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«Le sentenze per lo scandalo di Elbopoli hanno condannato un prefetto, un giudice, due costruttori. E' stato sequestrato e demolito, ma dal 2013 i detriti restano lì. ». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 29 luglio 2016 (c.m.c.)


Dopo la corruzione e l’abuso restano sempre le macerie. All’Elba non è nemmeno una metafora: l’ecomostro di Procchio – una delle 70 spiagge dell’isola – è stato tirato giù e fatto a brandelli, ma i detriti sono ancora lì.
I turisti non rimarranno delusi: troveranno anche questa estate, la quarta di fila, i calcinacci di quello sgorbio vista mare. Sentenze e condanne sono ammuffite, eppure le macerie di Elbopoli – il più grande scandalo giudiziario della costa della Toscana – restano lì. Le ruspe hanno buttato giù colonne portanti, muri maestri e anche responsabilità: tocca all’azienda che l’aveva costruito togliere quell’ammasso di pietre, eppure in tre anni nessuno è andato a battere alla spalla del titolare. Il sindaco di centrodestra di Marciana Marina, Anna Bulgaresi, eletta per la prima volta nel 2009, ci vuole provare ora con un’ordinanza, dopo aver visto che l’iter burocratico normale potrebbe far diventare quelle macerie reperti archeologici. «Gli operai della ditta dovrebbero iniziare intanto a pulire l’area, mentre per vedere i camion portare via le macerie si dovrà aspettare settembre, con la fine della stagione turistica». Ma per ora non c’è nemmeno l’ordinanza.

Lo sgorbio di Procchio, costruito nel 2003 a poche centinaia di metri dal mare, è un graffio in faccia a un’isola che si difende da decine di anni dall’arrembaggio dei pirati del cemento: quei detriti sono un monumento ai caduti e non è solo questione di paesaggio e spiagge da “liberare”. L’ecomostro è infatti un simbolo già dalle fondamenta, costruite in mezzo al corso originario del fosso Vallegrande. Ci sono quattro, cinque, sei canali che si ingrossano ogni volta che piove forte sull’isola e il Vallegrande è tra questi. Proprio quel fosso fu tra i responsabili dell’alluvione del 2011. Ma d’altra parte quell’emergenza (che causò un morto e milioni di euro di danni diretti e indiretti) fu la seconda in dieci anni, perché già nel 2002 l’isola andò sott’acqua. I lavori di messa in sicurezza, disse Legambiente dopo l’ennesima esondazione, non sono fatti per allontanare il rischio, ma per continuare a costruire dove il rischio già si è manifestato. Per anni gli 8 Comuni che governano i 223 chilometri quadrati hanno avuto piani strutturali singoli che – dicono gli ambientalisti – hanno permesso varianti, variantine, finte messe in sicurezza che hanno consentito cemento e infrastrutture e quindi consumo del suolo e terreni impermeabili.

Le macerie di Procchio dovevano essere un grande centro servizi: 7500 metri cubi, appartamenti, negozi, un parcheggio sotterraneo. Troppo grande. La Forestale lo segnalò, la Procura chiese il sequestro perché niente tornava con la licenza edilizia. Ma il giudice del tribunale non dette l’ok ai sigilli. Fu l’inizio dello scandalo Elbopoli che travolgerà – come se fosse un’esondazione del Vallegrande – due prefetti, un giudice, un sindaco, imprenditori, un funzionario comunale. La cricca prima del tempo delle cricche. Una bufera che sposterà i capelli anche a un ministro ora senatore, Altero Matteoli, lasciandolo però immacolato.

E’ l’estate del 2003 quando la guardia di finanza di Livorno ascolta le telefonate tra i proprietari e il progettista del centro servizi. Ma trovano un interlocutore in più: è proprio il giudice che ha negato il sequestro. Si chiama Germano Lamberti, è il capo dell’ufficio gip, ha presieduto il tribunale che ha emesso la prima sentenza sulla tragedia del Moby Prince, viene descritto come un uomo tutto d’un pezzo. Ma secondo i giudici ha un prezzo: poche ore prima Lamberti aveva ricevuto la richiesta del pm Antonio Giaconi di sequestrate tutto e ora suggerisce all’ingegnere progettista cosa serve per mettersi in regola. In cambio – dicono le sentenze definitive – avrebbe avuto un appartamento nel centro di Procchio e un altro a Cavo, altro angolo di serenità dell’isola. E allora risponde al pm che il sequestro va respinto. Il collega giudice che firmerà l’ordinanza del suo arresto scriverà: «Lamberti nel suo provvedimento ha affermato principi giuridici, fatti e circostanze, pur nella consapevolezza e convinzione che essi fossero del tutto errati e non corrispondenti alla reale situazione giuridica».

Il tempo di liberare il progettista – pochi mesi – che già lo riarrestano. Insieme a lui anche il prefetto di Isernia, Giuseppe Pesce, appena promosso dopo aver fatto il vice a Livorno e soprattutto il commissario prefettizio a Rio Marina, paese dall’altra parte dell’Elba, dal 2000 al 2001. Secondo i pm il viceprefetto Pesce ha concesso una concessione edilizia e una variazione di destinazione d’uso per far costruire un residence in un’altra zona spettacolare dell’isola, la ex Costa dei Barbari, a Cavo. In cambio, anche in questo caso, appartamenti a prezzo agevolato. Nella commissione edilizia chi c’era? Il progettista dell’ecomostro di Procchio. Nominato da chi? Dal prefetto Pesce. Infine il prefetto Vincenzo Gallitto. Subito dopo essere uscito assolto dal processo per la tragedia dell’alluvione di Soverato, riceve un altro avviso di garanzia, questa volta per corruzione, questa volta a Livorno. Lo accusano di aver fatto da intermediario tra i palazzinari e il giudice Lamberti. A lui, disse agli immobiliaristi, non dategli un appartamento sulla strada, piuttosto «sul dietro, dalla parte del giardino». In un’altra telefonata Lamberti rassicurava Gallitto sull’eventuale presenza di inchieste per abusi edilizi: ho controllato, spiegava il giudice, «non c’era niente». Non c’era niente perché tra gli indagati c’era anche lui e quindi l’inchiesta era già stata trasferita – come da prassi – da Livorno a Genova.

Dell’inchiesta – secondo la Procura – Gallitto seppe da qualcun altro, cioè dall’allora ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. L’ex colonnello di An si è sempre difeso dicendo che in realtà aveva telefonato al prefetto per l’emergenza incendi e aveva chiesto a Gallitto se era vero quello che dicevano i giornalisti, cioè che c’era un’indagine. Ma nessun tribunale lo ha mai verificato perché il processo è morto in un attorcigliamento di conflitti di attribuzione, tra tribunale ordinario, tribunale dei ministri, voti della Camera, pronunce della Consulta. Il processo agli altri invece – tra varie partite di andata e ritorno – è finito nel 2013 quando la Cassazione ha confermato le condanne per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi a 3 anni e mezzo, il giudice Lamberti a 4 anni e 9 mesi e il prefetto Gallitto a 3 anni e 4 mesi. Tutti accusati di corruzione. Lo è anche il prefetto Pesce, ma il suo reato è caduto in prescrizione, così come quelli di altri imputati (in tutto a processo erano in 8).

Tutto finito, tutto risolto, dopo dieci anni? Macché. Nel giugno 2012 Regione e Comune annunciano che la struttura abusiva sarà demolita dopo 3 mesi e invece di mesi ne passano 9. Firenze ci mette oltre 5 milioni di euro per ricostruire tre chilometri di corso d’acqua, cancellati dalle urbanizzazioni degli ultimi trent’anni (ecomostro compreso). Da quel momento inizia il labirinto burocratico nel quale la responsabilità pare sempre di qualcun altro. «Lo spostamento delle macerie – spiega il sindaco Bulgaresi – era vincolato da parte della Provincia all’approvazione di un piano attuativo presentato dalla ditta con i dettagli della ricostruzione. Con le vicende giudiziarie, però, quella era tornata ad essere un’area ‘bianca’, e prima era necessaria una nuova pianificazione. Il futuro si deciderà con l’approvazione del nuovo piano urbanistico». Perché però l’attesa si è trascinata per anni? «Ce lo chiediamo anche noi – risponde Simone Barbi, consigliere del Pd, all’opposizione – Assistiamo a uno scaricabarile tra Provincia e Comune». La Bulgaresi sostiene di aver «aspettato perché sembrava che la proprietà avrebbe fatto qualcosa. E invece è passato un altro anno e non hanno fatto nulla. Adesso interverrò ordinando in maniera formale alla proprietà di rimuovere le macerie, poi si vedrà come procedere».

L’ordinanza, annunciata dal sindaco per il 13 giugno, non c’è ancora e ilfatto.it non è più riuscito a trovare il sindaco per capire perché. «Ci hanno comunicato che è stato avviato il procedimento per l’ordinanza. L’iter prevede di avvisare prima la ditta», fa sapere Barbi dall’opposizione. L’accelerazione del Comune – dopo tre anni – per il sindaco dovrebbe essere «una mossa per dare un segnale preciso: non possiamo ritrovarci la prossima estate con le macerie».

Perché il motivo principale delle lungaggini è il completamento della progettazione che dovrà ridisegnare tutta l’area. Il piano è in consiglio comunale, si attendono le osservazioni dell’impresa, che non è soddisfatta perché il Comune ha rivisto le cubature al ribasso, spostando dei volumi dagli appartamenti ai servizi. L’impresa che ha la concessione è rimasta la stessa di 13 anni fa. Nonostante l’ecomostro, lo scandalo, le condanne e la demolizione, la legge lo permette.

«Il sindaco anti abusivi non lascia "Ho paura ma resisto per mio figlio". Dopo l’attentato a Licata arriva Alfano. Nessuna sanatoria per le villette da demolire». Corriere della sera, 11 maggio 2016

L'arcivescovo di Agrigento sta con il sindaco di Licata. Dice no alle case abusive. Una svolta. Per troppo tempo la Chiesa siciliana ha avuto sul tema posizioni ambigue.

La tentazione di mollare tutto, di dimettersi dalla carica di sindaco, di fermare la sua battaglia contro gli abusivi con le case sul mare era inevitabile dopo una notte insonne trascorsa, prima, davanti alla sua casa di campagna dove i vigili del fuoco sono arrivati in tempo per evitare il peggio, poi fino all’alba a riflettere con la moglie in attesa di un bebè. Atterriti da un attentato odioso. Da una plateale minaccia destinata ad avvelenare in questo tormentato lembo della provincia di Agrigento la lotta per il ripristino della legalità, mentre le ruspe continuano a demolire i mostri di cemento con le zampe sulla sabbia.

Ma il sindaco di Licata, Angelo Cambiano, 38 anni, insegnante di matematica in aspettativa, un bernoccolo recente per l’aggressione di un pescivendolo contrario alla riorganizzazione del mercatino, nonostante l’emozione, gli occhiali da sole per coprire gli occhi rossi e un primo sfogo davanti al municipio, dopo avere partecipato ad una riunione sulla sicurezza con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, precipitatosi nella sua contraddittoria provincia per solidarizzare con scelte concrete, ha deciso di provare a resistere: «Non so se ci riuscirò, ma per ora resto. Ovvio che mi chieda chi me lo fa fare a rischiare la vita per 1.700 euro al mese. Io non sono un eroe. Vorrei solo amministrare rispettando le leggi. Si, la paura c’è. Ma poi guardo mia moglie che partorirà fra poco e penso a mio figlio. Che gli racconto? Che suo padre scappa? Resto. Serve però la squadra».

Un appello che ieri, si spera non solo per un giorno, sembrava essere stato recepito. Non solo dal ministro, arrivato con il prefetto Nicola Diomede, il questore Mario Finocchiaro, ufficiali di carabinieri e guardia di finanza, ma anche da 40 sindaci e amministratori dei comuni vicini per un’ora in riunione con lui. Tutti apparentemente consenzienti con Alfano, pronto a soffocare le speranze di una sanatoria aleggiata nei giorni scorsi perfino con un disegno di legge presentato all’Assemblea regionale: «Oggi è giunto il tempo della politica e delle istituzioni che fanno rispettare le leggi, puntando al consenso democratico di quei cittadini che onestamente, per fare una casa, chiedono il permesso».

Avrà una scorta il sindaco, incoraggiato dall’incontro con Alfano, sollevato e determinato nel contrasto ai comitati impegnati in manifestazioni continue, a difesa delle villette sul mare di Mollarella e Torre di Gaffe, una costa offesa da 500 costruzioni tirate su sin dagli anni Settanta, a due passi dalla battigia, comunque a meno di 150 metri dalla spiaggia. Tema di una riflessione chiara da parte del sindaco in Tv, ospite domenica dell’«Arena» di Massimo Giletti: «La Procura di Agrigento impone a noi di eseguire demolizioni per le case sulle quali esiste un verdetto definitivo della Cassazione e noi amministratori non possiamo sottrarci». Il giorno dopo, il finimondo. Alle sette di lunedì sera c’è voluto un cordone di polizia per fare uscire sindaco e assessori dal municipio. E due ore dopo qualcuno ha appiccato il fuoco.

Adesso l’amarezza di Cambiano diventa anche denuncia: «In questi giorni ho avvertito la presenza di uno sciacallaggio con politici locali che scaricano sulla mia persona la responsabilità delle demolizioni...». Un dettaglio che viene analizzato dal procuratore della Repubblica Renato Di Natale e dal suo aggiunto Ignazio Fonzo, fiduciosi sulle indagini: «Abbiamo un’idea precisa. Soprattutto sugli ispiratori... Ma importante è sapere che l’azione di ripristino della legalità non si fermerà». Come dire che non serve presentare disegni di legge o emendamenti pro sanatoria come hanno fatto all’Assemblea regionale Girolamo Fazio, ex sindaco di Trapani in quota Forza Italia e un deputato avvicinatosi al Pd, Michele Cimino. Proposte lette con sgomento dal procuratore di Natale: «Sono contro legge. E i cittadini debbono saperlo» .

«Il condono compie 30 anni. Cresme: dal ’94 a oggi costruiti 362mila nuovi alloggi. Il 70% fuori dalle aree più popolate. E sui Comuni pesano oneri doppi di quanto lo Stato riesce a incassare». Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2015

A trent’anni dal primo condono edilizio, i conti non tornano. Né dal punto di vista ambientale né da quello economico. Tre sanatorie, la prima nel 1985, le altre nel 1994 e nel 2003, hanno portato allo Stato solo 16 miliardi di euro, facendo sempre registrare entrate al di sotto delle aspettative. Nel 1985 l’erario ha riscosso il 58% del gettito previsto, nel 1994 il 71%, nel 2003 addirittura il 34%.

Ad ogni costo


Ecco una delle sorprese che spunta da un rapporto del Cresme, il Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’ Edilizia e il Territorio, sui condoni varati per sanare l’abusivismo edilizio. Un rapporto ricco di cifre e curiosità che offre anche uno spaccato impietoso sui costi che l’Italia ha dovuto sopportare in termini economici e di devastazioni ambientali. Si scopre per esempio che ammontano a circa 362.000 le case abusive realizzate dal 1994 ad oggi. Di queste, solamente il 30% è stato costruito in aree densamente edificate e già attrezzate da un punto di vista urbanistico. Il restante 70% si è sviluppato invece in aree di scarsa densità e prive dei servizi necessari. Da qui un duro salasso per le casse pubbliche. La spesa media che glienti locali hanno dovuto affrontare per i costi di urbanizzazione (fogne, acqua, strade, eccetera) è stata infatti di 24.000 euro per ogni abitazione, per un totale di 8,7 miliardi di euro a fronte dei 4 miliardi di oneri pagati dai proprietari. Chi decideva di mettersi in regola, infatti, sosteneva in media una spesa che si aggirava intorno agli 11.000 euro. Si è avuto, dunque, undisavanzo per alloggio pari a 13.000 euro per un totale di 4,7 miliardi. Ma non basta. Dallo studio si scopre pure che se lo Stato, invece di condonare, avesse semplicemente proceduto multando gli abusivi e abbattendo le costruzioni irregolari avrebbe facilmente e semplicemente incassato 5,1 miliardi di euro.

Colata a picco


Anche nel 2003 il condono edilizio si è rivelato un pessimo affare per i Comuni: a fronte di un importo medio di 15 mila euroversato per il singolo abuso, gli enti locali ne hanno spesi in media 100 mila per portare strade, fognature e altre infrastrutture. Questo per i condoni storici. Ma attenzione, anche successivamente gli italiani hanno continuato a costruire illegalmente. Tra il 2003, anno dell’ultima sanatoria, e il 2011, il Cresme ha censito la cifra record di 258 mila nuove case abusive, per un giro di affari illegale che, secondo una stima di Legambiente, si aggira intorno ai 18,3 miliardi di euro. Arrivando a tempi più recenti, nel 2013, tra case realizzate ex novo e ampliamenti di volumetria in immobili preesistenti, sono stati invece calcolati 26 mila nuovi abusi. Una cifra che rappresenta oltre il 13 per cento del totale delle nuove costruzioni. A questa colata di cemento fuorilegge si deve poi sommare il vecchio abusivismo, quello precedente al 2003 e non più condonabile.

Cemento selvaggio


Altra pagina inquietante del rapporto Cresme -che verrà presentato oggi in un convegno promosso dal Movimento 5 Stelle(“Trent’anni dal primo condono, un anno di sblocca Italia: che fare?”) -quella relativa ai cosidetti “condoni dimenticati”, ossia i casi legati a tutte le pratiche giacenti negli uffici tecnici dei Comuni italiani e in attesa ancora di essere esaminate. Sommando le tre sanatorie (1985, 1994 e 2003) nei capoluoghi di provincia italiani sono state depositate 2.040.544 domande di regolarizzazione, di cui ben il 41,3% risulta ancora oggi inevaso. Con il rischio che finiscano sul mercato, in vendita o in affitto, abitazioni che potrebbero, invece, essere destinate all’abbattimento. “L’Italia è l’unico Paese in Europa che ha miseramente delegato al privato il governo del territorio con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti -accusa Claudia Mannino, deputata del M5S -Purtroppo si è fatto ricorso ai condoni soprattutto per fare cassa”. Con un ultimo rimpianto della portavoce grillina: “Perché il governo di Matteo Renzi non ha approfittato del semestre europeo per rilanciare la grande partita della salvaguardia del suolo?”.

«Prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali. “Bisogna dare ai Comuni un tempo limite”». Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2015



È un’emergenza silenziosa, trascurata, ma imponente, che prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali: Tar, magistratura ordinaria e persino la scrivania del Capo dello Stato. A distanza di oltre 12 anni dall’ultimo condono edilizio, si continua a costruire abusivamente (26mila nuovi immobili l’anno, stima 2013 del centro studi Cresme), mentre poco o nulla si abbatte (500 demolizioni in media all’anno nei capoluoghi di provincia, stima Legambiente). L’associazione ambientalista ha calcolato che solo una su dieci delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi va effettivamente a buon fine: delle 46.760 ordinanze emesse dal 2000 al 2011 (ultimo censimento disponibile) nei capoluoghi di provincia solo 4.956 sono state portate a termine.

E non per un problema di mezzi: i soldi non mancano. Alla Cassa depositi e prestiti risulta utilizzato solo per il 55% il Fondo per la demolizione delle opere abusive. Dal 2004 a disposizione dei sindaci ci sono 50 milioni, su un Fondo rotativo che anticipa tutte le spese con commissioni minime da restituire al recupero dei costi o comunque entro cinque anni. «Dopo un primo rodaggio, ora lo strumento è conosciuto - sottolineano da Cdp - e utilizzato soprattutto dai piccoli Comuni del Sud, per un importo medio di 509mila euro». Ma in proporzione rispetto al fenomeno i numeri sono infinitesimali: solo 120 domande nel 2014, la metà l’anno precedente.

A mancare non sono neanche gli uomini: risale al lontano 2009 la convenzione tra ministero dei Beni culturali e della Difesa per usare l’esercito nella lotta all’abusivismo. Ebbene, a distanza di sei anni dall’intesa - fanno sapere dai Beni culturali - «non si è ancora data concreta attuazione, sebbene sia formalmente in essere». Come dire: neanche un mattone è stato portato via dai nostri militari. Ma sempre il Mibact si difende: «A bloccare non è l’inerzia del ministero, bensì i tempi dei procedimenti giudiziari». S

piega Francesco Scoppola, a capo della direzione Belle arti e paesaggio: «Le demolizioni sono molto rare, non tanto perché mancano i fondi o i mezzi, quanto perché non è facile giungere fino all’esito giudiziario definitivo». E aggiunge: «La materia, infatti, è giuridicamente molto complessa, con tante strade processuali a disposizione di chi ha commesso gli abusi e vuole resistere all’applicazione delle norme di tutela».

I ricorsi

In effetti a portata di mano dell’abusivo ci sono più percorsi, fuori e dentro i tribunali. Oltre ai Tar (si veda l’articolo a fianco) e alla magistratura ordinaria, c’è anche l’insolita strada del ricorso straordinario al Capo dello Stato che, visti i numeri, di straordinario non ha più nulla. Basta infatti un’istanza in carta semplice al presidente della Repubblica per mettere in moto una complessa macchina amministrativa e giudiziaria e tenere in scacco le ruspe per anni. Lo hanno capito in molti: a oggi sono più di 13mila i ricorsi straordinari censiti nel Conto annuale delle infrastrutture, relativi al condono edilizio. Tremila solo negli ultimi tre anni. Una valanga che ha travolto gli uffici del ministero delle Infrastrutture: basti pensare che per vagliare la legittimità di ogni domanda occorre svolgere un’istruttoria in contraddittorio con il Comune, preparare una relazione firmata da un sottosegretario e inviarla al Consiglio di Stato.

Quest’ultimo, a sua volta, emette un parere che il presidente della Repubblica recepisce formalmente con un decreto. «Per definire una pratica servono anni», spiegano dalle Infrastrutture. Tempo prezioso per ogni abusivo, che nel frattempo vede sospesa la demolizione.

Del resto, per bloccare gli abbattimenti basta la semplice domanda di condono, che rende anche il peggiore degli abusi potenzialmente sanabili fino al “no” (di fatto non basta il silenzio assenso). «In attesa di esame formale c’è ancora il 60% dei 2 milioni di istanze di condono presentate - spiega Laura Biffi, responsabile dell’Osservatorio legalità per Legambiente. Che propone: «Bisogna dare ai Comuni un tempo limite». Scadenze certe e sanzioni che possono arrivare fino allo scioglimento del Comune che non rispetta il piano di demolizioni annuali sono il perno del disegno di legge sulla demolizione presentato nel 2013 dal presidente della Commissione ambiente della Camera, Ermete Realacci. Ma il Ddl non è mai stato esaminato.

Una bandiera di Forza Italia su un cantiere edilizio abusivo: è una metafora dell'Italia di ieri e di oggi. Forse al vecchio Duce le cose andavano un po' meglio. Il manifesto, 19 febbraio 2015

Qual­che volta capita di vedere una ban­diera ita­liana sopra una casa in fase di costru­zione. Sta ad indi­care in pri­mis l’orgoglio degli ope­rai per essere arri­vati all’ultima «get­tata», quella che cor­ri­sponde, di solito, alla coper­tura del tetto, senza alcun inci­dente nel can­tiere. Secondo poi indica che quell’edificio è stato rego­lar­mente auto­riz­zato. Que­sta con­sue­tu­dine è stata arro­gan­te­mente umi­liata alcuni mesi fa in un can­tiere situato a Borgo Piave, all’ingresso di Latina. Al posto del tra­di­zio­nale tri­co­lore è stata appo­sta una ban­diera di Forza Ita­lia. Sem­brò appa­ren­te­mente una goliar­data del costrut­tore, tale Vin­cenzo Mal­vaso, ori­gi­na­rio di Ser­rata (Reg­gio Cala­bria), che nel capo­luogo pon­tino è anche con­si­gliere comu­nale e pro­vin­ciale per conto di quel par­tito. Ma l’umiliazione con­si­steva, e con­si­ste ancora, nel fatto che i lavori erano molto lon­tani dalla fase in cui è «ammessa» quell’esposizione; il can­tiere non era ancora ulti­mato e pro­ba­bil­mente non lo sarà più. Da alcune set­ti­mane infatti l’edificio è stato posto sotto seque­stro dalla locale pro­cura della Repub­blica attra­verso gli ispet­tori del nucleo inve­sti­ga­tivo del Corpo fore­stale dello Stato, a causa delle gravi irre­go­la­rità emerse per la con­ces­sione del per­messo a costruire. A dimo­stra­zione dell’insopportabile «sgarro», il con­si­gliere Mal­vaso si sarebbe con­trad­di­stinto per una minac­cia diretta all’ispettore del Corpo fore­stale che stava appo­nendo i sigilli. Gli avrebbe infatti rivolto frasi del tipo «ti ricor­de­rai di me, ti ricor­de­rai bene di me», e ancora «così vi sputo addosso».

Nella città voluta dal Duce il Piano Rego­la­tore attual­mente vigente è stato com­ple­ta­mente stra­volto con cuba­ture che sono già in eccesso per il dop­pio rispetto alla popo­la­zione resi­dente. È usanza inol­tre sfrat­tare i pove­racci ma non i «came­rati» men­tre può capi­tare, come nel 2007, di vedere sotto inchie­sta (giu­dice Lucia Aielli, recen­te­mente desti­na­ta­ria di gravi minacce pub­bli­che di morte) la pro­prietà della società Key a seguito della ven­dita ad una casa­linga e ad un pen­sio­nato, entrambi cam­pani e quasi nul­la­te­nenti, ad un prezzo rite­nuto troppo basso (2,5 milioni di euro), di un grat­ta­cielo in pieno cen­tro. Si con­ti­nuano però ad edi­fi­care palazzi che restano vuoti. Segno evi­dente che chi inve­ste soldi in tal modo non ha urgente biso­gno di un ritorno eco­no­mico da tale investimento.

Nella Pia­nura Pon­tina si sta deva­stando l’intero ter­ri­to­rio, com­preso il Parco nazio­nale del Cir­ceo, in nome di un’economia che potremmo defi­nire malata di «cemen­ti­smo». Per non finirla qui, nella terra che doveva essere «sol­cata dagli ara­tri e difesa con le spade» fatte con lo stesso acciaio, ormai comanda solo quello che tutti chia­mano il «par­tito dei palaz­zi­nari». Guarda caso, tra i tanti edi­fici rea­liz­zati di recente c’è n’è uno dove l’attuale sin­daco Gio­vanni Di Giorgi avrebbe com­prato un appar­ta­mento di più di cento metri qua­dri da una società di cui è socio pro­prio Vin­cenzo Mal­vaso, ad un prezzo par­ti­co­lar­mente con­ve­niente. Il con­di­zio­nale è pre­sto spiegato.

Su richie­sta del pm Gre­go­rio Capasso è stata la gip del tri­bu­nale di Latina, Mara Mat­tioli, nella suo ordi­nanza di seque­stro, a met­tere in rela­zione il pre­sunto acqui­sto dell’appartamento da parte del sin­daco con la variante con­cessa al con­si­gliere for­zi­sta; variante che in realtà nascon­de­rebbe il gigan­te­sco abuso edi­li­zio, visto che vi è stato inse­rito un enorme pre­mio di cuba­tura rite­nuto ille­git­timo. L’ordinanza aveva posto pesanti dubbi sull’effettivo acqui­sto e spe­ci­fi­cava che comun­que que­sto è avve­nuto «a cavallo tra la prima deli­bera della giunta numero 359/2012 (quando la giunta comu­nale ha appro­vato la variante del Ppe di Borgo Piave) e la seconda deli­bera n. 3/2013 (appro­va­zione defi­ni­tiva della variante)». Incal­zato dall’opposizione, Di Giorgi si è giu­sti­fi­cato dicendo che per com­prare quell’appartamento avrebbe con­tratto un mutuo con una banca di Milano e che sta­rebbe rego­lar­mente pagando le rate di 1.350 euro al mese. Aldilà degli aspetti eco­no­mici, dalla let­tura dell’atto nota­rile risulta che l’edificio dove abita il sin­daco di Latina ha otte­nuto il cer­ti­fi­cato di abi­ta­bi­lità dallo stesso Comune per silen­zio assenso. Tra l’altro è stato costruito su un ter­reno appar­te­nuto ad altri costrut­tori molto vicini a Fi con il solito mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni: cioè cedendo al mede­simo Comune le aree sotto le quali i pri­vati hanno rea­liz­zato i par­cheggi a ser­vi­zio del con­do­mi­nio. Le pere­qua­zioni infatti rap­pre­sen­tano una sorta di buli­mia cemen­ti­fi­ca­to­ria nel capo­luogo pon­tino. Coe­rente con tale impo­sta­zione Di Giorgi dice che anche per quanto riguarda il seque­stro dell’immobile a Borgo Piave sarebbe tutto a posto: la cuba­tura con­cessa, anche in que­sto caso con il mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni, è in linea con la legge sul Piano casa. Una legge che per la verità aggiunge cuba­tura soprat­tutto la dove ce n’è già tanta. In defi­ni­tiva nelle ex paludi pon­tine ormai l’urbanistica è diven­tata nient’altro che un indi­stinto assem­blag­gio di edi­fici ano­nimi, costruiti spesso a disca­pito del verde pub­blico, senza alcun governo del ter­ri­to­rio e con lo scopo unico di fare soldi: un luogo insomma dove ti per­met­tono di costruire in libertà quello che ti pare. E se ogni tanto ti scappa di issare un bef­fardo sim­bolo di Fi dove stai costruendo più o meno legal­mente, magari nell’imminenza di una cam­pa­gna elet­to­rale, va anche meglio. Tanto chi lo sa cosa signi­fica met­tere in quel posto la ban­diera che iden­ti­fica una nazione chia­mata Italia?

Un emendamento M5S propone di introdurre nel disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 (AC 2093) una nuova sanzione economica contro l’abusivismo edilizio. Dum spiro spero, sebbene sperare in questo parlamento sia davvero difficile.

Gli abusivi ora dovranno “pagare”. L’abusivismo edilizio, questa piaga che ha distrutto le nostre coste e la vivibilità delle città, ha finalmente un efficace strumento di contrasto. Tutto questo grazie a un emendamento inserito dal Movimento 5 stelle (a prima firma di Claudia Mannino) nel testo del collegato ambientale evaso dalla Commissione ambiente, di prossima discussione alla Camera.

Il testo, semplice quanto innovativo, dispone che qualora l’abusivo non demolisca il proprio manufatto entro 90 giorni dall’ordine di demolizione, esso debba pagare una sanzione da 2.000 a 20.000 euro e, qualora l’abuso sia realizzato in zona vincolata, soprattutto a livello idrogeologico, che questa sanzione sia comminata nella misura massima.

La sanzione, inoltre, potrà essere reiterabile (ad esempio ogni anno) qualora persista la mancata demolizione e, ovviamente, la sua corresponsione non sana l’abuso.

Gli abusivi, quindi, si dovranno fare due conti. Se ad oggi, tutto sommato, delinquere gli conveniva poiché le demolizioni si contano sulle dita di una mano e loro abitano in immobili per i quali non si paga nulla allo Stato e ai comuni (né oneri concessori, né IRPEF, né TARSU), la nuova sanzione potrebbe spingerli concretamente all’autodemolizione. E questo non perché abbiano a cuore la legalità, il paesaggio e le generazioni future, ma solo perché non farlo fa male al loro portafoglio.

I comuni, intanto, cominciano a sfregarsi le mani rispetto a questa nuova forma di entrate totalmente destinata a loro (anche se da dedicare esclusivamente al controllo del territorio e alla realizzazione di parchi pubblici). D’altronde chi non ha un abuso sul proprio territorio? Secondo il Dossier “Terra rubata” del FAI e del WWF dal 1948 al 2013 sono stati realizzati 4 milioni e seicentomila abusi edilizi e per il Dossier “L’Italia frana” di Legambiente sono state depositate, fra il 1983 e il 2004, 2.040.544 domande di condono di cui il 41,3% ad oggi ancora inevase ( e in buona parte da dichiarare inammissibili o rinunciate). Le somme sono presto fatte: ci sono ancora due milioni di abusi edilizi non sanati in piedi, di cui poco meno di un milione con una improbabile domanda di condono e poco più di un milione senza neanche uno straccio di carta a giustificarne l’esistenza. Le cifre sono confermate dal risultato del censimento delle case “fantasma” (perché in gran parte abusive) effettuato nel 2010. Si tratta di un milione e duecentomila case, come ha dichiarato il Governo Monti a marzo 2012.

Tenendosi prudenzialmente sul milione di immobili moltiplicato per la sanzione minima di 2000 euro, abbiamo la cifra record di 2 miliardi da destinare (potenzialmente ogni anno) ai comuni, in particolare a quelli delle 5 regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia) dove risiedono i due terzi degli abusi edilizi d’Italia.

Ovviamente è importante che ognuno faccia la sua parte, anche i dipendenti comunali,che dovranno infliggere le sanzioni economiche da mancata demolizione, senza dimenticarsene, come è avvenuto, in gran parte, nel Lazio dove nel 2008 è stata introdotta questa sanzione. Pertanto, nella disposizione sono state previste apposite ripercussioni, anche economiche, per i dirigenti “distratti”.

La strada è ancora lunga. Ora il provvedimento approderà all’assemblea della Camera e poi al Senato dove si spera che i parlamentari e il Governo siano d’accordoche a pagare siano, una volta tanto, quelli che violano le regole e non quelli che le rispettano.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a carte in regola

Giochetti edilizi strapaesani e truffaldini attorno a uno dei tanti gioielli sparsi e misconosciuti del nostro patrimonio culturale. Corriere della Sera, 28 febbraio 2014

Scommettiamo che se ripassasse oggi, Albrecht Dürer, non si fermerebbe più a dipingere incantato il fascinoso castello di Arco, sul lago di Garda. I ruderi del maniero, sia chiaro, hanno conservato il loro charme. Ai suoi piedi, però, dove ai tempi del grande pittore tedesco c’erano solo ulivi e un secolo fa sorgeva un delizioso albergo ottocentesco, è venuto su un ecomostro. Una gigantesca spalmata di cemento armato dalle curiose caratteristiche: i «sotterranei» emergono da terra come un muraglione. Direte: ma un sotterraneo non si chiama sotterraneo perché sta sotto la terra? Miracolo urbanistico: qui no.

La storia va raccontata dall’inizio. Cioè da quando, agli sgoccioli dell’Ottocento, il caffettiere Giuseppe Lenninger, gestore del «Caffè Restaurant Villa Emilie» rivolge una richiesta al comune: «È intenzione dell’umile sottoscritto di fare erigere nel suo podere coltivato a ulivi, posto sopra la villa arciducale (…) un piccolo casino alla Svizzera come da disegno che qui si unisce e supplica perché esso sia approvato in linea estetica. Questo piccolo fabbricato consistente in due soli locali uno sopra l’altro…».

Ma si sa, l’appetito vien mangiando. E così, dopo aver avuto il via libera per il delizioso «piccolo casino» in quel punto panoramico che spaziava sul lago, il caffettiere, avendo intuito come Arco sarebbe diventato un centro turistico amatissimo dai tedeschi, decise di ingrandirsi. E meno di un anno dopo chiedeva di dichiarare abitabile l’edificio, nel frattempo diventato tutta un’altra cosa: un elegante albergo battezzato «Villa Olivenheim», casa degli ulivi. Era il 1888.

Da allora lo stabile, del quale resta una bella cartolina, ha avuto vita travagliata. Abbandonato dopo la Grande Guerra dagli affezionati villeggianti austriaci, germanici e ungheresi a causa del nuovo confine, fu infine comprato dall’Opera nazionale invalidi per farci un sanatorio per i «ricoverati tubercolotici di guerra» con i soldi forniti in buona parte, per spirito di fratellanza, con le rimesse degli emigrati in Argentina. E quello fu l’ultimo nome che prese: «Casa Argentina». Destinata via via ad esser abbandonata al degrado finché una ventina di anni fa fu ceduta dalla Provincia a nuovi proprietari. Il tempo di mettere a punto un progetto e questi chiedono di ricostruire l’edificio. No, risponde il Comune. E accusa il progetto di aver giocato in contrasto con la legge sul «volume esistente calcolato comprendendo volumi interrati e seminterrati». La proprietà fa ricorso al Tar. Respinto.

Nel 2000 il piano regolatore cambia. Ma prevede comunque per l’ex «Argentina», dato «l’alto valore paesaggistico derivante dalla posizione strategica e panoramica dell’area» dei limiti molto rigidi, una pianta d’alto fusto ogni 50 metri quadri, una «impronta architettonica qualitativamente elevata tale da richiamare lo stile tardo ottocentesco», un’altezza massima di 10 metri e mezzo… A farla corta: il rifacimento, visto il posto, deve essere garbato. Rispettoso.

Nel 2003, nuova variante. Assai più permissiva. Anche questa, tuttavia, specifica vari punti: «le volumetrie del progetto dovranno tendere a contenere al massimo l’impatto paesaggistico e l’intrusione nelle vedute panoramiche del castello» e seguire «il più possibile le curve di livello del terreno naturale» e «l’altezza dei fabbricati sarà quella che meglio concilia le esigenze di mitigare l’impatto visivo» e insomma il tutto «dovrà essere oggetto di analisi filologica e tendere al recupero, nel possibile, della sua immagine originaria, ripristinando i fronti principali e gli apparati decorativi dell’epoca». Quali? Lo dicono le foto conservate dagli ambientalisti che combattono la pesante ristrutturazione cementizia: le colonnine, l’abbaino, le finestre ad arco, i pinnacoli…

Fatto sta che due giorni dopo il Natale del 2004, mentre la gente smaltisce distratta i postumi dei cenoni ed è avviata la cosiddetta «fase informale», l’assessore all’urbanistica Sergio Dellanna consiglia alla proprietà come motivare «la richiesta di demolire il fabbricato storico» e cioè sottolineando il degrado e lo «sfiguramento» dell’edificio, i problemi di ripristino dell’originale, l’indisponibilità di parcheggi… Poco dopo il Comune, per bocca di altri assessori, dice d’essersi convinto dell’«impossibile ipotesi di convivenza tra il recupero filologico del manufatto e la necessità di mitigare l’impatto prodotto dagli spazi destinati a parcheggio mediante il loro interramento». Arrivano le ruspe. Tutto giù.

Cosa sia adesso quello che un tempo era l’elegante «Hotel Pensione Olivenheim» lo potete vedere dalle fotografie. Quella satellitare dell’area «prima» e «dopo» mostra un incremento delle cubature originali (a proposito: nessuno ha mai ben capito a quanto ammontassero) molto ma molto vistoso. Quelle della facciata ostentano una colossale parete di cemento armato, una specie di imponente zoccolo, in cima alla quale è adagiata la struttura residenziale vera e propria con le finestre che, lassù in alto, hanno finalmente la vista sul lago che altrimenti, senza l’innalzamento di quell’«interrato», sarebbe stato invisibile.

Cosa dicono le norme comunali? Dicono che può essere definita interrata una «costruzione collocata totalmente sotto il livello del terreno o sotto il terreno di riporto preventivamente autorizzato che non presenta più di una faccia scoperta». Ma possono essere considerati «interrati» quei parcheggi scavati nella montagna dietro quel muraglione che nel punto più alto svetta sulla strada per 10 metri? E che fine ha fatto il «recupero filologico» se là dove c’era il vecchio albergo poi sanatorio c’è oggi uno spropositato complesso di vari palazzi squadrati, anonimi e biancastri di cemento?

E non è finita. Accanto alla «Residenza Olivenheim» che all’albergo originale ha rubato anche quel nome che suona così romantico e bell’époque e che sarà venduto appartamento per appartamento (auguri: centinaia di case nella zona sono invendute) dovrebbe essere «recuperato» allo stesso modo anche un altro edificio bello ma malandato dove dovrebbe sorgere un hotel. E pazienza se quella strada si chiama Via del Calvario. Un tempo, quando quella collina era davvero bellissima, col castello che si stagliava così vicino che pareva di poterlo toccare, saliva tra gli ulivi silenziosi una struggente «via crucis». C’era un capitello, lì, all’inizio. Da tempo immemorabile. Dava fastidio. L’hanno tolto.

Denuncia di Legambiente. «Men­tre l’Italia sta fra­nando, il par­la­mento cerca di con­do­nare gli abusi edi­lizi, sem­pre riman­dando l’abbattimento degli immo­bili costruiti ille­gal­mente». Realacci promette opposizione dura. Vedremo. Il manifesto, 20 febbraio 2014Legambiente. L'associazione ambientalista lancia una campagna contro gli abusi edilizi denunciando una pratica tollerata da tutti i governi che solo nel 2013 ha favorito la costruzione di 26 mila edifici fuori legge. "Il parlamento deve approvare al più presto la legge sulle demolizioni", spiega il presidente Vittorio Cogliati Dezza

Men­tre l’Italia sta fra­nando, il par­la­mento cerca di con­do­nare gli abusi edi­lizi, sem­pre riman­dando l’abbattimento degli immo­bili costruiti ille­gal­mente. Come se già non fos­sero sto­ri­ca­mente docu­men­tati gli scempi cau­sati dagli ultimi tre con­doni edi­lizi (nel 1985, nel 1994 e nel 2003). Il feno­meno è così dif­fuso che è quasi impos­si­bile da cen­sire (manca ancora una map­pa­tura nazio­nale del feno­meno), ma basta un dato anche par­ziale per spie­gare come mai la peni­sola si stia sgre­to­lando sotto le frane e tra le piene dei fiumi: solo nel 2013 sareb­bero stati costruiti 26 mila immo­bili illegali.

Nasce da qui l’urgenza della cam­pa­gna “Abbatti l’Abuso” cui hanno già ade­rito il Con­si­glio nazio­nale dei geo­logi, quello degli archi­tetti, Libera, Avviso Pub­blico e Legam­biente, che ieri ha pre­sen­tato il dos­sier “Abu­si­vi­smo edi­li­zio: l’Italia frana, il Par­la­mento con­dona”, un atto d’accusa che chiama in causa il governo e foto­grafa un ter­ri­to­rio mor­ti­fi­cato dall’incuria e dalla sto­rica inca­pa­cità di ripri­sti­nare la lega­lità, soprat­tutto quando si tratta di sal­va­guar­dare il bene pubblico.

Si può ben dire che il feno­meno dell’abusivismo edi­li­zio sia l’unico set­tore del “made in Italy” che non cono­sce crisi — nono­stante la per­dita di quasi 700 mila posti di lavoro in pochi anni denun­ciata dall’associazione nazio­nale dei costrut­tori edili. Le beto­niere ille­gali nei can­tieri improv­vi­sati, infatti, con­ti­nuano indi­stur­bate ad impa­stare cemento al ritmo di almeno 26 mila immo­bili all’anno (tra amplia­menti e nuove costru­zioni). Più o meno il 13% del totale delle nuove costru­zioni: una nuova casa su dieci è fuori legge.

Non è una novità ma è il sin­tomo di una meta­stasi le cui radici si per­dono nei decenni: solo nell’ultimo, tra il 2003 e il 2011, sono state con­teg­giate circa 258 mila case abu­sive per un giro d’affari ille­gale che Legam­biente stima attorno ai 18,3 miliardi di euro. E’ più com­pli­cato azzar­dare altre stime andando ancora più indie­tro nel tempo, fino agli anni del cosid­detto boom, ma in que­sto caso basta un sem­plice sguardo nelle zone più fra­gili del pae­sag­gio, spesso nel sud, quasi sem­pre sul lito­rale, per ritro­vare la foto­gra­fia più nitida di un disa­stro ormai quasi impos­si­bile da can­cel­lare. Sono le più brutte car­to­line della Sici­lia e della Cam­pa­nia, rispet­ti­va­mente prima e seconda tra le regioni dove ha impe­rato l’abusivismo edi­li­zio anche nel 2013 (nell’isola sono stati regi­strati 476 ille­citi, 725 per­sone denun­ciate e 286 seque­stri, men­tre in Cam­pa­nia c’è stato il più alto numero di seque­stri). La Sar­de­gna nel 2013 si è peri­co­lo­sa­mente avvi­ci­nata alla vetta e si segnala per il mag­gior numero di per­sone denun­ciate (988). Puglia e Cala­bria si sono piaz­zate rispet­ti­va­mente quarta e quinta nella clas­si­fica dell’abuso edilizio.

“L’abusivismo edi­li­zio — spiega Ros­sella Muroni, diret­tore gene­rale di Legam­biente – rap­pre­senta un’autentica piaga nazio­nale, pro­spera indi­stur­bato da decenni e non cono­sce crisi, nutren­dosi di alibi e giu­sti­fi­ca­zioni. Ad essere occu­pate sono state le coste, i letti dei fiumi, i pen­dii delle mon­ta­gne, senza pen­sare al danno pae­sag­gi­stico ma nem­meno al peri­colo di rea­liz­zare case, ter­razze, alber­ghi, scuole e uffici in aree dove non si dovrebbe pian­tare nem­meno una tenda da campeggio”.

Il 2013, ammette l’associazione ambien­ta­li­sta, è stato anche un anno piut­to­sto ricco di demo­li­zioni anche impor­tanti. Gli “sche­le­tri” di Lido Ros­sello e di Scala dei Tur­chi sulla costa agri­gen­tina, per esem­pio, final­mente abbat­tuti dopo venti anni di bat­ta­glia legali. Però non basta e non basterà mai, se è vero che lo scorso anno “è stato denso di ten­ta­tivi per appro­vare in par­la­mento un nuovo con­dono masche­rato sotto le forme più diverse”. Almeno cin­que, sostiene Legam­biente, tutti bloc­cati tranne uno, il ddl Falanga che un mese fa è pas­sato al senato con 189 sì, 61 no e 7 astenuti.

Legam­biente rico­no­sce la neces­sità di affron­tare il pro­blema “seris­simo” del biso­gno abi­ta­tivo, ma non ci sta quando per fer­mare le ruspe e sal­vare le case fuo­ri­legge si invoca un pre­sunto abu­si­vi­smo di neces­sità. Se que­sto abu­si­vi­smo della “povera gente” esi­ste, ribatte Ros­sella Moroni, “i Comuni hanno l’obbligo di prov­ve­dere all’assegnazione in via prio­ri­ta­ria di un allog­gio sociale”. Altri­menti viene facile pen­sar male, “a meno che non si ammetta che die­tro a que­sto alibi si celano anche le ville di notai, farma­ci­sti, avvo­cati e imprenditori”.

Di fatto però l’azione di demo­li­zione e rico­stru­zione è quasi sco­no­sciuta in Ita­lia: su 1.354 comuni interpel­lati dalla ricerca Eco­si­stema Rischio 2013, solo 55 negli ultimi due anni hanno detto di aver avviato delo­ca­liz­za­zioni. E dire che abbat­tere un immo­bile abu­sivo non è una facoltà di que­sta o quella ammi­ni­stra­zione ma un obbligo di legge.
A que­sto pro­po­sito, Vit­to­rio Cogliati Dezza, pre­si­dente di Legam­biente, si augura che il par­la­mento approvi al più pre­sto la pro­po­sta di legge Rea­lacci sulle demo­li­zioni già pre­sen­tata sia alla camera che al senato: “Il par­la­mento darebbe un segno con­creto di vici­nanza a quanti, sin­daci, magi­strati, pre­fetti fanno ogni giorno con onore il pro­prio mestiere, spesso iso­lati, osteg­giati e minac­ciati”. Anche per­ché nel 2013 gli inter­venti di demo­li­zione cen­siti sono stati 12. Uno scan­dalo nello scandalo

Come uno dei sue rami del potere legislativo distrugge la legalità, mediante convergenze parallele di senatori di Forza Italia e del Partito democratico. l'Unità online, blog "città e città", 24 gennaio 2014
Almeno una volta l’anno, a volte due. Quasi una malattia di stagione, il condonismo compare in Parlamento a cadenze regolari. Dando speranze, strumenti, cavilli giuridici agli abusivisti.

Stupefacente quel che è avvenuto in Senato, che ha approvato la proposta di legge presentata dal forzista Ciro Falanga su “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizioni di manufatti abusivi”. In sostanza è una lista di 11 tipologie di abusivismi da rispettare negli ordini di demolizione: Prima gli abusi pericolanti, poi quelli non finiti, e ancora quelli usati per attività criminali, quelli di proprietà di appartenenti alle cosche, gli ecomostri (al quinto posto)… fino agli abusi “di necessità”, anche se con villetta di lusso e piscina. Discutibile la lista, ma ancor più dannoso lo strumento che si offre agli abusivi: la possibilità, per chi fosse arrivato al termine del già lungo e farraginoso iter della demolizione, di fare ancora nuovi ricorsi, bloccando ancora la demolizione. Insomma, un condono mascherato

Per l’ex senatore Roberto Della Seta, questa sarà “la pietra tombale sugli smantellamenti, chiunque infatti potrà appellarsi contro la loro decisione”. Per Vittorio Cogliati Dezza “è una camicia di forza alla lotta contro l’abusivismo, una beffa”. Anzi, incalza, “tutti si giocheranno la carta dell’abusivismo di necessità, che ora grazie al Senato è diventato un istituto giuridico”. Sostenuto con energia dai senatori della Campania – se qualcuno volesse andare a fare un viaggio per gli sconci di quella regione, un tempo meravigliosa, capirebbe il perché: 200 mila abusi censiti, quasi 70 mila sentenze di abbattimento già pronte all’esecuzione – il testo di legge ha diviso il Pd e ha avuto il voto contrario di M5s, Lega, Sel. La legge ora passa alla Camera, c’è da sperare che venga profondamente modificata prima che i prossimi temporali producano smottamenti e frane, e si sia costretti a piangere nuove perdite umane in case “che lì non ci sarebbero dovute stare”.

Come non bastasse nel decreto Imu-Bankitalia un emendamento del senatore Pd Federico Fornero inserisce un altro dono agli abusivisti. Viene infatti consentita la vendita “delle aree appartenenti al Patrimonio dello Stato sulle quali alla data del 31 dicembre 2012 sono state realizzate da privati unità immobiliari ad uso abitativo e commerciale in assenza di autorizzazione” . Toccherà all’Agenzia del Demanio gestire la vendita diretta, altro che asta, all’occupante che ne faccia richiesta. Nessuna demolizione, l’acquisto dell’area sanerà la violazione ambientale. Agli stupidi che non fanno gli abusivi la pena di pagare i servizi e gli agganci in rete per per i furbi, dal collettore fognario alle strade, agli acquedotti. Una sanzione sulla legalità.

Non ci sono più parole per protestare contro gli scempi che questo governo e questo parlamento stanno compiendo. Ma se passa la legge elettorale di Renzusconi i prossimi non saranno migliori. Il manifesto, 23 gennaio 2014

Il testo uscito dalla penna del sena­tore di Forza Ita­lia Ciro Falanga e votato a lar­ghis­sima mag­gio­ranza dal Senato della Repub­blica è qual­cosa di inau­dito. Il potere legi­sla­tivo si arroga la pre­ro­ga­tiva di indi­care ad un altro potere dello Stato indi­pen­dente dal primo l’ordine di prio­rità nella demo­li­zione dei casi di abu­si­vi­smo accer­tati e arri­vati fino all’atto con­clu­sivo pre­vi­sto dalle leggi, e cioè all’ordinanza di demolizione.

Per com­pren­dere il vul­nus che que­sto prov­ve­di­mento rischia di pro­durre nella strut­tura dello Stato si può pen­sare ad una serie infi­nita di altri reati. Per­ché non inter­ve­nire nella prio­rità di arre­sto per chi froda il fisco o per chi mette in com­mer­cio cibi adul­te­rati? Non è l’indipendenza della magi­stra­tura in forza della legi­sla­zione vigente che deve san­zio­nare i reati. E’ il Par­la­mento che detta le regole da rispet­tare sulla base della più asso­luta irra­zio­na­lità e discre­zio­na­lità dei cri­teri via via sta­bi­liti sulla base delle meschine con­ve­nienze poli­ti­che ed elettorali.

Se c’era un modo per demo­lire ulte­rior­mente la già scarsa fidu­cia che la quasi tota­lità del paese ha nei con­fronti del Par­la­mento, i sena­tori che hanno votato il prov­ve­di­mento hanno rag­giunto il loro scopo e c’è un unico rime­dio: disco­no­scerlo pub­bli­ca­mente e chiu­dere per sem­pre que­sta pagina buia.

Ma c’è anche una gra­vis­sima que­stione di merito che va evi­den­ziata. Il prov­ve­di­mento nella sua ipo­crita clas­si­fica di prio­rità parla ancora di «difen­dere il tetto» delle fami­glie che hanno subito l’ordinanza di demo­li­zione, quando tutti sanno che l’abusivismo di neces­sità è finito dagli anni ’90 dello scorso secolo. Da allora è sol­tanto un modo per inve­stire denaro di pro­ve­nienza ille­cita o per ten­tare spe­cu­la­zioni affa­ri­sti­che. Pur­troppo, da ven­ti­cin­que anni gra­zie alla cul­tura del con­dono e ai piani casa si con­ti­nua a sol­le­ti­care il fai-da-te nel governo del ter­ri­to­rio e il prov­ve­di­mento Falanga rap­pre­senta il ten­ta­tivo di appro­vare il quarto con­dono edi­li­zio. Dal primo con­dono (1985), gli altri si sono suc­ce­duti a distanza di nove anni. Sta­volta arriva con due anni di ritardo, ma fa lo stesso.

In que­sti giorni l’Italia che spera in un diverso futuro guarda con sgo­mento che un’intera regione, la Ligu­ria, sta sci­vo­lando a mare gra­zie al las­si­smo urba­ni­stico e all’abusivismo. Il senato della Repub­blica ha dimo­strato di non essere in sin­to­nia con que­sto sen­ti­mento dif­fuso. Il suo oriz­zonte si ferma alle con­ve­nienze elettorali

Per le feste ognuno regala ciò che vuole. L'attuale maggioranza parlamentare ha preparato un pacco che fa rimpiangere i peggiori sostenitori dell'abusivismo della Prima repubblica. Ringraziamo l'autore che con un'e-mail del 21 dicembre ci ha trasmesso questa squallida notizia, che pubblichiamo nella speranza di poterla smentire domani


L'attuale maggioranza ha approvato ieri al Senato una norma che consente, di fatto, la sanatoria dei manufatti abusivi posti sulle spiagge (chioschi bar, cabine, verande coperte dei ristoranti, case mobili, depositi, magazzini, piscine prefabbricate e quant'altro). Si tratta dell'art. 1, comma duodevicies (18), della legge di conversione del DL n. 126 del 2013 (c.d. "decreto salva Roma).
In pratica viene consentito a tutti coloro che gestiscono le concessioni demaniali (quindi lo stesso discorso vale per le rive dei fiumi e dei laghi) di tenere in piedi e sfruttare queste strutture abusive pagando, in cambio, soltanto il 3% in più del canone concessorio. Questi manufatti diventano da "precari" (e quindi da rimuovere obbligatoriamente a fine stagione) a "stabili" in quanto la loro vita viene legata alla durata delle concessioni demaniali marittime che vengono prorogate per legge di continuo (da ultimo, fino al 31 dicembre 2020).
E' veramente odioso che una norma di così grande impatto per il paesaggio e di alto valore per la lobby degli stabilimenti balneari sia stata formulata in modo da far pensare che sia una norma per far pagare di più (il 3%) i concessionari, quando in ballo c'è ben altro. Infatti, non solo dall'entrata in vigore della legge in poi le spiagge potranno essere occupate da vari depositi, chioschi e casette di legno, senza alcuna regola, ma le norme valgono pure a "sanare" (anche se la legge sul punto è volutamente vaga) quelle opere oggetto di processo penale in corso in quanto realizzate senza permesso nè autorizzazione paesaggistica. Infatti, qualora si estenda a queste opere il concetto di opere precarie, si estende ad esse il regime liberistico ad esse connesso con la conseguente chiusura dei processi pendenti poichè il fatto non sarà più considerato dalla legge come reato.

Da oggi il provvedimento è alla Camera e questo pomeriggio la Commissione Bilancio dovrà esprimersi anche su questa norma. Il voto finale, con probabile apposizione della questione di fiducia, si avrà entro domani mattina.

Nei capoluoghi di provincia italiani «in un decennio, dal 2000 al 2011, ilrapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'èda leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi. Corriere della Sera, 20 giugno 2013

Abbattuti, finalmente! Gli ecomostri che stupravano la splendida Scala dei Turchi non ci sono più. Ma sotto le ruspe deve finire in macerie anche la proposta pidiellina di togliere alle Procure l'ultima parola sulle demolizioni. Senza l'ultimatum dei giudici, infatti, quegli orrendi cadaveri cementizi agrigentini sarebbero ancora lì. Un quarto di secolo dopo la denuncia dell'abuso.
Era il 1989, quando venne tirato su il primo di quei mostri ai piedi di quella parete rocciosa di un bianco sfolgorante a picco sul mare sulla costa di Realmonte, in provincia di Agrigento. La rivolta studentesca di piazza Tienanmen era repressa coi carri armati, i sovietici si ritiravano dall'Afghanistan, Erich Honecker cercava barricarsi nella sua Germania Est comunista, a palazzo Chigi c'era Giulio Andreotti e lo scudetto andava all'Inter di Matthäus.

Insomma, era tanto tempo fa. E quegli osceni edifici al di qua e al di là della Scala dei Turchi vennero costruiti, sotto il profilo formale, «quasi» lecitamente. L'albergo fu inizialmente autorizzato dal municipio di Realmonte, pazzesco ma vero, nonostante fosse su terreno demaniale. Le dieci ville sulla spiaggia (di cui tre sole costruite almeno in parte prima del blocco dei cantieri) ottennero il via nonostante lo strumento urbanistico fosse scaduto. Di più: le concessioni, in violazione del vincolo paesaggistico, furono rilasciate a se stessi, a parenti, prestanome e amici da assessori, consiglieri e tecnici del comune di Realmonte.

Tutti i giochetti registrati più volte, negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno. E seguiti ogni volta da dispute processuali infinite e surreali: quale valore può avere una licenza concessa contro tutte le regole e tutti i piani paesaggistici da amministrazioni locali scellerate che magari, a volte, si sono pure vendute quelle autorizzazioni in cambio di mazzette? Anche lì a Realmonte, dove erano plateali gli sfregi alla legge e alle bellezze naturali subito denunciati dagli ambientalisti e in testa a tutti da Legambiente e dal suo leader di allora Giuseppe Arnone, le cose si sono trascinate, di ricorso in ricorso, per oltre un paio di decenni. A dispetto delle battaglie ambientaliste. Dei vincoli. Dei rifiuti alle pratiche di condono. Dell'inchiesta aperta dall'attuale questore della Camera Stefano Dambruoso che era al primo incarico in magistratura e fece ammanettare un po' di amministratori e tecnici.

Venti anni di ricorsi e contro-ricorsi, di perizie e contro-perizie, di fotocopie a quintali, di avvocati decisi ad attaccarsi al più minuscolo cavillo per tirarla in lungo. E mai un'ordinanza comunale di demolizione. Il paese è piccolo, pochi voti possono costare la rielezione, perché mai un sindaco dovrebbe cercare rogne mettendosi contro un po' di compaesani? E tutto ciò nonostante la richiesta all'Unesco, qualche tempo fa, di inserire la Scala dei Turchi tra i beni tutelati in quanto patrimonio dell'umanità! Una pretesa che, con quegli osceni scheletri cementizi di mezzo, era surreale e suicida...

Finché l'anno scorso, finalmente, dopo una cena dalle parti di Realmonte del procuratore Renato Di Natale, scandalizzato dalla scoperta («Nessuno in ventiquattro anni si era preoccupato di capire perché gli ecomostri fossero ancora lì!») decise di muoversi la magistratura agrigentina. Notificando a brutto muso al sindaco Piero Puccio, per mano del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Antonella Gandolfi, un'ingiunzione a demolire immediatamente quei mostri di calcestruzzo.

«Immediatamente» coi tempi italiani, si capisce. Fatto sta che dopo nuovi ricorsi al Tar (respinti) e al Consiglio di giustizia amministrativa (respinti) sono arrivate finalmente le ruspe. Buttando giù giorni fa lo scheletro dell'albergo e tra ieri e oggi gli scheletri delle ville. Dopo di che, se non ci vorranno altri vent'anni per rimuovere le macerie, la Scala dei Turchi tornerà ad essere quella meraviglia naturale che i più giovani non hanno mai potuto vedere nella sua abbagliante bellezza.
Proprio il caso che abbiamo raccontato dimostra quanto siano faticose queste battaglie per la legalità. E quanto sia insensato, quindi, il disegno di legge firmato dal senatore pidiellino campano Ciro Falanga che vorrebbe togliere alle Procure la competenza in materia di esecuzione delle demolizioni. Proposta che arriva dopo 18 tentativi a partire dal 2010, tutti e 18 respinti, di far passare un nuovo condono edilizio almeno per la Campania, la regione storicamente più devastata dal cemento fuorilegge. Si pensi a Ischia: 62.000 abitanti, 28.000 abusi.

Davanti alle proteste degli ambientalisti e di una parte della sinistra, che col presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza accusano Falanga di volere «legare le mani a chi, in un Paese devastato dal mattone illegale, ha provveduto fino a oggi alle demolizioni», il senatore berlusconiano ha risposto che si tratta solo di «dare ai cittadini, destinatari di tali provvedimenti, la possibilità di godere di tutte le garanzie del procedimento amministrativo». E si è avventurato a sostenere che «chi s'oppone negando tale sistema di garanzie, si assume tutte le responsabilità di eventuali tragici accadimenti ed il rischio di vite umane». Come se gli abusi fossero fatti solo da poveracci obbligati da chissà chi a violare le regole e costruirsi illegalmente la prima casa. Cosa che, come dimostrano il caso di Realmonte, quello dell'hotel Alimuri a Vico Equense e tanti altri, è assolutamente falsa.

Di più, spiega il dossier «Ecomafia 2013» di Legambiente sui comuni capoluoghi di provincia che «in un decennio, dal 2000 al 2011, il rapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'è da leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi dove il rapporto fra le amministrazioni e i cittadini è più diretto ma anche più vischioso. Basti dire negli anni 90 in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, che da sole coprono il 37% degli abusi, le ruspe entrarono in azione contro gli edifici abusivi «non sanabili» e colpiti da ordine di demolizione, soltanto nello 0,97% dei casi. E vogliamo lasciare la responsabilità ai comuni? Ma dai...

Il rapporto Ecomafie di Legambiente: regioni del sud ai primi posti, la Campania al top. Il 17% delle costruzioni è illegale, solo il 10% degli scempi viene abbattuto. Il manifesto, 18 giugno 2013

Nell'Italia della Grande Frenata - economica, sociale, politica - le uniche industrie che non rallentano sono quelle del malaffare. Non recedono le agromafie e i traffici di rifiuti tossici, la tratta di schiavi e la prostituzione. Basta scorrere le aride cifre di dossier e rapporti che associazioni e sindacati periodicamente diffondono, per rendersene conto.

Da ultimo, l'annuale rapporto Ecomafie di Legambiente - presentato ieri mattina a Roma - legge in controluce il dibattito politico sull'abolizione dell'Imu e i periodici tentativi di infilare un condono edilizio tra le righe di provvedimenti che legiferano su tutt'altro. Denuncia il presidente dell'associazione, Vittorio Cogliati Dezza: «Quella delle ecomafie è l'unica economia che continua a proliferare anche in un contesto di crisi generale e a costruire case abusive quasi allo stesso ritmo di sempre, mentre il mercato immobiliare legale tracolla. Con imprese illegali che vedono crescere fatturati ed export, quando quelle che rispettano le leggi sono costrette a chiudere i battenti. Un'economia che si regge sull'intreccio tra imprenditori senza scrupoli, politici conniventi, funzionari pubblici infedeli, professionisti senza etica e veri boss, e che opera attraverso il dumping ambientale, la falsificazione di fatture e bilanci, l'evasione fiscale e il riciclaggio, la corruzione, il voto di scambio e la spartizione degli appalti. Semplicemente perché conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi».

Al netto degli aspetti penal-giudiziari, dal punto di vista politico-sociale quello che Cogliati Dezza denuncia è il sempiterno «blocco edilizio» di cui parlava Valentino Parlato in un memorabile articolo del 1970 sulla Rivista del manifesto. Parlato riprendeva Engels, secondo il quale «gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato» per mostrare come quel «blocco edilizio», composto da «residui di nobiltà finanziaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, grandi imprese e capimastri, cottimisti», rappresentava un esercito in grado di bloccare qualsiasi riforma. È lo stesso «blocco» legato al ciclo del cemento che, secondo Vezio de Lucia (La città dolente, Castelvecchi editore), in appena un sessantennio ha cambiato i connotati a un Paese rimasto sostanzialmente immutato per due millenni.

In Italia, spiega Legambiente, l'incidenza dell'edilizia illegale nel mercato delle costruzioni è passata dal 9% del 2006 - alla vigilia della crisi, dunque - al 16,9% stimato per il 2013. Se il crollo del mercato immobiliare ha fatto più che dimezzare le nuove abitazioni - da 305 mila a 122 mila - quelle abusive sono rimaste sostanzialmente invariate: dalle 30 mila del 2006 alle 26 mila del 2013. La spiegazione va ricercata nelle spietate leggi del mercato: costruire una casa in regola costa mediamente 155 mila euro, edificarne una abusiva consente di ridurre le spese a un terzo, non più di 66 mila. Se si valuta, poi, che vedersela abbattere ha quasi la stessa probabilità che vederla crollare per una calamità naturale, si arriva alla conclusione che costruire senza tener conto di vincoli e piani regolatori conviene, e non c'è bisogno di essere dei delinquenti incalliti per diventare un piccolo abusivo. A maggior ragione se si ha la ragionevole certezza che prima o poi arriverà un colpo di spugna: dagli anni '80 a oggi ce ne sono stati tre - uno a firma Craxi, gli altri due Berlusconi.

Alla luce di questo ragionamento, non appare un caso se il leader del Pdl, nel disperato tentativo di rimontare nei consensi, alla vigilia delle elezioni di febbraio, oltre a chiedere l'abolizione dell'Imu si è lanciato anche in una promessa di «condono edilizio e tombale». Sapeva che, ricompattando il blocco edilizio e quello di chi non paga le tasse, sarebbe potuto riuscire nel miracolo di ribaltare le previsioni elettorali.

A governo delle larghe intese insediate, il Pdl ci ha subito riprovato. In maniera più accorta, stavolta: con un disegno di legge, firmato dal senatore Ciro Falanga, che toglie la competenza alle Procure sull'esecuzione delle demolizioni. Tanto per fare un esempio, con una legge del genere non sarebbe stato possibile abbattere, com'è avvenuto dopo 24 anni di battaglie ambientaliste, l'ecomostro di Scala dei Turchi, in provincia di Agrigento. E sarebbero posti al sicuro, anche senza condono - che è pur sempre oneroso per il privato cittadino - anche quel 10% circa di abusi - sui 25 mila complessivi - che ogni anno si riesce a buttare giù.

Ma c'è soprattutto un'altra ragione dietro la legge proposta dal senatore pidiellino. Falanga proviene da Torre del Greco. A separare la cittadina vesuviana dalla capitale dell'abusivismo diffuso è solo un lembo di mare. Ischia è il regno dei cosiddetto «abuso di necessità», una definizione che è stato necessario coniare per dare copertura semantica a una situazione di illegalità generalizzata, in cui la fanteria dei piccoli abusivi costituisce il cuore di uno schieramento contro il quale nessuna forza politica osa schierarsi. Neppure il locale Movimento 5 Stelle o l'autarchico Partito comunista italiano marxista leninista, che tra i confini isolani ha fatto registrare exploit elettorali di tutto rilievo. Ad Ischia sono in arrivo circa 700 sentenze di demolizione, e questo basta a spiegare la proposta di legge del senatore proveniente dalla città dei coralli.

Se Ischia è la punta dell'iceberg, la Campania domina incontrastata tutte le classifiche dell'ecocriminalità. Il dossier di Legambiente mette in luce come tutti i primati negativi siano detenuti dalle regioni del sud a più alto insediamento mafioso - con un vero e proprio «caso Calabria» e un'ascesa della Puglia - e un singolare sesto posto di una regione che non ti aspetteresti: la Toscana. È il segno che, in un pezzo d'Italia che ha visto crollare il Pil del 10% in cinque anni e perdere il 60% dei posti di lavoro, l'economia si muove secondo altri parametri.

Annamaria Cacellieri, da un lato, Nitto Palma dall’altro. Si riapre la guerra contro i malefici condoni dell’abusivismo. Tornando sempre più indietro ci toccherà combattere le guerre puniche. La Repubblica, 10 marzo 2013

Riaprire i termini del condono edilizio in Campania. A meno di ventiquattr’ore dalla difficile (e contestata) nomina a presidente della Commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma torna a far discutere. L’ex guardasigilli del governo Berlusconi, ai microfoni di Radio 24,
ripropone ancora una volta il colpo di spugna su migliaia di immobili abusivi spuntati negli anni sul territorio campano. «La maggior parte di questi sono abitazioni di necessità», si giustifica il senatore.
La difesa degli scempi campani è a tutto tondo: «Vi invito ad andare sui territori e vi renderete conto che da circa 35 anni, in una terra dove governava il centro-sinistra, si è costruita una città grande come Padova e adesso qualcuno intende abbattere uella città». Secondo Palma, «stiamo parlando di circa 700-800 mila persone, e non ci sono le risorse finanziarie per procedere agli abbattimenti, non ci sono le discariche dove inserire l’abbattuto e principalmente non c’è la possibilità di riallocare i soggetti che vivono in quelle abitazioni». Tanto vale salvarle, condonandole, perché «vi sono dei mostri edilizi e anche abitazioni di speculazione », concede Palma, «ma la maggior parte sono di necessità», appunto.

Il magistrato romano, eletto proprio in Campania dove è anche coordinatore regionale del Pdl (in virtù di questa carica, subito dopo l’elezione di febbraio, è andato a trovare Cosentino in carcere, si è saputo ieri), ritorna dunque a difendere il suo bacino di voti. «Non deve creare scalpore una posizione che tende ad ottenere la parità di trattamento per tutti i cittadini italiani», prosegue la sua arringa, visto che
«sul territorio nazionale c’è stata una disparità tra le Regioni, dovuta a due leggi della Campania che sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale».

«Nitto Palma vuole intervenire sulla legge nazionale, prorogando i termini del condono del 2003 per aggirare la legge regionale del 2004 che rende insanabili gli immobili abusivi in aree vincolate e impedire le demolizioni disposte dalla magistratura. Letta deve intervenire rapidamente e spiegare», attacca Legambiente. Così Ermete Realacci, presidente pd della Commissione Ambiente della Camera, per cui «riaprire il condono sarebbe da irresponsabili». Schierati con Nitto Palma il presidente della Provincia di Napoli, Antonio Pentangelo, e il presidente del Consiglio regionale campano Paolo Romano, entrambi del Pdl.

Si riapre il dibattito sul tema dell'abusivismo, in un modo che peggio non si può; naturalmente, all'insegna della "solidarietà nazionale". Corriere del Mezzogiorno online, 8 agosto 2013, con postilla (a.d.g.)

«Eventuali interventi normativi sulla vicenda delle costruzioni abusive in Campania «non possono assolutamente prescindere da una sinergica, congiunta e preliminare attività di ricognizione e valutazione, da parte di tutte le componenti istituzionali interessate, in ordine alle concrete situazioni abusive poste in essere ed al danno effettivamente arrecato al territorio e all'ambiente». Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, nel corso del question time. Secondo il ministro «il fenomeno del'abusivismo edilizio, determinato, in alcune realtà locali come quella campana, anche da ragioni di necessità abitative, va inquadrato nel necessario bilanciamento di diversi valori di rilevo costituzionale, quali, accanto a quelli di natura sociale, quelli connessi alla tutela della equilibrata programmazione e del rispetto del patrimonio archeologico, naturalistico ed ambientale».

REVOCA DEMOLIZIONE - In tale contesto, ha aggiunto, «si inserisce la sanzione accessoria che impone la demolizione del manufatto abusivo e, se del caso, il ripristino dello stato dei luoghi, rispetto all'oggetto dell'abuso, acquisito «ope legis» al patrimonio del Comune». «Ciò - ha sottolineato Cancellieri - non esclude la possibilità che il giudice dell'esecuzione revochi l'ordine di demolizione qualora sopravvenga un atto amministrativo del tutto incompatibile con lo stesso, quale la destinazione, da parte del Comune, del manufatto abusivo a fini di utilità sociale

IL PD - «Quella dell'abusivismo edilizio in Campania è una materia molto delicata». Così, in una nota, Enzo Amendola, deputato e segretario regionale del Pd campano, e Lello Topo, capogruppo Pd al Consiglio regionale Campania. «Le annose questioni delle costruzioni illegali e degli abbattimenti non possono essere risolte con degli articoli inseriti nella finanziaria come ha fatto l'attuale governo regionale di centrodestra guidato da Stefano Caldoro - aggiungono - ma c'è bisogno di cautela, dialogo e confronto». «Concordiamo con il ministro Cancellieri, la situazione è drammatica, per questo anche da parte del governo nazionale occorra cautela - spiegano - il rischio è quello di aprire conflitti di competenza tra gli Enti che allungherebbero i tempi della risoluzione dei problemi, aumentando anche le incertezze e i timori di numerose famiglie».

PROPOSTA DI LEGGE - «Il Pd campano da tempo ha predisposto una proposta di legge equilibrata e rigorosa, per costruire e dare risposte alle domande di condono in atto ormai, in alcuni casi da più di venti anni, e per realizzare un piano serio di recupero ambientale e sociale», continuano. «Bisogna assumersi la responsabilità di dare risposte. In diversi casi con opere di mitigazione ambientale e paesaggistica sarà possibile recuperare i manufatti e le aree di costruzione abusiva - concludono - nelle situazioni particolarmente gravi bisognerà dire 'nò, soprattutto contro le speculazioni fatte dalla camorra che ha distrutto e mortificato il nostro territorio».

Postilla

Il ministro Cancellieri dovrebbe evitare di fare confusione. Il problema in Campania sono le 80.000 pratiche di condono ancora non evase. L’incapacità di applicare le leggi dello stato genera questo limbo oscuro, una sorta di “stato di eccezione” che non finisce mai. In questo ingorgo malsano dell’attività amministrativa, le sentenze di demolizione passate in giudicato riguardano manufatti abusivi che la legge non consente di sanare, perché si trovano in aree ad elevato grado di tutela o rischio. Fa specie che una persona delle istituzioni come il ministro Cancellieri anche solo ipotizzi la possibilità di sanatorie, con provvedimenti legislativi ad hoc, con la scusa di motivazioni “sociali” (il cosiddetto “abuso di necessità”). L’unica è applicare la legge. Attrezzando regioni e comuni affinché possano svolgere le funzioni istituzionali di prevenzione, controllo, sanzione, ripristino. Senza tutto questo, l’industria dell’abusivismo, in Campania e nel Sud, continuerà a prosperare. E l’eventuale sanatoria, all’ombra delle grandi intese, sarà solo un altro doloroso passo verso la definitiva decomposizione territoriale e sociale di una parte importante del paese (a.d.g.).

Anche chi se ne frega della sicurezza del territorio, della bellezza del paesaggio, della qualità urbana, almeno due conti dovrebbe saperli fare. Corriere della Sera, 10 febbraio 2013 (f.b.)

Allerta ai Comuni: fotografate subito i vostri territori, se ci tenete. La storia dimostra che appena spunta la promessa d'un condono edilizio c'è chi corre a tirar su nuovi edifici abusivi. E chi ci perde, oltre ai cittadini perbene, sono proprio i municipi. Costretti a farsi carico degli oneri d'urbanizzazione avendo in cambio una pipa di tabacco. Se proprio non è interessato al paesaggio o alla moralità fiscale e urbanistica degli italiani, il Cavaliere dovrebbe riflettere su questo: tutti i condoni agli abusivi sono stati un harakiri. Paesaggistico, burocratico, finanziario. E se quarant'anni di sanatorie varie hanno fatto incassare in tutto 123 miliardi di euro, quanto viene evaso in un solo anno, con quelle del mattone è andata ancora peggio: dalle casse pubbliche, alla fin fine, sono usciti molti più soldi di quanti ne fossero entrati.

Ma partiamo dal panorama d'insieme. Spiega un dossier Cresme per Legambiente che «sono non meno di 258.000 gli immobili abusivi sorti tra il 2003 e il 2011, per un fatturato complessivo stimato in 18,3 miliardi di euro». Tutti edifici praticamente al riparo dalle ruspe. Spiega infatti il Rapporto Ecomafia 2012 che le ordinanze di demolizione firmate dal 2000 al 2011 sono state 46.760 ma solo 4.956 sono state eseguite e solo in alcune porzioni del territorio. A Napoli gli abbattimenti sono stati 710 su 16.837 decisi, pari al 4,2%. A Palermo neppure uno su 1.943, a Reggio Calabria neppure uno su 2.989. E tutto questo in un territorio fragile, tra i più esposti del mondo ai rischi sismici e idrogeologici, colpito nella storia da decine di terremoti e inondazioni devastanti. Avvenute spesso in aree dove più alta è la presenza di case costruite senza alcun controllo e alcun criterio: il 19,8% delle abitazioni abusive italiane è in Campania, il 18,2% in Sicilia, il 12,8% in Puglia, l'8,8 in Calabria.

Sappiamo che non è facile raddrizzare una situazione piuttosto compromessa. Proprio per questo, però, occorre dire basta: non vogliamo più piangere nuovi lutti per i crolli di palazzine o intere contrade costruite là dove non si poteva. Non vogliamo più piangere e non vogliamo più pagare i costi stratosferici di interventi che arrivano sempre «dopo». Dice l'ultimo rapporto Ispra che mentre nel resto d'Europa è ricoperto dal cemento il 2,3% del territorio, da noi questa quota si impenna fino al 6,9%: il triplo. Nonostante proprio la difesa del paesaggio dovrebbe essere uno degli obiettivi centrali di un Paese che, come Berlusconi non si stanca mai di sbandierare, «è il più bello del mondo».

Bene, la storia dice che la sola promessa di un condono edilizio scatena la corsa a fare nuove porcherie cementizie fingendo di averle fatte «prima» del varo della legge. Gli abusi commessi a Roma «dopo» la sanatoria berlusconiana del 2003 e spacciati per vecchi, stando ai rilievi della società che gestiva le pratiche comunali del condono, furono 3.713. Tra i quali, per esempio, l'aggiunta di un attico terrazzatissimo di un'ottantina di metri quadri sul tetto di un elegante palazzo accanto alla Fontana di Trevi. Numeri che lasciano pensare come in giro per il Paese, e soprattutto nel Sud, gli abusi «retrodatati» siano stati almeno dieci volte tanti. Almeno.

Oltre ai danni al paesaggio e al vivere civile, perché quell'abuso a Fontana di Trevi offende tutti i cittadini per bene, ci sono poi come dicevamo i danni economici. È frequentissimo, infatti, il caso di chi paga solo il primo acconto per bloccare le inchieste giudiziarie e le ruspe e poi se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che nessuno verrà mai a disturbare. Tanto per dare un'idea, quando Totò Cuffaro cercò di smaltire gli immensi arretrati dei tre condoni con una «sanatoria delle sanatorie», gli abusivi siciliani che aderirono furono l'1,1% a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania.

A Roma, denunciava qualche mese fa il Sole 24 Ore, restano da smaltire «210 mila pratiche, circa il 37% delle oltre 570 mila presentate fra tutte e tre le sanatorie». Compresi fascicoli che oggi hanno 28 anni. «Ogni volta che c'è un condono lo Stato si ritrova in cassa pochi milioni, relativi agli anticipi pagati dagli abusivi e una moltitudine di incartamenti che gli uffici comunali non riescono a smaltire», accusano Paolo Polci e Roberto Mostacci del Cresme ipotizzando un milione di pratiche inevase, «Questo "sfasciume amministrativo" impegna centinaia di funzionari pubblici e dà un gettito di 10/20 milioni di euro contro gli 80/100 milioni di costi stimati». Autolesionismo. Dieci anni fa, ribellandosi alla nuova sanatoria della destra, lo stesso Comune di Roma fece i conti. E accertò di avere incassato 922 euro per ognuna delle 506.578 domande dei condoni del 1985 e del 1994. Pochissimo, in confronto alle spese per portare nelle nuove case condonate i servizi del vivere civile, dalle strade alle condutture. Perfino quelli che avevano usato il condono berlusconiano (meno generoso del craxiano) avevano pagato per regolarizzare un villino fuorilegge circa 10 mila euro di cui 5 mila al Comune. E portare l'urbanizzazione primaria e secondaria costava da un minimo di 22 mila a oltre 30 mila euro. Proprio un affarone…

Se Cultura potesse, se Politica sapesse; ma Politica non sa, e se sapeva ha dimenticato. L'Unità, 19 dicembre 2012

Sul crollo di Palermo e sui suoi poveri morti si allunga l’ombra di uno dei mille abusi edilizi, il Nell’ultimo venticinquennio sono più di un milione, secondo il rapporto del Centro ricerche economiche sociali di Mercato per l’edilizia (Cresme), gli abusi edilizi, tra nuove costruzioni e ampliamenti non autorizzati. Al di là della tragedia di Palermo, emerge un dato disperante: i ripetuti condoni edilizi gli ultimi tre imputabili a governi presieduto da Silvio Berlusconi hanno esaltato la sottocultura in base alla quale ciascuno può fare ciò che vuole. In casa propria come sulle aree ancora libere (anche se coperte da vincoli idrogeologici, anche se tutelate a parco, anche se a filo di arenile). Tanto un governo «sanerà» poi il malfatto. La regola in materia l’ha dettata lui, il ritornante Silvio: «Ciascuno è padrone a casa sua». Che è la negazione dello spirito comunitario, dell’interesse generale che prevale su quelli particolari, della Costituzione che tutela il paesaggio come bene comune dell’intero Paese. Il Pdl ha tentato la carta di un nuovo condono anche con la legge di stabilità. Cioè fino a ieri.

Nel solo 2010 si sono accertati, secondo i dati di Legambiente, 26.500 casi gravi di abusivismo edilizio, cioè di interi immobili costruiti senza alcuna autorizzazione, certificazione, licenza. Le regioni più devastate da questo fenomeno: Calabria, Campania e Lazio (la Sicilia viene subito dopo). Con la conseguente cementificazione senza fognature, ovviamente di circa 540 ettari di suoli liberi. La Calabria dove intere zone, come la piana di Scalea, risultano letteralmente sconvolte dal cemento vanta da sola 945 infrazioni, seguita dalla Campania che però detiene il primato delle persone denunciate: 1.586 su un totale di 9.290. Il Cresme sottolinea che si continua a costruire illegalmente «in un territorio ad alto rischio idrogeologico». Si ricordino le tragedie di Sarno, della fiumara di Soverato, della collina franata a Giampilieri di Messina, o a Ischia, con decine di morti e feriti ai quali ora si aggiungono le povere vittime di Palermo.

Dietro la colata di cemento abusivo c’è ormai quasi sempre la malavita organizzata: sta facendo risalire il fenomeno da sud a nord, «inquinando» le imprese venete e lombarde, sfibrandole con continui pagamenti di pizzo, o reinvestendo in proprio, con aziende di copertura, i profitti lucrati nel Mezzogiorno con una costellazione di attività illecite, a cominciare dall’edilizia. Il tutto con la complicità di colletti bianchi nel sistema finanziario e bancario, negli studi notarili e tecnici, nelle amministrazioni locali che chiudono gli occhi.

Come si può spiegare altrimenti che a Casalnuovo di Napoli il sindaco, «per l’erba alta» (così disse), non aveva visto crescere 80 palazzi abusivi di dieci piani l’uno? Lo scoprì una inchiesta di Ambiente Italia (Raitre), oggi declassata a trasmissione della tarda mattinata. Così imparano. Il prossimo governo si troverà di fronte macigni terribili: una marea ecomostri grandi e piccoli, una edilizia illegale spesso tanto scadente quanto a rischio, una mentalità riottosa contro leggi, regolamenti, vincoli. Ma si troverà di fronte anche ad una crisi edilizia che reclama nuovo cemento purchessia. Come il sindaco Alemanno sta tentando di fare a Roma, in extremis. Guai se non arginasse sia l’abusivismo che una speculazione edilizia rinnovata. Guai se non ponesse mano ad un grande piano di risanamento-restauro-recupero del patrimonio esistente. Già oggi quasi il 60 % degli investimenti edili è dato da manutenzioni. Una tendenza da incoraggiare.

Qui molti altri articoli sull'abusivismo raccolti in eddyburg

La giusta indignazione per una politica che per tanti anni ha sostenuto e alimentato l'abusivismo edilizio, e un'idea diversa di sviluppo. Il Fatto quotidiano, 2 novembre 2012 (f.b.)

Sono indignata, si mi indigno perché pare non esserci limite al peggio.
L’ultimo colpo di coda tentato dal Pdl in fatto di condono edilizio ha dell’incredibile, dell’irrimediabile. Nonostante il caos in cui versa il partito e il fatto che il suo consenso in Italia stia segnando un’emorragia costante pure il Pdl con rinuncia ad essere il tutore dell’illegittimità, dell’illegalità.
O forse è proprio per recuperare qualche consenso che sprezzante e a muso duro il Senatore Francesco Nitto Palma ha provato ancora una volta, la diciassettesima, a riproporre lo strumento tombale di ogni scempio: il condono edilizio.

Condoni fiscali, edilizi, scudi…. Quante ne abbiamo viste e deglutite dal ’94 ad oggi di queste trovate? Tutte leggi urgenti, inserite in contesti improbabili come finanziarie o altre norme, solo utili a sanare situazioni incresciose promosse da cittadini disonesti.
Leggi per loro, per quella parte di Italia che non rinuncia a sperare nella politica come rimedio a posteriore ad un danno prodotto. Leggi per furbi e disonesti. Leggi coperta, leggi tutela….
Il Pdl in questi vent’anni si è specializzato in colpi di spugna, al punto da renderli parte integrante, anzi caratterizzante del suo programma elettorale, proponendo a ritmi costanti ora l’uno ora l’altro.

Un’immobiliare costruiva in riva la mare o nel cuore verde di un’area protetta… qualcuno gli garantiva che prima o poi “Papi” avrebbe sanato per ricominciare altrove. Come si spiegherebbero altrimenti i milioni di tonnellate di cemento frutto del lavoro delle fiorenti ecomafie ripuliti nei decenni scorsi? Come si spiegano i numeri da capogiro che interessano la sola Campania oggi:70mila possibili demolizioni, con ripercussioni per circa 300mila, a volte solo sprovvedute, persone?
L’ex ministro della Giustizia Nitto Palma ha spiegato che il provvedimento, cancellato grazie all’azione di Pd, Udc, Idv e Lega, mirava “a riaprire i termini del condono del 2003 non per l’intero territorio nazionale ma soltanto per la Campania, che non ne ha potuto usufruire a seguito delle leggi regionali dell’allora giunta Bassolino, poi dichiarate incostituzionali dalla Consulta”. La verità è un altra, che una norma come questa non poteva essere “ad regionem” e sarebbe stata estesa a tutto il territorio nazionale.

Di fatto quest’azione dei senatori campani, che oggi minacciano di togliere la fiducia al governo, si configura come un bel regalo all’illegalità e all’ecomafia, fortunatamente respinto a pochi mesi dalle elezioni.
In questi anni i cittadini onesti che regolarmente chiedono i permessi per fare le case, pagano le relative imposte, si assoggettano ai tempi lunghi della burocrazia, non importano cemento abusivo ed esportano capitali e così via hanno subito fin troppo e troppo a lungo. L’Italia non può continuare ad essere il Paese dei furbi.
A spiegare che accade quando si governa così sono i numeri che Legambiente ha messo in fila nelrapporto Ecomafia 2012: 25.800 gli abusi edilizi nel 2011 mentre il solo “effetto annuncio” ha prodotto, nel caso del condono del 2003, 40 mila nuovi edifici illegali. Sappiamo cosa hanno prodotto gli interventi in aree a rischio o inadeguate.

Ci ricordiamo del dissesto idro-geologico in cui versa la penisola solo quando frana una montagna o straripa un fiume. Ma sono le azioni fatte a monte di quei tristi eventi a generarli e lacementificazione è uno di questi ed è forse la maggiore responsabile di morti e danni. Come denunciato dalla CIA ( confederazione italiana agricoltori) , in occasione della discussione in Cdm della bozza del ddl contro il consumo di suolo agricolo presentato dal ministro alle Politiche agricole Mario Catania, il settore primario ha dovuto rinunciare solo negli ultimi dieci anni a quasi 2 milioni di ettari, una superficie pari all’intera regione del Veneto. Terra che assorbiva acqua piovana che oggi scivola invece veloce su km di asfalto e cemento, per poi fermarsi da qualche parte con un urto tremendo e produrre disastri.

Se si continua a costruire ai ritmi odierni tra vent’anni faremo i conti con un consumo di suolo superiore ai 70 ettari al giorno, mettendo a rischio un patrimonio paesaggistico di inestimabile valore e rischiando la non autosufficienza alimentare.
E’ tempo di invertire la rotta e non concepire più il condono come via d’uscita postuma al disprezzo di piani regolatori e leggi.
E’ ora di dire basta a tutto questo.
” Zero metri cubi” questa e’ la nostra proposta, c’è tanto patrimonio da recuperare e da restaurare ed è bene che si inizi a farlo, ora, è tempo di salvare l’Italia, il brand più famoso al mondo.

Il nuovo condono edilizio rischia di diventare una realtà nove anni dopo l’ultima maxi sanatoria degli abusi varata da Berlusconi. Domani l’aula del Senato, in seguito ad una procedura insolitamente veloce, ha posto all’ordine del giorno il disegno di legge di iniziativa parlamentare che porta la firma di Francesco Nitto Palma del Popolo della libertà. Il testo è, singolarmente e in modo un po’ oscuro, intitolato «Disposizioni volte a garantire la parità di trattamento dei cittadini della Repubblica in ordine ai benefici» del condono edilizio del 2004.

Il progetto, un solo scarno articolo, prevede la riapertura dei termini del condono edilizio Berlusconi- Tremonti del 2003-2004 che consentì di incassare più di 3 miliardi. La vecchia sanatoria edilizia stabiliva che si potesse aderire entro il 10 dicembre del 2004 e che i «manufatti» condonabili dovevano essere stati realizzati prima del 31 marzo del 2003. Il nuovo testo proposto da Nitto Palma lascia inalterata la data entro la quale è stato effettuato l’abuso sanabile, anche seriesce difficile verificare il mese o all’anno di una costruzione o di una modifica ad una abitazione o ad una villetta allargando a dismisura la platea dei possibili beneficiari della sanatoria. Ma il punto centrale è che il ddl riapre per circa otto anni i termini per aderire alla sanatoria portandoli fino al 31 dicembre del 2012.

Il richiamo del titolo della legge alla «parità di trattamento» è un riferimento agli abusivi della Campania che, dopo una serie di pronunciamenti della Corte costituzionale, hanno visto negate o ridotte le possibilità di aderire al condono del 2003-2004. Ma sebbene l’involucro normativo prenda spunto dalla Campania il ddl Nitto Palma vale per tutto il territorio nazionale.

Protestano le associazioni ambientaliste e anche Repubblica.it ha promosso una raccolta di firme per bloccare la pericolosa sanatoria. Gli ecodem Della Seta e Ferrante parlano di «intento criminogeno », Realacci (Pd) invita a «bloccare il condono». Qualunque sarà l’esito dell’esame che parte domani al Senato, a Montecitorio sono già pronte le barricate: «Penso che si stia tentando di rimettere in movimento il ciclo dell’edilizia di natura abusiva. D’altra parte il condono è un qualcosa che ha un ciclo quasi matematico di nove anni: primo condono nel 1985, secondo nel 1994, terzo nel 2003 e ora siamo nel 2012», osserva Roberto Morassut, responsabile urbanistica del Pd.

Sorpresa anche per l’iter-fantasma del provvedimento: fu presentato

il 2 febbraio di quest’anno, sommariamente esaminato in tre sedute in Commissione Ambiente al Senato, annunciato a sorpresa il 23 ottobre dopo un blitz della conferenza dei capigruppo che lo ha posto all’ordinedel giorno dell’aula per domani.

Infine c’è il rischio del tana libera tutti per i tre vecchi condoni, oltre che il nuovo. Solo nel Comune di Roma ci sono dal 1985 giacenti 300 mila domande e di queste circa 3.000 sono al vaglio delle Soprintendenze. Nitto Palma tende a depotenziare il ruolo delle Soprintendenze, anche se non traduce questo atteggiamento in legge, ma le nuove norme proposte dal ddl del governo sulle semplificazioni, che introducono il silenzio-assenso di 45 giorni, potrebbero combinarsi negativamente con il nuovo condono 2012 e portare ad una approvazione indiscriminata di tutte

le domande.

«A i cittadini dovevamo dare questa risposta perché qui si trattava di una situazione di diritti negati». Ha detto proprio così il sindaco di Vibo Valentia Nicola D'Agostino felice per avere portato a termine un'operazione che in un altro Paese civile sarebbe stata impossibile: l'acquisto da parte del Comune, dal demanio, dei terreni sui quali, una dopo l'altra, per decenni, sono state costruite centinaia di case abusive. Ma così abusive da non poter approfittare né del primo condono del 1985, né del secondo del 1994 né del terzo del 2003.

Il problema degli abitanti fuorilegge di località Pennello, un tratto di costa calabrese stuprato da orrende palazzine costruite spesso praticamente sulla spiaggia e senza alcun rispetto per ogni norma idrogeologica (basti ricordare lo straripamento di vari torrenti ostruiti da costruzione demenziali e la conseguente alluvione del 3 luglio 2006 costata la vita a tre persone) è sempre stato quello: era impossibile condonare le loro schifezze di cemento.

In un Paese serio, il primo cantiere abusivo aperto su terreno demaniale, cioè appartenente a tutti i cittadini italiani, sarebbero arrivati i vigili urbani. E dopo i vigili i carabinieri. E dopo i carabinieri le ruspe. Per anni e anni, invece, decisi a non rischiare di perdere il voto degli abusivi alle elezioni, sindaci e amministratori hanno fatto finta di non vedere. Spingendo la gente a pensare che fosse loro consentito tutto. E il problema è andato in cancrena.

Cosa fare? La soluzione individuata dall'amministrazione è stata quella di convincere il demanio a cedere al municipio i 150.550 metri quadrati di terreni pubblici (un'«opera di ingegneria giuridica», secondo laGazzetta del Sud) sui quali sorgono le palazzine fuorilegge. E il demanio, dopo lunghe resistenze, non solo ha ceduto, ma dopo avere concordato un prezzo di 2 milioni di euro ha chiuso giorni fa facendo un mega sconto. Prezzo finale: un milione e 200 mila euro. Tirati fuori per metà dagli abusivi, che versando 20 euro al metro quadrato (20 euro!) adesso sono certi che il nuovo proprietario del terreno non romperà più le scatole in tribunale contro di loro, e in parte dal Comune che ha utilizzato i fondi Pisu, Progetti integrati di sviluppo urbano. Soldi appartenenti a tutti cittadini italiani. E soprattutto anche a quelli di Vibo Valentia che hanno sempre rispettato la legge e che si ritrovano nella parte dei cornuti.

Una soluzione dopo tanti decenni andava trovata? Certo. Ma è insopportabile, agli occhi degli italiani che seguono le regole e non costruiscono su terreni altrui, è quella affermazione del sindaco sui «diritti negati» agli abusivi. E più ancora l'esultanza di un parlamentare della Repubblica italiana, il pidiellino Francesco Bevilacqua che a dispetto del suo ruolo e della sua professione (insegnante!) è arrivato a dire che «la zona che adesso è nel degrado dovrà tornare al suo splendore». Splendore? Dopo quella violenza cementiera? Ma la domanda più urgente è un'altra: il catasto e la Corte dei conti sono d'accordo con questa soluzione?

Sotto il Vesuvio non ci vogliono pensare, agli scenari da incubo disegnati dagli esperti e a tutti i discorsi di questi giorni sulla prevenzione contro i disastri. Peggio: in Regione stanno discutendo su come rimuovere un po' di vincoli nella «zona rossa». Bollata da qualche sindaco come «una legge criminale che ha ucciso l'economia».È dal 19 marzo 1944 che il vulcano appare a riposo. Quando la statua di San Gennaro, racconta l'ufficiale inglese Norman Lewis nel libro «Napoli 1944», fu portata nella cittadina di San Sebastiano al Vesuvio nascosta sotto un lenzuolo, di riserva, pronta a fermare la lava, come avvenne, nel caso non fosse bastato l'intervento del santo patrono ufficiale, appunto San Sebastiano.

Fino ad allora, dall'Unità d'Italia il Vesuvio aveva già brontolato più o meno spaventosamente nel 1861, 1867, 1872 (quando era stato distrutto lo stesso paese di San Sebastiano), 1891-95, (quando si era formato il colle Margherita, 1895-99 (quando era nato il colle Umberto) e poi ancora nel 1906, quando era stata devastata Boscotrecase e infine nel 1929. Quelli che nel 1944 erano bambini, se lo ricordano bene, l'incubo. Ma lo hanno rimosso. E nonostante gli spaventi del sisma in Irpinia e del bradisismo a Pozzuoli, troppa gente vive da decenni il Vesuvio come se non fosse un vulcano, ma una montagna.

E vive dunque i vincoli imposti ai 18 comuni della «zona rossa» come un'angheria imposta alla povera gente dalla «politica». C'è un condono? Non si può usare. Ne arriva un altro? Non si può usare. Col risultato che un pò di politici ha individuato nella guerra alle regole antisismiche una strategia per andare a batter cassa dagli elettori. Come il sindaco di Sant'Anastasia, Carmine Esposito, che da anni si è auto-nominato nemico numero uno della «truffa confutabile a livello scientifico» e qualche settimana fa si è spinto ad affiggere manifesti che dicevano: «Zona rossa, finalmente si cambia». Posizione condivisa da qualche parlamentare come il senatore pidiellino Carlo Sarro che a fine marzo tuonò: «Quello che si sta consumando in Campania è un dramma culturale, una vicenda segnata da una profonda ingiustizia. Ci sono 67.000 sentenze di demolizione e questo fa capire come sia drammatica la situazione».

Tutte case abusive. Ma «le associazioni spesso continuano a diffondere l'idea che l'abusivismo è uguale a criminalità, ma è una mistificazione gigantesca. Dietro la scelta forzata di costruire case abusive ci sono sacrifici, investimenti frutto del lavoro di famiglie». Sono in zone ad altissimo rischio sismico? E vabbè… Ed ecco che proprio in questi giorni, come denuncia l'ex l'assessore Marco Di Lello, autore del progetto «Vesu-via» che dava 30mila euro a chi se ne andava comprando casa fuori dalla «zona rossa» e tolse tutti i benefici fiscali così da rendere più cari gli affitti e fare invecchiare il patrimonio edilizio e buttò giù qualcuna delle migliaia di opere abusive dentro il parco, in Regione discutono di un disegno di legge che spazzerebbe via una serie di vincoli.

Una leggina stupefacente. Soprattutto di questi tempi di lutti e macerie in Emilia. Non solo rimuove il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto di un chilometro intorno all'antica Velia, nel parco del Cilento. Non solo stravolge il Piano Urbanistico Territoriale della penisola sorrentina limitando i vincoli alle spalle della Costiera Amalfitana nonostante sia un'area a forte rischio idrogeologico teatro di tragedie come qualche anno fa la frana di Nocera Inferiore. Ma, accusa Di Lello, deforma pesantemente «la legge regionale 21 del 2003 che sancisce il divieto assoluto di rilascio di titoli abilitativi (permessi a costruire, Scia e Dia) a fini abitativi nella zona rossa vesuviana così come perimetrata dalla Pianificazione d'emergenza della Protezione Civile». Per capirci, prendiamo le parole proprio di Carmine Esposito che si vanta del successo: «Non vogliamo aumentare il carico abitativo. Questo però non vieta la possibilità di fare nuove abitazioni nel rispetto idrogeologico del territorio» Sic… Di che genere di territorio si tratti lo lasciamo dire al vulcanologo Franco Barberi: «Non esiste al mondo una località a più alto rischio vulcanico, considerando l'abnorme concentrazione edilizia spintasi fino a poche centinaia di metri dal cratere».

Sostengono gli scienziati che da molti anni il vulcano è «tranquillissimo» ma «prima o poi dovremo fare i conti con una nuova eruzione». Il materiale incandescente se ne sta pressato a una profondità di otto chilometri. Questo sarebbe un bene e un male: prima di spingere forsennatamente verso l'alto per cercarsi una via d'uscita il magma dovrebbe dare dei segnali via via più chiari dando qualche tempo per l'evacuazione che, stando al piano della protezione civile del 2004, dovrebbe portar via 12 giorni. Basteranno? Erosa la spinta, lo strato di lava «salterebbe come un tappo di champagne».«Una volta aperto il condotto», scrive il vulcanologo Gianni Ricciardi dell'Osservatorio Vesuviano in un saggio che sta per essere pubblicato, «si formerà una colonna eruttiva che potrà raggiungere un'altezza di oltre dieci chilometri. La parte alta della colonna pliniana, meno densa, sarà spinta secondo la direzione dei venti prevalenti d'alta quota e da essa si avrà caduta di particelle al suolo. La parte bassa della colonna, più densa, collasserà generando correnti piroclastiche, che scorreranno, seguendo la morfologia, lungo i fianchi del vulcano, a grande velocità e con elevato potere distruttivo.

Probabili piogge indotte dalle perturbazioni delle condizioni atmosferiche causate dall'eruzione, potranno mobilizzare il materiale piroclastico depositato lungo le pendici del vulcano, provocando colate di fango e alluvionamenti durante e anche a eruzione finita».Un'apocalisse. La «zona rossa» dei 18 comuni circumvesuviani «è soggetta a distruzione pressoché totale, a causa dello scorrimento di correnti piroclastiche, colate di fango e alla ricaduta imponente di ceneri, bombe e lapilli». La «zona gialla», un migliaio di chilometri quadrati comprendenti 96 comuni di cui 34 della provincia di Napoli, 40 di quella di Avellino, 21 di quella di Salerno ed 1 della provincia di Benevento «potrebbe essere interessata da un'importante ricaduta di cenere e lapilli, con carichi superiori a 200 kg/m2». Da brividi.

Eppure, spiega lo scienziato nel suo lavoro intitolato «Le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944. Cosa ci aspetta?», quella «zona rossa» così pericolosa ha visto aumentare, incredibilmente, la sua popolazione. Lo scriveva già lo storico vesuviano Silvio Cola nel 1958: «Dopo l'ultima eruzione del 1944, il Vesuvio non ha dato più segno di attività, lasciando in una perfetta calma gli abitanti dei Paesi nascenti alle sue falde, i quali, per nulla preoccupati delle sorprese che potrebbe dare il terribile vulcano, quasi dappertutto, fanno sorgere, continuamente, grandi fabbricati e magnifiche ville».

Al primo censimento del 1861 la popolazione vesuviana era di 107.255 persone, concentrate quasi tutta sulla costa. Dieci anni fa, al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi, secondo Ricciardi (anche se i dati provvisori dell'Istat non concordano) sarebbero 580.913. Hanno sotto gli occhi le rovine di Pompei, Ercolano, Oplontis. Hanno conosciuto dai nonni i racconti delle grandi paure di qualche decennio fa.Guardano il vulcano, sospirano e fanno spallucce.

Il comune di Monte di Procida (Napoli) ha promosso una delibera "tipo" che propone al governo nazionale e alla Regione Campania la sospensione delle demolizioni degli abusi edilizi e l'estensione del condono del 2003 ai cittadini campani ai quali sarebbe stata negata questa

prerogativa dalla legge regionale del 2003.

Da Napoli, in controtendenza, l’Assessore Luigi De Falco ci ricorda che la Giunta comunale si è schierata per riaffermare i principi di legalità.

Nella delibera del dicembre 2011 che riportiamo in allegato, si ribadiva il primato della pianificazione urbanistica contro la proposizione di provvedimenti legislativi di condono edilizio, di sospensione o revoca delle demolizioni degli immobili edificati abusivamente fuori dai limiti previsti dalla vigente legislazione statale e regionale.

Tramite questo atto l’Amministrazione comunale sottolinea la sua più convinta adesione ai principi costituzionali che esprimono il territorio come bene comune. Principi che solo un paese che abbia smarrito completamente la propria dignità civica osa rimettere in discussione.(m.p.g.)

Il Pdl apre un nuovo fronte nei confronti del governo Monti. Con un blitz in Commissione Ambiente del Senato, il Popolo della libertà ha imposto all'ordine dei lavori la discussione di tre disegni di legge che hanno mirano a riaprire i termini dell'ultimo condono edilizio del 2003.

Primi firmatari dei provvedimenti sono due senatori campani del partito, Carlo Sarro e Gennaro Coronella, e il Commissario regionale, Nitto Palma, ex ministro della Giustizia. La tentazione di riaprire i termini del condono per cercare di fermare le ruspe nella regione italiana probabilmente più devastata dall'abusivismo edilizio non è nuova. Già nel febbraio scorso il Pdl (con il sostegno di Fli) aveva cercato di infilare una simile norma "ad regionem" (sarebbe valsa per la sola Campania) all'interno del decreto "milleprororoghe", ma il tentativo era naufragato 1 grazie all'opposizione di Pd, Idv e Lega.

Questa volta l'escamotage usato sarebbe la necessità di "riparare" il danno subìto dai cittadini campani, in relazione alla decisione della Corte Costituzionale che nel 2006 ha censurato una legge varata dalla Regione Campania per differire i termini di sanatoria legati all'ultimo condono. Ma proprio in quanto la Consulta ha respinto la possibilità di un "condono regionale", in caso di approvazione le proposte avanzate oggi in Commissione Ambiente del Senato porterebbero al varo di un quarto condono edilizio nazionale, valido anche per le edificazioni abusive avvenute nelle aree vincolate. "Il procedimento di demolizione - si legge ad esempio in uno dei ddl - è comunque differito anche nel caso in cui sia stata accertata la violazione di vincoli paesaggistici, salvo che sia stato concluso il procedimento di adozione del nuovo piano paesaggistico".

Per Roberto Della Seta, capogruppo del Pd in Commissione Ambiente, "è quasi surreale che in un paese come il nostro, assediato da condizioni diffuse di dissesto idrogeologico e abusivismo, specie al Sud, una grande forza politica come il Pdl tenti di riproporre lo strumento del condono, che nella storia recente dell’Italia ha più volte mostrato il suo effetto principale, cioè di alimentare ulteriormente la spirale delle costruzioni illegali e del business delle ecomafie. Gli abusi edilizi vanno perseguiti e demoliti, specie se come in Campania e in gran parte del meridione riguardano aree pregiate e vincolate".

Le possibilità che l'iniziativa lanciata oggi a sorpresa a Palazzo Madama sembrano essere ben poche e il Pd già annuncia battaglia. Ma oltre a un problema ambientale, di legalità e di sicurezza del territorio, la sortita dei senatori campani del Pdl apre come detto anche una questione prettamente politica nei rapporti tra il primo partito di maggioranza e il governo. Contenzioso che si va ad aggiungere ad un lungo elenco di temi motivo di conflitto, dalla giustizia alla riforma del lavoro. "Mai più condoni edilizi, spero di inserire in norma un divieto assoluto", era stata infatti una dei primi impegni assunti dal ministro dell'Ambiente Corrado Clini pochi giorni dopo il suo insediamento.

Sono 129 gli indagati, tra cui funzionari di Regione Puglia e Comune, responsabili di aver avallato la costruzione del complesso turistico con l'approvazione di una variante urbanistica dichiara illegittima. La struttura nata su una delle area più belle del Salento ha cambiato volto alla zona di Porto Cesareo

Un lussuoso resort da 50 milioni di euro con villette, alberghi, solarium, centri estetici, anfiteatro, discoteca, impianti sportivi e strutture commerciali. Una struttura ricettiva tra le più imponenti del Salento, affacciata - come si legge negli annunci sui siti di promozione turistica - "su un tratto di mare all’interno del Parco nazionale marino e nelle immediate vicinanze del Parco regionale di Porto Cesareo; in una delle più belle aree naturali della costa ionica del Salento, in località Torre Lapillo, a circa 10 km a nord di Porto Cesareo".

Un paradiso per turisti e per chi aveva lì comprato la casa al mare sequestrato dalla guardia di finanza per abusivismo: 129 le persone indagati per reati ambientali, tra cui i responsabili del Comune e della Regione che hanno rilasciato le autorizzazioni e i 120 proprietari di appartamenti. Un pezzettino di Puglia dall'inestimabile valore paesaggistico, che ha cambiato faccia dopo l'immensa colata di cemento arrivata con una variante urbanistica illegittima. Aree che avrebbero dovuto essere protette perché rappresentano la vera ricchezza del Salento e che, invece, sono state “devastate” come ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta. I 9 pubblici ufficiali coinvolti nello scandalo sono l’ex sindaco di Porto Cesareo Vito Foscarini, i 3 responsabili dell’epoca degli assessorati regionali all’Ambiente e all’Urbanistica (Luigi Ampolo, Giuseppe Lazzazzera e Luca Limongelli), 2 responsabili dell’Ufficio tecnico comunale (Cosimo Coppola e Giovanni Ratta), 2 progettisti (Claudio Conversano e Antonio Nestola) e il legale rappresentante delle società coinvolte (Franco Iaconisi).

La struttura turistica sequestrata oggi è il resort Punta Grossa di Porto Cesareo, di proprietà della società Fgci srl. Le indagini delle fiamme gialle hanno accertato che il villaggio è stato realizzato in seguito a una lottizzazione abusiva a scopo edilizio di terreni in località Serricelle, aree protette che per le loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico. Tra queste le zone di Palude del conte, Duna di Punta Prosciutto e altre dichiarate riserve marine. La costruzione del complesso immobiliare che sorge su un'area molto vasta ha inoltre causato una rilevante trasformazione urbanistica delle aree interessate, sottoposte a vincoli ambientali e paesaggistici, anche in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti e delle normative edilizia, urbanistica ed ambientale.

In particolare va sottolineato che prima dell'edificazione del complesso turistico, il consiglio comunale di Porto Cesareo aveva approvato una variante urbanistica al piano regolatore generale, attribuendo ai terreni in località "Serricelle", precedentemente tipizzati come agricoli, specifica destinazione turistico-alberghiera. Tuttavia, l'intera procedura che ha portato alla variante urbanistica al piano regolatore è da considerarsi illegittima, in quanto basata su due conferenze di servizi, rispettivamente risalenti agli anni 2002 e 2006, di cui la prima annullata con sentenza del Tar Puglia, confermata dal Consiglio di Stato e la seconda indetta illecitamente. Inoltre, la suddetta variante urbanistica è stata approvata senza tener conto delle prescrizioni di non alterazione del paesaggio regionale esistente, previste dal Piano urbanistico territoriale tematico.

La realizzazione del complesso immobiliare sarebbe stata possibile grazie ad alcuni illeciti commessi dal sindaco pro tempore e dai responsabili pro tempore dell'Ufficio tecnico del Comune di Porto Cesareo nonché dai progettisti e direttori dei lavori per la costruzione del residence, indagati per reati contro la fede pubblica ed abuso d'ufficio, i quali avrebbero falsamente attestato, nei loro pareri e relazioni, che non esistevano altre aree urbanisticamente idonee alla realizzazione di strutture turistico-ricettive, riattivando il procedimento amministrativo che ha portato alla variante urbanistica del piano regolatore. Le fiamme gialle spiegano inoltre, che sono stati denunciati alla procura della repubblica presso il tribunale di Lecce i responsabili pro tempore degli assessorati all'Urbanistica e all'Ambiente della Regione Puglia per aver fornito pareri irregolari ed illegittimi, omettendo i controlli, obbligatori per legge, sulle attestazioni fornite dai funzionari comunali nonché sul rispetto dei vincoli paesaggistici ed ambientali. Tra i 129 indagati - residenti in tutta Italia e responsabili del reato ambientale di lottizzazione abusiva - ci sono I 120 proprietari di appartamenti adibiti a case-vacanza all'interno del villaggio vacanze.

Ma non è tutto, perché se nella realizzazione dell’enorme mostro di cemento, i militari hanno individuato una serie di illegittimità urbanistiche e ambientali, il prosieguo delle indagini ha poi permesso di scrivere un altro capitolo relativo a presunte violazioni relative all’organizzazione societaria delle due srl che hanno costruito e gestito il resort. Alla luce delle evidenti violazioni che avevano caratterizzato la costruzione del villaggio, infatti, risultava impossibile procedere ad una formale compravendita immobiliare, per cui sarebbe stata effettuata un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata attraverso il conferimento di un patrimonio immobiliare di 108 appartamenti, fittiziamente mascherata come cessione di ramo d’azienda, della fgci srl verso una multiproprietà azionaria, cretata ad arte ed avente la stessa compagine sociale, denominata punta grossa srl. Le quote sarebbero quindi state cedute a 120 soggetti che, in teoria acquistavano parte del capitale sociale, in realtà diventavano padroni degli appartamenti. Nel momento in cui i proprietari volevano vendere la casa, la società riscattava la quota di appartenenza e la cedeva ad un nuovo inquilino, che conquistava così il suo spazio vitale nel paradiso salentino. Oltre a configurare illeciti penali, tale operazione di gestione straordinaria ha consentito di evadere l’irap per 6 milioni e mezzo e l’iva per 2 milioni, come evidenziato dalle ispezioni tributarie che si sono concluse con il recupero di elementi positivi di reddito per 7 milioni e 200mila euro.

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