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“…-Messina- disse con lamento una donna; e fu una parola detta senza ragione; solo una specie di lagnanza…"

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, 1941

“ Ricca grassa seduta…la povera Messina.

…terra e il mare sommossi…

E la guerra.

E chi successe alla guerra

e chi succede a chi successe

e non fa succedere…”

Bartolo Cattafi, L’aria secca del fuoco, Mondadori, 1972

“…sarebbe come una mattina

svegliarsi ed essere a Messina,

città ch’è degna d’ogni stima,

ma che vuoi che ci faccia io a Messina…”

Roberto Vecchioni, Messina, CGD spa, 1973

A Messina, “claves insulae”, come dice Edrisi, non solo, ma anche “nobilis Siciliae caput”, e, soprattutto, “emporio delle genti”, arrivavano le navi dagli estremi lidi della terra. Per questo gli abitanti ”quasi non ponnu viveri senza mercantii et esercitii marittimi”, essendo la città, appunto, “situata in loco sterili di terreno“.

Le fortune del sito, della posizione e delle professionalità marittimo-commerciali saranno causa ed effetto di cospicui privilegi “concessi per rimunerazione di servigi prestati dalli Serenissimi reggi”. E forse i molti privilegi “con i quali si è gloriata la città di Messina di essere arricchita (addirittura ne furono inventati altri “falsi e irregolari”, al punto che “nella ‘caparbietà’ di difendere tali ‘imaginarie chimere’, si precipitarono, “all’ultimo scopo della loro meritata rouina”, scrisse il Masbel), furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa ...alle altre città del Regno”.

La rivolta antispagnola vide la città assolutamente sola, proprio al termine di una lunga controversia, con Palermo, sul privilegio “di estrarre la seta solo da Messina”. Temeraria ambizione quella, si chiede ancora con il Masbel, Massimo La Torre, o un “voler vivere in libertà, quasi in forma repubblicana”? Forse Messina, analogamente ad altre repubbliche cittadine, ritenuta “inevitabilmente sediziosa”, vede la sconfitta delle sue ambizioni municipalistiche e si arrende a poteri autocratici, perde la voglia di comunicazione dei cittadini, che resteranno solo vassalli, intorno agli affari pubblici, “la civile conversazione”. Se, ci ricorda ancora La Torre, il ‘rex’ è Leviathan, unità, indissolubilità, concordia di parti, il ‘populus’ è Behemoth, ribelle aggregato di mostri, sedizione, plurale. Così Messina, allora città temeraria senza accortezza, andrà incontro alla sua rovina, speculare all’aurea mediocritas che si accontenta. Città vinta e sottomessa, vivrà come esempio, ‘ universitad del mundo’.

Ma il paesaggio e le anche memorie sono tutte lì. Messina era stata letta, dice Alberto Samonà, come un teatro e il suo doppio: la città, dal mare-platea, come insieme di quinte, un palcoscenico che dalla palazzata-spettacolo si innalza sulle colline, con l’Etna come fondale; invece, tornata anfiteatro, con, sulla scena, il mare tagliato dalla falce, come nelle crocifissioni di Antonello, e, in fondo, l’ondulato disegno degli ultimi contrafforti dell’Aspromonte. Poi solo memoria e lamento. La cesura sarà più evidente dopo il terremoto del 1908, e non sarà solo virtuale.

Nella logica interna del suo impianto gli avvenimenti, le epidemie, i disastri sono state come ferite profonde del tessuto sociale e delle strutture urbane, che si rimarginano con modalità e tempi diversi: scansioni temporali entro cui i vari elementi della struttura si ricombineranno alla ricerca di un disegno. E perciò è come se sempre si fosse guardato al tempo dello spazio della lunga durata e gli avvenimenti, tra storia ed eventi.

Senza, è ovvio, trascurare l’avvenimento-mostro (l’evento-problema), la rivolta antispagnola, ma soprattutto il terremoto, a partire dal quale si riproblematizzerà tutto.

Per Messina si è a lungo pensato che il terremoto avesse azzerato le memorie, determinando una condizione di cittadini senza storia. L'avvenimento terremoto segnò infatti un taglio deciso, spietato, non solo nella struttura urbana e nella vita economica, ma soprattutto nella composizione demografica e sociale.

Messina appariva dopo la sua Iliade funesta, come un mondo livido e informe, tra cui vagavano le ombre degli scampati, e il resto della Terra leggeva, atterrito, il numero pauroso delle vittime, e contemplava la straordinaria visione di una città crollata in pochi secondi, come i castelli che i ragazzi fanno con le carte, scriveva Guido Ghersi. E sarà il momento dionisiaco della "lieta baraonda da fiera" della "resurrezione" post-terremoto che caratterizzava Messina "un po' cantiere, un po' bivacco, un po' mercato". Una città abitata anche da “un miscuglio di gente forestiera assillata dal desiderio di far fortuna”, intenta alle “più ingegnose speculazioni”. Città di "sventagliante fantasmagoria" nelle cui sale da pranzo e da convegno arrangiate si affollavano "funzionari, costruttori, legali, giornalisti, rappresentanti dei comitati di soccorso nazionali e stranieri, mondane, tutta una folla varia e strana, mutevole e gioconda fra la quale capitava spesso in raccolto atteggiamento qualche gruppo di persone a lutto”(P.Longo). E questa Messina a poco a poco assumerà forma, contemplerà gli effetti del maremoto, del terremoto, gli incendi, lo sciacallaggio, l’arrivo dei primi soccorritori, la nave russa, la partecipazione dei sovrani, la durezza dello stato d’assedio, le prime leggi per l’emergenza, la municipalità che risorge, i drammi di orfani e vedove, le sedute dei civici consessi. I futuristi cantano la volontà prometeica della ricostruzione, quella che viene enfatizzata, spettacolarizzata quasi, dal poeta Jannelli: tendere spasmodicamente verso la ricostruzione… un leggere il passato-presente…attraversato da un fil di ferro…poi l’avvenire che cresce… e il sorridere-mondo etc.etc. Dal "grumo di sentimenti e di irrazionalità, si tengono però lontani gli altri, gli scienziati alle prese con i problemi delle cause e degli effetti. Il primo pensiero, come si legge nella relazione del piano, avrebbe dovuto essere quello di conservare il mantenimento della vecchia città, conservandone, per quanto possibile, l’impronta generale, ed il ripristino della forma originaria.

Invece l'impianto del Borzì, il tecnico della municipalità, sarà solo imposto da necessità, urgenze e ‘particulari’. Un’ icona senza invenzioni e proiezioni. Così la forte, commovente volontà dei superstiti sembrerà esaurirsi nel mantenimento del sito, ma da questo non deriveranno ritorni di ruolo o di antiche funzioni. E’ la cittadinanza che finisce, sottolinea ancora La Torre. I diritti si collassato, restano solo concessioni di favori, mediate da suppliche, intercessioni, minacce: la contrattazione impropria dello scambio sarà la “costituzione materiale” di un patto sociale non sottoscritto ma comunque vigente.

Poi, dopo il terremoto, la guerra. “Sotto la gragnuola aerea si compì lo scempio...”(1945), sottolinea il Longo, in un articolo titolato “Messina: vita apparente di una città abituata a morire”.

Anche quest’ultima rottura sembra confermare la tesi di Gambi, poi ripresa dalla Rochefort, sul ripopolamento di Messina, avvenuto ad opera “in più saliente misura di famiglie provenienti dai comuni rurali delle aree prossime … di mediocri impresari e trafficanti provenienti da regioni settentrionali

Resta perciò incompiuto il disegno di città. I ‘ Working Papers’ di Sociologia e di Scienza della politica (E.Tuccari) fanno discendere l’”inaridirsi” dei “messaggi pervenuti da un passato non lontano”, da un uso del potere “spregiudicato ed obliquo”; un potere che si è andato formando in modo quasi separato dalla città, con logiche di tipo familistico (così presente in alcune aree meridionali) con forti ed esclusivi vincoli di appartenenza e di solidarietà. Si potrebbe forse ricorrere a ragionamenti maturati altrove, come nelle analisi della Becchi, per convenire che, anche alla scala messinese, prevalgono le ragioni del riprodursi di una società urbana come società divisa.

Innanzitutto il blocco politico, gli affari, poi il difficile sbozzolarsi di nuovo ceto produttivo, poi una rara intellettualità indipendente, di valore, purtroppo fragile.

Poi ancora l’Università che, pur con presenze di conclamato livello, viene descritta come in rapido declino (non sarà un caso, che in quindici anni si siano avuti tre rettori su quattro inquisiti, sospesi, uno addirittura agli arresti domiciliari, e poi gambizzazioni, addirittura omicidi). Il declino non riuscirà ad essere ovattato dagli abbellimenti dei comunicatori “integrati”. E’ proprio necessario che l’università, ci si chiede, debba avere anche funzioni criminogene?

Poi le periferie, che, hanno strutturato in sé, accanto alle tradizionali microcriminalità suburbane, penetrazioni connotate da cultura di tipo mafioso: così sociologi urbani hanno riscontrato quasi l’insorgenza di situazioni di cittadinanza parallela e alternativa.

La chiesa, infine, solo a volte consapevole della lezione conciliare e di connotazioni profetiche. Come nella lezione di Mazzolari: una chiesa senza popolo?

Allora Messina come idealtipo della condizione civile, della politica.

Dice ancora La Torre: resterà il “fiume turchino” di Verga, resteranno i miti di Omero, ma sopravviverà soprattutto “l’instabile equilibrio tra forma politica e ordine naturale”. Con tutti i secolari veicoli di evidenza produttiva di giudizio: le “dande del giudizio” di Kant, appunto, gli schemi dell’intelligibilità, e della conoscenza.

Non deve perciò sorprendere che non si siano attivate “funzioni capaci di propiziare la modernizzazione”, ripeteva Lucio Gambi.

Il futuro sarà, acriticamente svincolato dalla storia, affidato al permanente uso patrimoniale dello stretto, nell’ignoranza di ricadute produttive e di valori territoriali anche simbolici? E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’”arco etneo”, quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità di Gioia Tauro?

O questo è solo nello zigzagare della “esigente” che si crogiuola tra malinconia e impotenza.

Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni. In una recente prefazione ad un volume su Gambi -curato in Emilia-Romagna da M.P. Guermandi- Ezio Raimondi, che fu del Maestro “compagno di discussioni, in una entusiasmante fase di elaborazione culturale”, scriveva dell’avventura di un una geografia che avrebbe, occupandosi del territorio, dovuto introdurre l’analisi degli uomini in un condiviso rapporto tra natura e cultura, senza schematismi disciplinari, senza le ‘paratie’ di cui parlava Bloch.

E invece le fumisterie “riparazioniste” della nuova Sicilia, quella che ri-parla “con la bocca piena di sole e di sassi”, immagina percorsi più accentuati e ancora più rimunerativi di rinnovato mal-fare, senza “ uomini” per un “condiviso rapporto tra natura e cultura”.

Così sarà per il ponte?

Conciliate, pur in modo problematico, le questioni di sostenibiltà ambientale, il ponte avrebbe potuto avere senso territoriale, proprio perché consolidava ipotesi di nuova epifania della regione dello stretto, quella che ci raccontò Gambi, motivata da forti, antiche ragioni?

Ma adesso, nella sostanziale indifferenza del progettato percorso nord-sud, -che, di fatto bypassa Calabria ulteriore e Sicilia nord-orientale e ne determina una più accentuata periferizzazione e marginalità- non potrebbe apparire “estraneo”, solo straripante sovrastruttura, puro segmento di una visione trasportista?

L’ ineludibilità del ponte, disancorata da probanti apparati concettuali, non finirebbe per degradare verso una sostanziale insignificanza, proprio perché smarrisce -in una oggettivazione di puro, anche se mirabolante, consumo- ipotesi di produzione e/o di riscrittura territoriale?

Dalla “nuova geografia dei luoghi” alla banalità dell’intendenza?

L'autore è docente di Geografia economica e politica presso l'Università di Messina

Ci volevano alcuni creativi d’eccezione per organizzare un festival che si propone, nientemeno, che di rappresentare come “paesaggio della felicità” ciò che resta delle cittadine industriali della pedemontana triveneta con il “passaggio al postfordismo”.

Rovereto, Schio, Valdagno, Montebelluna, Conegliano, Vittorio Veneto, Maniago: luoghi di antica vocazione protoindustriale, accanto a vere e proprie company town, ma anche nodi commerciali sulle antiche vie d’Alemagna, sedi di importanti commerci testimoniati in alcuni casi dalla presenza di consistenti comunità ebraiche. Esattamente l’opposto del Veneto contadino, arretrato e ignorante divenuto luogo comune nell’Italia della ricostruzione postbellica degli anni Cinquanta.

Ciò nonostante, città tutte più o meno travolte dal selvaggio sviluppo, immobiliare prima ancora che produttivo, dei decenni più recenti, che ne hanno a volte conservato i pregevoli centri antichi ma sfigurato i confini, le campagne, la parte esterna del corpo. Il rapido smembramento delle forme consolidate è andato di pari passo con lo sgretolamento delle regole sociali consolidate, spesso un po’ pesanti e chiuse, ma comunque in grado di riprodurre una tranquilla e peculiare convivenza civile.

E con la forma va perdendosi anche la memoria, giacché oggi la Pedemontana veneta, più che un’organizzazione sociale, produttiva e territoriale peculiare designa più volgarmente un progetto autostradale.

“Perché la città torni a diventare impresa e l'impresa torni a essere città”, recita dunque l’iniziativa che dal 18 al 20 aprile prossimi intende promuovere “un rinnovato senso del lavoro, di progettazione e di vita proteso al perseguimento della felicità”. Chi sono costoro, e con chi intendono comunicare?

Un ex giornalista d’un noto quotidiano di sinistra, in seguito responsabile per la comunicazione d’un rilevante monopolio, ora portavoce del Presidente regionale; un geniale organizzatore d’eventi e arredatore, da qualche tempo direttore editoriale d’una rivista nazionale che sponsorizza l’evento; l’attivissimo cantore della nuova classe imprenditoriale postfordista; qualche docente di economia e affini, qualche giornalista, un editore, una sindacalista pedemontana. Un mix interessante, non c’è che dire, per chi apprezza il genere, ma per organizzare che cosa?

Beh, un festival, come dice il titolo stesso dell’evento.

Se non fosse un festival, il fatto che gli organizzatori dichiarino che “questo territorio, e le sue imprese, devono diventare attrattivi per migliaia di lavoratori intellettuali provenienti da ogni angolo del pianeta, offrendo loro come prospettiva quella di lavorare nelle aziende più innovative del mondo, in una “metropoli” che offre occasioni, stimoli culturali e un paesaggio dove vivere felici” aprirebbe diversi interrogativi. Che cosa significa oggi essere un’azienda innovativa? Sono davvero le metropoli, e nel caso quali metropoli, i luoghi che offrono stimoli culturali e un paesaggio che fa vivere felici? Le nostre comunità residue sono davvero disponibili a convivere con ulteriori migliaia di lavoratori provenienti da ogni angolo del pianeta, per ora verosimilmente attratti dai differenziali salariali rispetto ai paesi d’origine più che da altri fattori? E che significa occuparsi del nostro paesaggio? Argomenti che sarebbe assai utile fossero discussi nei luoghi consoni, deputati ad assumere le decisioni in nome della collettività, siano essi le aule dei consigli regionali o comunali piuttosto che le sedi delle organizzazioni di categoria e quant’altro. Ma che invece brillano per assenza di dibattito pubblico, a iniziare dalla campagna elettorale e dai relativi programmi partitici.

La risposta implicita che il festival ci fornisce è l’evento-spettacolo come nuovo motore dell’economia urbana, poco importa se innanzitutto dell’economia immobiliare. Tesi un po’ vecchiotta, oggetto di un dibattito disciplinare da una ventina d’anni, e ahimé tornata in strepitosa auge dopo la recente designazione di Milano a sede Expo.

Relegati al ruolo di consumatori passivi, non ci resta che approfittare di quel poco di sicuramente interessante che il festival offre, come i filmati d’autore in programma a Vittorio Veneto. Tra questi il bellissimo “Pier Paolo Pasolini e la forma della città”, girato nel 1972 a Sanaa e Orte, i cui contenuti costituiscono una lucida denuncia delle tesi fatte proprie dagli organizzatori.

La coerenza è proprio passata di moda, anche da queste parti prossime alla montagna?

Il grattacielo, oggetto architettonico nato alla fine del XIX secolo, deriva dalla combinazione di una tecnica di costruzione (lo scheletro metallico), del perfezionamento di ascensore e telefono e soprattutto dall'incredibile ricchezza di alcune imprese, che si possono permettere un edificio emblematico, che suscita ogni tipo di invidia. Il primo immobile di grande altezza (40 m) è costruito a New York nel 1868, il secondo a Minneapolis e il terzo a Chicago nel 1884, da William Le Baron Jenney. La torre diventa l'espressione per eccellenza del capitalismo. Come si dicesse che è datata: essa viene sempre sorpassata da un'impresa di maggior successo, che esibisce la sua supremazia edificando la torre più alta. All'insaziabile «sempre di più» dei capitani d'industria o dell'alta finanza, corrisponde il «sempre più alto», simbolo, ai loro occhi, della potenza: la loro torre, allo stesso tempo sede sociale, insegna e marchio. Vi è qualcosa d'infantile in questa competizione ascensionale, fatta salva una manciata di architetti convinti che «la torre» esprima il futuro...

di un secolo passato! La vera sfida, d'ora in poi, consiste nell'inventare una forma architettonica che possa rispondere alle contrastanti aspettative di cittadini alla ricerca di un reale confort nel rispetto dell'ambiente, e accompagnare le trasformazioni urbane in atto. Le persone senza fissa dimora attendono delle ancore di salvataggio (strutture leggere di servizi d'emergenza), primo passo verso un'abitazione decente. Chi soffre di un disagio abitativo spera in alloggi più confortevoli e adatti alla dimensione della famiglia o alle esigenze dei sensi individuali. Anche l'edilizia popolare esige norme nuove e inserimenti più civili. In breve, la posta in gioco è enorme e necessita di sperimentazioni coraggiose nel metodo di finanziamento, nel sistema d'attribuzione, nell'architettura di questi habitat e, perché no, nel coinvolgimento dei futuri locatari nella loro costruzione. La torre non è la risposta all'alloggio della maggioranza delle persone: è costosa, le tasse rappresentano un secondo affitto - ciò spiega perché sia riservata ad abitazioni di lusso - non possiede alcuno spazio pubblico, la vita ruota intorno all'ascensore, la consegna a domicilio, l'isolamento dalla città «reale». Essa è un vicolo cieco in altezza, come la definisce Paul Virilio, in Città panico (Raffaello Cortina, 2004).

Quanto agli uffici, non è ancora un fenomeno ben conosciuto l'assenteismo causato dall'internamento in un universo dominato dall'aria condizionata ma abbondano le testimonianze relative ad angine e altre patologie respiratorie. Dopo l'attentato dell'11 settembre 2001, gli impiegati delle imprese del World Trade Center sono stati trasferiti in edifici più piccoli: oggi, soddisfatti dei nuovi ambienti, rimpiangono solo l'atmosfera di Manhattan (1) . Tuttavia qualche architetto-star stimolato da tutta una lobby immobiliare afferma senza alcuna prova che la torre risolve la questione fondiaria (questo è vero, in parte), accresce la densità (questo non è dimostrato), economizza l'energia (i dati sono contraddittori), e partecipa allo spirito della città (questo non è sempre evidente), ecc.

Al Mercato internazionale dei professionisti dell'immobiliare (il Mipim), a Cannes nel 2007, i visitatori potevano ammirare i plastici dei futuri grattacieli di Mosca (la torre della Federazione, 448 metri, consegna nel 2010), di Varsavia (Zlota 44, 54 piani, 192 metri), di New York (la torre della Libertà 541 metri, quella del New York Times, 228 metri), di Dubai (certamente di circa 800 m), della Défense (la torre Granite del gruppo Nexity di Christian de Portzamparc, la Generali di Valode e Pistre, la torre faro di Unibail di Tom Mayne di 300 metri, consegna nel 2012), di Londra (Renzo Piano e la London Tower Bridge di 300 m)... Un'incredibile frenesia costruttiva, immagine dell'arroganza delle multinazionali. Già nel 1936, all'epoca delle sue conferenze a Rio de Janeiro, Le Corbusier reclamava Parigi una torre di 2.000 metri. Per il momento solo dei giapponesi hanno lavorato al progetto di una torre di 4 km d'altezza o una piramide di 2004 m (detta «Try 2004») che può accogliere 700.000 residenti permanenti.

Già nel 1930, l'architetto Frank Lloyd Wright denunciava il «tout-tour» (il tutto-torre, ndt): «I grattacieli non hanno vita propria, né vita da dare, non ricevendone alcuna dalla natura della costruzione.

(...) Perfettamente barbari, essi si innalzano senza particolari riguardi per i dintorni, né gli uni per gli altri (...). L'esterno dei grattacieli è senza morale, senza bellezza, senza continuità.

È una prodezza commerciale o un semplice espediente. I grattacieli non hanno che il successo commerciale come ideale unitario più importante (2) ». Certamente, Wright non anticipava la vittoria del centro commerciale (shopping mall) e dello scenario che l'accompagna, almeno in certe megalopoli. Questo surrogato di città si bea di questa immagine, nella quale la torre ha il ruolo principale. Guy Debord, nella rivista Potlatch (n° 5, 20 luglio 1954), se la prende con chi è «più guardia della media» (si riferisce a Le Corbusier) che ambisce «a sopprimere la strada» e rinchiudere la popolazione nelle torri, anche quando secondo lui si tratta di valorizzare i «giochi e le conoscenze noi abbiamo diritto ad aspirare in una architettura veramente sconvolgente».

Svilupperà, in seguito, la psicogeografia, l'urbanistica unitaria e la deriva, criticando senza tregua la fredda geometria dei grandi complessi, torri e sbarre insensibili al vagabondaggio ludico.

L'urbanista cinese Zhuo Jian (3) , che elenca 7.000 immobili di grande altezza a Shanghai (una ventina superano i 200 m), constata che il suolo si abbassa di parecchi centimetri ogni anno. Gli esperti spiegano che una torre è energivora nella sua fabbricazione (la produzione di acciaio e vetri sempre più sofisticati necessita di un'importante spesa energetica) e nella sua manutenzione (aria condizionata, illuminazione delle parti centrali dei piani, ascensori, etc.), anche se si considerassero soluzioni alternative (come quelle utilizzate nell'ingegnosa torre Hypergreen di Jacques Ferrier). Insistono sulla durata di vita limitata (una ventina d'anni, senza lavori di ristrutturazione) di questo «prodotto» oneroso e poco adattabile a utilizzi differenti. Credere che sia facile alloggiarvi un'università, una biblioteca, abitazioni di lusso, un hotel a 5 stelle, con orari e con «clienti» così diversi, è illusorio.

E a Parigi? Il Front de Seine, le Olympiades, il quartiere Italie-Masséna, Flandres e la torre Montparnasse (1973, 210 metri) non incoraggiano la costruzione di altre torri e condannano l'urbanistica funzionalistica.

Nel 1977, il Consiglio di Parigi fissa a 37 metri l'altezza massima delle costruzioni. Nel 2003, una consultazione della cittadinanza parigina registra il 63% d'opposizione contro gli edifici di grande altezza. Tuttavia, nel giugno 2006, alcuni architetti individuano diciassette siti in grado di accogliere torri di 100-150 m e immobili per abitazioni di 50 m (cioè 17 piani). Nel gennaio 2007, tre di essi sono presi in considerazione dalla municipalità, a titolo di test (Porte de La Chapelle, Bercy-Poniatowski e Massena-Bruneseau).

Dodici squadre disegnano torri che possono arrampicarsi fino a 210 m, su terreni inospitali, circondati da infrastrutture pesanti, rumorose e inquinanti. La maggior parte dei progetti prevede spazi verdi e luoghi pubblici, si integra alla periferia vicina e necessita di trasporti pubblici. Tuttavia, conserva una monofunzionalità verticale, non tiene in gran conto dell'effetto maschera sul soleggiamento del quartiere e dell'accelerazione dei venti, del trattamento dei rifiuti e del costo energetico di queste costruzioni. Quanto all'estetica, il dibattito è appena cominciato! È assurdo, di conseguenza, essere semplicemente a favore o contro: esistono torri splendide, che onorano il paesaggio della città che contribuiscono ad abbellire - chi resterebbe insensibile alla bellezza di alcune città «in piedi», come New York o Chicago? È tuttavia aberrante costruire una torre solitaria senza preoccuparsi dell'urbanistica, cioè dei trasporti pubblici, della relazione col suolo, con la strada, dei rapporti di scala con gli altri edifici, del gioco delle proporzioni fra le facciate, il piazzale, le coltivazioni. Se, al posto di costruire delle torri adatte ad uno stile di vita costrittivo, certi architetti avessero dedicato la loro intelligenza a concepire degli ecoquartieri, non solo secondo le attuali norme dettate dall'alta qualità ambientale, spesso elementari, ma anche secondo quelle di «alta qualità esistenziale», prendendosi cura delle persone, dei luoghi e delle «cose della città» (per esempio, delle illuminazioni dolci e rassicuranti), allora l'urbanità sarebbe meno selettiva e l'alterità meno discriminante.

La torre non permette l'incontro. Del resto, né la letteratura né il cinema l'hanno rappresentata come un luogo magico; al contrario, essa alimenta gli scenari catastrofici! Diffidiamo delle mode, per loro natura passeggere.

note:

L’Autore è filosofo, urbanista e docente universitario, ha scritto tra l’altro Petit manifeste pour une écologie existentielle (Bourin-editore, 2007), collabora alla rivista Urbanisme , Parigi.

(1) Sophie Body-Gendrot, La société américaine après le 11 Septembre , Presses de Sciences Po, Parigi, 2002.

(2) «La tyrannie du gratte-ciel», conferenze del 1930, inL'Avenir de l'architecture , Editions du Linteau, Parigi, 2002.

(3) Cfr. Urbanisme , n° 354, Parigi, maggio-giugno 2007.

(Traduzione di A. D'A.)

L’intensa attività edilizia di questi anni sta riscrivendo la geografia di Padova e del suo hinterland metropolitano. Purtroppo, ciò avviene senza una chiara visione del futuro della città e con un enorme spreco di territorio. Con conseguenze assai pesanti per la salute ed il benessere dei cittadini ed in relazione all’impronta ecologica della città. In assenza di un reale coordinamento delle politiche urbanistiche a scala comprensoriale, ogni comune – in concorrenza con i vicini – ha cercato in tutti i modi di attrarre investimenti per l’edilizia residenziale, commerciale ed industriale, rendendo estremamente “flessibili” i propri piani regolatori, con continue varianti e accordi di programma in deroga alle previsioni di piano. Il risultato è stata una inverosimile frammentazione urbana, una occupazione a pelle di leopardo di tutto il territorio che ha generato distruzione di paesaggio e risorse agricole, predominio incontrastato della motorizzazione privata, inquinamento dell’acqua, dei suoli e dell’aria oltre ogni limite immaginabile.

Tra il 1991 ed il 2006 la popolazione del Comune di Padova è diminuita di 4.836 abitanti, ma nel solo decennio 1991-2001 i dati del Censimento Istat ci dicono che si sono costruite più di 6.600 nuove abitazioni. Nei comuni della cintura tra il 1991 ed il 2006 gli abitanti sono aumentati di circa 33.000 unità, ma il corrispondente incremento di edilizia residenziale è stato quasi doppio rispetto al fabbisogno.

Per favorire l’attività edilizia ed immobiliare (uno dei pochi settori economici che non ha conosciuto crisi in tutti questi anni) la precedente Giunta comunale di centrodestra di Padova approvò una Variante di PRG che trasformava quasi tutte le aree un tempo destinate a verde pubblico (4,7 milioni di mq) in aree di perequazione urbanistica. Con le nuove cubature edilizie regalate ai privati, si sosteneva, il Comune avrebbe ottenuto in cambio, gratuitamente, una quota parte delle aree da destinare a verde e servizi urbani. Nel programma del Sindaco Zanonato vi era l’impegno alla revoca di detta Variante (non ancora, all’epoca, approvata dalle Regione), ma tale impegno dopo le elezioni venne clamorosamente disatteso. Solo a seguito della dura protesta di Legambiente e di alcune componenti di sinistra della nuova Giunta di centrosinistra, alcuni indici edificatori sono stati ridotti. Pur con qualche correttivo, la Variante venne quindi alla fine confermata, sparpagliando ville e condomini privati in tutte le residue aree aperte del territorio comunale, senza alcuna connessione con la rete dei trasporti collettivi e con le reali esigenze dei quartieri, ottenendone in cambio assai ridotti benefici per la comunità. Giardinetti e frammenti di aree verdi, anziché parchi e reti ecologiche.

In pendenza dell’entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, anche la Giunta Zanonato ha d’altra parte continuato ad approvare programmi di “recupero urbano” d’iniziativa privata in variante al PRG vigente con notevoli aumenti di cubatura, quale quello famoso delle “Torri di San Carlo” nel cuore del quartiere dell’Arcella, fortunatamente respinto a seguito dell’indizione di un apposito referendum richiesto a gran voce dagli abitanti e da Legambiente.

La nuova legge urbanistica regionale ha imposto l’elaborazione di nuovi Piani Regolatori (oggi PAT) e, novità importante, la costruzione unitaria dei PATI – Piani di Assetto Territoriale Intercomunali. Per il PAT di Padova si è avviato – su richiesta delle associazioni ambientaliste e con i meccanismi di Agenda 21 – un interessante processo partecipativo, che in qualche misura sembra poter condizionare le scelte strategiche di piano. Il problema è che i tempi previsti sono slittati oltre ogni ragionevole attesa. Nel frattempo l’Amministrazione continua ad operare secondo le vecchie logiche del giorno per giorno e del caso per caso, preoccupata soprattutto di non interrompere il flusso di capitali privati che continuano abbondantemente a riversarsi nell’edilizia e nella speculazione immobiliare. Quando si arriverà ad adottare il nuovo PAT (che dovrebbe introdurre una nuova normativa per le aree già sottoposte a perequazione e che deve decidere del futuro di aree strategiche per le trasformazioni urbane quali quelle della ex Zona Industriale, dell’Ospedale, di cui è previsto il trasferimento in altro settore urbano, della Stazione ferroviaria e della Fiera, le cui attività sono per molti aspetti obsolete data l’attuale localizzazione, di tutta la fascia ovest del Centro Storico, attualmente occupata da caserme di cui è prevedibile la prossima dismissione, del quadrante di nord-est e di San Lazzaro, …) sarà probabilmente troppo tardi, perché molte di queste aree potrebbero già essere compromesse dalle decisioni “urgenti” nel frattempo operate senza alcun disegno strategico.

Ma le questioni più importanti a scala territoriale e per il futuro stesso della città (sistema ambientale, infrastrutture per la mobilità, localizzazioni produttive e commerciali, infrastrutture di servizio di livello metropolitano,…) dovrebbero di fatto essere affrontate dal PATI. Non appare quindi affatto casuale che a questa scala della pianificazione Provincia e Comuni non abbiano nemmeno fatto finta di avviare un processo partecipativo con le forze sociali e le associazioni ambientaliste. Da tre anni tutto sta avvenendo e si sta concordando nel chiuso degli assessorati e degli uffici tecnici competenti. Un’occasione sprecata, anche perché solo un aperto dibattito e confronto pubblico avrebbero forse consentito di superare le logiche localistiche manifestate dalle diverse amministrazioni comunali.

L’autore è Presidente di Legambiente Padova

Una strana attesa sembra gravare da qualche tempo sul destino urbanistico di Palermo, una serie di segnali, voci e dichiarazioni che investono direttamente i due principali strumenti urbanistici della città, il Piano regolatore generale e il Piano particolareggiato esecutivo, segnati nella loro vicenda storica da due diverse visioni e culture. Il primo, varato definitivamente dal Consiglio comunale nel gennaio 2004 con una presa d´atto che ha recepito i due decreti di approvazione da parte della Regione della variante generale inviata nel 2002, ha avuto un iter più che decennale quanto mai frastagliato che ne ha infine fortemente alterato le premesse e la filosofia d´impianto. Il secondo, approvato nel 1993 secondo i criteri del restauro conservativo, è ormai scaduto e, secondo gli annunci dell´assessore comunale all’Urbanistica Nino Scimemi, necessita di una revisione profonda così da attrarre capitali e risorse in grado di accelerare il recupero del centro storico. In modo differente, entrambi gli strumenti in vigore risultano così allo stato attuale delle anitre zoppe, insufficienti a delineare le direttrici di sviluppo e di disegno urbano, con la conseguenza di sospendere i piani di previsione della città tutta in una sorta di limbo, una condizione di incertezza che impedisce e blocca ogni ipotesi di progettualità unitaria accentuandone quella fisionomia casuale e frammentaria che sembra divenuto il suo carattere irreversibile.

Non c’è dubbio che tutta la vicenda del Prg abbia giocato, in questa disarticolazione progettuale, un ruolo centrale. Avviato addirittura nel 1989 con l´incarico affidato dalla giunta cosiddetta esacolore guidata da Leoluca Orlando a una équipe coordinata da Leonardo Benevolo per la variante di adeguamento, concretizzatosi operativamente con l´affidamento a Pierluigi Cervellati nel 1993, consegnato con gli elaborati a scala 1 a 5.000 l´anno successivo e adottato nel 1997, il Piano regolatore ha conosciuto, dopo questa data, una serie di modifiche all’impianto iniziale.

Un vulnus decisivo per Cervellati, al punto da disconoscerne la paternità in una dichiarazione polemica nei confronti della amministrazione Orlando, secondo la quale invece il passaggio non ne invalidava la concezione di base e gli assi operativi miranti a un recupero (come si legge nella premessa) della unitarietà territoriale: dalla identificazione del cosiddetto «netto storico» che indicava le parti di città dai caratteri di pregio storico, artistico e ambientale alla valorizzazione del verde storico, dal contenimento dell’incremento di cubatura nelle zone parzialmente urbanizzate alla individuazione delle aree destinate alla realizzazione di strutture residenziali, ricettive o direzionali.

Contro quel Piano - prima e dopo l’accoglimento delle osservazioni - si levarono subito le critiche di chi lo giudicava eccessivamente conservativo, penalizzante verso i possibili nuovi insediamenti commerciali e industriali, frenante nei confronti di un possibile sviluppo economico della città e del suo territorio; le stesse critiche a suo tempo rivolte al Ppe, con il quale infatti il Prg stabiliva una organica continuità di metodo saldando la filosofia del restauro del centro storico a quella di un recupero - dopo i decenni del saccheggio indiscriminato delle risorse territoriali - di quanto, nella lunga vicenda di Palermo e delle antiche borgate fagocitate dalla cementificazione era ancora leggibile e recuperabile come un sistema culturale unitario. I due decreti regionali contenenti una serie di modifiche e correzioni del marzo e del luglio 2002, recepiti poi dal Comune con una semplice - e anomala - presa d’atto, hanno inficiato sostanzialmente quel disegno e quella concezione. Alcune parti del «netto storico», soggetto a salvaguardia (zone A e A1), sono state convertite in zona B, e rese passibili quindi di aumenti di cubatura e di incremento demografico; alcune parti della zona B (parzialmente o totalmente edificate) sono state a loro volta convertite in zona C per nuova edificazione, aree di verde storico prima costrette da vincoli di inedificabilità assoluta sono state rinominate a verde agricolo con nuovi indici di fabbricabilità. Al termine del suo lungo iter, il Piano regolatore è così approdato a una mappatura ibrida, incerta, priva di strategia, e nonostante questo già più volte ulteriormente assediata sotto forma di deroghe e varianti, come quelle che hanno destinato l’area di Fondo Raffo, verde storico della Piana dei Colli a ridosso dello Zen, al nuovo centro commerciale fortemente voluto da Maurizio Zamparini. Una condizione di debolezza strutturale insomma, che non a caso ha indotto alcuni costruttori, nei giorni dell’emergenza dei senza casa, a chiedere addirittura un nuovo Piano regolatore che allenti definitivamente i vincoli in una deregulation che rischierebbe di tramutarsi nell´ennesimo, definitivo episodio delle mani sulla città.

La richiesta è stata respinta dall’assessore all’Urbanistica (né poteva essere altrimenti: i Prg hanno, per legge, una loro durata), che però, quasi contestualmente, ha annunciato l’intenzione di rivedere in modo sostanziale il Ppe affidando tale compito a un gruppo di cinque esperti. Ufficiosamente, i nomi sono usciti nei giorni scorsi, e si tratta di urbanisti e architetti di prestigio (da Bruno Gabrielli a Teresa Cannarozzo, che proprio sulle pagine di questo giornale aveva in passato sottolineato i meriti del piano, e la cui presenza costituiva quindi una garanzia di equilibrio in un contesto così delicato), ma le nomine, improvvisamente, sono state bloccate al punto che lo stesso assessore ha minacciato le dimissioni se queste non fossero state firmate dal sindaco entro la fine della settimana scorsa. La settimana è trascorsa, le dimissioni non ci sono state; in compenso, è giunta la notizia (non smentita; ne ha scritto la scorsa domenica Massimo Lorello) di un possibile accordo che Diego Cammarata starebbe per condurre in porto con la società degli Emirati Arabi "Limit Less" per il risanamento non soltanto del centro storico, ma anche di quella zona costiera - il Waterfront, come è stato ribattezzato - su cui da tempo gravitano gli interessi della autorità portuale, senza che tuttavia l’intervento progettuale (era uno degli aspetti più sconcertanti della mostra della Biennale architettura che proprio il commissario Nino Bevilacqua aveva voluto nel padiglione di Sant’Erasmo lo scorso anno) andasse oltre le indicazioni preliminari. Come si costituirebbe tale accordo, e soprattutto quali conseguenze avrebbe nei confronti sia del Prg che del Ppe, è tutto da vedere. È altamente probabile, tuttavia, che la logica di intervento possa avere un effetto dirompente sui due strumenti urbanistici, ed è tale incertezza sulla logica di ridisegno della città tutta - senza che si sia aperto un dibattito reale su questioni di cruciale importanza per il futuro di Palermo - a destare allarme, nel merito e nel metodo.

Fra le centinaia di migliaia di turisti occidentali che visiteranno Pechino nell'agosto 2008, in occasione delle Olimpiadi, sicuramente moltissimi vorranno conoscere la millenaria civiltà urbana cinese, visitando il centro storico della capitale. Un centro storico, però, che al primo sguardo, sembrerà ridotto ai grandi monumenti (l'inquietante Città Proibita, il metafisico Tempio del Cielo, il meraviglioso Palazzo d'Estate con i suoi giardini) e agli allineamenti di negozi, piccoli ristoranti e bar lungo alcuni tratti delle rive dei cinque laghi artificiali che risalgono al quindicesimo secolo e attraversano l'abitato, dando vita a un paesaggio di acque e alberi di grande bellezza.

Frammenti del passato

Per il resto, il centro di Pechino assomiglierà a quello di ogni moderno agglomerato urbano: negozi, edifici recenti (con qualche concessione a una architettura «cinese»), traffico intenso lungo strade ampie. Solo ogni tanto si riuscirà a scorgere, alle spalle della cortina di negozi e uffici, un ammassarsi di casette a un piano, raggruppate in frammenti di tessuto urbano attraversato da stradine strette. I visitatori che, spinti dalla curiosità, penetreranno all'interno di quei tessuti, troveranno finalmente il cuore storico di Pechino, la cosiddetta Lao Beijing, perché quei frammenti - pochi e sparsi all'apparenza quasi a caso nella città - sono quanto resta dell'antica capitale cinese.

Immaginate una città interamente composta da edifici a un piano, alti tre o quattro metri, coperti da tetti con tegole grigie e sopra i quali spiccavano i profili dei grandi palazzi, dei templi, o delle torri che proteggevano le porte nelle mura della città. Questo era l'aspetto di Pechino fino al termine dell'Ottocento, un aspetto nato dall'applicazione di un modello di antichissima tradizione nella cultura urbana cinese. Questo modello si fondava su poche, ma chiare regole che delineavano un tessuto urbano tagliato da un reticolo di strade intorno al quale una cinta muraria formava un quadrato orientato secondo i punti cardinali, con al centro il complesso di edifici più significativi (la Città Proibita nel caso di Pechino).

Nella maglia viaria si notava un asse centrale più importante per il suo significato simbolico e religioso, disposto secondo un orientamento sud-nord, mentre il sistema viario ortogonale delimitava grandi complessi di isolati per gran parte residenziali, attraversati da una rete di vicoli, gli hutong, strade di accesso alle residenze. L'accesso doveva sempre essere esposto a sud, il punto cardinale degli spiriti favorevoli, mentre tutti gli edifici, sia quelli residenziali sia i templi, i palazzi, gli edifici commerciali, erano costruiti attorno a una o a più corti.

All'interno delle corti

Per quanto riguarda le residenze dominava la sehiyuan, la casa unifamiliare a corte, secondo uno schema che si era conformato a Pechino in un lungo processo a partire dal dodicesimo secolo: il modello era identico per tutti gli edifici residenziali, anche se, a seconda della importanza del proprietario, variavano le dimensioni e il numero delle corti.

Queste regole urbanistiche davano vita a una città costituita da un tessuto fortemente omogeneo di sehiyuan e da uno spazio pubblico che era prevalentemente quello delle strade e degli hutong - una città la cui vita familiare, sociale, amministrativa, economica, politica, religiosa si svolgeva per gran parte all'interno delle corti. Oltre al verde degli alberi, i colori prevalenti erano il grigio dei tetti e delle pietre e il rosso degli intonaci e dei recinti su cui spiccavano i lampi delle decorazioni pittoriche blu, rosse, verde, oro sulle strutture lignee degli edifici più importanti e sugli ingressi delle porte.

L'urto della modernità

Difficilmente, però, una città fatta di case a un piano con strutture di legno poteva resistere all'impeto violento della modernizzazione. Oggi, infatti, la cinta delle mura non esiste più, sostituita da un anello stradale. Di fatto, la città storica si trova al centro di cinque anelli di viabilità a scorrimento veloce, il quarto dei quali passa a una distanza di circa dodici chilometri dalla Città Proibita e quello più esterno a circa il doppio. Inevitabilmente, anche il tessuto hutong ha subito notevoli stravolgimenti.

Per la verità, questo tipo di spazio urbano aveva già subito modifiche all'inizio del secolo scorso, ma si trattava per lo più di modeste demolizioni o di sostituzioni con edifici di dimensioni maggiori. Trasformazioni più intense sono cominciate dalla metà del secolo e sono tuttora in corso: il ciclo di abbattimenti e ricostruzioni ha infatti subito una forte accelerazione in relazione alle Olimpiadi, riducendo gli hutong ancora esistenti a meno del trenta per cento della estensione dei tessuti originari.

Direttamente o indirettamente prodotti dalla densificazione, i problemi che si riscontrano nei tessuti hutong sono di due ordini: il degrado edilizio, che tocca tanto gli edifici storici quanto quelli recenti e spontanei (spesso costruiti con materiali di fortuna), e il degrado igienico-sociale, dovuto alle condizioni abitative di sovraffollamento negli alloggi, quasi nessuno dei quali è fornito di servizi igienici. Ma al tempo stesso gli hutong possiedono qualità che ne fanno un bene culturale di interesse mondiale, da recuperare e conservare: da un lato, il singolarissimo paesaggio urbano che compongono, dall'altro il modo di vivere gli spazi urbani da parte degli abitanti.

Passeggiando negli hutong, fattori come la proporzione tra l'altezza degli edifici a un piano e la larghezza dei vicoli, la continuità e omogeneità delle quinte edilizie (anche nel colore grigio degli intonaci e dei mattoni), così come le piccole variazioni in altezza, gli arretramenti o avanzamenti dei fronti, o le lievi curvature dei tracciati, producono l'immagine di uno spazio unitario, su cui si innestano gradevoli e misurate variazioni sul tema.

Alla bellezza di questo paesaggio contribuiscono da protagonisti anche gli alberi. In quei tratti di strada lungo i quali sono stati piantati filari di alberi di medie dimensioni, questi formano gallerie verdi animate dagli effetti della luce del sole che attraversa rami e foglie. Ma anche gli alberi isolati, che allargano i rami a proteggere i tetti delle case intorno, sono veri e propri monumenti verdi - tanto che sono ufficialmente classificati in appositi registri -- per la bellezza dei rami e per l'altezza imponente. Gli alberi-monumento sono quasi un complemento urbanistico del tessuto architettonico degli edifici e offrono quella immagine della casa protetta dall'ombra di un albero che è fortemente presente nella memoria antica e profonda della collettività.

Antichità discrete

Gli edifici storici conferiscono qualità al paesaggio degli hutong soprattutto per i dettagli architettonici - dalle decorazioni sopra le porte di ingresso ai portoni in legno, dalle pietre laterali di buon augurio alla dolce curvatura cava dei tetti con il loro aspetto squamoso, la cosiddetta «pelle del drago» - più che per il valore di antichità: molte costruzioni di aspetto «storico» risalgono infatti a epoche relativamente recenti perché la cultura cinese ha sempre privilegiato la conservazione dei modelli e delle regole, comprese quelle tecniche che presiedono al saper fare. Per essere considerato storico, insomma, non importa quanto un edificio sia antico, quanto piuttosto il fatto che obbedisca al modello tipologico e alle regole costruttive fissate e tramandate nel corso del tempo.

Infine, ma non da ultimo, la qualità dei tessuti hutong è fortemente legata agli usi e ai comportamenti degli abitanti che fanno del centro di una grande città di quindici milioni di abitanti una sorta di piccolo villaggio: in queste strade continuano a valere i rapporti di vicinato e lo spazio pubblico è utilizzato come il surrogato di una corte annessa alla abitazione.

A questo punto sorgono alcuni interrogativi, legati soprattutto alla possibilità di conservare ciò che resta dei tessuti hutong del centro storico di Beijing. Una questione che, a sua volta, solleva un problema di fondo e chiama in causa l'atteggiamento politico-culturale degli amministratori nazionali e locali e della cultura cinese in generale. Quanto sarà considerata rilevante una politica di conservazione delle memorie della storia della capitale come fattore di individualità locale e nazionale e di orgoglio civile per una cultura urbana di antichissima tradizione?

Trasformazioni morbide

Un diverso problema di natura sostanziale riguarda invece le risorse economiche, dovendo scegliere tra interventi esclusivamente pubblici e possibili sostegni di capitali privati. Uno dei motivi per una politica di conservazione dei tessuti hutong, anche in funzione di produzione di risorse economiche, potrebbe essere quello dell'attrattiva turistica, da seguire con accorte politiche di trasformazione morbida delle destinazioni d'uso di alcune parti dei tessuti stessi, evitando però l'effetto di museizzazione dei pochi pezzi ritenuti più pregiati e da conservare accuratamente in teche protette per visite turistiche.

Il problema sociale è drammatico. Anche se passasse una politica di convinta salvaguardia dei tessuti, per poter ottenere condizioni abitative accettabili, rispetto alla attuale densità abitativa e alle condizioni di affollamento e igienico-sanitarie e di dotazione di servizi, almeno la metà degli attuali abitanti dovrebbe essere trasferita altrove e necessariamente fuori del centro storico. Ma dove e, soprattutto, con quali strumenti?

Le pressioni del mercato

Inoltre, non è neppure certo che, una volta effettuato il ridimensionamento, gli abitanti rimasti in loco non cedano alle pressioni del mercato immobiliare che sicuramente saranno rilevanti e produrranno quasi inevitabilmente una sostituzione di ceto degli abitanti stessi. Ma i nuovi abitanti ricchi produrranno di certo profondi cambiamenti nell'atmosfera degli hutong: probabilmente più ordine e manutenzione degli edifici, ma assai meno vita sociale nello spazio pubblico. Sarà questo un processo inevitabile rispetto al quale poter dire che, almeno, si è salvata la città di pietra?

Nota: appare anche più miserabile la scarsa attenzione al tessuto storico della città cinese, soprattutto alla luce dei nuovi studi sociali in corso, così come raccontato dal China Daily in un articolo proposto su Mall (f.b.)

La struttura, acquistata dai Ligresti prima che il Piano Regolatore fosse approvato, può essere edificata come ampliamento dell’Hotel Capo Taormina. Ma non è l’unica speculazione in corso.

Una colata di cemento sulla costa di Taormina. A firmarla, cognomi eccellenti. Come quelli di Franza e Ligresti, che, sfruttando l’ampliamento dei loro alberghi, andranno in deroga al Prg guadagnando mille dopo aver speso appena cento. Eppure, l’ultimo emendamento al Piano regolatore era stato pensato proprio per salvarla, la costa. E doveva essere bipartisan. Come bipartisan, ma nel senso della limitazione del danno, erano stati tutti gli altri. Votati perché l’opposizione in consiglio aveva deciso di essere presente per non far cadere il numero legale, viste le tante incompatibilità degli esponenti d’aula nell’ambito della votazione. E invece? “Invece l’emendamento di salvaguardia che i consiglieri di opposizione avevano presentato – raccontano Antonella Garipoli e Flaviana Ferri, rispettivamente esponenti della Margherita e dei Ds, ora entrambe nel Pd – fu bocciato”. Ma cosa prevedeva? “Molto semplice, l’immodificabilità dei luoghi da Villagrazia a Capo Sant’Andrea”. Un emendamento presentato a bella posta per evitare che alcune porzioni di territorio, formalmente con destinazioni che non prevedevano edifici (attrezzature per la balneazione, ad esempio), potessero diventare una tavola imbandita per speculazioni edilizie, sfruttando alcune deroghe possibili. “Come quelle – spiegano Garipoli e Ferri – legate ai cosiddetti ampliamenti”.

Ligresti e Franza

L’occhio lungo delle due consigliere guardava lontano, visto che proprio negli ultimi tempi hanno già fatto il loro passaggio in soprintendenza i progetti riferibili ai gruppi Ligresti e Franza. Progetti ora in transito verso gli uffici di Palazzo dei Giurati. Entrambe le operazioni sono legate agli alberghi che Ligresti e Franza possiedono sulla costa: il Capo Taormina e il Villa Sant’Andrea, destinati a spargere una bella colata di cemento in ossequio al cosiddetto “ampliamento”, che permette di cambiare la destinazione data ad un’area del Piano regolatore generale se limitrofa ad un insediamento di carattere turistico e ricettivo. Una pietanza che, soprattutto Ligresti, ha cucinato con i tempi che sono permessi a chi può investire denari e attendere il da farsi.

Un camping per il capo

Alla voce “Attività non assicurativa” del “Prospetto informativo relativo alla quotazione Warrant Fondiaria Sai 1991-2004”, la scheda relativa a Progestim – Società di Gestione Immobiliare spa recita a chiare lettere: “In data 8 maggio è stato sottoscritto l’atto di acquisto di terreni siti in Taormina, in precedenza occupati da un campeggio, per un totale di oltre 23.000 mq e su cui è ipotizzabile la costruzione di edifici turistico ricettivi. In data 16 gennaio era stato altresì completato l’acquisto, in località Giardini Naxos, di terreni idonei alla costruzione di un centro turistico alberghiero per un totale di circa 51.000 mq”. A firmare in calce al faldone di trecento pagine, il 27 marzo del 2003, è Jonella Ligresti, presidente del consiglio di amministrazione di Warrant Fondiaria Sai”. Il Camping di cui si parla è il San Leo, destinato dal Prg ad attrezzature per la balneazione. E basta. Ma perché, allora, la signora Jonella, già dal 2003, con il piano regolatore che ancora doveva essere approvato (lo è stato l’8 marzo del 2004), scrive dell’acquisto del camping e della possibilità di costruire “edifici turistico ricettivi”? La risposta è in una nota di cronaca mondana che la riguarda. Ovvero il suo matrimonio, il 20 settembre 2005, con Antonio Luca Ortigiara De Ambrosi, festeggiato nell’albergo di famiglia, il Capo Taormina. Ed è proprio in virtù della vicinanza tra questo e il san Leo che, senza l’emendamento bipartisan, si potrà portare avanti lo sfruttamento edilizio dei 23 mila metri quadrati. Sfruttamento possibile nell’ottica dell’ampliamento dell’attività del Capo Taormina, e quindi in deroga a quanto previsto dallo strumento urbanistico attualmente al vaglio dei progettisti dopo la presentazione delle osservazioni.

Sant’Andrea e pescatori

Sulla stessa riga si stanno movendo anche i Franza, che hanno già pronto il loro progetto di ampliamento dell’Hotel Villa Sant’Andrea con un’operazione che coinvolgerà le case dei pescatori nelle vicinanze. Il Sant’Andrea, alcuni anni fa, ha già realizzato una propria dependance. I Franza, a Taormina, hanno potuto portare avanti anche altre operazioni grazie agli emendamenti apportati al Prg ancora in fase di approvazione, uno dei quali ristabilisce le zone B, che la pianificazione originaria negava. E così, quindi, che per l’Hotel San Giorgio, una struttura immersa in un parco e progettata all’inizio del ‘900, è stato permesso non di ampliare l’Hotel, ma di realizzare una serie di appartamenti. Così come a Mario Ciancio Sanfilippo e alla sua Gisa di demolire il vecchio Hotel San Pietro per costruirne uno nuovo con volumetria ampiamente superiore. Ma quello delle costruzioni nelle more del Prg, in zona B, coinvolge anche altri.

Le zone B

Il “trucco” è tutto nelle norme di salvaguardia, ovvero nei vincoli che impediscono l’edificabilità in zone che il nuovo piano ha deciso che non lo sono più fino alla sua approvazione. A rigor di logica, le norme sarebbero dovute entrare in vigore nel 1997, quando il Prg fece il suo ingresso ufficiale in Comune. Invece non è stato così. Sono scattate dopo l’emendamento che ripristina le zone B che erano state soppresse e che erano presenti nel piano precedente. La conclusione? Anche se in sede regionale l’emendamento verrà bocciato, gli uffici comunali hanno deciso di applicare la norma più restrittiva. Che però non c’è, visto che per loro fa fede l’emendamento e non il Piano elaborato dai progettisti.

Il Prg

Nato come strumento di qualità e non di quantità, stante le previsioni di popolazione errate del precedente (20.000 abitanti nel 2000), il piano regolatore firmato all’origine da Tudisco, Rodriquez e Cutrufelli eliminava, tra l’altro, le zone C e anche quelle B, provando a imporre una linea possibile di sviluppo per la Perla dello Jonio. Nel giro di dieci anni, dal 1997, cioè, ha però dovuto subire 26 emendamenti (alcuni dei quali sostanziali) che ne hanno stravolto la filosofia. Emendamenti ai quali si sono aggiunte le 168 osservazioni dei cittadini che i progettisti stanno in questi mesi “calando” in cartografia. Quando sarà ultimata l’operazione, il piano tornerà in aula per l’approvazione o la bocciatura delle o

L’Unità, Bologna, 7 dicembre 2007

Sabiem, i costruttori contro Merola

Adriana Comaschi

La crisi Sabiem apre un nuovo, pesante scontro tra costruttori e amministrazione comunale. Uno scontro che passa per il ruolo giocato suo malgrado nella vicenda da Giancarlo Raggi, vicepresidente del Collegio costruttori di Bologna che nel 2005 ha acquistato da Roberto Fochi la proprietà dell’area su cui insiste la fonderia, dietro l’ospedale Maggiore.

La nuova scintilla si accende ieri, dopo la riunione convocata dal prefetto sulla situazione Sabiem. L’assessore all’Urbanistica Virginio Merola fa capire che il dado è tratto: «A questo punto, venute meno le condizioni dell’accordo di programma del 2005 sulla valorizzazione dell’area, la nostra intenzione è di inserirla nel Psc come zona a usi produttivi e non più a destinazione residenziale». Non c’è motivo di fare diversamente, spiega Merola in prefettura: «L’intento dell’azienda a procedere a un’operazione strettamente immobiliare fa cadere i presupposti di interesse pubblico che erano alla base degli accordi tra le istituzioni e disattende ogni impegno su delocalizzazione e livelli occupazionali». Insomma visto che queste ultime due condizioni non sono state rispettate, viene meno anche quella in capo a palazzo d’Accursio, il cambio di destinazione d’uso da produttiva a residenziale.

La marcia indietro stando alle carte è inappuntabile. «L’accordo di programma è stato sottoscritto nel 2005 - ricorda Merola- . Da allora Fochi non ci ha mai inviato i documenti necessari all’avvio dell’iter». Non solo: anche se la delocalizzazione non avanza già nel dicembre 2005 Fochi vende i terreni di via Emilia Ponente a tre imprese edili tra cui quella di Raggi (le altre sono di Imola e Rimini). Il commento di Merola è pesante: «Lì c’è stata una doppia beffa, gli acquirenti hanno comprato un’area su cui sono venute meno le condizioni per la valorizzazione. Fochi - sintetizza - se l’è venduta come residenziale. Ma non è così». Quello che Merola non dice è che la nuova proprietà gli ha già scritto lanciando un allarme: senza la possibilità di costruire case gli investimenti fatti per l’acquisto rischiano di trasformarsi in perdita. A chi gli chiede che margini di manovra abbia Raggi, l’assessore replica che «può chiedere il risarcimento danni a Fochi».

Il ragionamento non piace al direttore del collegio costruttori Carmine Preziosi. Che ci tiene a distinguere i livelli, «certo il problema principale ora è di sbloccare la delocalizzazione e far ripartire l’attività delle fonderie». Detto questo, «la pianificazione urbanistica non si può fare per nomi e cognomi. E se le istituzioni pensano che bloccando la valorizzazione danneggeranno Fochi non è così». Poco importa insomma quello che ha fatto Fochi, e che siano venute formalmente meno le condizioni per la valorizzazione: per Preziosi il dato di fatto è che se si mette l’area a usi produttivi a risentirne sarà «una fetta centrale» della città. «Il Comune ha un atteggiamento sbagliato. Merola prima di usare toni muscolari dovrebbe riflettere - è il monito di Preziosi -: qual è il vero interesse di quell’area? Gli usi produttivi sono veramente adatti a una zona residenziale a ridosso dell’ospedale? O non sarebbe meglio - puntare sulla residenza per dare nuovo impulso anche alle attività commerciali?».

La Repubblica, 8 dicembre 2007

Scoppia la guerra del mattone

di Luciano Nigro

«Purtroppo abbiamo una classe imprenditoriale impreparata sulla riqualificazione urbana. Chiedono solo terreni vergini da valorizzare, ma non colgono le enormi possibilità che il piano strutturale offre: all´ex Mercato, nelle aree industriali della Bolognina, al Lazzaretto e sulle aree ferroviarie e militari. A questi sembrano interessare solo le aree agricole». È più di uno sfogo quello che si lascia scappare l´assessore all´Urbanistica Virginio Merola dopo aver illustrato il piano che porterà ad aprire i cantieri all´ex Casaralta e alla ex Sasib. «Se andiamo avanti con progetti su aree improbabili come è il piano di Sacrati al Caab o come era quello di Romilia - sbotta - finirà che i nostri imprenditori perderanno tutti i treni, come è successo per all´ex Mercato dove Carisbo ha messo all´asta un´area da 80 milioni e ha vinto un gruppo di Verona. O come in via Fioravanti dove nella gara per costruire 300 alloggi ai primi posti si sono piazzate aziende di fuori Bologna».

Che fa, assessore Merola, torna alla carica contro gli imprenditori che non presentano progetti? Ma se ne spunta uno al giorno e viene bocciato. «Spuntano progetti su aree verdi. Come il palasport di Sacrati. E le case attorno di un consorzio di proprietari. La cosa sconcertante è che non si vedono proposte dove il piano regolatore offre opportunità a non finire» si accalora il responsabile dell´urbanistica estraendo una cartella dai documenti. «Ecco, questi sono i cantieri aperti in città. Ci sono 270 alloggi al mercato...». Tar permettendo, assessore. «Concesso. Ma poi c´è la nuova sede degli uffici comunali, il comparto del Lazzaretto che è una mezza città». Opere della giunta precedente, Merola. «Già. E la nuova stazione di Bologna? Le aree ferroviarie, che sono immense, l´intero comparto della Bolognina, con Casaralta, Sasib, Cevolani che strappiamo al degrado? E la manifattura Tabacchi e presto le aree militari? E il Villaggio del fanciullo, il comparto di via Larga, il people mover già bandito? Se ci sono idee per queste aree, sono benvenuti. Certo, è più rischioso e difficile che chiedere di costruire case attorno un palazzetto su terreni vergini. Per noi la riqualificazione è la priorità. Assoluta. Questo diranno i piani di costruzione quinquennali, una vota approvato il piano strutturale». Lei pensa che il fiorire di progetti oggi sia una sorta di assalto alla diligenza del piano regolatore? «Avvicinandosi l´approvazione del piano strutturale (Psc) crescono le pressioni- accusa Merola - Il problema sono le priorità». Da dove si partirà, una volta approvato il Psc? «Il piano attuativo dei primi cinque anni prevederà le aree della Bolognina, il Lazzaretto, l´ex mercato, una parte delle aree ferroviarie. Il secondo la nuova edilizia sociale al Savena-San Vitale, il distretto giovanile da 20 mila metri quadrati, le caserme. Il lavoro, certo, non mancherà. Il problema è: la nostra imprenditoria vuole coglierle queste possibilità? Se vuole farlo presenti proposte, non pressioni». Nessuna pressione, replica in serata il presidente dei costruttori Ance Marco Buriani: «Non vogliamo soluzioni improvvisate e con finalità speculative. Chiediamo alla giunta di essere disponibile a valutare le proposte».

Alleluia. Dopo 36 anni la città di Monza ha un nuovo Piano Regolatore (l'ultimo, il Piccinato, risale al 1971). Tra l'altro votato all'unanimità, un dato eclatante, anzi un vero primato, visto l'andazzo italiano dove, sugli strumenti urbanistici di solito le giunte si sfasciano. E' anche il primo Piano di Governo del territorio approvato in una grande città lombarda. Il segnale che il consiglio comunale ha portato a casa un risultato importante per la città e dove maggioranza e opposizione, benché con motivazioni diverse e in qualche caso con fatica, hanno voluto dimostrare grande responsabilità (accordo su 490 osservazioni contro le 530 presentate).

Un impegno che il sindaco Marco Mariani ha voluto rispettare così come il suo assessore, quel Paolo Romani tanto vituperato, che ha saputo accettare il tavolo tecnico, dove le forze politiche si sono confrontate in un clima di "buona politica" come affermato da molti, e che, con correttezza, ha dovuto "ingoiare il rospo" portando in aula e approvandolo, un piano che non condivide.

Mentre al centrosinistra va il merito di aver realizzato il nuovo Piano di Governo del territorio secondo principi di equità, che ha ottenuto riconoscimenti anche all'estero per alcune soluzioni innovative. Va riconosciuto all'opposizione anche la decisione di rimanere in aula fino all'ultimo voto, al contrario di quanto era accaduto durante la giunta precedente, dove l'allora maggioranza si era trovata sola ad approvare il documento urbanistico con l'opposizione di centrodestra fuori dall'aula.

Ma le buone notizie finiscono qui. Perché la guerra è già stata dichiarata. Se per il centrosinistra la vittoria è evidente, perché ha portato a casa un Piano su cui ha investito sudore e passione, è anche vero che il centrodestra ha, solo in apparenza, perso una battaglia di principio. Insomma una vittoria di Pirro. Benché il centrosinistra sorrida per il fatto che, per la prima volta, con il Pgt, la Cascinazza sia stata definita, una volta per tutte, area agricola.

Paolo Romani ha già messo in chiaro la situazione: : «E' stata una scelta politicamente difficile, - ha esordito il responsabile dell'Urbanistica - un rospo che abbiamo ingoiato, un obbligo di legge. Ma non ci fermiamo qui. Perché entro un anno sarà pronta la variante che coinvolgerà alcune delle aree strategiche della città stralciate dal Pgt (tra cui Cascinazza ndr). Per noi questo Pgt è troppo rigido, troppo vincolistico non permette quella flessibilità che invece è il principio di base della legge regionale 12. Il documento approvato è un primo passo, un punto fermo da cui partire per il governo del territorio. Noi comunque non intendiamo scaricare cemento su Monza. Valuteremo con gli operatori interventi che portino soluzioni utili alla città restando all'interno dei 4 milioni e mezzo di metri cubi previsti dal Piano» .

E di questi metri cubi un piccolo assaggio è emerso subito in aula dove l'ex sindaco Michele Faglia ha puntato il dito su 40 modifiche già inserite nel Pgt nel giro di soli 60 giorni e di cui «non si capiscono né i criteri con cui sono state accettate - ha affermato Faglia- né dove stia l'interesse pubblico di alcune trasformazioni da aree standard o d'utilità pubblica in aree edificabili con un indice al massimo del consentito». Tra queste per esempio c'è la Villa Cappuccina, che, come ha ricordato con un insospettabile romanticismo Roberto Scanagatti (capogruppo Pd), è citata nel capitolo 20 dei Promessi Sposi. La villa , ubicata in via Marsala angolo via Mauri, era un antico convento dei Cappuccini (Lucia vi sarà inviata da Gertrude su suggerimento di Egidio per essere poi rapita dall'Innonimanto) e vanta un giardino storico messo a repentaglio da una volumetria edificabile senza precedenti. Insomma l'idillio è durato lo spazio di una notte.

Nota: eddyburg ha seguito molto da vicino l'evoluzione del "caso Monza" in particolare riguardo alla vicenda dell'area Cascinazza; per trovare i numerosi articoli su questo argomento il modo migliore è quello di digitare la parola chiave Cascinazza nella finestrella in alto a destra del motore di ricerca interno (f.b.)

«Questa è solo la prima vittoria!»: così risponde il movimento No da Molin al ritiro della ditta vincitrice dell'appalto per la bonifica dell'area. L'Abc di Firenze, questo il nome della società, aveva aperto i cantieri alle 4.30 del mattino del 17 ottobre scorso con il compito di risanare 400 mila metri quadrati di terreno destinati ad accogliere il nuovo insediamento militare.

Ma nulla da fare, i cittadini di Vicenza non hanno mollato e dopo tre giorni di presidi e l'annuncio di una manifestazione di protesta davanti alla sede dell'azienda toscana, è arrivata la notizia: «Noi ce ne andiamo, non ci sono le condizioni per andare avanti». Queste le parole pronunciate da Gianfranco Mela, titolare della società che smantellando il cantiere ha rinunciato ad un compenso di 2,2 milioni di euro per un lavoro della durata di nove mesi. Tanto avrebbe fruttato il contratto firmato con le forze armate americane, vinto in associazione temporanea d'impresa con l'azienda Strago di Portici. «Smobilitiamo il cantiere e ritiriamo le quindici persone impegnate sul posto, anche se non capisco perché se la prendono con noi che interveniamo solo per ripulire e mettere in sicurezza un'area - interviene Mela - non ero preparato ad affrontare delle contestazioni così forti né qui, né nella sede di Firenze dove un nutrito gruppo di persone è venuto a manifestare.

I festeggiamenti, intanto continuano così come l'entusiasmo di chi ha dimostrato che una lotta pacifica e costante può ottenere dei risultati. A parlare è Cinzia Bottene, portavoce del presidio permanente contro il Dal Molin che, assieme agli altri manifestanti, chiede di trasformare la zona in un parco pubblico. «Il movimento vicentino - spiega la Bottene - è stato capace di impedire pacificamente l'accesso all'aeroporto a coloro che avrebbero dovuto realizzare la bonifica e ha dimostrato anche una forza politica perché, in poche ore, abbiamo ricevuto la solidarietà di tante città italiane». Secondo i No dal Molin, infatti, «fermare la realizzazione della nuova installazione militare è possibile, a Vicenza siamo sempre più determinati a raggiungere questo obiettivo».

Il blocco dei lavori era cominciato tre giorni fa con un episodio controverso: un manifestante, come riferito da lui stesso e da altri testimoni, era stato investito da un'auto guidata da un militare italiano che voleva entrare nel cantiere. Il manifestante, Francesco Pavin, un giovane no global, era finito all'ospedale per un trauma alle vertebre cervicali: sull'accaduto è in corso ora un'inchiesta.

La querelle si trascina da mesi e ha investito anche il governo che ha deciso di nominare un commissario, Paolo Costa, che segua tutto l'iter dei lavori. Costa, però, ha già fatto sapere di voler andare avanti secondo il progetto e che le decisioni spettano solo al governo. Ma i movimenti insistono: «Noi non ci fermeremo davanti a niente, oggi abbiamo vinto una battaglia, non la guerra, ma chiunque provi a portare avanti i lavori avrà la stessa risposta dell'Abc. Qualsiasi società in tutta Italia sarà ostacolata non solo da noi, ma anche da chi continua a sostenerci dimostrandoci solidarietà. Il presidio continua».

Titolo originale: The Price of Capitalism – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nel 1791, quando Pierre Charles L’Enfant ideò la capitale nazionale, non poteva sapere che un giorno ci sarebbero stati i grattacieli a minacciare la sua creazione. Più di due secoli dopo, però, la sacralità del cuore celebrativo di Washington è assediata. Un progetto di iniziativa privata di un costruttore per erigere due torri appena oltre il fiume Potomac a Rosslyn, Virginia, sta colpendo al cuore un simbolo della democrazia.

Il cattivo, per chi ne cerca uno, è il capitalismo, forza tanto presente nella psiche nazionale quanto la stessa democrazia. La vittima è il National Mall, inestimabile complesso ambientale visitato da milioni di persone. Grazie ai limiti di altezza posti dal District of Columbia - 45 metri – il Mall non viene ancora eclissato da uno sfondo di grattacieli coi marchi delle aziende e le luci scintillanti. Ora quel borgo di edifici di media altezza oltre il fiume, conosciuto soprattutto perché ci passano i pendolari, aspira a diventare una Manhattan sul Potomac. O magari Dubai. Il progetto solleva questioni vecchie come i diritti dello stato: può l’aspirazione di un centro della Virginia ad affermare sé stesso con un simbolico “portale” soverchiare i caratteri della capitale nazionale? Oppure, visto che i confini fra centro e periferia sono resi più sfumati dall’uso quotidiano dello spazio, può un qualificato organismo regionale, come la National Capital Planning Commission, avere potere sufficiente a porre dei limiti?

JBG Companies, l’impresa costruttrice, ha avuto il via libera in maggio dalla Arlington County per realizzare il complesso chiamato Rosslyn Central Place. Con 30 e 31 piani, le due torri non entreranno certo nelle classifiche mondiali. E se Rosslyn si trovasse in qualsiasi altro posto, il progetto di Beyer Blinder Belle potrebbe anche produrre applausi perché sostiene la smart growth. Ma qui la cresta dell’elevazione sarebbe la più alta in tutta la regione della capitale, incombente sugli edifici più vicini di almeno 25 metri.

É da quando Mosca si è confrontata col Palazzo dei Soviet, o Parigi con la Tour Montparnasse, che una capitale non si trova di fronte a un grattacielo così simbolicamente angosciante. Thomas Luebke, segretario della U.S. Commission of Fine Arts, ha suonato l’allarme sulla pagina dei commenti del Washington Post in giugno, avvertendo come i possibili danni all’eredità di L’Enfant meritassero una ulteriore riflessione. La commissione sostiene da lungo tempo che gli edifici più alti di 20 piani sfigurano la veduta panoramica dal Mall sino al punto da rappresentare un “vandalismo urbano”, come ha dichiarato una volta lo scomparso presidente J. Carter Brown. “Siamo preoccupati” ha concordato in agosto Marcel Acosta, direttore facente funzioni della National Capital Planning Commission.

Il problema è, che nessuno dei due organismi ha potere in quella circoscrizione, e il costruttore non si piega. “A dire il vero ritengo che si stia inserendo nella skyline di Washington una cosa di cui manca totalmente” risponde Kathleen L. Webb, responsabile della JBG. “Non c’è niente di male ad alzare gli occhi dal Mall e vedere una bella skyline”.

Unoscontro di volontà sinora pietosamente soffocato dalla Federal Aviation Administration. Rosslyn si trova sulla linea di volo verso il Reagan National Airport, e quindi qualunque edificio più alto di 63 metri sul livello del mare ha bisogno di una autorizzazione particolare. L’ente ha classificato le torri “presumibilmente pericolose” e ha annunciato una analisi a scala regionale prima di emettere un parere, cosa che non aveva ancora fatto mentre andiamo in stampa. Un punto per la burocrazia, anche se non è ancora chiaro chi debba difendere il Mall dalla modernità.

“Il National Mall è un simbolo per tutti, che uno sia dell’Alaska o del Maine” spiega Luebke. “Sin dove bisogna arrivare per proteggerlo?” La risposta da Rosslyn, che L’Enfant aveva conosciuto come la verdeggiante Arlington Ridge, è: non provateci neppure. Gli amministratori dicono che I monumenti sono un’ottima cosa, ma gli abitanti vogliono quartieri fruibili a piedi con caffè Wi-Fi e mercatini di cibi biologici, proprio come quelli di Chicago o Seattle. Gli urbanisti hanno ovunque tradotto questi obiettivi in una conveniente miscela di edifici alti sopra un nodo del trasporto pubblico, e anche Rosslyn vuole il suo posto al sole. E allora, se questo modello urbanistico interferisce col godimento della veduta storica di L’Enfant?

La radice del problema affonda sino al 1846, quando Rosslyn passa dal District of Columbia alla Virginia. Il luogo diventa presto un covo di banditi. Prosperano bordelli e attività legate al petrolio. Negli anni ’60 e ’70 l’ enclave è vittima dei processi di rinnovo urbano. Ai tortuosi vicoli si sostituiscono canyons di anonimi palazzi per uffici collegati da utopici quanto inutili passaggi pedonali sopraelevati e superstrade in abbondanza. La città si guadagna una fermata della metropolitana. Ma la sua risorsa principale rimane quella di essere uno spazio di prima qualità esattamente di fronte al complesso celebrativo di L’Enfant, prato d’ingresso nazionale, che ora i costruttori vogliono arraffare come finitura da condominio: “veduta senza rivali in tutto il mondo”.

Lo spettro di una skyline in stile Dubai incombente sul Lincoln Memorial è certo un’esagerazione. Nondimeno, il ranger del National Park Service Dave Murphy, il cui lavoro è di rilevare gli edifici vicini alle zone verdi protette, è rubato nell’ascoltare la convocazione di un’assemblea pubblica sullo zoning per consentire che Rosslyn “salga a 300 metri”: chiaro segnale che i giorni della deferenza rispetto alla capitale sono finiti. Il Central Place starebbe a 160 metri sopra il livello del mare, mentre il Monumento a Washington è a quota 185. Gli amministratori della contea ammettono poi che ci sono progetti per altre torri attorno ai 160 metri in varie fasi dell’iter. “Il District se vuole può anche odiarci” spiega il direttore per lo sviluppo economico di Arlington, Terry Holzheimer. “Noi crediamo di fare un ottimo lavoro”.

Chi sta dalla parte di L’Enfant e tenta di tenere un coperchio sulla skyline di Rosslyn, è già stato bocciato due volte dal tribunale. Nel 1979 una causa intentata dalla National Capital Planning Commission (NCPC), organismo di nomina governativa di Washington, non è riuscita a fermare gli edifici dalle facciate curve da 31 piani che ora caratterizzano il profilo di Rosslyn. Al tempo la NCPC si sentì rispondere semplicemente da un tribunale della Virginia che non aveva potere nell’altra circoscrizione. Per cambiare queste decisioni, “si deve creare un forte movimento di indignazione pubblica” spiega Luebke. “Bisogna riscrivere le leggi”.

Il Congresso ha dato alla commissione il compito di tutelare “bellezza e tessuto storico” della capitale. Dopo 83 anni, il mandato non si è ancora esteso oltre l’esame dei progetti governativi federali e all’interno del District. L’agenzia può esprimere un parere sugli interventi privati soltanto se hanno impatti “sugli interessi federali”. Dotare la commissione di nuove armi, significherebbe riconoscere la necessità di un coordinamento regionale, cosa che nessuno ha ancora fatto.

“Non si fa alcuna pianificazione regionale” spiega Holzheimer. “Ogni circoscrizione lavora per sé”. In questo vuoto, sono i costruttori privati i veri detentori del potere. La JBG recentemente ha reso noti piani per 93 progetti in 42 località diverse sparse per tutte le circoscrizioni dell’area metropolitana, un portfolio per un valore che si stima di 10 miliardi di dollari. La signora Webb non nasconde il desiderio di liberarsi dei limiti di altezza posti dal District “mentre sono ancora in vita”, il che evoca immagini spettrali del nucleo celebrativo di L’Enfant ridotto a un giardinetto di gloriosa ma assediata testimonianza.

La tutela ha sempre potuto contare sul ruggito di leoni gentili. La first lady Jacqueline Kennedy a suo tempo si è battuta contro un intervento sviluppato in altezza a Lafayette Square, direttamente di fronte alla Casa Biabca. Il Senatore Daniel Patrick Moynihan ha liberato Pennsylvania Avenue. Eleanor Roosevelt ha fatto la sua parte risparmiando un bel po’ di Manhattan da Robert Moses e dal suo Brooklyn-Battery Bridge. L’appello che scrisse sulla sua colonna di giornale nel 1939, si potrebbe applicare al caso di Rosslyn oggi: nella nostra eterna marcia verso il progresso, si chiedeva, “ non c’è spazio per qualche attenzione alla tutela dei pochi spazi di grande bellezza che ci restano …?

Il progetto di ponte di Moses fu depennato tre mesi più tardi. Il Presidente Franklin Roosevelt coinvolse il Ministero della Guerra, il quale dichiaro il ponte proposto vulnerabile agli attacchi e pericoloso per la Marina, stop. Non è stato chiesto ai generali di decidere su Rosslyn, e non ci sono segnali che alla Casa Bianca di Bush importi qualcosa. Ma forse val la pena notare come sulle carte della Federal Aviation Administration ci siano vistose linee rosse a indicare la vicinanza delle proposte torri al Pentagono, che dista circa un chilometro e mezzo.

L’Enfant non doveva pensare a queste cose progettando la capitale, ma George Washington avrebbe capito. Non c’è asso pigliatutto come la sicurezza nazionale. “Ovviamente se si tratta di un pericolo per lo spazio aereo nazionale” afferma Tammy L. Jones della FAA, “Dovremo decidere noi”.

Nota: su queste pagine, a proposito del progetto del National Mall (la cui realizzazione, come specificato in occhiello, non si deve a L’Enfant) una efficacissima descrizione contemporanea del giovane Patrick Abercrombie (f.b.)

here English version

TARANTO — «Le aree militari sono preziose per programmare interventi di riqualificazione urbana, soprattutto a Taranto che è una città slabbrata».

Angela Barbanente, l'assessore regionale all'Urbanistica, conosce il capoluogo jonico, ne segue le vicende, è in grado di indicare una delle strade da seguire pur, ovviamente, lasciando la totale autonomia di scelta ai tarantini. E' al corrente del tentativo della città di riconquistare aree della Marina situate in posizione strategica, di ottenere beni militari utili allo sviluppo, di liberarsi della schiavitù di due muraglioni che la soffocano per chilometri. E' una grande opportunità per Taranto rientrare in possesso di beni oggi ancora nella disponibilità della Marina ma non più utili ai fini militari. Molti tra questi sono anche abbandonati da anni e inutilizzati. Sono terreni, edifici, strutture, isole, beni immobili sui quali la città può fare leva per disegnarsi un futuro migliore. Di sdemanializzazione si parla da anni, un protocollo d'intesa fu firmato quindici anni fa, ai tarantini sembrava di poter già pensare a un museo galleggiante alla stazione torpediniere utilizzando l'incrociatore Vittorio Veneto e a un acquario realizzato in quell'area in disuso da quando la flotta s'è trasferita in mar Grande. Tutto è ritornato incerto perché la Marina ritiene quelle aree ancora utili ai suoi scopi.

Assessore, Taranto cerca di recuperare aree militari che ritiene indispensabili per il suo futuro. Il rapporto con la Marina, però non segue un percorso lineare.

«Questo capita in tutte le città che intrattengono rapporti con enti militari e che cercano di acquisire le aree strategiche dismesse o da dismettere. Non solo Taranto, ma anche tante altre città in Italia sono alle prese con questo tipo di problematica. Un dato che sembrava acquisito può non esserlo più in seguito. Molte città sono impegnate in negoziazioni intense con il ministero della Difesa per recuperare aree spesso situate in posizioni tali da risultare molto utili allo sviluppo urbanistico. Taranto non è un caso così singolare ».

Al di là dei siti della Marina, i tarantini vorrebbero liberarsi anche dei muraglioni che circondano per ettari insediamenti militari.

«Comprendo. I muri servono a separare, io sono per la ricomposizione».

Di cosa, urbanisticamente parlando, ha bisogno Taranto?

«Taranto ha bisogno, innanzi tutto, di interventi di riqualificazione urbana perché è una città fatta di tante isole tra loro separate».

Si riferisce ai quartieri che sorgono a chilometri di distanza dal centro della città e tra di loro?

«Sì. La città s'è dispersa, i quartieri sono separati. Per questa ragione le opportunità che si aprono con le aree della marina militare devono essere colte subito e nel migliore dei modi. Quelle aree possono servire anche a ricucire tra loro parti di città oggi sconnesse e nascoste ».

Come si può fare?

«Le aree militari vanno innanzi tutto censite per vedere quali sono realmente disponibili. Poi devono essere impiegate per un'operazione intensa di riqualificazione urbana sulla quale i tarantini sono perfettamente in grado di scegliere per migliorare il volto e la funzionalità della propria città».

Quindi serve una nuova progettazione urbana?

«Ne sono convinta. Secondo me la progettazione urbana può imboccare anche la direzione nella ricucitura tra le varie parti della città. I muraglioni che ci sono a Taranto non rendono permeabili le diverse zone, separano ciò che dovrebbe essere riunito».

La Regione in che modo può far parte di questo discorso?

«Com'è consuetudine, la Regione svolge un'opera di accompagnamento e orientamento sui singoli Comuni. Il rapporto è di grande collaborazione, di continuo affiancamento non solo per sostenere le iniziative comunali orientate alla riqualificazione, ma per collaborare a trovare la strada più idonea all'interesse della città. Con la Regione non c'è più un rapporto gerarchico ma di copianificazione».

«In questo settore, la Regione non dispone, ma condivide le scelte e gli orientamenti delle singole amministrazioni comunali. Queste sono completamente libere, le decisioni appartengono all'autonomia delle città, noi mettiamo il peso dell'amministrazione regionale molto volentieri per sostenere lo sviluppo anche urbanistico delle varie realtà comunali».

A distanza di un anno dall'insediamento dell'Amministrazione è giunto il momento di affrontare i problemi della politica urbanistica a Savona. Le decisioni in merito alla pianificazione territoriale dovranno fornire delle risposte concrete e sostenibili per il futuro assetto urbano della città, per la mobilità e per la qualità della vita dei cittadini.

Il rapporto tra pubblico e privato è oggi il cardine per lo sviluppo della realtà savonese, e nel campo della pianificazione territoriale tale rapporto è ancora più determinante che in altri settori. L'urbanistica infatti rappresenta un forte potere che si traduce in grandi responsabilità nei confronti della collettività, condizionando in modo rilevante l'economia locale e l'impiego delle risorse della società e del territorio.

Le trasformazioni della città, per il significato che hanno, per gli interessi sociali coinvolti, per le prospettive del futuro che possono aprire, devono essere quindi attribuite, e gestite dall'Amministrazione comunale con il vincolo di favorire l'interesse collettivo. Occorre affermare con chiarezza che il principale soggetto di attenzione nella pianificazione e progettazione della città deve essere il cittadino e la qualità della vita urbana, e non la proprietà immobiliare e gli interessi a essa collegati.

Non occorre peraltro demonizzare la rendita immobiliare (fondiaria o edilizia) ma occorre essere consci che questa è il frutto del lavoro, delle decisioni e degli investimenti - attuali e storici - della collettività e come tale deve essere considerata: un mezzo per migliorare la qualità della vita e dell'economia e non un fine da perseguire a vantaggio di pochi. Le valorizzazioni immobiliari e l'attività edilizia derivante da queste non devono essere il solo motore dell'economia locale: la collettività savonese deve trovare la forza di ideare e mettere in pratica scenari di sviluppo alternativi alla semplice costruzione di nuove volumetrie nelle residue aree pregiate del territorio comunale.

E da questo concetto che occorre ricominciare a ragionare sul rapporto tra pubblico e privato e decidere sul futuro di Savona, affrontando il tema della pianificazione territoriale con un approccio innovativo e democratico. Oggi sussistono le condizioni per fare questo salto di qualità e l'Amministrazione comunale è matura per interrogarsi sul futuro della città in modo critico e costruttivo al contempo.

Il PUC è senza dubbio il nodo principale da risolvere: l'obiettivo non è la sua approvazione in tempi rapidi a prescindere dai suoi contenuti ma la sua revisione in chiave innovativa secondo i principi appena esposti.

L'Amministrazione comunale e i cittadini savonesi devono prendere atto che il PUC in itìnere va revisionato partendo dalla riformulazione di un nuovo Documento degli obiettivi basato su una serie di studi e indagini tecnicamente e scientificamente commisurati alla rilevanza dei problemi da affrontare per il futuro. Tale revisione va maturata all'interno di un vasto processo partecipativo e prendendo come riferimento un modello urbano, un uso del territorio e una mobilità sostenibili, cosi come propugnati nella Carta di Aalborg, sottoscritta nel 2004 anche dal Comune di Savona.

Pur avendo come obiettivo primario la costruzione di un PUC sostenibile e adeguato alle esigenze della collettività, occorre trovare lo stimolo culturale e i mezzi operativi per cambiare rotta. Savona deve interrogarsi su quale scenario puntare la propria scom messa per il futuro, traguardando un ampio orizzonte temporale, e ai cittadini deve essere offerta la chance della condivisione delle scelte pianificatorie che assumerà l'Amministrazione comunale.

Lo strumento offerto dalla pianificazione strategica, nelle forme già consolidate in molte realtà italiane ed europee di fatto induce a effettuare quegli approfondimenti d'indagine e quegli studi propedeutici alle scelte pianificatorie che la legge urbanistica regionale non obbliga a eseguire nelle fasi di redazione del piano urbanistico generale.

Anche sotto l'aspetto partecipativo, una pianificazione strategica permetterebbe di fare emergere in modo più chiaro e trasparente gli interessi economici consolidati che spesso limitano e condizionano la possibilità di ricercare alternative di sviluppo a quelle già presenti sul territorio e garantirebbe il confronto tra tutti i portatori di interessi, cittadini inclusi.

L'ipotesi operativa consiste pertanto nell'avvio di un Piano strategico per Savona, in contemporanea con la revisione generale del Progetto preliminare del PUC con l'obiettivo di arrivare alla definizione di scenari strategici sostenibili e condivisi che dovranno naturalmente confluire nel nuovo Documento degli obiettivi del PUC. Il progetto politico e amministrativo appena illustrato ha senza dubbio le sue difficoltà operative e i suoi rischi ma ha l'indubbio vantaggio di essere un percorso di alto profilo e trasparente in ogni suo tratto.

Il Piano strategico va interpretato come un atto volontario di costruzione partecipata e condivisa di una "visione" per il futuro, ossia un processo democratico e creativo che risponde all'esigenza di orientare ciascun soggetto coinvolto, portatore di interessi ed esigenze diverse, verso obiettivi comuni, contribuendo a creare una visione della comunità locale e ridefìnendone l'identità economica, sociale e urbanistica.

Il dibattito e il confronto tra i soggetti coinvolti, se adeguatamente supportato da studi e indicatori attendibili che descrivano la situazione attuale della città permetteranno all'Amministrazione comunale di disegnare scenari strategici che favoriscano lo sviluppo socioeconomico della comunità savonese. Il Piano strategico dovrà altresì definire ed esplicitare obiettivi e strategie per conseguire detti scenari mediante specifiche politiche amministrative e specifici interventi pubblici e privati.

In quest'ottica il Piano strategico e la revisione del Progetto preliminare del PUC potranno essere gli strumenti con cui i principali attori della vita sociale, culturale, economica e politica di Savona costruiranno in concreto un progetto di sviluppo futuro.

Pur rimarcando ancora una volta la bontà dell'impostazione metodologica appena illustrata, non bisogna sottovalutare i rischi che tale programma comporta. L'adesione a un nuovo percorso pianificatorio quale quello proposto dalla pianificazione strategica può avere un significato democratico solamente nel caso in cui si raggiunga l'effettiva partecipazione della società e dei cittadini ai processi di formulazione e decisione.

Attuare un vero processo partecipativo in una città come Savona, garantendo l'uguaglianza tra i diversi soggetti e interessi, indipendentemente dalla loro diversa capacità contrattuale sarà la vera sfida politica di rinnovamento. Gli interessi imprenditoriali e immobiliari "forti" dovranno confrontarsi con gli interessi "diffusi" dei cittadini che vivono direttamente le scelte urbanistiche come abitanti o fruitori delle diverse parti della città.

Andranno evitate le scorciatoie costituite dall'enunciazione di facili ricette di sviluppo economico-edilizio da parte delle associazioni imprenditoriali e gli ostacoli rappresentati dagli spesso sterili dinieghi formulati da comitati sorti a difesa di particolari interessi: si dovrà ragionare senza pregiudizi della città e della sua condizione attuale, di quale città abbiamo bisogno e di quale città avranno bisogno i nostri figli.

Si dovrà giungere a delle regole metodologiche per la valutazione dei progetti che incideranno sulla città e sul territorio che garantiscano un giusto equilibrio tra interessi privati e interesse della collettività, evitando i pericoli della negoziazione con il privato senza alcuna forza contrattuale da parte della pubblica amministrazione, la deregolamentazione assunta come paradigma pianificatorio attraverso l'attivazione sistematica di procedure urbanistiche straordinarie e l'eccessiva complicazione formale dell'apparato normativo del PUC.

L'orizzonte temporale tra pianificazione, progetti e politica: lungo per il piano strategico e PUC (10-15 anni); corto per i mandati elettivi e per la realizzazione di progetti non dovranno essere visti come ostacoli. L'Amministrazione comunale deve poter puntare a obiettivi di medio e lungo termine e non solamente a quelli che possono essere realizzati nell'arco del mandato di governo.

Un PUC improntato a questi principi è l'obiettivo che l'Amministrazione comunale savonese deve traguardare, il Piano strategico può essere uno strumento per raggiungere tale obiettivo, le condizioni necessarie per avviare questo importante e innovativo processo democratico sono la coesione politica delle forze di governo, il rafforzamento della capacità di discussione e di indirizzo del Consiglio comunale, il diritto di rappresentanza degli interessi diffusi nelle scelte economiche e territoriali del Comune.

Con le premesse metodologiche appena esposte, vogliamo infine riassumere in pochi punti gli indirizzi generali per la pianificazione territoriale che impronteranno l'azione di governo nei prossimi mesi:

· affrontare con il Piano strategico e la completa revisione del PUC la pianificazione territoriale savonese;

· inserire la trasformazione urbana in una strategia complessiva sostenibile e condivisa;

· perseguire la sostenibilità sociale dello sviluppo mediante l'attuazione una politica redistributiva più equa delle rendite immobiliari a favore della città, a partire dai prossimi interventi edilizi di trasformazione urbana che sono già conformi agli strumenti urbanistici vigenti ;

· garantire la partecipazione dei cittadini nelle scelte di trasformazione urbana;

· accettare il cambiamento e aprire la città al nuovo mediante il confronto di scenari di sviluppo alternativi;

· incentivare la bioarchitettura, il risparmio energetico e l’utilizzo delle fonti di energie rinnovabili;

· scegliere lo sviluppo in modo consapevole.

Nota: sul caso del savonese qui su Eddyburg si veda anche questo articolo di Luca Urbinati (f.b.)

E se i rom avessero occupato la Chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, il Broletto o il Ponte Coperto? Ecco cosa ti domandi, nel vedere a Pavia le macerie di quello che era fino a ieri uno dei monumenti di archeologia industriale più affascinanti d'Italia: l'antico stabilimento della Snia Viscosa. Demolito dalle ruspe perché il sindaco diessino non sapeva più cosa fare per cacciare gli «zingari » che avevano occupato l'area. C'è chi dirà: non era mica il Colosseo! Non era mica una cappella gotica! Non era mica un castello medievale!

Verissimo. È la tesi dello scrittore Mino Milani, autore del romanzo «Fantasma d'amore» dal quale Dino Risi trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni: «La necessità di abbattere la Snia trascende dalla storicità degli edifici. Non si tratta di chiese o monumenti, ma di ruderi abbandonati da decenni». Opinione condivisa giorni fa sul Corriere da Pietro Trivi, consigliere comunale di Forza Italia: «Che valore storico possono avere dei vecchi capannoni trasformati dai rom in una bidonville? Per la città quella ex fabbrica è solo un buco nero che crea problemi ai residenti».

Verissimo anche questo. Come è sempre successo nella storia (si pensi alle rovine della reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale che sta per essere restituita al suo splendore ma che fu a lungo occupata negli anni del boom economico da immigrati veneti e siciliani, pugliesi e romagnoli) gli antichi capannoni, scrostati e crepati e aggrediti dalla vegetazione, erano stati invasi negli ultimi tempi da un numero crescente di rom. I quali si erano adattati a vivere in condizioni spaventose.

Niente servizi igienici. Bambini abbandonati tra le macerie. Avvisaglie di una ripresa di quella tubercolosi che pareva sconfitta da decenni. Accumulo di quintali e tonnellate di immondizia.

Un degrado progressivo e apparentemente inarrestabile. Tale da scoraggiare il Comune, che dopo alcuni tentativi si era di fatto rassegnato all'impotenza. Da spingere gli operatori sociali a rinunciare a mettere piede nel ghetto, dove tra i 260 «zingari» accampati alla meno peggio c'erano almeno 74 ragazzini mai coinvolti in un progetto scolastico. Da esasperare gli spazzini al punto che, mandati a portar via almeno un po' di tonnellate di spazzatura, si erano ribellati all'idea di entrare nel complesso industriale abbandonato: «C'è il pericolo i muri crollino».

Insomma: che tirasse un'aria sempre più pesante, con rischi sanitari per tutta la popolazione dei dintorni, è innegabile. E neppure gli oppositori più critici della giunta unionista, come l'ex sindaco Elio Veltri che pure accusa l'amministrazione comunale di non aver fatto abbastanza, si sognano di negare l'evidenza: il problema andava risolto. Ma mai come in questo caso c'era il rischio di buttare via, con l'acqua sporca, il bambino. Perché il «monumento industriale» della Snia è (era?) davvero bello.

Lo aveva detto il grande architetto Vittorio Gregotti, che una manciata di anni fa aveva progettato per il Comune il piano regolatore spiegando che quegli edifici, soprattutto i più belli allineati lungo viale Monte Grappa, nel quartiere di San Pietro in Verzolo, andavano sottratti al degrado, recuperati, restituiti alla città che avrebbe potuto portarci una parte dell'Università. Lo aveva ribadito Italia Nostra, che aveva mandato un drammatico appello alla Sovrintendenza ai beni ambientali e architettonici chiedendo che almeno sui pezzi più pregiati del grande stabilimento fondato nel 1905 per produrre seta artificiale su una grande area (appetita dai padroni dell'edilizia) di 240 mila metri quadri tra la Ferrovia e il Ticino, fosse posto finalmente il vincolo ufficiale già prefigurato da Gregotti. Lo aveva implorato Legambiente. E lo stesso Veltri in una lettera angosciata al vice-premier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in cui ricordava come l'amministrazione pavese avesse già consentito negli ultimi anni due profonde ferite (una strada e una tangenziale) al parco della Vernavola dove nel 1525 si scontrarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V e minacciasse ora di costruire un grande parcheggio sotto la splendida chiesa romanica di San Primo. E ancora decine e decine di volontari trascinati da Giovanni Giovannetti, che col consigliere comunale Irene Campari (indipendente di sinistra in dissenso con la giunta di sinistra) e con Paolo Ferloni di Italia Nostra si erano spinti a presentare un esposto alla magistratura denunciando «il "partito del mattone"» deciso a «buttare giù tutto, anche le cornici dentellate, anche gli ornamenti e le archeggiature in cotto dipinto » di una testimonianza essenziale del ruolo di Pavia, che «nel secolo scorso, con Milano, è stata a lungo la città più industrializzata della Lombardia».

Niente da fare. Il sindaco Piera Capitelli l'aveva detto: «Per gli occupanti dell'area a Pavia non c'è più posto». Pugno di ferro: «Non abbiamo mai potuto affrontare il problema delle demolizioni ma ora che c'è il sospetto che alcuni edifici siano pericolanti lo dovremo affrontare ». I rom, i rischi igienici, l'odore dell'immondizia accumulata? «Il problema si risolverà con l'abbattimento dei capannoni», aveva rincarato l'assessore ai Servizi Sociali Francesco Brendolise. E i vincoli? «Non sono della Sovrintendenza ma del piano regolatore. E se vi fossero problemi di stabilità potrebbe essere superato ». Quanto alle preoccupazioni di chi denuncia «colate di cemento » in «una città che continua a perdere abitanti», il sindaco era stato chiaro: «Per il boom edilizio non posso che essere felice. Porta lavoro, attua una parte del programma e risponde all'esigenza abitativa: la città è stata ferma per troppo tempo».

E così ieri mattina, benedette dai proprietari dell'area (tra i quali spicca la «Tradital» di Luigi Zunino, indicato nella lunga estate calda delle scalate bancarie come uno che trattava affari con Stefano Ricucci e Danilo Coppola) le ruspe si sono presentate a sorpresa sul posto e hanno cominciato ad abbattere il primo dei quattro capannoni. Il più bello, forse. Finché non sono arrivati, per conto della magistratura, gli agenti: fermi tutti, sospendete. Un intervento che al sindaco non è piaciuto per niente: «L'ordinanza di demolizione l'ho firmata perché esistono concreti pericoli di crollo negli edifici in cui è nata la bidonville. Come Sindaco devo badare all'incolumità dei residenti e l'ex Snia non è sicura. Tra l'altro non vi sono vincoli architettonici imposti dalla sovrintendenza e ogni tentativo di dimostrare il contrario è solo strumentale...». Credeva di avercela fatta, ormai. E se un domani l'avessero rimproverata d'aver buttato giù quella «cattedrale industriale »? Uffa...

Diventano patrimonio dello Stato 201 ex caserme per un valore di 1 miliardo di euro. Lo prevede il primo decreto per il trasferimento di immobili siglato da Agenzia del Demanio e ministero della Difesa. Il provvedimento e' in corso di registrazione alla Corte dei Conti e sara' successivamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Il decreto, che rientra nelle disposizioni previste dalla Finanziaria 2007, e' il primo di quattro che sanciscono il passaggio di immobili dagli usi militari al patrimonio disponibile dello Stato.

L' operazione di trasferimento degli immobili ex Difesa si concludera' entro luglio 2008, quando l' ultimo decreto completera' l' individuazione dei beni da trasferire all' Agenzia del Demanio, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro. I 201 immobili, oggetto di questo primo decreto, saranno consegnati all' Agenzia del Demanio entro il 30 giugno 2007.

E' prevista per luglio 2007 una seconda lista di beni per il valore di 1 miliardo di euro con consegna entro fine 2007. Con identiche modalita' verranno poi consegnati, entro il 2008, beni immobili per un valore di altri 2 miliardi di euro.

L' Agenzia del Demanio avviera' sui beni ex Difesa progetti di valorizzazione e di eventuale dismissione, condividendo con i Comuni interessati iniziative in linea con i fabbisogni del contesto urbano e sociale nel quale gli immobili sono inseriti. Spesso situati nel centro delle principali citta' italiane, sottolinea l'Agenzia del Demanio, questi beni (caserme, arsenali, poligoni, terreni) rappresentano un' opportunita' di sviluppo e di innovazione nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico e nella pianificazione degli assetti territoriali.

In un'intervista al settimanale 'Economy' il direttore dell'Agenzia del Demanio, Elisabetta Spitz, sottolinea come in alcuni casi, la dismissione dei beni di proprieta' della Difesa possa ''cambiare il volto delle citta''.

Spitz cita l'esempio di Piacenza, dove ''il 50% del territorio e' interessato da beni militari che ora potranno lasciare il posto a iniziative pubbliche, come ospedali, centri di ricerca e teatri''.

Per la valorizzazione del patrimonio ex militare, il direttore del Demanio spiega che ''stiamo aprendo tavoli permanenti di confronto con l'Anci, la Conferenza Stato-regioni e con tutti i singoli comuni interessati, per valutare i loro fabbisogni e definire insieme un piano di riconversione.

Spitz precisa poi che la proprieta' del bene restera' allo Stato: ai privati verra' ceduta la loro gestione. L'ente locale, spiega, ''stabilisce la destinazione d'uso e l'Agenzia redige i bandi di gara per i privati''.

Riprendiamo dal sito sosPatrimonio la nota, diramata dal sito Demanio Real Estate. Il piano presentato dall'Agenzia del Demanio è pubblicato qui

Postilla

Nell’utilizzare questa possibilità i governanti dei comuni dimostreranno le loro reali volontà e capacità, e il modo in cui intendono il termini “valorizzazione”.

Se vorranno guadagnare qualche soldo svendendo ingenti beni comuni, tratteranno col miglior offerente promettendo, in cambio di molti euro, destinazioni d’uso lucrose per i nuovi possessori. Se faranno così, rimarranno senza risposta ingenti fabbisogni sociali, i quali diventeranno l’occasione per occupare nuove porzioni di terreno extraurbano.

Se invece vorranno utilizzare questi immobili pubblici per soddisfare le necessità di attrezzature pubbliche e d’uso pubblico, di verde, di edilizia sociale, evitando così di urbanizzare nuove aree rurali, allora cercheranno il consenso dei cittadini sulla base di progetti urbanistici basati un rigoroso calcolo dei fabbisogni insoddisfatti.

Saremo grati ai nostri collaboratori e lettori se ci informeranno di ciò che accade in giro per le città italiane.

Nelle intenzioni dell’Amministrazione vi era probabilmente la volontà, dopo le recenti polemiche, di utilizzare il convegno quale autorevole tribuna a difesa ed a giustificazione delle scelte operate con l’ultima Variante urbanistica, che – attraverso meccanismi perequativi – ha notevolmente aumentato le potenzialità edificatorie del Piano Regolatore Generale, compromettendo gravemente le previsioni di un organico sistema del verde urbano suggerite dal piano Piccinato degli anni Cinquanta e dai più recenti studi di Giovanni Abrami e Roberto Gambino. Se queste erano le intenzioni, non vi è dubbio che le relazioni ed il dibattito che hanno caratterizzato il convegno hanno fornito argomentazioni ed indicazioni del tutto opposte.

In primo luogo tutti i relatori hanno convenuto sul fatto che il diritto all’edificazione non è connaturato alla proprietà dei suoli bensì deriva da una concessione pubblica. Il che smentisce la tesi secondo cui la nuova edificazione connessa alla Variante di PRG approvata a Padova sarebbe stata una soluzione obbligata, imposta dalla prossima scadenza dei vincoli urbanistici posti a tutela del verde: una tesi adombrata da molti interventi pubblici dei nostri amministratori, non ultima la risposta fornita dal Sindaco in Consiglio Comunale ad una interrogazione della consigliera Giuliana Beltrame ( «… in Italia per la Costituzione al diritto di proprietà delle aree corrisponde anche un diritto ad edificarle» ed ancora «… l’ipotesi di cui stiamo parlando sarebbe un’ipotesi che contraddice alcuni principi fondamentali e cioè il diritto a costruire nelle aree di proprietà, diritto che possiamo regolamentare ma non proibire» - dal resoconto stenografico dell’intervento).

In secondo luogo – come ben hanno illustrato soprattutto le eccellenti relazioni di Andreas Kipar e di Carlo Alberto Barbieri – la perequazione non può essere considerata il fine della pianificazione urbanistica, bensì un semplice strumento: uno tra i possibili strumenti, da applicarsi al sistema insediativo e non a tutto il territorio, per l’attuazione di un chiaro e condiviso progetto di città pubblica e di infrastrutture ecologiche. Gli esempi più significativi citati dalle relazioni (il parco Nord di Milano, la cintura verde di Francoforte, il Thyssenkrupp Quartier di Essen, i sistemi del verde di Ravenna, Jesi, Vercelli, …) vanno tutti in questa direzione. Prioritario è sempre il disegno urbano, ed in particolare il disegno della rete ecologica a scala urbana e territoriale, ed è in funzione di questo disegno che – situazione per situazione – può tornare utile un accordo perequativo con i privati. Un accordo che in generale prevede la salvaguardia integrale degli spazi a più elevata valenza ambientale ed il trasferimento dei “diritti edificatori” concessi in altro ambito urbano (preferibilmente in aree dismesse, ove effettuare interventi di recupero edilizio ed urbanistico). Non solo. Secondo Barbieri sarebbe altresì opportuno stabilire, con una apposita riforma legislativa, che – per analogia con i limiti posti ai vincoli espropriativi dalle sentenze della Corte Costituzionale – anche i diritti edificatori concessi ai privati, essendo funzionali alla costruzione della “città pubblica”, avessero un preciso termine temporale, prevedendone la decadenza in caso di inerzia del proprietario.

E’ questa una visione decisamente antitetica rispetto a quella sin qui sostenuta dai nostri amministratori (con singolare unanimità di voti in Consiglio Comunale, fatta eccezione per i consiglieri di Rifondazione e dei Verdi), che con l’ultima Variante hanno semplicemente trasformato oltre 4.700.000 mq di aree già destinate a verde pubblico in aree di perequazione urbanistica, delegando ai privati la progettazione dei nuovi insediamenti, senza prevedere alcun meccanismo di trasferimento e delocalizzazione delle volumetrie (dalle aree più sensibili, dal punto di vista ambientale ed ai fini di un disegno strategico di trasformazione urbana, ad aree di recupero e riqualificazione urbana) e consentendone la frammentazione in lotti di superficie eccessivamente limitata (20.000 mq). E’ vero che i privati per utilizzare la nuova edificabilità loro concessa debbono cedere al Comune una consistente quota delle aree di proprietà, ma il risultato complessivo – come stiamo verificando in questi giorni – è uno spezzatino di aree verdi, forse quantitativamente significativo per le statistiche sugli standard, ma quasi sempre del tutto insignificante da un punto di vista qualitativo ed ecosistemico, oltre che ingestibile – per evidenti ragioni economiche – da parte del Comune. Un meccanismo di perequazione diffusa ed indiscriminata che – in virtù dei bassi indici edificatori – favorirà una ulteriore crescita a macchia d’olio della città e la realizzazione di villette e “residence nel parco”, ovvero di un’edilizia di lusso di elevato valore commerciale che è proprio quella di cui non si sente bisogno a Padova, dove l’unica reale emergenza abitativa è espressa dalle famiglie a basso reddito e dagli immigrati.

Ha affermato giustamente, a conclusione del suo intervento, Carlo Alberto Barbieri che la perequazione è un’arma a doppio taglio, destinata a generare il fallimento di ogni politica urbana se il Comune non si pone come soggetto attivo, come protagonista diretto della progettazione e della gestione delle trasformazioni urbane, non limitando la propria funzione a quella di certificatore delle iniziative private.

Nel chiedere che venga reso pubblico il testo dei diversi interventi, ci auguriamo che l’Amministrazione sappia far tesoro delle indicazioni emerse dal convegno non solo per la costruzione del nuovo PAT, ma anche per un’inversione di tendenza nella gestione quotidiana delle politiche urbanistiche.

L'antefatto in Perequazione a Padova, su Carta ed eddyburg

Non sarà più la città della Torre perché di torri ce ne saranno almeno quattro. E neppure la città del campanile pendente: tra un mese, nel quartiere di Ospedaletto, inizieranno i lavori per costruirne un altro ex novo, alto 57 metri e 60 centimetri, proprio come il capolavoro di Piazza dei Miracoli. Non avrà campane, questo clone postmoderno, e il baricentro sarà regolare e bilanciato. Eppure sarà «virtualmente storto» e grazie a un gioco architettonico di luci ed ombre l'osservatore lo vedrà pendere in un mix di realtà virtuale e miraggio metropolitano. Le altre due torri, da 45 metri ciascuna e senza alcuna analogia con il campanile del Bonanno, sorgeranno nel quartiere di Pisanova.

Insomma, tra meno di un lustro e con un investimento di 180 milioni di euro, Pisa cambierà look. I cantieri stanno per aprire e il costruttore siciliano Andrea Bulgarella parla di una rivoluzione. «Costruiremo appartamenti e torri in due quartieri — dice — e lo faremo con grandissima qualità come gli antichi costruttori. Abbiamo cercato i migliori progettisti al mondo. Ringrazio sindaco e comune per avermi dato questa possibilità».

La «Torre pendente 2» è stata firmata da Dante Oscar Benini, 60 anni, allievo di Carlo Scarpa, tra i più importanti architetti al mondo. Sorgerà a cinque chilometri a sud est da Piazza dei Miracoli e sarà il fulcro di Piazza del terzo Millennio.

«I primi due piani della torre saranno raggiungibili con una grande rampa a piani inclinati — spiega Benini — dove cittadini e turisti potranno passeggiare. Poi un ascensore porterà chiunque lo vuole sulla terrazza panoramica. E da qui sarà possibile vedere Piazza dei Miracoli e il campanile del Bonanno. Allegoria e realtà unite in un solo sguardo».

Secondo il progetto da 70 milioni di euro la nuova piazza dovrà assumere una connotazione commerciale. Nel nome dell'ecologia, però. «Per i due edifici da otto piani che saranno costruiti insieme alla torre, abbiamo scelto cementi fotocatalitici capaci di assorbire l'ossido di carbonio degli scarichi delle auto per trasformarlo in ossigeno — continua Benini —. Le facciate ottimizzeranno l'energia e in qualche modo produrranno caldo d'inverno e freddo d'estate. In tutti gli edifici saranno installate pompe di calore ecologiche che non emetteranno emissioni nocive».

Il tutto sarà coperto da una sorta di tendone di cristallo di cinquemila metri quadrati dalla doppia funzione: riparare le persone dalla pioggia e raccogliere l'acqua piovana in appositi pozzi per poi essere riutilizzata per gli scarichi sanitarie l'irrigazione del giardino.

Eppure, nonostante gli accorgimenti ecologici, c'è chi lancia accuse di scempio e di presunzione urbanistica. «Forse qualcuno ha avuto qualche colpo di sole e invece di Pisa ha creduto di trovarsi a San Gimignano o a Bologna dove le torri abbondano — ironizza Gioacchino Chiarini, preside di facoltà all'università di Siena e direttore del Laboratorio sul paesaggio del Centro Warburg Italia —. Progetti di questo tipo servono solo a distruggere l'identità di una città. Pisa e il campanile pendente vivono da secoli in osmosi, sono l'essenza della città. Sarebbe come costruire a Siena un'altra Piazza del Campo, oppure un altro Ponte Vecchio a Firenze. Se non fosse vero sembrerebbe una barzelletta». Preoccupato Fabio Roggiolani, consigliere regionale e leader dei Verdi toscani: «Quando ho visto il progetto mi è venuta in mente la Torre di Babele che sfida il divino. Come si fa solo a ipotizzare una somiglianza allegorica con Piazza dei Miracoli? Non solo è un capolavoro ma, lo dico da laico, è anche un simbolo religioso».

Il sindaco di Pisa, Paolo Fontanelli: «Piazza del Terzo Millennio è un progetto di grande qualità. Un'area artigianale e produttiva, come è quella di Ospedaletto, può allargare la dimensione e puntare anche ai servizi e all'attrazione».

Non solo Fuksas. La polemica sulla Torre delle torri, tornado, emozione, puntura di spillo in mezzo al mare a seconda della fantasia di chi si esalta solo ad immaginare i 123 metri, per ora solo uno schizzo, dell´architetto italo-lituano, rischia di spingere ai margini, di abbassare la soglia di attenzione dall´emergenza cemento su cui la città deve da tempo interrogarsi, non si interroga mai abbastanza o non ne ha forza e piena coscienza.

Ma il progetto della Margonara (porto turistico con annessa Torre Fuksas) è solo la punta di un iceberg. Un grosso iceberg. L´ultimo tassello di un´operazione di progressiva acquisizione (conquista?) della città in un intreccio tra affari e politica, che arriva da lontano e che appare inarrestabile prima con il progetto Bofill e ora con Fuksas. E´ la conferma di una fitta rete che vede come protagonisti i "soliti noti", affiancati e sospinti dall´Unione Industriali e dall´Autorità portuale, più in generale con il sostegno delle categorie economiche sotto l´ombrello della Camera di commercio, e con l´avallo esplicito e conclamato del vertice ds e della Lega delle Cooperative, seguiti a ruota da enti e partiti in ordine sparso e con varie differenziazioni, ultima in ordine di tempo quella dello Sdi, che con una mossa strategica certo ispirata dal segretario Paolo Caviglia, minaccia la verifica dell´alleanza di Palazzo Sisto IV se, come è scontato, Rifondazione e Comunisti italiani voteranno "no". Senza contare il pieno assenso dell´opposizione di centrodestra, speranzosa di fruttare sul piano politico la piccola ma pesante emorragia provocata nella maggioranza dal dissenso della sinistra radicale.

Una ragnatela di interessi, una liaison senza veli e senza incertezze. Lo dimostrano le pubbliche e ufficiali affermazioni del segretario diessino Lunardon, del presidente coop Granero e del capogruppo De Cia, affascinati fino all´incantamento (rileggere per conferma il testo dell´intervento del capogruppo diessino in consiglio comunale) per l´indiscutibile tratto geniale e l´avveniristica intuizione artistica e immaginifica dell´architetto che vota Rifondazione, ma che a Rifondazione proprio non va giù dal viceministro all´Ambiente all´assessore regionale Zunino.

La città è tutta un cantiere. Privato. Riassunto delle puntate precedenti. Si è costruito nel cuore del porto, accanto al Palacrociere: Torre Orsero con annessi e connessi; si è costruito sui resti dell´ex Mulino, sulla sponda destra del torrente Letimbro, a cinquanta passi dalla spiaggia; si sbanca, si scava e si costruirà poco più in là, nella vecchia centrale e nel palazzo dell´ex Cieli con una maxi operazione di edilizia residenziale (appartamenti, box sotterranei, negozi). Ma l´elenco è ancora lungo. In pole position le aree ex Italsider. Qui, demolito lo stabilimento e cancellati con imponenti sbancamenti i resti del promontorio di San Giorgio (anno 1100-1600) nascerà il maxi complesso del Crescent disegnato da Bofill per Orsa 2000, la società guidata della famiglia Dellepiane dopo l´uscita del terminalista Campostano. Si costruirà una torre anche nell´area ex Mottura e Fontana, nella zona di San Michele, ponente della città; si sta costruendo sulle ceneri del glorioso cinema teatro Astor, all´imbocco del Centro storico (ma i lavori sono fermi a causa delle crepe provocate dai lavori di palificazione nell´adiacente Pianacoteca). Altro cemento è previsto nell´ex Cantiere Solimano, tra l´Aurelia e il mare, zona di ponente; come per il progetto che prevede appartamenti, uffici e galleria commerciale nell´ex ospedale San Paolo, in pieno centro cittadino. Si costruirà ancora nella zona del Brandale, ad un tiro di fionda dalla Fortezza del Priamàr, dalla Darsena Vecchia e dal Crescent. Ma non basta. Incombono altri progetti e altro cemento. Binario Blu (De Filippi-Barbano), proprietaria delle aree ex Squadra Rialzo, zona centralissima, tra il torrente Letimbro e il Palazzo di Giustizia, ha affidato all´architetto svizzero Mario Botta (formatosi alla scuola di Carlo Scarpa, influenzato da Le Corbusier e Louis Isadore Kahn, e nel cui palmarès figurano le Torri Kyobo e il Museo d´Arte a Seoul, la Banca del Gottardo a Lugano, la nuova Scala di Milano, il Museum of Modern Art di San Francisco) il progetto di un "importante" centro residenziale. Un´altra cordata (De Filippi, Mirgovi, Bagnasco, Cooperative) ha pronto un progetto di edilizia residenziale, con tanto di torre, nell´area degli Orti Folconi, proprio di fronte alla stazione Mongrifone. Centinaia e centinaia di appartamenti, uffici, box in una città con poco più di 60 mila abitanti e in cui proliferano le agenzie immobiliari (una ogni 500 abitanti). Non solo Fuksas, dicevamo all´inizio. Il progetto della Margonara, esaltato come la panacea capace di guarire una città resa vulnerabile dai ritardi e dalle miopie nel progettare e superare la fase post industriale, è solo l´ultimo assalto, la spallata finale di una lobby trasversale in cui la politica va al traino dell´impresa privata, poco o nulla riservando alla collettività. E in cui le voci contrarie, prime fra tutte Italia Nostra, Campanassa, Istituto di Studi Liguri e Storia Patria, sono l´ultima, fragile barricata per fermare l´escalation dei "padroni della città".

Nessuno saprebbe dire se è un concetto filosofico, un istituto giuridico, un topos geografico, una categoria dello spirito, una patologia isolana o l’Araba Fenice. Ma qualunque cosa sia, la «Continuità territoriale» agita – eterna croce e delizia – i sonni dei sardi. Arrivi al desk Alitalia di Fiumicino e cominci a capire il perché.

Il sindaco forzista spera, nel 2009, di poter succedere a Renato Soru

Chiedi gentilmente di imbarcarti per Cagliari, esibendo il numero del tuo regolare biglietto elettronico Alitalia, ti guardano come un minus habens e ti spediscono a Meridiana, la compagnia di Karim Aga Khan, da dove, con sguardo di compatimento, ti rispediscono all’Alitalia, in un balletto che farebbe infuriare non un sardo «fumino», come dicono i pisani, ma un flemmatico britannico. Anche l’Inghilterra è un’isola e non ci puoi andare in bicicletta, ma la British Airways ti ci porta da quando esiste l’aviazione civile senza farla tanto lunga. L’Alitalia di Giancarlo Cimoli, invece, quando l’anno scorso ci fu la gara per l’assegnazione delle tratte sarde, dice di essersi distratta un po’ e di aver dimenticato di partecipare, lasciando sole Meridiana e Air One, che però non avevano aerei sufficienti. Per cui il governatore Renato Soru, che - pur nato figlio di un edicolante a Sanluri ai bordi delle mammellose colline della Marmilla - è uno di quei sardi che amano le valli interne e sono capaci di terribili ire fredde, si è dovuto sbattere da pazzi per tentare di risolvere alla meglio il problema.

Quando finalmente ci fanno sbarcare a Cagliari per la modica somma di 148 euro, solo andata, Soru lo troviamo proprio in una di quelle giornate di rabbia fredda che ben conosce Luigi Pomata, lo chef preferito dal coté di potere cagliaritano, tornato in città dopo aver lavorato a New York a «Le Cirque» di Sirio Maccioni. Da quando due anni e mezzo fa è stato eletto presidente della Regione autonoma della Sardegna, l’uomo che inventò Tiscali e cominciò a dare gratis Internet, che è un capitalista ma cita Gramsci, si è battuto per sfrattare dall’isola i sottomarini nucleari americani e liberarla almeno da una parte dalle asfissianti servitù militari. Ci è riuscito, gli americani se ne andranno dalla Maddalena nel 2008, come promesso. Ma adesso sono le «lobby militari italiane», come le chiama, a non voler schiodare, nonostante l’accordo politico già siglato. In una riunione tecnica al ministero della Difesa, retto dai corregionali Arturo Parisi, ministro, e Emidio Casula, sottosegretario, l’ammiraglio Paolo La Rosa, capo di stato maggiore della Marina, ha dichiarato con militaresca fermezza che non molleranno mai non solo il deposito munizioni della Maddalena, il più grande d’Italia, Punta Rossa, dove si fanno le esercitazioni degli incursori, Capo Frasca, Teulada e Capo Marrargiu, dove aveva sede «Gladio», l’organizzazione che, complice Francesco Cossiga, doveva salvare l’Italia da un eventuale attacco comunista, ma neanche le spiagge occupate dagli «Ops». Che cosa sono gli «Ops»? Sono gli Organismi di Protezione Sociale, che, tradotto in italiano, significa le case di vacanze estive dei militari, dei dignitari ministeriali e dei loro cari. Altro che gli americani a Vicenza, la caserma Ederle e l’aeroporto Dal Molin. A Cagliari non c’è il Palladio, ma c’è quella che il governatore definisce «l’occupazione militare delle spiagge più belle del mondo». Mille ettari in tutta la regione, 120 solo nel capoluogo, con 42 immobili cittadini, a cominciare dall’immensa caserma Ederle - lo stesso nome di quella di Vicenza - a Calamosca.

Cagliari città delle «Tre Emme» - medici, massoni e mattoni - si è sempre detto, trascurando colpevolmente la quarta emme, quella dei militari. I medici cagliaritani sono vivi e vegeti, controllano la sanità privata, sono i padroni delle cliniche. Uno di loro, Emilio Floris, è il sindaco forzista di Cagliari.

Figlio di Mario Floris, vecchio vicesindaco democristiano soprannominato «Marpio», che controllava gran parte della sanità privata, Emilio è anche lui un perfetto democristiano, che con l’acuminato governatore mantiene un buon rapporto, sperando di succedergli nelle elezioni regionali del 2009, se Berlusconi ci sarà ancora e se punterà su di lui, e non magari sull’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu, dopo la tragicomica esperienza di Mauro Pili. Pili era quel ragazzone berlusconiano che trescava con l’ex ragazza demichelisiana, l’opima Anna La Rosa televisiva, e che, diventato presidente della Regione, inaugurò il suo mandato leggendo lo stesso discorso che Roberto Formigoni aveva fatto all’insediamento in Lombardia. Fu scoperto per una piccola distrazione, perché parlava della sua regione come della regione nord-occidentale più industrializzata d’Italia, con un numero di province che purtroppo in Sardegna non tornava proprio. L’Antonio La Trippa del principe De Curtis - vot’Antonio, vot’Antonio! - al giovane Pili faceva un baffo.

Se i medici sono in salute, non si può dire lo stesso dei massoni, che pure tradizionalmente con i «clinicari» s’identificavano. Ora si riuniscono tristemente il lunedì sera da Beppe al Flora, in via Sassari, convocati da Francesco Puxeddu, ex presidente dell’Ersat, accusato anni fa di aver maneggiato una tangente del figlio di Claudio Abbado per cedere un terreno pubblico adiacente alla villa algherese del maestro. Altri tempi quelli in cui il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani, era Armandino Corona. Ex presidente regionale, lamalfiano, spadoliniano, Armandino, il «risanatore» massonico dopo il ciclone della P2 di Licio Gelli, era anche lui proprietario di cliniche, ma soprattutto era il grande mentore del potere cagliaritano, delle nomine, degli affari immobiliari e non. Oggi, ultraottantenne, vive defilato e tristissimo in lite con i figli per la gestione dell’ingente patrimonio familiare.

In compenso, la terza emme, quella dei mattoni, impazza, pur dovendosela vedere con il governatore Soru, che della difesa ambientale ha fatto la sua cifra politica, varando tra mille polemiche il suo piano paesaggistico. Sta vedendo i sorci verdi Gualtiero Cualbu, di amicizie trasversali, comprese quelle con il presidente della Provincia di Cagliari, il diessino Graziano Milia e con l’ex ministro lombardian-craxiano Giovanni Nonne, che stava colando cemento sul Colle di Tuvixeddu, la più importante necropoli punica del Mediterraneo, prima di essere fermato da Soru. Sergio Zuncheddu, palazzinaro di Burcei proprietario dell’«Unione Sarda», il quotidiano cagliaritano che acquistò per un centinaio di miliardi da Niki Grauso, e comproprietario con Veronica Berlusconi del «Foglio» di Giuliano Ferrara, sta spargendo cemento anche lui al centro di Cagliari e aveva la promessa che i suoi palazzi sarebbero stati acquistati dalla Regione. Ma Soru si è messo di traverso ed è ricambiato quotidianamente dagli attacchi del quotidiano cagliaritano, l’unico giornale italiano che ha un ex direttore affidato ai servizi sociali per reati patrimoniali. Lo attaccano tutti i giorni direttamente o per l’interposta persona del suo direttore generale Fulvio Dettori, docente di Diritto costituzionale regionale e figlio di un antico e stimato presidente democristiano della Regione, per una gara da 60 milioni di euro in tre anni vinta dalla Saatchi & Saatchi, che ha precedentemente lavorato per Tiscali, sulle tasse sul lusso, sul conflitto d’interessi, sugli ospedali cittadini, che vuole dismettere per destinarli ad altri usi e per costruirne uno tutto nuovo, sul progetto del grande museo nuragico da realizzare per risanare l’area degradata di Sant’Elia. Anche Roberto Colaninno, l’uomo della scalata a Telecom della razza padana, ha esigenze cementifere a Is Molas, un complesso turistico-sportivo a due passi da Cagliari, e si sente ripetere dal governatore che non si può andare avanti con «una grande ricchezza di tutti usata solo da pochi». E c’è persino il rettore dell’Università Pasquale Mistretta, ingegnere, che ha una passione per gli immobili: ne compra, ne vende, ne affitta, costruisce nei giardini.

«Macché cultura, Gramsci si rivolta nella tomba, macché industriali, macché capitani coraggiosi, qui abbiamo solo palazzinari non propriamente coraggiosi e una nuova borghesia mercantile proveniente dai paesi, abbiamo gente che preferisce sfruttare il bene pubblico piuttosto che investire nell’industria», provoca il governatore. Non più le grandi famiglie borghesi, ma i re dei supermercati, i Murgia, i Pilloni.

E gli industriali, quei pochi che ci sono, offesi, gli rispondono per bocca del loro presidente Gianni Biggio, titolare di una piccola agenzia di «transhipment», con un sondaggio tra gli iscritti che giudica la politica di Soru «largamente inadeguata».

Come collocare, tra tante emme, Niki Grauso, discussa e nervosa star cittadina, inventore di Videolina, ex padrone dell’Unione Sarda e ora dei quotidiani gratuiti «E Polis», di cui sostiene di distribuire nelle città italiane un milione e più di copie? L’uomo è genialoide e spesso avventuroso, come dimostrò nella mediazione che tentò di fare nel rapimento di Silvia Melis, ultimo dei grandi rapimenti sardi, perché - questo è un fatto - dopo il suicidio del giudice Lombardini e la misteriosa mediazione di Grauso, in Sardegna non ci sono più stati grandi sequestri.

Venduta a Giorgio Mazzella, presidente del Credito industriale sardo, oggi proprietà di Banca Intesa, la sua villa in viale Trento, dove si mangiava su piatti di cristallo poggiati su un tavolo di cristallo, avendo l’impressione che le pietanze levitassero nel vuoto, Grauso era scomparso da Cagliari, si dice per lidi libanesi. Ora è tornato, ha riportato le sue società a Cagliari per poter ottenere 3 milioni di euro di finanziamento dalla banca regionale Sfirs, presieduta dal sociologo Gianfranco Bottazzi. Mauro Pili, quell’ex presidente berlusconiano un po’ debole in geografia, ha fatto fuoco e fiamme, accusando Soru di proteggere Grauso, uomo della sinistra. Figurarsi. Che c’è mai di sinistra a Cagliari? «Assolutamente niente», secondo il vecchio dirigente comunista Andrea Raggio. «C’è solo una combinazione tra presidenzialismo forte e politica debole». Che piace, paradossalmente, a Rifondazione Comunista, come ci racconta Luigi Cogodi, nato in un paese vicino a quello di Emilio Lussu, detto Gigi il Rosso non solo per i capelli rossi, ma da quando, giovane assessore regionale all’Urbanistica con il presidente sardista Mario Melis, fece abbattere dalle ruspe in Costa Smeralda la villa miliardaria appena costruita da Antonio Gava, allora capo della Corrente del Golfo e potentissimo ministro democristiano. «Soru - giura Cogodi - è una contraddizione positiva, più illuminista che illuminato, è un uomo che fa una politica in una prospettiva di progresso con un taglio non direi dittatoriale, ma manageriale».

Anche Gigi il Rosso, oggi deputato di Rifondazione, naturalmente, soffre del terribile, trasversale chiacchiericcio cagliaritano. Raccontano di quel giornalista dell’»Unione», oggi suo braccio destro in Consiglio comunale, che era accreditato come il confidente di Niki Grauso nel controllo dei colleghi dell’Unione Sarda.

«Le banche, guardiamo alle banche che comandano da fuori», fa il governatore capitalista osteggiato dai partiti, che nel 2009 vorrebbero liberarsene. Una, il Cis, Credito industriale sardo, è ormai governata da Milano, l’altra, il Banco di Sardegna, nell’orbita della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, con Natalino Oggiano, ex direttore dell’Antonveneta ai tempi di Silvano Pontello, che oggi passa le carte bolognesi. «Io - rivendica Mariotto Segni, l’uomo che con l’elezione diretta dei sindaci ha cambiato di fatto i pilastri della politica italiana - sono stato un fiero avversario della gestione politica delle banche fatta dalla Democrazia cristiana, ma oggi devo dire che il Banco di Sardegna democristiano dei Giagu De Martini era migliore di quello di oggi ai fini locali». E’ nata da poco la Banca di Cagliari, creatura della famiglia Randazzo, padre, figli e discendenti vari, messa in piedi dalle cooperative rosse e dall’Aias, l’Associazione che dovrebbe assistere i portatori di handicap. Soldi pubblici, commistione di affari e politica, trasversalismo, quello che Cogodi chiama il potere che «veste pubblico e opera privato». Come quello di Sandro Usai, presidente da antiche ere del Consorzio di sviluppo industriale e quello di Nino Granara, presidente del porto, autori della grande incompiuta, costata centinaia di miliardi di lire, del canale navigabile. Un’incompiuta che ha favorito in Calabria il successo del porto di Gioia Tauro, che sembrava all’inizio la peggiore cattedrale nel deserto d’Italia.

Si chiama Bètile la scommessa della Cagliari di Soru, che vorrebbe fare a meno delle quattro emme, integrate dalla B delle banche, dalla C dei comitati d’affari e dalla P dei poteri collaterali. Bètile è un idolo sardo di pietra, ma nella testa di Soru è un grande museo dell’arte nuragica e contemporanea, che spazierà dai bronzetti che colpirono Picasso, alla ricerca artistica attuale del Mediterraneo e del Nord Africa, in un bianchissimo palazzo a vela già progettato dall’architetta irachena Zaha Hadid. «Cagliaricentrismo autolesionista» per la Sardegna, divina il sassarese Mario Segni, mentre la sua capitale del nord, in passato produttrice di classi dirigenti, perde posizioni a favore di Olbia. Soru, l’unico vero potere che resta, che comanda ma non è detto che governi, prepara, secondo lui, una Sardegna semispopolata, che fra trent’anni avrà poco più di un milione di abitanti, di cui 500 mila sul polo metropolitano di Cagliari. Se bastasse il sogno di Bétile, della Bilbao sarda, vagheggiata dall’uomo di Tiscali a salvarla...

Progetto Fuksas, ovvero quello della torre alta 120 metri e del posto turistico per 700 posti barca. Il conto alla rovescia è partito. Dopo i botta e risposta da taverna (il viceministro all´Ambiente: «Sembra un grosso fallo»; l´architetto lituano: «Spesso si disprezza quello che si desidera») si va al sodo. Si discute. Si comincia a metà febbraio (15, 20 e 22) con tre consigli comunali "aperti", preceduti da una seduta propedeutica del consiglio comunale. Tre momenti delicati con 23 soggetti coinvolti: Lega Navale, Wwf, Assonautica, Lega navale, Ordini di ingegneri, architetti e geologi, Collegio dei geometri, Camera di commercio, Consulta culturale, Industriali, Confesercenti, Confcommercio, Confartigianato, Cna, albergatori, Lega delle cooperative, segretari sindacali, Automobile Club. Una specie di cartina di tornasole degli umori e delle pulsioni, dell´interesse vero o presunto della città per il suo futuro. Nel bene e nel male.

Il sindaco Federico Berruti si prepara alla "tre giorni" ostentando tranquillità. Si dice sereno, anche se non lo è. E non può esserlo. E´ convinto che non vi fosse altra strada per giocare a carte scoperte, per sgomberare il terreno da velenosi sospetti, polemiche pretestuose. Lo fa facendosi scudo di una dichiarazione di principio. «A me interessa che la città si renda conto che l´istituzione democratica, cioè il consiglio comunale, è la sede dove si decide». Ma la partita è grossa, gli interessi tanti, le attese pure. E già si stanno addensando tensioni, sollecitazioni, pressioni, manovre e manovrine, uscite tattiche, prese di posizione, scelte di campo. Come quella del segretario ds Lunardon («Il progetto s´ha da fare, è un opportunità da non perdere per lo sviluppo della città») che ha fatto drizzare le orecchie al "fronte del no" (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) e alle molte anime della Margherita, subito spalleggiato dall´assessore Di Tullio, ex segretario della Camera del lavoro, trovando facili sponde in Forza Italia, ma con An pronta a prendere le distanze un po´ per diffidenza (nel progetto), un po´ per ripicca. Lo Sdi per ora sta alla finestra. Paolo Caviglia, vice sindaco e un po´ padre-padrone dei socialisti savonesi, è possibilista. «Non mi infilo nei discorsi sul sì o sul no, ma sul come. Prima voglio capire, vederci chiaro. Terremo conto della ricadute che l´operazione avrà per l´intero comprensorio savonese. Ma mantenendo alta l´attenzione sui temi riguardanti territorio, ambiente, viabilità».

Piatto ricco mi ci ficco (investimento previsto: 100 miliardi). E il sindaco Berruti ad un certo punto deve essersi sentito assediato. Da una parte la lobby dei costruttori (ieri Dellepiane-Orsero-Campostano, oggi Gambardella-Spada), sponsorizzata da Autorità portuale e Unione Industriali, lo schieramento delle intese trasversali, il frullatore dei partiti; dall´altra il partito del "no" a prescindere, sinistra radicale, dissenzienti per principio o per convenienza, ambientalisti, tutori del territorio, conservatori per principio. Un accerchiamento che poteva mettere in crisi le sue certezze, ma soprattutto incrinare la sua immagine di sindaco dalle porte aperte, del dialogo a tutto campo, con qualche concessione alla demagogia ma capace di inusuali aperture, senza tessera (e in casa Ds non l´hanno ancora digerita), svincolato, fin che gli è possibile, dalle logiche dei partiti. Ne è uscito, bene o male, con un colpo d´ala. Con un semplice, banalissimo: «Parliamone». C´è chi ha gradito e chi no. Gli interlocutori chiamati a Palazzo Sisto IV a metà febbraio in larghissima parte sì. Non solo per poter andare a dare battaglia in difesa della prateria di posidonie, della baraccopoli della Madonnetta (ordine di sgombero dell´Autorità portuale entro marzo), ma anche per dire basta alle colate di cemento spacciate come volano di sviluppo. Nutrita la platea degli estimantori di Fuksas. Luciano Pasquale, presidente della Fondazione De Mari ma anche direttore dell´Unione industriali, non ha dubbi. Il suo consenso è netto. Approva la strategia del sindaco. E´ fiducioso. «Alla fine prevarrà il buon senso, nell´interesse della città». E cala tre carte: turismo, industria e cultura. Quale turismo? Luciano Pasquale non ha dubbi. «Il progetto ha una evidente valenza paesaggistico-infrastruttutrale con l´offerta di porto turistico potenziata e un´area di collegamento del comprensorio Savona-Albissola che può essere migliorata sul piano estetico e funzionale. Ma ha soprattutto il pregio, la capacità di attrarre investitori, turisti, diportisti, visitatori ma anche chi abita nel comprensorio. La torre di Fuksas? Un´immagine-simbolo». Industria è una parola grossa, desueta per Savona. Pasquale non è d´accordo. «E´ ovvio che mi riferisco alla nautica, nostro fiore all´occhiello. Un settore di alta qualità e professionalità, più industriale che artigianale, sia nella costruzione che nell´assistenza e riparazione. In un circolo virtuoso aumenteranno le capacità di creare lavoro, occupazione qualificata e reddito». E la cultura? «E´ l´aspetto più immateriale, com´è logico che sia. Mi riferisco alla trasformazione della città, un segnale forte, soprattutto verso l´esterno, ma auspico anche verso l´interno. Ciò vuole dire una città che si trasforma, che realizza cose nuove, importanti, apprezzate unanimemente. Vedo una città capace di aprirsi per 365 giorni al pubblico esterno e a un mercato, che sa valorizzare le proprie opere d´arte, organizzare eventi, arte, musica, convegni, spettacoli, manifestazioni sportive. Una città viva con operatori non rinchiusi nel guscio ma capaci di dare segnali e di assumere iniziative. Il mio sogno è che in cima alla torre Fuksas sorgano locali in cui circolino non solo salatini e drink ma anche idee».

Ma non saranno tutte rose. Anzi. Berruti, sindaco assediato e dal sorriso sempre più raro, si augura che «su un tema così controverso si ricompatti la città». Le tre audizioni non scioglieranno il nodo. Sarà poi il parlamentino a pronunciarsi se andare avanti con un atto di indirizzo. L´iter prevede altri passaggi: Autorità portuale, progetto preliminare, conferenza dei servizi, ritorno a Palazzo Sisto IV per esame in sede tecnica ed eventuali osservazioni, parere della giunta e definitivo approdo in consiglio comunale per il via libera al progetto. Tutto deciso? Sembra, ma non è detto. Berruti sta abbottonatissimo. Anche se c´è chi afferma che l´incontro romano con Fuksas gli ha chiarito molti dubbi. Ma non esce (del tutto) allo scoperto. Non fa previsioni. «Saranno consultazioni vere. L´esito non è scritto. Non sarà una passerella per imbellettare un processo già definito. Farò considerazioni di merito solo dopo non prima. Non ho preconcetti. Ascolto, rifletto. Sono disponibile a farmi convincere».

Un intervento di E. Salzano

PARIGI - Forse nessuno avrebbe mai pensato che una grande strada commerciale, per quanto prestigiosa ed evocativa, potesse ambire un giorno a diventare monumento nazionale, protetta e tutelata come fosse una cattedrale o un museo ottocentesco. Eppure è quello che sta per accadere agli Champs Elysées.

L´immenso viale che collega place de la Concorde con l´Arco di Trionfo diventerà presto intoccabile. Senza il permesso del governo sarà difficile spostare un´insegna luminosa, installare un tavolino, cambiare gli orari di apertura dei negozi. Impossibile poi entrare nel club delle fortunate boutiques domiciliate agli Champs Elysées se lo Stato francese non sarà d´accordo. Lo ha capito a sue spese il gigante dell´abbigliamento giovanile H&M. Il gruppo svedese si è visto rifiutare la licenza dopo aver già versato 20 milioni di euro per il contratto di affitto del numero 88, nella parte centrale del viale. La commissione pubblica ha spiegato che ci sono ormai «troppi negozi di vestiti» nella strada: su 332 esercizi commerciali, il 39% vende infatti vestiti. «Gli Champs Elysées rischiano di banalizzarsi» è stata la conclusione dei funzionari. E il ministro del Commercio, Renaud Dutreil, ha promesso un decreto: «Da gennaio sarà possibile per le autorità locali controllare i passaggi di licenze. Dobbiamo proteggere gli Champs Elysées».

La misura era nell´aria da tempo, da quando la speculazione immobiliare ha trasformato definitivamente la celebre strada che nel Settecento portava re e regine verso la campagna, ornata dal giardiniere di Versailles André Le Notre, celebrata da Napoleone che volle costruirvi in cima l´Arco di Trionfo e dalle passeggiate della nascente borghesia, poi infine delle classi operaie trasportate nel salotto della capitale con il metro. Simbolo dell´orgoglio repubblicano e della festa popolare - qui si tiene la parata del 14 luglio, l´arrivo del Tour de France - gli Champs Elysées sono diventati uno dei luoghi più costosi del pianeta. In pochi anni, gli affitti sono quasi quintuplicati, passando da 2 fino a 10mila euro al metro quadrato. «Una follia» commenta la socialista Lyne Cohen-Solal, responsabile del commercio al Comune di Parigi.

L´avenue ha così cambiato velocemente identità, perdendo l´antica vocazione culturale (il nome significava proprio «campi delle isole felici») a beneficio dell´animo più commerciale. Dal 1996 sono scomparse dieci sale cinematografiche, tradizionale attrazione della strada. L´anno scorso, il caro-affitti ha costretto alla chiusura l´Ugc Champs Elysées sostituito da un megastore della Nike. E adesso l´Ugc Triomphe e Normandie minacciano di andarsene: «Il canone richiesto supera il guadagno che possiamo realizzare con gli spettatori» spiega il direttore generale di Ugc, Hugues Borgia. Anche le librerie-discoteche Virgin e Fnac temono di dover sloggiare come molti ristoranti, l´ultimo è stato il Cascades, al quale subentrerà il negozio di vestiti Esprit.

«Il predominio delle boutiques, di uffici e banche segna la fine dell´animazione serale» ha scritto Le Monde. «Senza cinema e ristoranti la vita si spegne al tramonto, con la chiusura delle vetrine» sostiene il quotidiano che ricorda come il boulevard Saint-Germain - altra celebre passeggiata della vita culturale parigina - sia già stato in parte «ucciso» da questa mercificazione. All´opposto, il giornale Le Figaro ha stigmatizzato l´intervento pubblico che come nell´Ancien Regime «soffoca» la libertà economica e «disprezza» il dinamismo commerciale. Il nuovo palazzo di Louis Vuitton affronta tuttora una battaglia legale per continuare l´apertura domenicale, il palazzo occupato da Zara è stato sottoposto a «umiliazioni fiscali» e anche Adidas ha chiesto aiuto ai migliori avvocati per riuscire a inaugurare la sua boutique. «Le autorità vogliono trasformare Parigi in un museo» conclude Le Figaro. Ma sulla difesa dei due chilometri dell´avenue persino le divisioni politiche sembrano scomparire: la giunta socialista di Parigi ha siglato un accordo con quella di destra che governa l´ottavo arrondissement. E sull´intesa bipartisan c´è il sigillo del presidente della Repubblica Jacques Chirac, secondo cui sarebbe «terribile» vedere snaturati gli Champs Elysées. E pazienza se qualche imprenditore protesterà.

Postilla

In Italia, nel 1985, la legge Mammì diede i comuni un analogo potere per i centri storici. Applicata in più di un comune (tra cui Venezia), fu rapidamente disapplicata quando le "nuove sinistre" giunsero al potere, deregolamentando e liberando il mercato da "lacci e lacciuoli"

Chi svolge funzioni delicate sa che di lettere anonime si intasano le buche, di telefonate nel cuore della notte sono pieni i brogliacci delle segnalazioni di polizia e carabinieri. La stessa Mormino ha una tutela perché minacciata in passato quando mise mano ai turni di Arte e Vita, la società, poi Beni Culturali spa, che si occupa della custodia dei siti. La sua incolumità fu messa a repentaglio fino a sfiorare l´aggressione fisica.

Ma questa sembra una storia ben più grave, proprio per l´entità della minaccia. Chi, come un soprintendente, agisce quotidianamente su una trincea di legalità a difesa dei beni culturali e paesistici, sa di dovere fare i conti con disegni illeciti mandati per aria con un sì o con un no. E gli ultimi, i no, sono decisamente tanti qui a Palermo. Le competenze di un soprintendente sono smisurate. L´ufficio, in definitiva chi lo dirige, dice la sua non solo sull´attività edilizie nel centro storico, già di per sé un settore difficile. Ma, intervenendo a tutela del paesaggio, a difesa del patrimonio naturale, è nei fatti un baluardo contro ogni tentativo di scempio. In verde storico, per esempio. Minacciato da Mezzomonreale a Ciaculli fino a fondo Raffo da una teoria di costruzioni che le armi spuntate dei controllori intercettano spesso in ritardo.

La soprintendenza è anche un punto di riferimento, restando a Palermo città, sulla questione di Pizzo Sella come sulla riperimetrazione della riserva naturale di Capo Gallo. Un atto che equivale a un no definitivo su ogni mira speculativa nell´ultimo scampolo di natura incontaminata all´interno del perimetro cittadino. Ancora la soprintendenza è di mezzo nella storia del parcheggio sotterraneo davanti al palazzo di Giustizia, dopo la scoperta di resti che riconducono ai vecchi bastioni della città.

Stesse competenze, stessi no, sullo scacchiere provinciale, terreno di scontro di interessi tra i più disparati, quasi sempre in danno della costa o della natura. Come per tutto il litorale, basti pensare a Bagheria, Santa Flavia e Campofelice di Roccella dove si è ripreso a costruire a tutto spiano. Insomma, non c´è faccendiere, palazzinaro, speculatore, imprenditore rampante e senza scrupoli che non vada a sbattere sulla soprintendenza nell´esercizio della propria attività. Magari dopo aver bypassato agevolmente gli uffici tecnici comunali.

In mezzo a tante pratiche, a tanti delusi e scontenti per l´intransigenza della soprintendente c´è chi ha provveduto a farle recapitare quel messaggio sinistro.

La politica sembra aver compreso che non è questione da sottovalutare. Tuttavia ai proclami sulla solidarietà alla Mormino occorre che si accompagnino gesti coerenti. Troppo spesso, in fondo a un iter permissivo, a un procedimento che corre veloce, in nome di una snellezza che talvolta fa troppi sconti al rigore, la soprintendenza si trova da sola a dire quei no che dovrebbero essere corali. Quando con gli strumenti, pure ideati per rendere agile il Moloch burocratico, non si tenta di aggirare i no dei custodi dei beni culturali e paesaggistici.

Nello stesso disegno che vuole a capo delle soprintendenze qualunque funzionario di rango della pubblica amministrazione, a prescindere dal grado di competenza specifica, c´è il tentativo di rendere meno rigido il sistema dei vincoli, meno ineluttabile lo sbarramento costituito dagli uffici. Ritorna, periodicamente, il tentativo di piegare alle convenienze della politica anche quelle decisioni. Pur all´interno di un apparato burocratico che, soprattutto ai piani alti, difficilmente anche per questioni di mera sopravvivenza, rimane insensibile ai venti cangianti della politica, Adele Mormino di no ne ha detti parecchi. E c´è da stare in guardia perché questa minaccia non sia anche l´occasione per una rimozione ammantata di protezione.

Titolo originale: The new New York – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nei suoi primi tempi, New York era città che guardava avanti. La sua griglia stradale fu progettata per un milione di persone in un’epoca in cui la popolazione arrivava a malapena a centomila. Il Central Park fu pensato 150 anni fa, in un acquitrino lontanissimo dal cuore di Manhattan, che era già downtown. La sotterranea fu realizzata cent’anni fa, quando gran parte di New York era ancora campagna. Ma la città aveva perso la sua capacità di visione circa cinquant’anni fa, scivolando in un processo di declino apparentemente inarrestabile.

La prova migliore di quanto siano migliorate le cose a New York è il fatto che il sindaco è tornato ad essere un visionario rispetto al futuro. Anche se le fortune della città hanno iniziato a riprendersi sotto la mano ferma del sindaco Rudy Giuliani negli anni ‘90, fino a soli cinque anni fa – quando hanno colpito i terroristi – era facile temere il peggio per New York. Ma questa settimana Michael Bloomberg, succeduto a Giuliani immediatamente dopo gli attacchi, ha reso pubblico un piano venticinquennale di miglioramento della città. Se attuato, potrebbe avere impatti superiori a quelli dei suoi due grandi costruttori: Fiorello La Guardia, sindaco negli anni ’30 e ‘40, che coordinò grandi lavori pubblici realizzando anche gli aeroporti, e Robert Moses, dominatore dell’urbanistica a cavallo della metà del XX secolo, con la costruzione di strade, ponti, gallerie.

Secondo Bloomberg, New York compete – in particolare con Londra – per essere una delle grandi città del XXI secolo, e attirare una elite globale sempre più mobile e ricca. Il suo piano si rivolge a quelle che considera le tre sfide principali da affrontare per la transizione. Primo, prevede che la popolazione di New York, già a livelli record, cresca di circa un milione di persone entro il 2030, sino a raggiungere i nove milioni. Secondo, le infrastrutture urbane – in gran parte vecchie di oltre un secolo – cadono a pezzi, e necessitano di interventi. Terzo, la città deve diventare molto più verde.

Per trasformare New York in una “città sostenibile” Bloomberg ha fissato dieci obiettivi, che verranno verificati dal nuovo Sustainability Advisory Board composto da scienziati, studiosi, accademici, urbanisti e ambientalisti. Gli obiettivi comprendono una massiccio incremento nelle case economiche; la promessa che ogni newyorkese abiterà a dieci minuti a piedi da un parco pubblico; una modernizzazione dei trasporti pubblici, incluso prolungamento della metropolitana. Bloomberg vuole che New York abbia l’aria più pulita di qualunque grande città d’America, e ridurre le emissioni che contribuiscono al riscaldamento globale del 30% entro il 2030. Vuole rendere disponibile il 90% di fiumi, cale e baie per il tempo libero riducendo l’inquinamento dell’acqua e conservando gli spazi naturali.

Saggiamente, Bloomberg ha posticipato ad altro giorno, probabilmente in marzo, i dettagli su come verrà attuata questa sua visione. Non sarà a poco prezzo, e si dovranno reperire i fondi da qualche parte. L’influenza sulle casse federali del senatore Chuck Schumer e del deputato Charlie Rangel, ora che i Democratici dominano il Congresso, sarà d’aiuto. Lo stesso vale per una relazione più costruttiva con l’amministrazione statale, se il nuovo governatore Eliot Spitzer riuscirà a gestire Albany efficacemente come ha fatto con Wall Street. Per fortuna, le quotazioni dei titoli emessi dalla città sono migliori che mai, e gli alchimisti finanziari del municipio la scorsa settimana hanno raccolto 2 miliardi per un prolungamento della metropolitana nel West Side: un’impresa che prelude ad altri gesti creativi del genere.

Il piano si basa su cose che il sindaco Bloomberg ha già cominciato. Su gran parte della città sono state approvate varianti urbanistiche per consentire una migliore composizione di uffici (che sono di nuovo inferiori alla domanda), attività produttive e residenza. Si sono impegnati circa 4 miliardi per il completamento di una terza condotta per portare acqua in città, 1,6 miliardi costruire un assolutamente indispensabile impianto di filtraggio dell’acqua, e 13 miliardi per un intervento di modernizzazione scolastica più che mai ambizioso. Un’ex discarica, un tempo la più vasta del mondo, tra poco diventerà il parco più grande che si sia mai inaugurato in un secolo.

Migliorare il sistema di approvvigionamento energetico della città, e renderlo molto più verde, sembra di sicuro una battaglia fondamentale. Altra questione molto controversa è se, e come, introdurre una tariffa di ingresso anticongestione per le automobile, presumibilmente a partire dalla parte bassa di Manhattan. Bloomberg è un noto ammiratore della congestion charge di Londra. Dopo aver tolto il fumo dai bar della città, dovrebbe essere pronto per quella che forse è una sfida politica più impegnativa. Al momento, esita.

In generale comunque si tratta di un sindaco che ha fretta: e non soltanto perché, come corre voce, stia pensando di candidarsi alla presidenza. Il suo obiettivo è attuare la visione per la città nel modo più irreversibile possibile; perché è più che probabile, che dopo la fine del suo mandato nel 2009, la politica a New York tornerà ai vecchi e tristi orizzonti limitati.

Nota: per i veri appassionati qui la pagina web delle grandi promesse (f.b.)

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Titolo originale: Reducing the Cost of Congestion – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Rassicura, che il sindaco Michael Bloomberg non abbia chiuso del tutto le porte ad una tariffa sulla congestione, anche davanti a coloro che la chiamano scorrettamente tassa. Il sindaco e I suoi funzionari tecnici hanno senza dubbio osservato il successo di queste misure in città come Londra o Stoccolma, che hanno allentato gli ingorghi fissando una tariffa d’accesso per gli automobilisti alle strade più usate.

L’argomento a favore dell’esame di una tariffa sulla congestione ha avuto ulteriore impulso la scorsa settimana, con uno studio della Partnership for New York City che mostra come le strade intasate costino alla città 13 miliardi di dollari l’anno.

E quella cifra appare prudente per difetto. Il Department of Transportation federale, utilizzando dati del Texas Transportation Institute, calcola il costo del traffico nelle città di tutto il paese a un’incredibile cifra di 200 miliardi. E senza contare l’inestimabile valore del tempo e delle occasioni perse. Imprese e consumatori ci perdono quando beni e servizi non vengono distribuiti con efficienza, e ambiente e salute umana soffrono in modo grave l’aria inquinata.

Washington ora sta distribuendo fondi per finanziare studi che consentano alle città di individuare modi per allentare la congestione. Bloomberg deve approfittarne. Anche se i sondaggi mostrano come i newyorkesi desiderino un sollievo dal sovraccarico di traffico, una sperimentazione concreta della tariffa anticongestione potrebbe contribuire a stipulare un patto. É quanto accaduto a Stoccolma, dove i cittadini prima hanno esitato, poi dopo una sperimentazione di sette mesi hanno votato a favore della tariffa.

I pendolari di New York hanno i tempi di spostamento più lunghi del paese. Se non si trovano subito delle soluzioni, la situazione è destinata a peggiorare con l’aumento della popolazione, previsto di un milione di persone, a raggiungere i 9,2 milioni, neo prossimi 25 anni.

Lo studio Partnership propone altri dati interessanti. Se si diminuisse il traffico del solo 15%, si sostiene, potrebbero essere creati sino a 52.000 nuovi posti di lavoro. Si tratta di un obiettivo raggiungibile. A Londra, che impone una tariffa di circa 16 dollari agli automobilisti nel quartiere centrale degli affari, il traffico è stato ridotto del 17%. A Stoccolma, dove la tariffa varia a seconda delle ore della giornata, il traffico in centro è crollato del 25%.

I vantaggi si avvertirebbero in tutte e cinque le municipalità, a Long Island e New Jersey, dove lo studio ha rilevato che il traffico sulle strade più affollate verso Manhattan si sposta a meno di venti chilometri l’ora.

L’epicentro del garbuglio di New York è a Manhattan, a sud della 60° Strada. Ogni giorno della settimana entrano nell’area oltre 800.000 automobili. Circa un quinto di questi veicoli è soltanto di passaggio sulla direttrice fra New Jersey e Queens o altre destinazioni verso est.

Ma la cosa più incredibile è che oltre il 40% dei veicoli che si muovono nell’area occupato da una sola persona, il conducente. La tariffa sulla congestione potrebbe trasformare qualcuno di questi automobilisti in utente del trasporto pubblico, che riceverebbe anche il ricavato delle tariffe per migliorare il servizio della metropolitana, aumentare il numero degli autobus veloci e sostenere i traghetti a basso costo.

Chi è contrario alla tariffa sulla congestione –come alcuni proprietari di parcheggi che temono posti vuoti – sostiene che va contro i piccoli imprenditori, che possono non avere alternative al venire in città in auto. Altri esprimono perplessità riguardo agli abitanti della città che possiedono un’auto, e potrebbero aver bisogno di usarla. Ma il sistema può essere tagliato su misura per rispondere a queste obiezioni.

La discussione su come New York possa attuare un piano di tariffe di ingresso è meno importante, ora, del fatto di mantenere in gioco la sua possibilità. Bloomberg cerca modi per far crescere l’economia della città, ridurre le emissioni e migliorare la salute pubblica. Tutti questi obiettivi potrebbero essere raggiunti semplicmente allentando la congestione da traffico.

Nota: il citato caso di Stoccolma è raccontato con qualche particolare in questo articolo dallo International Herald Tribune; la bonifica urbana è affrontata comunque con ben altro piglio dalla RPA nel suo recentissimo piano integrato per Newark, appena al di là dell'Hudson (f.b.)

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