loader
menu
© 2024 Eddyburg

BRESCIA— «Desidererei lasciare il segno con qualcosa di bello, di simbolico. Per esempio un bel grattacielo. Sono un sognatore. Vorrei creare un giardino delle idee». Era la fine del 2006 quando Santo Galeazzi, anima della Morgante srl (società costituita dal gruppo Lonati e dal gruppo Galeazzi), non era riuscito a trattenere il suo entusiasmo presentando il progetto del centro direzionale di Brescia. Due anni più tardi, nel marzo del 2008, le tre torri della Morgante svettavano con i loro 74 metri di altezza sulla città, dividendosi il cielo con il Crystal Palace. Peccato che il «giardino delle idee» sognato da Galeazzi sia rimasto vuoto. Nessuno, negli ultimi 24 mesi, ha mai occupato gli uffici dei tre nuovi grattacieli. E adesso l’opera dell’architetto Cantarelli e dello studio «Moro & Partners» sarà frazionata e messa in vendita da Gabetti. «Troppo dispendioso tenere vuoti quei locali — dicono dal gruppo Lonati —. Meglio vendere e recuperare almeno le spese sostenute. Del resto la crisi ci ha messo lo zampino e negli ultimi due anni il mercato immobiliare non è stato dei migliori».

Ma guai a pensare che le tre torri di cristallo, diventate simbolo inconfondibile del nuovo skyline di Brescia, saranno svendute: «I prezzi saranno quelli di mercato. Il centro direzionale è ben servito e gli edifici sono altamente tecnologici, all’avanguardia».

Nelle scorse settimane si era parlato della proposta di acquisto di alcuni fondi previdenziali, soprattutto di quello di una nota banca lombarda. Come erano circolate voci insistenti anche di un interessamento da parte della Provincia di Brescia, ai tempi in cui l'ente di Palazzo Broletto inseguiva il sogno di una sede unica. Voci mai arrivate a concretizzarsi e smentite nei fatti dopo l’insediamento del nuovo presidente, il leghista Daniele Molgora, che ha escluso la fattibilità dell’operazione. Nel frattempo le tre torri in vetro, acciaio e cemento sono rimaste sfitte e invendute.

Adesso la parola d'ordine è «fare cassa» e ieri mattina la Morgante srl ha dato ufficialmente mandato alla «Gabetti Corporate» di trovare acquirenti.

Le tre torri sono alte 74 metri: 14 piani e 6.722 metri quadri di uffici oltre a 3.200 di spazi commerciali e 1.200 posti auto coperti.

«Per incentivare la vendita — confermano da Gabetti — gli edifici saranno frazionati con porzioni minime alla portata di tutti. Si pensa a uffici di 130 metri quadri».

Un solo commento dalla Loggia, il palazzo del Comune: «Da due anni curiamo l’area verde intorno alle torri— spiega Mario Labolani, assessore ai Lavori pubblici con delega ai parchi — per evitare che la zona diventi terra di nessuno. Ora aspettiamo i primi inquilini e la possibilità di animare una zona della città per troppo tempo dimenticata».

Il tallone d'Achille è sempre l'urbanistica. Anche per Variati, sindaco [di centrosinistra] rieletto nel 2008 per soli 527 voti nel ballottaggio con Lia Sartori (ex Psi, scelta da Galan, europarlamentare Pdl). All'epoca tutto ruotava intorno alla nuova base americana al Dal Molin: una sorta di referendum fra il democristiano allievo di Mariano Rumor pronto a dialogare con i movimenti e la primadonna del centrodestra (Forza Italia, An e Lega) che aveva appena abbattuto il governo Prodi&Visco. Ora si fa strada il paradosso dei due avversari diventati improvvisamente "amici". Una tesi che trova più di un riscontro politico tanto nel Partito democratico quanto nel Pdl vicentino. Di più: c'è chi si spinge fino a tratteggiare l'«amore segreto» fra il sindaco e la sua maggiore oppositrice a palazzo Trissino.

I pretesti che hanno alimentato quest'interpretazione si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Variati ha sposato con entusiasmo il "manifesto" intitolato Verso Nord, cioè l'appello lanciato insieme da altri due ex nemici come l'ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari e il portavoce storico di Galan, Franco Miracco. Lia Sartori, invece, si è distinta come riferimento obbligato delle lobby vicentine con conseguenti contraccolpi durante la fusione fredda fra berlusconiani e apparato di An (in particolare, Sergio Berlato ed Elena Donazzan).

La carte si rimescolano proprio con l'urbanistica. Il Piano di assetto territoriale spiana la Vicenza del futuro significativamente bipartisan. In Provincia, intanto, sono stati assegnati i nuovi centri commerciali con la bilancia ancora in perfetto equilibrio politico. Così è nato il sospetto dell'inedita convergenza di Variati e Sartori ben al di là del recinto dei rispettivi partiti.

Il primo campanello d'allarme l'ha suonato il guastatore Luca Balzi, consigliere comunale del Pd. È lo stesso che aveva annunciato di votare per il leghista Zaia presidente della Regione (con conseguente deferimento disciplinare). Continua a professarsi fedele al sindaco, tuttavia ha preferito non votare l'ultimo bilancio di Variati. E per poco non ha trasformato in rissa il faccia a faccia in aula con il capogruppo Federico Formisano.

D'altra parte, il clima è più che avvelenato. Lo dimostra la lettera, sia pur anonima, ricevuta da tutti i consiglieri comunali. Gli «elettori di Variati pentiti» soffiano sul fuoco delle polemiche, lasciando intendere che il vero governo di Vicenza passa solo attraverso i salotti buoni della finanza e dell'imprenditoria. Valeva quand'era sindaco il berlusconiano Enrico Hullweck (ora a capo dello staff del ministro Bondi) che ha sposato l'architetto Lorella Bressanello.

Nel Pdl coltivano un teorema speculare. Il capogruppo Maurizio Franzina parla esplicitamente di «melassa» in comune fra Variati e Sartori. E non esita ad esporsi sul fronte degli interessi del "partito del cemento" che anche a Vicenza attraversa banche, professionisti, imprese edili e gestori dell'immobiliarismo. È Franzina che traduce la decisione maturata in Provincia, retta dal leghista Attilio Schneck. Secondo l'esponente del Pdl, «stanno per arrivare due nuovi centri commerciali, uno voluto dalla Lega, uno da Variati». Il riferimento corre alla recente approvazione di Palazzo Nievo del Piano territoriale di coordinamento provinciale, dove spuntano due maxi operazioni urbanistiche sulle ultime aree agricole intorno a Vicenza. Accanto alla possibile conversione commerciale della cubatura privata del Centro logistico di Montebello (coinvolge il deputato leghista Alberto Filippi?), spicca il progetto Vicenza Futura, con il nuovo stadio affidato ai privati che si "offrono" di costruire il nuovo Menti a Vicenza Est in cambio di una cospicua lottizzazione commerciale.

In municipio liquidano tutto come basse insinuazioni. «Ma quali inciuci. Le fantasie malevole di Franzina sono dovute solo alla guerra intestina tra di lui e il resto del suo ex gruppo consiliare. Problemi loro. Ma che non si permettano di gettare ombre su di me» avverte il sindaco. Ma la polemica registra anche le "bordate" di Bruno Carta, coordinatore cittadino Pdl. Sedeva come assessore nella giunta Variati degli anni Novanta. E si conoscono come solo due veri democristiani Doc possono: «È stato bravo, un artista. Ha preso in giro quelli del No Dal Molin e si è preso i voti. Adesso si sposta al centro e concede tutto agli americani, confezionando anche la bufala del parco della Pace. Politicamente è stato bravissimo: li ha tenuti sulla corda, e poi ha detto: abbiamo fatto tutto il possibile, ma la base non si può fermare...».

In questo quadro si inserisce anche la vicenda denunciata da Pietrangelo Pettenò, consigliere regionale della Federazione della sinistra. Sollecita la giunta Zaia a far chiarezza sulla vicenda del Centro Intermodale di Montebello. Riguarda la Cis Spa nata nel 1988 con capitale pubblico: Provincia, Autostrada Brescia-Padova, Banca Popolare di Vicenza, Fiera, Comuni di Vicenza, Montecchio Maggiore, Brendola, Arzignano. «La Cis ha accumulato ingenti perdite, senza, peraltro, realizzare il centro interscambio merci. Per sopperire, la società ha ceduto tramite bando di gara i terreni di sua proprietà a un privato. E così, con l'arrivo del privato e l'approvazione del Pati si è assistito ad un cambiamento nella destinazione di uso dell'area: da centro logistico a megacentro commerciale».

In municipio, la ripresa dell'attività amministrativa si profila ostica. Variati conta sull'autonomia del politico in versione primo cittadino, un po' come Flavio Zanonato a Padova. Entrambi hanno rinnovato i legami con la Compagnia delle Opere: il Comune di Vicenza aveva addirittura uno stand ufficiale al meeting ciellino di Rimini, dove sono tornati in processione sindaco, vice sindaco e rettore dell'Università di Padova. E il fallimento dell'operazione Venezia 2020 ha inesorabilmente riaperto i giochi in esclusiva chiave municipale. Variati (come Zanonato) incarna il "doroteismo" transitato fino al Pd. Se mai, è Lia Sartori a doversi districare nelle trappole del centrodestra. Non può più recitare il ruolo di contraltare di Variati, perché nel Pdl vicentino si punta a girare pagina. L'ombra lunga della Lega preoccupa perfino a Vicenza, ma nessuno arriva ad immaginare un "ribaltone" clamoroso solo ed esclusivamente contro Manuela Dal Lago aspirante sindaco. Sintomatico il giudizio del capogruppo leghista in Regione Federico Caner: «È un dato di fatto che esista un sistema di potere, di persone, di lobby che fa riferimento a Galan. Per carità, capiamo: sono situazioni che si creano naturalmente in tanti anni di governo. Adesso però è arrivato il momento di cambiare».

A Venezia la voce è insistente. «I leghisti sembrano sospettare soprattutto dei mega-progetti come Veneto City, ma anche del project financing sugli ospedali e sulla viabilità. Ma tengono sott'occhio anche il Pat di Vicenza». Il tallone d'Achille?

IL PIANO

Il sindaco disegna la città del futuro

«Un'idea di città nella quale un bambino di oggi vivrà bene anche fra dieci anni». Così il sindaco Achille Variati descrive la Vicenza del futuro disegnata dal Pat approvato a fine 2009. Obiettivo: trasformare la quarta città del Veneto in un vero e proprio centro regionale. Da qui le previsioni: 5-6 mila nuovi residenti nei prossimi 10-15 anni e il superamento della soglia «essenziale» di 10 mila studenti. Imperativo categorico: togliere il traffico di attraversamento del centro storico. Ma anche ridisegnare l'impianto infrastrutturale a partire della nuova circonvallazione nord. Alta velocità e Corridoio 5 sono gli altri punti fermi. Oltre alla mobilitazione delle risorse patrimoniali liberate dalle operazioni urbanistiche in corso: il trasferimento del tribunale a Cotorossi, degli uffici comunali nel comparto del nuovo Teatro, e le operazioni relative all'ex Centrale del Latte e alla Vecchia Dogana. Le linee guida ridisegnano le aree del Villaggio del Sole e del Villaggio della Produttività: saranno collegate da una piazza, con l'interramento di un viale. Ma è "rivoluzione" per la viabilità a ridosso del centro «con la città che si ricollega al colle di Monte Berico grazie a un nuovo tunnel tra viale Fusinato e la Riviera Berica». In questo contesto si inserisce la realizzazione della dorsale metropolitana pubblica Est-Ovest, con le corsie preferenziali per i filobus su gomma e il progetto di nuovo centro culturale di livello europeo, oltre al recupero dell'area dello stadio Menti. Infine Variati prepara il riassetto del confuso agglomerato industriale di Vicenza Ovest-Altavilla-Creazzo.

Trenta milioni di spesa per una metropolitana che non vedrà mai la luce. Succede a Parma dove il Comune ha rinunciato ad un progetto approvato e finanziato. Sullo sfondo i movimenti di una cricca molto sospetta.

A Parma la procura apre un’inchiesta sul caso del metro leggero, opera prima progettata, poi finanziata dal governo, ma che non verrà mai realizzata. L’indagine punta su possibili appalti truccati e all’ipotesi di danno allo Stato ad opera del Comune di centrodestra. E sullo sfondo di una storia complicatisisima si muove anche un personaggio di primo piano del caso Anemone, Ettore Incalza. Il contestato progetto voluto dall’ex sindaco Elvio Ubaldi, e poi scartata dal suo successore e delfino Pietro Vignali, sembrava ormai essere una pratica archiviata. Invece nei mesi scorsi la Finanza aveva sequestrato documenti al ministero delle Infrastrutture, nel Comune e nella sede della società MetroParma e si era accorta che più di 30 milioni di fondi pubblici saranno comunque spesi per finanziare un progetto che non vedrà mai la luce. Questo perché l’iter dell’opera era già molto avanzato quando Vignali ha gettato la spugna e si è «accontentato» di incassare 80 milioni invece dei 190 previsti per una grande opera sulla quale, da anni, si scontrano l’opposizione di centrosinistra da una parte e le amministrazioni di centrodestra dall’altra.

L’epilogo nella primavera scorsa con un niente di fatto avallato dal ministero. A farne le spese sarà soprattutto la ditta appaltatrice, la Pizzarotti, che incasserà “solo” i 22 milioni della penale, mentre gli altri finanziamenti andranno a coprire le spese sostenute da MetroParma (circa 12 milioni), società costituita per seguire l’iter progettuale. La procura vuole capire se le somme, che verranno rimborsate, sono state gonfiate e se gli incarichi sono stati assegnati regolarmente. Diversi i filoni di indagine, in particolare quello del ruolo ricoperto da Incalza, già coinvolto nel caso Anemone, per due anni dirigente di MetroParma e al tempo stesso consulente del ministro parmigiano Lunardi. «Incalza è diventato amministratore di MetroParma due settimane prima dell’approvazione del progetto definitivo – ha spiegato l’avvocato Arrigo Allegri che ha presentato cinque esposti alla Corte dei Conti – da un lato era consigliere di Lunardi, dall’altro amministratore di MetroParma», sottintendendo con questo un possibile conflitto d’interessi. «Quando Lunardi ha cessato l’incarico di ministro nel 2006 – ha aggiunto Allegri – Incalza è diventato capo della struttura tecnica di missione che per il ministero delle Infrastrutture era chiamata ad approvare i progetti, rimanendo in carica fino al 2008 nella duplice veste di “controllore e controllato”». E questo fino all’aggiudicazione degli appalti per la realizzazione della metro a Pizzarotti, Coopsette e Ccc. Un’ambiguità dei ruoli che potrebbe aprire scenari nuovi e su cui la procura indaga anche se per ora nessuno ha ricevuto avvisi di garanzia e le ipotesi di reato non sono così nitide.

Incalza, un passato socialista e oggi braccio destro di Altero Matteoli, avrebbe acquistato una casa a Roma grazie agli assegni di Anemone. Le indagini della Guardia di Finanza hanno accertato che nel luglio del 2004, una provvista di 520 mila euro messa a disposizione da Anemone e trasformata da Zampolini in 52 assegni circolari dell'importo di 10mila euro ciascuno, pagò l'acquisto di oltre la metà dell'appartamento che Incalza volle per la figlia e suo marito a Roma, in via Gianturco 5: cinque vani con cantina al secondo piano di un palazzo a ridosso del Lungo Tevere a pochi minuti da piazza del Popolo.

Qui l’articolo di Andrea Bui per eddyburg

Non ha avuto molto risalto sulla stampa la dichiarazione del sindaco di Arcore, Marco Rocchini di tre giorni fa. Ha affermato che visto che il suo comune –come tutti gli altri- è strozzato dal patto di stabilità e dai tagli alla finanza locale, ha dato l’assenso al cambio di destinazione d’uso a 30 ettari di terreni agricoli che ricadono nel parco del Lambro. Sopra quei terreni, l’immobiliare Idra della famiglia Berlusconi realizzerà 400 appartamenti, qualcosa come 1.200 nuove persone. Si chiamerà Milano 4, in onore e ricordo di Milano 2 e 3 dello stesso ideatore-benefattore, Silvio Berlusconi.

Facciamo un po’ di storia e di conti. Berlusconi acquista i terreni agricoli negli anni ’80 ed il loro valore di mercato all’epoca si aggira ragionevolmente intorno a 5 miliardi di lire. Con la variante che si vuole approvare si concedono 150 mila metri cubi di residenze: un valore immobiliare pari ad almeno 200 milioni di euro.

Certo ci sono dei trascurabili intoppi da superare. I terreni sono ancora classificati agricoli e occorre fare una variante “francobollo” che li renda edificabili. Che problema c’è? Le leggi ci sono e il sindaco è dello stesso partito del proprietario dei terreni, e questo aiuta. C’è poi la seccatura di dover togliere il vincolo del parco, ma anche qui non sembra ci siano ostacoli insormontabili: basta con i vincoli che bloccano lo sviluppo. Sono infatti favorevoli l’assessore all’urbanistica della provincia di Monza Antonino Brambilla, e il presidente del Parco Valle del Lambro.

Visto che l’incidenza dell’area sul costo delle abitazioni è pari al 15-20 % del totale, quei terreni pagati trent’anni fa 2,5 milioni di euro ne valgono oggi 30 – 40. Un bel colpo davvero!. Solo con la variante urbanistica si guadagnano 30 milioni. E poi dicono che il nostro presidente del Consiglio non sia bravo.

A questo punto la commedia degli inganni appare con i contorni più chiari, perché il sindaco Rocchini afferma che il comune beneficerà delle seguenti opere a totale carico del benefattore: restauro e sistemazione di villa Borromeo col suo parco, piste ciclabili, sottopassi per gli attraversamenti ferroviari, ristrutturazione della stazione ferroviaria della Buttafava, un centro per anziani e abitazioni da affittare a canoni agevolati. Il valore di queste contropartite, affermano le cronache, è pari a 20 milioni di euro, e cioè meno di quanto il privato guadagna solo con la variante, poi verrà il resto dell’affare.

Un vergognoso esempio di urbanistica contrattata e di conflitto di interessi, perché non si deve andare molto lontano per trovare chi toglie i finanziamenti ai comuni per realizzare opere pubbliche normali come la manutenzione delle stazioni o il restauro della villa Borromeo. E’ sempre lui, il presidente del Consiglio Berlusconi. Un fatto così non sarebbe accaduto in nessun paese della civile Europa: da noi si accetta ormai ogni nefandezza.

E per finire lo scandalo più grave. La recentissima proposta governativa di variazione dell’articolo 41 della nostra Costituzione contiene anche una proposta di cambiamento dell’articolo 118, quello che regolamenta l’attività urbanistica delle regioni e degli enti locali. La proposta è la seguente (comma 3): “In materia urbanistica lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge costituzionale provvedono anche ad adeguare le proprie normative in modo che le restrizioni del diritto di iniziativa economica siano limitate allo stretto necessario per salvaguardare altri valori costituzionali”.

L’Italia lasciata in mano alla più feroce speculazione edilizia, altro che libertà d’impresa. Questo è l’obiettivo del Partito delle libertà.

La città ducale perde i suoi simboli e viene asfaltata per far posto a megasupermercati. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria senza scrupoli

Parma. Fra 22 anni sparirà il formaggio italiano più venduto nel mondo. La febbre del mattone seppellisce l’erba dalla quale nasce il parmigiano-reggiano. A tavola grattugeremo cemento. L’erba è il petrolio di questa pianura. Dalle sue virtù nasce un formaggio che non ha bisogno di coagulanti, formalina indispensabile ai grana padani. Regalo della natura sul quale è cresciuto il benessere. Ecco l’allarme: ogni giorno nella provincia di Parma scompare un campo da calcio. Case, palazzoni, capannoni. L’allarme non viene da un ambientalista rompipalle: catastrofe annunciata da Andrea Zanlari, presidente della Camera di Commercio di Parma e da Alfredo Peri, assessore regionale a Bologna. “Non è più possibile che siano i comuni a gestire in solitudine l’espansione edilizia erodendo i terreni agricoli per fare soldi col pronto cassa delle urbanizzazioni”. Perché dirlo proprio a Parma? Perché la città della grazia è ormai simbolo della città mattone. E 90 anni dopo ricomincia con le barricate. Un torrente divideva la borghesia dei palazzi, città padrona, dai figli del popolo guidati da Guido Picelli: nel 1922 riesce a non far passare i ponti alle camicie nere di Italo Balbo. E quando Mussolini al potere “riqualifica“, sventrando, i quartieri dei ribelli e Balbo torna vincitore dalla trasvolata americana, viene accolto da scritte beffarde: “Hai attraversato l’Atlantico ma la Parma (il torrente) no“. Il municipio della destra (municipio della “città cantiere“) insiste nella riqualificazione; tornano le disobbedienze. Civili, ma tenaci. Commercianti e abitanti non accettano i progetti decisi dalla giunta dei mattoni, o “dei mercatini“ come ironizza chi ha i negozi svuotati dalla febbre degli ipermercati: nelle periferie spogliano il centro storico come nella Parigi di 30 anni fa. Ma la Parigi pentita rimedia. Per rianimarla, Chirac e Sarkozy favoriscono il ritorno delle botteghe nelle strade dalle quali la speculazione le aveva strappate: agevolazioni fiscali, mutui straconvenienti, “Parigi non può diventare un museo. Il commercio aiuta a vivere assieme. Vi aspettiamo“.

ASSALTO SENZA FRENI DEI GRANDI CENTRI COMMERCIALI

Luca Vedrini, Confesercenti, protesta con documenti che fanno rabbrividire. A Parma i negozi aprono e chiudono dopo 3 anni. I bar muoiono a 5. E la tradizione delle gestioni familiari naufraga in catene senza sapore: stesse vetrine da Palermo ad Aosta. Tra iper e super-mercati aperti, che stanno aprendo o in costruzione o progetti approvati, la città andrà a far spesa nei 410 mila metri quadrati delle scansie fiorite nelle new town di plastica dove cambiano le abitudini sociali e si dissolvono i rapporti umani. Non più cittadini, solo clienti. Ogni parmigiano (dai neonati agli ottuagenari) avrà a disposizione 2 metri quadrati di roba da comprare nelle cattedrali dell’illusione. “Primi in Italia, forse record in Europa“: Vedrini allarga le braccia. L’invasione dei prati continua: caffè, ristoranti e malinconici cubi di cemento delle multisale di cinema dove brillano i neon della Parma Ohio, sobborgo commerciale di Chicago. Negli anni ’60 le cucine di Salvarani avevano invaso l’Italia e ravvivato un tessuto artigianale che ormai chiude bottega. Trionfa l’Ikea, rifiutata a Bolzano: “I nostri artigiani difendono la cultura sociale della città. L’Ikea vada a Brescia, Verona, Innsbruck. Noi non la vogliamo”. E attorno al compra-compra fioriscono quartieri artificiali. Chi abita la “vecchia città“ per andare al cinema deve prendere l’automobile ma le nebbie dell’inverno scoraggiano un terzo dei parmigiani sopra i 60 anni. Chiuso per “riqualificazione“ il mercato storico della Ghiaia, cuore della città. Commercianti dispersi. Dopo quattro anni buona parte non riapre. Chi è fallito, chi ha scelto altri mestieri. Per la seconda volta in meno di un secolo il comune brucia la tradizione con l’orrore di una pensilina per corriere, ala bollente del tetto che taglia i palazzi armoniosi una volta affacciati sulle bancarelle. Ma gli anni Venti erano anni sfiniti dalla Prima guerra mondiale, treni asmatici, niente automobili. Chissà perché gli assessori e i sindaci della nuova distruzione non hanno fatto un salto almeno a Verona, Padova, Trento, per imparare come restaurare senza cancellare come pretendono i grandi affari delle grandi imprese. E allora avanti. Chi fa la spesa per mettere a tavola la famiglia scopre che frutta, formaggi, uova e carne si vendono sottoterra. Caverna nel condomino dei parcheggi vero motivo della distruzione. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria che sceglie sindaci e amministratori. Trasforma i signori nessuno nei protagonisti quotidiani di giornali e tv. Ubaldi (primo sindaco della destra) è stato un prodotto Parmalat. La poltrona a Vignali, successore che considerava Ubaldi maestro di politica e di vita, viene disinvoltamente annunciata dal presidente degli imprenditori due mesi prima della formazione delle liste elettorali. Insomma, comando io. Fuori dalle tv locali, l’ex Ubaldi dimenticato insorge: forse invidia per il figlioccio ormai odiato ma appoggiato a Roma dal Letta conte zio. E gli appalti consolano la generosità.

Per dodici anni i parmigiani hanno bevuto, distratti. La crisi e una certa arroganza li ha svegliati. Comitati di madri e nonne sfilano con cartelli che chiedono di non accendere alle porte della città il termovalorizzatore dalle polveri sottili. Proteste che turbano chi produce cose da mangiare e teme la speculazione della concorrenza: quel fumo di immondizia che avvolge cibi prelibati, scuole, asili, cresce a due passi dalla Barilla e dalle industrie di conserve, spina dorsale della food valley. Sfilano i senza casa in una città che ha 12 mila vani vuoti eppure continua a costruire, prati immacolati invasi dalle gru. E immensi parcheggi si allargano nel niente. Varianti urbanistiche e piani decisi nelle stanze dei soliti bottoni per fare cassa: la trappola delle urbanizzazioni.

IL GIGANTISMO DELL’EX SINDACO ELVIO UBALDI

Cambiano solo i figuranti politici. Parma ha 170 mila abitanti, ma il vecchio sindaco Ubaldi, filosofo della città cantiere, ripeteva che gli abitanti dovevano essere 400 mila. Come, non lo ha mai spiegato. Intanto gli scavi continuano. E Parma finirà per importare i “regianito”, patetica imitazione dei formaggiai argentini. La crisi ha sepolto il metrò destinato a bruciare un secolo di bilanci. Mancavano 50 milioni di passeggeri e l’impresa Pizzarotti, che è un’impresa seria, si è ben guardata dall’accettarne la gestione: noi scaviamo, i treni li fate correre voi. Treni ridicoli in un posto che in 15 minuti si attraversa pedalando, eppure giornali e tv (proprietari gli stessi imprenditori) ne esaltavano la meraviglia. Per un secolo sei ponti hanno unito la città vecchia e nuova scavalcando il torrente. Sono diventati sette per far girare la tangenziale: ponte De Gasperi inaugurato da Andreotti, voluto dall’ex Ubaldi innamorato di un certo ponte sul Reno. La maestosità della mini copiatura fa un po’ ridere: unisce 30 metri, sassi ed erbe dieci mesi l’anno. Adesso il fascino del mistero dell’ottavo ponte. Aggancia un quartiere da riqualificare a prati dove non c’è niente. Se il ponte Sud celebra De Gasperi, il ponte Nord dovrebbe riconoscere lo slancio di chi lo costruisce: ponte Pizzarotti. Bellissima azienda, impresa di dimensione europea che non trascura la città dove ha radici. Sta per trasformare il palazzo del ‘200 che raccoglie i documenti dell’archivio di Stato, archivio dei ducati: residence, negozi, mentre gran parte delle carte preziose finisce nei capannoni di periferia.

L’opposizione degli intellettuali di Monumenta perde l’ultima battaglia e il“restauro“ si farà. Restauro di Pizzarotti anche nel palazzo del governatore mentre nella nuova stazione sotterranea arrivano i binari Pizzarotti dell’Alta velocità. Con qualche dimenticanza: le scale mobili non sono previste. Si consigliano i treni a viaggiatori palestrati e senza valigie. L’ottavo ponte nasce da un progetto fatto e rifatto, tanto chi paga siamo noi. Il primo prevedeva un corridoio di palazzi con dentro la strada. L’ultimo è una galleria con qualche insediamento. Da un passaggio all’altro spunta il nome dell’architetto Guasti, impresa di costruzione di famiglia, senatore di Berlusconi e assessore all’urbanistica nella giunta Ubaldi. L’opposizione tenace del consigliere Marco Abbondi, agita il conflitto di interessi. Roba da ridere nell’Italia del Cavaliere. La sorpresa è sapere chi ha comprato quei prati e quale nuova città sta per nascere. Già approvato un ipermercato Pizzarotti Coop7 pendant area Nord dell’iper Coop7 Pizzarotti area Sud. Pronto nel cassetto il progetto dello stadio rifiutato diciotto anni fa da Calisto Tanzi: non se la sentiva di costruire un campo da Serie A ammortizzando la spesa con 22 mila vani: “Non posso inventare una città con la scusa di un campo da calcio”. Morale superata. Le nuove città corona nascono per l’intuizione di imprenditori ai quali va il merito di indovinare con anticipo dove chi governa vuole allargare le case. Intanto Pizzarotti Coop 7 regala una complanare o il terreno nel nuovo centro sportivo polivalente dove è previsto un campo da golf. Il Sole 24 Ore fa sapere che i tagli della crisi colpiranno Parma più di ogni altra città. Dove li trovano i soldi per feste e opere nuove? Giorgio Pagliari, guida dell’opposizione, spiega i girotondi dei conti comunali. Entrate messe in bilancio quando non si sa se arriveranno. Soprattutto le scatole cinesi della vendita virtuale di beni comunali a società delle quali il comune è proprietario. E uomini fidati vegliano nelle poltrone di comando. Insomma, rosso che cambia nome ma resta pubblico rosso. “Se fossimo di fronte a una Spa potremmo parlare di situazione prefallimentare”. Adesso i tagli di Roma, eppure l’imperativo non cambia: costruire senza smettere mai. Con forzature che svergognano la tradizione etica di Parma. Si è venduto il nome di Mario Tommasini per giustificare l’immenso ghetto per anziani che cancella erba e vigne della campagna attorno. Persone ammucchiate come legna, espulse dalla “loro” città. Tommasini è stato l’assessore che ha aperto i manicomi di Franco Basaglia, chiuso brefotrofi e diviso la sinistra col progetto di case per giovani e anziani, stessi palazzi nei vecchi quartieri. Vivere assieme per non morire.

GLI ANZIANI SPINTI AI MARGINI DELLA CITTÀ

Bruno Rossi, già direttore della Gazzetta di Parma, presidente della fondazione che ricorda Tommasini, non sopporta la mistificazione dell’assessore Lasagna. Per il momento è la sola voce sopportata quando denuncia l’imbroglio: “Sarebbe piaciuto a Tommasini? Progetto che convoglia un gran numero di anziani e li spinge ai margini della città? Credo che questa domanda sia al limite del blasfemo”. Lasagna era un giovane rampante del Pd, passato al centrodestra: irresistibile fascino della poltrona di assessore. E cominciano altri dubbi: Pizzarotti Coop7 è un legame ripetuto da imprese e cooperative che assieme “riqualificano“ questa e altre città. Perplessità che attraversa la sinistra e i cooperanti della tradizione. Amara la risposta di Sergio Caserta, che ha realizzato progetti di sviluppo e ha fatto parte della giunta e del consiglio nazionale della Lega Cooperative: “Grandi aziende cooperative emiliane hanno sposato il capitalismo edilizio. Stravolgono le città, cambiano la vita della gente. A Vicenza una grande Coop di Bologna è interessata alla costruzione della base Usa contro la quale si mobilita l’intera popolazione. La Costituzione attribuisce alle cooperative un ruolo di pubblica utilità. È questa l’utilità? Non si viola la Costituzione? Tra la sinistra politica e il movimento cooperativo i legami restano stretti, tecnologie e strategie sostituiscono l’ideologia. A beneficio di chi?”.

La presenza delle Coop, protagoniste della regione, garantisce la tutela degli interessi collettivi. Lo prevede la Costituzione, articolo 45: “Definisce con chiarezza la natura economico-sociale dell’impresa cooperativa a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. Articolo che limita il carattere dell’impresa cooperativa e la distingue da ogni altra impresa. Il codice civile completa la definizione precisando il fine mutualistico senza scopo di lucro come causa del contratto sociale. Giorgio Caserta è un cooperatore che ha realizzato progetti di sviluppo nel Sud ed è entrato nel Consiglio Nazionale della Lega Cooperative. Si tormenta per i decreti del governo Berlusconi che ne stravolgono l’identità e l’invito di Innocenzo Cipolletta, (Confindustria) a confluire nel grande alveo dell’impresa privata. Caserta resta critico: “La cooperazione non è contro il mercato ma nel mercato con una propria fisionomia... Non serve una cultura da capitalismo d’assalto che gioca con le regole di mercato in punta di codice in un sistema di alleanze che non guarda troppo per il sottile”. Parole che coinvolgono le grandi coop emiliane: “Hanno sposato il capitalismo dell’edilizia, stravolgono le città, cambiano la vita della gente“. Ricorda l’insensatezza del Metro di Parma e discute sul metro di Bologna “che sconvolge il sottosuolo in una città con una rete di canali sotterranei“. E poi l’allargamento della base Usa di Vicenza: ”La CCC fa davvero gli interessi della popolazione in rivolta”?

Il grande privato di Parma si chiama Pizzarotti, impresa seria, moderna, dimensione internazionale con la formidabile intuizione del prevedere dove i politici locali decideranno un giorno di allargare strade e palazzi. Parma ha 180 mila abitanti, ma il primo sindaco della destra che ha inventato la Città Cantiere - Elvio Ubaldi - aveva annunciato di voler allargare il tessuto urbano a 400 mila persone.

Gigantismo che prevede un metrò patetico in un posto che da attraversare in bicicletta, forse non ridicolo nella prospettiva dell’allargamento. Appalto metrò vinto da Pizzarotti-Coop7. Pizzarotti Coop7 restaurano il palazzo governatore monumento della piazza centrale. Incarico di ristrutturare l’Ospedale Vecchio, ormai archivio di stato costruito 800 anni fa. Trasformazione che prevede residence, negozi, tante cose, soprattutto l’esilio nei capannoni di periferia dei documenti che raccontano la vita politica e culturale di un ducato.

Avete visto il film di Nicola Dell'Olio,

Un tunnel di quattro chilometri sotto il parco cintato più grande d’Europa. È l’idea del Consorzio che gestisce il polmone verde di Monza e la Villa Reale per mettere in comunicazione le grandi arterie viarie a est e a ovest della Brianza. Nei giorni scorsi l’ente ha depositato nelle stanze del Comune la delibera per lo studio di fattibilità. Il progetto è affidato alla Sembenelli Consulting di Milano, azienda specializzata nella realizzazione di gallerie urbane. Gli ambientalisti però sono già sul piede di guerra.

Oggi l’unica via di collegamento tra la tangenziale est da una parte e la statale 36 dall’altra è rappresentata da viale Cavriga, che taglia in due l’oasi. Strada ad una sola corsia per senso di marcia, aperta solo dalle 8 del mattino alle 8 della sera. Una striscia d’asfalto lunga due chilometri, intasata ad ogni ora del giorno, che è uno degli incubi degli automobilisti brianzoli. L’opera di interramento prevede l’ingresso da porta Villasanta per poi sbucare in superficie all’altezza del Rondò dei Pini, due chilometri oltre le mura del Parco, proprio dove oggi si sta realizzando l’altra galleria, la più lunga d’Italia in ambito urbano, sulla Valassina.

La prima fase dei lavori prevede l’aggiornamento dei dati del traffico, fermi a metà degli anni Novanta, e la proiezione di quelli di attraversamento del tunnel. «Questo permetterà di formulare ipotesi di introito dell’esercizio tramite l’applicazione di pedaggi» si legge nella delibera del Consorzio. In un secondo momento verrà varato il progetto definitivo con il tracciato esatto della galleria, l’indicazione di una serie di parcheggi sotterranei e il sistema di svincoli ai due ingressi. «Il traffico locale e quello di attraversamento oggi sono insostenibili - dice il sindaco di Monza, Marco Mariani - un intervento del genere risolverebbe la situazione» Aggiunge l’assessore al Parco, Pierfranco Maffè: «Ogni azione utile a togliere le macchine da viale Cavriga è ben accetto. Certo, i costi sarebbero alti». In disaccordo Bianca Montrasio, presidente del comitato che difende l’area: «Scavare sconvolgerebbe l’ecosistema di una zona preziosissima: ci sarebbero sicuramente più danni che vantaggi».

Si vola alto a Pavia. L’urbanistica svettante attende solo l’arrivo delle cicogne. E’ un attimo per loro spostarsi dall’Oasi di Sant’Alessio con Vialone (nano) all’oasi pavese con Vialone (gigante). Qualche giorno fa è stato annunciato l’arrivo del grattacielo. Le torri medievali sono a rischio, e noi - ottimi manieristi - simuliamo la competitività medievale costruendo grattacieli nel quartiere Ovest, area ex Neca. Li costruirà Caltagirone, ricevuto in Comune qualche mese fa. Li progetterà Tekne e Fuksas.

Il primo sta lavorando anche al Broletto. Il tutto legato al sistema fiera milanese. Il nuovo sistema fiera, che comprende, in vista dell’Expo2015, anche la nostra cittadina. Cittadina che punta in alto. Chi guarda al Pirellone non può che avere quello sguardo. In mezzo al quartiere di villette nuove di zecca, spiccherà il grattacielo. Chi ci abiterà, secondo l’assessore all’urbanistica, dovrà essere contento di tornare a casa. Ai piani altissimi il Pm10 potrebbe essere ad una percentuale minore. Aspettiamo le cicogne per verificare. Magari i contenti tornano a casa da Milano, dove di condomini alti ce ne sono troppo pochi. Tornare a casa... ma non venire a lavorare. Perché a Pavia, a parte il pubblico impiego, di lavoro non ne ha da offrire, ma di case sì. E se ne costruiscono ancora per “attirare abitanti” (assessore Fracassi). Se le giunte di centrosinistra hanno trasformato Pavia in un dormitorio, quella di centrodestra ne prende atto e, soddisfatta che il grosso del lavoro se lo sia sobbarcato qualcun’altro, lo rifinisce a modo suo.

Che dire poi della giustificazione apparentemente saggia: grattacieli per non consumare suolo. Come se fossero necessari, si adduce la motivazione più à la page. Non farli sarebbe stato meglio. Ma questo non lo possono dire. E salta agli occhi una prima, clamorosa, contraddizione. Nell’autunno scorso, il Consiglio comunale ha deliberato una lottizzazione alla Vernavola. Non per costruire grattacieli, per carità, ma palazzine (due? sei? mah). Ho sbirciato le carte che ho potuto avere. Niente male come affare. Nel bel mezzo di uno dei luoghi più belli del Parco del Ticino e Parco Visconteo, soggetta a vincoli sovraordinati (Tavola 23 Prg), si concede il permesso a costruire. Dopodiché si sono detti "basta con il consumo di suolo", è l'ora di costruire grattacieli. E piace, piace anche l’idea già in essere in molte metropoli: i giardini pensili.

Spostare pezzo per pezzo la Vernavola sui tetti dei grattacieli in costruzione nelle aree dismesse potrebbe essere un’idea originalissima, un colpo di genio insuperabile: compensare e perequare la lottizzazione nei parchi con i giardini e gli orti sui tetti dei grattacieli. Peccato che Pavia non sia una metropoli, peccato che Pavia abbia molto terreno agricolo intorno, peccato che potremmo goderci i nostri parchi se solo fossero tutelati, peccato che non siamo a Chicago. Perché qualche amministratore ho l’impressione sia convinto di star a governare Chicago. Ricordiamocelo prima che il vialone nano venga allagato sui tetti a terrazza dei grattacieli della ex Necchi, della ex Snia, della ex Neca.

1. Il processo di recupero: strumenti e attori

Il recupero del centro storico è partito nella prima metà degli anni ‘90 attraverso la pianificazione esecutiva, rappresentata prevalentemente dal piano particolareggiato noto come P.P.E.[1] Gli interventi privati di recupero sono stati sostenuti da finanziamenti stanziati dalla Regione con la legge finanziaria n. 15 del 1993 e gestiti dal Comune di Palermo attraverso sei bandi che hanno avuto grande successo[2].

Palermo è una delle poche città d’Italia che si è dotata in tempi brevi (1989-1993) di uno strumento urbanistico organico per il recupero del centro storico e questa esperienza ha avuto molto risalto nella letteratura specialistica. Si tratta di un piano culturalmente condivisibile, che si basa sulla conoscenza storica della città e del patrimonio edilizio, utilizzata come matrice delle scelte progettuali[3].

Bisogna riconoscere anche che si tratta di un piano “efficace” facilmente consultabile e utilizzabile da parte degli operatori privati e dei tecnici comunali, che ha consentito l’apertura di numerosissimi cantieri di recupero edilizio residenziale, che ha creato un mercato immobiliare prima inesistente, che ha ampliato l’offerta di attività culturali pubbliche e private e che ha rivitalizzato molte aree del centro storico, inducendo contemporaneamente una certa quota di sostituzione sociale[4].

I soggetti attuatori degli interventi sono stati prima di tutto la stessa Amministrazione Comunale, la Soprintendenza ai Beni Culturali, i privati singoli e aggregati, l’Istituto Autonomo Case Popolari, l’Università tramite l’Opera Universitaria[5]. Più recentemente sono stati coinvolti come titolari di contributi pubblici gli imprenditori, le società immobiliari e i commercianti, mentre non è finora andato in porto il coinvolgimento delle cooperative edilizie.

2. L’attuazione del P.P.E.: risultati e criticità

Il recupero è partito con lentezza e con un certo spreco di risorse finanziarie erogate “a pioggia” a causa di errori di strategia contenuti nei primi bandi; ha avuto una notevole accelerazione quando dopo il 2001 è stato emanato il quinto bando che ammetteva al contributosocietà immobiliari o imprese edili e che privilegiava l’intervento su intere unità edilizie, dando la priorità a quelle fortemente degradate.

Oggi il processo di recupero del centro storico è visibile in molte zone della città, ma si manifesta prevalentemente come una somma di “recuperi edilizi” attuati prevalentemente da privati sulle piazze e sulle vie di maggior pregio; non investe la riqualificazione degli spazi pubblici, non prevede una quota significativa di edilizia residenziale pubblica e non è guidato da “politiche pubbliche” cioè indirizzi sulle attività e le funzioni da privilegiare, al di là dell’enfasi sulla ricettività turistica e alberghiera.

Il processo di recupero è sottolineato dall’apertura di nuove attività commerciali come agenzie immobiliari, agenzie di viaggio, negozi di prodotti etnici e phone-center gestiti da extra-comunitari, gallerie d’arte, ristoranti, pub, enoteche, piani bar, che scatenano una frenetica vita notturna ed entrano in conflitto con i pochi residenti.

I prezzi degli immobili sono cresciuti enormemente e si assiste a una fervida compravendita di edifici anche abitati. Ciò prelude all’allontanamento degli abitanti siano essi indigeni o extra-comunitari e alla sparizione dei piccoli esercizi commerciali e artigianali. Rischiano grosso anche i grandi mercati storici all’aperto che contribuiscono in maniera irrinunciabile a conferire identità al centro storico[6].

In sintesi si stanno verificando dei notevoli cambiamenti che dovrebbero essere monitorati e analizzati dall’amministrazione comunale per introdurre regole e correttivi.

Per altri versi l’attuazione del recupero del centro storico e la prefigurazione dell’assetto urbanistico generale della città non possono essere considerati separatamente, ma devono far parte di una strategia unitaria, in grado di dislocare adeguatamente risorse e interessi, in un disegno organico di riqualificazione della città, in grado di ridare dignità urbana sia al centro che alle periferie. Questa visione organica si rivela ineludibile se consideriamo il sistema della viabilità, del trasporto pubblico, della mobilità, della sosta, della pedonalizzazione, a partire da un problema cruciale che il P.P.E. provò a indicare: l’incompatiblità dei flussi di traffico pesante sul Foro Italico e sulla Cala con la riqualificazione della città storica e con la riproposizione di un rapporto felice tra la città e il mare[7].

3. Ipotesi di prospettiva

Ferma restando l’opportunità del coordinamento prima accennato, si potrebbe mettere in cantiere una rivisitazione parziale del P.P.E. sulla base dei risultati conseguiti, dell’esperienza maturata, con riferimento all’evoluzione del contesto, senza snaturarne le qualità positive e l’efficacia.[8]

Una delle riflessioni dovrebbe partire dalla consistenza del patrimonio edilizio storico del centro storico e dalla densità edilizia. Il centro storico presenta massicce volumetrie, pochi spazi aperti, una rete viaria di ampiezza modesta. La densità edilizia in alcuni casi supera i 9 metri cubi per metro quadro. Questa condizione, comune ad altri grandi centri storici, ha origine dai processi di crescita della città entro le mura e dal continuo inurbamento di abitanti alla ricerca della sicurezza e delle opportunità derivanti dalla condizione urbana. Questo meccanismo ha fatto si che nei secoli si costruisse dappertutto, che il patrimonio edilizio storico crescesse e in altezza e in superficie, a volte sacrificando perfino piazze, cortili e reti viarie.

Inoltre esiste, anche se in precarie condizioni, una grande quantità di patrimonio edilizio monumentale storico di proprietà della chiesa, di privati, di enti e istituzioni (222 edifici

[1] Il Piano Particolareggiato Esecutivo (P.P.E.) commissionato dalla giunta Orlando a Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati, Italo Insolera nel 1988 è stato approvato dalla Regione nel 1993. Gli altri piani particolareggiati coevi sono il Piano dell’Albergheria e i quattro piani di recupero Italter che interessano porzioni limitate della città storica. V. Teresa Cannarozzo Il piano per il centro storico di Palermo in Urbanistica Informazioni n. 107/1989; Approvato il piano per il centro storicodi Palermo in Urbanistica Informazioni n. 118/1991; Palermo: completati i piani per il centro storico in Urbanistica Informazioni n. 119-120/1991.

[2] La legge stanzia 170 miliardi di vecchie lire, di cui 50 miliardi per l’anno 1993. I bandi sono disciplinati dalla legge regionale n. 25/1993 che contiene ulteriori disposizioni per il recupero del centro storico.

[3] V. Teresa Cannarozzo, Palermo tra memoria e futuro. Riqualificazione e recupero del centro storico, Palermo, Publisicula Editrice, 1996.

[4] V. Teresa Cannarozzo, Centro storico di Palermo: dopo il PPEinUrbanistica Informazioni n. 193/2004.

[5] I dati quantitativi sono documentati nell’articolo di Marilena Orlando L’attuazione del recupero del centro storico: soggetti e strumenti inUrbanistica Informazioni n. 193/2004.

[6] Mi riferisco per es. ai mercati popolari che si trovano nel centro storico di Palermo e che contribuiscono ad arricchire l’identità urbana. V. Teresa Cannarozzo Centri storici in Sicilia: problematiche e indirizzi, inUrbanistica Informazioni n. 212/2007 (pagg. 76-77); T. C., Palermo: il recupero del centro storico tra eccellenza e marginalità in AA Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti di Agrigento n. 24, dicembre 2008, pagg. 7-14, ISSN 1824-854x. Relazione presentata al Convegno Nazionale organizzato dalI’INU Campania Territori e Città del Mezzogiorno - Quante Periferie? Quali Politiche di governo del territorio?, Napoli, 22-23 marzo 2007.

[7]V. Teresa Cannarozzo , Territorio costiero e città: da Panormos a Palermo in AA.VV. Territori costieri, a cura di G. Abbate, A. Giampino, M. Orlando, V. Todaro, Milano, Franco Angeli, 2009, ISBN 978-88-568-1018-9, pagg. 194-208.

[8]Con riferimento al fatto che il piano sia scaduto dopo dieci anni (e cioè nel 2003) è bene puntualizzare che dopo 10 anni scadono solo i vincoli sulle proprietà immobiliari, ma il piano rimane efficace per tutto il resto.

[1] Il Piano Particolareggiato Esecutivo (P.P.E.) commissionato dalla giunta Orlando a Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati, Italo Insolera nel 1988 è stato approvato dalla Regione nel 1993. Gli altri piani particolareggiati coevi sono il Piano dell’Albergheria e i quattro piani di recupero Italter che interessano porzioni limitate della città storica. V. Teresa Cannarozzo Il piano per il centro storico di Palermo in Urbanistica Informazioni n. 107/1989; Approvato il piano per il centro storicodi Palermo in Urbanistica Informazioni n. 118/1991; Palermo: completati i piani per il centro storico in Urbanistica Informazioni n. 119-120/1991.

[1] La legge stanzia 170 miliardi di vecchie lire, di cui 50 miliardi per l’anno 1993. I bandi sono disciplinati dalla legge regionale n. 25/1993 che contiene ulteriori disposizioni per il recupero del centro storico.

[1] V. Teresa Cannarozzo, Palermo tra memoria e futuro. Riqualificazione e recupero del centro storico, Palermo, Publisicula Editrice, 1996.

[1] V. Teresa Cannarozzo, Centro storico di Palermo: dopo il PPEinUrbanistica Informazioni n. 193/2004.

[1] I dati quantitativi sono documentati nell’articolo di Marilena Orlando L’attuazione del recupero del centro storico: soggetti e strumenti inUrbanistica Informazioni n. 193/2004.

[1] Mi riferisco per es. ai mercati popolari che si trovano nel centro storico di Palermo e che contribuiscono ad arricchire l’identità urbana. V. Teresa Cannarozzo Centri storici in Sicilia: problematiche e indirizzi, inU, n. 212/2007 (pagg. 76-77); T. C., Palermo: il recupero del centro storico tra eccellenza e marginalità in AA Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti di Agrigento n. 24, dicembre 2008, pagg. 7-14, ISSN 1824-854x. Relazione presentata al Convegno Nazionale organizzato dalI’INU Campania Territori e Città del Mezzogiorno - Quante Periferie? Quali Politiche di governo del territorio?, Napoli, 22-23 marzo 2007.

[1]V. Teresa Cannarozzo , Territorio costiero e città: da Panormos a Palermo in AA.VV. Territori costieri, a cura di G. Abbate, A. Giampino, M. Orlando, V. Todaro, Milano, Franco Angeli, 2009, ISBN 978-88-568-1018-9, pagg. 194-208.

[1]Con riferimento al fatto che il piano sia scaduto dopo dieci anni (e cioè nel 2003) è bene puntualizzare che dopo 10 anni scadono solo i vincoli sulle proprietà immobiliari, ma il piano rimane efficace per tutto il resto.

[1] Anche per questa ragione si è contrari al progetto di ricostruzione integrale nell’area della Curia in via Maqueda. V. Teresa Cannarozzo, Una piazza giardino nell’area Quaroni, in LA REPUBBLICA del 3.3.2009.

[1] V. Teresa Cannarozzo, Una piazza giardino nell’area Quaroni, in LA REPUBBLICA del 3 marzo 2009.

[1] V. Teresa Cannarozzo, Il piano dei musei nel centro storico di Palermo in RECUPERARE n. 1/1994.

[1]Teresa Cannarozzo, Il recupero dei centri storici e i procedimenti innovativi di conoscenza, progetto e gestione. Prefazione al volume di Marilena Orlando Il ruolo dei sistemi informativi territoriali nel processo di recupero dei centri storici, Milano, Franco Angeli, 2008. ISBN 978-88-568-0495-9 pag. 11-13.

COMO — Alla fine il sindaco ha alzato bandiera bianca. Travolto dall’ondata di protesta dei comaschi, con un’inchiesta della magistratura appena avviata, scaricato da Bossi e messo con le spalle al muro anche dai consiglieri della maggioranza, ieri mattina Stefano Bruni (Pdl) ha chiesto aiuto al presidente della Regione Formigoni, poi a mezzogiorno è uscito dal suo fortino e ha annunciato: «Abbatteremo completamente il muro».

Un sospiro di sollievo per i comaschi che nel giro di qualche giorno avevano visto spuntare sul lungolago una barriera di cemento armato alta due metri e che una volta completata sarebbe stata lunga 120, coprendo del tutto la vista del Lario. Un’improvvisa e misteriosa variante al sistema di paratie, in costruzione da due anni, che dovrebbe proteggere la città dalle esondazioni.

Nessuno fino a oggi ha fornito spiegazioni sul perché di quello scempio. Ancora ieri Bruni, subito dopo aver annunciato che il progetto sarà cambiato e saranno installate solo paratie mobili e trasparenti, si è rifiutato di parlare, spalleggiando l’assessore alle Grandi opere Fulvio Caradonna che alla domanda «perché il progetto è stato cambiato? », ha risposto: «Non è vero niente e non sono tenuto a rispondere».

A volerci vedere chiaro nel mistero (alimentato dal silenzio dei due) adesso è anche la Regione che, dopo aver dato il suo appoggio al sindaco per la modifica del progetto (finanziato con 15 milioni di euro della legge Valtellina ma anche con il contributo del Pirellone), ha garantito che accerterà di chi siano le responsabilità e poi chiederà «come sempre » il risarcimento del danno.

Il perché di quella variante, spuntata all’improvviso in pieno agosto, resta un mistero anche dal punto di vista tecnico, come spiega l’ingegner Franco Panzeri, già amministratore comunale, che nel 2003 aveva fatto parte della commissione incaricata di valutare i progetti presentati da quattro imprese.

Così come resta inspiegabile perché il sindaco abbia difeso strenuamente l’ecomostro, annunciando poi qualche modifica dopo il crescendo di proteste dei cittadini. Giovedì era arrivato a dire genericamente che il muro sarebbe stato abbassato. Poi, domenica, cinquecento persone sono scese in piazza e i malumori nei consiglieri di maggioranza sono diventati un ultimatum al sindaco: «O il muro si abbatte o tu vai a casa». È stata una vittoria della gente, che si è sentita tradita dal primo cittadino (rieletto nel 2007 con il 60% dei voti) e che non riesce a capire che cosa abbia spinto Bruni a resistere sino alla fine, asserragliato con il suo assessore e con tutte le forze politiche contro. Lo stesso Formigoni ha ammesso che il muro va abbattuto. Da oggi il suo assessore al territorio Davide Boni (Lega) sarà a Como per valutare con il Comune strategie e costi della modifica del progetto che comunque anche nella versione ufficiale — da molti contestata all’epoca — prevedeva un certo impatto ambientale con un muro alto 90 centimetri interrotto da due paratie mobili. Adesso la barriera scomparirà del tutto e i cittadini si sentono doppiamente presi in giro: perché non si è adottata subito questa soluzione? Per lunedì 5 ottobre è fissata una riunione straordinaria del consiglio comunale e c’è da scommettere che anche questa volta i comaschi faranno sentire la loro voce.

Il corriere della Sera ed. Milano, 28 settembre 2009

“No al Muro di Como, non è Berlino”

di Anna Campaniello

COMO — Soli contro tutti. Il sindaco Stefano Bruni e l'assessore alle Grandi opere, Fulvio Caradonna, sono rimasti isolati sul caso del muro costruito sul lungolago. Ieri oltre cinquecento persone sono scese in piazza per chiederne l'abbattimento e in poche ore sono state raccolte duemila firme. La Lega Nord, con il leader Umberto Bossi, si è schierata ufficialmente contro il progetto e il malcontento è ormai palese anche tra gli stessi esponenti del Pdl, che sarebbero pronti a far cadere la giunta. Convocata con poche ore di preavviso, la manifestazione per dire «No» al muro ha radunato sul lungolago esponenti delle forze politiche dell'opposizione, ambientalisti e sindacalisti, ma soprattutto centinaia di cittadini comaschi «senza bandiera», decisi solo a difendere il capoluogo da quello che è già stato ribattezzato un «ecomostro».

«Per il bene della città Bruni va a cà» — si leggeva sulle magliette di alcuni manifestanti. Qualcuno, invece, si è presentato con il piccone per dimostrare la volontà di abbattere il muro. Tra rulli di tamburi e cori da stadio, gli organizzatori hanno srotolato uno striscione con la scritta «Buttiamo giù il muro e questa giunta di incapaci». Tra i presenti anche due consiglieri comunali di maggioranza, Stefano Molinari e Pasquale Buono: «Questa barriera deve essere eliminata — hanno detto —. Chiediamo che si torni al progetto originale e che non sia impedita la vista del lago». La Lega Nord si è schierata apertamente contro il progetto. «Ne ho parlato con Umberto Bossi — ha detto il presidente della Provincia, Leonardo Carioni — e mi ha chiesto di stampare manifesti con lo slogan 'No al muro. Como non è Berlino'. Il sindaco Bruni sta sbagliando. Non entro nel merito del progetto, ma davanti a una simile sollevazione popolare è giusto ascoltare i cittadini». Schierati al gran completo gli esponenti dell'opposizione. «Abbiamo toccato davvero il fondo — ha attaccato il segretario provinciale del Pd, Luca Corvi —. Questa giunta abbia la dignità di dimettersi prima di far affondare completamente la città». «Il sindaco non fa dietrofront perché ha paura dei possibili danni economici e delle richieste di risarcimento — ha aggiunto il capogruppo Pd in consiglio comunale, Luca Gaffuri —. Stefano Bruni deve dimettersi, il muro deve essere abbattuto».

Al termine della manifestazione, un gruppo di giovani ha organizzato un presidio sotto l'abitazione del sindaco: una ventina di persone sono entrate nel cortile e per alcuni minuti hanno gridato e fischiato chiedendo le «dimissioni immediate». Sul cantiere delle paratie ieri si è svolto anche un sopralluogo della Sovrintendenza. Oggi giorno cruciale per il futuro della giunta. I consiglieri del Pdl hanno convocato un incontro dal quale potrebbe arrivare un ultimatum al sindaco: giù il muro o tutti a casa.

da la Repubblica, 28 settembre 2009

Como, battaglia sul muro della discordia "Abbattetelo, nasconde la vista del lago"

di Enrico Bonerandi

COMO - Quasi non si riesce a camminare per la folla domenicale sul lungolago di Como, ma gli occhi non sono puntati sulle acque o sui monti all´orizzonte: l´attrazione ormai sono gli oblò, che ogni trenta metri si affacciano nella palizzata sul cantiere, e la gente ci lascia su volentieri un ricordo, un pensiero scritto su foglietti appiccicati con lo scotch, anche solo un vaffanc. Rivolto probabilmente al sindaco pdl di Como, Stefano Bruni, che sta facendo costruire a tradimento dei suoi concittadini una muraglia che nasconderà dalla strada la vista del lago. Perché? «Per difendere Como dalla esondazioni», si giustifica lui. «Per sperperare i soldi della ricostruzione valtellinese», gli rispondono i nemici del progetto. Cioè, più o meno, tutti. Pure Umberto Bossi, che ieri si è fatto vivo per bocca del suo federale comasco e avrebbe già trovato lo slogan: «Como non è Berlino».

Ieri c´è stata la prima manifestazione pubblica anti-muro, organizzata dal Pd, e in pochi minuti i giardini a lago si sono riempiti di gente. Di destra e di sinistra. Di Como e di ogni parte del mondo, visto che le fortune del Lario - anche per merito di George Clooney - sono al massimo e richiamano migliaia di turisti. Qualcuno riesuma la canzone dei Pink Floyd, «Another brick in the wall». Dicono gli organizzatori: «Avevano promesso paratie mobili a scomparsa e invece a scomparire è il lago. Ci ritroviamo con la città murata». Non è una battuta: è proprio così. Ma tale è la forza della protesta che sta attraversando trasversalmente partiti e istituzioni, che forse lo scempio sarà evitato. In quel caso, a crollare insieme al muro potrebbe essere il sindaco e la sua giunta. Il giornale comasco La Provincia sta già raccogliendo firme e trionfano su internet i siti dedicati. Dall´estero pare siano in arrivo reporter e telecamere.

La storia inizia tanti anni fa, quando vengono stanziati fondi sostanziosi per la ricostruzione, dopo l´alluvione dell´87 nella vicina (ma non tanto) Valtellina. I 17 milioni di euro assegnati al Comasco attendono solo di essere spesi, finchè il Comune decide di usare quei finanziamenti per mettere in sicurezza il lago, che ogni 4-5 anni esonda e copre la piazza Cavour con qualche centimetro d´acqua. In realtà, manovrando le chiuse di Olginate, i tecnici ormai governano tranquillamente il livello del Lario, e il progetto comasco è più che altro destinato a risistemare in bellezza il lungolago con i soldi dello Stato e della Regione. Iniziano i lavori, si alza la palizzata, tutti tranquilli e contenti finchè un pensionato Sherlock Holmes che si chiama - suo nome vero - Innocente Proverbio ficca il naso nel cantiere e scopre che in silenzio il sindaco ha introdotto «la Variante». Illegalmente, a quanto pare, tanto che la Procura ha aperto un fascicolo. E cioè: sul lungo lago ci saranno non le promesse paratie a scomparsa, ma un vero e proprio muro che nasconderà la sponda alla vista di chi si troverà sulla strada, in piazza Cavour o nelle vicinanze. Come mai? Non c´è ancora stata una vera risposta: di certo il muro costa meno delle paratie. Più solido. Più affidabile. L´unico neo - diciamo così - è che nasconde il lago.

Il sindaco Bruni si erge come San Sebastiano trafitto: «Ma che mi importa se dalla strada gli automobilisti non vedono il lago? Lo vedrà chi passeggia e quel tratto sarà abbellito con le fioriere». In pratica, il progetto farà elevare la passeggiata di circa un metro e mezzo sul fondo stradale. A questo punto, però, dalla città non si vedranno le acque e dal lago non si vedrà la città. Black-out, che non è il massimo per una zona turistica di fama mondiale. Sulla palizzata che nasconde caterpillar e gru una mano straniera ha lasciato scritto: «Troppa bellezza per passare avanti».

«Ci hanno mandato la variante, perché era un atto dovuto, ma non era vincolante il nostro parere. In ogni caso lo avevamo espresso e in Comune c’è una lettera nostra che riassume quello che pensiamo». Non vorrebbe dire altro l’ingegner Carlo Terragni, uno dei tre progettisti delle paratie e del nuovo lungolago, assieme al collega Ugo Majone (che si è occupato delle parte idraulica) e all’architetto Renato Conti. Anzi, non vorrebbe nemmeno uscire sul giornale, rimandando la conversazione ai prossimi giorni, dopo che si sarà incontrato con i due coprogettisti e avranno deciso che linea tenere. Per ora, ribadisce, «non parliamo con nessuno».

È comprensibile che dei professionisti ci pensino due volte, o anche tre, prima di esprimersi su un problema che rischia di mandare a soqquadro gli equilibri politici, oltre che paesaggistici, della città. Ma sarebbe decisamente poco serio da parte de «La Provincia» non chiedere un chiarimento a chi - l’ingegner Terragni, appunto - all’inizio degli scavi sul lungolago, quando in un sondaggio otto lettori su dieci si schierano contro le paratie, rassicurò tutti. «Risolveranno tanti problemi e non deturperanno certo il paesaggio - affermò -: non mi sarei mai permesso di progettare qualcosa che andasse a rovinare la città che tanto amo». «Molti tra coloro che sollevano obiezioni non sono esperti in materia - aggiunse -, quindi non si tratta di valutazioni attendibili».

Dopo che, ironia della sorte, un pensionato a spasso con il cane ha notato per primo il muro che nasconde il lago e, segnalandolo a «La Provincia», ha sollevato un problema paesaggistico riconosciuto "a denti stretti" anche dal sindaco, non è possibile non sollecitare una risposta da parte da chi a suo tempo aveva garantito che il nuovo «lungolago avrà una veste splendida». Perciò riportiamo subito le poche, ma significative frasi, con cui l’ingegner Terragni ha risposto alla sollecitazione, pur chiedendo che rimanessero riservate. Converrà, il medesimo, che è uno dei classici casi in cui prevale l’interesse pubblico. È giusto che i cittadini comaschi sappiano che «abbiamo presentato un progetto e questo progetto è stato disatteso completamente», come dice Terragni. Che gli stessi progettisti non sono stati «mai interpellati» in corso d’opera, se non per un problema secondario relativo alle fondazioni («Ma non solleviamolo adesso - si raccomanda l’ingegnere - sennò aumentiamo ancora i pasticci»). Che quello parzialmente realizzato «è un altro progetto», rispetto all’originale, e quindi «è difficile giudicarlo» per chi, evidentemente, non vi si riconosce più. «La finalità è garantita - osserva sconsolato Terragni - ma sono cambiate tante altre cose». Intende dire che il muro al centro delle polemiche non è l’unico "dettaglio" modificato? «L’aspetto più significativo - replica Terragni - è l’arretramento delle paratie su piazza Cavour». Com’è possibile che siano intervenuti tutti questi cambiamenti senza che nessuno abbia posto delle obiezioni? «Il grosso problema è a Palazzo Cernezzi», dice l’ingegnere. Certo, a questo punto, sotto il muro che oscura il lago, rischia di rimanere schiacciata la Giunta... «Non mi riferisco tanto alla Giunta - precisa - bensì a questi tecnici che credono di potersi sostituire agli architetti».

In attesa che i tre progettisti si consultino e forniscano più approfondite argomentazioni, vale la pena riportare lo stralcio di una lettera scritta da Majone prima dell’avvio del cantiere: «Le opere mobili sono meno impattanti rispetto alle arginature fisse, consentendo di non sottrarre alla vista di chi si trova in città o a navigare sul lago, scorci paesaggistici di straordinaria bellezza». Invece è stata stravolta la filosofia dell’intervento e oggi, anche uscendo in barca sul primo bacino, si vedono «pannelli inguardabili», che fanno dire all’ingegner Terragni: «Mi hanno fregato».

Il progetto di Renzo Piano non si tocca. E non solo, dice Giorgio Oldrini, «per la sua qualità indiscussa e il valore internazionale». Ma anche perché, avverte, «è il frutto di un lavoro durato due anni e chiunque pensi di farne un altro deve sapere che vorrebbe dire ricominciare da capo: non credo che convenga a nessuno». Un progetto vitale, insomma, per il futuro di Sesto San Giovanni. Ed è per questo che sindaco e assessori hanno incontrato i nuovi amministratori di Risanamento. È il primo contatto dopo il crac del gruppo immobiliare, per capire quale sarà il destino delle ex Falck e di quel milione e mezzo di metri quadrati che Luigi Zunino (il socio di controllo che si è fatto da parte lasciando tutte le cariche e il cda) aveva affidato alla creatività di Piano. Oldrini adesso torna a sperare: «Ci hanno ribadito che entro il 1° settembre verrà presentato il nuovo piano industriale e che il progetto che contemplerà sarà quello di Piano». Anche se tutto rimane legato a molte incognite finanziarie.

Per colmare i vuoti delle Falck e dell’ex Marelli, ma anche la frattura con Milano, l’architetto ha disegnato una città trasparente, con case "sospese" a dodici metri d’altezza per lasciare spazio a verde, istituti universitari, incubatori di impresa, laboratori di ricerca e una parte fondamentale riservata alle energie rinnovabili. Oldrini ci crede: «Questo progetto può essere un’occasione di rilancio per tutta l’Italia». Ma comporterebbe anche un investimento non indifferente. Ancora da sciogliere, poi, il nodo dell’accordo con Fs, proprietaria di un’area confinante e della stazione che il Comune vuole sia rinnovata.

Quello con il nuovo presidente di Risanamento spa, Vincenzo Mariconda - avvocato e docente della Cattolica - e Salvatore Mancuso, un banchiere che agisce in qualità di consulente per Intesa San Paolo, per il Comune «è stato il primo incontro. Continueremo a vederci per seguire l’evolversi della situazione». I nuovi vertici avrebbero fatto intendere che si dovrà lavorare tutto il mese per presentare il piano di rilancio entro il primo settembre: una data, questa, garantita al Tribunale fallimentare che ha concesso altro tempo prima di mandare il gruppo in liquidazione, come avevano chiesto i pm che stanno indagando sui possibili risvolti penali del crac. Ciò potrebbe far tornare in discussione non tanto il progetto Piano, quanto quello finanziario che prevedeva l’affidamento delle aree Falck a un fondo immobiliare costituito dalle banche creditrici e di cui anche il Comune di Sesto avrebbe avuto una quota "simbolica" inferiore all’1%. Due dei più importanti istituti avrebbero visioni opposte: Intesa spinge per il fondo, Unicredit frena. Ma la nomina del nuovo cda e il nuovo piano industriale potrebbero rimescolare le carte.

Quel mondo solido tra affari e politica

di Edmondo Berselli

Fino a qualche mese fa l’emergenza erano i rifiuti a Napoli; poi c’è stato il caso vistoso della sanità in Abruzzo; infine l’annosa vicenda fiorentina di un recupero urbanistico, legato all’area della Fondiaria e al costruttore Ligresti, che ha messo in seria difficoltà l’amministrazione comunale di Firenze.

In una parola: in un’Italia fatta di città, il problema si chiama cemento. Perché il cemento è il punto di incrocio fra procedure amministrative locali, politica sul territorio e affari. Non è un caso che le esperienze migliori di organizzazione urbanistica risalgano ormai agli anni Settanta, sotto la spinta progettuale di critici come Antonio Cederna, ma grazie anche alla capacità propositiva di architetti come Pier Luigi Cervellati e Leonardo Benevolo, ispirati da un’idea di città legata al senso della comunità più che all’interesse privato.

A quell’epoca, sotto il profilo economico e politico, l’aspetto critico principale era la rendita, a cui si connettevano possibilità speculative impressionanti; e le amministrazioni progressiste, con i progetti legati alla cultura del recupero e della riqualificazione urbana, rappresentavano un argine, non soltanto ideologico bensì materiale ed effettivo, alla progressiva espansione cementificatrice delle città.

Non è facile da stabilire che cosa sia cambiato dall’epoca in cui i centri storici costituivano il fiore all’occhiello delle giunte più illuminate (non soltanto di sinistra, perché la pianificazione bresciana di Benevolo avviene sotto una giunta democristiana), insieme con la tutela ambientale delle aree immediatamente extraurbane, come la collina bolognese. Ma in primo luogo c’è da riconoscere che l’edilizia è la principale forma di imprenditoria che entra immediatamente a contatto con le amministrazioni territoriali: non l’unica, perché anche sanità, energia, smaltimento dei rifiuti, servizi di welfare locale, sistema dei trasporti incrociano necessariamente la politica; ma senz’altro il settore in cui le potenzialità di profitto in seguito a una decisione politica possono mutare in modo esponenziale. Tutto questo vale in misura assai minore per l’imprenditoria industriale o dei servizi, che al massimo offre qualche chance di sostegno politico ed elettorale attraverso contributi e favori, ma è estranea alla stratosferiche possibilità di rendita offerte dal variare delle coalizioni d’interessi fra politica e settore delle costruzioni.

Si intuisce senza difficoltà, infatti, che un nuovo piano regolatore, con le inevitabili varianti contrattate con le corporazioni economiche, può spostare volumi ingenti di risorse e di ricchezza, e che quindi il ruolo del ceto politico risulta decisivo nell’orientare futuri flussi di profitto. Accade qualcosa di simile in tutte le opere infrastrutturali (strade, ponti, edifici pubblici, tratti ferroviari, metropolitane), ma con gli interventi nel tessuto urbano gli incrementi di valore possono risultare colossali.

Non è una condizione inedita, ma oggi c’è da considerare la fame di suolo e di volumetrie suscitata dalle trasformazioni metropolitane. C’è da mettere insieme un quadro che contempla la metamorfosi demografica, che moltiplica i nuclei famigliari, il proliferare delle strutture di servizio, l’abbandono di stabilimenti industriali storici. Tutto questo vale sia per i centri minori sia per le grandi città. A Trento, il recupero di alcuni insediamenti industriali dismessi ha portato l’amministrazione comunale a progettare, in modo quasi visionario, la città del prossimo secolo; a Modena il recupero della Manifattura Tabacchi amplierà significativamente l’offerta di appartamenti e uffici nel centro storico, con effetti ancora imprecisati sul mercato. Nell’area metropolitana di Milano, si pensi alle "quote di città" spostate dalle operazioni sulla Bicocca e la Fiera, anche in relazione all’Expo del 2015. A Torino, è risultata di buona qualità l’opera di riconversione urbana determinata dai finanziamenti per le Olimpiadi invernali. A Roma, il piano regolatore di Veltroni è apparso come un progetto contrattuale fra l’establishment politico e l’élite dei "palazzinari", destinato a stabilizzare per decenni l’equilibrio fra la politica e il sistema degli affari capitolino (poi le cose sono andate diversamente, ma l’idea su cui si era mosso Giuseppe Campos Venuti era decifrabile: un compromesso con le richieste dei costruttori, che consentiva buoni volumi di affari limitando ragionevolmente le cubature).

Tuttavia c’è un altro aspetto da considerare. Perché se è vero che gli animal spirits dell’economia guardano con strenua attenzione alle possibilità di reddito offerte dall’intervento urbanistico, sul fronte opposto è la politica a guardare con interesse analogo alle opportunità offerte dal cemento. Il fatto è che non esiste nella tradizione amministrativa italiana la concezione secondo cui il volume di spesa degli enti pubblici va verificato a ogni bilancio e tarato sulle future esigenze effettive. Si tende piuttosto a considerare ogni capitolo di spesa come un dato da aggiornare in via progressiva: e nel momento in cui le risorse vengono ridimensionate dal governo centrale, le amministrazioni territoriali si trovano nella necessità di aumentare i propri introiti. Molte di esse lo hanno fatto incrementando la tassazione, contando sulla sopportazione dei cittadini; altre hanno valorizzato il patrimonio pubblico mettendolo sul mercato, o gestendolo in combinazione con i privati. Ma la tecnica prevalente consiste ormai da tempo, senz’altro prima dei problemi determinati dall’abolizione dell’Ici, nel variare quei parametri urbanistici, come le destinazioni d’uso, che possono modificare in modo rilevante il valore di immobili e terreni.

Tutto questo ha una sua razionalità economica, e talora anche motivazioni tutt’altro che ignobili (ad esempio, il comune "vende" cubature ai privati in cambio di edifici pubblici, scuole, asili), ma si scontra innanzitutto con una preveggente azione sull’ambiente, perché se prevale il bruto interesse economico, tutto il resto rischia di passare inevitabilmente in secondo piano. In secondo luogo il rapporto, o finanche la coalizione, con settori economici identificabili tende a stratificare un insieme di scambi e concessioni che fa riferimento ai partiti, alle maggioranze, ma via via anche alle correnti e ai circuiti di potere afferenti alle singole personalità politiche. Talora questo gioco di alleanze interessate giunge a provocare serie distorsioni nel mercato, a cominciare dalla trasparenza e correttezza degli appalti; può determinare quindi effetti negativi sui costi delle opere progettate, e interconnessioni opache fra responsabili tecnico-politici e imprese (o rappresentanze delle imprese).

Infine è tutto da vedere, e meriterebbe approfondimenti da parte degli economisti, se la "città infinita", che si espande senza limiti oltre le periferie, è un soggetto economico in equilibrio o è fonte di costi che graveranno in modo insostenibile nel lungo periodo, per i servizi che implicano, i trasporti, le opere di urbanizzazione. Cioè se quella che Cervellati ha chiamato ironicamente "Villettopoli" è occasione di profitto o alla lunga un aggravio di spesa: insomma se l’economia del cemento, all’ultima riga del bilancio, non rappresenti una perdita per tutta la comunità.

La civiltà dell’abuso

di Carlo Petrini

Attorno al cemento si scontrano due visioni del mondo. Da un lato l’economia dei grandi numeri, ancora dominante, della crescita a tutti i costi, del costruire come elemento di potere, motore di finanze e di presunto progresso. Dall’altro la piccola economia del conservare, avere memoria e migliorare l’esistente, del considerare l’ambiente come risorsa e non come intralcio, della crescita umana piuttosto che quella del prodotto interno lordo.

Sono due visioni antitetiche che hanno nello stile del costruire, come ogni forma di civiltà, la loro espressione più immediata e d’impatto, quella che si tramanderà. Se in Italia negli ultimi 15 anni abbiamo coperto di cemento una superficie equivalente a quella di Lazio e Abruzzo messi insieme, nel mondo non si è certo stati da meno: in altre regioni d’Europa si è forse viaggiato a ritmo leggermente (solo leggermente) ridotto, ma quello che sta avvenendo nelle zone a forte sviluppo, come Cina, India, Brasile, Messico o certi posti dell’Africa, in alcuni casi ha dell’orribile.

Orribile non è solo l’ingordigia di chi si arricchisce senza scrupoli, e nemmeno soltanto il fatto che si distruggano immense porzioni di natura o intere zone rurali; orribili sono pure gli ambienti che si vanno a creare, quello che si edifica: megalopoli senza senso e senza nulla di bello, spesso nemmeno degnamente abitabile.

Eppure il cemento continua ad avere appeal: la sua capacità di generare denaro a costi che non si vedono (ambientali, energetici, in termini di qualità della vita per chi ci lavora e per chi poi ci vivrà in mezzo) rimane inossidabile, tant’è vero che la ricetta che molti propongono per uscire dalla crisi è quella di costruire ancora di più. Le recenti polemiche sui progetti di trasformazione di Milano in ottica Expo 2015 rappresentano forse il terreno di scontro e l’esempio più lampante. Pensare a come sia diventata più brutta negli ultimi 50 anni quella città e a come potrebbe ancora peggiorare fa tristezza. Intanto il Governo sottrae risorse alle detrazioni per intervenire sulle case secondo parametri ecologici (pannelli solari, caldaie a bassa condensazione, finestre a norma con vetri isolanti, cappotto esterno o isolamento interno ecologici, ecc), per destinare il risparmiato alle "opere", grandi e piccole che siano.

Opere che non prevedono di ristrutturare, ma di occupare terre agricole e parchi; non rendere più piacevole l’esistente, ma fare colate di nuovo cemento, non importa dove e con che caratteristiche. È tipico della società dei consumi: produrre cose nuove per poi buttarle, illudere di soddisfare bisogni mentre non si fa altro che disattenderli, perché il sistema ha un disperato bisogno di autogenerarsi. Non siamo noi che abbiamo bisogno di ciò che produce il sistema consumistico, ma è il sistema che ha "bisogno" dei nostri bisogni: c’è dunque da sospettare che scientemente questi non saranno mai soddisfatti.

Lo spreco è il motore. Come lo sono le montagne di rifiuti di ogni tipo o di cibo ancora edibile buttato via (4.000 tonnelate al giorno nella sola Italia, fa sempre bene ricordarlo), lo è anche lo spreco di verde, di terreni agricoli, della ruralità, di spazi urbani a misura d’uomo, del bello.

Non si costruisce più per tramandare ai posteri qualcosa. Il cemento ha una deperibilità maggiore rispetto ad altri materiali, è il simbolo di una civiltà che inserisce i geni di una fine programmata in quasi tutto quello che produce: che sia un palazzone di periferia, l’imballo di un prodotto da supermercato o un seme Ogm che dà un raccolto sterile da cui non si possono trarre altri semi. L’Italia è piena di edifici fatiscenti costruiti negli anni ‘60 e ´70, certi addirittura negli anni ´80, alcuni già disabitati, impraticabili, che penzolano scrostati e pericolosi, terribili. Tutti noi li vediamo, ovunque. Abbiamo continuamente sotto gli occhi la dimostrazione di com’è assurdo continuare a edificare qualcosa che nel giro di qualche decennio non servirà più: quegli obbrobri dovrebbero servirci adesso come il senno di poi.

Oggi, imparando dagli errori commessi in passato, avremmo l’opportunità di ripensare le città in maniera sostenibile, di ricostruire il rapporto tra città e campagna affinché sia produttivo e mutuamente vantaggioso per chi abita questi ambienti. Ci sono i modi per farlo e sono anche economicamente vantaggiosi. Non è soltanto una questione estetica o ecologica: bisogna cambiare modo di fare economia. Bisogna ripensare il costruire, perché oggi, per come si realizza, è sempre più sinonimo di distruggere.

Il sistema del mattone

di Filippo Ceccarelli

Si scherzava nei corridoi di Montecitorio alla metà degli anni Settanta a proposito di un’ormai dimenticata assessore ai Lavori Pubblici della regione Lazio, una donnina apparentemente inoffensiva e naturalmente democristiana: «Ha un figlio solo: Cemento Armato». A pensarci bene quella remota, stralunatissima maternità, così come il battesimo che quell’incarnazione cementifera comportava in un mondo intriso di cinismo e di sacralità, dicono meglio di tante analisi i singolari rapporti decisamente mitologici che da tanto tempo intercorrono tra l’edilizia e il potere. Perché governare, in Italia, assai più che asfaltare, è stato tirare su costruzioni su costruzioni. E se ancora oggi è un po’ così, se sindaci e governanti continuano a guadagnare e a perdersi dietro l’edificazione di case, ponti, centri commerciali e stadi per aggiornati circenses converrà riconoscere il prima possibile la suprema ambivalenza del mattone politico, il suo essere al tempo stesso una benedizione e una sciagura.

Dopo tutto, per limitarsi al secondo dopoguerra, certe cose andavano realizzate per il semplice fatto che ce n’era bisogno. Ma le motivazioni di fondo, specie quando sono limpide, sembrano determinare anche i metodi. Il piano Ina-Casa, per esempio, energicamente varato dal giovane Fanfani a partire dal 1948 per dare un’abitazione dignitosa e riscattabile ai lavoratori e al tempo stesso provvedere alla mancanza di occupazione. Ebbene, fu quello uno dei più grandi successi della Ricostruzione: due milioni di vani, 355 mila alloggi resi disponibili in poco più di dieci anni, senza scandali, senza ruberie e senza nemmeno troppi sacrifici (all’inizio si parlò di impegnare le tredicesime).

L’allora ministro del Lavoro riuscì prodigiosamente a combinare San Francesco e Lord Beveridge, come dire l’ispirazione cristiana a favore dei poveri con il keynesismo. De Gasperi, che pure sulle prime era un po’ scettico, si lasciò trascinare. «Intesi il piano casa - proclamò Fanfani qualche anno dopo in Parlamento (rispondendo alle interruzioni di Giorgio Amendola) - come un vincolo rinnovato di solidarietà, un invito ai senza tetto a riconciliarsi con la società che li attende operosi, controllori e attori della sua vita e del suo progresso». Sono parole che oggi suonano inesorabilmente retoriche. Eppure, se questo accade è anche perché dall’Ina-casa in poi il laterizio, il foratino, quindi il blocchetto e pure il tondino del consenso hanno contribuito non solo alle distorsioni dello sviluppo economico, ma anche a quelle del comando politico e dell’autorità istituzionale in un intreccio di mancati controlli, orrori e disastri del territorio, speculazioni, bustarelle e così via, fino a Tangentopoli e oltre. Si pensi alle tante disumane "coree" e "muraglie cinesi" cresciute selvaggiamente ai margini delle metropoli del Nord, al "sacco di Roma" («Capitale corrotta, nazione infetta», secondo uno storico titolo dell’Espresso) e a quello insanguinato da Cosa Nostra a Palermo. Si pensi alle tante coste meravigliose deturpate dalle casupole abusive, agli scempi di Punta Perotti sul lungomare di Bari, all’interminabile ricostruzione del Belice e alle follie di quella dell’Irpinia. Si pensi alla frana di Agrigento, all’opera dei Quattro Cavalieri dell’apocalisse di Catania e ai rischi che tuttora corrono, per aver costruito sul vuoto, migliaia di condomini napoletani.

Si apre con un crollo in effetti il capolavoro di Rosi, Le mani sulla città (1963), dove Rod Steiger interpreta la figura di uno spregiudicatissimo costruttore e politico napoletano, Nottola, colto nel delicato passaggio tra il potere di Lauro e quello democristiano di matrice e derivazione gavianea. Ed ecco che dodici anni dopo, tra i capi d’accusa che Pier Paolo Pasolini imputava al partito democristiano, c’era appunto «la distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia». Ma non dovette servire a molto, quel processo mai celebrato, se dopo appena un quinquennio Franco Evangelisti, e cioè l’aiutante di campo di Andreotti, condensò il suo rapporto con il principe dei palazzinari romani, Gaetano Caltagirone, nel celebre interrogativo che quest’ultimo candidamente gli rivolgeva: «A Fra´ che te serve?». A veder bene erano i primi bagliori di un tramonto. Il cemento del potere cominciava a cercarsi scenari più ampi. Non solo case, ma nuove città. Così nasce in ambito craxiano il progetto di "Mito", new town da insediare tra Milano e Torino; e lo stesso Bettino vagheggia "Mediterranea", di qua e di là del Ponte sullo stretto. Fino a quando non arriva Berlusconi, il demiurgo di EdilNord che addirittura se la prese a male quando nella P2 gli assegnarono il ruolo di apprendista muratore. Ma come, apprendista al fondatore di Milano 2 e 3? Adesso che è tornato a Palazzo Chigi il Cavaliere ha ricacciato fuori il progetto "Cantiere Italia" e, ribattezzatolo "Cento Città", di nuovo prevede la costruzione di centri satelliti per anziani e giovani coppie. I sopralluoghi aerei sono attesi a marzo.

Qui il link al video

Modena è parte di un sistema policentrico di comunità locali, che con lo sviluppo industriale e l’urbanesimo ha vissuto processi di sviluppo urbano di intensità molto forte.

A partire dagli anni ’60 le politiche territoriali hanno ricercato con determinazione il consolidamento e la valorizzazione dell’originaria rete di centri urbani, maggiori e minori, allo scopo di distribuire sul territorio le funzioni di livello urbano e prevenire l’ulteriore congestione della città di Modena.

Queste finalità di sviluppo equilibrato hanno orientato sia la pianificazione del territorio, sia politiche specificamente concepite e attuate. Il Consorzio intercomunale per le aree produttive, costituito a metà degli anni ’70 e sempre attivo, ha attuato il decentramento di circa sessanta industrie da Modena verso quattro insediamenti esterni, appositamente allestiti allo scopo di riequilibrare l’offerta di posti di lavoro, e con essa la distribuzione della popolazione sul territorio.

Nel medesimo periodo il Comune di Modena è stato un protagonista dello sviluppo e dell’attuazione di politiche urbane orientate a una salda visione dell’interesse pubblico. Ricordiamo per esempio che il suo piano regolatore del 1964 anticipò di quattro anni l’istituzione degli standard urbanistici, quello del 1975 sperimentò per la prima volta la disciplina particolareggiata del centro storico, quello del 1989 fu pioniere dell’integrazione della tutela dell’ambiente nella pianificazione urbanistica, e dell’articolazione in piano strutturale e piano operativo. E ricordiamo pure che i dimensionamenti dei piani regolatori da trent’anni sono sempre stati contenuti nel fabbisogno fisiologico di una popolazione costante, e che ancora oggi oltre due terzi delle nuove edificazioni residenziali e produttive sono realizzate su terreno concesso o ceduto dal Comune in attuazione del PEEP o del PIP.

L’attuale assessore all’urbanistica è fermamente determinato ad essere anche lui un pioniere, ma di una concezione del governo del territorio diametralmente opposta.

In un suo documento personale di una ventina di pagine - “Modena futura”, in circolazione da più di un anno ma mai discusso in alcuna sede pubblica, propugna per la città di Modena un aumento di ventimila abitanti nei prossimi dodici anni (oggi sono 180.000). L’intento è, sostiene, di riportarvi gli abitanti che nel tempo si sono trasferiti nei comuni all’intorno. Ma prevede anche il raddoppio della popolazione straniera, dall’attuale 10% al 20%. E senza alcun imbarazzo programma un aumento di cinquantamila abitanti sul lungo termine (quello che, contando di essere nuovamente nominato assessore dopo le elezioni, intende prendere a riferimento per il nuovo piano strutturale comunale). Valutazioni sui sistemi infrastrutturali, sulla mobilità urbana, sull’ambiente, sull’offerta di occupazione, sugli effetti per l’ambiente, sugli enormi investimenti necessari, sui colossali problemi già sperimentati con la crescita tumultuosa degli anni ’60 e ’70? Zero.

Nel frattempo al “Laboratorio della città”, che l’amministrazione comunale ha costituito coinvolgendo insegnanti di cinque o sei Facoltà di Architettura, ha prodotto delle proposte. Una di queste, sviluppata dal gruppo di Marco Romano, dell’Università di Genova, è stata presentata pubblicamente alla metà di dicembre, in quella che, secondo il comunicato stampa, “sarà l'occasione per gettare le basi del futuro Piano regolatore (PSC)”.

Prevede la saturazione con edilizia residenziale di tutto il territorio compreso fra il margine urbano e l’autostrada del Sole, più o meno cinquecento ettari, ampiamente sufficienti per cinquantamila abitanti e più. Appunto.

Chimere? Esercitazioni?

Sembra di no, sembra che qualcuno ci creda, e investa i suoi soldi.

Al recente convegno di Italia Nostra (20 febbraio 2009 n.d.r.) in cui è stato presentato il video “ Lo sguardo sulla città” un intervento ha richiamato l’attenzione sulle notizie, che circolano da molti mesi fra gli addetti ai lavori, di ingenti acquisti di terreni agricoli a prezzi che agricoli non sono (50, 60, anche 100 euro al metro quadrato) effettuati al perimetro della città da imprese di costruzione e immobiliari.

L’assessore ha minacciato querele (chissà mai perché) ma non risulta che abbia proceduto a verifiche. Eppure il Comune ha libero accesso al Catasto, e può consultare agevolmente i trasferimenti di proprietà di terreni, anche se non le cessioni di società.

Se le cose stanno così, se c’è effettivamente chi investe soldi buoni in terreni non edificabili (si parla di oltre un milione di metri quadrati), allora c’è davvero da preoccuparsi. Povera Modena.

SCHEDA SUL PARCO MAURIZIANO DI CHIVASSO

Indice:

Premessa

1. La natura della variante di Prgc adottata.

2. L’esclusione della V.A.S. (Valutazione ambientale strategica).

3. Le prescrizioni (disattese?) della Regione

4. La (mancata?) trasmissione del PPE alla Provincia

APPENDICE 1: possibili fraintendimenti tra Regione e Comune

APPENDICE 2: imperfezioni contenute nella deliberazione di consiglio che ha adottato il PPE in variante

Premessa

Con delibera del Consiglio comunale di Chivasso n. 16 del 27 aprile 2009 è stato adottato il PPE in variante del vigente PRGC ai sensi dell’art. 40 comma 6 della L.R. 56/77 e s.m.e i. relativo alle aree 4.11 e 5.25 (area Mauriziano), che modifica il preesistente PEC Mauriziano. Il PPE modifica in misura rilevante il precedente PEC del 2006.

Dal 4 giugno al 3 luglio sarà possibile presentare al Comune osservazioni scritte in triplice copia (le istruzioni sono sul sito del Comune)

Si tratta di complessivi 56.000 metri cubi, ripartiti in 49.500 di edilizia residenziale (destinati a 550 abitanti) e di 6.500 di una palestra privata, il tutto su un’area di 40.000 metri quadri. L’area del PPE confina con il cosiddetto Parco Mauriziano, ampiezza 55.000 metri quadri, ex proprietà dell’Ordine Mauriziano, acquistato dal Comune nel 2004. Il vecchio Parco è l’unica area verde di Chivasso con alberi alti e ombrosi. Da qui la protesta di parte della popolazione, che si è concentrata principalmente su due aspetti: 1) lungo il Parco sarà costruita una fila di palazzi di sette piani di altezza; 2) entro l’area del PPE, ma a pochi metri dal Parco, verrà costruita una strada destinata a raccogliere molto traffico, perché fungerà da «tangenzialina Nord-Ovest» collegante la SR 11 (da Torino) e la viabilità verso Montanaro e il Basso Canavese.

Abbiamo esaminato la documentazione ottenuta dal Comune, e che riguarda gli anni dal 2006 al 2009. Si tratta di documenti del Comune, della Regione Piemonte, della Provincia di Torino e dell’ARPA. Vi si trovano molti punti poco chiari, o chiari ma discutibili. Li esporremo nelle osservazioni al Comune. Qui, per brevità, ne indichiamo solo quattro.

1. La natura della variante di Prgc adottata.

Nei documenti del Comune, dove si parla della «variante» adottata, si fa riferimento al comma 8 dell’art. 17 della vigente Legge urbanistica regionale 56 / 77. E’ il comma dedicato alle modifiche del PRGC meno importanti, quelle che apportano soltanto mutamenti assai modesti del vigente PRGC, e che infatti non sono neppure definite varianti. Una volta adottate dal Comune, queste modifiche non richiedono la successiva approvazione della Regione. Il riferimento al comma 8 desta sorpresa, perché il PPE «in variante» approvato dal Consiglio apporta mutamenti considerevoli rispetto alla versione precedente del progetto, il PEC del 2006. Ad esempio: 1) il tracciato della strada viene cambiato; 2) un’area a destinazione industriale viene trasformata in area residenziale; 3) gli edifici vengono portati da sei a sette piani fuori terra; 4) la volumetria cresce da 42.000 a56.000 metri cubi; 5) il numero degli abitanti sale da 465 a 550, portando il numero complessivo degli abitanti della città da 31.949 a 32.034. Gli ultimi due punti potrebbero far rientrare la variante adottata addirittura nella specie «variante strutturale», illustrata al comma 4 dello stesso articolo 17, e che richieda la successiva approvazione della Regione. In conclusione, poniamo una domanda formale e una di sostanza. Domanda formale: il PPE «in variante» adottato comporta una variante oppure non la comporta, come si ricaverebbe dal riferimento al comma 8? E se non la comporta, perché i documenti del Comune parlano di PPE «in variante»? Domanda sostanziale: i rilevanti mutamenti introdotti dal PPE sono congruenti con il riferimento al comma 8? Questo riferimento non è riduttivo? Oppure i mutamenti introdotti configurano una «variante strutturale» (comma 4), che in quanto tale richiede l’approvazione della Regione?

2. L’esclusione della V.A.S. (Valutazione ambientale strategica).

In seguito a due riunioni di conferenza di servizi, gli enti partecipanti (Comune, Regione, Provincia, Arpa) hanno convenuto di non sottoporre il PPE a Valutazione ambientale strategica. Ma dalla lettura della documentazione relativa si trae l’impressione che il Comune minimizzi l’entità dei mutamenti introdotti e il danno ambientale che la loro realizzazione produrrebbe. Ciò potrebbe avere fuorviato gli altri enti e averli indotti ad accedere alla decisione di escludere la VAS. Un solo esempio: Il Comune definisce la nuova strada del Mauriziano una semplice «viabilità di quartiere…senza alcuna valenza di tangenziale periferica della città». Ma chi conosce Chivasso sa bene che quella strada non sarà affatto una mera «viabilità di quartiere», poiché essa collegherà Torino con il Basso Canavese (da Stradale Torino, cioè la SS 11, al cavalcavia della strada per Montanaro). Sulla base di questo elemento, e di altri che potremmo illustrare, ci chiediamo se sia giustificata l’esclusione della VAS.

3. Le prescrizioni (disattese?) della Regione

Pur escludendo la V.A.S., la Regione ha espresso delle osservazioni relative soprattutto agli aspetti paesaggistici e agricoli del progetto, in cui si rilevano elementi di possibile criticità, poiché “gli insediamenti proposti non risultano pienamente aderenti ai caratteri distributivi dell’edificato urbano preesistente” (Piano Particolareggiato Esecutivo con contestuale Variante al Piano Regolatore Generale del Comune di Chivasso - Contributo regionale per la fase di verifica di assoggettabilità alla V.A.S…., datato 17-12-2008, protocollo 0056308/DA0800, protocollato dal Comune di Chivasso con N. 0042511 il 23/12/2008, pag. 4). Secondo la Regione, “il progetto presenta una sostanziale discontinuità rispetto all’ambito nel quale viene inserito” e chiede che “sia attentamente valutata la coerenza dell’impianto previsto rispetto all’esistente, anche in relazione alle altezze massime proposte per gli edifici” (idem). Perciò la Regione prescrive che siano “valutate, in sede di predisposizione del progetto definitivo, alternative di Piano che valutino la possibilità di ridurre le altezze per i fabbricati posti in adiacenza al Parco Mauriziano” (idem, pag.7).

La Regione rileva altre criticità rispetto alla nuova viabilita “in quanto la realizzazione del nuovo tracciato stradale può comportare consumo di suolo agricolo e frammentazione paesaggistica, favorendo la nascita di nuovi ambiti di espansione…” (idem, pag. 5).

A queste osservazioni, il Comune risponde in modo molto sbrigativo nella Relazione Illustrativa del P.P.E. (foglio 5), dicendo che non è possibile ridurre le altezze, senza spiegare perché, e senza predisporre alcuna “alternativa di Piano”, come richiesto dalla Regione. Al secondo rilievo, non risponde affatto.

4. La (mancata?) trasmissione del PPE alla Provincia.

Nel corso di un incontro tra rappresenti delle associazioni ambientaliste e rappresentanti del Comune di Chivasso, questi ultimi hanno affermato che non ritengono di dover sottoporre la delibera che ha adottato il PPE alla Provincia di Torino.

Osserviamo invece che:

a) In base alla Legge regionale 56/77 le delibere di adozioni delle «varianti parziali» vanno sottoposte all’esame della Provincia: «La delibera di adozione deve essere inviata alla Provincia che, entro quarantacinque giorni dalla ricezione, si pronuncia con delibera di Giunta sulla compatibilita' della variante con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati. Il pronunciamento si intende espresso in modo positivo se la Provincia non delibera entro il termine sopra indicato» (L.R 56/77, art. 17 comma 7).

b) Inoltre, in base ad una circolare regionale del 2002, le «varianti strutturali» vanno parimenti sottoposte alla Provincia: «I Comuni dopo l’adozione di Progetti preliminari di piani o di varianti, quando questi hanno natura strutturale, richiedono alla Provincia di esprimere il parere di compatibilità degli stessi con il Piano Territoriale Provinciale, se in vigore» (Circolare dell’Assessorato all’Urbanistica 23 maggio 2002, n. 5/PET - Legge Regionale 5 dicembre 1977, n. 56, e successive modifiche ed integrazioni. Approvazione dei Piani Territoriali Provinciali. Conseguenze sulla procedura di approvazione dei Piani Regolatori Comunali. Chiarimenti ed indicazioni).

In conclusione, la deliberazione con cui il Consiglio comunale di Chivasso ha approvato il «PPE in variante al PRGC…» deve dunque essere inviata o non inviata in Provincia? Non dovrebbero esservi dubbi: in base all’articolo 17 della 57/77 le varianti o sono parziali (comma 7) o sono strutturali (comma 4). E tanto in un caso quanto nell’altro - come si ricava dalla normativa sopra citata - le delibere di adozioni delle varianti medesime vanno sottoposte alla Provincia.

Ma quale specie di variante è quella adottata dal Consiglio comunale di Chivasso? Qui ricadiamo nella questione posta fin dall’inizio. I documenti del Comune di Chivasso parlano di PPE in «variante», ma non indicano di quale specie di variante si tratti. Né indicano chiaramente quali siano gli elementi della variante: il mutamento del tracciato della strada? La trasformazione della destinazione d’uso di un’area industriale in area per edilizia abitativa? L’innalzamento da sei a sette piani degli edifici? L’aumento della volumetria edificabile? L’aumento degli abitanti previsti?

E’ vero che nella delibera di adozione del PPE (n. 16 del 27 aprile 2009) si fa riferimento ad una precedente deliberazione di consiglio, la n. 69 del 3.12.08 con quale sarebbe stata approvata una «variante ai sensi art. 17 comma 8 della L.R. 56/77».

Tuttavia:

1) nell’elenco degli atti amministrativi pubblicati sul sito del Comune di Chivasso non compare alcuna delibera di consiglio n. 69 del 3.12.08 ;

2) forse i deliberanti intendevano riferirsi ad un atto dell’anno precedente, la delibera di consiglio n. 69 del 3.12.2007: ma questa delibera approva soltanto una «Variante al PRGC ai sensi dell’art. 17 comma 8 L.R. per adeguamento di limitata entità dell’area urbanistica 4.11 soggetti [sic] a strumento urbanistico esecutivo». Per la precisione si tratta semplicemente della correzione di un errore riguardante la perimetrazione dell’area. Dunque una modifica al PRGC di limitata entità, tanto è vero che viene ricondotta al comma 8, vale a dire a mutamenti che non sono nemmeno ritenuti varianti (Comma 8: «Non costituiscono varianti del Piano Regolatore Generale…»). Una piccola modifica che non ha nulla a che vedere con i consistenti elementi di variante introdotti con la recente approvazione del PPE: tracciato della strada, eliminazione area industriale, aumento dell’altezza dei fabbricati, aumento della volumetria e degli abitanti previsti. E che non giustifica nemmeno l’uso del termine «variante» nella descrizione dell’oggetto della deliberazione.

APPENDICE 1

Un indizio dei possibili fraintendimenti intervenuti tra Comune e Regione si trova nel già citato documento inviato dalla Regione al Comune di Chivasso e datato 17 dicembre 2007. Esaminando il PPE Mauriziano, i funzionari regionali scrivono che vi sarà realizzato «un complesso residenziale per anziani dotato di 82 alloggi (nell’ambito del Programma Casa 10000 alloggi per il 2012)» (p. 2). Qui i funzionari sono incorsi in un errore. Gli alloggi per anziani NON saranno costruiti nell’area PPE Mauriziano (aree 4.11 e 5.25) ma in quella del Podere San Marco, in Via Berruti, che è l’area 8.7. Forse la Regione ha male interpretato la documentazione fornita dal Comune, il quale, illustrando i caratteri della zona di Chivasso nella quale si trova l’area del PPE, cita di passaggio anche i futuri alloggi per anziani, che non hanno nulla che vedere con il PPE Mauriziano.

APPENDICE 2.

Imperfezioni contenute nella deliberazione di consiglio che ha adottato il PPE in variante

Le deliberazione (n. 16 del 27 aprile 2009) con cui il consiglio comunale di Chivasso ha approvato il PPE in variante contiene almeno 4 imperfezioni, seppure di natura diversa:

1) Nella delibera si parla di variante (l’oggetto della delibera è appunto: «Adozione del P.P.E. in variante del vigente P.R.G.C….») ma non si dice mai quale specie di variante sia stata adottata: strutturale, parziale, obbligatoria (sono elencate nell'art. 17 della 56/77);

2) La consigliera Assunta Desiderio è indicata tra gli astenuti, mentre ha votato contro, come i presenti hanno potuto constatare e come si dovrebbe ricavare dal verbale della seduta di consiglio;

3) la delibera 69 del 3 dicembre 08, citata in premessa al terzo puntino, non esiste: esiste invece la 69 del 3 dicembre 2007.

Questa delibera è regolare? Se ne può chiedere l’annullamento? Forse sì, almeno per quanto riguarda il secondo punto: la consigliera potrebbe chiedere l’annullamento della deliberazione, con le conseguenze del caso, e riservandosi di agire nelle sedi opportune per il falso contenuto nella deliberazione?

Nota: Per una ricostruzione contestualizzata del caso Parco Mauriziano si vedano sia l'articolo di Antonella Maiello che altri vari contributi comparsi qui su eddyburg.it reperibili digitando "Parco Mauriziano" nel motore di ricerca interno (f.b.)

A disposizione per qualsiasi chiarimento, Vi ringraziamo dell’attenzione e Vi porgiamo cordiali saluti

- Domenico Cena – Presidente del Circolo Legambiente di Chivasso

Via delle Alpi 21, CASTAGNETO PO
domenico.cena@virgilio.it

- Piero Meaglia – Pro Natura Torino

Via L. Ghiberti, 7 10034 CHIVASSO
p.meaglia@libero.it



Allegata Deliberazione del Consiglio di Chivasso n. 16 del 27 aprile 2009. Oggetto: «Adozione del P.P.E. in variante del P.R.G.C…relativo alle aree 4.11 e 5.25 (Area Mauriziano)»

Cagliari ha tremila anni. I fondatori scelsero questo sito perché, quaggiù, a novanta miglia dall'Africa, trovarono un golfo sul palmo di un dio, promontori e colli di roccia bianca dove vivere era facile.

Alle origini, i nuragici, artigiani indecifrabili del bronzo e della pietra.

Da allora tutto arriva dal mare. I Fenici tracciano le rotte del Mediterraneo e fondano Cagliari. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. E' un porto importante. La storia va avanti. I Vandali, Bisanzio e i due evi medi. L'epoca dei Giudicati. Le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d'Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza.

Quindi i Savoia, il Regno di Sardegna e la modernizzazione ottocentesca. Le rivoluzioni europee si sentono anche da queste parti.

Antoine Valery nel 1834 ed Edouard Delessert nel 1854, due francesi originali, arrivano a Cagliari. Fuori dal Grand Tour. Scrivono diari di viaggio e Delessert fotografa la città. Sono le prime immagini della nostra storia.

A Cagliari giungono gli echi del Risorgimento.

Il XX secolo. Antonio Gramsci, il fondatore del Partito comunista italiano, fa il suo liceo a Cagliari. Ma la carneficina della Grande Guerra travolge anche l'isola. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari sono mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu li racconta in "Un anno sull'altipiano". Il fascismo, la tragedia e le macchiette locali sono narrati dallo stesso Lussu, eroe di guerra e antifascista.

Poi la seconda guerra, l'occupazione tedesca senza dolore, i bombardamenti anglo-americani del 1943 e tanto sangue che spiega l'antiamericanismo degli anziani di oggi.

La città inizia la sua ricostruzione e l'inurbamento è pressante, feroce.

Nasce dalla ricostruzione una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni Cinquanta e Sessanta, che la raffigurano. L'edilizia dimentica l'architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose.

I cosiddetti intellettuali si rifugiano, nostalgici, in un mondo sognante vicino all'infanzia, lontano dalle azioni e pauroso delle conseguenze.

Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto che danno amnesia. La memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, finalmente si riconosce e vede la propria identità, prima di tutto, nei luoghi.

Si risveglia un'anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa di cosa è fatto e da dove viene non ha bisogno di altro per stare al mondo. E si oppone alla disastrosa frenesia del fare a tutti i costi, agli scimmiottamenti di metropoli lontane e alla visione immobiliare del territorio e dell'esistenza

Però l'altra anima, quella mercantile, resta forte. E la città, intanto, cresce senza una filosofia del costruire. Rimuove il passato. Arriva a ricoprire di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpa la sua spiaggia abbagliante. Insidia con bitume e palazzi gli stagni sconfinati, meravigliosi, a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo".

Ma è accaduto nel frattempo che l'abbandono e la dimenticanza - le sole scappatoie all' ingordigia delle imprese - avessero salvato molti luoghi preziosi.

C'è a Cagliari un sito unico e sublime che si chiama Tuvixeddu, la collina dei piccoli fori. La più grande necropoli punica del mondo. I fori sono migliaia di pozzi scavati nel calcare bianco che conducono a camere funerarie profonde. Un luogo sovrumano. Il passaggio dalla luce al buio. Una città all'inverso, in parte distrutta perché sfruttata come cava sino agli anni settanta. Ma anche il paesaggio della cava, nel frattempo, è divenuto bello, felice perché lasciato a sé, lontano dagli architetti capricciosi. Falchi, orchidee, iris, asfodeli, cieli perfetti, tramonti violenti, la vista degli stagni, il colle resta un luogo sacro. E si conserva.

Però la città è arrivata sin qui e la speculazione, nella forma più organizzata, ha messo gli occhi sul colle di Tuvixeddu.

Migliaia di sepolcri sono rimasti integri, altri ce n'è da scoprire e l'area, di oltre quaranta ettari, è proprio dentro Cagliari, assediata da una periferia squallida e palazzi costruiti sulle tombe. Le metastasi del cancro edificatorio stanno divorando Tuvixeddu e i resti dei nostri antenati fenici, punici e romani.

Una parte di opinione pubblica locale e nazionale cerca di salvare la collina soprannaturale dove un'impresa vuole palazzine dozzinali, un intero nuovo quartiere. Il nuovo Presidente della Regione blocca le costruzioni. I Tribunali, però, danno ragione alle imprese. Ricorsi. Nuovi blocchi. Una selva giuridica. Perfino il Times di Londra dedica una pagina alla necropoli. Gli intelletti locali sono usciti dall'infanzia.

Tuvixeddu è una metafora compiuta che spiega la forza delle nostre origini - quando ce le ricordiamo - e dimostra che la protezione dei luoghi coincide esattamente con la modernità, quella buona. Dimostra che esiste una modernità pericolosa e tossica, che distrugge il "bello" senza il quale non si può vivere. Dimostra che una città assonnata può svegliarsi e difendere un patrimonio tanto unico che non è neppure dei sardi ma è universale. Dimostra che quando la politica si mescola con l'impresa ci si ammala di una malattia contagiosa che si chiama "sviluppite". Una forma deviata e mortale dello sviluppo. E Cagliari è un'incubatrice di questa malattia.

Ma una società raccolta, come quella di un'isola, è alle volte un laboratorio dove tutto è più chiaro perché è rimpicciolito. Di colpo i simboli si svelano e l'allegoria di Tuvixeddu spiega molte altre città, avvilite dallo sviluppismo.

Cura, serve. Anche la nostra Costituzione dice che il bene culturale deve prevalere sull'interesse economico. Chi viene in città deve cercare con cura il tesoro mascherato sotto una patina di "nuovo" dozzinale uguale a tanto altro "nuovo" sparso per il mondo. E un occhio curioso scoprirà che ciascuno dei tremila anni di storia ha lasciato a Cagliari una traccia ostinata anche se vedrà il "moderno" palazzo dello stesso architetto che ha prodotto lo stesso palazzo sotto cieli diversi. Lo stile unico planetario che si vede ma non si guarda.

La storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell'assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla "progredita" con scale mobili e ferraglia. L'anfiteatro romano rivolto al mare durerà più delle impalcature che oggi lo sfigurano. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. L'immensa spiaggia luminosa che è stata annerita dal tentativo di ricostituirla e dalla mania del "fare" tornerà ad essere il fonte battesimale dei nati in città. I quartieri antichi reagiranno a chi li vuole "valorizzare" - "valorizziamo" è il grido di guerra degli sviluppisti - e ritroveranno il patrimonio del silenzio perché la malinconica imitazione di movide e notti bianche metropolitane passerà.

Passeranno anche gli autori dei danni alla città però resteranno nella memoria come le epidemie, le invasioni di locuste, i bombardamenti e i disastri della nostra storia. E guardare all'antico sarà l'unico progresso possibile di questa città metaforica.

Oggi, il cielo alto e pulito dal vento rettilineo di maestro, la luce bianca che non finisce mai, Cagliari è un luogo molto più lontano di un'ora d'aereo dal continente.

"Procedura troppo fragile, Albissola non si era neppure pronunciata" Il presidente della Regione: "Il parere tecnico è inoppugnabile"

Il parere tecnico del comitato per la valutazione di impatto ambientale sul progetto della Margonara a Savona: «è inoppugnabile». Lo dice il presidente della Regione Claudio Burlando che ha saputo del pronunciamento dell’organo tecnico solo martedì sera, a cose fatte: «come è giusto che avvenga». Ora starà ai promotori decidere se contestare formalmente il pronunciamento del comitato o cambiare il progetto. «Io avevo già chiaro che questa vicenda andava a sbattere contro una procedura approvativa molto fragile», dice Burlando, a proposito del progetto del porticciolo e della "torre" di Fuksas alla Margonara, la spiaggia tra Savona e Albissola. Burlando parla il giorno dopo il pronunciamento del comitato tecnico regionale per la valutazione di impatto ambientale che martedì sera ha detto che il progetto non ha ottemperato alle prescrizioni a suo tempo indicate dalla Via nazionale e dunque non è ammissibile. La "bocciatura" dei tecnici della Via riguarda il mancato rispetto di alcuni parametri: il primo è la tutela dello scoglio della Madonnetta, sotto cui esistono formazioni di madrepore "presenti solo in un altro sito italiano"; lo scoglio doveva restare fuori dal porticciolo, invece il progetto lo ricomprende; l’altro è l’andamento del moto ondoso che infrangendosi sui moli del porticciolo turistico potrebbe avere ripercussioni circa la sicurezza per l’accesso al porto commerciale di Savona. E ieri Burlando ha rilanciato sulle questioni procedurali, ricordando che alla fine dello scorso mese di novembre i direttori generali del territorio e dell’ambiente della Regione avevano scritto agli enti richiamando la verifica del rispetto delle procedure. «Il progetto - ha ricordato ieri Burlando - non è stato approvato dalla conferenza dei servizi, il consiglio comunale di Albissola non si è mai pronunciato. Lo ha fatto, solo recentemente, il Comune di Savona: ma quando un consiglio comunale approva un progetto stabilendo la destinazione d’uso di un edificio, in questo caso la torre di Fuksas, che è nel territorio di un altro Comune, evidentemente si tratta di una procedura fragile. La cosa in comune tra le due realtà amministrative è il porticciolo. Ma l’edificio è nel Comune di Albissola». Il presidente ha ripetuto che il parere del comitato di Via non riguarda il merito del progetto. Poi ha ricordato che finora la Regione non si era espressa non avendo ricevuto nessun atto: «e le prime cose che abbiamo fatto sono state quelle di richiamare il rispetto delle procedure e ora di prendere atto del parere del comitato di via che è inoppugnabile». La vicenda ieri ha fatto emergere la differenza di posizioni interna alla giunta. L’assessore all’ambiente, Franco Zunino ha detto che: «il parere del comitato di Via verrà adottato dalla giunta regionale entro l’anno, nella seduta del 22 o in quella del 30». L’assessore all’urbanistica Carlo Ruggeri, come si legge in questa pagina, è del parere che invece non sia il momento di fare questa delibera. E il presidente Burlando? «Poco cambia se andiamo in giunta oggi, tra un mese o due. Il parere del comitato del Via (un soggetto tecnico, autonomo rispetto a un soggetto) c’è, dice che il progetto non ha ottemperato alle prescrizioni ed è inoppugnabile. Questo indipendentemente dal dire che il porto o il grattacielo vanno bene o non vanno bene». L’assessore Ruggeri osserva: «però è contraddittorio che il Comune e i privati abbiano lavorato su prescrizioni ben note dal 2005 e abbiamo pensato di essere d’accordo». Burlando: «Ma a noi importa cosa dicono i nostri uffici».

L’architetto: "Si costruirà comunque nel mio piano nessuna speculazione"

Sono tranquillo perché sono addirittura andato oltre le norme previste Lo scoglio? Non lo avrei mai toccato

L’architetto Massimiliano Fuksas, la "grande firma" internazionale cui i promotori del progetto hanno affidato il ridisegno della Margonara, dice: «Sono tranquillo» e nega su tutti i fronti. «Non è vero - dice - che non abbiamo rispettato le prescrizioni, anzi, sono andato oltre le norme previste. Arrivato alla mia età non ho alcun interesse a mettermi a fare speculazioni edilizie. Ho accettato l’incarico perché era un tema importante da affrontare, un tema che non è solo savonese o ligure ma è italiano. Il tema è se si comincia a costruire architettura o se si va avanti come si è fatto finora. Perché anche a Savona, se non sarà Fuksas si costruirà comunque, con un progetto diverso. La mia idea è costruire un paesaggio contemporaneo, con una passeggiata pedonale da Albissola a Savona, con gli alberi, uno spazio pubblico». Il Via dice che lo scoglio della Margonara non è libero e che non si salvaguarda neppure la colonia di madrepore di cui esistono in Italia solo due siti. Fuksas sobbalza: «La Margonara? E’ la cosa più tutelata del progetto; tutti quelli che ho incontrato, almeno una volta si sono tuffati da quello scoglio. Non lo toccherei mai. Non è vero che esiste questa piantumazione sul fondo». Come: non è vero? «A me hanno detto che hanno fatto fare delle ricerche e non ci sono queste formazioni». Un’altra osservazione riguarda la garanzia che il moto ondoso, con il porticciolo, possa compromettere l’accesso al porto commerciale di Savona: manca. «No, anche in questo caso sono state fatte tutte le analisi ed hanno escluso qualunque problema del moto ondoso. L’Italia è un paese in cui si torna sempre da capo, ma finora non c’è motivo di mettere in dubbio ciò che è stato presentato». Dunque, non si arrenderà? «Se il Comune avesse approvato il progetto con una maggioranza risicata, avrei detto che io non vado contro la rappresentanza dei cittadini. Ma l’approvazione è stata larghissima».

L’assessore all’ambiente "Difendiamo quelle coste"

L’assessore all’ambiente, Franco Zunino (Rifondazione) dice che il parere tecnico del Via: «preserva uno dei pochi tratti di costa rimasti liberi». Spiega che porterà in giunta una delibera con il parere del Via entro l’anno e dice che, a titolo personale, lui è convinto del fatto che quel tratto di costa dovrebbe rimanere come è. Carlo Ruggeri, Ds, sindaco di Savona fino a quando Burlando non lo ha chiamato in giunta regionale come assessore all’urbanistica, non la pensa come Zunino. Sugli effetti del parere del Via, frena e porge dubbi, proprio riguardo agli stessi argomenti che adopera il progettista, Massimiliano Fuksas in questa stessa pagina. L’architetto dice: abbiamo rispettato le prescrizioni. E l’assessore Ruggeri dice: «Siamo davanti a prescrizioni note a tutti fin dal 2005 e ora il comitato di Via dice che non è stato tenuto conto delle prescrizioni. Secondo il Comune di Savona che lo ha approvato, il progetto risponde a quelle prescrizioni. Il Via dice di no. Mi pare che ci sia una lettura contrastante». L’assessore Zunino dice che il parere del Via andrà in giunta entro fine anno? «Io non credo. E’ un atto relativo ad una procedura che è ancora in corso». E le madrepore sul fondo del mare? «Dico che non è il momento. Poi evidentemente la questione ambientale è dirimente: per il porticciolo di Noli-Spotorno, ad esempio, quando ci hanno detto che c’è la poseidonia il progetto non si è fatto, anche se le procedure erano tutte a posto e compiute. Il parere su Margonara andrà in giunta, ma non ora, non è maturo». Il Via però si è pronunciato ora. «Noi come Regione non ci esprimiamo prima dei Comuni e in questo caso si è espresso solo uno dei due Comuni». Il Via? «Si sono portati avanti ma non è il momento che la giunta possa deliberare su questo progetto: quando ci sarà, la delibera di giunta comprenderà tutti gli aspetti del progetto. Va da sé che quello ambientale è dirimente. Per ora quello del Via è un parere tecnico in una fase ancora informale. La procedura formale è che il progetto approvato dai Comuni di Savona e Albissola arrivi in Regione: noi non lo abbiamo ancora ricevuto. Il comitato di Via ha esaminato un progetto consegnato agli enti, per fare un esame specifico che è l’ottemperanza alle prescrizioni del Via nazionale».

Cambiamole subito, le linee di fondo dell’urbanistica cittadina, chiede Marta Vincenzi: così, a partire dall’anno prossimo, «non dovremo più costruire quello che non vogliamo, o dover accettare eredità che non condividiamo», perché «non si possa più essere accusati di colate di cemento più o meno vere senza sapere di chi è la colpa, mettendo fine ad eredità vissute come tali e più o meno condivise». In attesa che, alla fine del 2010, ci sia il nuovo piano regolatore disegnato sulle linee tracciate da Renzo Piano e dall’Urban Lab, spiega la sindaco in commissione urbanistica, entro la fine dell’anno possiamo approvare gli indirizzi di pianificazione che ci permetteranno, nei due anni di interregno, di «approfondire, se non di bloccare» quei progetti che vanno a collidere con le linee guida di quella che vuole essere una città sostenibile, dove si costruisce sul costruito, dove non si va al di là della Linea Verde sulle colline e dove la Linea Blu garantisce che ci siano accessi e visibilità al mare. E, fa capire pur senza nominarlo, segnando davvero la discontinuità con le scelte della giunta Perìcu.

La incalzano le opposizioni: ma allora i progetti in corso? Cosa ha da dire delle future case di Boccadasse, di via Camilla e di tanti altri? «C’erano dodici progetti in movimento, troppo avanzati per bloccarli - spiega la Vincenzi dopo tre ore di discussione anche serrata - otto erano passati attraverso la conferenza dei servizi, quattro erano pratiche da sportello; abbiamo fatto ciò che potevamo, ma per certe cose, come l’Acquasola, comunque la giri non c’è via d’uscita. Mentre dobbiamo ancora esaminare, e ora vedremo come, le pratiche di via Camilla, di via Nullo e dell’area Wax e Vitale.». E intanto, insiste, ci sono due mesi pieni di lavoro, di audizioni di comitati, ambientalisti, associazioni, per condividere le linee guida; per arrivare all’approvazione all’ultima seduta di consiglio del 2008. Consultazione a tutto campo, quindi, mentre, ribadisce la sindaco, il 14 ottobre porterà al consiglio la sua proposta di débat publique, il dibattito pubblico in cui la società Autostrade presenterà i due progetti della Gronda autostradale, in maniera, anche in questo modo, di chiarire costi e benefici delle due ipotesi.

Un autunno tutto di confronto per arrivare a scegliere, insomma. cambiano i metodi, ma cambiano anche i contenuti dello sviluppo urbanistico, come ricorda Anna Corsi, l’architetto che coordina i lavori di Urban Lab e che ricorda i punti fissi: dove e come si costruisce, la possibilità di sostituire i volumi senza trasportarli, le 17 aree in cui si costruiscano edifici per il social housing, l’accento sui trasporti pubblici e la necessità di infrastrutturare la città, ma anche di riequilibrarne la composizione sociale. Poi, i piccoli progetti, quelli concordati e discussi con i municipi, altra ipotesi di realizzazione da fare nei due anni che mancano al varo del Prg. Domande e perplessità non mancano - Della Bianca, Lilli Lauro e Bernabò Brea sugli altri - ma anche dall’opposizione c’è disponibilità ad approfondire, soprattutto , come spiega Alberto Gagliardi (Fi) se si dà un taglio netto alle cementificazioni del passato. Ci si rivede in aula, e per più volte.

Una passiera, cassette della posta in ordine, i nomi sul citofono oppure l’ascensore che puzza di benzina, il citofono divelto, portone sfondato, scritte naziste sui muri: il quartiere Diamante in Valpolcevera è così, si mescola il pugno nello stomaco e la bellezza.

Ci sono alla Diga rossa e a quella bianca, come vengono chiamate in gergo, scale pulite, appartamenti di 70-80 metri quadri luminosi e un balcone in comune con altri due o tre vicini di casa, e altre aree (per fortuna minoritarie) abbandonate, con mobili rotti o trasformate in officine per l’assemblaggio di moto rubate. A monte appare un altro caseggiato enorme, via Cechov, qualche balcone murato e il problema eterno dell’acqua che s’infiltra, niente ascensori per disabili, scarsa illuminazione. E su ancora, altre case con solo pochi appartamenti per edificio che dopo vent’anni avrebbero bisogno di una rinfrescata. Ovunque silenzio, lo spazio dilatato della campagna a due passi e l’aria tersa. Sono le cose che chi è nato qui ama di più.

Passate le elezioni, c’è chi su Begato vuole fare un convegno a Palazzo Tursi e un workshop in loco per dar vita a un laboratorio vivo, come si è fatto a Cinisello Balsamo o Torino, come stanno tentando in tante periferie spagnole e francesi nate dal boom e dalla speculazione. «Vogliamo che il quartiere sia deciso da chi vi abita e che dagli abitanti arrivino le idee per riqualificarlo – dice il presidente regionale del Sicet Stefano Salvetti – non vogliamo che da mostri nascano altri mostri».

La storia di Begato nasce con la costruzione del primo caseggiato di case popolari nell’84, la Diga rossa (277 appartamenti). L’idea era di farne una città immersa in un parco urbano con negozi nei corridoi. Invece i negozi non hanno mai aperto, il parco è sparito ingoiato dalla fame di metri quadri: in pochi anni si è aggiunta la Diga bianca (altri 277 appartamenti) ed edifici, per un totale di 1600 alloggi. A disagi si sono sommati altri disagi. Per anni nell’immaginario dei genovesi è stato il posto dove la gente correva in motorino ai diversi piani. La storia delle corse è finita quando la Diga rossa è stata finalmente divisa da una verticalizzazione. Eppure secondo la Caritas resta una delle dieci periferie più degradate d’Italia, anche se gli abitanti alla cattiva nomea non ci stanno: «Ho avuto la fortuna di navigare – dice il presidente della Polisportiva Diamante, Gavino Lai – a Miami Beach ci sono edifici come questo. Il problema non è la struttura, ma la gente che hanno mandato», tradotto sarebbe «tossicodipendenti, malati mentali ed ex-carcerati». Lai ha battagliato sin dall’84 col Gruppo inquilini, «primo, perché nella Diga bianca non facessero i corridoi da cima a fondo come nella rossa, secondo perché si aprisse un supermercato e infine perché la farmacia pagasse un affitto basso». Tutte cose realizzate.

Ma i problemi restano. Per questo oggi il Sicet propone la modifica della normativa sulle assegnazioni per creare un mix sociale, «non a detrimento del patrimonio di edilizia popolare che deve restare», precisa Salvetti.

Oggi tanti abitanti (3200 circa) vorrebbero che il quartiere rivivesse; che Arte (l’azienda regionale, ex Iacp) mandasse degli ispettori; che tutte le case fossero assegnate visto che nella graduatoria per le case popolari ci sono 2300 persone in attesa, verranno assegnati solo 300-400 alloggi e il resto aspetterà; altri propongono che si facciano spazi di assistenza e intrattenimento per gli anziani (sei su dieci abitanti) e soprattutto che si risolva la questione manutenzione visto che se si rompe l’ascensore il vecchietto al ventesimo piano è costretto a casa finché non l’aggiustano.

Il sindaco punta invece a coinvolgere l’Urban Lab e il superconsulente all’urbanistica Renzo Piano. «Oggi a Begato non ci vuole andare nessuno – sostiene Marta Vincenzi - bisogna diradare, ridurre le volumetrie in modo che gli edifici siano più gestibili. Un casermone così oggi non si costruirebbe più». Ma quelli che vivono qui dagli anni Ottanta sono affezionati anche a quello che gli architetti chiamano mostro, perché hanno affitti calmierati (ci sono pensionati che pagano una quarantina di euro al mese): «Abbattere parti della Diga è un peccato – dice il presidente del comitato di via Maritano, a Begato bassa, Mario Lopuzzo – noi suggeriamo piuttosto di ripopolare con attenzione. Sarebbe bene che dessero le case a giovani coppie appena sposate e che agevolassero l’assegnazione degli appartamenti ai figli di chi vive qui». Uno di loro con fidanzata e neonato ha occupato abusivamente un appartamento pur di rimanere, e quando lo sfrattano se ne trova un altro.

Tanto la scelta non manca: tra Diga rossa e bianca ci sono oltre 200 appartamenti vuoti, manna per una trentina di abusivi. E mentre tre comitati, quello di via Maritano e altri due legati alle zone più a monte del quartiere, spesso s’accapigliano, l’assessore comunale alle politiche della casa Bruno Pastorino suggerisce di guardare a esperienze europee, «vale a dire puntare sul diradamento e sul mix sociale, quindi ridurre le volumetrie presenti intervenendo in altezza o sulle lateralità. Ora è una struttura che viene avvertita come opprimente, un luogo che più che permettere la socialità favorisce alienazione. Sarebbe opportuno mixare edilizia pubblica e privata, in modo che in quella zona non vivano solo gli assegnatarima possano stare anche i loro figli che magari hanno un reddito migliore. Nonmi stupisco quindi se alla fine il quartiere Diamante ha gli indici più alti per somministrazione di psicofarmaci a Genova».

La questione sanitaria non è secondaria. Secondo uno studio dell’Istituto di statistica francese pubblicato lo scorso ottobre, quelli che vivono con 817 euro al mese a famiglia (sono oltre 7 milioni) hanno quasi il doppio delle carie, non hanno assistenza sanitaria integrativa (22 per cento contro il 6 del resto della popolazione), vanno meno a fare visite specialistiche. Così l’Istat nostrana in una ricerca del 2006 col Ministero della sanità, che ha esaminato un campione di 60 mila famiglie a basso reddito e preso a parametro l’educazione scolastica, scopre che chi ha la licenza elementare non è in salute come i laureati (16% contro il 2,5), ha patologie croniche più facilmente (32,5 contro l’8,2), insomma non ha tempo e soldi per andare dal medico.

Per questi e altri motivi a Begato sono fieri di avere un ambulatorio, anche se «noi ce la mettiamo tutta, ma la sensazione è che qualcuno non voglia che cambi nulla», dice Nicoletta Bodrato, farmacista e volontaria del poliambulatorio nato nel ‘99. Qui operano dodici specialisti che visitano gratuitamente e su appuntamento gli abitanti della zona ricoprendo moltissime patologie (dall’andrologia alla ginecologia, poi cardiologia, angiologia, chirurgia per adulti e pediatrica e ancora dietologia, gastroenterologia, psicologia, ortopedia e urologia).

A questi si aggiungeranno presto altre due specialità, oculistica e dentistica, grazie a una seconda tranche di interventi comunali. «Oggi – spiega Nicoletta – siamo alla caccia di un paio di medici di base per fare un polo associato. Almomento sono coperte solo 12 ore alla settimana ». La nascita del polo associato («offriamo gli studi gratuitamente», precisa il titolare della farmacia) permetterebbe di risolvere una serie di problematiche burocratiche: per esempio il fatto di dover andare dal proprio medico di base per far riscrivere la ricetta data dallo specialista dell’ambulatorio.

Quanto ai giovanissimi, nel 1999 gli operatori di strada, pur di agganciarli, si erano inventati l’officina. Montando e smontando marmitte, spesso di mezzi rubati con targhe di cartone e senza nessuna assicurazione, si finiva col parlare di legalità. La questione poi è morta lì per problemi ovvii (d’illegalità). «Ogni tanto incontro qualcuno e mi dice che ha l’assicurazione della macchina», dice Paolo Putti del consorzio Agorà, coordinatore del progetto Diamante del centro servizi della Valpolcevera finanziato dal Comune. E’ da lì che sono partiti gli operatori di strada che continuano a promuovere progetti sui giovani abitanti tra i 10 e 25-30 anni. «Un po’ l’architettura, un po’ l’assegnazione delle case, ha assommato problematiche delle persone che venivano in questo quartiere – spiega Putti – Diamante ha finito col dare solo una risposta abitativa e la popolazione non è stata coinvolta dalle amministrazioni passate nelle decisioni, ad esempio quella della verticalizzazione della Diga rossa». Per trovare qualche soluzione è partito alla fine degli anni Novanta il progetto Diamante del distretto sociale, inizialmente dedicato ai ragazzi sotto i 18 anni. Tra le attività, serate di karaoke col dj e gite.

Un altro centro di incontro è «l’asilo», dove due educatrici tengono quattro bambini alla volta alla mattina, da uno ai tre anni, e al pomeriggio puoi incontrare quattro marocchine e una tunisina che si scambiano consigli o studiano l’italiano sotto dettatura. «Alcune di loro non sanno scrivere neppure l’arabo – racconta un’educatrice, Claudia - perciò abbiamo inventato un libro con tutte le lettere dell’alfabeto con la parola in italiano e in arabo, il disegno e anche il suono della pronuncia in arabo». Così arancia è anche burducaleton e albero anche chajarstan. Questo che sembra un gioco didattico serve poi a leggere bollette e documenti che arrivano a casa. Le donne del quartiere non vogliono parlare, spesso sono oggetto di frasi razziste. L’altra operatrice, Silvana che vive a Begato, ma «dall’altra parte, dove c’è il quartiere residenziale con scuole, negozi e un centro sociale» conosce la zona a menadito: «15 anni fa la gente qui non ci veniva, c’erano per la metà tossicodipendenti.

Oggi sta cambiando ma la testa della gente è ancora ancorata alle vecchie paure. Vivono chiusi nel loro bunker senza la voglia di mettersi in relazione». Perché per essere come quelli «dall’altra parte» «c’è bisogno di appartenere, di amare il posto dove vivi e questo succede ancora a macchia di leopardo», ti spiega Claudia.

Ci vogliono fatti e non parole, ripetono gli abitanti. Nella vecchia sede della Polisportiva, le suore vicenziane del centro d’ascolto hanno lanciato un corso di cucina per le badanti, un’altra cosa di cui vanno fieri in via Maritano. Intanto il Comune ha promesso il potenziamento del poliambulatorio, la ristrutturazione di una cascina abbandonata che potrebbe diventare un centro d’educazione ambientale, la chiusura degli spazi aperti ai piani terra degli stabili per farne spazi sociali, asili autogestiti, box o alloggi per anziani e portatori di handicap. A Begato sono previsti interventi per un milione e 600 mila euro cofinanziati da Comune e Regione. Si parla di recuperare 50 alloggi, di fare manutenzione agli alloggi vuoti e di ridurre i volumi.

Altri fondi potrebbero arrivare dalla Finanziaria. «Quanti soldi son passati di qui – borbotta qualcuno tra gli abitanti – che cosa ne hanno fatto?».

La precisazione dell’assessora Barbanente, in replica all’articolo di Dino Borri, è stata pubblicata da la Gazzetta del Mezzogiorno, edizione Bari, il 17 giugno 2008

Il dibattito sviluppatosi sulla stampa locale in seguito all’approvazione della modifica delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale (Prg) di Bari, adottata dal Consiglio comunale nel dicembre 2005, mi induce ad alcune riflessioni che in parte vanno oltre i contenuti dell’atto in questione.

Un primo punto che mi sta particolarmente a cuore riguarda la partecipazione sociale. La Regione ha approvato Indirizzi che prevedono che il coinvolgimento della società nella formazione dei Piani urbanistici generali (Pug) accompagni l’intero processo decisionale, sin dalla fase di concepimento del piano e, soprattutto, dia voce a portatori di interessi ambientali, socioeconomici, culturali diversi da quelli “del mattone” e a soggetti finora esclusi dalle decisioni perché privi delle risorse cognitive necessarie per comprendere atti tecnici di indubbia complessità.

Queste nuove forme di partecipazione non sostituiscono quelle da lungo tempo previste dalle norme urbanistiche a tutela dei diritti di ogni soggetto, pubblico o privato, singolo o associato, ma si aggiungono ad esse. I non addetti ai lavori devono sapere che l'iter di formazione del Prg e delle relative varianti prevede: adozione del Consiglio comunale, pubblicazione, presentazione di osservazioni che il Consiglio è obbligato a esaminare puntualmente, controllo regionale con eventuali modifiche che – merita sottolineare – possono riguardare solo l'accoglimento delle osservazioni e il coordinamento con altri piani territoriali e le norme vigenti.

Mi colpisce che, mentre operiamo ogni sforzo per potenziare gli strumenti della partecipazione nelle direzioni sopra indicate, quelli consolidati non siano utilizzati neppure da soggetti attivi e informati.

Vi è un secondo punto sul quale mi preme soffermarmi, soprattutto per evitare che i Comuni pugliesi possano immaginare che la Regione non sia imparziale nella valutazione dei piani comunali. Esso attiene ai limiti dei poteri regionali: come accennavo, la Regione può solo controllare la rispondenza degli atti adottati al quadro normativo di riferimento e non può effettuare valutazioni in ordine all’opportunità degli stessi, essendo queste di stretta competenza del Consiglio comunale. Così come è di competenza comunale la scelta di non dotarsi di Programma Pluriennale di Attuazione (Ppa), reso facoltativo da norme statali recepite dalla lr n. 20/2001. D’altra parte, basta leggere il programma amministrativo del Sindaco Emiliano, al paragrafo “Fare di Bari una città costruttiva”, per constatare che l’eliminazione di “scelte pregresse come il Ppa” era un’esplicita opzione politica volta a “sfidare con successo tutte le questioni, i nodi, i problemi che si sono accumulati”. Ed è proprio la scelta di non redigere un nuovo Ppa che, da un lato, ha reso edificabili altri volumi rispetto a quelli inclusi nel 3° Ppa, dall’altro, ha suggerito di introdurre con la variante al Prg l’obbligo,nelle zone di espansione, di estendere all'intera maglia i piani attuativi, di realizzare le urbanizzazioni di collegamento con quelle esistenti anche al di fuori della maglia e di riservare all’edilizia residenziale pubblica almeno il 40% della volumetria totale.

Nei limiti dei propri poteri, la Regione ha approvato la variante di Bari (adottata fra il 2005 e il 2006, ndr), obbligando, fra l’altro, il Consiglio comunale a deliberare un piano di utilizzazione delle aree destinate a servizi di quartiere, definito sulla base della verifica degli “standard” dei singoli quartieri e/o circoscrizioni. Operazione non da poco, se si pensa che il Comune di Bari non è riuscito in trent’anni ad approvare il piano dei servizi previsto dal Prg e che questa norma potrebbe indurre finalmente a effettuare una ricognizione, quartiere per quartiere, della dotazione di aree per servizi che residuano alla progressiva erosione dovuta a usi impropri, programmi in deroga e sentenze del TAR su aree con vincoli preordinati all’esproprio decaduti.

La Regione, inoltre, nel rispetto delle norme abrogate con lr n. 22/2006, ha eliminato ogni rimando ai crediti urbanistici per le aree ricadenti nei 300 m dalla costa e nei 150 m dalle lame. Quanto ai riferimenti alla perequazione urbanistica, è stato osservato che essi sono del tutto ininfluenti, mancando nella variante norme e strumenti per renderla operativa. La Regione ha peraltro ricordato che la tutela di tali aree è comunque affidata alle norme del piano paesaggistico regionale. Particolare attenzione è stata prestata alle modifiche delle norme sugli indici edilizi, che sono state approvate perché giudicate migliorative di quelle previgenti che consentivano la facoltà di deroga per le lottizzazioni estese a una intera maglia di Prg, mentre le modifiche escludono tale facoltà per tutti i piani esecutivi presentati dai privati. L’attenzione a queste norme deriva dalla consapevolezza degli effetti perversi prodotti nelle aree sottoposte a tutela paesaggistica dalla facoltà derogatoria prevista da Quaroni: questa induce i privati, per sfruttare tutta la volumetria consentita dal Prg, a concentrare l’edificazione nelle aree non tutelate e a sviluppare i fabbricati in altezza, con intuibili impatti negativi su paesaggi e ambienti di particolare valore e fragilità.

Non ho dubbi che il confronto di idee su questi temi è sempre utile e quindi va sollecitato. Ma sono pure convinta che occorre allargare le sfere della partecipazione sociale al di là dei media. L’insegnamento che credo tutti possano trarre da questa vicenda, soprattutto in vista della redazione del Pug che mi auguro imminente, riguarda le possibili distorsioni di un dibattito sviluppatosi tutto nella sfera mediatica. Questo ha spostato il fuoco dell’attenzione su scelte già da tempo compiute (non approvare un nuovo Ppa), su norme prive di alcuna efficacia (la perequazione urbanistica) o sugli undici milioni di metri cubi della grande manovra urbanistica (che non mi pare possano essere motivo di vanto discendendo dalla semplice decisione di non dotarsi del Ppa e che successive stime hanno peraltro ridotto a tre). E ha occupato i vuoti degli esistenti istituti della partecipazione democratica e determinato la formazione dei giudizi ben più della conoscenza diretta dei fatti.

La deliberazione del Comune di consentire nello scorcio del mandato ben 11 milioni di nuovi metri cubi residenziali e molti altri milioni di mc di dubbi edifici per servizi – tutto quanto residua del gigantesco PRG Quaroni approvato nel 1976, in epoca culturale e ambientale diversissima dalla nostra – non può che allarmare chi tiene alle sorti della città. Per l´incombente colata di cemento, destinata a aggravare ancor più ambiente e qualità di vita in una città cresciuta assai male negli ultimi anni, si pensi che: a) si tratta di edifici per ulteriori 110mila e passa abitanti rispetto agli attuali 320mila e di ultimare (ma il programma elettorale del Sindaco non andava in altra direzione?) una manovra edificatoria del PRG degli anni 1960 orientata a una mai inveratasi città di 650mila abitanti; b) il recentissimo PRG di Roma, città grande dieci volte Bari, ha previsto per i prossimi venti anni nuovi edifici residenziali per circa 70 milioni di metri cubi facendosi criticare per il devastante impatto ambientale già evidente in quell´agro unico al mondo per vestigia storico-culturali.

Pare si dica, a Bari, che volendo rifare il Piano Regolatore convenga ridar fiato all´economia sfruttando tutto il residuo potenziale edificatorio dell´ambiziosa Città-Regione pensata negli anni 1960 del grande sviluppo sociale e economico. Ma tutti sanno oggi, a Sud e a Nord del pianeta, che un durevole sviluppo sociale e economico si costruisce valorizzando e rispettando l´ambiente e si pregiudica con le colate di cemento tipiche di una crescita povera e di rapina.

Ieri su Repubblica Giovanni Ancona – ricordando Vittore Fiore e la tradizione di una coscienza critica rara a Bari – citava il freno qui posto tuttora dall´economia del cemento a una più avanzata economia industriale, dei servizi, e della conoscenza, e con esso l´aggravarsi della qualità della vita e dell´ambiente e delle vecchie e nuove povertà. La variante deliberata alle Norme Tecniche di Attuazione del vigente PRG – forse per inaugurare alla grande, facendo tabula rasa del paesaggio-ambiente di una metropoli non priva di ambizioni internazionali, la più saggia stagione urbanistica possibile con la revisione del vecchio piano? – consentirà dunque ulteriore cementificazione, questa volta nelle aree per servizi trent´anni fa riservate alla popolazione dei quartieri e della città, spazzando via da una Bari sfortunata ogni frammento di spazio e spirito pubblico. Essa avanza all´apparenza con la distratta testimonianza di una Regione Puglia che per altri versi dice di voler mirare a una nuova stagione di qualità e rigenerazione urbana e di lotta alla povertà.

Ci si deve chiedere se oltre al Comune di Bari anche RP abbia sottostimato i prevedibili impatti sulla società e l´ambiente di questa variante di piano: a) sostituzione di servizi privati di quartiere e urbani ai servizi pubblici originariamente previsti per rispettare una legge nazionale a parer di chi scrive non aggirabile almeno negli anni di esercizio consentito del potere pubblico (quali conseguenze sul costo della vita e la ‘città pubblica´?); b) frammentazione degli interventi privati – e dunque di nuovo peggiore qualità della città – per eliminazione sia di ogni misura minima delle lottizzazioni che del piano dei servizi; c) mano libera senza limiti di volume a "spazi liberi e porticati a piano terra" che rischiano di riaccendere furbesche pratiche di chiusure posticce e condoni; d) riconoscimento del diritto edificatorio sulle strisce larghe 300 metri accanto alle "lame" e 150 metri accanto al mare – dichiarate fin dal 1985 aree non edificabili minime a rispetto di quegli ecosistemi – con trasferimento dei futuri edifici nei pochi campi attigui residui in ossequio a una "urbanistica perequativa" sconosciuta in Europa. Se la ripresa del vecchio modello di crescita quantitativa e l´abbandono della più aggiornata via della qualità s´orientano come pare a incentivare attività e consensi del variegato milieu sociale da sempre in Bari orbitante sulle costruzioni, non sarebbe meglio ricostruire le tante cattive aree centrali e periferiche ostili alla vita – di cui la città è purtroppo ormai fatta? Si può solo sperare che le Comunità della Metropoli Terra di Bari, oggi impegnate in un difficile piano strategico per il loro sviluppo futuro agiscano per scongiurare l´inquietante prospettiva.

Il Tar blocca il Dal Molin

Orsola Casagrande

La nuova base militare americana al Dal Molin non si può fare. Il giudizio del Tar del Veneto arrivato ieri mattina è netto, e sospende i lavori in attesa che sul prevedibile ricorso si pronunci il Consiglio di Stato. I comitati cittadini esultano: è la vittoria della società civile, di una città che non ha mai smesso di lottare. La sentenza del Tar ha accolto in toto il ricorso presentato dal Codacons, dal coordinamento dei comitati dei cittadini contro la base e da altre associazioni. Nel ritenere «illegittima» la decisione del governo Prodi il Tar sostiene che è mancata la consultazione della popolazione interessata, nonostante fosse prevista dal memorandum Stati uniti-Italia. Ma denuncia anche di non aver riscontrato alcuna traccia documentale di sostegno «sull'atto di consenso presentato dal governo italiano a quello degli Stati uniti, espresso verbalmente nelle forme e nelle sedi istituzionali». Questo consenso, scrivono i giudici, «pertanto risulta espresso soltanto oralmente» e per questo motivo «appare estraneo ad ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem. Tale dunque da non essere assolutamente compatibile con l'importanza della materia trattata con i principi tradizionali del diritto amministrativo e delle norme sul procedimento, in base ai quali ogni determinazione deve essere emanata con atto formale e comunque per iscritto». Un giudizio pesantissimo, dunque, sull'operato del governo italiano il cui assenso, insistono i giudici, «risulta essere stato formulato, del tutto impropriamente, da un dirigente del ministero della difesa, al di fuori di qualsiasi possibile imputazione e competenze e di responsabilità ad esso ascrivibili in relazione all'altissimo rilievo della materia».

Ma il Tribunale amministrativo regionale non si ferma qui. Infatti nella sentenza ribadisce che ci sono anche «altri profili di illegittimità, alla luce della normativa nazionale ed europea». In particolare si sottolinea che l'autorizzazione è stata data «non solo per quanto riguarda l'insediamento delle nuove strutture della base militare, ma anche per la realizzazione delle relative opere, senza procedere alla verifica ex ante, del rispetto delle condizioni esplicitamente apposte». I magistrati aggiungono che sul bando di gara già effettuato per la realizzazione delle opere non sarebbero state rispettate le «normative europee e italiane in materia di procedure ad evidenza pubblica per l'assegnazione di commesse pubbliche». Il Tar quindi ricorda che per disposizione del commissario straordinario Paolo Costa «era stata prevista come condizione la redazione di un progetto alternativo, relativo in particolare agli accessi alla base». Peccato che di questo progetto «non è riscontrabile alcuna menzione nella autorizzazione». La bocciatura del Tar sulla nuova base militare Usa al Dal Molin è davvero su tutti i fronti.

Per il Codacons «la motivazione espressa dal Tar è ancora più soddisfacente di quanto ci si poteva aspettare, poichè i giudici sono entrati nel merito dell'intero procedimento, contestandolo pezzo per pezzo come il Codacons chiedeva». Il presidente Carlo Rienzi ribadisce che si tratta di «una sentenza di importanza estrema e che rappresenta una vittoria di tutti i cittadini. I giudici infatti non solo hanno riconosciuto le tesi sostenute dalla nostra associazione ma hanno ribadito con fermezza l'importanza dell'opinione dei cittadini in merito a questioni che riguardano direttamente il territorio e l'urbanistica». Il Codacons aveva presentato ricorso contro la nuova base al Dal Molin contestando tra le altre cose la violazione dell'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra e degli articoli 80 e 87 sull'obbligo di ratifica con legge dei trattati internazionali di natura politica, nonché la violazione dei trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Anche dal presidio no Dal Molin parole di gioia per questa sentenza che «dimostra - dice Marco Palma - quanto fondate sono le tesi dei cittadini che da due anni si oppongono alla realizzazione dei progetti statunitensi. Il Tar, infatti, riconosce i pericoli ambientali e urbanistici legati alla realizzazione dell'opera. Chi ha tentato di prendere in giro la cittadinanza, ora, è stato smascherato». Il presidio si impegna a vigilare sull'osservanza di questa sentenza, che nei fatti è una sospensiva e blocca qualunque lavoro «per difendere la legalità che più volte hanno tentato di calpestare i promotori dell'opera». Il presidio ha organizzato tre giornate di mobilitazione, a partire da oggi con dei banchetti informativi in centro. E poi giovedì prossimo con una presenza in piazza dei Signori in contemporanea al dibattito del consiglio comunale e il 30 giugno con una mobilitazione.

Il sindaco di Vicenza, Achille Variati, ha ribadito che la giunta proporrà nella seduta del consiglio di giovedì prossimo il referendum cittadino, che dovrebbe svolgersi a ottobre. Sulla sentenza Variati dice che «si tratta della vittoria delle ragioni di un territorio: avevamo sempre denunciato la mancanza di informazioni, di una vera discussione e di una legittimazione della procedura avviata». Mentre per il presidente dell'Ecoistituto del Veneto, il verde Michele Boato, «Davide ha fermato Golia. Sembra incredibile, ma è successo, dopo due udienze interlocutorie nei mesi scorsi, il dibattimento di mercoledì si è concluso con la sospensiva di tutte le strane autorizzazioni con cui il governo Prodi prima (commissario Paolo Costa) e quello Berlusconi poi permettevano all'esercito degli Stati uniti di calpestare le norme dello stato italiano». «No comment» invece dal commissario Paolo Costa come dal governo Berlusconi e dagli Usa.

Carta straccia

di Gianfranco Bettin

Sarebbe stato contento, il vecchio grande sergente Mario Rigoni Stern di questa sentenza del Tar del Veneto, che boccia seccamente l'iter fin qui seguito per raddoppiare la base statunitense di Vicenza presso l'aeroporto DalMolin. C'è da giurare che, nel piccolo cimitero sull'altopiano dove riposa da pochi giorni, se per qualche via misteriosa ha potuto saperlo, sorriderà. Un anno fa, intervistato dal mensile Lo Straniero, definì l'operazione «vergognosa», mera opera di «venditori ». Costoro, in effetti, sembravano aver prevalso, presenti sia nel centrodestra che nel centrosinistra, con questi ultimi, anzi, ad aver detto la parola che, fino a ieri, sembrava definitiva.

Invece, essa appare oggi carta straccia, «estranea a ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem» e tale, scrive il Tar, «da non essere compatibile con l'importanza della materia trattata, con i principi tradizionali del diritto amministrativo» Accogliendo il ricorso del Codacons e, nella sostanza, le obiezioni avanzate con precisione e tenacia dal Comitato «No DalMolin» e dalla stessa nuova amministrazione comunale di Vicenza guidata da Achille Variati, appena eletto sindaco grazie anche alla sua contrarietà al raddoppio della base, il Tar dichiara inoltre illegale l'autorizzazione rilasciata e illegittimo il bando di gara. Non limitandosi a obiezioni formali (che pure, in questa materia, sono sostanza), si sofferma sull'impatto ambientale e urbanistico del progetto, sui rischi di danneggiamento delle falde acquifere e accoglie i dubbi espressi da più parti sulla Valutazione di Incidenza Ambientale della Regione Veneto. Insomma, una bocciatura globale che rappresenta anche una dura lezione politica a chi, nella passata amministrazione vicentina di centrodestra, d'intesa col Berlusconi 2001-2006, nell'attuale giunta regionale, nel governo Prodi 2006-2008, ha inteso calpestare il diritto dei vicentini a decidere sulla loro città e, in senso generale, il diritto dell'Italia a essere sovrana e non subalterna al potente alleato Usa.

Dura per tutti, la lezione è particolarmente aspra per il centrosinistra di Romano Prodi, certo ricattato dalle più ottuse componenti atlantiche della coalizione e certo sottoposto a pesantissime pressioni diplomatiche e politiche, e tuttavia arrendevole fino all'inanità verso tali pressioni e ricatti e arrogante oltre ogni limite verso la città e la popolazione. Nella vicenda Dal Molin, per vari aspetti, si poteva già leggere la triste parabola dell'Unione, la pervicacia della sua ala destra e l'impotenza della sua ala sinistra, oltre alla stoltezza dei suoi principali reggitori. Nella clamorosa riapertura odierna della questione forse c'è l'annuncio che una stagione nuova di iniziativa e di partecipazione politica, di movimento reale sul territorio e di lavoro istituzionale più trasparente e democratico, si sta forse per aprire.

L'ordinanza del TAR Veneto è scaricabile qui

Gli architetti dovrebbero essere più attenti quando citano, per giustificare (fondare sarebbe vocabolo troppo impegnativo) le proprie scelte estetiche e le proprie inutili bizzarrie, il pensiero filosofico dell'ultimo secolo parlando a caso di nihilismo o di decostruzionismo: quest'ultimo vocabolo in particolare, sono convinto, ha suscitato grande interesse per via del riferimento alla costruzione ed all'idea di differenza ma nello stesso tempo con una scarsa capacità di comprensione della filosofia francese degli anni Settanta.

Purtroppo il dibattito intorno alle diverse teorie e fondamenti della cultura architettonica è, da qualche decennio, andato in frantumi e utilizzato sovente da parte degli architetti in modo autopromozionale, che riduce spesso i principi a slogan pubblicitari. Né bisogna dimenticare che è mutato il posto che gli architetti occupano nell'immaginario sociale (ma è anche mutata la natura della loro professione) un luogo che si è spostato verso quella categoria di successo a cui appartengono stilisti della moda, designer, parrucchieri o i protagonisti del mondo mediatico. All'equilibrio antico tra pensare, costruire e figurare l'ultimo termine ha preso il sopravvento, sospinto soprattutto dal vento del mercato e del consumo.

Altrettanto prudenti dovrebbero essere gli architetti nelle imitazioni che estetizzano i risultati delle tecnoscienze, o quelli dei metodi di altre pratiche artistiche (compresa la narrativa), tutte cose di grande interesse in cui il dialogo è però utile e possibile solo a partire dalle differenti specificità.

In queste condizioni di incertezze e confusioni è del tutto naturale che tornino a farsi sentire le vecchie resistenze conservatrici che erano state prodotte più di mezzo secolo or sono, certo con altra robustezza teorica (si vedano i celebri testi di Hans Sedlmayr) resistenze giustificate anche dal ripetitivo trasbordare nei nostri anni dei progetti e delle realizzazioni verso il grottesco, sino al limite della caricatura.

Tutto questo tenendo conto che gli esiti, sovente contraddittori, delle teorie urbane proposte dal razionalismo quali la divisione delle aree per funzioni sono state sottoposte a critica positiva da più di trent'anni, senza per questo contraddire gli ideali del progetto moderno.

Ciò che oggi non dove essere sottovalutato è anche il successo di pubblico, certamente indotto anche dalle comunicazioni mediatiche, al di là degli interessi pubblici e privati, intorno al valore di immagine di marca che viene attribuito all'edificio, in quanto oggetto ingrandito; naturalmente nel totale disprezzo per il disegno urbano e per la dialettica con il contesto che è uno degli argomenti più diffusi in questo tipo di architettura post-postmoderna.

Al di là del riferimento stilistico, prima alla storia in senso del tutto generico poi ai linguaggi dell'avanguardia (compresi i procedimenti di bricolage) ampiamente riutilizzati e la cui unica novità è il rovesciamento del senso oppositivo che li caratterizzava, è infatti proprio l'ideologia della postmodernità come cultura del tardo capitalismo (interpretata dagli architetti) che descrive appieno le ragioni della attuale scrittura architettonica di successo, compresa la progressiva disgregazione di una cultura antica capace di immaginare alternative. Si tratta cioè, per quanto riguarda la maggior parte dell'architettura di successo mediatico dei nostri anni, di una forma di rispecchiamento realista dei valori, dei comportamenti e dei desideri della nostra condizione postsociale. E non è cosa da poco.

Attuare di fronte a tutto questo una resistenza critica capace di proposte civili è difficile ma anche indispensabile, se vogliamo continuare il nostro compito di costruire poeticamente; tutto questo senza alcun interesse per inutili ritorni al passato, ma anche senza dimenticare che il terreno della storia è quello su cui camminiamo e costruiamo: anche se non ci dice nulla sul cammino da prendere per immaginare, per l'architettura e per la società, possibilità altre.

È la piccola storia di un’Italia non alle corde, come dicono i giornali: sta talmente bene da frugare il manuale del superfluo costoso. Comincia col Berlusconi Due, va in opera col Berlusconi Tre. Un giudice sta per decidere (a Parma) se accogliere la richiesta di referendum presentata da avvocati civilmente slegati dagli interessi politico-imprenditoriali della città. Cremonini, ex sindaco socialista, Allegri presidente di Monumenta, associazione che prova a frenare gli eccessi della giunta cantiere. È il logo degli amministratori messi in poltrona da imprenditori che dei cantieri sono protagonisti. Le loro televisioni e i loro giornali trasformano gli uomini qualunque in personaggi dei quali non si può fare a meno. Incenso dopo incenso le generazioni degli elettori vengono cresciute così. Nella città di ieri i protagonisti dell’industria fabbricavano cose da servire in tavola; oggi sono signori del mattone.

Nessun professionista con la testa sulle spalle ha convenienza a contrastarli, eppure avvocati e intellettuali senza collare, hanno scelto di stare dalla parte della gente nella tutela di una normale democrazia. Contestano l’interpretazione dell’ex sindaco Ubaldi che ha deciso di sottrarre la costruzione della metropolitana al giudizio di chi dovrebbe usare il metrò. A Parma il voto della gente può decidere. È uno dei pochi comuni dove il sì o il no non sono consultivi: fermano o fanno correre l’avventura del treno sotto. Non importa se l’appalto è già firmato e le talpe pronte a scavare.

La metropolitana di Parma è il Ponte di Messina di noi della Padania. Con una differenza. Il ponte è la linea che unisce due sponde traversando il braccio di mare. Non vuole cambiare niente. La matassa degli intrighi mediterranei non può essere fiorata. La metropolitana è invece una linea di fantasia. Non risolve i problemi della città e impone il disegno di una città diversa per salvare in qualche modo bilanci che si annunciano disastrosi. Città troppo piccola? Gonfiamola per giustificare il metrò. Svuota il centro storico. Impone quartieri satelliti dove disgregare le abitudini nel pionierismo di strade abitate da gente che arriva a caso; estranei raccolti attorno alle cattedrali dei supermercati. Dovranno inventarsi un’altra vita, forse un altro dialetto.

Nel Cantiere Parma, il rapporto supermercati- abitanti, alza la città al top ten dei primati. Non importa se ogni supermercato chiude 75 negozi del centro storico dal quale sono già sparite le sale dei cinema. Riaprono fra i prati in attesa del metrò. Comunità che invecchia. Nel 2015 un abitante su quattro supererà i 65 anni. Per vedere i film che incantano i giornali deve prendere un taxi o aspettare due o tre anni fino a quando il film arriverà in Tv. Addio alle sale attorno alla piazza, quattro passi dopo lo spettacolo, pizza, un gelato: piaceri della provincia. Al cinema in moto oppure si resta a casa perché il metrò è ancora un appalto, impresa Pizzarotti. E la città dei monumenti, stradine con vetrine intriganti, librerie, caffè dalla piccola storia, sta per trasformarsi in una specie di museo: parmigiani come turisti, palcoscenico per i piaceri da rappresentare quando viene la sera. Musica e tavoli in mezzo alla strada. Talk show offerti dalle agenzie comunali mescolano nello stesso umanesimo Sgarbi e Funari. Mangiare e bere. Le nuove generazioni Tv incalzano; la maggioranza che ha una certa età deve rassegnarsi alle piazze spettacolo, città da fotografare, città sepolta nei tunnel, negozi e parcheggi interrati. La modernità lo impone. Perfino Parigi si era lasciata andare, anni fa. Ma appena si accorge che non-memoria e tensioni civili minacciano il futuro nell’emarginazione dei quartieri satelliti, Chirac richiama i commercianti dispersi nei recinti delle banlieue. Per favore, tornate. Rianimate la Parigi dormitorio sgualcita da turisti frettolosi. Prestiti a fondo perduto purché le botteghe riaccendano; cinema di quartiere che riaprono le porte. Ricompone la città densa dove il dialogo naturale nella quotidianità degli incontri, accende la vita reale. Non la vita immaginaria nei bunker, aria condizionata dei bottegoni di periferia. Chirac non era un presidente progressista: più o meno la stessa destra del governo di Parma, ma la Francia è nazione dove la cultura mantiene il primato sulla febbre del mattone. Il metrò di Parma dovrebbe raggiungere quartieri che crescono su terreni opzionati dalle solite mani. Disegno programmato da lontano. Il treno sottoterra è la ciliegina sulla torta- appalto dei mille zecchini d’oro. Il primo tratto unisce due punti della grande città: pedalando senza fretta sono quindici minuti in bici, dodici con autobus e filobus.

Non è questo il problema. Nella filosofia dei nuovi urbanisti inventati dall’ex sindaco Ubaldi, modernizzare, disperdendo, vuol dire attrarre nuovi abitanti per far risalire la popolazione da 174mila a 400mila persone, quasi Bologna, più di Verona. Miracolo. Con qualche perplessità sul raddoppio della popolazione: dove pescare i parmigiani del futuro? Arriveranno, arriveranno: tranquillizzano i profeti del metrò. Sono i soldi a far confusione, quei soldi che il governo Berlusconi Due ha elargito mentre stava passando la mano a Prodi: firma all’ultimo minuto. Coi milioni in tasca, rinunciare a scavare voleva dire restituire il grisbi allo Stato. Per carità, scaviamo. Inutilmente Alfredo Peri, assessore regionale ai trasporti, propone la soluzione della metropolitana leggera. Razionalizzare il sistema di superficie. Costi rimpiccioliti, ma addio all’appalto dei mille zecchini. Non se ne parla. Avanti col tunnel sotto i palazzi della storia. Per risparmiare, meno fermate. A una certa età camminare fa bene. Non importa se la linea corre lungo un torrente secco, impetuosità delle piene (rarissime) regolata da un bacino scavato a monte (impresa Pizzarotti). Trentacinque anni fa l’ingegnere Lunardi aveva firmato il progetto che immaginava far correre le rotaie nel grembo del fiume. Il quale taglia la città in due città. Costo dei lavori più o meno dieci volte inferiore ai conti di oggi, soluzione che il Lunardi ex ministro ritiene superata. Coraggio, scaviamo. Sotto la Pilotta dei Farnese, monumento con quattrocento anni di vita. «Tremare come la Pilotta», è il ritornello che accompagna l’ironia della città. Mura imponenti ma dai gusci fragili come le costruzioni del tempo. Accolgono la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese, Biblioteca Palatina, Archivio Bodoni, Museo delle Scienze, università. Si trema davvero temendo che il frugare sotto non apra le crepe della Milano attorno a Sant’Ambrogio, vittima di parcheggi underground. Sciocchezze. Il dramma sono i conti. In Svizzera la gente decide questo tipo di spese col referendum. Un anno fa voglio sapere a Zurigo come mai la capitale dell’industria e degli affari continui ad affidare i trasporti ai tram più silenziosi del mondo. Gli elettori hanno una certa età: non vogliono il metrò. Preferiscono viaggiare alla luce del sole. Pio Marzolini, capo ufficio traffico assicura che gli zurighesi «hanno difeso il piacere di guardare le vetrine e poter scendere quando qualcosa attrae». Bacino di un milione di persone. «Ogni capo famiglia ha fatto i conti e non se l’è sentita di indebitare figli e nipoti perché un milione di abitanti non garantisce il pareggio». Risposta che si ripete a Ginevra. Philippe Vulster studia per le Nazioni Unite i flussi dell’urbanizzazione: meglio gli autobus. «Per dormire tranquilli. 50, 60 milioni di viaggiatori l’anno non bastano».

Un anno fa gli amministratori prevedevano 17 milioni di viaggiatori l’anno ma 12 milioni e 800mila clienti restavano «da individuare». Ancora non si trovano. E i 400mila fantasmi evocati dall’ex Ubaldi sarebbero gocce d’acqua. Ma non è solo il futuro. La previsione di spesa per la costruzione si annuncia ragnatela degli abra cadabra. 25 milioni al chilometro, si dice. Brescia che sta finendo il suo metrò, tracciato con le stesse difficoltà, ne spende 53. Più del doppio. Svista macroscopica o a Brescia hanno rubato? Chi rimboccherà la catastrofe? Il governo amico, eppure per quanto amico sono soldi di tutti gli italiani. Qualche sovvenzione; per il resto la città farà quadrare i bilanci in sconsolata solitudine. Il municipio sta vendendo le azioni Enia per riempire altri buchi. I buchi del metrò verranno colmati con tagli di servizi. Prezzi più cari per tutto. Meno autobus, filobus: i quartieri lontani dalla sotterranea devono farsene una ragione. Meno servizi sociali, non parliamo di case popolari per i senza tetto e senza niente. Costruiti 36 appartamenti in dieci anni di governo, con 6 milioni pagati dalla Fondazione Cassa di Risparmio, vicinissima (per italiche abitudini) all’Ubaldi quand’era sindaco. Più qualche casa riadattata. Ma il principio sacrosanto è che i senza casa non devono intralciare le grandi opere. Cinghia stretta per la gloria del metro. Ma non basterà. L’incubo della gestione coinvolge due, tre chissà quante generazioni: pagheranno i debiti di un trasporto per pochi.

Non è la polemica dei politici contro: analisi del professor Marco Ponti, insegna economia applicata al Politecnico di Milano, membro della società italiana degli Economisti dei Trasporti e della World Conference of Trasport Research Society. Nella sala Filosofi dell’università di Parma spiega perché la metropolitana è l’imprudenza che fa comodo a qualcuno. Dibattito organizzato da StopMetro, galassia di associazioni e movimenti motore del referendum. «Non sono né verde, tanto meno di sinistra. Sono un liberale che studia l’uso del patrimonio pubblico ed ho lavorato dieci anni per la Banca Mondiale. Tornato in Italia non mi sono ancora ripreso nel vedere come vengono utilizzate le risorse pubbliche». Ricorda che nel panorama nazionale sprechi come il metrò Parma non fanno eccezione: «L’obiettivo non è fare progetti sensati, ma ottenere da Roma più soldi possibili. Ed è quasi impossibile per l’amministrazione della città dire: “quei soldi non li voglio”. La pressione delle lobby locali (e di chi cuoce gli appalti) è quasi irresistibile». Domanda dall’aula affollata: il Cipe ha concesso il finanziamento sulla base di un progetto che prevedeva 25 milioni di viaggiatori l’anno. Le ultime stime prudenziali li hanno ridotti a 8 milioni. Possibile che i signori del Cipe non sappiano quanti abitanti ha Parma? Un clic sul computer e si informano. Il professor non consola: «Nella mia esperienza le previsioni di spesa sono sempre sottovalutate e il traffico di passeggeri sempre sopravvalutato. Se uno fa un progetto di mobilità che è una cretinata, dopo un anno si vede subito, mentre le grandi opere impediscono di controllare i risultati in tempi brevi, ecco perché sono molte amate dai politici del momento». Domani sarà difficile risalire alle responsabilità.

mchierici2@libero.it

Vedi su eddyburg la corrispondenza di Andrea Bui. Vedi anche il sito Stop Metro.

© 2024 Eddyburg