel 2012 con il decreto Salva Ilva, che mandò a farsi benedire il lavoro di indagine della gip Todisco e di fatto violò 17 articoli della Costituzione, imponendo la riapertura e la ripresa della produzione di un impianto sequestrato.

Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a spolparli da parte di chi se ne appropria.

Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni, annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.

Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.

Una suggestione

Scrivere semplicemente di quello che sta accadendo in questi giorni a Taranto sarebbe un’operazione che lascia il tempo che trova; chi vuole sapere sa già, chi non sa, non ci capirebbe molto, senza andare a ritroso nel tempo.

Su youtube sono disponibili molti video della costruzione dello stabilimento accanto al quartiere Tamburi, e sono tutti ugualmente impressionanti. Ci sono enormi macchine che sradicano ulivi millenari e riducono in poco più che calcinacci masserie secolari, per lasciare spazio a “un’immensa prateria senza ombre né segreti, senza più canto di vento”, dove sarebbe dovuto sorgere l’altare del progresso, la più grande acciaieria d’Europa, il tempio della crescita. Sono tutti uguali, una voce cadenzata racconta di una civiltà millenaria rassegnata, lenta e sonnolenta che dal nulla si è risvegliata e come fuoco guizza ansiosa per raggiungere un domani metallico e artificiale. Il progresso è esaltato come un idolo, una divinità vera e propria, di fronte alla quale non battere ciglio nel sacrificare il proprio figlio primogenito, la propria terra.

Nel sangue dell'eroe

Ma se di divinità si trattava, doveva essere una di quelle divinità pagane beffarde, incuranti delle sorti dell’uomo e forse addirittura malvagie nei suoi confronti, vendicative per chissà quale affronto. Sempre su youtube e sempre per gli appassionati del genere si può trovare un documentario del 1962 di Emilio Marsili: “Il pianeta d’acciaio”, dedicato alla nascita delle acciaierie che hanno fatto grande questo Paese, imponendo il proprio contributo al boom economico e lasciando dietro di sé una scia di morti e feriti. La solita voce narrante che racconta le immagini che si susseguono compie esattamente questa operazione: dà corpo e anima all’acciaio e lo presenta come “una creatura tremenda, veramente un mostro e per poterlo domare e trasformarlo in cose l’uomo deve farlo impazzire col fuoco”.

L’unico modo per domare il mostro è il fuoco, ma quello che il documentario di Marsili non ci dice è che il mostro si vendica, e si annida nel sangue dell’eroe che lo doma, e lo avvelena giorno dopo giorno, generazione dopo generazione.

L’acciaio i tarantini ce l’hanno nel sangue, nei polmoni, nel dna. I bambini del quartiere Tamburi hanno quoziente intellettivo inferiore alla media dei loro coetanei, apprendono meno e più lentamente. I problemi respiratori e cardiovascolari e tumorali dei loro genitori, quando non glieli portano via, accrescono il numero di ricoveri e ospedalizzazioni della città in una maniera che è così plateale che nessuno lo nega più. I cittadini di Taranto cadono come soldati in una guerra che nessuno gli ha detto che avrebbero combattuto, in una guerra in cui si sono trovati a loro insaputa, cosa che deve essere decisamente peggiore di quella di sorprendersi a possedere una casa con vista sul Colosseo.

La scelta di Achille

Eppure c’è chi dice che non è così, che i tarantini sono soldati consapevoli e che hanno scelto volontariamente di scendere in battaglia. C’è chi dice che questo è il migliore degli accordi possibile perché rispetta la volontà della città di mantenere lo stabilimento. Uscendo dalla metafora, mandando a casa i mostri e in licenza i soldati, la convinzione diffusa è che questa sia la migliore delle soluzioni possibili, che così la città sarà salva, che è questo quello che volevano gli operai che di Ilva vivono e di Ilva muoiono, che di questo ha bisogno Taranto: che l’Ilva resti in piedi, che sia designato un nuovo custode al tempio.

Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Con l’Ilva si mangia, si beve, si va in vacanza al mare e in montagna. Con l’Ilva si compra la tv, si pagano le rette universitarie di quei figli lontani, andati a studiare altrove. Si compra il guinzaglio al cane, si ricarica il cellulare e si paga la bolletta della luce. Si comprano i detersivi, si paga il canone RAI, si prenotano i viaggi per andare negli ospedali al Nord, per curarsi. Con l’Ilva si fanno un sacco di cose, e poco male se tra le tante si muore pure. Tutti dobbiamo morire, ma prima di morire dobbiamo mangiare, bere, andare in vacanza, pagare le rette eccetera.

Perché questa poi sarebbe la scelta, una contemporanea trasposizione sfigata della scelta di Achille: un duplice fato conduce i tarantini alla morte, da un lato una fine prematura e dolorosa, ma una vita vissuta quanto basta a renderla vivibile, dall’altro lasciare il campo, deporre le armi e rinunciare, condannandosi a una salute lunga e vuota, condotta nella terra dei padri, a invocare la morte perché perduto sarebbe il senso della vita.

Pazzo e criminale è chi ritiene che questa sia una scelta libera.

C'è qualcosa che non torna

E però c’è qualcosa che non torna in tutta questa vicenda, e non torna in maniera così plateale che è uno scandalo che chi lo urla non venga ascoltato. Può davvero essere tutto? Può davvero doversi chiudere così la vicenda? Questa è una storia che inizia da lontano e che in teoria è tutta da scrivere, ma ogni volta che qualcuno prende la penna in mano continua a restare invischiato nella stessa vicenda, come se non ci fosse altro modo, come se non avesse strumenti e mezzi per rompere quella narrazione e cominciarne un’altra, inventare un altro mondo. Nessuno resta mai davvero imprigionato in una storia, anche in questo caso si tratta di una scelta: è possibile una Taranto senza Ilva? Forse la risposta è che non è possibile questa Taranto senza Ilva, ma chi lo ha detto che Taranto debba essere questa?

Prima che arrivasse l’acciaio, quando ai Tamburi c’erano le rose e la gente ci andava a respirare l’aria buona per curare i problemi respiratori, quando di sera si vedevano le lucciole, quella non era Taranto? Quando nel mar Piccolo si coltivavano le ostriche, in che città si stava? E l’obiezione è che non c’era lo sviluppo? Non c’era il progresso? In quella città si produce con tecniche così vecchie e lo stabilimento è così in perdita che è un miracolo se arriverà a diec’anni di sopravvivenza da oggi. Se alle cifre che l’Ilva perde ogni giorno (un milione di euro, ogni giorno) sommassimo quelle che di Sanità si spende per curare o seppellire i tarantini, e se a queste aggiungessimo quelle delle cinquecento vite spezzate da quando lo stabilimento è aperto (sì, sono 500 i morti sul lavoro solo in acciaieria da quando esiste), e facessimo una stima di quanto potrebbero portare alla città i contributi di tutti i giovani che, appena possono, fuggono il più lontano possibile, e al calcolo imponessimo anche queste cifre, quanto colossale sarebbe l’investimento che si potrebbe fare per disegnare da capo Taranto?

E allora, in tutta questa vicenda, l'unica scelta libera è quella operata dal governo in questi giorni

L’unica verità che possiamo dire è questa: la soluzione attesa da chi aveva promesso e si era ripromesso di mettere fine al massacro che da decenni silenziosamente si è abbattuto sulla città, al solito meccanismo che arricchisce pochi, ammazza molti e mette sotto ricatto tutti, è stata semplicemente riconfermare quello che negli ultimi sei anni ogni governo, di ogni forma e colore, ha perpetuato. Ogni cosa: il ricatto occupazionale, nessun vincolo reale sulle bonifiche, nessun progetto di riqualificazione, addirittura la vergognosa clausola di immunità penale garantita dal governo Renzi a chiunque avesse ripreso lo stabilimento.

Nessuno chiedeva al governo di mettere per strada oltre 10000 famiglie: quello che si chiedeva era una soluzione politica che spezzasse il ricatto tra lavoro e salute. Si chiedeva una visione ampia, che rispondesse alle esigenze di una città senza condannarla a morte. Si chiedeva una visione altra, che puntasse alla crescita della città sviluppandola secondo le proprie capacità, mettendo fine a quarant’anni di imposizione di una vocazione industriale che Taranto non ha avuto mai. Si chiedeva di non sacrificare ancora una volta i tarantini sull’altare degli interessi politici ed economici di chi se ne sta da un’altra parte a ingrassare sul disastro. Si chiedeva di abbattere il mostro, e non divenire suoi sodali.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

la Repubblica, 9 settembre 2018. Le ultime vicende dell'Ilva, in continuità con il passato, dove il ricatto tra salute e lavoro non viene risolto e i diritti della popolazione di Taranto sono messi sempre per ultimi (i.b.)

Taranto. Da una parte la paura di ammalarsi, dall’altra quella di perdere migliaia di posti di lavoro. Taranto è città dilaniata in questo scorcio d’estate in cui la sua più grande fabbrica si appresta a passare nelle mani del colosso Arcelor Mittal. Le reazioni dei cittadini alla notizia dell’accordo tra il Ministero dello Sviluppo e Am per l’acquisizione Ilva e l’assunzione di 10.700 persone con circa 3.000 esuberi sono contrastanti: rabbia e soddisfazione, timore e sollievo, voglia di fuggire e difficoltà nel restare. L’amarezza dei delusi, che speravano nella chiusura delle fonti inquinanti sbandierata dai Cinque Stelle in campagna elettorale, è tutta convogliata sul Movimento. La deputata Rosalba De Giorgi è stata contestata in piazza, l’europarlamentare Rosa D’Amato su Facebook, i consiglieri comunali Massimo Battista e Francesco Nevoli sono subissati di telefonate e meditano di lasciare la casa grillina. La confusione è grande e la rassegnazione di più.

Alla protesta organizzata a caldo subito dopo l’accordo del 6 settembre, in piazza Della Vittoria si sono presentate almeno 700 persone, il giorno successivo erano meno di 200. Le mamme dei Tamburi urlavano di voler restituire le schede elettorali ma ai tavolini dei bar e a passeggio nella via dello shopping c’era un’altra Taranto. «La città è stanca – spiega il consigliere comunale di Taranto Respira Vincenzo Fornero – non crede più a queste forme di protesta». «Abbiamo perso la forza di manifestare» conferma Aldo Schiedi, operaio 43enne dell’Ilva, tre anni fa vittima di un incidente sul lavoro che stava per fargli perdere la vista. «Ho inalato soda caustica da un tubo che perdeva – racconta – la fabbrica era già in gestione commissariale. All’inizio cercarono di minimizzare, quando presentai le foto della tubatura rotta non poterono più negare». A seguire altre denunce. Alcune molto gravi, come quelle sull’uso dell’acqua di mare per alimentare gli impianti antincendio di alcuni reparti. Segnalazioni in mano alla Procura di Taranto, dal 2012 impelagata nel processo Ambiente svenduto, di cui i Riva sono i principali imputati mentre Regione Puglia, Provincia e Comune di Taranto vivono il paradosso di essere contemporaneamente imputati e parti civili.

La vicenda della più grande acciaieria d’Europa, del resto, è tutta un paradosso. Come questa città, scelta dai discendenti di Eracle per diventare colonia greca, che nei secoli relegò il suo passato in un angolo e negli anni Sessanta scelse quel destino industriale che oggi la sta consumando. A percorrerla in un giorno di fine estate, la sua bellezza nascosta dietro colate di cemento abbaglia. Ma l’aria che si respira ammorba. L’odore acre dei fumi, non solo dell’Ilva, intossica i polmoni a chilometri dalla zona industriale. Chi vive nel quartiere Tamburi, a ridosso delle fabbriche, è abituato a inalare diossina. E ad ammalarsi.

«Ci sono persone che vanno a fare visite mediche e scoprono di avere due tumori contemporaneamente - dice Alessandro Marescotti di Peacelink - Ogni anno si registrano almeno 1.000 ammalati». L’ultima è una bimba nata con il cancro a entrambi i reni. L’ennesimo nome nel registro dei tumori. Come quello di Cosimo Briganti, 50 anni di cui 26 nel siderurgico, che di quei 100.000 euro lordi offerti da Arcelor per l’esodo volontario non sa che farsene. Fatti quattro conti, 77.000 euro netti equivalgono a tre anni di lavoro e poi disoccupazione certa. «Per chi ha moglie, due figli e un mutuo da pagare, è un lusso da non prendere in considerazione» dice. Eppure di quell’accordo con i nuovi padroni, i sindacati vanno fieri: «Mette in sicurezza tutti i lavoratori e accoglie quanto da noi richiesto in tutti questi mesi».

I particolari saranno illustrati da domani nelle assemblee in fabbrica e, a seguire, si svolgerà un referendum, di fatto inutile. Che vinca il sì o il no, infatti, Arcelor Mittal andrà avanti. Di chiusura dell’impianto ormai non se ne parla. Di chiusura delle fonti inquinanti nemmeno nonostante il governatore pugliese Michele Emiliano si ostini a chiedere la decarbonizzazione. Le sue parole, a Taranto, si perdono nel vento. E un po’ anche quelle del sindaco Rinaldo Melucci, che pure assicura di voler «vigilare» sull’operato dei nuovi proprietari dell’Ilva. Se e quando si presenteranno alla città è un mistero. Certo, fare peggio dei Riva sarà difficile ma un tentativo di dialogo va fatto, tanto che pure Confindustria con il suo presidente Vincenzo Cesareo si augura «che venga inaugurata una stagione di maggiore trasparenza e comunicazione». E che il siderurgico smetta di essere un mondo a parte, nel quale tutto è accaduto in silenzio. Anche nei sei anni di commissariamento. «Quelli in cui sono morti 8 colleghi per incidenti sul lavoro», ricorda Mirko Maiorino, altro operaio che bolla il referendum come «una farsa». Come lui anche gli ambientalisti e i cittadini, che chiedono la chiusura delle fonti inquinanti. Le sigle sono tante, forse troppe, gli attivisti ormai pochi. Le manifestazioni del 2013, quando la marea umana invase le strade, per ora sembrano un ricordo.

Dialoghi Mediterranei, luglio 2018. Il ritratto di una città al voto, che vede emergere una nuova classe politica di donne e giovani. E' la sfida dell'anima più genuina e solidale dei quartieri popolari contro sviluppismo e speculazione. (i.b.)
Dai quartieri di periferia arrivava la gente con degli striscioni: sopra c’era scritto il nome del quartiere. (Chiara Sebastiani, Una città una rivoluzione)

Lontano da shâr’a Burghiba …

La Rivoluzione Tunisina del 2011 nasce nelle aree interne ma si realizza nella capitale; il disagio sociale che la sostiene nasce nelle campagne ma si esprime nelle città. I suoi martiri sono caduti nei sollevamenti delle periferie ma i suoi luoghi simbolici sono gli spazi pubblici del centro di Tunisi: shâr’a Burghiba – che viene ancora chiamata l’Avenue come ai tempi del Protettorato francese – la Kasbah, il Bardo. Sette anni dopo, la scommessa delle elezioni municipali è quella di ridare voce ai protagonisti collettivi della rivoluzione: i quartieri.

I quartieri di Tunisi, fuori da quello che gli urbanisti chiamano “l’ipercentro”, si dividono nell’immaginario collettivo in quartieri pregiati e quartieri malfamati. Nei primi rientrano la mitica banlieue nord con i pittoreschi villaggi di Sidi Bou Said e La Marsa e le zone residenziali dei ceti medio-alti di El Menzah, Ennasr, La Soukra; nei secondi i quartieri popolari densamente abitati, spesso originati da insediamenti abusivi, o da progetti di edilizia pubblica, lontano e mal collegati, come i famigerati quartieri di Ettadhamen e Dwar Hicher (Lamloum 2015). Ma spesso gli uni e gli altri sono contigui e quando vi sono scontri nei ghetti popolari l’acre odore dei lacrimogeni invade i palazzi sulle colline circostanti. E soprattutto vi sono ovunque, tra questi due estremi di cui si occupano i media, quartieri invisibili e abitanti senza voce: la città reale, lontano dalla città immaginale. L’area metropolitana di Tunisi – comunemente chiamata “le Grand Tunis” – conta oltre due milioni e mezzo di abitanti e si estende su quattro governatorati: Tunisi, l’Ariana, Ben Arous e La Manouba

Negli ultimi decenni lo sviluppo impetuoso dell’urbanizzazione le ha conferito una fisionomia nella quale competono due modelli diversi: un po’ Parigi – nel restyling della vecchia città coloniale come nello sviluppo di linee metropolitane di superficie – un po’ Los Angeles – nel disordinato proliferare di un periurbano metà speculativo e metà abusivo sorretto dall’uso dell’automobile mentre le pur pregevoli opere di riqualificazione dell’antica medina, storicamente il cuore della città, non la sottraggono al rischio di spopolamento e gentrificazione (Chabbi 2016). In linea di massima, tra Tunisi e L’Ariana si trovano le aree residenziali pregiate e tra Ben Arous e La Manouba i quartieri popolari, in realtà zone molto ricche e molto povere si mescolano non solo all’interno dei governatorati ma negli stessi comuni. Ora le elezioni municipali costringeranno a pensare la metropoli in termini diversi. Perché quei quartieri dalle forti identità da entità puramente sociali sono improvvisamente diventate entità politiche.

Prima della Rivoluzione le municipalità – che non esistevano in tutto il Paese ma solo nelle zone più urbanizzate – avevano scarsa autonomia e scarse risorse essendo sottoposte alle direttive dello Stato centrale e dei suoi organismi periferici (i governatorati) e controllate dal partito unico Rcd del presidente-dittatore Ben Ali. Il voto per le rappresentanze locali, come per quelle nazionali, era una farsa che assegnava maggioranze bulgare allo stesso Rcd estromettendo ogni tentativo di presenze politiche alternative. Come risultato la popolazione locale faceva resistenza non pagando le tasse, praticando l’abusivismo edilizio e non andando a votare (Turki, Loschi 2017).

Dopo la Rivoluzione il decentramento politico è stato iscritto nella Costituzione. Si è proceduto a municipalizzare l’intero territorio creando nuove municipalità e rivedendo i confini amministrativi precedenti, si è adottata una legge elettorale accentuatamente proporzionale (prevede una soglia di sbarramento minimale del 3% e un meccanismo di distribuzione dei resti che favorisce le liste minori) e fortemente innovativa (obbliga le liste a rispettare l’alternanza tra candidati uomini e donne e la parità tra capilista dei due sessi, prevede quote obbligatorie di giovani e incentivi per l’inserimento di candidati portatori di handicap) e si è infine adottato (a campagna elettorale già iniziata) il Codice delle collettività locali che stabilisce concretamente poteri e risorse dei nuovi comuni. Si vota su liste bloccate ed i Consigli municipali contano da 12 a 60 membri a seconda del numero di abitanti del Comune. Il ruolo di sindaco coincide con quello di Presidente del Consiglio municipale: questo viene eletto dal Consiglio tra i capilista delle liste che hanno ottenuto uno o più seggi.

Il 6 maggio nelle 350 municipalità ha votato il 35,6% degli aventi diritto. Il grande vincitore è stato il partito islamico Ennahdha (30%) seguito a buona distanza dal suo partner di governo laico-statalista Nidà Tunès (23%) e, a notevole distanza, da due partiti della sinistra, il vecchio Fronte popolare e il recente Courant démocratique mentre tutti gli altri hanno raccolto briciole. Le cosiddette liste “indipendenti” (che noi chiameremmo liste civiche) hanno raccolto nell’insieme il 33% dei voti. Salutate dai media come il vero “primo partito”, esse sono in realtà un coacervo di emanazioni partitiche e resti del vecchio Rcd, notabili locali e giovani entusiasti, funzionari municipali e mondo associativo, vecchie volpi della politica e giovani e donne reclutati per riempire i rigorosi requisiti delle quote. Ciò non toglie che spesso nei comuni potranno essere l’ago della bilancia.

Questo è il resoconto di un viaggio nei quartieri periferici della capitale prima e dopo le elezioni del 6 maggio: nel tentativo di cogliere voci che raramente arrivano ai media mainstream. Qui, in tre brevi settimane di campagna elettorale, membri di partiti e membri della società civile si sono sforzati di spiegare ai loro concittadini – ai loro vicini di casa e di quartiere – che queste elezioni possono essere utili. Sono riusciti a convincerne solo poco più di un terzo. Ma quel terzo ha permesso di insediare per la prima volta nel Paese le cellule base della democrazia.

Verso sud: tra mare e montagna

Se la banlieue nord è nota per le sue località turistiche, le sue case nascoste da rampicanti di gelsomino e buganvillea, il suo patrimonio architettonico e i suoi alberghi di lusso, la banlieue sud, nel governatorato di Ben Arous, è associata al porto di Radès, a zone industriali, a nuovi insediamenti residenziali dove i prezzi scendono man mano che aumenta la distanza dal centro e dal mare. Ciononostante, non è affatto una regione omogenea. Il nucleo storico ingloba le vecchie residenze coloniali, le graziose villette di Mégrine e le ville pregiate del capoluogo Ben Arous; lungo la zona costiera proseguendo oltre il porto industriale si sgranano gli antichi villaggi di Ezzahra, Hammam Lif, Hammam Chatt; nelle aree interne i nuovi insediamenti abitativi di Mornag e El Mourouj, antiche zone agricole di vigneti, e ancora più all’interno i quartieri popolari di M’hamdiya e Fouchana.

Ben Arous è, in primo luogo, il prodotto del mostruoso sprawl urbano della capitale. Se i centri lungo la costa sono oggi serviti da una modernissima linea metropolitana, alle aree interne si accede solo con un sistema di autobus fatiscente oppure con l’automobile privata, scelta inevitabile per tutto il ceto medio e anche parte delle classi popolari. Lungo la superstrada che corre verso sud si alternano zone industriali, residui di zone agricole dove pascolano le pecore, nuclei abitativi cresciuti disordinatamente, spesso illegalmente, casette basse, negozi di frutta e verdura e – residui anch’essi degli insediamenti coloniali – insegne che recitano “Pharmacie” o “Pâtisserie”, il tutto dominato dalla polvere e da montagne di sacchetti di plastica.

Di prima mattina, lo svincolo per Bou Mhel el-Bassatine è un collo di bottiglia dove si ingolfano, a suon di clacson automobili e camion diretti alla zona industriale; il cantiere di un nuovo ramo di superstrada ha ridotto l’unica carreggiata di accesso al piccolo comune dell’interno. Davanti ad un nucleo commerciale che comprende un centro medico, un negozio di articoli sportivi e un caffè mi accoglie Takwa Trabelsi: ha trent’anni, una laurea in ingegneria informatica e una sfilza di master internazionali in management e conflict resolution. Ha creato e dirige uno studio di consulenza per decision-makers VIP a livello internazionale e fa formazione per leader nella regione MENA. Poi è anche sposata, ha un figlio e un secondo in arrivo. A Bou Mhel el-Bassatine ci è nata ed è stata presentata come capolista dal partito Ennahdha. Ma chi conosce questo piccolo comune che dista appena dieci chilometri dal centro di Tunisi? Ha 46 mila abitanti, zero attrazioni turistiche, zero imprese importanti. La sua popolazione è fatta di “molto ricchi e molto poveri”. I primi abitano nella zona collinare – alzando lo sguardo dalla strada polverosa ci si accorge che poco lontano, bianche villette si annidano nella macchia di vegetazione verde scura. I secondi abitano vaste aree di alloggi abusivi dove mancano i servizi, il verde, perfino l’acqua. Il traffico è uno dei problemi principali di questo pezzo di metropoli – vi contribuiscono la zona industriale, il pendolarismo di studenti e lavoratori – insieme a quello dei rifiuti. Gli spazi pubblici “sono pari a zero”: come in tutti quartieri popolari

Qui ha votato il 34% degli iscritti. Ha vinto Ennahdha che con il 30% si aggiudica 7 seggi, mentre Nidà Tounès con il 21% ne prende 5. Ma 5 seggi spettano anche alla lista indipendente “Al mustaqlat Bou Mhel el-Bassatine” arrivata seconda con il 22% che potrebbe allearsi con Courant démocratique (15% e 4 seggi) e i laico-progressisti dell’Unione civile (10% e 3 seggi). Si formerebbe così uno schema di 12 a 12, riflesso di quello politico nazionale. Il ruolo di sindaco spetterebbe a Takwa, capolista della lista vincente ma dipenderà dal formarsi di alleanze politiche. «Ma noi non vogliamo fare politica – dice Takwa – vogliamo fare».

Fare cosa? Se ci spostiamo sulle zone costiere cambiano il paesaggio, la composizione sociale, gli schieramenti politici, eppure alla fine troviamo le stesse priorità. Il comune di Hammam Chatt, sui 40 mila abitanti anch’esso, è assai più distante di Bou Mhel el- Bassatine dal centro di Tunisi (venticinque chilometri) ma ci si arriva comodamente con un treno metropolitano elettrificato, dotato di moderne carrozze con aria condizionata. Qui lungo la strada principale si allineano ridenti caffè e salons de thé, tutti “misti”, ovvero “per famiglie”, e molto frequentati dai giovani. I marciapiedi, bordati da cespugli e fiori ornamentali, sono un invito a praticare lo spazio pubblico. Il comune è una località balneare, ha una università, un polo tecnologico, un parco naturale in progettazione, una zona industriale, un pezzo di parco nazionale. È una città di classe media – con disparità sociali – e sono aspirazioni di classe media quelle che la popolazione esprime.

Queste aspirazioni hanno trovato la loro rappresentanza in Fethi Zagrouba, capolista della lista indipendente “Medinatna”, ingegnere chimico sulla cinquantina, docente universitario, con specializzazioni scientifiche, pedagogiche e manageriali ottenute in Francia, che di Hammam Chatt è stato consigliere e vice-sindaco tra il 1995 e il 2005, e poi di nuovo nel 2010 – giusto in tempo per «assicurare la continuità della gestione» nel 2011, al momento della Rivoluzione, assumendo il ruolo di sindaco ad interim. Nella sede della sua lista – un locale nuovo e ben attrezzato, con lungo tavolo, bandiere nazionali, pacchi di volantini – ha convocato i principali candidati e i responsabili dei gruppi di lavoro che lo ascoltano attentamente mentre si servono i rinfreschi e in un angolo dolci e bibite sono pronti per la festa di chiusura campagna nel pomeriggio.

«Avevo deciso di costituire una lista indipendente, con degli amici, avendo constatato il degrado continuo della città, dal punto di vista delle infrastrutture, dei programmi culturali, delle opportunità per i giovani, dell’esecuzione dei lavori. Insomma, tutti i sintomi di una cattiva governance. Abbiamo ritenuto che i partiti politici non possiedono le risorse intellettuali, scientifiche, accademiche necessarie. Abbiamo deciso di fare una lista di giovani, quadri, tecnici».

Una lista «basata sulle competenze di architetti, ingegneri, agricoltori, formatori professionali, insegnanti, funzionari del Ministero degli Interni, infermieri, medici, personalità dotate di esperienza», precisa Fairouz Ghariani, ventinovenne dottoranda in Chimica, sposata con due bambini piccoli, attiva in diverse associazioni scientifiche nonché nel consiglio municipale dei giovani (“Jeune Chambre”), candidata e responsabile della commissione femminile che aggiunge: «Noi giovani abbiamo bisogno di essere guidati. Io avevo sentito parlare di Fethi. Il mio amore per la comunità mi ha spinto ad impegnarmi nel suo movimento».

Sul metodo di formazione della lista Fathi spiega: «Abbiamo selezionato gente conosciuta e qualificata. Hanno costituito ciascuno intorno a sé dei nuclei che si sono sviluppati in cellule di quartiere. Il compito di queste è stato di selezionare i profili adatti alle candidature. Non c’è posto per interessi particolaristici». Aggiunge: «Siamo strutturati come un partito politico locale ma in modo informale». Una struttura che ricorda il vecchio Rcd. Sulla matrice politica della lista indipendente peraltro Zagrouba è esplicito «Nidà Tounès era per noi era un faro luminoso ma poi ha formato il governo con Ennahdha …». Il programma della lista è il solito: «Abbiamo ascoltato i cittadini. Vogliono infrastrutture, servizi, pulizia». Fethi vi aggiunge «la buona gestione e l’autofinanziamento tramite partenership pubblico-privato e cooperazione internazionale». Alla vigilia delle elezioni Zagrouba è sicuro: «Quando torna ci troverà al municipio …».

Aveva ragione. A Hammam Chatt il tasso di partecipazione è stato del 36%, e Medinatna, con il 27% dei voti, si è piazzata al primo posto seguita a distanza da Nahdha (22%) e Nidà (21%). Courant démocratique 14%, Fronte popolare 6%. Fairouz, da neo-eletta, spiega:

«Faremo una coalizione con Courant démocratique e Front populaire. Abbiamo 12 seggi. Nadha, Nidha e un’altra lista indipendente (Al-tawasl) ne contano 12 anche loro ma a parità di voti viene eletto il capolista più giovane. Quindi Fethi sarà sindaco certamente. Ci organizzeremo in commissioni. Chiameremo i cittadini a partecipare. Deve essere chiaro però che la responsabilità spetta agli eletti. E ai tecnici. Tra le nostre priorità la pulizia della città. C’è un grande bisogno di razionalizzazione. È stata assunta troppa gente. Saremo un po’ autoritari. Se non c’è rendimento verranno licenziati. Così scenderà l’impatto dei salari sul bilancio comunale».

Mohammed Amine Sdiri, che a Hammam Chatt è stato candidato non eletto nelle liste di Ennahdha, non vede le cose in termini molto diversi. Questo ingegnere dei trasporti, nativo di Hammam Chatt ma espatriato per formarsi in Francia, attualmente consulente per il Ministero dello Sviluppo, rappresenta quella nuova classe politica che ha incominciato a emergere in queste elezioni. Il discorso è sempre quello. «Abbiamo cercato di ascoltare la gente. Vogliono la pulizia. Dei programmi e degli spazi culturali. Dei servizi bene organizzati». Anche Sdiri pensa che il problema principale sia «l’organizzazione del lavoro municipale, molto carente». E che occorra «essere realisti e puntare sulla buona gestione delle risorse municipali». Con questa sostanziale convergenza di vedute è possibile un rigido schema governo/opposizione? Sdiri non lo pensa.:
«la formazione delle coalizioni – i negoziati sono ancora in atto – avrà rilevanza per l’elezione del sindaco. Poi si punterà a lavorare insieme. Sì, è vero, in liste indipendenti come Medinatna c’è di tutto, anche ex quadri Rcd o simpatizzanti senza tessera. Ma per il futuro ciò che conta veramente è che in comuni come il mio ci conosciamo tutti. Ognuno di noi ha amici e parenti sparsi in liste diverse. Io per esempio ho una cugina in una lista, un amico d’infanzia in un’altra …».

Sdiri era ben consapevole di essere candidato in un comune dove Ennahdha è minoritaria. Prima delle elezioni dichiarava: «Sono molto fiero e felice di quanto avviene in Tunisia. Sono sicuro che siamo sulla buona strada. È quello che mi ha convinto ad abbandonare la mia carriera di giovane manager bene avviata all’estero, e a tornare in patria». Dopo le elezioni la sua posizione non cambia: «È importante che queste elezioni abbiano avuto luogo. Le assemblee municipali sono il pilastro della democrazia. Noi di Ennahdha siamo soddisfatti».

Si tratta di una soddisfazione che contrasta con la delusione di altri come quella di Wided Sadfi, 38 anni, docente universitaria in Diritto e Finanza pubblica, candidata nel comune di Hammam Lif , dove ha sempre vissuto, nella lista indipendente “Nabdih Hammam Lif” che significa più o meno: “Il battito del cuore di Hammam Lif”. Il nome della lista e il suo logo (un cuore che racchiude montagna e mare) rivelano insieme l’entusiasmo e l’ingenuità dei suoi fondatori. Il comune, che fino a poco tempo fa inglobava anche Hammam Chatt ha un passato importante di località balneare e termale celebre e di ex residenza beylicale. Cittadina animata con una bella spiaggia, dominata dall’inconfondibile profilo del Boukornine, il monte dalla doppia punta, ha sofferto negli ultimi anni di un forte degrado ambientale.

Il tasso di partecipazione al voto qui è stato superiore alla media nazionale, raggiungendo il 38%. Ma a differenza di Bou Mhel el-Bassatine e di Hammam Chatt in questo comune che conta anch’esso sui 40 mila abitanti ci sono state ben 11 liste a contendersi 24 seggi. Nidà Tunès è arrivata in testa con il 34% dei voti e nove seggi, seguita da Ennahdha con il 28% e sette seggi: di che assicurarsi una comoda maggioranza in consiglio. Per il resto, il voto si è polverizzato in una pletora di listarelle indipendenti, riuscendo a mandarne in consiglio ben sei di cui cinque con un seggio ciascuno. Tra queste la lista di Wided che era la numero 2 – da cui la delusione, simile a quelle di molti esponenti di liste come questa nate “dal basso”. Racconta:

«Abbiamo deciso tra noi di fare una lista indipendente di giovani che si conoscono, vicini di casa, amici. Con poche risorse perché tra noi non ci sono uomini d’affari ma insegnanti, intellettuali, studenti. Ci siamo prefissi il compito di spiegare la governance locale. Ma abbiamo discusso soprattutto i problemi della città».

Ne è risultato un programma «non ideale bensì realista» aggiunge come tutti. Anche le priorità sono sempre quelle: la nettezza urbana e le infrastrutture, cui si aggiunge il patrimonio culturale, il risanamento della spiaggia, e risorse per il tempo libero e lo sport dei giovani. E come tutti Wided riconosce che «il budget municipale è piccolo, occorre lavorare sull’investimento privato e sulle partnership pubblico-privato». E come tante piccole liste, “Nabdih Hammam Lif” alla fine avrà mandato in consiglio solo il capolista il quale – come in molte liste indipendenti – è un uomo e non è giovane.

Le aree interne: tra città e campagna

Quando ci si allontana dalla costa si entra nelle “aree interne”, ovvero «quelle aree significativamente distanti dai centri di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione» [1].

M’hamdiya, nel governatorato di Ben Arous, è rappresentativa dell’estensione urbana che divora pezzi di campagna, seguendo l’andamento del mercato fondiario e lasciando larghe macchie di zone rurali – uliveti, pascoli – oltre le quali riemerge la città. In questo quartiere a 16 chilometri dal centro, in direzione sud-ovest, che cela resti importanti di archeologia romana e fasti beylicali totalmente ignoti al turismo, si arriva esclusivamente in macchina, con taxi collettivi o autobus radi e sovraffollati. I suoi mercati sono intensamente frequentati, così come le moschee i cui minareti spuntano ovunque. Come in molti quartieri popolari l’identità islamica – in senso non solo religioso ma politico, sociale e culturale – è forte. Le notti del mese di Ramadan – iniziato subito dopo le elezioni – a M’hamdiya come nel comune adicente di Fouchana le strade sono dense di gente, famiglie, bambini, giovani, dalle moschee si eleva nelle strade il salmodiare delle preghiere notturne di attarawih, mentre nelle distese infinite di caffè siedono gli uomini e di fronte alle innumerevoli bancarelle si assiepano famiglie con bambini.

Con i suoi 64 mila abitanti M’hamdiya ha diritto a 30 seggi. Sabato pomeriggio, la vigilia delle elezioni, il seggio di Nida’ Tunes, che si trova accanto all’ufficio di maître Zouari Abd al Hamid, notaio cinquantenne capolista locale, è effervescente. File di persone in attesa di istruzioni (come votare? con quali documenti?). Briefing dei giovani osservatori elettorali e rappresentanti di lista. Maître Zouari siede ad un scrivania di legno, alle spalle la bandiera della Tunisia e quella del suo partito. Spiega che non ha mai fatto politica prima – non aveva tempo – che si è deciso per rispondere alle pressanti richieste ricevute e perché pensa di poter portare qualche idea nuova al governo della città: cambiare i metodi di implementazione delle politiche, portare risorse aggiuntive con le partnership pubblico-privato. Da notaio che se ne intende aggiunge anche la sburocratizzazione dell’amministrazione. Il suo programma è lunghissimo ma in testa vi sono le stesse priorità che altrove: infrastrutture (strade, giardini pubblici, reti fognarie e acqua potabile) e servizi (sanitari e scolastici).

A M’hamdiya ha votato il 30% degli aventi diritto e non si è presentata una sola lista indipendente. Ennahdha prende il 60% tondo dei voti e porta a casa 18 seggi mentre Nida’ Tunes lo segue a grande distanza (il 15% e 5 seggi). Gli altri sette seggi sono spartiti tra tre partiti minori – come se in questo quartiere non ci fosse spazio per trastullarsi con liste civiche dai nomi più o meno fantasiosi che sorgono invece nei quartieri piccolo borghesi.

El Mnihla, altro quartiere grande e popoloso (oltre 80 mila abitanti e 30 seggi) sorge nella direzione opposta, a nord-ovest, nel governatorato dell’Ariana, dove sono i quartieri eleganti di El Menzah, La Soukra e Ennasr ma dove si trova altresì, a soli sei chilometri dal centro, il famigerato quartiere di Ettahdhamen che deve la sua cattiva reputazione tanto alla presenza di furto e spaccio quanto a quella di gruppi di salafisti radicali i quali a furto e spaccio (e all’alcool) fanno la guerra anche passando a vie di fatto. Di Ettadhamen la nuova municipalità di El Mnihla faceva parte fino a recentemente. Dal centro una linea metropolitana di superficie che risale agli anni ’90, dotata di mezzi moderni, attraversa Ettadhamen e si ferma a Intilaka, importante hub urbano con mercato alimentare e mercato dell’usato, una varietà di negozi e anche giardinetti. Da Intilaka a Joumhouria, frazione di El Mnihla, si può andare a piedi ma occorre circa mezz’ora. L’alternativa sono i taxi collettivi o individuali, poco frequenti ambedue. La passeggiata si snoda in un’area urbanizzata, perlopiù fatta di piccole case o villette che denotano livelli variabili di benessere, talvolta con la ricerca di un tocco gentile nella decorazione delle porte, nelle piante davanti all’uscio o sui muretti di separazione. Ci sono scuole elementari e piccoli chioschi di bibite ma l’unico spazio pubblico sono i soliti caffè per soli uomini che durante il Ramadan si riempiono dopo l’iftar mentre nelle strade giovani donne camminano spedite trascinandosi al seguito come un trolley una bimbetta per andare a sedersi su qualche muretto in compagnia di altre donne.

El Mnihla comprende quartieri lussuosi come i recenti Jardins d’El Menzah e Ennasr, quartieri molto poveri come Achaich, Basatine e Sanhaj, e quartieri intermedi come Joumhouria e Rafeha. I quartieri più ricchi non sfuggono al degrado delle infrastrutture e dell’ambiente mentre quelli più poveri possono essere sprovvisti di acqua potabile, reti fognarie e strade asfaltate e ovunque l’abusivismo accresce i problemi. È di Joumhouria un’altra candidata di lista indipendente, anche lei giovane e entusiasta, anche lei votata alla delusione: Amna Akaichi, 27 anni, studentessa di Giurisprudenza e Scienze politiche. Anche la sua lista nasce dal basso, con un altro nome che riflette entusiasmo ed ingenuità: Nahm, nastatiy’ ovvero Yes we can. È stata creata da giovani che si sono conosciuti all’università.

«Ci siamo detti: incominciamo a fare noi qualcosa poiché nessuno dei partiti esistenti ci soddisfa. Per le risorse abbiamo contattato dei piccoli imprenditori. Abbiamo insistito perché nessun candidato appartenesse ad un partito. Come indipendenti abbiamo incontrato un sacco di problemi. Non solo con gli altri partiti ma anche … sì anche con gli osservatori elettorali».

Hanno fatto come tutti il porta a porta. Poi sono arrivati i risultati. Se M’hamdiya è sotto la media nazionale qui il tasso di partecipazione al 24%. Quasi metà dei voti (48%) vanno a Ennahdha (14 seggi) seguita a distanza da Nidà Tunes (23%, 7 seggi). La delusione di Amna (non eletta) è grande ma conta di continuare ad impegnarsi, anche grazie a quei due candidati della sua lista entrati in consiglio dove potranno fungere da raccordo con i loro elettori e concittadini.

Da Joumhouria vengono anche Rawda e Wided, 24 e 25 anni. Loro come tanti giovani del quartiere a votare non ci sono andate. Lavorano ambedue come assistenti in un centro sociale per malati di Alzheimer che impiegano un’ora a raggiungere. Il loro disinteresse per queste elezioni è totale Esprimono la convinzione che tutti i politici intascano soldi frutto di corruzione. Ma si animano quando parlano del loro quartiere. Rawda mi mostra i luoghi della sua infanzia, la scuola, le strade che percorreva. Wided racconta di bambini che giocavano per strada con giochi improvvisati, rudimentali altalene, aquiloni fatti con buste di plastica, di merende a base di pane olio e zucchero, di frutta raccolta dai muretti, di maschietti che per lei erano come fratelli e di un padre che la lasciava libera perché la voleva forte e indipendente. Lamenta che oggi non è più così, internet e smartphone hanno prodotto isolamento, il consumismo dilaga e le relazioni tra ragazzi e ragazze hanno perso la loro innocenza. Ciononostante le due ragazze il loro quartiere lo amano, caldo luogo di intense amicizie e di forti identità. Non sognano affatto di cambiare quartiere ma, caso mai, paese.

Verso ovest, infine, in direzione della montagna e del confine algerino, i quartieri di edilizia intensiva formale e informale lasciano il posto alla campagna in un paesaggio dove si alternano lunghe distese di zone agricole – in parte intatte – oltre le quali riappare una città fatta di casette basse e piccole botteghe lungo le strade principali dei quartieri, e di villette ora modeste ora più eleganti nelle viuzze secondarie. È questo il tipico paesaggio di Chawatt, frazione di Jdeida, un comune di 45 mila abitanti, a venticinque chilometri dal centro, che ha come simbolo il carciofo, prodotto caratteristico di questa zona ancora parzialmente agricola (un gigantesco carciofo in pietra troneggia in mezzo alla rotatoria di accesso alla città). Il comune comprende tre settori, Jdeida vecchia, Jdeida nuova e Chawatt.

Hassan Korbaj ha 65 anni. Originario del Sahel come Burghiba, di cui è un ammiratore, vive a Chawatt da quasi quarant’anni. Sposato e padre di cinque figli, è pensionato dopo aver fatto il quadro intermedio nei cantieri. Ai tempi di Burghiba era membro della cellula del Neo-destur di Chawatt. Ha abbandonato la politica ai tempi di Ben Ali, vi è tornato dopo la Rivoluzione, iscrivendosi a Nidà Tunes. Deluso dall’accordo tra Nidà e Nahdna decide con alcuni amici di fondare un nuovo partito e di presentarsi alle elezioni municipali con la lista ‘Il Lavoro e la Speranza’.

«Tutti eravamo impegnati in altri partiti – Nahdha, Nidà, Fronte popolare – che non hanno funzionato bene. Il nostro capolista è stato sindaco dal 2011 al 2017 quando è stato sostituito dal Ministro dell’Interno. La nostra lista comprende molti giovani e tutti i candidati sono diplomati: funzionari pubblici, ingegneri, insegnanti, tecnici. Li abbiamo selezionati per conoscenza personale o tramite le nostre reti». Il programma ha una ventina di punti ma come ovunque in testa c’è la pulizia, i servizi a rete (luce e gas, acqua potabile e fognature), le strade. Ma Korbaj sogna di una Casa della Gioventù, una biblioteca, un cinema perché «oggi i ragazzi si ritrovano nei caffè o semplicemente in strada, le ragazze in casa e molti giovani finiscono su una brutta strada». Per Korbaj si tratta di un problema sociale, non securitario: «Qui ci conosciamo tutti, si vive in famiglia, l’unico problema è il rumore dei ragazzi che giocano a calcio in strada di notte».

A Jdeida il tasso di voto si mantiene poco sotto la media nazionale (il 33%) e la lista indipendente “Il lavoro e la speranza” miete un buon successo, piazzandosi al secondo posto con cinque seggi, subito dopo Ennahdha (31%) che ne ottiene sette e prima di Nidà Tunès che con l’11% ne ottiene appena tre. Potrebbe dunque scardinare il duopolio Nidà-Nahdha ma non sarà necessariamente così e Korbaj, dopo le elezioni, è arrabbiato e deluso: «Nella nostra lista c’erano un paio di candidati che provenivano da Ennahdha, partito con il quale giuravano di non volere aver nulla a che fare. Ma adesso si preparano a dare i loro voti per il sindaco al capolista di Ennahdha».

I grandi progetti: tra il porto e il lago

Esiste infine una terza tipologia di quartieri metropolitani, quelli dalle connotazioni postmoderne sviluppatisi intorno ai “grandi progetti”, cioè quei complessi urbani pregiati – fronti d’acqua, malls di ultima generazione, parchi tematici, tecnopoli – realizzati con forti investimenti stranieri, attrattori di pubblici misti e tipici delle città globali (Cattedra 2010).

A breve distanza dal centro, Halk al Oued ovvero La Goulette è un nome che evoca un pezzo della vecchia Tunisi, pittoresco e tradizionalissimo, porto di pescatori, quartiere di operai e pescatori immigrati venuti dall’Italia e dalla Francia, dove musulmani, cristiani ed ebrei per secoli hanno condiviso i pasti conviviali che accompagnano le loro feste religiose, stazione balneare dove le sere estive famiglie di tutti i ceti affollano le trattorie, in cui si serve il pesce fritto e i brik, e i caffè lungo la spiaggia. Ma la municipalità di Halk al Oued è costituita oggi da tre quartieri: La Goulette, El Aouina e Lac 2. Al vecchio quartiere popolare sul quale la speculazione edilizia aveva già messo gli occhi ai tempi di Ben Ali si affianca così quello di Al Aouina, sorto su una zona di frutteti per fornire alloggi di edilizia residenziale abbordabile al ceto impiegatizio di stato, e quello dei nuovi centri residenziali e direzionali delle Berges du Lac, edificati sui terreni creati dalla bonifica della laguna di Tunisi, nati dal grande progetto di risanamento della laguna di Tunisi (Signoles 2006).

È proprio qui, nel complesso denominato Lac 2, che incontro Amine Riahi, candidato indipendente nelle liste di Ennahdha che ha appena 25 anni e si integra perfettamente nel paesaggio urbano post moderno di questo grande progetto fatto di grattacieli tutti vetri e specchi, brand di lusso e caffè di tendenza. Il suo ufficio è in un co-working super attrezzato che ospita business center, uffici di consulenza e startup – «Facciamo parte delle dieci top startup» mi comunica prima ancora di presentare il suo cv. Breve ma intenso: diploma in Economia industriale, specializzazione in risorse umane, master in management, impegno nella società civile a partire dal 2011 quando approfitta della ritrovata libertà di espressione per fondare l’“Associazione Tunisina dei Dibattiti” che promuove la cultura della discussione e dell’argomentazione, passione che si unisce a quella per gli sport elettronici. Ha sviluppato una rete che opera in tutto il Nordafrica e collabora con diverse università nell’ambito di competizioni di dibattito; lui stesso è giudice e rappresentante della Tunisia. Appartiene alla nuova generazione che si lascia il francese alle spalle (anche se Amine lo parla bene) privilegiando l’inglese e l’arabo letterario, competenze che ha esercitato anche nel programma “Young Arab Voices” della Fondazione Anna Lindh, volto a promuovere le capacità oratorie di giovani leader.

Il suo impegno politico è recente poiché pensa che «lo sviluppo di un giovane deve passare attraverso stadi successivi: prima quello personale, poi quello associativo, infine quello politico». Quindi «ho deciso che era tempo che mi occupassi di politica e poiché prevedo che vi saranno grossi cambiamenti a livello locale ho deciso di iniziare la mia carriera politica a quel livello. Ho cercato un partito in cui impegnarmi e la mia scelta è caduta su Ennahdha. È stata una scelta individuale, i miei genitori sono i miei consiglieri ma alla fine decido da solo. Ennahdha è l’unico partito bene organizzato, istituzionale, solido, con una democrazia interna».

A Halk el Oued ha votato circa un terzo degli iscritti e il grande vincitore è Nidà Tounès (35%) che distanzia molto Ennhdha (23%) seguito da vicino da due liste indipendenti con rispettivamente il 21% e il 15% dei voti. Ciò non turba Amine il quale non ha l’ingenuità dei giovani candidati di alcune liste indipendenti e conosceva perfettamente il contesto nel quale il suo partito lo candidava. L’esperienza della campagna elettorale per lui conta in sé stessa.
«Quando sono tornato in Tunisia dall’estero per prendervi parte ero davvero felice: fare il porta a porta, parlare con la gente, ascoltare, capire – il mercato, i prezzi, la luce, la sporcizia – è stato utile a me come a loro. Credo che una campagna elettorale si basi fondamentalmente sulle relazioni faccia a faccia, malgrado l’importanza dei media e dei social network. La gente mi conosce, sa che ho successo. La gente si fida di Ennhdha perché mette nelle sue liste persone che riescono in quello che fanno».

Tirando le fila

Cosa abbiamo appreso da questo giro nei quartieri della metropoli meno esposti ai media? In primo luogo è emersa una straordinaria somiglianza nel linguaggio dei candidati, come se tutti avessero fatto un briefing con le stesse società di formazione politica. Tutti promettono il riordino della macchina amministrativa e il reperimento di risorse aggiuntive tramite partnership pubblico-privato. Quasi tutti dichiarato che occorre «essere realisti» e «non fare troppe promesse». E quasi tutti i cittadini hanno chiesto la pulizia delle strade e lo sviluppo delle infrastrutture.

In secondo luogo è emersa una propensione al voto più alta nei quartieri di ceto medio che nei quartieri popolari della capitale. Nei primi inoltre si sono affermate le liste indipendenti mentre nei secondi tengono i partiti. In terzo luogo tutti concordano sull’importanza delle conoscenze personali. Ai fini dei risultati ciò che conta è quanto i candidati sono conosciuti e ciò che hanno alle spalle: partiti, reti, esperienza. In quarto luogo le elezioni, grazie ai meccanismi fondamentali della parità tra i sessi e delle quote giovani nella formazione delle liste, nonché del proporzionale puro nel sistema elettorale, sono state la palestra di una nuova classe politica in formazione fatta di donne e giovani alla loro prima esperienza. Infine le relazioni faccia a faccia sono state al cuore della campagna elettorale malgrado l’importanza dei media e dei social network.

Oggi che la metropoli tunisina corre il rischio di trasformarsi da città in conurbazione, e di veder scavare ulteriormente le fratture sociali, il compito di “fare città” appare affidato ai quartieri, soprattutto quelli che hanno conservato un’anima popolare o residui di solidarietà sociale. Le elezioni municipali saranno in grado di far rivivere queste due componenti essenziali della civitas, affinché non si riduca a urbs? Se uno cerca su internet notizie dei quartieri si imbatte in annunci di promotori immobiliari. Una narrazione dei quartieri che oggi manca potrebbe sorgere dall’intreccio di microstorie che hanno prodotto i primi comuni democratici nella storia del Paese.

Nota

[1] Cfr. Strategia nazionale per le Aree interne, UVAL, n.31, 2014; www.agenziacoesione.gov.it/opencms/export/sites/dops/it/documentazione/servizi/materiali_Uval/documenti/MUVAL_31_Aree_interne.pdf
Riferimenti bibliografici
Barthel, Pierre-Arnaud (2006), « Les Berges du Lac de Tunis : une nouvelle frontière dans la ville ? », Cahiers de la Méditerranée, http://archive.wikiwix.com/cache/?url=http%3A%2F%2Fcdlm.revues.org%2Fdocument1513.html
Cattedra, Raffaele (2010), « Les grands projets urbains à la conquete des périphéries », Les Cahiers d’EMAM, n. 19: 58-72.
Chabbi, M. (2016), Urbanisation et politiques urbaines dans le Grand Tunis, Tunis, Nirvana.
Lamloum Olfa e Ben Zina, Mohamed (a cura di) (2015), Les jeunes de Douar Hicher et d’Ettadhamen,Tunis, Arabesques
Turki, Yassine e Loschi, Chiara (2017), « Chantiers de reconstruction politique en comparaison: La « décentralisation » en période post-révolutionnaire en Tunisie et en Libye », L’année du Maghreb, n. 16: 71-88.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
A La Spezia è messa in discussione la sorte del nuovo piano urbanistico comunale, basato sul contrasto al consumo di suolo e sulla rigenerazione urbana. Un cambio di rotta preoccupante che andrebbe scongiurato. (m.b.)

Abbiamo ricevuto diverse segnalazioni preoccupate sulla possibilità che il nuovo piano urbanistico comunale (PUC) di La Spezia non venga approvato e decadano le misure di salvaguardia scattate con la sua adozione. Legambiente Spezia ha promosso al riguardo una petizione on-line, di cui trovate il link in calce all'articolo seguente, nel quale sono illustrate le questioni in gioco. Ci sembra una vicenda meritevole di essere seguita con attenzione. (m.b.).

Che cosa può rappresentare per un’Amministrazione e i suoi cittadini la revisione di un piano urbanistico, dopo tredici anni di attuazione? Vecchie e nuove esperienze di pianificazione, rinnovate tecniche dell’abitare e, più in generale, una maggiore consapevolezza delle ripercussioni ambientali, ci dovrebbero obbligare, come tecnici, amministratori o cittadini, ad occuparci del territorio per quello che è: un insieme complesso, dove ad ogni azione corrisponde una reazione della quale, almeno in parte, dovremmo aver imparato gli effetti nel breve e medio periodo. Questa cognizione ci impone una maggior responsabilità che non sempre, però, riesce ad esprimersi in forme efficaci. Una condizione che ha molto a che vedere con il “fare urbanistica” in quest’epoca.

L’esperienza del Nuovo PUC del Comune di La Spezia può leggersi anche a partire da questo.
Dal 2015, per quasi un triennio, l’Amministrazione ha colto l’occasione della revisione del proprio strumento urbanistico, in vigore dal 2003, per interrogarsi sugli effetti delle scelte sul territorio, verificandone lo stato di attuazione, i progetti attivati e realizzati e misurando, attraverso un processo partecipato (maggio–luglio 2015), il grado di soddisfazione e le mutate esigenze dei cittadini.
Cosciente delle nuove esigenze e criticità ambientali, il Nuovo PUC traccia un suo confine ordinatore tra urbano ed extraurbano, tra costruito e agricolo-bosco, tra costa e collina. Un atto di rifondazione consapevole dei rischi ambientali e sociali e dei costi ecosistemici sostenuti dalla collettività (ad esempio quelli del post emergenza). Un atto di rifondazione consapevole del suo “non ritorno” e delle reazioni che l’arresto del consumo di suolo avrebbe comportato. Complessivamente dal 1995 al 2013 il territorio urbanizzato si è incrementato del 2,3%, quasi esclusivamente ai margini collinari della città, senza riqualificarla, ma consumandone le aree immobiliari più appetibili. Il sistema delle tutele introdotto dalle norme ambientali dagli anni ‘90 ha evidenziato la fragilità del golfo spezzino e la necessità di pianificare in modo integrato le sue dinamiche di trasformazione con una rete ecologica in grado di “percolare” il territorio: dalla riqualificazione dell’ecosistema costiero, attraverso gli spazi del verde urbano e dell’agricoltura, fino ai grandi giacimenti di biodiversità (Parchi e Rete Natura2000).

La scelta del Nuovo PUC di arrestare il consumo di suolo (riducendo, tra l’altro, del 45 % la nuova edificazione) è certamente una necessità ambientale, ma è anche un’opportunità di sviluppo alternativo della città. L’idea rifondatrice vuole evitare il conflitto con le risorse disponibili residuali, puntando su strategie di recupero dell’edilizia e delle terre incolte (LR n° 4/2015), di manutenzione della collina (perequazione ambientale) e di rigenerazione della città. L’obiettivo è di porre le basi per una “La Spezia–smart city”, una città sostenibile capace di gestire le proprie risorse in modo creativo e non dissipativo. A partire dalle innovazioni introdotte con la Variante Colline (2013), Il Nuovo PUC, adottato il 18 aprile 2017, introduce presupposti di coerenza per le trasformazioni di un territorio fragile e ormai incapace di sostenere logiche speculative.

Un percorso costruito faticosamente e reso incerto prima dalla dichiarazione di improcedibilità della Regione Liguria per difformità formali in violazione dell’art. 27 della LR n. 36/1997 (Legge Urbanistica) rettificata con una successiva nota come richiesta di integrazioni istruttorie, e poi dai mutati equilibri politici locali, con l’insediamento della nuova Giunta di centro-destra (giugno 2017) che ha attivato un nuovo tavolo con la Regione (luglio 2017) per “(…) decidere come intervenire, nella prospettiva di avere un PUC conformato alle nuove visioni della amministrazione tenendo conto della necessità di riqualificare e riutilizzare l’esistente. (…)”. Le “nuove visioni della amministrazione”, le inevitabili contrapposizioni politiche e la scadenza del termine di ricevimento delle osservazioni (agosto 2017) con l’avvio delle controdeduzioni alle 250 pervenute, rendono ormai difficile una conclusione dell’iter di approvazione coerentemente con l’impostazione originaria del piano.

Mentre rimane quindi incerto il destino del Nuovo PUC della Città Della Spezia (interverranno modifiche sostanziali ai suoi contenuti con la risposta alle osservazioni? sarà necessaria una nuova adozione? e, entro metà novembre, il PUC proseguirà l'iter di approvazione in Regione?, oppure, si andrà verso una sua “naturale” decadenza?), quello che sembra certo è il progressivo svilimento della sua visione rifondatrice. L’inadeguatezza dell’iter amministrativo e dell’azione politica ripropone ancora una volta la difficoltà del “fare urbanistica” anche a fronte di un Piano non perfetto, ma consapevole e lungimirante, che meriterebbe di proseguire il suo corso con gli opportuni contributi tecnici, amministrativi e politici della fase di osservazioni, nel più ampio interesse pubblico generale.

Nota.
Qui potete leggere le ragioni della petizione di Legambiente ed eventualmente sottoscriverla.

Internazionale, 15 settembre 2017. A tutte le latitudini, la rigenerazione urbana sembra innescare sempre processi di gentrificazione, che costringono i meno abbienti a lasciare le zone rigenerate, con postilla (i.b.).

I corridoi del leggendario palazzo bianco di Phnom Penh, un tempo pieni di musica, odori di cucina, chiacchiere, risate e bambini stanno per essere demoliti con i bulldozer. Il complesso, uno degli ultimi esempi dello stile modernista incarnato dalla nuova scuola di architettura khmer degli anni sessanta, sta per lasciare il posto a un condominio di lusso di 21 piani che sovrasterà tutte le case e i negozi del centro della capitale cambogiana.

Il Palazzo Bianco oggi (fonte: Fabien Mouret)

Molti dei vecchi inquilini, come Chhey Sophoan, 62 anni, non volevano lasciare la struttura ormai pericolante. Sophoan è un insegnante in pensione ed è stato tra i primi a rientrare nell’edificio quando, nel 1979, i Khmer rossi – che durante i loro quasi quattro anni di governo avevano decimato la popolazione – furono sconfitti dalle forze guidate dai vietnamiti. Ed è stato uno degli ultimi a lasciarlo, per andare a dormire sul pavimento del minuscolo appartamento del nipote. Sua moglie, invece, si è trasferita nella nuova casa appena costruita alla periferia della città.

“È difficile descrivere quello che ho provato al momento di andarmene”, mi ha detto Chhey Sophoan quando a metà giugno ho parlato con lui sulle scale decrepite vicino al suo vecchio appartamento. “Sono triste, avevamo tanti amici qui”.

La demolizione del palazzo bianco – che in periodi diversi ha ospitato dipendenti pubblici, artisti, famiglie e tossicodipendenti – segna un passo importante nella progressiva gentrificazione del centro
di Phnom Penh. Il risanamento della zona, in parte ancora sporca e fatiscente, indubbiamente richiederà tempo, ma è già a buon punto.

Il Palazzo Bianco nel 1963 (fonte: National Archives of Cambodia)

Il palazzo bianco fu costruito all’apice dell’“epoca d’oro” della Cambogia moderna, un periodo di prosperità seguito all’indipendenza dalla Francia del 1953. Molti lo ricordano con nostalgia, perché la capitale fu segnata da un grande risveglio artistico e culturale.

Le autorità governative, e il “padre fondatore” della nazione, il re Norodom Sihanouk, si erano resi conto che la popolazione della capitale stava crescendo rapidamente perché molte persone si trasferivano dalle campagne in cerca di lavoro. Per ospitare il primo progetto di edilizia popolare della città fu scelta una zona non lontana dal fiume Bassac e, sotto la guida del famoso architetto cambogiano Vann Molyvann (a cui a volte è erroneamente attribuito il progetto del complesso), l’ingegnere francese di origini russe Vladimir Bodiansky e l’architetto cambogiano Lu Ban Hap ne seguirono la costruzione. Nel 1963 l’edificio (costituito da 468 appartamenti distribuiti in sei blocchi larghi e bassi, allineati per un tratto lungo 300 metri e uniti tra loro da scale esterne) era pronto per essere occupato dai suoi inquilini a basso reddito. “È stato ideato da architetti e urbanisti che volevano realizzare un complesso di appartamenti in cui l’aria potesse circolare. Perciò in origine era sopraelevato rispetto al terreno e con molte scale collegate tra loro”, dice lo storico dell’arte Darryl Collins, uno degli autori del libro del 2006 Building Cambodia. “New khmer architecture” 1953-1970. “Era un edificio molto funzionale”.

Promesse e ottimismo

Quelli che all’epoca erano chiamati appartamenti comunali facevano parte di un gruppo di strutture costruite nella zona nell’arco di tutti gli anni sessanta. Il lungo complesso sulle rive del Bassac ospitava anche il teatro nazionale Preah Suramarit, gravemente danneggiato da un incendio nel 1994 e poi demolito, un centro espositivo, che ormai non svolge più quella funzione,e il palazzo grigio di Vann Molyvann, che ora ospita degli uffici e una scuola. “L’idea era creare un’unica area pubblica, che avrebbe permesso ai cittadini di avvicinarsi al fiume e di accedere alle abitazioni, ai posti dove mangiare e a centri culturalmente rilevanti”, dice Collins.

L’atmosfera della città era carica di ottimismo e di promesse. Le immagini degli anni sessanta mostrano il palazzo bianco appena costruito circondato da alberi sullo sfondo di giardini ben tenuti. Ma nel 1970, quando il generale Lon Nol guidò un colpo di stato per detronizzare Sihanouk, scoppiò una guerra civile che scatenò combatti- menti anche fuori della capitale. Il 17 aprile 1975, dopo la caduta del governo di Lol Nol per mano delle truppe comuniste e la presa del potere da parte dei khmer rossi, gli uomini di Pol Pot costrinsero tutta la popolazione della città a trasferirsi nelle campagne per piantare riso e costruire dighe.

Per una ventina d’anni, compresa la successiva occupazione vietnamita durata fino al 1989, il popolo cambogiano ha sofferto molto e la manutenzione dei palazzi non fu certo una priorità. “Senza manutenzione gli edifici invecchiano”, dice Collins, e negli anni ottanta il palazzo bianco era già in rovina. “Quando nel 1979 e nei primi anni ottanta è tornata a vivere a Phnom Penh, la gente ha dovuto accontentarsi di quello che c’era, e molte persone hanno rioccupato l’edificio. Probabilmente in parecchi casi i proprietari originari non sono mai tornati. E a occupare gli appartamenti sono state quasi tutte famiglie a basso reddito e artisti”.

A più di cinquant’anni dalla sua realizzazione, il palazzo bianco mostrava gravi segni di abbandono: non era più bianco, era pieno di spazzatura e i muri erano coperti di crepe. Le autorità lo hanno condannato ufficialmente alla demolizione nel 2014, dicendo che non era più sicuro, anche se inizialmente avevano pensato a una ristrutturazione.

A ottobre del 2016 si è saputo che l’impresa edile giapponese Arakawa era pronta ad abbattere la struttura e a sostituirla con un grattacielo. Nel progetto originario si scopre che l’azienda aveva previsto di lasciare cinque piani per gli inquilini esistenti, offrendogli un aumento del 10 per cento dello spazio. Ma secondo Sia Phearum, che dirige l’organizzazione non governativa Task force per il diritto alla casa, la comunità era divisa. “Il proprietario dell’Arakawa avrebbe voluto che i poveri che già abitavano nel palazzo vivessero insieme ai ricchi che avrebbero comprato gli appartamenti dopo i quattro anni di lavori”, spiega Sia Phearum, che ha assistito gli inquilini durante le trattative. “Ma la gente ancora non si fida del governo cambogiano, a causa delle brutte esperienze delle comunità Borei Keila e Boeung Kak”, dice, riferendosi a due recenti dispute sull’esproprio di alcuni terreni che sono durate a lungo. Dopo circa nove mesi di trattative, quasi tutte le 493 famiglie che occupavano l’edificio (alcuni appartamenti erano stati divisi) hanno accettato l’offerta alternativa di risarcimento equivalente a 1.170 euro al metro quadrato. Ma non tutte erano soddisfatte: la cifra era inferiore a quella che avevano chiesto nelle varie fasi della discussione (tra i 1.500 e i 1.900 euro), e molte non volevano proprio andarsene. Tra loro c’era Dy Sophannara, un’ex funzionaria del ministero della cultura di 70 anni che viveva lì dal 1979 e che, quando la maggioranza degli inquilini ha accettato, non ha avuto scelta e ha dovuto abbandonare la sua casa. Ora vive in una stanza dove paga l’equivalente di 84 euro al mese di affitto. “Quando guardo il palazzo in cui abitavo, mi commuovo”, dice. “Mi si spezza il cuore al pensiero che sarà demolito”.
Sacrificio inevitabile

Secondo Collins la demolizione dell’edificio è una grande perdita per il patrimonio culturale, ma non tutta l’architettura di quel periodo, o di qualsiasi altra epoca storica, può essere salvata. “In una città che sta cambiando, a volte è molto difficile proteggere gli edifici, soprattutto se sono in mano a privati”, dice. “In questo caso è ancora più difficile perché i proprietari sono più di 400”.

Eppure Sia Phearum considera il risarcimento una grande vittoria per gli inquilini, soprattutto se si pensa ad alcuni sfratti drammatici avvenuti in città. Elogia anche il ministro per la gestione del territorio, l’urbanistica e l’edilizia, Chea Sophara, che ha partecipato alle trattative e sembra sia riuscito a ottenere un risarcimento più alto per gli inquilini degli appartamenti più piccoli per incoraggiarli ad andarsene. “Almeno è stata la gente a scegliere”, dice Sia Phearum. “È andata bene a tutti: a loro, alla società immobiliare e al governo.

Se anche altri potessero seguire questo modello, penso che sarebbe il modo migliore per garantire uno sviluppo pacifico”. Ci saranno sicuramente altri casi come questo. Phnom Penh sta crescendo a un ritmo frenetico. Il periodo successivo all’era dei Khmer rossi – quando a causa della guerra fredda la Cambogia era tagliata fuori da buona parte del commercio mondiale e poteva contare solo sull’aiuto del Vietnam e dell’Unione Sovietica è ormai un lontano ricordo. Il tasso di crescita economica che si è cominciato a registrare alla fine degli anni novanta è rimasto costante, e il prodotto interno lordo del paese garantisce una crescita annua media del 7,6 per cento da più di vent’anni.

Secondo la Banca mondiale, il settore edilizio è “uno dei principali motori della crescita”. Le cifre ufficiali del governo mostrano che nel 2016 il valore dei progetti edilizi approvati ha superato i sette miliardi di euro, rispetto ai 2,8 dell’anno precedente. Sono state autorizzate migliaia di nuove costruzioni – 2.636 nel 2016 e più di 1.500 nel 2017 – e il settore non dà segno di voler rallentare. Thida Ann, che dirige la società immobiliare Cbre Cambodia, dice che almeno dal 2007 Phnom Penh in particolare ha subìto un’enorme trasformazione. “Dieci anni fa in città non c’era nessun grattacielo di più di dodici piani”, dice. “C’erano solo pochi palazzi di uffici e nessun condominio residenziale”. A suo avviso la maggior parte dei cittadini è contenta di questo sviluppo, che “porta più investimenti stranieri diretti, più possibilità di specializzazione, maggiori opportunità di lavoro, accesso agli strumenti finanziari e un continuo miglioramento delle infrastrutture. Anche se la città incontra molte difficoltà, questi aspetti sono comunque considerati positivi da quasi tutti. In particolare, questo diventa evidente grazie all’emergere di una nuova classe media, che sarà fondamentale per la prosperità e lo sviluppo sociale del paese”.

Ma Thida Ann ammette anche che la città per la maggior parte della popolazione non si sta sviluppando in modo positivo: nonostante esista un piano regolatore, dietro ai progetti edili spesso sembra non ci sia nessuna programmazione. “I ministeri non applicano sempre le leggi e le norme e, anche se la situazione sta migliorando, bisogna fare di più per garantire che Phom Penh diventi uno spazio vivibile per tutti i suoi abitanti”.

Una città irriconoscibile

Altri temono invece che nei prossimi decenni la capitale diventerà irriconoscibile. È già profondamente cambiata dall’epoca in cui è stato concepito il palazzo bianco,quando dominavano gli edifici coloniali francesi dipinti di giallo e contro il cielo si stagliavano solo le guglie delle pagode. “Phnom Penh continuerà a cambiare”, dice Kavich Neang, un regista di trent’anni che è cresciuto nel palazzo bianco e sta lavorando a un film ambientato al suo interno. “È un bene che la Cambogia si stia sviluppando, ma dobbiamo pensare a quello che è giusto fare, riflettere sulle conseguenze”.

Una delle principali conseguenze della ristrutturazione del centro della città è che pochi, o forse nessuno, degli inquilini del palazzo bianco potranno permettersi di comprare una casa vicino a dove abitavano prima, anche se molti di loro hanno avuto risarcimenti per più di 34mila euro. Secondo
Thida Ann, negli ultimi dieci anni il prezzo degli immobili del centro è raddoppiato, e ormai ci sono poche case popolari a Phnom Penh.

Kavich Neang, la cui famiglia si è trasferita a Chak Angre Krom, 25 minuti di auto più a sud, dice che alcuni dei suoi vicini hanno preso i soldi dell’Arakawa e si sono spostati in campagna. “È difficile vivere al centro della città, ci siamo tutti allontanati”, dice. Sia Phearum l’ha sentito ripetere tante volte: “Al governo interessano solo i ricchi, costruisce solo condomini e case costose, i poveri non hanno nessuna possibilità di rimanere in centro”, dice. “Li mandano lontano o gli danno un risarcimento minimo, come nel caso di Boeung Kak (dove circa 17.500 persone sfrattate dal 2008 hanno ricevuto solo 8.500 dollari ognuna) anche se possedevano un grande appezzamento
di terreno. Se lo stato e le aziende collaborassero per costruire case popolari, anche i poveri potrebbero vivere in centro. Ma il governo non ha un progetto chiaro per il futuro e nel giro dei prossimi venti o cinquant’anni nessun povero potrà permettersi una casa in centro”.

A metà luglio del 2017 tutti gli inquilini del palazzo bianco avevano già fatto le valigie e hanno continuato ad andarsene alla spicciolata per settimane. I ricordi di Kavich Neang dell’unica casa che ha mai conosciuto sono molto intensi. “Sentivi il suono della musica e a volte la gente che guardava la boxe in tv. O il canale del karaoke. Quando c’era una festa in una casa, ascoltavo i vecchi cantare e qualche volta mi offrivano da mangiare. Quando qualcuno cucinava, il profumo si sentiva in tutto il
corridoio. Era questa, per me, la cosa unica di quel posto, il senso di comunità.

postilla


E’ circa dal 2004 che la capitale della Cambogia sta attraversando un’ esplosione immobiliare, soprattutto nel centro storico, grazie all’afflusso di investimenti diretti esteri nel paese, la crescita del turismo e l’esportazione di indumenti. Questo ha incoraggiato la costruzione di edifici residenziali e commerciali, che hanno cambiato lo skyline della città, e l'espansione urbana nelle aree periferiche. L‘industria delle costruzioni è diventato un settore importante e c’è una classe media in aumento. Ma la gran parte degli abitanti non trae beneficio da questo boom immobiliare. La città si sta espandendo a macchia d'olio senza un piano e il governo municipale non riesce a far fronte agli speculatori, mantenendo un atteggiamento ambiguo nei confronti della tutela dei poveri. Infatti, il progetto di riduzione della povertà urbana di Phnom Penh, lanciato nel 1996, ha avuto un limitato impatto sugli sgomberi forzati praticati dagli investitori nei distretti centrali. Alla maggior parte dei cambogiani, essendo di fatto esclusa dal mercato della casa, non rimane che il settore informale, che continua a crescere.

Con la demolizione del “Palazzo Bianco” verrà anche distrutta la comunità che vi abita. Il "palazzo Bianco" non è solo un edificio, ma una comunità vivace ed eterogenea, che ospita più di 2.500 abitanti, tra cui ballerini, musicisti, maestri, artigiani, operai, funzionari e venditori di strada. Oltre all’articolo suggerisco il sito del white building project, un archivio che cerca di raccogliere le testimonianze di questa comunità, dove troverete immagini e video: http://whitebuilding.org (i.b.).


Il triste destino dei centri storici lasciati all'abbandono, all'incuria e al menefreghismo. il manifesto, 22 agosto 2017 (p.d.)

La Calabria va a fuoco da mesi. Bruciano i suoi boschi, bruciano le pendici delle sue montagne precipiti sul mare, bruciano le valli e le pianure coltivate, brucia il terzo paesaggio delle desolate periferie urbane, brucia anche la maestosa Silva Silae dei romani senza che nessuno riesca a porvi rimedio. Sabato è andato a fuoco anche un palazzo, fra i più antichi e importanti, del martoriato centro storico di Cosenza. In questo caso, gravissimo, sono morte nel rogo violentissimo ben tre persone. Hanno perso la vita tre individui marginali che avevano occupato abusivamente una casa, proprio in quel centro storico diventato, ormai, l’estremo riparo degli ultimi. I diseredati, per un accidente del destino, sono diventati gli unici eredi della bimillenaria storia della città di Telesio.

Un centro storico che , fino a non molti anni or sono, era, pur con tutte le sue debolezze, uno dei più integri da un punto di vista urbanistico ed architettonico, quasi privo di superfetazioni ed interventi moderni perché era stato abbandonato dai cosentini che preferirono, soprattutto dal secondo dopoguerra, insediarsi in pianura. Negli ultimi anni, a causa di incuria ed assenza di ordinaria manutenzione da parte delle Amministrazioni comunali, questa città, fondata dai Bruttii nel IV sec. a.C. sul colle Pancrazio, ha iniziato a crollare, a smontare, a scivolare, pioggia dopo pioggia, verso valle. Per tutta risposta a questo degrado strutturale, ed abitativo, l’attuale Amministrazione ha deciso, per mezzo di ben due ordinanze, di abbattere alcuni palazzi antichi di Cosenza perché pericolanti.
La stessa Amministrazione che ha investito 14 milioni di euro per costruire un piccolo ed inutile parcheggio al centro della città nuova, 20 milioni (altri 40 o 50 serviranno per le infrastrutture) per costruire un ponte, disegnato da Calatrava, che collega il nulla con il nulla e che vorrebbe spenderne altri 7 per costruire un Museo in onore di Alarico, re dei Goti che, per caso, morì sulle sponde del Crati e del quale non abbiamo nessuna testimonianza archeologica. Una Amministrazione, guidata dal sindaco di Fi Occhiuto, che, invece di investire energie e progetti nello straordinario centro storico della città, lo considera solo come un gravoso ed inutile fardello del quale occuparsi, con fastidio, solo per mezzo di demolizioni preventive ed indiscriminate.

«Un tunnel di vetro e acciaio inutilizzabile nella parte coperta. Comune e parlamentari locali aspettano dal Governo una deroga per consentire l'apertura di attività permanenti. Come a Firenze e Venezia». la Repubblica online 9 agosto 2017 (p.s.)

Un'astronave atterrata su un torrente spesso in secca alle spalle della stazione ferroviaria. Un tunnel di vetro e acciaio costato 25 milioni di euro di soldi pubblici. Si chiamerebbe ponte Europa, poiché legato all'insediamento della vicina Efsa (Agenzia europea per la sicurezza alimentare) ma nella controversa storia recente delle opere pubbliche di Parma è più noto come ponte Nord. Progettato nel 2010 da Vittorio Guasti, architetto, ex senatore di Forza Italia ed ex capogruppo di maggioranza in Consiglio comunale negli anni in cui in città appalti e finanziamenti del governo Berlusconi (potente ministro il parmigiano Pietro Lunardi) abbondavano, è tuttora un'opera in cerca di destinazione. Lungo 180 metri, largo 33 e alto 15, tre piani, quattro corsie e pista ciclopedonale, è stato pensato come ponte abitabile per spazi espositivi e commerciali ma l'abilitazione non è mai arrivata perché la legge Galasso vieta costruzioni con usi permanenti sull’alveo dei fiumi.

ll progetto originario, che prevedeva anche una torre con uffici poi stralciata, prospettava un centro di documentazione, formazione e informazione sull'alimentare e i prodotti tipici. Poi si è parlato di museo del design e di un centro di aggregazione della cultura giovanile; ipotesi tramontate come gli spazi per start up giovanili e le attività legate all'università. D'altra parte, aprendo negozi o attività fisse si produrebbe un abuso edilizio. Occorre prima una deroga del Governo per consentire un utilizzo stabile di interesse pubblico all’interno dell'infrastruttura. A nulla è servito finora il pressing dei parlamentari locali sul Governo. L'ultima bocciatura è stata l'esclusione dell'opera dallo Sblocca Italia: insormontabile il rischio idrogeologico secondo la commissione Ambiente della Camera. Impossibile rimuovere il vincolo, si creerebbe un precedente pericoloso sul fronte della sicurezza; oltretutto a pochi anni dall'alluvione che a Parma ha sommerso un intero quartiere.
I deputati del Pd puntano a "consentirne l'utilizzo stabile attraverso l'insediamento di attività di interesse collettivo sia su scala urbana che extraurbana, anche in deroga alla pianificazione vigente" per "trovare una soluzione e non lasciare la struttura coperta inutilizzata e abbandonata al suo destino, dopo averla costruita". Nel 2012, appena eletto, il sindaco Federico Pizzarotti, all'epoca grillino, aveva evitato manifestazioni ufficiali per il taglio del nastro; prima dell'apertura al traffico una breve cerimonia con la benedizione del parroco don Luigi Valentini e un classico della canzone dialettale "Parma Voladora" intonata sul ponte. L'assessore ai Lavori publici Michele Alinovi, confermato nell'incarico, allora come oggi si concentra sulle possibili funzoni e "usi ammissibili per concludere questa triste avventura".
A distanza di cinque anni la situazione è pressoché la stessa nonostante la buona volontà dell'Amministrazione comunale che ha speso altri soldi per rendere la galleria fruibile almeno in via temporanea. Gli spazi, ad esempio, debbono essere ogni volta raffreddati o rinfrescati a seconda della stagione. Nel frattempo sono stati organizzati un paio di eventi a scopo benefico, l'ultimo un concerto con apericena a pochi giorni dal voto e prima una serata con ospiti, tra gli altri, Giorgia Palmas e Vittorio Brumotti. "E' un’opera finanziata con fondi pubblici e non si può lasciare andare in rovina" ripete Alinovi. Il destino del tunnel-vetrina dipende, dunque, dal Governo che dovrà decidere se concedere una variante urbanistica per permettere di utilizzare il ponte anche al suo interno. "La speranza c'è, è una questione politica", dice Alinovi.
Se mai la deroga dovesse arrivare il ponte Nord diventerebbe il terzo abitato d'Italia accanto ai secolari ponte Vecchio di Firenze e di Rialto a Venezia. Per ora, come scritto da un cittadino il giorno dell'inaugurazione, è quello dei sospiri.
Riflessioni sul quadro politico e culturale nel quale si pone l'episodio degli sgomberi forzosi di due centri di vita sociale. La lezione è chiara: rigenerazione urbana significa arrendersi al mercato e alle sue logiche oppure essere picchiati dalla polizia. Una corrispondenza per eddyburg, 8 agosto 2017

Questa mattina il capoluogo emiliano si è svegliato a suon di sgomberi ai danni di due esperienze sociali: Làbas e Laboratorio Crash. L’operazione di oggi è il tentativo di snaturare e cancellare un effervescente laboratorio politico.

Un risveglio triste quello bolognese. Làbas e Laboratorio Crash, due spazi sociali, sono stati sgomberati nella desolata mattinata dell’8 agosto. Già nella serata di lunedì le prime voci su un presunto sgombero ai danni di Làbas, esperienza sociale al suo quinto anno di età, che al suo interno racchiudeva esperimenti di mutuo lavoro, un dormitorio con 12 posti letto, il mercato contadino del mercoledì, un luogo di socialità trasversale nel cuore della città. I sigilli hanno messo fine anche al Laboratorio Crash, esperienza diversa ma con una storia lunga 17 anni, figlia del g8 di Genova, laboratorio politico e location di eventi di ogni genere, un luogo attivo nella lotta del diritto all’abitare. Un altro pezzo di Bologna che se ne va, quella Bologna, di cui oggi è stata cancellata grossa parte della memoria collettiva, fatta di resistenze, di esperimenti politici e iniziative dal basso.

Cosa ne rimane? Una riflessione sulla direzione che questa città ha preso è d’obbligo. Nell’ultimo anno il segnale è stato ancora più forte: non c’è più spazio per l’autorganizzazione. Lo dimostrano gli sgomberi fatti negli ultimi due anni, alcuni senza nessun tentativo di trattativa; i più recenti “BancaRotta” del collettivo LuBo e la Consultoria TransFemministaQueer, murata solo dopo 4 giorni. Via DeMaria, la biblioteca di scienze umanistiche in via Zamboni 36, Via Gandusio, Arci Guernelli e, prima ancora, Atlantide, ExTelecom e la lista potrebbe essere lunga, come dimostra l’inchiesta di Zic. “Chiedi (ancora) alla polvere”. Tutti spazi occupati, abitativi o sociali, che sono stati tolti all’incuria, la cui fine è stata decretata con la costruzione di muri, per poi essere nuovamente abbandonati o svenduti a privati.

Emblematico è il caso di Làbas, nato dalle ceneri di un’ex caserma di proprietà prima del Demanio, poi di cassa Depositi e prestiti. Dal 2010 lo stabile è stato messo più volte in vendita, fino a essere acquistato nel 2014 da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), insieme ad altre ex caserme militari e immobili per una somma di 50 milioni di euro, di cui 7,5 milioni nelle casse del comune. La riqualificazione dello stabile è stata inserita tra gli interventi previsti dal POC (piano operativo comunale), tramite un accordo tra comune e Cdp che prevedevano “la costruzione di un albergo, una trentina di alloggi, attività commerciali e ristorative” (come si legge nel sito aggiornato al 2016). La stessa amministrazione, guidata dal sindaco Merola, si era, poi, espressa positivamente su Làbas, mentre Cassa Depositi e Prestiti si era detta favorevole a un incontro con il collettivo, nonostante l’emissione di un decreto di sequestro da parte della Procura nel dicembre del 2015. D’altra parte l’appoggio del quartiere è stato tale per cui il centro sociale è diventato, negli anni, una vera e propria piazza di socialità e ha dato vita a un Comitato per la difesa e la valorizzazione dell’ex caserma, sede in epoca fascista della XXIII Brigata Nera “Eugenio Facchini” e luogo di tortura di partigiani, ma completamento abbandonato per 15 fino all’occupazione del 2012.

In una giornata di mezza estate due esperienze sono state cancellate. Dietro l’egida della legalità si giustificano sgomberi in cui i manganelli fanno da protagonisti, ultimo quello di Labas, ma non il solo. A Bologna la rotta è cambiata, non c’è più spazio nonostante gli innumerevoli edifici abbandonati o in costruzione da decenni, un esempio è la discussa Trilogia Navile.

Una città per chi? Viene da chiedersi. La strada intrapresa è quella della rigenerazione urbana, etichetta dietro cui si celano tutta una serie di meccanismi che sembrano riversarsi in un processo di vetrinizzazione della città. È questo che fanno presumere le recenti campagne di marketing urbano, i progetti di riqualificazione previsti nel quartiere popolare della Bolognina o in altre aree periferiche, o il progetto di riqualificazione della controversa piazza Verdi. Alla retorica neoliberista che rappresenta la città come uno spazio per le grandi cattedrali del consumo (si veda il progetto FICO), si affianca quella sulla sicurezza delle città che vede gli spazi occupati come luoghi del degrado, che trova la sua summa nel decreto Minniti sul decoro urbano. Se infatti, da una parte ci si dota di strumenti quali regolamenti sui beni comuni o patti di collaborazione, dall’altra, si emettono ordinanze, privatizzano servizi, si dota la città di tutto un arredo fatto di videosorveglianza e militari per fronteggiare la narrazione sulla questione sicurezza e degrado.

Ritorna vivido alla mente il murale di Blu, #OccupyMorodor, che rappresentava la battaglia tra forze opposte che in questi giorni si sta consumando nelle strade bolognesi. Il murale, dipinto sulle pareti di Xm24, altro centro sociale sotto sgombero e ultimo baluardo di quella Bologna che si vuole neutralizzare, è stato cancellato un anno fa dal suo stesso autore e da attivist* di Xm e Crash come gesto radicale contro la privatizzazione della street art bolognese a opera della Fondazione Genius Bononiae. Così come le pennellate grigie non hanno eliminato del tutto la memoria dell’opera, i muri non cancelleranno un’altra idea di città.

Quella che si combatte è una lotta per il diritto alla città, che nessuno sgombero può fermare. Riprendendo le parole di D. Harvey: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo...” (Rebels cities, p.22)

«Manganellate contro gli attivisti del Làbas, apprezzato anche dalla sinistra istituzionale. Proteste dall’Arci alla Cgil». E una domanda al sindaco: chi comanda a Bologna? la Repubblica, 9 agosto 2017, con postilla

BOLOGNA. Uno sgombero in vecchio stile, manganelli all’alba, ha chiuso le porte del centro sociale più amato di Bologna, il Làbas, e aperto la strada a un fiume di polemiche nella città un tempo laboratorio delle più svariate esperienze sociali. Un corposo gruppo di ragazzi, molti dei quali studenti, che da anni si era impegnato a creare una piccola cittadella vivace e solidale — mercatini, corsi, aiuto ai più deboli, musica e impegno sociale — dopo molti ultimatum ha dovuto alzare le braccia e abbandonare l’ex caserma di proprietà della Cassa depositi e prestiti. Azione ordinata dalla procura, eseguita dalla polizia e osservata a distanza dal Comune. «Non potevo interferire — ha detto il sindaco Merola — nel rispetto dei ruoli istituzionali. Ma cercherò una soluzione per quelli di Làbas».

Quelli del Làbas, in verità, la soluzione l’attendevano da tempo, forti di alcuni sponsor che ne avevano elogiato l’impegno e la capacità di coinvolgere il vicinato, oltreché di offrigli momenti di svago. Il mercatino del mercoledì (sì, proprio oggi) era di gran lunga l’appuntamento più frequentato dai bolognesi, anche di rango, in un tripudio di frutta e verdura obbligatoriamente bio e a km zero. Ma alla socialità il Làbas aveva sempre saputo aggiungere un impegno non di facciata, e uno stile di lotta anche politica che si era sempre tenuto ben a distanza dalla violenza.
«Una ferita gravissima per la città, per le persone del quartiere, per il percorso di quei ragazzi», ha subito dettato alle agenzie Amelia Frascaroli, consigliera di stretta osservanza prodiana ed ex assessore ai servizi sociali. «Il fallimento della politica», ha invece commentato lapidariamente Andrea Colombo, consigliere Pd e a sua volta ex assessore al traffico. Ma dalla Cgil all’Arci, passando per la Fiom e l’Arcigay, nessuno ha fatto mancare il proprio sostegno a Làbas. Che forse avrebbe avuto bisogno di tutto quel consenso nei mesi precedenti all’annunciatissimo sgombero. «Decisione improvvida e miope, su quell’esperienza bisognava lavorare per farla crescere e integrarla alla città», è stato il commento del filosofo Stefano Bonaga, da sempre vicino a quelli del collettivo. «Certamente la legalità andava ristabilita — ha osservato il politologo Piero Ignazi — ma non in modo così cruento, è mancata la governance ».

Il Pd, fisiologicamente, si è diviso. La destra ha esultato. Il sindacato di polizia ha denunciato 5 agenti lievemente feriti negli scontri durante lo sgombero. Quelli della Cassa depositi e prestiti hanno detto che ora vedranno che fare della ex caserma di via Orfeo. E il collettivo Làbas, in una caotica conferenza stampa all’ombra della statua del Nettuno, ha dato un mese di tempo al sindaco per trovare una soluzione alternativa. Soluzione alla quale pareva si lavorasse da tempo, ma che non è mai saltata fuori. Allargando così la distanza tra la sinistra diffusa e il governo della città, rieletto da un anno non a furor di popolo. Facile prevedere che lo sgombero di un torrido agosto apra la via a un autunno caldo.

postilla

Il sindaco ha dichiarato che non poteva interferire con la polizia, e ha ragione. Ma con la Cassa depositi e prestiti, e con la decisione di quest'ultimadi destinare la ex caserma a una destinazione diversa da quelle di fatto definta dalla utilizzazione in atto?.Perché a Bologna non è il potere elettivo a decidere sull'utilizzazione degli spazi della città? La legge stabilisce che le trasformazioni degli spazi della città vengano stabilite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, potestà degli organi elettivi, non dalla Cassa depositi e prestiti. Magari a Bologna vale già la nuova legge urbanistica regionale che legittima l'abusivismo urbanistico, ma non è ancora in vigore...

«Innovative, autosufficienti e inaccessibili ecco le nuove città dei giganti della Rete». la Repubblica, 1° agosto 2017 (p.d.)

Gigantesche, distanti, inaccessibili. Ecco le Versailles delle grandi aziende hi-tech, le nuove sedi di quella manciata di multinazionali che per capitalizzazione hanno superato singolarmente il prodotto interno lordo di Stati come Svezia, Norvegia o Svizzera. Apple, Amazon, Facebook, Google, Alibaba, Tencent, Huawei, stanno per gridare al mondo la loro grandezza attraverso l’architettura. Come facevano imperatori e papi, presidenti e dittatori. «Non sono più delle compagnie, ma famiglie reali» aveva scritto qualche tempo fa Bruce Sterling, fra i “padri” della letteratura cyberpunk. «Siamo in pieno feudalesimo digitale ». Abbandonata l’idea del campus universitario, abbracciano quella della fortezza ermetica firmata da un’archistar.

L’astronave della Apple a Cupertino è solo un esempio. Concepita da Steve Jobs, l’ha disegnata sir Norman Foster. Un disco con una circonferenza di un chilometro e mezzo, 260 mila metri quadrati per ospitare 12 mila dipendenti che vi si stanno trasferendo. Città cinta da mura alte quattro piani con un giardino interno ombreggiato da novemila alberi. Il Cerchio del romanziere Dave Eggers fatto costruzione. Sorge in una delle aree più costose del pianeta: 160 milioni di dollari il prezzo del terreno, cinque miliardi quello dell’edificio.

La nuova sede di Amazon, dello studio Nbbj, è invece un grattacielo da quattro miliardi di dollari che verrà terminato nel 2018 a Seattle. Oltre 306 mila metri quadrati su 37 piani. E tre grandi sfere trasparenti alla base accessibili solo ai dipendenti: conterranno una foresta equatoriale in omaggio al nome della compagnia di Jeff Bezos, diventato l’uomo più ricco del mondo. Un altro edificio è stato invece dedicato ai senza tetto e ong. Mentre a Shenzen, sempre la Nbbj che ha già all’attivo le sedi di Alibaba a Hangzhou, sta ultimando due torri da 250 metri per la Tencent, terzo colosso del Web.

«Nessuno di questi edifici vuole davvero avere un rapporto con la città » commenta lo storico dell’architettura Carlo Olmo. «E pensare che la città per secoli è stata il centro dell’innovazione e che queste compagnie sono figlie delle contaminazioni tra università e aree urbane».

Facebook, dopo il quartier generale disegnato da Frank Gehry, vorrebbe ora un villaggio. Il Willow Campus, progettato da Rem Koolhaas, avrà per la prima volta anche mille e cinquecento abitazioni e parte di queste dovrebbero essere a basso costo. Oltre a negozi, farmacie, hotel, bar, alimentari e un milione e mezzo di metri quadrati di uffici. Niente mura né torri insomma. Di villaggi la Huawei ne ha in mente 12 da un miliardo e mezzo di dollari in costruzione a Shenzen. Scimmiottano lo stile europeo da Verona a Oxford. Qui però più che di reggia si tratta di semplice pessimo gusto. Meglio, anche dal punto di vista simbolico, il Googleplex a Mountain View immaginato dall’architetto danese Bjarke Ingels: spazi coperti da un enorme tenda di vetro sotto la quale gli edifici modulari potranno esser mossi secondo le esigenze dei dipendenti.

«Molti imperi sono caduti subito dopo che i loro governanti avevano finito di costruire una sontuosa capitale» scriveva Deyan Sudjic, curatore della Biennale 2002 e direttore del Design Museum di Londra alla fine di Architettura e potere (Laterza). «E ciò mostra come l’architettura non sia sempre uno strumento politico efficace». Ma si vede che nella Silicon Valley non è un saggio che è andato per la maggiore.

«Intervista a Maurizio Memoli, professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, coautore del webdoc che racconta il quartiere popolare sul mare a sud est di Cagliari». il manifesto, 22 luglio 2017 (c.m.c)

Affacciato sul mare all’estremità meridionale di Cagliari, affollato dai palazzoni grigi dell’edilizia popolare e raccolto intorno allo storico Lazzaretto seicentesco – oggi teatro di attività culturali e «mondane»- il quartiere di Sant’Elia è uno dei luoghi più contraddittori della città. Nato come borgo di pescatori e edificato negli anni Cinquanta per gli sfollati dei paesi dell’entroterra che si erano riversati su Cagliari, ha subìto un profondo mutamento quando alla fine degli anni Settanta sono stati eretti quei palazzoni che oggi lo identificano per metonimia e hanno rivoluzionato l’aspetto, e il tessuto sociale, del borgo.

Le immagini del quartiere e le parole dei suoi abitanti sono i «protagonisti» del webdoc “Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano”, progetto collettivo coordinato da Maurizio Memoli – professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, che ce lo ha raccontato – e realizzato insieme al giornalista Claudio Jampaglia, la ricercatrice Silvia Aru e il filmmaker Bruno Chiaravallotti. Vincitore del premio speciale webdoc al Capodarco l’altro Festival, Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano è un lavoro di geo telling, come l’hanno soprannominato i suoi creatori: che fa parlare, e raccontarsi in prima persona, uno spazio urbano. Nei sei episodi che lo compongono (visibili sul sito webdoc.unica.it) la telecamera si sofferma a osservare le strade del quartiere, le sue case e i suoi palazzi, così come la distesa blu del mare che lo circonda e lo avvolge nel suo fascino. Fuori campo, la voce di sette donne di Sant’Elia illustra il loro rapporto con quello spazio: l’orgoglio e le lotte quotidiane, la stigmatizzazione e i pregiudizi di cui sono vittime, i ricordi di ciò che il quartiere è stato nel passato, i suoi miti fondativi e il fantasma dell’innocenza perduta.

Che cos’è il geo telling?
Subito dopo le rivoluzioni tunisine ci siamo trovati a confrontarci sull’idea della narrazione di un territorio. Volevamo raccontare lo spazio tunisino stando al di fuori dalla prassi troppo paludata della ricerca universitaria, geografica, urbana. Siamo quindi partiti per Tunisi per cercare di «intervistare» quello spazio attraverso le persone che lo abitano. Così è nato il webdoc – un prodotto ibrido tra video, interviste, foto e articoli – intitolato Al centro di Tunisi, del 2013. Dopo quest’esperienza siamo partiti con un secondo progetto su Marsiglia e infine con uno sulle periferie: ci siamo chiesti come raccontarle per sfuggire alla logica neoliberale per la quale nelle periferie ci sono «i cattivi», sono brutte e non funzionano. A meno che non abbiano un potenziale economico.

Che è proprio il caso di Sant’Elia.
Sant’Elia è uno spazio tradizionale di «brutti sporchi e cattivi». Ma c’è il mare, il panorama, un affaccio sull’acqua che fa gola al capitale, ostacolato però da una comunità di diecimila abitanti che pongono un problema: come tirarli fuori da lì per fare profitto? Entrare a Sant’Elia per raccontarne lo spazio ha voluto dire innanzitutto trovarsi davanti un esercito di ricercatori, giornalisti, registi, antropologi. Gli abitanti si sentono delle cavie, sono stufi di prendere parte a questo racconto della povertà.

Come avete quindi impostato il lavoro?
Siamo da subito entrati in contatto con le persone più attive di Sant’Elia: come in tutti i quartieri popolari ci sono molte cooperative e associazioni più o meno politiche. Attraverso di loro abbiamo cercato di offrire ai ragazzi un corso fotografico, chiedendogli di rappresentare il loro spazio quotidiano. L’adesione però è venuta principalmente dalle donne dell’associazione «Sant’Elia Viva». Il laboratorio è poi sfociato in una mostra, ma loro ci hanno chiesto di continuare il lavoro insieme e così abbiamo pensato a una narrazione in cui fossero gli abitanti a raccontarci il loro stare nello spazio, senza filmarli, mentre parlano di alcuni temi legati al quartiere. C’è quindi una dissociazione tra audio e video, che ci sembrava un buon modo per ragionare su come raccontiamo le cose non conoscendole, e per stabilire al contempo una distanza e una prossimità.

La prospettiva è esclusivamente femminile.
Come in molti quartieri popolari gli uomini sono molto meno presenti. Basta vedere le percentuali della popolazione del carcere di Uta: il 30% viene da Sant’Elia. Le donne che sentiamo parlare nei sei capitoli del webdoc – Pinella e Rita De Agostini, Rosy Fadda, Deborah Lai, Cenza e Paola Murru e Rosa Sabati – sono quasi tutte tra i 60 e i 70 anni, divorziate o sole per scelta, con figli adulti. Molte stanno studiando per il diploma che non hanno preso da giovani, e soprattutto hanno deciso di essere attive nel quartiere attraverso la loro associazione.

Dal rapporto tra audio e video emerge anche uno scollamento temporale: il racconto nostalgico del passato – i giochi per strada da bambine, il borgo prima dei palazzoni – e le immagini del quartiere come è oggi.

È importante ragionare sui frammenti di questa narrazione in modo emozionale: loro ci hanno parlato del loro amore per Sant’Elia, di quanto nonostante la marginalità e le stigmatizzazione il quartiere fornisca loro un’identità forte, che rivendicano. Portate altrove si disperderebbero, perderebbero la loro capacità di stare insieme. Gli anni Settanta, in cui sono stati costruiti i palazzoni, hanno rappresentato il momento della perdita dell’innocenza, ma anche della presa di coscienza che quello spazio è qualcosa da difendere.

Tra i loro racconti ci sono anche alcune «mitologie cittadine», a riprova del fortissimo legame, benché sofferto, con Cagliari tutta.
Le mitologie hanno però anche un aspetto negativo: ci consentono di creare una sorta di controllo, di incasellamento. Confinare le persone in dei personaggi permette di controllarle. È come la teoria della finestra rotta: trattare gli abitanti di un quartiere difficile come dei personaggi folklorici, nel bene e nel male, equivale a promettere che prima o poi qualcuno interverrà a «sanarli», a portarli in un vago altrove più «decoroso».

Ada Colau ha scelto di gestire i flussi turistici e contrastare le logiche di profitto di speculatori guardando ad esperienze di cogestione: un esempio importante di recupero dello spazio urbano. MicroMega online, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

Un servizio comodo e confortevole. Una manna dal cielo per chi non può permettersi alberghi di lusso. Airbnb è il portale on line che coniuga domanda ed offerta del turismo low cost: una community che dà la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla. È un modo di viaggiare più economico e "social" della classica sistemazione in hotel. Una rivoluzione, negli ultimi anni, che si è affermata soprattutto tra i giovani.

Ma non è tutto oro quel che luccica perché la politica di Airbnb ci parla infatti di nuova urbanistica e di modelli di città differenti. Per anni siamo stati abituati ad una politica latente che ha dato mano libera ai privati che hanno saccheggiato liberamente gli spazi urbani. Roma, in tal senso, ne è emblema visto lo strapotere di palazzinari e cricche del mattone: nella Capitale si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale. I Comuni delegano al privato la soluzione dei problemi sociali, come l'emergenza abitativa, con la conseguenza di speculazioni, sperpero di denaro pubblico e mancata soluzione delle questioni (vedi la creazione dei residence). Le nostre città, più in generale, stanno diventando non/luoghi, eppure la cittadinanza è il pieno dei vissuti e il territorio dovrebbe essere inteso come bene comune. È la fine dell'urbanistica, e dunque la fine della città pubblica.

L’impero di Airbnb in Italia
Airbnb si innesca nella stessa logica con un impero da 31 miliardi di dollari incassati dal 2008 ad oggi. Fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro “turistico” e “vetrina” e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie. Una ricerca del laboratorio Ladest della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena ha fatto luce proprio sull’altra faccia di Airbnb.

A Firenze quasi il 20% delle case dentro le mura medievali è in affitto sulla piattaforma turistica, a Matera addirittura il 25%, a Roma l’8%, a Venezia il 9 e le percentuali sono in crescita dappertutto, da Catania a Milano. A dispetto del concetto di “sharing economy” però su Airbnb i grossi guadagni sono ben poco “shared”, condivisi. Anzi si concentrano sempre più nelle mani di pochi. A Milano ad esempio un unico soggetto ha accumulato più di 520 mila euro solo nel 2016 mentre il 75% degli host ha guadagnato meno di 5.000 euro in un anno. A Roma il 48% dei proprietari è sotto 5.000 euro e un fortunato 0,6% sta sopra 100 mila euro mentre a Firenze, dove l’incasso medio per gli oltre 8 mila host di Airbnb l’anno scorso è stato di 5.300 euro, uno solo è arrivato a incassare la bellezza di 700 mila euro.

“A Roma come altrove – scrive Sara Gainsforth su DinamoPress – Airbnb è uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare. Pochi intermediari gestiscono più case, molte delle quali non abitate stabilmente per più di sei mesi. Nella Capitale gli annunci per turisti si concentrano nelle zone più turistiche, centrali e benestanti della città. I dati raccolti da Inside Airbnb mostrano un aumento delle proprietà destinate a turisti nel centro di Roma con un +8,2% negli ultimi sei mesi in I municipio”.

Intanto la città, il futuro si sposta nelle periferie. Anche a causa di valori immobiliari insostenibili continua l’esodo di residenti dal centro. Si creano i quartieri dormitorio, terreni fertili per la guerra tra poveri. Tra cittadini autoctoni arrabbiati dei disservizi versus i centri di accoglienza dei migranti. La grande assente è sempre la politica che da anni si rifiuta a ripensare le città, a ridisegnare le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sugli spazi pubblici. Le città come elemento di rottura e discontinuità, il neomunicipalismo come antidoto alle crisi attuali per un nuovo protagonismo della cittadinanza: il recupero dello spazio urbano con strumenti di co-partecipazione e co-gestione per contrastare rendite finanziarie ed establishment. Tra mille difficoltà, un po' come Davide contro Golia, ci sta provando a Barcellona l'alcaldessa Ada Colau che ha intrapreso un vero e proprio braccio di ferro contro Airbnb e la gentrification.

Barcellona, invasa dai turisti
A Barcellona, infatti, quello del turismo, con tutte le sue derivate (aumento degli affitti, espulsione dei residenti dal centro, distruzione del piccolo commercio, carenza di case popolari, ecc.) è un problema capitale. Se nel 1991, l’anno precedente alle Olimpiadi che hanno cambiato radicalmente il capoluogo catalano, i turisti superavano di poco il milione, nel 2016 hanno già raggiunto quota 9 milioni in una città di 1,6 milioni di abitanti. Se a questi aggiungiamo i turisti che alloggiano in appartamenti senza licenza o che non dormono in città, ma che la visitano, si stimano oltre 25 milioni di turisti all’anno, la maggior parte dei quali alloggiano e si muovono nel centro storico (il municipio di Ciutat Vella), la cui popolazione è in continuo calo e attualmente supera di poco i 100mila abitanti.

La situazione è davvero preoccupante e il rischio che Barcellona si converta in una nuova Disneyland, come è successo a Venezia, è reale. Non è un fenomeno nuovo, evidentemente, ma l’accelerazione degli ultimi anni è stata notevole. E i dati ci mostrano che la questione degli appartamenti turistici, legali e illegali, e il fenomeno di Airbnb pesano moltissimo in tutta la questione. Alla fine del 2016 l’offerta di appartamenti turistici ha raggiunto infatti quasi quella alberghiera, con una crescita vertiginosa dal 2012 (+ 1.633%): secondo il Comune della Ciudad Condal gli appartamenti turistici sul mercato sono quasi 16mila, di cui solo 9.600 dispongono di una licenza. Gli altri 6.200, ossia il 40%, operano senza.

Ma non si tratta solo di stime comunali. La percezione della cittadinanza è una cartina di tornasole della vicenda: e non è un caso che, per la prima volta, il turismo è, secondo i barcellonesi, il primo problema della città, superando la disoccupazione. E che, anche in questo caso per la prima volta nella storia, sono di più i barcellonesi che credono che si sia arrivati al limite di turisti (48,9%, con punte del 65% nei quartieri del centro storico) rispetto a quelli che considerano che la città ne possa accogliere di più (47,5%). E la cittadinanza si è mobilitata, auto-organizzandosi in piattaforme e associazioni – come Barcelona No Está en Venda (Barcellona Non È In Vendita), Fem Sant Antoni o il Sindicato de Inquilinos (il Sindacato degli Inquilini), tra le tante – che lottano contro i processi di turistificazione e gentrificazione della città. Non ci sono solo manifestazioni di protesta, per quanto siano ormai numerose in molti quartieri, ma anche altre azioni per proteggere chi rischia di essere espulso dalla propria casa, per migliorare le condizioni dei contratti d’affitto – solo nel 2016 gli affitti sono aumentati del 24,5% – o per censire i condomini in vendita per evitare che siano acquistati da fondi speculativi.

Ma la cittadinanza si è mobilitata anche votando nel maggio del 2015 la lista civica neomunicipalista Barcelona en Comú, guidata dall’attivista Ada Colau, che è stata la fondatrice e, per oltre un lustro, la portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH, Piattaforma delle vittime dei mutui). Nella campagna elettorale la questione di un nuovo modello di città è stata chiave ed era, non a caso, una delle priorità del programma elettorale di Barcelona en Comú, elaborato insieme alla cittadinanza. Non è un caso nemmeno che tra gli undici consiglieri eletti ci sia anche Gala Pin, portavoce del movimento Salvem el Port Vell che ha lottato contro il turismo di massa e l’apertura di un porto di lusso nel quartiere della Barceloneta.

La pressione dei movimenti sociali, da cui provengono la maggior parte dei consiglieri e degli assessori di Barcelona en Comú, facilita in un certo qual modo il lavoro della giunta Colau, per quanto la lotta sia impari e le difficoltà economiche e legali siano enormi. La lobby degli alberghieri, potentissima nel capoluogo catalano, ha sempre visto con preoccupazione la nuova amministrazione comunale e la nuova lobby di Airbnb, che dispone di un potere mediatico incredibile, rifiuta di rispettare le norme e le leggi esistenti, alimentando la compravendita di appartamenti.

Cosa ha fatto la giunta Colau?
Nei primi due anni di governo di Barcelona en Comú si sono fatti importanti passi in avanti. Oltre allo sviluppo di una politica di acquisto e costruzione di nuove case popolari, all’acquisto di interi edifici che stavano per essere comprati da fondi speculativi, alle multe alle banche per non mettere sul mercato gli appartamenti sfitti, ai finanziamenti pubblici per la ristrutturazione degli immobili con l’obbligo di non espellere per almeno un biennio gli inquilini o ai progetti per rendere Barcellona una città sostenibile (limitazione del traffico, creazione di aree verdi, potenziamento del trasporto pubblico, ecc.), la giunta Colau si è spesa notevolmente per regolare gli appartamenti turistici e per limitare lo strapotere di Airbnb.

In primo luogo, è stato approvato un Piano speciale urbanistico di ordinamento degli alloggi turistici (Peuat), elaborato con la partecipazione della cittadinanza e delle associazioni presenti sul territorio, che divide la città in tre zone con l’obiettivo di decongestionare il centro. Nella prima zona, ossia il centro storico, non si concedono nuove licenze per appartamenti turistici e chi cessa l’attività non può essere sostituito; nella seconda zona, si concedono nuove licenze solo se il rapporto degli appartamenti turistici in un’isolato è inferiore all’1,48%; mentre, nella terza zona, la più lontana dal centro storico, si possono ottenere ancora delle licenze. Con il Peuat si è però creata anche un’unità di ispettori – chiamati visualizadores, attualmente formata da 40 persone – che si occupano di localizzare gli appartamenti turistici senza licenza: dal gennaio del 2016 sono state aperte 5.490 pratiche che si sono convertite in quasi 3mila multe – tra i 30 e i 60mila euro – e nella chiusura di 2.015 appartamenti illegali.

In secondo luogo, il Comune ha aumentato la tassa turistica (da 0,65 a 2,25 euro), non solo per chi alloggia in hotel o nelle navi crociera, ma anche per chi lo fa negli appartamenti turistici. Il ricavato – e si parla di oltre 10 milioni di euro all’anno – sarà utilizzato per ampliare il Piano strategico del Turismo 2020 che si propone di rendere sostenibile la città come destino turistico nell’arco dei prossimi quattro anni, ossia rinforzando i trasporti pubblici e ristrutturando la pavimentazione della città.

In terzo luogo, a novembre dello scorso anno si è multato Airbnb con 600mila euro, dopo due precedenti multe di 30mila euro che erano state ignorate dalla compagnia statunitense. Si tratta della prima multa di tale entità di una città contro Airbnb e, come ha dichiarato la sindaca Ada Colau, si faranno “tutte le multe necessarie fino a che Airbnb smetta di annunciare appartamenti illegali. Airbnb deve rispettare la legge!”. Altri portali on line che operano nel turismo, come Homeaway o Nine Flats, anch’essi multati dal Comune di Barcellona, hanno fatto marcia indietro e hanno deciso di rispettare la legge in vigore a Barcellona.

Non così Airbnb che, oltre a fare orecchie da mercante, a proporre accordi farsa – accettati da altre città e rifiutati seccamente dal Comune di Barcellona: l’assessore alla Casa, Josep Maria Muntaner, li ha definiti “una presa in giro” – e a scatenare una campagna mediatica contro la giunta Colau, è stata protagonista di scandali non da poco: Kay Kuehne, ad esempio, ex direttore di Airbnb per la Spagna e il Portogallo e poi per l’America Latina, è stato multato per aver affittato illegalmente un appartamento senza licenza a Barcellona. O, ancora, è notizia della scorsa settimana che Airbnb lascia operare senza controllo reti criminali che affittano appartamenti nel capoluogo catalano per poi trasformarli in appartamenti turistici.

Di casi di questo tipo se ne stanno conoscendo un’infinità negli ultimi tempi, tanto che Janet Sanz, responsabile dell’area di Ecologia, Urbanismo e Mobilità della giunta Colau, ha ribadito l’uso della mano dura contro la compagnia statunitense: «Airbnb ha superato ogni limite. Ha truffato la città. La sua attività sta danneggiando i cittadini perché non rispetta la legge. È ora di dire basta!» E non sono ormai solo voci di corridoio quelle che sostengono che il Comune di Barcellona possa arrivare fino in fondo, obbligando Airbnb a lasciare il capoluogo catalano.

Le difficoltà sono molte per i Comuni, le competenze sono limitate, le lobby, come Airbnb, sono potentissime, ma, come dimostra la giunta Colau, se c’è la volontà politica il turismo si può regolare e fenomeni come quello degli appartamenti illegali possono essere controllati, anche in una città invasa dai turisti come Barcellona.

Quando parliamo di ridefinizione di città, non parliamo solo di urbanistica ma contrasto alle diseguaglianze sociali, di ambiente, di eco-architettura, di modelli di cogestione in antitesi a logiche di profitto di speculatori e establishment, parliamo di tutto questo. La città come bene comune. E se da un lato Airbnb è un servizio agevole, dall'altro va capito che è emblema di una politica urbana sbagliata e escludente. E se imparassimo da Ada Colau?

Non è certo che la città sia infinita, sebbene autorevoli autori lo suggeriscano. Certamente lo è la speculazioni immobiliare e la sua necessaria premessa, la privatizzazione d'ogni bene.Businessinsider.com, 1 giugno 2017

A New York ogni singolo metro quadro è prezioso. In una città dove lo spazio manca, non resta che andare in alto. Per i costruttori di grattacieli newyorkesi, l’ultima frontiera da conquistare è il cielo. Come? Comprando l’aria inutilizzata dagli edifici adiacenti alla zona in cui si intende costruire, accaparrandosi i cosiddetti air rights.

Cosa sono gli air rights

Per capire cosa sono gli air rights e come influenzano il mercato immobiliare newyorkese abbiamo contattato Artis Real Estate & Consulting, società italiana specializzata in consulenza immobiliare internazionale con sede a New York. «Gli air rights – spiega un suo portavoce – possono essere definiti come i diritti di sopraelevazione che spettano al titolare di un determinato edificio. Questi diritti possono essere venduti e comprati. Mi spiego meglio. In alcune zone della città la densità edilizia non può superare una certa quota e quindi i grattacieli sono sottoposti a un limite di altezza. Un problema, questo, che può essere risolto proprio grazie agli air rights. Non tutti gli edifici, infatti, sfruttano al massimo il loro diritto di sopraelevazione. I costruttori di grattacieli possono acquistare lo spazio inutilizzato da questi edifici, qualora fossero appunto più bassi di quanto previsto dal piano regolatore». Da qui la caccia dei magnati del cielo agli air rights.

Perché l’aria è così costosa a New York
Secondo Al Jazeera, nei soli ultimi due anni, il mercato degli air rights ha mosso 300 milioni di dollari di capitali. Ma perché anche l’aria nella Big Apple è così costosa? “A New York – afferma il consulente di Artis – il mercato immobiliare è molto competitivo, oltre che geograficamente limitato dalla scarsità di terreno disponibile per la costruzione di nuovi fabbricati. In un contesto del genere è facilmente intuibile come la possibilità di elevarsi il più possibile verso l’alto sia preziosa per i costruttori di nuove strutture edilizie. Se si considera poi il fatto che le unità ubicate ai piani più alti godono di vista e luce migliori, si capisce come il valore del mercato degli air rights sia particolarmente significato nel real estate della Grande Mela”.

The Donald, il compratore d’aria
C’è comunque un limite al mercato degli air rights. Nella maggior parte dei casi, infatti, i diritti di sopraelevazione possono essere acquistati solo dagli edifici confinanti con il nuovo immobile. Per costruire sempre più in alto, allora, non resta che comprare gli air rights dei palazzi vicini uno dopo l’altro, in fila.

Per edificare la sua Trump World Tower sulla prima strada, per esempio, The Donald ha dovuto comprare gli air rights di nove proprietà adiacenti, tra cui la Church of the Holy Family.

Miracolo sulla 57esima strada
Grazie agli air rights i costruttori possono assicurarsi ricavi da capogiro. Questo è tanto più vero in alcune zone della città. È il caso della 57esima strada, la cosiddetta Billionaires’ Row, l’ultima in cui si può costruire senza limiti di altezza. A soli due isolati da qui si trova Central Park. Va da sé che acquisire air rights in questa zona può fare veramente la differenza per le tasche di un costruttore. In alcuni quartieri gli air rights sono così ambiti da portare i costruttori a trattative estenuanti che possono durare per anni. Ecco perché nel tempo sono nate vere e proprie figure e realtà specializzate nel settore.

Costruttori a caccia di air rights per attrarre investimenti
L’aria a New York è come un terreno invisibile sopra al quale costruire ancora e ancora, fino a toccare il cielo. E non è tutto. Come fa notare il portavoce di Artis, infatti, «gli air rights non incidono solo sul prezzo finale dell’immobile, ma anche sulla possibilità di attrarre investimenti sul progetto». Quanti più air rights si avranno, tanto più si riuscirà ad attirare capitali per finanziare il proprio edificio. Chissà cosa si inventeranno i costruttori quando i volumi di aria a disposizione saranno finiti. Scriveva Pratolini: «anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate». Aveva ragione.

«In Spagna si sta affermando il neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città, Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo è far nascere una rete europea delle città ribelli». MicroMega online, 21 aprile 2017 (c.m.c.)

Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.

Il neomunicipalismo è figlio del movimento del 15M, gli Indignados, che hanno invaso le piazze spagnole nel maggio del 2011. La reazione alla grande crisi, che stava distruggendo, con le contro-riforme del governo Zapatero e poi del governo Rajoy, il fragile Welfare state spagnolo, è stata imponente e ha permesso la politicizzazione di una nuova generazione che negli anni della bolla immobiliare viveva per lo più nell’apatia politica. Il triennio 2011-2013 è stato quello delle grandi manifestazioni, delle Mareas in difesa della sanità e dell’educazione pubblica, del radicamento degli Indignados nei quartieri delle città, della lotta contro gli sfratti portata avanti dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), di cui Ada Colau, attuale sindaca di Barcellona, era la portavoce.

La disoccupazione aveva toccato i drammatici record greci (27%), le famiglie che avevano perso la casa erano oltre 500mila, i giovani che emigravano circa 100mila l’anno. Il sistema spagnolo, nato con la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, era entrato in cortocircuito: non si trattava solo di una crisi economica e delle sue tragiche conseguenze sulla popolazione, ma di una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale.

Partecipazione, trasparenza e confluencia
È in questo contesto che nasce la scommessa neomunicipalista. E il caso di Barcellona è senza dubbio quello più emblematico. Nei mesi in cui a Madrid un gruppo di giovani professori universitari lancia Podemos con l’obiettivo di presentarsi alle elezioni europee del maggio 2014, nel capoluogo catalano una dozzina di attivisti con alle spalle le lotte dei primi anni Duemila, in cui Genova, il movimento no global e l’esperienza dei dissobedienti italiani sono stati riferimenti costanti, capisce che la sfida dev’essere lanciata a livello locale. L’obiettivo non è il Parlamento europeo e nemmeno quello spagnolo o quello catalano, ma la città di Barcellona.

Nel giugno del 2014 si presenta un manifesto, Guanyem Barcelona, ossia Vinciamo Insieme Barcellona, con cui si invita la cittadinanza a partecipare. Ci si dà poco più di due mesi di tempo per raccogliere 30mila firme. Se non si ottengono, non si fa nulla. Non ci sono i partiti, non ci sono le fantomatiche quote. Sono mesi di assemblee pubbliche in tutti i quartieri della città, in cui si ascoltano le persone, soprattutto quelle più colpite dalla crisi e dalle politiche di austerity. Di firme se ne raccolgono molte di più ben prima della scadenza prevista. Inizia così un progetto che oggi è una solida realtà che governa la seconda città della Spagna e che passerà a chiamarsi Barcelona en Comú.

Il resto è storia ed è ormai conosciuto. L’attento e faticoso lavoro per costruire una confluencia con le formazioni politiche della sinistra catalana che decidono di sommarsi a questo progetto: Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), Podemos, Equo, Procés Constituent. In una confluenza non si ragiona per quote come in una coalizione, ma secondo la logica “una testa un voto”. Non è facile, ma ci si riesce: nasce un nuovo soggetto politico in tutto e per tutto, un nuovo spazio dove le regole sono diverse. Ma fin da subito c’è l’elaborazione di un codice etico, con cui si limitano mandati e stipendi, e di un programma, costruito insieme alla cittadinanza. Infine, e solo come ultimo passaggio, c’è la creazione di una lista con una candidata che nessuno mette in discussione: Ada Colau. Il tutto, è bene ricordarlo, con processi di votazione, sia presenziale sia on-line gestiti da una società che, a differenza del Movimento 5 Stelle, non ha collegamenti con i vertici politici della formazione.

Dal maggio del 2015 si è fatto molto, per quanto gli ostacoli e le difficoltà siano state tante. Innanzitutto perché governare in minoranza non è facile. Il sistema politico spagnolo è diverso da quello italiano, non c’è il ballottaggio e la lista vincente non ottiene la maggioranza assoluta nel consiglio comunale. Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41: per arrivare ai 21, che significano la maggioranza, la strada è impervia, tenendo poi conto che la frammentazione politica è notevole con ben sette formazioni spaccate non solo sull’asse destra/sinistra, ma anche su quello indipendenza catalana sì/no. Nella primavera del 2016, dopo una consultazione tra gli iscritti a Barcelona en Comú, si è arrivati a firmare un accordo con i socialisti che sono entrati nel governo.

La maggioranza è ancora lontana, ma senza dubbio è stato un passo avanti, non scevro da dubbi e critiche. Ma le difficoltà sono poi nel reale potere dei Comuni in Spagna dopo la ricentralizzazione portata avanti dai governi del PP negli ultimi anni con la scusa degli sprechi delle amministrazioni locali: con la legge Montoro, i Comuni, oltre ad essere stritolati dalle politiche di austerity, non possono nemmeno spendere a fini sociali l’eventuale avanzo di bilancio. Infine, rimane la vexata quaestio della relazione tra movimenti e istituzioni: il rischio, sempre presente, è quello di una istituzionalizzazione del progetto una volta dentro il palazzo.

Due anni di governo

I primi mesi di governo sono stati difficili anche per la dura campagna di stampa dei grandi mass media. “Non sono capaci di fare politica. Non sanno gestire un’amministrazione. Non è gente preparata”, si ripeteva continuamente. Dopo due anni ci si rende conto che non è stato così. I bilanci dei Comuni, non solo quello di Barcellona, ma anche degli altri governati da liste neomunicipaliste, non sono più in rosso, come in passato. Ed anzi si è ridotto il debito creato dalle destre: a Madrid, in solo un anno e mezzo, Manuela Carmena ha ridotto di quasi 2 miliardi di euro il debito del Comune sui quasi 6 miliardi che si era trovata quando è stata eletta. Le radicali misure di trasparenza, insieme alla limitazione degli stipendi, ha dato i suoi frutti. E allo stesso tempo si sono aumentate le politiche sociali.

A Barcellona si sono finanziate fin da subito le mense per gli studenti, si sono investiti 150 milioni di euro in un Piano per i quartieri, si sono costruiti nuovi asili e si sono rimunicipalizzati quelli che erano stati privatizzati, si è avviato un piano per ricollocare le famiglie sfrattate e un piano di costruzione di case popolari, oltre ad obbligare le banche a mettere sul mercato gli appartamenti sfitti a canone sociale e a multare quelle che si negano. Si sono poi fatte pressioni sulle grandi compagnie di acqua, luce e gas per evitare che alle famiglie a rischio povertà vengano tagliati i servizi durante l’inverno. Si è avviata la costruzione della prima impresa di energia elettrica comunale – sarà la più grande di tutta la Spagna – che a breve potrà servire 20mila cittadini e di un’impresa di onoranze funebri comunale che ridurrà di circa il 50% i costi rispetto a quelle private esistenti attualmente.

Si sono potenziati i trasporti pubblici, sia il metro che gli autobus, si stanno costruendo 62,5 km in più di piste ciclabili in tutta la città e si è avviato l’esperimento delle superilles – ossia, spazi in cui si vieta la circolazione di veicoli – con l’obiettivo di trasformare Barcellona in una città ambientalmente sostenibile. Si è lavorato poi molto sul grande problema del turismo e della conseguente gentrificazione – Barcellona riceve oltre 27 milioni di turisti l’anno –, approvando il PEUAT, un piano comunale che proibisce la costruzione di nuovi hotel in tutto il centro cittadino, e multando con 600mila euro AirBnB che mantiene sul suo portale annunci di appartamenti senza licenza. Il tutto sempre con la partecipazione della cittadinanza: il nuovo Programa de Actuación Municipal (PAM) è stato elaborato grazie a 430 assemblee nei quartieri e alla piattaforma web decidim.Barcelona (“decidiamo.Barcellona”), tramite cui si sono raccolte oltre 10mila proposte fatte da associazioni attive nella città o da singoli cittadini, che sono state votate da più di 130mila persone.

Se ciò non bastasse, tante sono state le battaglie ancor più direttamente politiche che sono state fatte: per la chiusura dei CIE, scontrandosi con il governo spagnolo; per una memoria storica democratica, recuperando la storia degli sconfitti troppo spesso dimenticati dalle istituzioni; per la femminilizzazione della politica, che va ben al di là delle sole “quote rose” e riguarda tutti gli ambiti della vita istituzionale e non. E poi la questione dei rifugiati e dell’accoglienza in un’Europa sempre più chiusa nella sua fortezza, divorata da nazional-populismi xenofobi: nel settembre del 2015 Ada Colau ha lanciato la proposta delle Ciudad Refugio, le città rifugio, permettendo così la creazione di una rete di “città ribelli” che in tutta la geografia spagnola lavora con altre priorità, mettendo in comune nuove esperienze e nuove pratiche.

Oltre il Comune

Il Comune, però, non è l’unico obiettivo di un progetto politico che guarda oltre le frontiere della città. E questa è la grande forza del neomunicipalismo di Barcelona en Comú. Il Comune è il primo step, un livello in cui la distanza tra governanti e governati è minore, in cui il contatto con la cittadinanza e con il tessuto associativo è sempre presente, in cui le battaglie che si portano avanti hanno una ricaduta immediata.

Ma bisogna andare oltre. In primo luogo, per quanto riguarda il caso di Barcellona, la realtà catalana, ma poi anche la Spagna e l’Europa. Perché? Lo ha spiegato recentemente Ada Colau: “«Non è un caso che il municipalismo sia sempre più presente. È stato un errore democratico non considerare le città come degli attori politici. E si sta dimostrando che se vogliamo migliorare e approfondire la democrazia, le città non possono solo amministrare perché dobbiamo affrontare le grandi sfide globali che ci pongono gli Stati: il cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la disuguaglianza, le migrazioni… Le grandi sfide globali hanno luogo nelle città e non si tiene conto politicamente delle città. I Comuni devono avere più voce e più voti, più capacità di decisione e più peso politico».

Dopo oltre un anno di riunioni e di incontri pubblici in tutta la geografia della Catalogna, è nato lo scorso 8 aprile il nuovo soggetto politico catalano che segue il modello di Barcelona en Comú. «L’apparizione di questo spazio politico ha molto a che vedere con la crisi politica in cui viviamo, la nostra democrazia non funziona come dovrebbe e molte persone hanno deciso di implicarsi e corresponsabilizzarsi per migliorare le forme di fare politica», queste sono state le parole di Ada Colau l’8 aprile. Il nome del nuovo partito non è ancora stato stabilito, probabilmente sarà quello di Catalunya en Comú o di En Comú Podem, che è il nome della coalizione che ha vinto le elezioni politiche generali in Catalogna sia a dicembre 2015 che a giugno 2016, mandando al Parlamento di Madrid ben 12 deputati guidati dallo storico e attivista Xavier Domènech.

Si tratta di una confluenza che riunisce, nonostante i dubbi e le frizioni con un settore del Podemos catalano, le stesse formazioni che hanno dato vita a Barcelona en Comú e che è nato con un processo partecipativo chiamato Un País en Comú (“Un Paese in Comune”): un programma e un codice etico costruiti con la cittadinanza in un contesto estremamente complesso come quello catalano, con la questione dell’indipendenza – difesa dall’attuale governo regionale – sempre sulle prime pagine di tutti i giornali. Rompere il frame indipendenza sì/indipendenza no con un programma centrato sulle politiche sociali, sui beni comuni e sulla difesa di un referendum non sarà facile per il nuovo soggetto politico lanciato da Ada Colau. Vedremo i primi risultati in autunno, quando molto probabilmente si terranno le elezioni regionali anticipate.

Ma non c’è solo il livello catalano che è indispensabile per dare respiro ai Comuni “ribelli”, facendo pressioni sul governo regionale e su quello nazionale per modificare leggi e politiche restrittive. La sfida neomunicipalista guarda molto più in là dei Pirenei. C’è l’Europa, in primo luogo, ma in realtà c’è tutto il mondo. Lo si fa con umiltà e senza fretta, seguendo la massima “andiamo piano perché andiamo lontano”. All’interno di Barcelona en Comú, che è un partito “pesante”, e non “leggero” come Podemos, vi è infatti una commissione internazionale che lavora da oltre un anno a una mappatura dei progetti neomunicipalisti esistenti in tutto il globo: da liste civiche nate dal basso che governano alcune città, grandi come Napoli o la cilena Valparaíso o piccole come l’inglese Frome, a progetti che hanno fatto il salto alla politica e che si trovano ora all’opposizione in Comune, come Coalizione Civica a Bologna, Buongiorno Livorno o Ciudad Futura a Rosario in Argentina, fino a movimenti con un’agenda municipalista che non hanno ancora deciso di presentarsi a delle elezioni in Italia, Francia, Polonia, Stati Uniti, Germania, Grecia, Danimarca e un’infinita di altri paesi. L’obiettivo è quello di creare una rete municipalista internazionale.

Per questo i prossimi 9-11 giugno si terrà a Barcellona un incontro internazionale chiamato Fearless Cities, città senza paura, a cui parteciperanno centinaia di progetti neomunicipalisti provenienti da tutto il mondo, per condividere pratiche e tessere relazioni in vista di quello che sarà il nuovo step di questa scommessa: riportare la politica tra le persone, renderla partecipativa, promuovere politiche di accoglienza, rompere le gabbie delle leggi di bilancio schiave dell’austerity. O come ha detto recentemente Ada Colau: «considero che il municipalismo è essenziale per migliorare la nostra democrazia. Questo è il secolo delle donne e il secolo delle città. E il luogo migliore per vivere questo momento politico così appassionante è il municipalismo, che non è altro che l’amministrazione più vicina alla cittadinanza».

«Un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale porta alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto».comune-info, 24 aprile 2017 (c.m.c.)



A Barcellona, ​​più di 4.700 iniziative socio-economiche si ispirano ai valori della cooperazione, dell’orizzontalità e dell’autogestione. Sono l’espressione dell’economia sociale e solidale catalana, esperienze che allo stesso tempo si configurano come pratica economica e come movimento sociale.

Nel 2016 Anna Fernàndez e Ivan Miró pubblicano un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale a Barcellona, portando alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto. Gli autori presentano un lavoro di ricerca che ha fatto emergere una realtà che a Barcellona è radicata da molto tempo e che conta oltre 4.700 iniziative socio-economiche, pari al 2,8% del totale delle imprese registrate, distribuite nei differenti quartieri della città (vedi cartografia). Un insieme di realtà dove trovano lavoro più di 53.000 persone, pari all’8% dell’occupazione totale e che partecipa al 7% del PIL della città. Ma di preciso di cosa stiamo parlando?

L’economia sociale e solidale nei quartieri di Barcellona

Senza entrare nel dibattito sui concetti, per il quale si rimanda al documento prodotto da RIPESS nel 2015, riportiamo integralmente la definizione che il volume dà riprendendola da una proposta di legge redatta nel 2015 dalla rete di economia solidale catalana, la XES Catalunya: «[…] si definisce l’economia sociale e solidale come un insieme di iniziative socio-economiche i cui membri, in modo associativo, cooperativo, collettivo o individuale, creano, organizzano e sviluppano democraticamente e senza dover necessariamente avere scopi di lucro, processi di produzione, di scambio, di gestione, di distribuzione delle eccedenze, di sistemi monetari, di consumo e di finanziamenti di beni e servizi volti al soddisfacimento dei bisogni. Promuovono relazioni di solidarietà, cooperazione, reciprocità, basate sul dono e la trasformazione egualitaria della economia e della società; hanno come finalità la promozione del bien vivir e la sostenibilità e la riproduzione della vita di tutta la popolazione».

Riportare la vita al centro e ripartire dalle relazioni

Si tratta di un paradigma che, contrapponendosi a quello dominante, rimette al centro la vita umana e le relazioni, ponendo l’accento sulla necessità di portare sullo stesso piano produzione e riproduzione. Produrre per rispondere alle necessità umane nel riconoscimento del ruolo fondamentale che ha il processo di riproduzione. Si tratta di un modello socio-economico che mette in secondo piano la formalizzazione giuridica delle entità, raccogliendo al suo interno realtà di differente tipo. La prima parte del lavoro di Fernàndez e Mirò illustra in maniera dettagliata e con dati alla mano la pluralità delle esperienze che compongono il panorama dell’economia sociale e solidale barcellonese: cooperative di lavoro, di servizi, di consumatori e di utenti; cooperative per l’abitare e per la formazione; le mutue e i servizi bancari e di credito che promuovono la finanza etica; il terzo settore sociale e imprese per l’inserzione e l’avviamento al lavoro; gruppi di consumo, orti urbani e banche del tempo; forme di autogestione comunitaria di strutture ed edifici pubblici e altri ancora.

Risulta evidente come non siano la forma giuridica o il settore di riferimento a determinare quali siano le esperienze afferenti all’economia sociale e solidale, quanto piuttosto un insieme di criteri che spaziano dall’equità di genere alla sostenibilità ambientale, dalla democraticità dei processi decisionali alla [re]distribuzione egualitaria della ricchezze e altri ancora. Certo non sempre è facile stabilire un confine netto tra chi è dentro e chi è fuori, ma trattandosi di pratiche che hanno l’ambizione di trasformare la società in cui intervengono, si tratta di percorsi e processi sempre perfezionabili e in continuo mutamento. Una questione, quest’ultima, messa in luce anche da un’altra esperienza del panorama catalano volta alla mappatura delle realtà dell’economia solidale del territorio. Si tratta del Pamapam, una pratica di collaborative mapping realizzata dalla ONG Setem Catalunya su base volontaria per intervistare, conoscere e, successivamente, mappare pratiche solidali.

Verso un nuovo modello di città: cooperativa, solidale e per il bene comune

La seconda parte del volume è dedicata alla configurazione dello spazio urbano di Barcellona con un approfondimento su alcuni suoi quartieri emblematici che, provenendo da traiettorie storico-culturali nonché socio-economiche differenti, sono oggi protagonisti nella definizione di un modello di spazio urbano che si ponga come alternativo a quello dominante. Quest’ultimo ha dato alla luce un modello di città che già nell’89 fu definito da David Harvey “entrepreneurial city” (città imprenditoriale), così indicata per l’accumulazione del capitale con i conseguenti fenomeni di privatizzazione e mercificazione di risorse pubbliche, esclusione di intere fasce della popolazione, finanziarizzazione della rendita urbana e depauperamento del patrimonio storico-culturale nonché dell’ambiente stesso.

Fernàndez e Mirò mostrano come nei differenti quartieri sia in atto una – riprendendo le parole di Lefebvre – produzione sociale dello spazio urbano volta ad affermare pratiche collettive e solidali, nel perseguimento del bene comune. Così sta accadendo alla Barceloneta, quartiere con un forte passato cooperativo e che oggi soffre una forte pressione turistica, o a Sants, quartiere di tradizione operaia dove si incontrano pratiche di autogestione di aree ed edifici dismessi minacciati da progetti immobiliaristi.

Gli autori hanno messo in luce i punti di forza e di debolezza di un fenomeno che a Barcelona sta crescendo in maniera esponenziale. Ne è un dato chiaro anche la costituzione del Commissionat de Economía Cooperativa, Social i Solidaria i Consumo da parte della sindaca Ada Colau, eletta nel giugno del 2015 con la piattaforma cittadina nata con il nome di Guanyem Barcelona – Vinciamo Barcelona – e oggi conosciuta come Barcelona en Comú. La giunta comunale dichiara così apertamente qual è il modello socio-economico che intende perseguire, un modello improntato proprio al paradigma dell’economia solidale.

Articolo pubblicato anche su Labsus – Laboratorio per la Sussidiarietà

«Siamo una cittadina di provincia, con reati in calo e criminalità sotto controllo. Cosa dovrebbero fare allora a Milano o Torino: mettere un fossato con le mitragliatrici?”». La Stampa online, 4 marzo 2017 (p.s.)

Un quartiere-bunker a due passi dal centro storico: è il villaggio “Borgo San Martino”, a Treviso, difeso da un muro alto quasi tre metri. Una zona esclusiva e inaccessibile, dove abitano prevalentemente liberi professionisti: un progetto che sarebbe stato un orgoglio all’epoca del sindaco-sceriffo Gentilini.

Per ora ci sono 21 case, ma solo una è ancora acquistabile. Ai nastri di partenza un ampliamento con altre sette villette a due piani, nell’ambito di una lottizzazione che arriverà a 50 edifici complessivi. Il costo non è proibitivo: per 150 metri quadrati si parte da 320 mila euro, per giungere fino a 410 mila. Da non sottovalutare le spese di gestione, comprese quelle per la piscina comune. Per ora, niente guardie giurate, ma video-sorveglianza per ogni singolo alloggio: quando il compendio immobiliare sarà concluso, si pensa ad una figura ibrida tra portiere e vigilante.

Il fortino è però finito nel mirino di Italia Nostra, che ha accusato il Comune di aver autorizzato una costruzione che non rispetta la normativa urbanistica. «Il Veneto è la terra delle deroghe e delle proroghe - ha ricordato il presidente provinciale dell’associazione ambientalista Romeo Scarpa -, quindi nessuno stupore particolare. Inoltre, vanno stigmatizzate queste iniziative che si basano sul livello di percezione della sicurezza, non su quella reale. Siamo una cittadina di provincia, con reati in calo e criminalità sotto controllo. Cosa dovrebbero fare allora a Milano o Torino: mettere un fossato con le mitragliatrici?».

«Sicuramente la nostra idea non è quella di quartieri ‘fortificati’ o ‘murati’, Treviso è una città sicura e di certo non ha bisogno di ‘alzare barriere’ - gli ha fatto eco il sindaco Giovanni Manildo -. Rispettiamo e promuoviamo il diritto di ciascuno alla protezione e alla privacy. In realtà, la ditta aveva fatto una richiesta di poter realizzare una protezione acustica, una barriera antirumore, per la quale avevamo rilasciato le autorizzazioni del caso. Chiederemo che intervenga per rendere più verde la struttura».

Alla società che ha ideato il villaggio blindato si fregano le mani per l’eco che la polemica sta garantendo: «I telefoni squillano in continuazione - conferma il titolare Remo Berno, emigrante italo-australiano - e la richiesta è pressante. C’è desiderio di privacy e i nostri residence la garantiscono. Il polverone sollevato a Treviso è strumentale: c’è un villaggio gemello a Castelfranco Veneto, ma lì nessuno dice nulla. E nemmeno a Jesolo, dove queste lottizzazioni impenetrabili sono presenti da tempo. Ad Arese esistono addirittura dagli anni Settanta».

«La sicurezza è intesa a 360° - fa sapere una giovane mamma che abita nel “Borgo”-: vicini di casa selezionati, un clima famigliare, bimbi che possono giocare negli spazi comuni senza il rischio di venire investiti dalle auto. Circa i malintenzionati, sono disincentivati dalla presenza della barriera perimetrale».

Quello di San Martino non è l’unico muro invalicabile: a fianco c’è quello della casa di riposo e pochi passi più in là quello del carcere. Da lì, però, i malfattori vorrebbero andarsene più che cercare di entrare.

Nel giorno dell'assegnazione degli Oscar, vi raccontiamo una storia di un cinema abbandonato. Ha un lieto fine, per quanto provvisorio e affidato esclusivamente alla buona volontà dei cittadini. (m.b.)

Era un cinema, andò bruciato
Lo prese il comune, fu ristrutturato
Finirono i soldi, fu abbandonato
Non ci volle molto, fu vandalizzato
Lo chiesero in tanti, non fu riassegnato
Finché un bel giorno, fu occupato
E senza permesso, risistemato.

A Catania, da qualche mese, è stato occupato il vecchio cinema San Cristoforo-Midulla, ristrutturato negli anni novanta come centro polifunzionale grazie ai fondi speciali del programma "Urban", e poi abbandonato per mancanza di risorse ordinarie. E' una storia piuttosto comune, nel sud Italia e non solo, provvisoriamente a lieto fine grazie all'iniziativa della cittadinanza attiva.

Sul sito del Labsus (Laboratorio di sussidiarietà) potete conoscere i dettagli dela storia dell'ex Cinema Midulla. Sul sito degli Attivisti per il Medulla trovate il resoconto delle cose fatte nel primo mese di attività.

Nota

A Pistoia, durante la scuola di eddyburg, parleremo delle strutture culturali di prossimità. Proveremo a capire se e in che modo, attraverso i piani urbanistici e l'iniziativa delle amministrazioni locali, si possano scrivere storie a lieto fine, possibilmente senza passare attraverso ristrutturazioni effimere, chiusure e degrado, occupazioni con o senza sgomberi. A seguire, si svolgeranno i quattro giorni di incontri pubblici dell'iniziativa Leggere la città, quest'anno dedicata al tema Cultura è comunità. Sul sito della scuola, sono disponibili le informazioni per partecipare. Vi aspettiamo (m.b.).

«La città catalana rilancia la scommessa su un modello di urbanistica partecipata, definendo macro-isolati a vocazione prevalentemente pedonale». ilgiornaledell'Architettura, 4 dicembre 2016 (m.c.g.)

BARCELLONA. Se c’è una cosa che non manca alla città catalana, è la capacità di mettersi in gioco. La Giunta guidata dalla sindaca Ada Colau mantiene le promesse lanciate in campagna elettorale: “Urbanistica a vocazione sociale”, uno degli slogan del programma del partito Barcelona en Comú, si traduce nella ferma decisione d’investire in attenzione concreta ai residenti, soprattutto nei quartieri meno agiati, ed abbandonare le opere faraoniche od il primato dell’investitore privato e del turista come referente del business cittadino.

Tra le “ossessioni” dell’attuale sindaco, oltre alle pari opportunità per gli abitanti e le case popolari, c’è quella di limitare la presenza del traffico su gomma, che al momento occupa il 60% dello spazio pubblico, e ridurre così del 30% le emissioni di anidride carbonica. Così, il Comune ha deciso di prendere in mano un progetto promosso da amministrazioni precedenti e riguardante niente meno che il ripensamento dell’idea di città, con il pedone come protagonista.

L’idea dei macro-isolati non è nuova a Barcellona: il primo fu istituito nel 1993 vicino alla Chiesa di Santa Maria del Mar, nel quartiere del Born, a cui seguirono altri due a Gràcia nel 2005; ma il primo progetto risale al 1987 ed è ascrivibile a Salvador Rueda, attuale direttore dell’Agenzia di ecologia urbana della città. La sindaca Colau ne ha fatto una priorità, ha stanziato 10 milioni e la prima Superilla è già stata inauguarata nel quartiere Poblenou.

Secondo la definizione che ne dà il Comune, il Programma Superilles “Riempiamo di vita le strade” (2016) è un progetto di città rivolto al miglioramento della vita delle persone. Tutto ruota intorno alla messa a punto di un modulo in grado di configurare nuovi spazi di convivenza, secondo un modello organizzativo del tessuto urbano pensato in primis per i residenti. Un’opportunità per favorire la mobilità sostenibile, la produttività, il verde e la biodiversità, così come gli spazi di sosta per il pedone. L’idea consiste nel definire il perimetro d’un insieme d’isolati che deve assorbire la maggior parte del traffico privato e pubblico, mentre l’interno viene destinato ad uso esclusivo di residenti, pedoni e biciclette.

In pratica, l’attuale Superilla è un modo differente di distribuire la mobilità, studiato ad hoc per la trama urbana definita nell’Ottocento da Ildefonso Cerdà: in un ambito formato da nove isolati, il traffico veicolare viene deviato in modo da evitare il transito all’interno della zona vedendosi obbligato a tornare verso le strade perimetrali del macro-isolato. Al suo interno le auto circolano a 10 km all’ora su un’unica corsia, con l’obiettivo di ridurne al minimo i passaggi. Vengono eliminati i parcheggi negli incroci e così si liberano circa 2.000 mq che restano ad uso praticamente esclusivo dei pedoni. Anche le strade interne alle Superilles si trasformano in luoghi più accessibili al pedone, oltre che meno rumorosi, più verdi e gradevoli, in linea con la vocazione della città mediterranea.

Josep Maria Montaner, regidor del distretto di Sant Martì [a Barcellona ciascuno dei dieci quartieri in cui è suddivisa la città ha una sorta di “sottosindaco” che fa a sua volta riferimento alla sindaca Colau; nda], dove a settembre è stata inaugurata la prima Superilla, è tra i ferventi sostenitori del progetto: l’obiettivo è coinvolgere il 58% delle strade e aumentare di 380 ettari gli spazi verdi del quartiere. Secondo Montaner, il macro-isolato del Poblenou è da intendersi come un esperimento, come banco di prova per verificarne il funzionamento ed eventuali criticità, con un investimento tutto sommato modesto (55.000 euro).

La consigliera per l’urbanistica della Municipalità, Janet Sanz, ha affermato in diverse occasioni che questi cambiamenti saranno realizzati gradualmente mediante azioni di tipo reversibile, con l’imprescindibile partecipazione dei residenti, secondo un’idea di “democrazia aperta” imprescindibile per questa giunta: l’uso dei nuovi spazi deve essere deciso in collaborazione con i residenti, attraverso diverse modalità di confronto.

Coraggiosa e trasparente, da parte del Comune, è la scelta di rendere noti, in un documento pubblicato lo scorso ottobre, i risultati delle considerazioni espresse dai vari collettivi coinvolti nella consultazione popolare in seguito all’inaugurazione della Superilla del Poblenou. Decine di proposte e critiche raccolte in occasione della giornata aperta di valutazione del progetto, dei dibattiti cittadini tenutosi sul posto, delle riunioni dell’Amministrazione con enti, imprese, scuole con sede nel quartiere, oltre a quelle raccolte in un’apposita cassetta.

Anche circa 200 studenti delle Scuole di Architettura cittadine sono stati coinvolti per redigere proposte. I dati raccolti sono ora al vaglio dell’Amministrazione, che è disposta a modificare il modello iniziale laddove risultasse meno soddisfacente del previsto ma che assicura che questa Superilla è solo la prima di una lunga serie.

«Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale».Millenniourbano online, 21 settembre 2016 (c.m.c.)

Chi non vorrebbe vivere in un quartiere fatto di edifici di dimensioni limitate, strade facilmente percorribili a piedi, tanti negozi per le necessità quotidiane, le scuole, i servizi e un parco a distanza ravvicinata? La risposta è ovvia e tuttavia la vera domanda da porsi è la seguente: esistono quartieri con quelle caratteristiche o si tratta di uno spazio urbano ideale che trova scarsi riscontri nella città contemporanea?

In Vita e morte delle grandi città Jane Jacobs ha individuato quattro fondamentali fattori in grado di evidenziare il buon funzionamento di un quartiere: la presenza del maggior numero di funzioni di base (abitazioni, attività commerciali, imprese, servizi, ecc.), la piccola dimensione degli isolati che ha come conseguenza il maggior numero di strade da percorrere e di “angoli da svoltare”, edifici di diversa età e condizione e, infine, una buona densità di popolazione per favorire l’incontro delle persone. Queste caratteristiche non erano teoriche ma appartenevano al quartiere dove Jane Jacobs viveva. La sua osservazione, elaborata a partire dall’esperienza diretta e per scongiurare i progetti di rinnovamento urbano dell’urbanistica razionalista novecentesca, le ha consentito di individuare gli ingredienti che meglio definiscono la vitalità urbana.

Il punto di vista della giornalista che a New York abitava dalla metà degli anni ’30 del secolo scorso, non può tuttavia essere considerato in maniera avulsa dal momento storico in cui ha preso forma. Ancora alla fine degli anni ’50, periodo a cui risale la stesura del suo libro, New York era una città industriale e allo stesso modo nel Greenwich Village, il quartiere dove Jacobs ha vissuto fino al 1968, la presenza delle attività produttive era molto cospicua. Che cosa ha dunque in comune lo spazio dove risiedeva una folta rappresentanza della working class di una città fortemente industriale con l’odierno quartiere esclusivo di uno dei principali centri finanziari del mondo?

E’ questo il punto dal quale partono le considerazioni di Benjamin Schwarz, autore di The American Conservative, implacabilmente intese a smontare il mantra del quartiere urbano vitale (stigmatizzato attraverso il suo acronimo VUN, Vibrant Urban Neighborhood), come sintesi avulsa dalla contemporaneità di un contesto spaziale cancellato da più di mezzo secolo di trasformazioni fisiche e sociali.

Cosa differenzia l’ideal tipo del quartiere vitale osservato da Jane Jacobs dai bei propositi dell’urbanistica post-novecentesca? La risposta è semplice – secondo Schwarz – e riguarda la mancanza di quella componente demografica che sostiene con la propria evoluzione la vitalità del quartiere: i bambini. In Cities without children Schwarz stigmatizza i cosiddetti VUN come ambiti urbani sostanzialmente privo di ciò che a Mother Jacobs è servito come lente d’ingrandimento per le sue osservazioni: i figli, i suoi e quelli delle altre famiglie del vicinato.

Posti come il Village e molti altri distretti urbani alla moda sulle due sponde dell’Atlantico, sono ben altro – sostiene Schwarz – che quartieri dotati di tutti quegli ingredienti che ne sostengono la vita rendendoli vivaci e vivibili. Si tratta, più che altro, di parchi di divertimento per giovani adulti, quei 20-30enni senza figli (e nemmeno in procinto di averne) a cui poco interessa della presenza di scuole e di spazi adatti allo sviluppo di individui in crescita.

D’altra parte non è difficile rendersi conto del fenomeno, al quale Schwarz allude tirando in ballo anche la mitica Creative Class di Richard Florida. Provate ad aggirarvi per il centro storico di Amsterdam o per il Navigli district di Milano o tra le strade di Kazimierz, l’ex quartiere ebraico di Cracovia, giusto per fare tre esempi a caso, e vi renderete conto che la piramide demografica per certi settori urbani, particolarmente attrattivi per la loro vitalità, è una espressione priva di significato. Solo giovani, quasi nessun bambino e qualche residuale esponente delle altri classi d’età che si aggira come un pesce fuor d’acqua tra bar, ristoranti e negozi nei quali, probabilmente, non sente nessun bisogno di entrare.

Sembra allora che esista un malinteso sul concetto di vitalità urbana e se è così esso ha a che fare con la distorsione dell’idea di diversità che si pretende di individuare nei quartieri più vivaci e desiderabili. Non basta trovarsi tra persone che parlano lingue diverse e a cui piace sperimentare la cucina di diversi paesi :è la diversità sociale e demografica a consentire ai distretti urbani di essere vitali nelle differenti ore della giornata e non solo al calar del sole.

D’altra parte Jane Jacobs ha descritto chiaramente nel suo libro quanto sia importante questo tipo di diversità per il luogo in cui viveva. «Se il quartiere dovesse perdere le sue attività industriali, per noi residenti sarebbe un disastro: molti esercizi commerciali scomparirebbero, non riuscendo a sostenersi con la sola popolazione residente. Viceversa se le attività industriali dovessero perdere noi residenti, scomparirebbero molti esercizi commerciali, che non troverebbe più nei soli lavoratori esterni la possibilità di sopravvivere.»

Se Jane Jacobs tornasse ad analizzare il quartiere dove ha fatto crescere i suoi figli, dovrebbe per prima cosa registrare tutte le trasformazioni che, così come in molti altri settori urbani sparsi per il mondo, sono state introdotte dalla scomparsa delle attività produttive. Il Village che i suoi occhi osservavano quasi sessant’anni fa è ora un luogo pieno di locali per hipster, non il quartiere che si animava per la pausa pranzo dei tanti operai italo-americani che affollavano la parte meridionale di Manhattan.

Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale che ha investito gran parte delle aree centrali dei centri urbani ad antica vocazione industriale e quanto sia vitale la presenza in quegli stessi luoghi di schiere di giovani creativi è fenomeno ancora tutto da dimostrare.

«Viaggio a Song-do, sede del Fondo Verde per il Clima, raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo e dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita». Sbilanciamoci info,19 luglio 2016 (c.m.c.)

Song-do, due ore e passa in metro da Seul, Corea del Sud, è una città costruita dal nulla, su 6,5 kilometri quadrati rubati al mare dalla mano dell’uomo che altera confini e morfologie. L’intenzione è di ospitare almeno 250mila persone in questo insediamento che sta diventando “trendy” al punto da convincere varie star di soap opera di andarci a vivere neanche fosse una Beverly Hills d’Oriente.

Ad oggi però ci sono solo costruzioni avveniristiche ultimate semivuote, qualche sparuto ciclista e cantieri che lavorano 24 ore su 24. Sullo sfondo canali pieni di navi mercantili. Camminando tra questi grattacieli di acciaio e cristalli, strade semivuote in attesa di essere riempite di auto, sembra di vivere in un Truman show del liberismo più sfrenato.

È ad Incheon che a suo tempo sbarcarono i contingenti delle Nazioni Unite con a capo il generale MacArthur, in una mossa azzardata che segnò le sorti della guerra di Corea. Un luogo simbolico quindi e non solo, celebrato da una placca al centro di CentralPark, che ribadice l’ impegno a proseguire la “missione di libertà e prosperità” per il popolo coreano. Oggi una statua di bronzo di MacArthur ricorda il luogo dello sbarco.

Non a caso Song-do è stata costruita all’interno di una delle quattro zone economiche libere della Corea, la Incheon-Free-Economic-Zone (IFEZ), per le quali il governo coreano ha investito qualcosa come 41 miliardi di dollari, su una superficie di 290 kilometri quadrati, la maggior parte conquistata al mare.

Quasi una città-stato nel quale chi investe gode di esenzioni fiscali e non solo. Una raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo, quello della reificazione del quotidiano, della natura trasformata in merce di consumo, dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita, pietre finte e alberi trapiantati sulla sabbia piatta, sferzata dal vento, gelido di inverno, caldo ed umido d’estate. Song-do ci racconta uno stato alterato di sovranità, o forse d’eccezione così ben descritto da Giorgio Agamben.

Il “G-building” ospita il governo della IFEZ (Incheon Free Economic Zone) – c’è addirittura un ambasciatore per le relazioni internazionali – ed anche gli uffici del Fondo Verde per il Clima, entità istituita per finanziare l’attuazione degli accordi sul clima di Parigi. Al piano terra entri e vieni accolto da uno schermo luminoso che proietta gli indici di borsa, negli ascensori un altro video ti spara un grafico per poi chiederti se hai fatto la tua dose di passi giornalieri per tenerti in forma. I marciapiedi sono quasi tutti in tartan, per biciclette e “runner”, ma ce ne sono assai pochi, in questa città che vuole essere una eco-città modello. Salta agli occhi la vera contraddizione, quella che vorrebbe applicare al liberismo una patina di verde e di tecnologie appropriate.

Oggi Song-do è considerata, non a caso, un modello di “green economy” costruito sostituendo un ecosistema dove vivevano 11 specie di uccelli migratori definiti di grande importanza dalla Convenzione di Ramsar, tra cui la “Platalea Minor”. Mentre le verdissime centrali “a zero emissioni di carbonio” sfruttano le energie delle maree distruggendo habitat costieri delicatissimi. Il paradosso è che uno di questi impianti, il più grande al mondo, il Siwha Tidal Power Plant è stato anche registrato come progetto del Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio.

A conflict of greens: Green Development versus Habitat Preservation-the case of Incheon, South Korea titolava un saggio a sottolineare la contraddizione tra capitalismo verde ed ecologia. Quale conversione ecologica potrà essere possibile in un luogo artificiale, dove i diritti sono sottomessi alle leggi del mercato e della finanza? Un luogo che pretende di essere laboratorio di un Green New Deal asettico e senz’anima?

Fa riflettere quella teoria , non corroborata da prove scientifiche, secondo la quale una città acquisisce una propria “anima” nello spazio di due generazioni o per essere precisi intorno a 70 anni o giù di lì. Allora, la Song-do di oggi sarà soppiantata da progetti ancor più avveniristici, già illustrati nel museo-mostra permanente dell’IFEZ. E ci vorranno altri 70 anni per la nuova “anima” della città. A pochi kilometri dall’aeroporto, in pratica uno “shopping mall” con piste di decollo ed atterraggio, sta nascendo un casinò enorme , dal costo, si dice, di un miliardo di dollari, per ricchi cinesi in cerca di azzardo e facile fortuna.

Ero già stato in una situazione simile, a Doha, Qatar, lì erano il gas ed il petrolio a fare da motore della trasformazione radicale dello spazio urbano, con braccia e mani di centinaia di migliaia di migranti che lavorano in condizioni di semi schiavitù. Anche lì una penisola rubata al mare, una vetrina dei migliori architetti in circolazione da Jean Nouvel a Norman Foster, anche lì una realtà artificiale, una Venezia in plastica al centro di un megacentro commerciale. Eppoi cantieri e cantieri, per far giocare gli opulenti ed annoiatissimi autoctoni al borsino della speculazione immobiliare, e trasformare il Qatar in un polo della conoscenza e della ricerca scientifica per tutta la regione ed attrarre ragazzi e ragazze nei nuovi campus e centri di ricerca.

Pare che il presidente ecuadoriano Rafael Correa si fosse innamorato del Qatar, non a caso gli sceicchi si stanno comprando mezza Quito, dopo avere conquistato Londra e la Milano da “bere”. Si innamorò di quella società che si vuole dire “post-petrolifera”, e che investe nella conoscenza, e dopo Doha si innamorò anche di Incheon. Così anche tra le Ande ecuadoriane, nacque Yachay, una sorta di Silicon Valley della conoscenza e delle biotech, disegnata dalla cura attenta di esperti coreani. Anche qua, come a Doha ed a Song-do si cerca di attrarre cervelli e docenti delle migliori università.

Saranno spazi extraterritoriali urbani come l’IFEZ, plasmati a tavolino, sospesi nello spazio e nel tempo, buchi neri dove vige l’esenzione dalle regole e dalle tasse, dai diritti dei lavoratori, a costituire la nuova frontiera del liberismo selvaggio che si nutre di risorse saccheggiate altrove. Fatto sta che Song-do oggi è uno di quei tanti luoghi di “extraterritorialità”, che fanno il pari con le Zone di Libero Scambio (Export Processing Zones) dedicate esclusivamente all’ esportazione – ricordo quella di Manaus – o Hong Kong – che assieme ai paradisi fiscali disegnano un’altra geografia del potere, un sistema reticolare di governo parallelo, impermeabile allo scrutinio pubblico, che non prevede anomalie o alternative.

Un esempio tra i tanti di “zone” (assai bene descritte in un saggio di Keller Easterly del 2014, Extrastatecraft: the power of infrastructure space) dove vengono ridisegnati poteri e sovranità, tra assetti statuali e di mercato.

Il modello “coreano” viene esportato ovunque nel mondo, non solo in Ecuador, ma anche ad esempio in Honduras, dove capitali coreani sostengono la creazione di charter cities, vere città stato autonome ed indipendenti, regolate solo dalla legge del mercato e del profitto. Viene da pensare alla City di Londra oggi all’indomani della Brexit, ed a chi pensa che la Brexit possa contrastare il disegno del capitalismo liberista e finanziarizzato.

Non si facciano illusioni, esistono già altri luoghi non-luoghi pronti a prendere il posto di Londra o di Francoforte sparsi lungo la densa rete di “città stato”, “città mercato” globali come disse a suo tempo Saskia Sassen, aree di libero scambio, zone economiche libere che stanno nascendo in ogni parte del mondo.

Così Song-Do, disegnata di sana pianta da una compagnia di progettazione, la Kohn Pedersen Fox, è una città “chiavi in mano” da riprodurre altrove nel mondo, con il suo Central Park, il suo World Trade Center ed i suoi canali di tipo Venezia del futuro, ed anche altre zone di libero scambio, un technopark e un biocomplex. I cessi elettronici degli hotel ti offrono varie opzioni, tra clistere automatizzato e massaggi del fondo schiena a temperatura regolabile. I supermercati vendono cosmetici tratti dalla manipolazione genetica di cellule staminali, per schiarire la pelle e regalare l’illusione dell’eterna giovinezza.

Un 'articolo sulla situazione ingessata a due anni dall'inizio dell'evento e un'intervista a Salvatore Settis. Con la speranza che non venga riproposto il modello Expo e che la città non venga "valorizzata" in una nuova Disneyland. Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2016 con postilla (p.d.)

MATERA, LA "VERGOGNA D'ITALIA"
IN CERCA DI RISCATTO CULTURALE
di Silvia D'Onghia
Dicono che il 17 ottobre 2014 a Matera si sia registrato un forte movimento tellurico. Nessun terremoto, però, ha scosso la città: solo un boato, provocato da sessanta mila cuori che hanno sussultato, nell’attimo in cui nelle lontane terre del ministero della Cultura è nato il riscatto. Non più rassegnazione, non più “vergogna d’Italia”, ma speranza, futuro, scommessa. Città europea della Cultura per il 2019, avamposto (il primo) di un Mezzogiorno ostinato e contrario. Sempre solidale, a volte sorridente; diffidente e geloso della propria storia, ma anche del proprio orrore.
C’aim' a fà’”, che dobbiamo fare, questa è la nostra vita e ce la teniamo. E invece no, non più. L’Europa porta nuova linfa tra i vicoli che scompaiono dietro le case, che poi case non sono. Semmai grotte riconosciute dall’Unesco nel 1993 patrimonio dell’umanità. Un riscatto cominciato una quindicina di anni fa – quando architetti e artisti iniziarono a rendere “residenze”quei Sassi, imbuti al contrario – e sigillato, adesso, davanti agli occhi del mondo. La “vergogna” resta chiusa nelle cisterne che un tempo – neanche lontano – portavano l’acqua piovana ma anche la tubercolosi.

La vittoria europea

Non solo di memoria si vive. La scommessa è trasformare il riscatto in Cultura. L’hanno capito i cittadini (e dopo anche i politici) che hanno candidato la città al riconoscimento europeo. E infatti il dossier “Matera 2019” è ricco di progetti. Costosi, ambiziosi e, si spera, fattibili. Si spera perché, a due anni e mezzo dallo scoccare del gong, quasi tutto è ancora da fare. Colpa dei soldi che non arrivano da Roma, della burocrazia e dei ricorsi, della mancanza di personale e delle regole del Patto di Stabilità. “Colpa del fatto che, subito dopo la designazione, si celebrava e non si monetizzava”, afferma il sindaco Raffaello De Ruggieri, avvocato lamalfiano ottantunenne subentrato in corsa, un anno fa. “Abbiamo a disposizione 109 milioni di euro che servono per mobilità, accoglienza e servizi. Non è molto, ma è un punto di partenza. Come punto di partenza deve essere il 2019, un’opportunità per restituire qualità sociale e urbana”.

La memoria di Cristo

“Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie. [...] Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. [...] Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa. [...] Sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste”. Così Carlo Levi, nel 1945, nella radiografia a colori di “Cristo si è fermato a Eboli” stigmatizzò quella che Togliatti, tre anni dopo, avrebbe definito, appunto, la “vergogna”. Abitazioni scavate nella roccia – un’architettura in negativo, sfruttata dal Paleolitico ai giorni nostri – ambienti unici in cui si viveva tutti insieme: uomini, donne, “un’infinità di bambini”, muli, maiali, galline sotto il letto. Una sola finestra, il riscaldamento affidato a un braciere e allo sterco degli animali; una cassa del pane, in cui tenere anche il foraggio, e un telaio, affittato d’inverno per vestire di stracci quelle creature mandate da dio, messe a dormire con l’aiuto dell’oppio nei cassetti del comò. Tutto visibile, ancora oggi, nelle grotte divenute musei per non dimenticare.

I progetti del dossier

A gestire la partita è la Fondazione Matera-Basilicata 2019, nel cui Cda siedono il Comune, la Provincia, la Regione, l’Università e la Camera di Commercio, e il cui direttore, il torinese Paolo Verri, è già conteso tra il governatore Pittella e l’omologo pugliese Emiliano. Due i pilastri del dossier: l’I-DEA e l’Open Design School. L’Istituto Demo-Etno-Antropologico servirà a mettere in Rete tutti gli archivi della Basilicata, pubblici e privati, per creare una sorta di “archivio degli archivi – racconta Rita Orlando, architetto materano prestato alla gestione, al monitoraggio e al follow up dei progetti – il più possibile in open source. L’Open Design School è la scommessa più grande: partendo dalla Cava del Sole, un workshop internazionale di 15 persone che, da settembre, dovrà ripensare gli spazi, le strutture, gli accessi alla città”.

Nota dolente, questa: per evitare che la parte nuova di Matera si trasformi in un unico enorme parcheggio, si è pensata una metropolitana da 36 milioni di euro. Finora, però, non è partito nemmeno un cantiere. “Abbiamo poi un progetto di alta formazione degli operatori culturali – prosegue Orlando – per recuperare il senso di comunità che le polemiche politiche hanno sfilacciato”. Già, la politica. A Matera non ne vogliono sentir parlare: il mare è lontano, le trivelle pure, le passerelle aumentano. Bisogna essere amici di tutti, i soldi arrivano da Roma.

C’è un oggetto che si vende nelle piazze dei Sassi, il cucù: un fischietto a forma di uccellino che veniva regalato dal fidanzato alla fidanzata prima del matrimonio. Più era decorato, più erano i soldi che l’uomo avrebbe messo nella vita coniugale. Per far sì che Matera non diventi una nuova Expo, servirebbe un enorme cucù.

“E' UNA CIVILTA' DELL'ABITARE
NON LA FACCIAMO DIVENTARE
UNA NUOVA DSNEYLAND”
di Alessia Grossi
Si dice rallegrato del successo di Matera il professore Salvatore Settis, “per due ragioni: perché è una città unica al mondo, bella, che attende un riscatto da troppo tempo, e soprattutto perché quest’ultimo è venuto direttamente dai cittadini, coscienti finalmente di essere in possesso di un bene straordinario”, spiega.

Questo riconoscimento lo vede come un'opportunità?

Sì. C'è stato un momento, negli anni '50 in cui quei sassi erano ritenuti qualcosa di selvaggio, di primitivo, una vergogna nazionale, da dimenticare, anzi, da demolire. La proposta non è mai stata fatta, ma si sarebbero volentieri fatti saltare in aria con una bomba. Da allora i cittadini hanno capito gradualmente che quello di cui erano in possesso era una vera e propria “civiltà dell'abitare” con tutte le sue peculiarità e la sua storia. Quindi hanno cominciato ad apprezzare i sassi. Questo riconoscimento europeo è l'opportunità di recuperare quella storia. E finalmente la coscienza degli abitanti è in continuità con il parere di molti che la ritengono una meraviglia.

Conosce il dossier presentato da Matera?

No, non lo conosco nei dettagli

Sa che si farà una metropolitana?

Ecco, non ne ero a conoscenza. Diciamo che - pur non avendo visto tecnicamente di cosa si tratta - non è la prima cosa che mi sarebbe venuto in mente di fare per la rivalutazione della città. L’ultima volta, non molto tempo fa che ci sono stato, ho visto ancora tante case disabitate e chiese bellissime in disuso e abbandonate. Credo che vadano prima di tutto recuperate queste che sono il simbolo della città e poi si dovrebbe pensare al resto. Però dipende sempre da come si fanno le cose. Se la metropolitana verrà costruita nel rispetto del centro storico e non lo trasformerà in una specie di Disneyland, potrebbe anche andare bene, anche se secondo me ci sono altri modi per portare i visitatori in città, facendo in modo che i pullman si fermino fuori.

Matera capitale europea della cultura da un lato e trivelle dall'altro, un ideale “scambio”?

Questo concetto non dovrebbe essere neanche pronunciabile. È come quando si dice che a Taranto c'è più lavoro anche se per lavorare si mette a repentaglio la vita dei cittadini. Io al Referendum sulle trivelle ho votato contro perché penso che siano dannose, mettano a rischio la salute dei cittadini e l'ambiente. Anche in questo caso sono stati i cittadini a fare una vera e propria battaglia per promuoverlo ottenendo ottimi risultati, nonostante poi non sia stato raggiunto il quorum. Lo “scambio” trivelle-sassi però purtroppo è vero che potrebbe esistere vista la mentalità corrente.

Tutto questo sforzo per la riqualificazione della città finirà nel 2019?

No. È impossibile, o meglio, non dovrebbe essere così. Non c'è solo Matera, c'è tutto un territorio che va riqualificato. Lì intorno ci sono zone devastate anche dal punto di vista ambientale. Girando per la campagna mi sono imbattuto nel famoso ponte a metà, sospeso nel vuoto. Quello sì che dovrebbe essere fatto saltare in aria con una bomba, a meno che non si decida di terminarlo. Anche in questo caso, come in molti altri, poi c’è da dire che i problemi di una città non si risolvono mai con un grande evento. Vale lo stesso principio che applichiamo con il nostro corpo: c'è bisogno di manutenzione continua.

postilla

È davvero sconcertante come ci si dimentichi la storia anche recente. È dalla metà del secolo scorso che si studia, si discute, si progetta, si fa e si disfa per riabilitare la struggente bellezza del patrimonio storico di questa incredibile città, e nessuno sembra ricordarlo. Per fortuna che c'è eddyburg e il suo archivio. Digitate Matera Sassi sul "cerca". o almeno leggete questi tre articoli: Matera schiaccia i Sassi, di Francesco Erbani, Il centrosinistra e il sacco di Matera, di Michele Fumagallo, e Se Matera diventa capitale della cultura lo deve a Olivetti, di Carlo Vulpio.

Sono i risultati dell’Eurobarometro 2015, un sondaggio tra i cittadini della Ue I trasporti funzionanti e la possibilità di fare sport all’aperto sono considerati decisivi. La qualità della vita non dipende solo dal reddito ma da come sono amministrate le città , dall’istruzione e dal livello d’integrazione. In classifica svetta il Nord, con qualche sorpresa. La Repubblica, 27 febbraio 2016

Non è un paradosso: il sette per cento dei cittadini europei dichiara di essere totalmente felice ma del tutto insoddisfatto della propria vita. Una quota considerevole, rilevata in un Eurobarometro sulla qualità della vita nella Ue. L’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che la felicità è una variabile indipendente. Ma spulciando le tabelle di questo e altri studi più recenti sull’umore dei cittadini europei, è chiaro che ci sono degli aspetti su cui i governi e le amministrazioni locali possono lavorare, per migliorare almeno il grado di soddisfazione delle persone.

La buona notizia, anzitutto, è che gli europei stanno riemergendo più sereni dalla crisi: tra il 2008, l’anno dello scoppio della Grande crisi, e il 2013, il numero di persone contente della propria vita è salito dal 76 all’80%. E la stragrande maggioranza delle persone che vive in città, sostiene uno studio che fa riferimento al 2015, è soddisfatta. In 79 città analizzate, oltre l’80% degli abitanti ci vive volentieri.

Tuttavia i sondaggi rivelano anche che la serenità cala con gli anni. E non è un dettaglio da poco, in Paesi che stanno invecchiando velocemente e in cui si allunga la vita. L’87% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è “abbastanza” o “molto” soddisfatto. Anche qui, tra i dati si annida un dettaglio curioso: in molti Paesi del Nordeuropa c’è un “effetto pensionamento” per cui tra i 65 e i 74 anni la soddisfazione aumenta, rispetto agli ultimi anni lavorativi. Una sensazione che non riguarda, tuttavia, i pensionati italiani, francesi, croati o bulgari, insomma di Paesi dell’Est e del Sudeuropa. Inoltre, dopo i 74 anni la salute “gioca un ruolo essenziale” per il crollo della qualità della vita.

Altro elemento che dovrebbe far riflettere: le più scontente sono le donne over 65 o i genitori soli con figli. Quasi un terzo è insoddisfatto della propria vita. Al contrario, è nelle famiglie con figli che si registra il tasso più alto di persone che si ritengono realizzate. Più prevedibilmente, la serenità è anche proporzionale al reddito e al livello di istruzione. In più, in vetta ai cittadini europei più contenti, ci sono i “soliti” nordici: svedesi, danesi e finlandesi.

Esaminando maggiormente nel dettaglio i dati sulla qualità della vita urbana dell’Unione europea si scoprono cose sorprendenti. La città dove si trova più facilmente lavoro è Praga, poi la rumena Cluj Naroca e Monaco di Baviera. Purtroppo, in fondo alla classifica ci sono tre città italiane: Palermo, Torino e Napoli. E le città italiane sono anche in fondo alla lista delle 79 città sulla tolleranza nei confronti degli stranieri: alla domanda “la presenza di stranieri è positiva per la mia città”, sei sono finite tra le ultime quindici.

L’indagine sulle città mostra che sono generalmente i sindaci del Nordeuropa i più bravi a creare l’ambiente più favorevole ad una vita serena. Le domande riguardano i trasporti pubblici, la possibilità di fare attività all’aperto, la sicurezza, l’educazione, la qualità di strade ed edifici. In cima risultano Oslo, Zurigo e la danese Aalborg; tra le prime dieci, quattro sono tedesche, Amburgo, Lipsia, Rostock e Monaco.

PIÙ FELICI

«A Oslo e Amburgo la popolazione ha valutato come insostenibile economicamente l'evento sportivo. Per il 2014 restano in lizza Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato promotore presieduto da Montezemolo continua a creare sotto-comitati. Ma non intende interpellare i cittadini». Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015

Nessuno vuole più le Olimpiadi. Data la crescita esponenziale delle spese rispetto al budget previsto – basti pensare a Londra 2012, che ha vinto l’assegnazione con un progetto di spesa di meno di 3 miliardi di sterline e ha finito per spenderne più di 12 – e il fuggi fuggi generale delle città candidate, il Cio aveva deciso con la promulgazione della Olympic Agenda 2020 di imporre Giochi low cost. Ma non è bastato, e in vista dell’assegnazione dei giochi del 2024, la scelta definitiva nel settembre 2017, ieri ancheAmburgo ha detto no. O meglio, hanno detto no i cittadini che hanno votato a maggioranza al referendum per respingere la proposta di candidatura.

Restano in corsa quindi solo Budapest, Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato Promotore presieduto da Luca Montezemolo, che può contare su un budget di una decina di milioni circa, continua a creare sotto-comitati: da ultimo quello dei garanti per la trasparenza e la legalità. Dati i luoghi dove si vorrebbe costruire per Roma 2024, e i precedenti delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e dei Mondiali di Nuoto di Roma 2009, avrà molto da lavorare.

Esclusa Budapest, per la deriva autoritaria presa dall’Ungheria, le alternative a Roma rimangono quindi Parigi (che si è vista sfilare in modo assai sospetto quelle del 2012, e i cui recenti attentati suggerirebbero una compensazione, comeTokyo 2020 dopo il disastro di Fukushima) e Los Angeles, dove gioca il potentissimo player Casey Wasserman che ha ramificazioni a Hollywood e nel marketing sportivo. Los Angeles è candidatura dell’ultimo minuto, dopo che la prescelta dal comitato olimpico statunitense, ovvero Boston, si è ritirata, come ha fatto quest’estate Toronto. E come ha fatto ieri Amburgo, infliggendo una pesantissima batosta allo stesso capo del Cio, il tedesco Thomas Bach, dove tra inchieste e dimissioni per la corruzione che ha segnato l’assegnazione dei Mondiali di Germania 2006, la cittadinanza non si è fidata nemmeno del budget low cost previsto di 5 milioni. Un’inezia rispetto ai 50 miliardi spesi dalla Russia per Sochi, un salasso per una città europea.

Dopo Sochi 2014, infatti, le prossime Olimpiadi invernali continueranno a guardare a Est e saranno a Pyeongchang (Sud Corea) nel 2018 e a Pechino (Cina) nel 2022. Se la Corea ha battuto le candidature nemmeno troppo convinte di Annecy (Francia) e Monaco di Baviera, la Cina se l’è vista in finale con Almaty (Kazakistan) dopo che si sono ritirate Stoccolma e poi Cracovia, Oslo e l’accoppiata Davos e St Moritz, queste ultime tre a seguito di un referendum cittadino che ha visto la popolazione schierarsi compatta per il “no” ai Giochi. E quindi in barba al criterio della rotazione, ecco che per tre edizioni consecutive le Olimpiadi invernali – quattro se mettiamo di mezzo i Giochi estivi di Tokyo 2020 – si terranno in paesi il cui tasso di crescita può sostenerle. A dimostrazione che, al di là degli enfatici proclami pubblicitari di chi ha interessi economici e politici nell’organizzare un grande evento, è oramai assodato che i Giochi Olimpici sono un salasso per le città e i governi che li ospitano.

Se Denver nel 1972 rimane l’unica città che abbia rinunciato alle Olimpiadi dopo essere stata scelta come città ospitante (quelle del 1976, poi finite a Montreal, che sono state un disastro economico per la città, che ci ha messo più di 30 anni per pagare i debiti e ancora soffre per gli impianti costruiti e mai più utilizzati, compreso lo Stadio Olimpico finito di pagare nel 2006 e attualmente senza padrone), ora è incredibile il numero di città che si sfilano in fase di candidatura. La novità è sicuramente il referendum cittadino: ovunque sia stato fatto ha vinto il “no”, anche in città come Oslo e Amburgo, dove le previsioni erano per una larga maggioranza di “sì”. Le Olimpiadi come grandi eventi tesi a privatizzare i profitti e socializzare le perdite non convincono più nessuno. Esclusa forse Los Angeles, che avrebbe già tutti gli impianti pronti e potrebbe calmierare le spese, nel caso di un referendum a Roma e a Parigi la risposta sarebbe sicuramente “no”. Forse è per questo che non sono previste consultazioni popolari.

«L’Associazione “This is art” a forza di collette, concorsi e solidarietà, ha realizzato un monumento, un mosaico e un video tridimensionale». Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)
Il ponte del Castello di Lucera è illuminato. Il castello invece no. Bisogna partire da queste 12 lampade sospese sul fossato per trovare la ricetta del risveglio del sud. Le piccole luci accese sono state pagate dai privati mentre le grandi luci spente che dovrebbero illuminare le mura, sono state pagate dall’Enel. I vandali le hanno rotte molti anni fa e nessuno le ha riparate. I faretti del ponte sono merito invece di un trentenne di Lucera. Si chiama Giuseppe Toziano e ha chiesto ai candidati alle ultime elezioni comunali di mettere mano al portafoglio per pagare un faretto a testa. La storia di Toziano dimostra che il sud deve smettere di aspettare l’Enel, lo Stato o Renzi: se vuole la luce deve provare a riaccendersi da solo. In due anni questo trentenne con il diploma da geometra, lo sguardo furbo e il ciuffo alla Cassano è riuscito a dare la sveglia alla cittadina pugliese di trentamila abitanti. I suoi coetanei sono in fuga verso il nord e lui invece è tornato per guadagnarsi sul campo il soprannome di “rompiballe”.

Così lo chiamano i concittadini che inventano percorsi tortuosi per evitare i suoi banchetti e le sue continue richieste di denaro a fin di bene. La sua associazione “This is art”, a forza di collette, concorsi e gare di solidarietà, ha realizzato un monumento, una serie di murales, un mosaico, un video tridimensionale e ha in programma tante iniziative da riempire un libro. Con l’appoggio della società civile di Lucera e con i consigli del decano dei giornalisti locali, Silvio di Pasqua, Toziano è riuscito nelle sue imprese senza chiedere un euro di finanziamento pubblico.
Come i suoi familiari vive di agricoltura ma vorrebbe diventare una guida turistica. Da anni attende un concorso e intanto i monumenti lui non li spiega ma li crea. La sua ex fidanzata austriaca, nipote di un’importante esperta d’arte, lo ha introdotto al mondo delle mostre poi è andato a Londra a fare il cameriere da Cipriani e nel tempo libero vagava tra mostre e musei gratuiti. «Un giorno ho visto una mostra dedicata alla Vespa e ho pensato che Lucera è piena di Vespe e di molte altre cose –spiega Toziano – il problema è che non conosciamo il nostro potenziale e non sappiamo spiegare e vendere le nostre bellezze».
Il castello di Lucera è stato la sua prima palestra. Il maniero è tra i più grandi del sud Italia eppure i visitatori paganti faticavano a comprenderne la storia nascosta tra le mura cadenti. Spesso andavano via delusi, magari inseguiti dai cani randagi che incrociano nella zona. Finché un giorno Toziano ne parla al bar con un giovane “cervello in fuga” della sua città: Luca Malvizzi, un esperto di grafica 3d che guadagna bene a Vancouver realizzando video per gli studi di architettura canadesi. Malvizzi ha appena realizzato il video in 3d che ricostruisce la storia del castello svevo di Sannicandro, in provincia di Bari e si fa scappare: «per Lucera lo farei gratis».
Toziano raccoglie la sfida e sollecita il campanilismo dei suoi concittadini. Il titolare di una società di elettronica, Pasquale Minafra, dona uno schermo 40 pollici; il fabbro Antonio Carbone realizza la cornice in ferro battuto adatta per la torre. Malvizzi, con l’aiuto della madre, Felicetta Iorio, esperta di storia, realizza il video. Resta il passaggio più duro: il permesso della Sovrintendenza per piazzare una tv nella torre sveva. «Gli ho detto che se non firmavano - racconta ridendo Toziano - sarei rimasto a Bari a dormire a casa loro». Il visto è arrivato subito e ora i turisti finiscono tutti a naso all’insù nella torre a guardare il video in 3d. La ricostruzione si apre con la situazione attuale: il fossato e la cinta che chiude un pianoro brullo cosparso di muri sbrecciati e fondamenta.
Nel video ogni pietra si alza e ruota acquistando senso grazie alla ricostruzione tridimensionale. Ecco il fortino ideato da Federico II. Ecco i cambiamenti degli angioini. Ecco cosa era quel rettangolo a sinistra: la fabbrica d’armi e quell’altro a destra: la chiesa con il campanile. E poi le caserme dei militari angioini con tanto di cannoni e palle. I più giovani, stremati dalla ricostruzione barbosa delle audioguide del castello di Trani, si risvegliano e finalmente capiscono di essere finiti al centro di una storia che non ha nulla da invidiare all’ultima saga medievale vista al cinema.
Inutile cercare il video sul web. Malvizzi lo ha donato a Lucera non a Youtube. Chi vuole vederlo deve entrare nella torre del suo castello. L’associazione di Toziano, This is art, ha trasformato anche la strada che porta al castello. Al posto delle scritte offensive ora ci sono decine di murales che restituiscono la storia passata e recente di Lucera. Grazie a un concorso di opere giunto alla seconda edizione, la strada è diventata una sorta di luogo dell’immaginario collettivo lucerino. Il più bello è il ritratto di Massimo Troisi eseguito da Raffo Art - un writer venuto da Napoli per ritrarre il suo regista preferito nel luogo in cui girò nel 1986 Le vie del signore sono finite. Gli fa compagnia Bud Spencer, ritratto nei panni del Soldato di ventura, girato quaranta anni fa nel castello. Il disegnatore è Manuele La Cava di Lucera, campione di areografie su automobili che ora disegna sulle Lamborghini per gli sceicchi. Un altro murales ritrae la scultura l’Uomo della pace di un artista lucerino, Franco Scepi, amata da Gorbaciov.
Toziano ha chiesto a Scepi di realizzare una copia della sua opera per la sua città. Insieme sono andati in tv a lanciare l’ennesima sottoscrizione per pagare il bronzo e le spese di fusione. Grazie anche all’appoggio della Diocesi sono stati raccolti 5 mila euro e il monumento alla pace e alla testardaggine del “rompiballe” troneggia davanti alla villa comunale. L’ultima sfida è la realizzazione di 12 mosaici. «Lucera vanta una dozzina tra santi e beati», spiega Toziano. «Le reliquie sono state trafugate dalle città rivali dopo le guerre ma la mia idea è quella di convincere i turisti che vanno a Pietrelcina e San Giovanni Rotondo per Padre Pio a deviare su Lucera per vedere i nostri santi».
Scartata l’idea di una nuova guerra con Termoli per riportare San Basso “in ossa” nella sua Puglia, Toziano ha ripiegato sull’effige. Il primo mosaico dedicato a San Basso è stato inaugurato dal vescovo di Lucera l’8 agosto. Sempre senza un euro di spesa pubblica. Grazie a Giusy Valente, un’artista locale che lo ha realizzato gratis. «Le ho promesso che le avrei commissionato altre opere quando arriveranno gli sponsor». Ma arriveranno? «Certo, giura Toziano, Basta che la gente veda che si realizza davvero e i soldi poi arrivano». Tra i murales sulla strada per il castello di Lucera ce n’è uno con due scritte. “Se il Signore avesse conosciuto questa piana di Puglia luce dei miei occhi si sarebbe fermato a vivere qui”. È attribuita a Federico II. Sotto c’è un secondo pensiero dedicato a Lucera: “Se ami davvero la tua città cerca di cambiarla in meglio con tutte le tue forze”. La firma non c’è. Non serve.
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