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Ieri i giornali di informazione hanno enfatizzato oltre i limiti del ridicolo il «piano città» del ministro Passera e del viceministro Ciaccia. Di fronte alle carenze strutturali e allo stato di abbandono delle nostre città che non riescono a competere con le città dell'Europa, in tutti i titoli si leggeva che erano stanziati niente meno che 2,1 miliardi di euro. Lavoce.info - sempre puntuale e preziosa - ha dimostrato che i 224 milioni, gli unici veri della partita perché il resto sono anticipazioni della Cassa depositi e prestiti, non sono neppure tutti nuovi perché verranno dai tagli di interventi di edilizia già programmati. Ma fermiamoci sulla cifra stanziata. Sono 20 le città con popolazione superiore o vicina ai duecento mila abitanti. A ciascuna di esse toccherà poco più di un milione di euro di finanziamento e circa 80 milioni di prestito. Cifre ridicole come si vede, indegne di un paese serio. E invece di sottolineare la sua miope miseria, quel finanziamento è stato presentato come il pilastro della ripresa, con le solite cifre sparate a casaccio: addirittura 100 mila nuovi posti di lavoro!

A questo punto, pare di sentirlo, scatta puntuale il refrain: che volete, non ci sono risorse. Il ministro Passera ha rifinanziato appena due settimane fa l'ennesimo piano delle grandi opere inutili con 100 miliardi destinati a tacitare le voraci grandi imprese che assediano il governo. Il vice ministro Ciaccia si era peraltro occupato di esse con un altro ruolo, quello di amministratore delegato della banca BIIS del gruppo San Paolo Intesa.

Ricapitoliamo, dunque. Nello stesso mese di giugno 100 miliardi sono stati assicurati alle lobby del cemento e dell'asfalto. Al sistema urbano nel suo complesso andranno 2 miliardi fatti in gran parte di prestiti! Ha ragione su queste colonne Sandro Medici a denunciare (ieri, 26 giugno) che manca ancora l'assunzione della centralità del tema della riqualificazione urbana. Questo governo, al pari dei precedenti, non comprende che soltanto finanziando il rinnovo urbano e non la crescita, la creazione di sistemi di trasporto non inquinanti e non ulteriore asfalto, la messa in sicurezza dei servizi, delle abitazioni e dei corsi d'acqua, si potranno creare le premesse per una nuova fase economica che privilegia imprese che adottano nuove tecnologie.

E anche in termini di efficienza della spesa deve essere ricordato che nel 2005 l'Associazione nazionale dei Costruttori edili aveva calcolato che il 53% dei progetti di grandi opere avevano trovato difficoltà operative ed erano stati costretti a varianti progettuali. Ma di questo non si parla: la palla al piede dello sviluppo sono i vincoli, i sindacati e i lavoratori, mica chi sbaglia progetti lautamente pagati.

Il finto piano città svela ancora una volta che il governo dei «tecnici» si limita ad assicurare ai poteri forti un altro fiume di denaro pubblico senza avere una proposta convincente per il sistema paese. Un governo prigioniero dei legami che alcuni dei suoi uomini avevano stretto in anni passati e non consentono oggettivamente di cambiare musica. Ciaccia è stato anche presidente di Arcus, la società nata dal ministero dell'Economia per finanziare i beni culturali. Arcus era assurta agli onori della cronaca per il caso del palazzo di Propaganda Fide restaurato con i nostri soldi per la felicità della cricca. Era ministro Lunardi, c'era il cardinale Sepe e De Lise era uno degli esponenti di quel gruppo di potere. Oggi non c'è più Lunardi, ma De Lise resta nel ruolo di arbitro delle infrastrutture generosamente finanziate da Passera-Ciaccia.

Il presidente Monti ha affermato che deve assolutamente portare la cancellazione dei diritti dei lavoratori nel prossimo vertice internazionale. Con qualche sforzo potrebbe portare anche il segnale di una rigorosa pulizia della macchina statale di cui c'è immenso bisogno. Ma non lo farà. Aspettiamo impazienti che richiami con gli onori che meritano Balducci e Bertolaso.

Ci sarebbe di che rallegrarsi, all'annuncio che il governo ha deciso di stanziare un paio di miliardi da spendere per una serie di progetti urbani, deviando per una volta dai consueti foraggiamenti alle banche. Un lampo di keynesismo che illumina il fosco panorama monetario e che lascia intravvedere un po' di sano e concreto strutturalismo economico. Se non fosse che il modello individuato è desolatamente il solito, sviluppo edilizio e poco più: tondini e calcestruzzo, betoniere a pieno regime, ruspe e sbancamenti, travi e pilastri. Siamo sicuri che è così che si rilancia un'economia in crisi, siamo sicuri che il ciclo del mattone sia la molla che slancia crescita e occupazione e che, soprattutto, sia utile allo sviluppo metropolitano delle nostre anemiche città?

La domanda è insomma la seguente. Si può continuare a ritenere che la spesa pubblica d'investimento debba concentrarsi sul solo sostegno all'industria edilizia, a riproposizione dell'eterno modulo invasivo che consuma territorio, deposita immobili senza qualità e spesso neanche riqualifica l'assetto urbanistico? Napoli, Genova, Roma, Bologna e le altre città che beneficeranno di queste risorse hanno davvero bisogno di nuove forse inutili edificazioni, seppur mimetizzate da progetti di risanamento e/o di pubblica necessità?

Con il tempo ci si è accorti che questo genere di progettazioni urbane, tranne alcune (poche) eccezioni, finiscono per rivelarsi perniciose e addirittura devastanti. Non solo perché, essendo bisognevoli di cofinanziamenti privati, si portano dietro generosissime concessioni affaristiche e speculative, che sovraccaricano e a volte vanificano gli obiettivi di partenza. Ma soprattutto perché corrispondono a una strategia di sviluppo ormai del tutto esausta, obsoleta nel metodo e arcaica negli obiettivi, una prospettiva che sempre più rischia di disattendere le intenzioni originarie, e in alcuni casi perfino tradirle.

Questo nostro paese non ce la fa più a sostenere processi di sfruttamento territoriale, grandi opere, infrastrutturazioni invasive e deturpanti, soffocanti plateatici cementizi. E' tempo di smetterla con queste scelte distruttive, che da decenni stressano coste e città, monti e campagne, compromettendo equilibri naturali e sociali. Le proposte di Monti e Passera sono solo vecchiume politico, immobiliarismo sfiorito al servizio di rendite e profitti. Non rilanceranno un bel niente e ci lasceranno ancor più appesantiti e incrostati.

Al contrario, ci sarebbe bisogno di un keynesismo leggero e intelligente, multiforme e incoraggiante, che sfugga alla rituale dialettica pubblico/privato, favorisca la micro-impresa, la cooperazione, il no-profit e s'incentri sull'autogoverno di processi produttivi né pubblici né privati. Una prospettiva d'intervento rivolta all'unica grande opera di cui l'Italia ha bisogno: la propria manutenzione, la propria valorizzazione. E' nel risanamento urbano e territoriale che è necessario investire per creare nuove economie e nuova occupazione, salvaguardando l'ambiente fino a trasformarlo in risorsa strategica, riconvertendo l'esistente dismesso per offrire servizi, e lasciando che a gestire tutto ciò siano nuove forme collettive di ricerca e manifattura.

C'è da riavviare un grande programma di risanamento della terra, lasciandola respirare e (ri)utilizzandola per la produzione agricola, per le coltivazioni di pregio, quelle stesse per cui il mondo apprezza il nostro stile alimentare, e per la loro trasformazione virtuosa, in uno sforzo d'integrazione agro-urbana.

I soldi pubblici vanno spesi per rigenerare il nostro immenso patrimonio artistico e culturale, strappandolo dall'immiserimento in cui le politiche di tutti i governi l'hanno condannato, lasciandolo deperire saccheggiare. Da questa inestinguibile miniera si può estrarre tutto il necessario per sviluppare lavoro e ricchezza, energia e salute, piacere e conoscenza. Si tratta di mettere a valore la nostra storia millenaria, l'archeologia, le arti figurative, l'architettura, l'espressività, la contemporaneità; ma anche la grazia e il garbo del paesaggio, il nostro straordinario ecosistema, il magnifico mare, le splendide montagne.

Quando si ragiona di queste cose, tornano alla mente le parole di Robert Kennedy a proposito di modelli economici. Egli spiegava che tra i coefficienti che determinano il calcolo del Pil mancano proprio quelli che riguardano il benessere degli uomini e delle donne. Che è un po' la riproposizione dell'odierna protesta contro la dittatura finanziaria, laddove si sostiene che una persona è più importante di una banca. Una vigna di malvasia puntinata è più importante di un edificio abitativo, un reperto archeologico è più importante di un centro commerciale. Monti e Passera non lo sanno (o non vogliono saperlo), ma il guaio è che questa loro ignoranza per noi diventa una condanna.

Nel decreto Sviluppo è prevista la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane. Ancor prima di vederne i dettagli, s’impongono due questioni. La prima è il filo diretto con i comuni e il ruolo marginale assegnato alle Regioni: una scelta che potrebbe rivelarsi poco opportuna. La seconda riguarda il finanziamento del progetto. Già di per sé piuttosto modesto, sorgono alcuni dubbi sulla sua effettiva disponibilità. Perché si tratta di risorse dirottate da altri piani di spesa. E alcune sono già state impiegate.

Il decreto legge sullo sviluppo, dopo qualche falsa partenza, è finalmente in carreggiata di marcia. Prevede anche la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane, particolarmente quelle degradate; dovrebbe tradursi nella realizzazione di nuove infrastrutture, in interventi di riqualificazione urbana, nella costruzione di parcheggi, case e scuole. Una cabina di regia sovrintenderà alla sua attuazione, che necessiterà, verosimilmente, di atti amministrativi specifici.
In attesa che la fisionomia del piano si delinei con più precisione, è comunque opportuno soffermarsi su due questioni rilevanti per il suo successo.



UN FILO DIRETTO STATO-COMUNI?



Lo strumento al quale si prevede di ricorrere per attuare il piano è il “Contratto di valorizzazione urbana”, con il quale vengono definiti e disciplinati gli impegni di tutti i soggetti, pubblici e privati, che realizzano interventi in una determinata area. Il piano nazionale per le città è costituito dall’insieme dei contratti di valorizzazione promossi dai singoli comuni e selezionati dalla cabina di regia.
Il baricentro delle decisioni è perciò individuato nelle amministrazioni comunali, mentre diventa marginale il ruolo delle Regioni, che invece finora ha prevalso nelle politiche relative all’edilizia e alla riqualificazione delle città. Per esse è prevista la sola partecipazione alla cabina di regia di un rappresentante della loro conferenza. È un orientamento dovuto, forse, alla convinzione di accelerare per questa via i tempi del piano, e non costituisce una novità assoluta. Già il governo Prodi nel luglio 2006 finanziò, con 99 milioni di euro, direttamente 13 comuni metropolitani per realizzare interventi per ridurre il disagio abitativo. Prima di puntare di nuovo così decisamente sui soli comuni, converrebbe forse capire quale è lo stato di attuazione di quel programma .
Né ci sarebbe da stupirsi se la sottovalutazione del loro ruolo in un piano di tale importanza spingesse le Regioni sulla strada di un contenzioso costituzionale. E potrebbe anche valere la pena di interrogarsi sull'opportunità di rigenerare e riqualificare grandi ambiti urbani senza coinvolgere il livello istituzionale che definisce i contesti di programmazione territoriali e settoriali di ampia scala: è una scelta che farà pendere la bilancia più dal lato dei benefici o da quello dei costi?



NOZZE CON I FICHI SECCHI?



Gli interventi da realizzare con il nuovo piano devono essere, si legge nel decreto, “di pronta cantierabilità”. Condizione, questa, indispensabile per un’iniziativa che vuole contribuire a invertire il ciclo congiunturale negativo e rilanciare l'economia. Non solo l’obiettivo non è supportato da un adeguato finanziamento, ma la distribuzione temporale di quest’ultimo non è coerente con l’intenzione di un rapido avvio degli interventi. Nel complesso, lo stanziamento, modesto, è di 224 milioni di euro (che confluiscono in un apposito fondo istituito presso il ministero delle Infrastrutture e trasporti), diluito nei sei anni dal 2012 al 2017: quest'anno sono disponibili 10 milioni di euro, 24 il prossimo, 40 nel 2014 e 50 per ognuno dei successivi tre anni.
Prescindendo dal loro ammontare, sarebbe, però, opportuno accertare la loro effettiva disponibilità. La quasi totalità, 219,5 milioni di euro, proviene dalle economie dell'articolo 18 della legge 203/1991 (che finanziava la costruzione di alloggi da assegnare agli appartenenti alle forze dell'ordine) “già destinate all'attuazione del piano nazionale di edilizia abitativa” (specifica il decreto sviluppo), promosso dall'articolo 11 della legge 133/2009; questa cifra dovrebbe, quindi, essere “libera”, nel capitolo del bilancio statale sul quale sono allocate le risorse di quel piano. Non sembra, però, sia così.
Per il piano dell’edilizia sono stati stanziati 844 milioni di euro. Cifra, questa, racimolata tra economie e residui di precedenti leggi e per circa 550 milioni di euro revocando i finanziamenti assegnati alle Regioni per la realizzazione di un programma di edilizia residenziale pubblica, in qualche caso già in fase di attuazione al momento della revoca. Un'indagine della Corte dei conti evidenzia che, al 20 dicembre 2011, degli 844 milioni di euro ne erano già stati impegnati 728; i 116.228.083 euro ancora disponibili a quella data sono stati ripartiti tra le Regioni con il decreto 19712/2011 del ministero delle Infrastrutture (non furono allora censiti come impegni dalla Corte dei Conti, che registrò il decreto nel gennaio 2012).
Il piano per l’edilizia abitativa non sembra, dunque, avere risorse libere da travasare in quello per le città. Per liberarle occorrerebbe revocare finanziamenti già assegnati a programmi che sono in avanzata fase di progettazione o anche di realizzazione. Ma se ciò dovesse verificarsi sarebbe come richiamare in vita le vacche che Benito Mussolini spostava da una fattoria all'altra man mano che si procedeva alla loro inaugurazione.

Postilla

Le preoccupazioni di Lungarella sono ragionevoli, ma non sono le uniche né, forse, le peggiori, se teniamo conto del clima e dei precedenti. Il primo segnale di pericolo è nel titolo del nuovo strumento: “Contratto di valorizzazione urbana”. Sappiamo fin troppo bene che, quando si parla di “valorizzazione” nelle politiche urbane e territoriali ci si riferisce all’aumento della rendita urbana e della quota di essa che ne viene a quelli che una volta si chiamavano speculatori, e oggi “investitori immobiliari. Sappiamo che dal pensatoio (si fa per dire) dal quale emergono questi strumenti, sono nati e proliferati quei progetti speciali, battezzati con accattivanti denominazioni, tutti orientati a facilitare gli affari degli “investitori immobiliari derogando dalle regole di una corretta pianificazione urbanistica e di un’adeguata partecipazione sociale. A chi serviranno i pochi spiccioli sottratti ad altri programmi pubblici. A migliorare la qualità dei quartieri investiti dalla valorizzazione” per i loro attuali abitanti, ad accrescere la quota dello stock di edilizia residenziale utilizzata da chi non può accedere al “mercato”? o a migliorare il “portafoglio titoli” dei soli noti. Vigilate, genti, vigilate.

Nonostante la crisi, nonostante la stretta del credito e la generale freddezza del mercato immobiliare, gli immigrati comprano alloggi. E se per gli italiani nell’ultimo anno i rogiti sono diminuiti del 6,5 per cento, per gli stranieri è vero il contrario: loro hanno preso casa più dell’anno scorso, sono il 10,5 per cento dei nuovi proprietari (acquisti aumentati dell’1,5 per cento). Il rapporto 2012 dell’Osservatorio nazionale dell’istituto di ricerca Scenari immobiliari racconta che nel 2011, nel nord Italia, i cittadini stranieri hanno acquistato circa 43mila abitazioni: il 70 per cento delle compravendite concluse a livello nazionale da parte di famiglie extracomunitarie. Di queste, un quinto sono state definite in Lombardia.

Il rapporto spiega che il 63 per cento dei residenti stranieri vive in affitto, ma chi ha un progetto migratorio a lunga scadenza, chi abita in Italia da oltre dieci anni, si mette in moto per acquistare l’alloggio. Ormai un immigrato su cinque vive in appartamento di proprietà, con un aumento di mezzo punto rispetto a un anno fa. Tra il 2004 e il 2008, inizio della crisi economica, gli immigrati erano protagonisti del boom immobiliare, essendo passati dal 12 al 17 per cento degli acquisti. Ma dalla crisi, il mercato si è bloccato anche per la contrazione del credito bancario - fondamentale per chi ha pochi risparmi, pochi contanti e non altra fonte di finanziamento oltre al proprio reddito da lavoro - e quindi gli acquisti degli immigrati hanno perso progressivamente peso rispetto al volume complessivo degli scambi, scendendo di nuovo fino al 9 per cento del totale nel 2010. Nell’anno successivo comunque si sono visti segnali di risveglio e gli immigrati sono tornati a comprare il 10,5 per cento del totale delle case vendute.

Scenari Immobiliari, attraverso interviste ad agenti immobiliari, ha calcolato che la spesa media per abitazione nell’ultimo anno è stata di 105mila euro, con un calo di quasi 2 punti percentuali rispetto al 2010. I prezzi delle case sono infatti un po’ diminuiti, inoltre i lavoratori stranieri hanno comprato case più piccole e periferiche. Le banche concedono mutui a chi ha un lavoro stabile da più tempo e a chi risiede da almeno dieci anni. La decisione di passare dall’affitto alla proprietà è un segnale di forte desiderio di radicamento e di un progetto migratorio allargato alla famiglia.

Circa la metà dei contratti viene firmato da cittadini dell’est europeo, dato ovvio considerando che solo i romeni sono oltre un milione in Italia, oltre 200mila fra romeni e albanesi sono i residenti dell’est in Lombardia, le due comunità più numerose. Gli asiatici dell’area indiana e cinese assieme conquistano un altro quarto del mercato immobiliare, mentre sono in calo (dal 15 al 7 per cento dal 2005 a oggi) gli acquisti da parte dei nordafricani, forse anche perché residenti da più tempo e quindi ormai già stabilizzati in case di proprietà.

Le case acquistate sono nell’85 per cento dei casi in condomini residenziali di tipo economico, con uno stato di conservazione discreto, dal costo compreso fra 90 e 140mila euro. Si tratta quindi di bilocali, più raramente di trilocali. La superficie media acquistata è passata da 44 a 46 metri quadrati nel giro di un anno. Gli alloggi si trovano in periferia (34 per cento) o meglio ancora in provincia: 46 per cento), dove i prezzi scendono e l’offerta è più abbondante. «Nell’ultimo anno - si legge nel rapporto - gli agenti immobiliari riferiscono che la domanda è stata più orientata all’alloggio in affitto, ma anche questa soluzione comporta problemi notevoli per la difficoltà di reperimento degli alloggi (anche a causa dei pregiudizi), per i canoni elevati (spesso ritoccati verso l’alto per gli immigrati), per i contratti irregolari e la scarsa qualità degli immobili».

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Riassunto: una buona notizia, una così così, una potenzialmente molto incoraggiante se si coglie l’occasione. La buona notizia è quella di cui si occupa sostanzialmente l’articolo, ovvero che pian piano avanza l’integrazione dei nuovi cittadini, anche dal punto di vista dell’impegno economico e degli interessi personali “ancorati” al territorio, contribuendo fra l’altro a tenere a galla un settore particolarmente colpito dalla recessione. La notizia così così è che il nostro mercato della casa in affitto continua a non rispondere minimamente alla richiesta del mercato, se anche nuclei familiari più mobili ed economicamente un po’ meno solidi della media nazionale decidono di optare per l’acquisto, probabilmente dopo aver vissuto gli infiniti disagi e forse soprusi delle case in affitto. Ma c’è un aspetto forse ancor più interessante per il futuro del nostro territorio, che emerge solo se si leggono le percentuali: decisamente incoraggiante quell’85% di appartamenti, se studiato e interpretato adeguatamente.

Fra gli effetti territoriali più perversi di uno sviluppo a bassa densità assai poco sostenibile c’è infatti il meccanismo del cosiddetto “mutuo virtuale differito”, ovvero di quella quota, a volte gigantesca, del costo reale dell’abitazione che si scarica da un lato sulle spese familiari per i trasporti, e dall’altro sulla collettività in termini di inquinamento, consumo di suolo, costi economici infrastrutturali. L’attuale tendenza spontanea dei nostri immigrati a preferire, nonostante tutto (nonostante nuclei familiari mediamente più ampi ad esempio), quartieri densi alla dispersione, va sicuramente compresa meglio e sostenuta con adeguate politiche. Almeno se si vogliono evitare per il futuro prossimo le orribili e problematiche “villettopoli etniche” dove il degrado, oltre ad essere sostanzialmente identico a quello dei quartieri urbani ghetto che già conosciamo, è pure nascosto e diluito tanto quanto i metri cubi, ma non per questo meno pernicioso (f.b.)

Il comma 16 dell’articolo 29 del D. L. 29 dicembre 2011, n.216, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative, ha spostato in avanti di un anno (al 31 dicembre 2012) l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili destinati ad abitazione. La proroga degli sfratti fu chiesta dai sindacati degli inquilini per evitare che famiglie a basso reddito e in condizioni di particolare di disagio sociale restassero senza una casa. Date le particolari situazioni di difficoltà familiari che devono verificarsi affinché essa possa essere applicata, questa norma non avrà un impatto quantitativamente significativo.

I sindacati chiesero anche la sospensione degli sfratti per i "morosi incolpevole" , come possono essere definiti gli inquilini che smettono di pagare l'affitto a causa di una riduzione di reddito per la perdita del posto di lavoro o per la collocazione in cassa integrazione (se lavoratori dipendenti) o per la cessazione dell’attività (se lavoratori autonomi). Il governo non esaudì la richiesta dei sindacati, anche se con l’avanzare della crisi economica e dell’occupazione cresce il numero di famiglie che ha perduto o sta perdendo la casa. Ma un’estensione della sospensione degli sfratti ai morosi incolpevoli può essere proposta senza una sua eccessiva (nonché temporanea) gravosità sui conti pubblici.

I beneficiari della proroga

La proroga si applica solo agli inquilini per i quali ricorrono le condizioni oggettive e soggettive definite dalla legge 9/2007. Le abitazioni devono essere localizzate nei comuni capoluoghi di provincia e in quelli o ad essi confinanti con più di 10.000 abitanti oppure classificati ad alta ten-sione abitativa; gli inquilini devono avere un reddito imponibile annuo familiare non superiore a 27.000 euro ed avere nel proprio nucleo un ultrasessantacinquenne, un malato terminale, un por-tatore di handicap invalido almeno al 66% oppure figli fiscalmente a carico. La proroga si applica solo ai casi di finita locazione dell'immobile, con esclusione degli sfratti per morosità; durante il periodo di sospensione di esecuzione dello sfratto l'inquilino deve corrispondere il canone maggiorato del 20%.

Il numero di inquilini sfrattati che versa in condizioni di così grave disagio non è (fortunatamente) eccessivamente elevato: la relazione tecnica alla norma che introduce la nuova proroga li stima in 1.300. Poiché è previsto che i proprietari degli immobili non dichiarino al fisco, durante il periodo di sospensione, il reddito da canone, la stessa relazione tecnica stima, nel 2013, minore entrate per 3,38 milioni di euro, con un costo fiscale unitario per sospensione di 2.600 euro. Con un'aliquota Irpef media del 33%, questo risparmio d'imposta unitario lo si ottiene applicandolo ad un cannone medio 9.300 euro all'anno circa (circa il 40% di ciò che resta di un imponibile di 27.000 euro dopo l'Irpef). Tra l'incremento di canone, pagato dall'inquilino durante il periodo di sospensione dello sfratto, e lo sconto fiscale, il proprietario viene "risarcito" con una premio di circa 4.500 euro su base annua per il ritardo con il quale è costretto ad entrare in possesso del suo immobile.

La crescita degli sfratti per morosità

Nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone del dato rilevato dal ministero dell'interno) sono stati emessi circa 65 mila provvedimenti di sfratto. Nel 2008, invertendo la tendenza alla contra-zione del fenomeno che aveva caratterizzato i tre anni precedenti, il numero di provvedimenti emessi superò le 52 mila unità, con un aumento di quasi un quinto rispetto all'anno precedente; nel 2009 divennerò circa 61.500 (+17,6%). Questo aumento numerico è interamente spiegato dalla crescita del numero di sfratti per morosità: da 33.500 del 2007 si passa ai 41.000 circa del 2008 per crescere a 51.600 nel 2009 e superare i 56.000 del 2010. Dalla fine del regime contrat-tuale dell’equo canone la morosità è sempre stata la causa relativamente prevalente di sfratto. Nella media del triennio 2008-2010 il mancato pagamento dei canoni ha motivato l’83% del nu-mero totale di sfratti, contro il 75% del triennio precedente. In alcune delle province più indu-strializzate questa percentuale ha superato, nel 2010, il 90%: Brescia e Vicenza quasi il 95%, Modena il 94%, Torino il 92% . I sindacati degli inquilini collegano l'aumento del numero delle famiglie che ha smesso di pagare l'affitto all'aggravarsi della crisi economica e occupazionale, con conseguente crescita di quella che essi classificano come morosità incolpevole.

Un’ipotesi di lavoro

Possiamo formulare un’ipotesi finanziariamente non velleitaria per una temporanea sospensione dell’esecuzione degli sfratti dei morosi incolpevoli. Il loro numero può essere quantificato nell'intero aumento del numero di sfratti per morosità del triennio 2008-2010: per approssima-zione in media 7.000 all'anno, che possono diventare 10.000 con il perdurare della crisi; ipotiz-ziamo che il canone medio sia di 8.000 euro, che diventano 6.320 euro netti nel caso di tassazione con cedolare secca 21%.

Condizione necessaria per la sospensione dello sfratto è che il proprietario riceva il canone al netto dell’imposta e che il nucleo familiare moroso si impegni a pagarlo. Poiché il moroso incol-pevole non è in grado di pagare il canone, deve farlo lo Stato al suo posto (almeno come antici-pazione); per non più di due anni, in modo da contenere il rischio che scatti la trappola della po-vertà. L'intervento potrebbe essere previsto in via sperimentale per cinque anni (la nottata dovrà pur passare!). Per aiutare 10.000 famiglie ogni anno (50.000 nel quinquennio), l’onere per il bi-lancio statale sarebbe di 63,2 milioni di euro il primo (e il sesto) anno e di 126,4 a partire dal se-condo fino al quinto.

Cifra non trascurabile, ma sopportabile per il bilancio statale se spalmata nel tempo. Ai proprie-tari degli alloggi andrebbe riconosciuto per cinque anni un credito d'imposta pari ad un quinto dell'importo del canone spettante al netto dell'imposta (cioè 1.264 euro), con una perdita di getti-to che cresce progressivamente in ragione annua di 12,64 milioni di euro l'anno, fino a raggiungere il massimo di 63,2 milioni il quinto anno dall'avvio dell'intervento, riprendendo successivamente a calare fino a tornare a 12,64 milioni al nono anno dall’inizio dell’intervento. Il costo complessivo dell’intervento, ripartito su 9 anni (e non su 5), sarebbe relativamente contenuto nei primi, che sono quelli più prossimi in cui il bilancio statale continuerà ad accusare maggiori sofferenze.

Il proprietario dell’immobile riceve in cinque anni l'importo netto del canone che avrebbero diritto di ricevere in un anno, ma conserva un inquilino che fino a quel momento aveva corrisposto puntualmente l’affitto, e che, superato il momento di difficoltà riprenderà, verosimilmente, a far-lo.

La perdita di gettito che il bilancio statale deve sopportare potrebbe essere temporanea e recupe-rabile. I beneficiari della sospensione degli sfratti, dovrebbero, infatti, impegnarsi a restituire allo stato gli importi anticipati. Ogni nucleo familiare inizierebbe a farlo dal momento in cui recupera il suo livello di reddito di pre-morosità, rinunciando alle detrazione Irpef che il vigente regime di tassazione dei redditi accorda ai diversi tipi di redditi da lavoro. Questa rinuncia dovrebbe pro-trarsi per il numero di anni necessari a saldare quello che diverrebbe un “debito d’imposta”, e impegnare tutti i membri maggiorenni del nucleo familiare.

Con la finanziaria di mezza estate approvata dal parlamento (legge del decreto legge 112/2008, legge di conversione 133/2008) sotto il titolo “misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico” (articolo 13), il governo propone un piano di alienazione, o meglio di svendita, di quel patrimonio. Se questa previsione dovesse realizzarsi sparirebbe il patrimonio di edilizia residenziale pubblica necessario per dare una risposta a chi non potrà mai soddisfare la propria domanda di casa rivolgendosi al mercato e produrrebbe incomprensibili iniquità-

La svendita del patrimonio altrui

Le nuove norme affidano ad accordi tra gli i Ministri dei trasporti e infrastrutture e per i rapporti con le regioni, da un lato, e le regioni e gli enti locali, dall’altro, la definizione delle procedure per la vendita degli alloggi pubblici. Gli accordi dovrebbero rispettare questi requisiti: a) i prezzi di vendita dei singoli alloggi devono essere proporzionati ai canoni pagati dai rispettivi assegnatari in locazione; b) agli assegnatari, che non siano già in possesso di un’altra abitazione e morosi nel pagamento del canone, è riconosciuto un diritto di opzione all’acquisto; c) i proventi delle alienazioni devono essere impiegati per finanziare interventi per alleviare il disagio abitativo.

Proprietari degli alloggi sono gli istituti autonomi case popolari, nella gran parte dei casi, e gli enti locali, in qualche regione. Non sono mai le amministrazioni statali. Il governo promuove, quindi, l’alienazione di un patrimonio che non è suo e regolamenta una materia sulla quale la corte costituzionale ha già ritenuto illegittimo l’intervento dello stato. Occorre ricordare, infatti, che l’articolo 13 del D.L. 112/2008 ha la stessa struttura ed anche gli stessi contenuti dei commi 597-598 della legge 266/2005 (legge finanziaria per 2006, approvata dal precedente governo Berlusconi), dichiaratati illegittimi dalla corte costituzionale con la sentenza 94/2007.

E occorre anche ricordare che molte regioni hanno già regolamentato l’eventuale vendita di alloggi pubblici, stabilendo condizioni che sono molto più eque ed efficaci di quelle previste dal governo.

Beneficio chiama beneficio

La finalità dell’alienazione del patrimonio di alloggi pubblici, dovrebbe “favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi” (articolo 13, comma 1). Verosimilmente si pensa di perseguire questo obiettivo costruendo nuovi alloggi con i proventi delle alienazioni (il criterio c degli accordi). Ma quella che viene proposta, solo in misura molto contenuta può essere considerata una misura di politica per la casa con cui contribuire a risolvere i problemi dei soggetti in condizione di disagio abitativo di origine economica generato dall’inadeguatezza dei loro redditi a sostenere i prezzi di mercato dei contratti di locazione o vendita.

La proposta ha, però, una indubbia impronta politica, che evoca la parola d’ordine della ownership society, lanciata nella seconda campagna elettorale di Bush, che però non gli portato molta fortuna. Essa va incontro all’aspirazione della gente a diventare proprietari della casa, per ragioni simboliche e materiali.

In questo caso, però, la diffusione della proprietà non aiuta a restringere l’area del fabbisogno abitativo, come, invece avviane, con i programmi di edilizia agevolata che incentivano l’acquisto della prima abitazione in proprietà da parte di famiglie che non hanno ancora potuto soddisfare la loro domanda di servizi abitativi. Il piano di alienazione che il governo intende realizzare si rivolge, infatti, a soggetti ai quali le politiche di welfare nel settore della casa hanno già risolto il problema; nella stragrande maggioranza dei casi in maniera definitiva, poiché sono rari quelli in cui l’inquilino di un alloggio pubblico decade dall’assegnazione. L’attenzione è rivolta agli “inclusi”, che il problema della casa lo hanno già risolto, piuttosto che agli “esclusi”, che da soli non hanno i mezzi per risolverlo.

Le condizioni di acquisto previste sono talmente vantaggiose per gli inquilini che di fatto essi beneficiano di una di prestazione agevolata che si aggiunge a quella consistente nel pagamento fino a quel momento di canoni molto al di sotto di quelli di mercati.

È scritto valorizzazione si legge svendita

La previsione di determinare il prezzo di vendita di ogni alloggio in “proporzionale al canone” pagato dal suo inquilino, rischia di rendere i risultati del piano economicamente risibili. Questo meccanismo di determinazione è tra i più iniqui ed anche il meno efficace, ai fini della valorizzazione economica del patrimonio e del soddisfacimento del fabbisogno abitativo.

I canoni degli alloggi sono determinati, sulla base delle normative delle singole regioni, considerando anche il reddito di ogni singolo assegnatario. Se non è proprio proporzionale al reddito, il canone è comunque da esso influenzato. Ad alloggi aventi le stesse caratteristiche possono essere, pertanto, applicati canoni diversi. Di conseguenza due alloggi aventi esattamente le stesse caratteristiche potranno avere prezzi di vendita anche molto differenti l’uno dall’altro e due soggetti con lo stesso reddito possono diventare proprietari dei rispettivi alloggi aventi valori di mercato diversi l’uno dall’altro.

I canoni sono in genere molto bassi, a livello nazionale in media intorno ai 1.000 euro all’anno. Il decreto non lo specifica, ma, verosimilmente, il prezzo di vendita dovrà essere un multiplo del canone. Per valutare gli effetti del meccanismo, ipotizziamo che sia un multiplo molto alto, per esempio 40 . Chi paga un canone annuo di 1.000 euro potrà acquistare l’appartamento per 40 mila euro. Detto diversamente si può ipotizzare che il prezzo di vendita dell’alloggio sia pari all’importo corrispondente a 40 anni di canoni. Questo numero di anni è già molto elevato: per chi paga canoni tanto bassi, più si eleva il numero di anni e meno conveniente, sul versante finanziario, diviene acquistare l’alloggio.

Se questo prezzo fosse “ammortizzato” pagando mensilmente il canone attuale, la “valorizzazione” sarebbe nulla o molto ridotta, poiché si otterrebbero dei ricavi di ammontare e con profili temporali simili a quelli dei canoni. In questo caso, se si vendessero proprio tutti gli alloggi, si potrebbe, in via ipotetica, ottenere un risparmio pari alle spese di gestione degli alloggi stessi (e quindi alle spese di funzionamento degli Iacp o delle strutture che ora svolgono questa funzione, e che in seguito non avrebbero più ragione di esistere). Questo in via teorica: di fatto non sarebbe così, a meno di non licenziare il personale addetto a tale compito.

Se l’intero prezzo fosse pagato in un’unica soluzione, al momento del trasferimento della proprietà dell’alloggio, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo appartamento occorrerebbe venderne almeno 4 o 5 dei vecchi.

Questo risultato, sebbene contenuto, non è, tuttavia, assicurato. Va infatti osservato che qualora fosse attribuito ai singoli assegnatari la facoltà di acquistare o meno gli alloggi abitati (e, d’altra parte, a nessuno di essi può essere imposto di acquistare), una parte degli alloggi posti in vendita potrebbe non essere acquistata. Si creerebbero così “condomini misti”: una parte degli alloggi continuerebbe ad essere di proprietà pubblica ed una parte sarebbe di singoli privati (come insegna l’esperienza dei precedenti piani di alienazione ex legge 560/93). Nei casi in cui questi ultimi detengono la maggioranza delle quote condominiali, potrebbero procedere a ristrutturazioni delle parti comuni degli immobili, alle spese per quali il proprietario pubblico non può sottrarsi. È allora molto probabile che una parte rilevante dei proventi delle vendite debba essere investita non per la realizzazione di nuovi alloggi, ma per ristrutturare quelli di cui il settore pubblico ha conservato il possesso. Con la conseguenza che potrebbero anche evaporare del tutto le risorse per nuovi appartamenti.

Il centro studi conservatore-liberista britannico Policy Exchange ha appena pubblicato il rapporto “Making Housing Affordable - A new vision for housing policy” , di Alex Morton eNatalie Evans, di cui alleghiamo il testo integrale in formato .pdf. É dedicato al problema della casa ed è fondato su due capisaldi: il trasferimento delle decisioni di trasformazione alla "responsabilità locale" (si badi: non dell'amministrazione locale, ma di una governance dove prevalgono gli interessi privati); la liquidazione progressiva del patrimonio di case popolari attraverso un "percorso alla proprietà". Si tratta della modulazione britannica della strategia globale del neoliberismo, certamente meno buzzurra di quella italiana ma altrettanto letale nelle sue conseguenze territoriali e sociali. eddyburg ne riporta qui una sintesi nella traduzione di Fabrizio Bottini.

Titolo originale:Making Housing Affordable - A new vision for housing policy – Estratto tradotto da Fabrizio Bottini

Making Housing Affordable delinea un modo per migliorare i risultati sociali complessivi (proprietà della casa, occupazione) risparmiando 20 miliardi di sterline l’anno.

Presupposto essenziale del rapporto è che:

Siamo di fronte a una crisi delle abitazioni. Negli ultimi decenni prezzi delle case e affitti sono aumentati nel nostro paese molto più rapidamente che in altri, facendo crescere la spesa pubblica in Housing Benefit e costruzione di case economiche e popolari, e facendo diminuire la proprietà dell’abitazione. Certo hanno pesato anche altri fattori (es. il sistema dei prestiti), ma il fattore determinante nella crisi delle abitazioni è la scarsità dell’offerta. La quantità di nuove costruzioni si è più che dimezzata negli ultimi decenni, sino a toccare livelli decisamente fra i più bassi dei paesi sviluppati. Le case popolari non rispondono all’esigenza. Le attuali politiche per l’abitazione sociale spingono verso un tipo di dipendenza non sostenibile dagli interventi di assistenza per inquilini sempre più poveri, cosa sottolineata dallo “inspiegabile divario” fra i loro tassi di occupazione e quelli parecchio più elevati di soggetti simili ma esclusi dagli interventi. E questo determina gli incredibili incentivi per gli inquilini dell case popolari.

Si propongono le seguenti soluzioni:

Ridurre gli incrementi di prezzo/affitto delle case aumentando il numero delle nuove costruzioni. I dati evidenziano come l’attuale regime di autorizzazione urbanistica determini una carenza dell’offerta e un incremento dei prezzi, sia necessario costruire invece un sistema di “controllo locale”, verso un modello urbanistico consensuale, dove chi è soggetto alle trasformazioni (non l’amministrazione locale) decide se autorizzarle o meno. Così che gli incentivi finanziari e le migliorie legati a queste trasformazioni possano beneficiare direttamente gli abitanti. Ciò farebbe crescere notevolmente sia la quantità e qualità delle nuove costruzioni. E mantenere bassi gli affitti, i prezzi, la spesa pubblica per Housing Benefit, oltre che contenere anche l’inflazione. Qui risulta essenziale l’azione del governo, ma non si escludono altri interventi.

Cambiare radicalmente il sistema degli incentivi per gli inquilini delle case popolari. Si deve porre termine all’attuale distribuzione “secondo i bisogni”, e l’abitazione sociale diventare uno dei passaggi intermedi verso la proprietà della casa per chi lavora, eliminando il perverso sistema degli incentivi e riducendo quello “inspiegabile divario” nei tassi di occupazione. Gli inquilini delle case popolari dovrebbero essere sostenuti nell’accesso alla proprietà rinnovando il sistema del Right to Buy e parificando tendenzialmente gli aiuti all’affitto con quelli all’acquisto: così che non ci siano più inquilini che pagano di più per acquistare di quanto non si paghi per l’affitto.

Creare un nuovo modello di “Percorso verso la proprietà” per case economiche e realizzare più case popolari. Sul lungo periodo, con la maggiore accessibilità all’abitazione propria, diminuisce la domanda per la casa popolare. Ma al momento attuale esiste una urgenza. L’attuale modello di forti sostegni non è praticabile, e quindi se ne propone uno nuovo, che consenta la realizzazione immediata di molte case popolari praticamente a costo zero. Le riforme delineate in questo rapporto possono produrre risparmi per circa 20 miliardi di sterline l’anno a partire da subito e continuando in futuro.

Risparmi che derivano da:

● Riduzione della spesa attuale per case economiche e popolari.

● Vendita sul libero mercato dello stock esistente (se di particolare valore) o secondo il nuovo percorso Verso la Proprietà, continuando la costruzione di nuove case popolari.

● Via via, risparmiando le quote di Housing Benefit dato che gli affitti cresceranno più lentamente.

● Via via, riducendo la dipendenza dal welfare degli inquilini delle case popolari.

Di seguito scaricabile il rapporto integrale originale; si veda anche qui in eddyburg.it, sul rapporto fra politica urbanistica britannica attuale e problema della casa, l'opinione dell'esperto Peter Hetherington dal Guardian (f.b.)

Titolo originale: This government is rapidly demolishing the housing industry – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nel travagliato settore della casa, con una produzione crollata ai minimi storici, il termine “smantellamento” pare particolarmente rilevante in ambito pubblico così come privato fra i principali interessati. Descrive bene l’atteggiamento complessivo del Ministero per le Aree Urbane [ Department for Communities and Local Government – CLG] che sino a non molto tempo fa fissava i propri obiettivi per la realizzazione di case attraverso piani regionali. Poi, con nuovo ministro Conservatore, Eric Pickles, si è deciso di eliminare tutto quanto e di far tornare al tavolo da disegno le amministrazioni locali.

Via gli obiettivi coordinati, e per certi versi anche via le procedure urbanistiche attraverso le quali venivano autorizzate le nuove abitazioni. Risultato? Centinaia di progetti rinviati, o del tutto eliminati, e decine di migliaia di case in meno. Conseguenze per gli assegnatari, 4,5 milioni di persone nelle liste d’attesa municipali per l’abitazione sociale, e tante giovani coppie sempre più ansiose di accedere alla prima casa, che a quanto pare non possono pensarci più.

Chi poteva essere ragionevolmente convinto che con un governo di coalizione, temperato dall’influenza dei Liberaldemocratici, si adottassero strategie pragmatiche, ha invece capito di avere a che fare con ministri ideologizzati, per cui la parola “pianificazione” suona come un insulto.

Gli addetti al settore ricordano bene come un alto esponente del ministero abbia dichiarato nel momento di entrare in carica: “Al governo mi comporterò esattamente come all’opposizione”. E pare che sia proprio questo il problema, ovvero non riflettere sulle conseguenze di affermazioni che forse si conquistano i titoli dei giornali, ma che possono dare ulteriori colpi al già fragile settore, agli enti per la casa, ai costruttori, ad amministrazioni locali che vorrebbero fare la loro parte nella realizzazione di case di cui si sente un disperato bisogno.

La Home Builders Federation, che rappresenta i grossi operatori, ha fatto dei calcoli secondo cui sono 60 le amministrazioni che hanno rinviato i progetti, in attesa di chiarimenti da parte del ministero retto da Pickles, o si rifiutano di rivedere i programmi per la casa o modificare i piani di localizzazione adottati. La National Housing Federation (NHF), che rappresenta gli enti senza scopo di lucro, valuta che siano 85.000 le nuove abitazioni per cui si sono bloccati i progetti dopo la perentoria eliminazione di Pickles del sistema di programmazione regionale.

Quello che preoccupa di più la NHF è chei tagli di 450 milioni di sterline alla governativa Homes and Communities Agency fanno intravedere un riduzione del 40% al bilancio per i prossimi anni. La federazione traduce tutto questo in 284.000 posti di lavoro in meno, fra persi e non creati, mezzo milione in più nelle liste d’attesa.

Gli investimenti governativi per la casa avrebbero comunque subito un taglio, indipendentemente dallo schieramento vincitore delle elezioni. Ma perché agire con tanta ideologica fretta, spinti da un viscerale disgusto per tutto quanto riguarda i programmi per la casa, la dimensione regionale, e a quanto pare anche la stessa pianificazione urbanistica? Costruire un simile contesto di incertezza non solo mette a repentaglio posti di lavoro, redditi, sistema di finanziamento delle costruzioni, ma anche le speranze di chi cerca casa.

La pianificazione ha sempre funzionato in Gran Bretagna. Con le green belt, con la cura e salvaguardia delle nostre città grandi e piccole, in genere siamo sempre riusciti ad evitare lo sprawl sul modello del nord America. O quasi. In epoca Thatcheriana, uno dei predecessori di Pickles si è divertito a minare il sistema, consentendo quell’ondata di centri commerciali extraurbani che ancora oggi degrada le campagne. Significa questo, lo “smantellamento”. Non è una bella cosa, comunque lo si voglia presentare.

Nota: su Mall_int naturalmente English version e nella varie cartelle del sito in italiano molti altri contributi sul dibattito britannico e internazionale (f.b.)

Carta patinata, quattro facciate e in prima pagina la foto di un’elegante porta d’ingresso ripresa dall’alto e di uno zerbino dove sta scritto: “Da inquilino a proprietario il passo è breve, non devi neanche uscire di casa”. Firmato Enasarco, l’ente di previdenza dei 400 mila rappresentanti di commercio e promotori finanziari. Migliaia di depliant di questo tipo sono stati diffusi in questi giorni nei palazzi di proprietà dell’istituto, con un volantinaggio di massa che ha avviato il lancio del piano Mercurio, cioè la vendita del gigantesco patrimonio immobiliare dell’ente, 17.063 appartamenti di cui 15.245 solo a Roma, per un valore di circa 4,5 miliardi di euro. Un’impresa che durerà mesi e sta scatenando una guerra tra inquilini ancora prima che sia venduto il primo alloggio.

I portavoce dell’ente raccontano che il call center è tempestato di telefonate di gente che vuole dettagli sull’affare e preme perché i contratti si facciano alla svelta. Sempre secondo le stesse fonti, le condizioni offerte non solo sono trasparenti in quanto garantite da un accordo siglato con i sindacati, ma sarebbero particolarmente vantaggiose per gli acquirenti: sconto del 30 per cento sul prezzo a metro quadro fissato dall’Agenzia del territorio, mutui Bnp Paribas-Bnl della durata di 40 anni con interessi ridotti e senza spese di perizia, costi notarili bassi, possibilità di far partecipare all’acquisto anche parenti fino al quarto grado dei titolari dei contratti di affitto.

In effetti per le centinaia di affittuari privilegiati e di lusso dell’ente, dal ministro Elio Vito al vice Roberto Castelli, dai parlamentari ai sindacalisti, quei signori che per alloggi nelle zone in di Roma e Milano hanno pagato per anni canoni da case popolari, poter comprare a quelle condizioni è la ciliegia sulla torta: dopo una vita da inquilini vip ora diventerebbero proprietari in carrozza. Anche per gli affittuari con redditi medi e medio-alti l’offerta di acquisto delle case può risultare un’occasione vantaggiosa, anche se a costo di molti sacrifici.

Ma il pianeta Enasarco ha anche un’altra faccia: migliaia di inquilini anziani con redditi bassi o medio-bassi e famiglie di lavoratori dove in casa entra solo uno stipendio, probabilmente la maggioranza, che considerano il piano Mercurio non un affarone, ma una sòla, una pistola puntata alla tempia, pronta ad esplodere facendoli sprofondare nella miseria. Per far sentire le loro ragioni si sono organizzati in comitati; solo a Roma ne sono sorti una dozzina, dall’Ostiense a Monteverde, da Torre Rossa alla Cassia. Conti alla mano, nonostante tutti gli sconti e le garanzie, loro, gli inquilini con i redditi più bassi, non ce la faranno mai a comprarsi casa.

Prendiamo un caso classico: un pensionato ultrasessantenne con un reddito mensile netto tra i 1.000 e i 1.500 euro che abita in un appartamento tra i 60 e gli 80 metri quadri. Dando per scontato che non abbia i 180 mila euro per comprarsi sull’unghia e con lo sconto la casa, dovrà per forza accendere un mutuo. Dal momento che non può usufruire di quello della durata di 40 anni pubblicizzato nei dépliant Enasarco e riservato a chi ha al massimo 38 anni, il nostro pensionato bene che vada otterrà un mutuo di 15 anni e dovrà pagare una rata mensile di 1.350 euro, a cui dovrà aggiungere la rata del condominio e le spese per la manutenzione straordinaria, particolarmente onerose in immobili generalmente trascurati come quelli in vendita. Insomma, dovrà decidere se rinunciare alla casa o fare la fame.

Se rinuncerà all’acquisto, però, non sarà salvo, perché entrerà nel girone dei dannati dello sfratto. Non subito, magari, perché tra le “clausole di tutela dell’inquilinato” ce n’è anche una che consente agli affittuari di restare negli alloggi invenduti per 5 anni, con una proroga di altri 3. La regola, però, vale solo per determinate categorie: chi è senza famiglia e ha un reddito imponibile sotto i 30 mila euro all’anno, oppure chi vive con un familiare e non supera i 33 mila euro fino ad arrivare a 42 mila euro per una famiglia di 4 persone. Dopo i 5 anni di tregua, gli alloggi invenduti saranno comunque trasferiti dall’Enasarco a fondi immobiliari gestiti da Prelios (la ex Pirelli Re) e da Paribas Real Estate. E a quel punto per gli inquilini le possibilità di non essere buttati fuori di casa si ridurranno davvero al lumicino.

Strada facendo gli inquilini anziani e le famiglie con redditi bassi hanno trovato alleati inaspettati: le organizzazioni dei rappresentanti di commercio tipo la Federagenti o l’Ugifai e quelle dei promotori finanziari come l’Anasf, assai dubbiose sull’operazione Mercurio. Agenti di commercio e promotori, cioè coloro che ogni mese pagano fior di contributi all’Enasarco, temono che la vendita del patrimonio immobiliare si trasformi in un boomerang e finisca per affossare l’ente i cui conti sono già abbastanza malmessi, mandando in fumo le pensioni future. Secondo loro l’operazione di vendita degli appartamenti, pensata per incamerare un’ottimistica plusvalenza di 1,4 miliardi di euro in tre anni (500 milioni nel 2011, 600 nel 2012 e 300 nel 2013), è sbagliata perché polverizza il patrimonio immobiliare, trasferisce il ricavato in investimenti in titoli ed azioni in un momento di grande volatilità del mercato finanziario e quindi rischia di trasformarsi in un bagno storico.

Carlo Massaro, presidente dell’Ugifai, un passato da consigliere Enasarco dove contribuì a bloccare l’operazione di vendita dei palazzi dell’ente ai “furbetti del quartierino” di Stefano Ricucci, lo ha scritto in maniera chiarissima in una lettera alla commissione parlamentare degli enti gestori: “Trasformare oggi il mattone in moneta significa correre rischi enormi”. Il presidente dei promotori finanziari Anasf, Elio Conti Nibali, ci aggiunge un carico da novanta: “I dirigenti Enasarco ritengono di far fruttare al 3,5 lordo per 10 anni il ricavato delle vendite immobiliari. É un’illusione”. Una proiezione attuariale preparata dallo studio Orrù e consegnata a Luca Gaburro, segretario della Federagenti, dimostra inoltre che la gigantesca vendita degli immobili Enasarco non è in grado di garantire la sostenibilità finanziaria trentennale stabilita per legge a garanzia dell’erogazione delle pensioni e quindi sarebbe inevitabile un inasprimento della quota contributi-va, addirittura il raddoppio. Insomma, i conti Enasarco stanno saltando e il progetto Mercurio non è risolutivo. Riflette Gaburro: “Per salvare le nostre pensioni, a questo punto l’unica strada è passare armi e bagagli l’Enasarco all’Inps”.

Crisi o non crisi le famiglie italiane continuano a non indebitarsi troppo. Soprattutto nel confronto degli altri europei degli americani e dei giapponesi. Quando lo fanno, poi, è principalmente per accendere un mutuo e comprare casa, che rappresenta il pezzo forte del loro patrimonio. Lo rivela l’indagine Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2009, cioè il secondo anno di recessione, il più "nero"della crisi. Si tratta quindi di dati condizionati da una realtà congiunturale difficile, che confermano la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi fortunati ma che dimostrano anche che gli italiani, forse per la connaturata voglia di risparmiare e per l’attaccamento al mattone, resistono meglio di altri alle avversità dell’economia. La piramide del benessere non è molto cambiata negli ultimi anni: il 10%delle famiglie possiede quasi il 45%della ricchezza complessiva che solo per il 10%è suddivisa tra la metà più povera dei cittadini. E’ un dato che sorprende sempre anche se è ancora più stupefacente scoprire che la quasi totalità delle famiglie italiane ha una ricchezza netta superiore a quella del 60%delle famiglie dell’intero pianeta. Insomma nonostante tutto l’Italia appartiene alla parte più ricca del mondo. Il confronto internazionale premia gli italiani anche sui debiti: sono i più parsimoniosi visto che hanno passività pari al 78%del reddito disponibile contro il 100%di Germania e Francia, il 130%di Stati Uniti e Giappone, il 140%di Canada e il 180%del Regno Unito. Il 41%dei debiti delle famiglie italiane è rappresentato dai mutui per l'acquisto della casa che è la parte preponderante del loro portafoglio: circa 196 mila euro a nucleo (4.667,4 miliardi complessivi, cioè oltre l’ 82%dei beni reali posseduti). La componente finanziaria è più conten

uta e i Bot sono decisamente scesi nella lista delle preferenze degli italiani che preferiscono tenere i soldi liquidi in banca o in Posta o nell’investimento in Borsa. In complesso la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2009 era stimabile in quasi 9.500 miliardi di euro, quella netta in 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350 mila euro in media per famiglia. Nel 2010 le cose sembrano essere andate peggio: tra gennaio e giugno la ricchezza netta delle famiglie sarebbe diminuita dello 0,3%in termini nominali.

Premessa

Nei sistemi di welfare, in particolare in Europa, le politiche pubbliche nel settore delle abitazioni hanno svolto e tuttora svolgono un ruolo fondamentale.

Mediamente nei paesi Europei il patrimonio abitativo pubblico, gestito dagli enti locali o da agenzie a hoc, rappresenta il 20 – 25% del totale dello stock d’abitazioni esistenti, con la rilevante eccezione dei Paesi del Mediterraneo. Nel nostro Paese il patrimonio pubblico può essere stimato attorno al 3 – 4% del totale. Una percentuale risibile. (1)

Va detto tuttavia che in Italia, come in Spagna e in Grecia, questo dato trova una parziale spiegazione nel fatto che il 70 – 80% delle famiglie sono proprietarie dell’abitazione, mentre di norma negli altri Paesi europei non si supera il 50%.

In ogni caso l’offerta pubblica appare assolutamente inadeguata rispetto alla domanda sociale – fra l’altro in crescita per effetto dell’immigrazione e della crisi economica mondiale – determinando così una situazione che non consente alcuna politica d’efficace contenimento degli affitti. (2)

Inoltre in questi ultimi anni i Comuni hanno svenduto parte del loro patrimonio immobiliare per fare cassa.

Le case non mancano, solo che spesso non corrispondono alle esigenze e/o alle tasche delle famiglie. Negli ultimi 10 – 15 anni, si è costruito troppo, ma soprattutto male. Accade così che in un mercato sempre più segmentato e articolato per fasce di reddito e tipologie famigliari possano coesistere enormi eccedenze nell’offerta complessiva d’abitazioni e allo stesso carenze anche forti d’offerta rispetto alla struttura della domanda effettiva d’abitazioni.

Reggio detiene, sotto questo profilo, un non certo invidiabile primato. Per questo motivo le considerazioni qui svolte possono essere estese, in linea di massima, a livello nazionale.

La condizione abitativa a Reggio Emilia

Si calcola che a Reggio Emilia vi siano attualmente circa 7.000 abitazioni invendute, a fronte delle quali abbiamo registrato nel corso del 2009 un aumento del 27% dei depositi bancari.

Una situazione anomala che ha attirato l’attenzione della DIA (direzione investigativa antimafia). Che a Reggio ci sia una forte e radicata presenza di cosche mafiose è cosa arcinota, anche se mai seriamente contrastata.

Il settore in cui esse sono maggiormente presenti è quello dell’edilizia. Ma esse operano anche in altri settori “grigi” dell’economia nei trasporti, nella distribuzione commerciale al dettaglio, nella ristorazione, inoltre controllano il businnes della droga, che ha un ruolo importante nel reperimento dei capitali che vengono poi investiti, non solo per ampliare il mercato della droga, ma anche e principalmente nei settori “grigi” dell’economia.

Si tratta di fenomeni con una lunga storia alle spalle e ormai profondamente radicati nel tessuto urbano della città, dando origine ha fenomeni d’intolleranza e di disgregazione sociale. Il mito di Reggio Emilia città solidale mostra ormai crepe profonde e sempre più, negli episodi della vita quotidiana, si manifesta per quello che è: una balla politica! (3)

Tali fenomeni sono in vario modo conseguenza ed espressione del modello di sviluppo che Reggio Emilia ha avuto in questi ultimi 15 anni: uno sviluppo fondato su una crescita prevalentemente estensiva e di tipo quantitativo - pur non mancando le eccellenze - che ha portato ad un forte incremento demografico per effetto dell’immigrazione dai paesi extracomunitari e dal mezzogiorno: l’aumento della popolazione residente è stato di oltre il 25% negli ultimi 15 anni, un primato a livello nazionale fra le città capoluogo di provincia. La città si avvia ormai a contare 170.000 abitanti, cui si aggiungono diverse migliaia di clandestini.

Il nuovo piano strutturale, se realizzato, determinerà una crescita: stimata fra i 35.000 e i 50.000 abitanti, a seconda delle stime, mentre il territorio urbanizzato dovrebbe passare dagli attuali 31 Kmq ai 45 Kmq.

Neppure l’intensità e la durata della crisi economica che, probabilmente, farà sì che queste cifre saranno largamente disattese, hanno indotto l’amministrazione comunale ad andare ad una rivisitazione del potenziale di crescita espresso dagli strumenti urbanistici in vigore, basti pensare al convegno “Gli Stati Generali dell’Area Nord”, tenuto in piena campagna elettorale per le regionali, convegno nel quale tutti i grandi progetti sono stati rilanciati in una logica da anni sessanta. Ma si sa la nostra amministrazione continua ad essere prigioniera del mito.

Nella Francia degli anni cinquanta si diceva “Quand lo batiment va tout va”. Da allora sono passate due generazioni e mezzo, forse quel mito andrebbe rivisto, anche perchè di territorio da divorare c’è n’è sempre di meno.

Il mercato dell’edilizia abitativa è completamento bloccato. Il paradosso al quale stiamo assistendo è che con 7.000 abitazioni vuote, gli sfratti sono in continuo aumento. La crisi ha impoverito vasti settori di ceto medio, che hanno sempre più difficoltà ad accedere al bene casa: il sogno d’ogni italiano.

Il caso Reggio, quindi non è frutto del caso, ma anche di precise scelte politiche fatte a livello locale, che hanno creato le premesse economiche e urbanistiche per un crollo del mercato, che la crisi internazionale ha fatto poi esplodere con gli effetti perversi che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Eppure l’Amministrazione comunale era da tempo a conoscenza della situazione che si stava determinando. Da uno studio, commissionato dal Comune di Reggio Emilia a Caire – urbanistica, la cui sintesi è stata pubblicata dalle Edizioni Diabasis “Questione abitativa e politiche per la casa”, risulta che la Provincia di Reggio Emilia è di gran lunga la Provincia della Regione in cui più alta è stata, nel breve scorcio del nuovo secolo, la produzione edilizia, ben al di là del fabbisogno di una popolazione in continuo aumento.

Quello studio dimostra anche come oltre che troppo, si sia costruito male, con tipologie, in particolare, che nulla hanno a che fare con un’edilizia di tipo sociale, l’unica in grado di soddisfare le esigenze degli strati più deboli della popolazione, oltre che con tipologie che non tengono conto delle nuove caratteristiche delle famiglie, che sono profondamente mutate rispetto a quelle ancora prevalenti negli anni settanta.

Non è questa la sede per approfondire tali problematiche, sulle quali intendiamo comunque ritornare in sede di costruzione di una proposta, che sia in grado di dare una risposta adeguata alla gravità della crisi sociale ed economica che stiamo attraversando.

Quello che con queste note vogliamo fare è, piuttosto, di chiarire il senso di una proposta, per altro già anticipata dagli organi di informazione locali, sicuramente innovativa nel panorama nazionale, ma largamente praticata a livello europeo.

L’idea centrale è quella di andare in controtendenza, puntando ad una ricostituzione del patrimonio pubblico, come condizione per dare una risposta credibile alle nuove domande abitative che vanno emergendo e che, nel medio periodo, sono destinate a consolidarsi fino a creare una situazione socialmente ingestibile.

La situazione potrà essere governata solo trovando nuove e ingenti risorse, che a nostro parere esistono, certo non nei bilanci pubblici, a condizione che ci sia la volontà politica di attivarle e metterle in circolazione.

Una proposta ampiamente praticata in Europa. Basti pensare, a titolo d’esempio che la città di Parigi, che certo è ancora lontana dall’aver trovato una soluzione in qualche modo esaustiva al problema dell’abitazione, dispone attualmente di un patrimonio abitativo pubblico imponente: qualcosa come 200.000 appartamenti.

La costruzione di tale patrimonio è stata finanziata dai parigini stessi, attraverso l’acquisto di certificati di credito immobiliari garantiti dal Comune di Parigi sulla base del patrimonio immobiliare, che via, via si è venuto costituendo nel tempo.

Come ricostituire e potenziare il patrimonio abitativo pubblico.

La nostra proposta muove dalla considerazione che alla questione abitativa il mercato non è in grado di dare risposte socialmente soddisfacenti, se così fosse, dato il livello di ricchezza cui sono giunti i Paesi dell’Occidente europeo e del Nord America, il problema sarebbe stato, in quei Paesi, risolto da tempo.

In realtà questi Paesi hanno dovuto dotarsi in varia misura di politiche pubbliche più o meno efficaci e penetranti.

La situazione della nostra città, e più in generale quella dell’Italia intera, può diventare drammatica e socialmente ingestibile, se ad essa non verranno date risposte nuove in grado di fare i conti anche con il fatto, che non è possibile, se non in misura minimale, farlo con soldi pubblici.

Occorre trovare nuove risorse. La situazione economica italiana è caratterizzata, ancora e per fortuna, da una robusta capacità di risparmio delle famiglie e dalla mancanza di alternative sicure per il risparmio privato, specie per quello delle famiglie a reddito medio e medio basso, questo fa sì che nelle banche giacciano grandi quantità di fondi liquidi inoperosi. La situazione reggiana costituisce, sotto questo profilo, un caso esemplare.

Si è creata quella che, nell’economia keynesiana è chiamata “una trappola della liquidità”, per cui nella sola Reggio, a fronte di un ancora elevata liquidità detenuta dalle famiglie, ci sono circa 7.000 appartamenti invenduti, parte dei quali già in mano alla banche e che prima o poi potrebbero essere messi all’asta.

Non c’è bisogno di costruire, basterebbe poterne comprarne una parte e affittarli a canone convenzionato (300 – 350 Euro al mese).

L’operazione potrebbe essere fatta attraverso l’emissione di certificati di credito immobiliare. In pratica il sistema bancario potrebbe collocarli a un tasso del 3%, meglio se superiore. Naturalmente questi certificati sarebbero garantiti dallo stesso patrimonio edilizio, che via, via, verrebbe acquisito dall’ente locale. L’Acer potrebbe/dovrebbe occuparsi della gestione delle abitazioni.

Naturalmente il rendimento deve essere competitivo. Si tenga conto che le famiglie potrebbero trovare conveniente un tasso del 3% che si collocorebbe al di sopra di quello garantito dalle banche virtuale sui depositi. Inoltre sui certificati si pagherebbe un’imposta del 12,5% e non del 27%.

Naturalmente per garantire la collocabilità dei titoli e l’equilibrio finanziario dell’operazione (i costi di gestione sono elevati e probabilmente il rendimento delle abitazioni non basterebbe), bisogna che una parte degli interessi pagati ai sottoscrittori siano sostenuti dal pubblico. I fondi potrebbero provenire da:

- enti locali

- un’apposita legge del governo

- fondazioni bancarie

- eventuale possibilità di attingere ai fondi dai TFR.(4)

- una tassa di scopo.(5)

Naturalmente la proposta va definita tecnicamente e ha bisogno del sostegno di un ampio arco di forze sociali e politiche. Essa inoltre potrebbe/dovrebbe dare luogo ad apposite iniziative legislative.

A questo proposito è necessario verificare rapidamente le esperienze che in Europa non mancano. E costruire una vera e propria piattaforma sulla quale, e qui i sindacati e non solo quelli confederali penso ad esempio alle associazioni dei consumatori, potrebbero avere un ruolo decisivo.

Reggio potrebbe tentare di partire anche subito e proporsi come terreno di sperimentazione. Questo naturalmente comporterebbe un ripensamento e una ridefinizione strategici della politiche abitative e urbanistiche sin qui seguite.

Franco Cefalota, Rossana Benevelli, per Gente di Reggio – Forum dei cittadini.

NOTE.

Ultima versione 01/10/2010. Essa sostanzialmente coincide con quella data alla stampa il 17/10/2010. Il documento, del resto, è aperto ai contenuti di tutti coloro che ne condividono l’ispirazione politica e programmatica. In questo senso vuole mantenere il carattere di work in progress, almeno fino a quando un vero e proprio piano di fattibilità non ne avrà assorbito le istanze e l’ispirazione politica.

(1) Del resto il nostro Paese destinava nel 2005 all’edilizia sociale 5 Euro pro – capite, a fronte delle 396 sterline del Regno Unito.

(2) E’ appena il caso di ricordare che l’Italia ha da tempo rinunciato a una qualsiasi politica abitativa. Le responsabilità dei governi di centro – sinistra sono pesantissime. Nel 1993 (Governo Ciampi) sì da il via alla svendita del patrimonio immobiliare di enti, banche e assicurazioni. Viene meno così uno strumento che, al di là dell’uso distorto e clientelare che n’è stato fatto, in qualche modo contribuiva a calmierare il mercato dell’affitto. Nel 1998 si attua la liberalizzazione degli affitti. Circa gli effetti di tale misura ricordiamo questo due dichiarazioni di Cipolletta (Uffico studi di Confindustria). Nel 2001 Cipolletta annunciava con enfasi :” Il mercato degli affitti deve essere libero, perché aumentando l’offerta, i prezzi scenderanno”. Cinque anni dopo a Vicenza veniva presentato uno studio (firmato anche da Cipolletta) dove, fra l’altro, si legge :”La riforma non ha avuto alcun effetto di rallentamento sulla dinamica dei canoni. Inoltre la penuria di abitazioni a basso costo ha acuito il disagio di determinarti strati di popolazione”. Ancora più esplicite le dichiarazioni di Lorenzo Bellicini (Cresme): “Con la fine degli anni ottanta in Italia non c’era più una questione abitativa”: negli ultimi anni è fragorosamente esplosa, con “fenomeni di sovraffallomento, di coabitazione forzata: condizioni da anni sessanta”. Nel 1999 si consente ai Comuni di vendere le aree Peep. Nel 2007 secondo governo Prodi si consente l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente. Il nuovo Governo Berlusconi completa l’opera: abolizione ICI sulla prima casa, aumento fino al 50% della quota di oneri di urbanizzazione per il finanziamento della spesa corrente e infine, ciliegina sulla torta (siamo nel 2009), federalismo demaniale, primo atto per l’attuazione del federalismo fiscale.

(3) Il fatto che la Lega abbia triplicato i voti in cifra assoluta e rappresenti ormai quasi il 18% del corpo elettorale non ha insegnato nulla. Certo la democrazia è fatta di voti e d’idee. Non bastano le buone idee per avere un buon risultato elettorale. Ma forse non sarebbe il caso d’interrogarsi sulle ragioni profonde (strutturali) di un disagio sociale sempre più evidente e smetterla con un atteggiamento predicatorio, stucchevole, talvolta perfino arrogante nella sua presunzione pedagogica, come se i cittadini fossero tutti dai bambini egoisti e viziati.

(4) A questo proposito va detto che è in atto un dibattito nel sindacato. Il modello potrebbe essere quello dei fondi pensioni americani. Per la prima volta nel nostro Paese nell’edilizia sociale opererebbero investitori istituzionali.

(5) A questo proposito giova ricordare la vicenda dei contributi Gescal, istituiti con la legge 805 del 1971. Tali contributi sono serviti a finanziare case per i lavoratori dipendenti e a istituire IACP, successivamente le graduatorie sono state aperte a tutti con il che si è modificata la natura del contributo, che è diventata di fatto una tassa sull’occupazione. Successivamente i contributi Gescal sono stati aboliti di qui la crisi degli IACP. Viene da chiedersi se non sarebbe stato di sostituirli con una tassa di scopo e farli pagare alla generalità dei contribuenti.

postilla

Obiettivi e spirito della proposta sono condivisibili. Occorre però assicurarsi che il prezzo di acquisto sia commisurato ai costi di produzione e non ai valori di mercato, o quantomeno allineato ai valori dell'edilizia convenzionata, per non remunerare oltre misura i percettori della rendita immobiliare. (m.b.)

Tutti pazzi per il social housing. È da non credersi la mole di progetti che in pochi mesi è nata in tutta Italia per agganciare uno dei pochissimi business che in questo momento sintetizza il panorama delle costruzioni e dell’immobiliare.

Con la Cassa Depositi e Prestiti a fare da regista col suo Fia (Fondo investimenti per l’abitazione, che attualmente conta su una dotazione di circa 2 miliardi) sta prendendo il via una maxi operazione che si pone come obiettivo di dare una risposta al problema del fabbisogno abitativo in Italia

Per ora non ci sono dati certi, ma facendo un po’ i conti, il numero di alloggi che potrebbe essere realizzato nelle diverse regioni varia tra i 30 e i 40 mila, ben lontani dai 100 mila annunciati dal governo in un primo momento, ma comunque non pochi. I progetti in cantiere sono arrivati rapidamente a una ventina, di questi dieci sono già all’esame della Cdp e uno (il fondo Parma Social House) ha già ottenuto il via libera.

Arriva il Superfondo

Si tratta di tutte iniziative che, per la prima volta, vedono coinvolti investitori privati ed enti pubblici, come sottoscrittori dei fondi immobiliari regionali ai quali il superfondo della Cdp potrà partecipare con un quota massima del 40%. Un meccanismo che fa del social housing un cantiere da almeno 6-7 miliardi, visto che all’equity che la Cdp mette piatto vanno sommate l risorse (anche terreni e aree) stanziate dagli investitori locali e la leva finanziaria.

Va detto che agli inizi di questo processo, cioè nel 2009, quando è stato approvato il decreto sul piano casa che conteneva anche le norme per la nascita di un sistema integrato di fondi immobiliari destinati all’housing sociale, in molti erano scettici sulla redditività di queste operazioni, mete altri erano convinti che l’intero affare diventasse di esclusivo appannaggio di coop e istituzioni no profit.

Sarà che l’attesa dei rendimenti nel settore real state si è fortemente ridotta, ma sono numerosi gli operatori privati, anche di grosso calibro, che stanno scendendo in campo con iniziative, e questa è la vera novità, che addirittura non prevedono la presenza di enti locali (ma sono lo stesso finanziabili dalla Cdp). Secondo quanto risulta al Mondo, nel Lazio si sta muovendo un gruppo finanziario cme la Banca Finnat della famiglia Nattino, che avrebbe invitato un pool di soggetti privati, tra i quali la cooperativa Anagnina ’97, a ragionare su un’ipotesi di investimento nellarea romana attraverso una società in via di costituzione.

Il Mattone dell’Est

Anche in Veneto si registrano due nuove iniziative analoghe.

La prima è di Est capital sgr, che ha appena ottenuto da Bankitalia il via libera per al costituzione del fondo Real Quesrcia, al quale parteciperanno due gruppi imprenditoriali il cui nome resta per ora riservato, con un equity di 40 milioni e progetti per Venezia, Padova, Vicenza e Verona.

La seconda è del gruppo di costruzioni Sarmar di Antonio Sarti, che punta alla costituzione di un fondo privato per costruire centinaia di alloggi in tutta la regione Veneto.

Passando più a sud, in Basilicata, si trova un’altra iniziativa a carattere totalmente privato: Matera ’90 (capocordata di un gruppo di imprese e cooperative locali di costruzione) sta costituendo un fondo per realizzare 350 alloggi in provincia di Matera. Va detto, però, che questi ultimi sono eccezioni, poiché nella maggior parte dei casi, come si può vedere dalla mappa dei progetti, la presenza di Regioni e Comuni nei fondi è d’obbligo visto che sono loro a metetre a disposizione le aree su cui edificare, quando non offrono anche dotazioni finanziarie.

Pubblico & Privato

In alcune regioni, come Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, questo processo di partnership pubblico-privata è già in fase avanzata grazie soprattutto al lavoro di promozione e di mediazione svolto da Fondazioni bancarie come Cariplo, pioniere del settore come dimostra il fatto che le creature di sua emanazione, Polaris sgr e Fondazione Housing sociale (Fhs) sono presenti in un gran numero delle iniziative nate nella Penisola, anche nella veste di advisor.

Sergio Urbani, presidente di Fhs, spiega che “è come se di colpo molti imprenditori avessero compreso di poter accettare guadagni inferiori rispetto al passato, facendo girare ugualmente l’economia della propri azienda e del territorio”.

Una dimostrazione dell’enorme interesse suscitato dall’affare social housing è la risposta al bando di gara internazionale indetta dal Fondo Abitare Sociale 1 per due progetti di Milano (Figino e via Cenni): hanno risposto 1.100 studi di progettazione sono state presentate 260 proposte.

Ma faranno profitti?

Per tutti i progetti, ora, si pone il tema della sostenibilità, cioè della loro capacità di soddisfare un’esigenza sociale e allo stesso tempo di produrre ricchezza. Guido Inzaghi, giurista esperto di edilizia e territorio e partner dello studio Dla Piper, che segue alcuni dei maggiori progetti, spiega: “È importante una giusta articolazione delle destinazioni d’uso all’interno dei progetti di social housing. La sostenibilità economico-finanziaria dell’investimento si raggiunge dando spazio anche all’edilizia residenziale, libera, degli uffici, e terziaria in genere. A questo ampliamento non deve tradire la finalità sociale dell’investimento”.

Ma c’è un’altra questione, che questa volta sta a cuore alla Cassa ed è rappresentata dal tema della gestione degli immobili. L’orientamento che sembra prevalere è quello di accordare una preferenza ai progetti che prevedono in modo chiaro il coinvolgimento di una società specializzata che si occupi di manutenzione, riscossione affitti e così via. Bisognerà tenerne conto per ottenere il placet della Cassa.

I lettori ricorderanno che il governo Berlusconi aveva emanato due documenti, entrambi denominati “piano casa”. Il primo (cui si riferiscono la sentenza della Corte costituzionale e l’articolo di Lungarella che la commenta) era sostanzialmente la ripresentazione di un provvedimento già varato dal governo Prodi e poi bloccato, che prevedeva qualche modesto intervento di edilizia abitativa pubblica. Il secondo, che non è mai diventato atto normativo statale, è quello che ha sollecitato più attenzione, ed era volto a premiare i proprietari immobiliari piccoli e grandi sollecitandoli ad ampliare gli edifici esistenti in deroga ai piani e ai vincoli. Questo secondo provvedimento è diventato efficace solo attraverso le leggi che i “governatori” regionali, minchioni alcuni complici altri, si sono affrettati a predisporre.

Ora la Corte costituzionale ci rivela che anche il primo provvedimento nascondeva il tentativo di adoperare la parola “sociale” per affidare ai privati le competenze, rigorosamente pubbliche, di provvedere a rendere accessibile l’alloggio a chi non può rivolgersi al mercato. Lo emenda con argomentazioni che hanno una portata più ampia del tentativo di furto sventato (e.s.)

Accolte dalla Corte costituzionale alcune delle eccezioni di legittimità costituzionale mosse dalle regioni al cosiddetto piano casa promosso dal governo con la legge 133/2008 (di conversione del D. L. 112/2008). Le regioni avevano eccepito sulla costituzionalità dell’articolo 13 della legge (relativo all’alienazione degli alloggi di proprietà pubblica) e di tutti i commi dell’articolo 11 (piano casa), ad eccezione dei commi 7, 10 e 13 (quest’ultimo limita la possibilità per gli immigrati di accedere al fondo per l’erogazione di contributi per il pagamento dei canoni).

Con la sentenza n. 121 del 26 marzo 2010, il giudizio della corte favorevole, totalmente o parzialmente, alle regioni ha riguardato tre tematiche: a) il contenuto del piano; b) le sue modalità di attuazione; c) il destino del patrimonio di alloggi pubblici. Ognuna di esse ha grande importanza. Ma la prima, per quanto si vedrà, è quella sulla quale gli effetti della pronuncia possono essere più dirompenti.

Un “anche” che vale un piano

La corte ha ritenuto parzialmente fondata la questione di legittimità posta dalle regioni relativamente al comma 3 dell’articolo 11, che elenca gli interventi attraverso cui può essere attuato il piano nazionale di edilizia abitativa. Le regioni contestavano la legittimità costituzionale della norma ritenendo che con essa lo stato non si limita a fissare obiettivi e indirizzi di carattere generale ma dettaglia la tipologia degli interventi e definisce le procedure di attuazione dei programmi regionali. I giudici l’hanno pensata differentemente e, senza mettere in discussione la lista degli strumenti e delle modalità tecniche per l’attuazione del piano, hanno appuntano la loro attenzione solo su un anche contenuto nella descrizione dell’intervento catalogato alla lettera e): “realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale”.

La contestazione delle regioni che la corte ritiene legittimamente fondata sembra riguardare un aspetto marginale della questione. Ma, ad una più attenta riflessione, ciò che viene posto in discussione non è l’esclusione dal piano dei programmi integrati non finalizzati esclusivamente all’edilizia sociale, bensì la finalità stessa del piano casa, riconducendo la sua ragione d’essere esclusivamente alla promozione di interventi edilizi per le fasce deboli della popolazione; il che implica ribaltare totalmente l’obiettivo del piano.

Un piano di edilizia abitativa senza aggettivi

Le iniziative che è possibile promuovere attuando le norme dell’articolo 11 della legge 133/2008 hanno, come finalità principale, il sostegno all’economia in una fase negativa del ciclo congiunturale, stimolando la domanda delle attività edilizie tramite “un piano nazionale di edilizia abitativa” (comma 1) “rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale” (comma 2). Ciò che il piano si propone di promuovere è la costruzione di abitazioni con una netta preponderanza di quelle da offrire a prezzi di mercato. Che questa sia la finalità del piano è il lessico stesso a rilevarlo, o meglio le carenze lessicali che in esso si riscontrano. In tutto il testo dell’articolo l’espressione edilizia residenziale sociale o alloggio sociale ricorre solo tre volte. Per due volte essa è evocata in forma neutra con il richiamo ad un decreto interministeriale di definizione di quell’espressione. La sola volta in cui il richiamo è di “sostanza”, è proprio quella della lettera e) del terzo comma, dove l’inserimento della parola anche tra edilizia e sociale, diventa un inciso quasi posto ad evidenziare che la realizzazione di interventi costruttivi finalizzati ad incrementare l’offerta di alloggi a condizioni meno onerose di quelle di mercato costituisce un’eccezione in un contesto generale il cui obiettivo è la produzione di abitazioni i cui canoni e prezzi di vendita sono definiti esclusivamente dall’incontro della domanda e dell’offerta.

Un sociale che diventa norma

La sentenza della corte trasforma in norma quella che doveva essere l’eccezione, con l’escamotage di dare per acquisito ciò che non lo era affatto, e cioè che il piano per l’edilizia abitativa fosse esclusivamente un piano di edilizia residenziale sociale in tutti suoi strumenti e iniziative e non poteva essere parzialmente sociale con riferimento ai soli programmi integrati.

Le motivazioni con cui i giudici considerano fondata l’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla particolare norma in questione dà, infatti, per acquisito che tutte le altre norme dell’articolo 11 sono “orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli” e che la formulazione del comma 3 lettera e) “deve ritenersi costituzionalmente illegittima, in quanto consente l’introduzione di finalità diverse da quelle che presiedono all’intera normativa avente ad oggetto il piano nazionale di edilizia residenziale pubblica”. Se si deborda dal settore dell’edilizia residenziale pubblica, argomentano i giudici, il piano nazionale perde il suo carattere sociale. Ma la corte esclude “che la potestà legislativa dello stato possa essere utilizzata per altre finalità, non precisate e non preventivamente inquadrabili nel riparto di competenze tra Stato e Regioni”. Se il piano non dovesse essere esclusivamente indirizzato all’edilizia sociale, ma comprendesse anche interventi di edilizia abitativa di mercato, si introdurrebbe un “corpo estraneo in un complesso normativo statale, il quale trae la sua legittimità dal fine unitario dell’incremento del patrimonio di edilizia residenziale pubblica”. La previsione che con i programmi integrati possano essere realizzati interventi di edilizia residenziale non aventi carattere sociale è in contraddizione “ con le premesse che legittimano l’intera costruzione. Infatti, la potestà legislativa, che lo Stato esercita per assicurare il quadro generale dell’edilizia abitativa, potrebbe essere indirizzata in favore di soggetti non aventi i requisiti ritenuti dalla stessa legge essenziali per beneficiare degli interventi. L’eventuale diversa destinazione dei programmi dovrebbe essere valutata in un contesto differente, allo scopo di valutare a quale titolo lo stato detti tale norma”.

L’edilizia sociale costa soldi pubblici

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di quell’“inserimento extrasistematico […], in un complesso di norme, tutte orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli”, della congiunzione anche tra residenziale e sociale nella lettera e) del terzo comma dell’articolo 11, rende di immediata evidenza la labilità dell’impronta sociale dell’intera architettura del piano casa e la conseguente accentuazione dell’esiguità delle risorse di finanza pubblica che si riteneva di destinarvi. La cifra a cavallo dei 700 milioni di euro con la quale è stato finanziato finora il piano casa, e che non pare possa crescere, almeno nel periodo breve-medio (si può ipotizzare fino alla fine della legislatura), avrebbe prodotto un effetto limitato anche nell’ipotesi in cui la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale fosse stato un obiettivo parziale e secondario. L’ipotesi di impiegare risorse statali tanto limitate se poteva trovare una qualche motivazione per un piano di edilizia abitativa a prevalenza di mercato, perde ogni plausibilità se il piano, come afferma la corte, deve avere l’esclusivo obiettivo di incrementare l’offerta di edilizia residenziale sociale.

Senza intesa niente accordi

La corte ha ritenuto parzialmente censurabile di illegittimità costituzionale anche il comma 4. Questa norma prevede che il piano casa venga attuato attraverso accordi di programma promossi dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti e approvati con decreto del presidente del consiglio dei ministri previa delibera del Cipe e d’intesa con la conferenza unificata. Gli accordi di programma hanno il compito di massimizzare l’efficacia delle iniziative che vengono intraprese rendendole consone alla dimensione del fabbisogno abitativo da soddisfare nei diversi contesti. Il loro contenuto è pertanto fondamentale e non può che essere definito a livello regionale, là dove si può avere una buona conoscenza delle caratteristiche della domanda economicamente debole di servizi abitativi. Se non ché la norma in questione consentirebbe al presidente del consiglio di approvare comunque gli accordi di programma qualora, su di essi, non si raggiungesse l’intesa entro 90 giorni dalla loro presentazione. I giudici hanno ritenuto costituzionalmente non legittima l’attribuzione, con questa norma, di un ruolo di predominio dello stato sugli altri soggetti che devono concorrere all’accordo di programma. L’approvazione unilaterale dell’accordo di programma renderebbe inutile l’intesa che la stessa norma prevede, violando il principio della leale collaborazione tra lo stato e le regioni.

La velocità non deve soffocare le competenze

La violazione di questo principio è anche alla base della decisione di ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale relativa al contenuto del comma 9. Questa norma prevede che il piano possa essere attuato con le procedure previste per la realizzazione dei lavori relativi alla infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi disegnate dal codice degli appalti. Le procedure di approvazione di tali lavori rendono, di fatto, marginale il ruolo delle regioni ed espropriano i comuni delle loro competenze in materia di pianificazione urbanistica.

Il ricorso a tali procedure è giustificato dalla volontà di rendere più celeri i tempi di realizzazione delle opere. Il rispetto di questa esigenza deve, però, salvaguardare gli ambiti di competenza dei diversi livelli istituzionali coinvolti. Il contrasto tra questi due propositi risulta evidente, suggerisce la corte, quando l’estensione agli interventi di edilizia abitativa delle procedure di accelerazione ipotizzate per le infrastrutture strategiche vengono poste, come fa il comma 9, in alternativa al ricorso agli accordi di programma quale strumento tipico per l’attuazione del piano casa, come esplicitamente previsto dal comma 4 dell’articolo 11.

Dichiarando l’illegittimità costituzionale del comma 9, la corte ha ritenuto, perciò, di dovere affermare la prevalenza della tutela delle competenze delle regioni in materia di edilizia residenziale pubblica sulle pure ragionevoli esigenze di speditezza nelle procedure di approvazione e realizzazione delle iniziative.

Le case le vendono i padroni

La corte costituzionale con la sentenza sul piano casa ha riaffermato l’esclusiva competenza delle regioni in fatto di alloggi pubblici. I primi tre commi dell’articolo 13 della legge 133/2008 regolamentano gli interventi per la “valorizzazione del patrimonio residenziale pubblico”, un modo eufemistico per dire piani di alienazione. I giudici hanno ritenuto fondati i rilievi di costituzionalità formulati dalle regioni sul secondo e sul terzo comma. Il primo si è salvato dalla censura della corte perché ritenuto sostanzialmente innocuo, limitandosi esso a prevedere la conclusione, in sede di conferenza unificata, di accordi tra i ministeri delle infrastrutture e dei trasporti e per i rapporti con le regioni, da un lato, e regioni e enti locali dall’altro, per semplificare le procedure di vendita. Non è necessario bocciare la norma, afferma in sostanza la corte, perché mentre già con precedenti sentenze si era sancito “che la gestione del patrimonio immobiliare degli Iacp rientra nella competenza residuale delle regioni, [si] deve rilevare come la norma censurata nel presente giudizio non attribuisca allo stato alcuna possibilità di ingerenza in tale gestione”. Il tentativo fatto dalla stato, con la legge finanziaria per il 2006, di imporre la vendita degli alloggi pubblici, fu tacciato di incostituzionalità.

Se lo stato non può imporre alle regioni la sottoscrizione degli accordi per la vendita degli alloggi, la corte non poteva non ritenere fondata la questione di legittimità posta relativamente alla norma (comma 2) che pretendeva di dettare i contenuti degli accordi stessi. Stabilire in partenza che gli accordi devono determinare il prezzo di vendita degli alloggi in proporzione al canone di locazione, riconoscere il diritto di opzione all'acquisto all'assegnatario, destinare i ricavi delle alienazioni a interventi per alleviare il disagio abitativo, costituisce un’ingerenza dello stato che limita la discrezionalità di scelta delle regioni e pone un ostacolo alla loro piena autonomia in una materia sulla quale la corte si è più volte espressa.

Per la stessa esigenza di evitare, con l’attribuzione di una facoltà che esse già detengono, “un’intromissione dello stato in una materia che non gli appartiene”, la corte ha bocciato anche il comma 3 dell’articolo 13, il quale attribuisce alle amministrazioni regionali e locali la facoltà di stipulare convenzioni con società di settore per lo svolgimento delle attività strumentali alla vendita dei singoli beni immobili. Inoltre non è consentito allo stato di attribuire agli enti locali la possibilità di stipulare tali convenzioni, i cui contenuti potrebbero essere in conflitto con le normative emanate dalle regioni, alle quali solo compete di regolamentare la materia della gestione degli alloggi pubblici.

Alemanno non ferma la corsa al cemento

di Paolo Berdini

Nella Germania federale della cancelliera Angela Merkel sono state da anni avviate politiche urbane per privilegiare gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio esistente. Lì lo Stato non è stato cancellato dal liberismo senza regole: ha misurato la quantità di terreni agricoli che ogni giorno vengono consumati: 100 ettari al giorno, qualcosa come 100 stadi di calcio. In vista della scadenza del 2020 il tetto massimo è stato fissato in 30 ettari giorno. Nel 2050 non sarà possibile consumare neppure un metro quadrato di terreno agricolo: si potrà soltanto recuperare e ristrutturare l'esistente.

In Italia lo Stato è ormai un'entità astratta e ciascuno fa ormai quello che vuole. Nella Roma di Alemanno, ad esempio, dovrebbe essere attuato un piano regolatore approvato dalla precedente maggioranza veltroniana che prevede un'espansione edilizia pari a 16 mila ettari in dieci anni. Fino al 2020 si tratta dunque di 1.600 ettari all'anno; 4,5 ettari ogni giorno. Un sesto circa di quanto previsto alla stessa data per l'intera nazione tedesca!

Il gigantesco regalo alla rendita parassitaria fondiaria pensato da Veltroni, non appare evidentemente sufficiente alla nuova maggioranza. Da due anni assistiamo infatti non alla indispensabile cura dimagrante delle sconsiderate previsioni urbanistiche. Assistiamo invece ad una inarrestabile corsa ad inventare nuove occasioni di crescita urbana.

Il catalogo è lungo. Due casi in particolare. Nel 2008 è stato emanato un bando rivolto alla proprietà fondiaria per realizzare edilizia cooperativa. Possibile che sui 16.000 ettari non ci fossero aree adatte a soddisfare l'obiettivo? E in una città dove ci sono circa 50 mila famiglie in stato di grave disagio abitativo la cura più adatta era quella di costruire case in cooperativa, per loro natura adatte a famiglie che hanno un reddito sicuro, tale da permettere di accendere un mutuo bancario? Il provvedimento era dunque un altro regalo ai proprietari delle aree urbane che erano stati generosi con il candidato del centro destra durante il confronto elettorale.

Il secondo provvedimento è più recente. Alla fine del 2009 si decide di costruire una manciata di case (28 mila di cui solo 3 mila alloggi popolari) e contemporaneamente si decide di venderne molte di più tra quelle esistenti. Una prospettiva fallimentare, a ben vedere: altre famiglie povere non ce la faranno ad acquistare e saranno costrette a spostarsi sempre più lontano dalla città. La differenza con l'Europa civile si vede con il paragone con Parigi. Lì il comune acquista case sul mercato immobiliare per garantire la ricchezza sociale della città. Il mercato produce per sua natura una selezione per ricchezza, la mano pubblica riequilibra questo iniquo meccanismo garantendo convivenza civile ed evitando la creazione di sacche di emarginazione sociale.

Questa sfrenata corsa all'espansione della città è poi verificabile anche in un'altra serie di provvedimenti. Mentre le città di tutto il mondo rispondono alla crisi con grandi investimenti sul sistema dei trasporti collettivi non inquinanti, il vice sindaco Cutrufo propone di costruire un «parco a tema sulla Roma imperiale» su cui costruire colossei e fori in miniatura. 50 ettari di aree agricole di Castel di Guido, vicino a Fiumicino, rischiano la cementificazione.

Le due squadre di calcio romane non riescono a riempire lo stadio Olimpico se non nell'occasione dei derby: ciononostante si propone la realizzazione di due nuovi stadi, con annessi ipermercati, alberghi e abitazioni. Aiuta in tal senso un provvedimento di legge del centrodestra approvato nel mese di dicembre al Senato senza che l'opposizione lo contrastasse efficacemente: ogni squadra di calcio potrà derogare le regole urbanistiche per fare ciò che più gli piace, case o edifici commerciali. Insieme devasteranno altri cento ettari di agro romano.

E, infine, un'ultima perla che dimostra una volta di più la distanza che separa ormai l'Italia dai paesi civili. Uno dei progetti maggiormente sponsorizzati dalla commissione Marzano - istituita lo scorso anno per indagare sul futuro della città - è stato quello di realizzare cinque isole artificiali davanti al lido di Ostia e destinarle a porti, alberghi e quant'altro. Era il 2009 e già c'erano gli inequivocabili segnali della crisi edilizia mondiale. Ma gli esperti marzaniani non se ne sono evidentemente accorti: il modello culturale di riferimento era quello di Dubai, isole per la speculazione finanziaria internazionale. Il fallimento del progetto che si è prodotto nel dicembre negli Emirati arabi dovrebbe far riflettere gli strateghi de' noantri. Ma forse ci illudiamo. Con il terzo scudo fiscale, infatti, sono rientrati in Italia circa 100 miliardi di euro. I ricchi evasori romani hanno fatto rientrare una quota di dieci miliardi e il Sole 24 Ore afferma (27. 1. 2010) che questa montagna di soldi andrà ad alimentare il mercato immobiliare. Ma non verso il recupero delle infinite aree di degrado urbanistico e sociale. Così mentre decine di migliaia di famiglie non sanno come risolvere il problema della casa, i furbi evasori punteranno ancora su una nuova devastante espansione della città.

L'esperienza del X Municipio di Roma

Requisire le abitazioni vuote si può

di Sandro Medici

Sembra imminente a Roma la consegna di 161 case popolari, acquistate con fondi comunali e regionali. Un vero e proprio avvenimento. L'ultima volta fu nel settembre del 2008, presso Tor Vergata: vennero completate quattro palazzine che per quasi sette anni languirono desolate nei nudi rustici in attesa di altri finanziamenti. Le famiglie assegnatarie si accamparono per il timore che qualcuno le occupasse abusivamente - anch'io passai un paio di pomeriggi con loro.

Così vanno le cose a Roma. A una domanda di edilizia sociale che indigna e stordisce, si risponde con una manciata di alloggi ogni tanto e qua e là. Quando il nuovo sindaco si è affacciato per la prima volta sul balconcino con vista sui Fori, carico e baldanzoso per aver espugnato il Campidoglio, annunciò che presto Roma avrebbe potuto contare su tante e nuove case popolari. Dopo quasi due anni, ne assegnerà tra breve le 161 di cui sopra. Ma continua ad annunciare che almeno altre duemila saranno disponibili nei prossimi tempi. Ovviamente, non è in grado di dire come e dove. S'intuisce che pensa di edificare qualcosina sulle aree agricole. E forse sta lavorando in gran segreto per concordare con qualche immobiliarista l'astuto scambio di edilizia sociale con volumetrie private.

Sia come sia, siccome qualsiasi trasformazione urbanistica significativa necessita di procedure fisiologicamente prolungate, la domanda abitativa sociale resterà ancora insoddisfatta per molti altri anni. E tutto ciò sempre che Alemanno voglia davvero che in città si crei un'offerta calmierata: cosa che sappiamo bene quanto sia sgradita al mercato privato, che s'indebolirebbe alquanto in presenza di una concorrenza pubblica. Insomma, senza farla troppo lunga, l'impressione è che a Roma continua a essere difficilissimo fare urbanistica in contrasto o solo in autonomia dai poteri cementizi. E se ciò è valso nel quindicennio del centrosinistra, a maggior ragione sembra imporsi in quest'ultimo biennio di affinità elettive tra la destra e il mattone.

E allora, cosa succederà? O meglio, cosa dovrebbe succedere ancora e di più, rispetto alle centinaia di stabili occupati, alle migliaia di sfratti pendenti, a quel popolo sfuggente e vagante che dorme in macchina o sugli argini dei fiumi o nelle grotte e nelle fungaie o in baracche e tende o sotto i porticati o nei sottopassaggi o negli anfratti di parchi e giardini o nei casali di campagna abbandonati o sotto le arcate degli antichi acquedotti? L'emergenza abitativa a Roma (e non solo a Roma) è insomma destinata ad aggravarsi ulteriormente. Disperatamente.

A meno che non si ricorra a una scelta politica forte. A uno strumento certo non proprio ordinario ma comunque adatto ad affrontare un'emergenza tanto rilevante. Stiamo parlando della requisizione degli appartamenti vuoti e inutilizzati, che sappiamo rappresentare una quota cospicua dell'intero patrimonio della città, esclusi intenzionalmente dal mercato per non far deflagrare la bolla immobiliare.

Noi nel X Municipio ci abbiamo provato, e tutto sommato con successo: centinaia di famiglie sfrattate sono ancora nelle case requisite. E anche la Corte di Cassazione, nell'ottobre del 2006, al termine di una tormentata vicenda giudiziaria, riconobbe la validità delle ordinanze di requisizione e la loro aderenza al sistema giuridico. Per questa ragione ci assolse, ma precisò tuttavia che i Municipi non erano titolati ad agire in tal senso, non avevano i poteri sufficienti per requisire: solo i prefetti e i sindaci possono farlo. Si può fare, insomma. Ma c'è in questa città (e in questo paese) un prefetto o un sindaco che se la senta?

EMERGENZA CASA

In dieci anni affitti aumentati del 165%

In calo le quotazioni del mattone, ma negli ultimi 10 anni i prezzi degli affitti volano: + 165%. Secondo le valutazioni di Tecnocasa nel primo semestre 2009 i prezzi degli immobili sono scesi del circa 2,8% rispetto allo stesso periodo del 2008. A fronte di ciò il mercato degli affitti non sembra essere calato: «Il significativo calo dei valori immobiliari non ha trascinato un analogo ribasso dei canoni di affitto richiesti», afferma il Sunia. Per il sidacato degli inquilini le offerte del mercato privato sono incompatibili con le condizioni reddituali. Più del 75% dei nuclei familiari che nelle grandi città guadagana meno di 20.000 euro all'anno, dovrebbe spendere quasi la totalità del reddito per l'affitto. Negli anni le difficoltà a sostnere gli alti livelli dei canoni ha portato a un aumento degli sfratti. Roma è la città che registra il maggior numero di provvedimenti: 31.111 solo negli ultimi 5 anni.

Palazzinari. Palazzo Chigi dà il via libera allo spot casa: un piano di centomila alloggi in cinque anni da realizzare con 550 milioni di euro. Finanziamenti già stanziati da Prodi che Berlusconi aveva cancellato con la finanziaria del 2008. I costruttori esultano. I sindacati degli inquilini: «Misure inutili, per le fasce popolari occorre abbassare i prezzi degli affitti».

Cinquecentocinquanta milioni di euro in cinque anni per risolvere l'emergenza abitativa e la crisi economica del settore. E' quanto ha affermato il presidente del Consiglio dei ministri: con il "piano casa" si darà un'abitazione ai nuclei familiari e giovani coppie a basso reddito, agli anziani in condizioni svantaggiate, agli studenti fuori sede, agli sfrattati, agli immigrati regolari. Un numero impressionante di famiglie troveranno casa con solo 550 milioni! Tanto per dare una dimensione, per la costruzione del palazzo del nuoto di Roma, che doveva rappresentare l'ottava meraviglia del mondo, ne servivano 600. Oltretutto un impianto sportivo che non verrà terminato.

Siamo di fronte all'ennesima manovra diversiva per sviare l'attenzione dell'opinione pubblica. Ma se cerchiamo nelle motivazioni del provvedimento, troviamo anche un'implicita ammissione del fallimento delle politiche del ventennio liberista. Poche settimane fa, l'Istat ha certificato che dal 1995 al 2006 sono stati costruiti oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento. Il 40% di questa mostruosa quantità edilizia è costituita da case: sono state dunque costruite 2 milioni e mezzo di nuove abitazioni, mentre il numero delle famiglie è cresciuto soltanto di poche decine di migliaia. Qualunque governo dotato di un minimo di serietà sarebbe dovuto partire da questa gigantesca contraddizione: un mare di cemento e l'emergenza abitativa per una consistente fetta di popolazione.

La risposta sta nelle caratteristiche della fase economica che ha trionfato. Si è costruito per il "mercato" e basta, per i fondi immobiliari internazionali. I finanziamenti per le case popolari sono stati pressoché azzerati, mentre in tutta l'Europa occidentale si è invece continuato a costruire alloggi pubblici.

Mancando una cultura di opposizione, anche questo finto piano casa continuerà a mantenere in piedi la commedia degli equivoci che la potente lobby dei costruttori ha saputo costruire in questi anni. Il provvedimento governativo privilegia ancora il cosiddetto hausing sociale, una loro "denominazione d'origine controllata" che originava dall'obiettivo di cancellare l'intervento pubblico per lasciar fare ai privati. Ma sono proprio i dati dell'Istat a dimostrare che questa ipotesi è fallita.

L'unico modo per risolvere il problema della casa è declinare oggi un nuovo ruolo dello Stato. E' la mano pubblica che nei momenti di crisi deve saper indicare una prospettiva di grande respiro. Se le regioni progressiste smettessero di partecipare alla gara al ribasso con la cultura berlusconiana (vedi le brutte leggi del Piemonte, della Campania e del Lazio) e provassero a cimentarsi con questa sfida, potrebbero disegnare un futuro che affidi al recupero del paesaggio e dell'ambiente e alla riqualificazione delle città, i settori su cui fondare uno sviluppo nuovo.

SE L'AFFITTO E' TUTTO NERO

Una stanza fuori città a cinquecento euro e senza contratto. È la giungla dei prezzi per gli studenti e i precari che viaggiano a mille e duecento euro al mese. Così per i giovani diventa impossibile anche fare progetti semplici: finire gli studi, trovare lavoro mettere su famiglia

Camera cercasi lavoratrice 30enne. Zona centro o semicentro. Massima serietà. No agenzie». L’annuncio viene pubblicato un venerdì qualsiasi e il telefonino inizia a squillare già dalla prima mattina. Io sono una ricercatrice precaria dell’università: 1200 euro al mese di assegno mensile, due anni di contratto e poi chissà. Loro sono i padroni di casa a cui si è liberata una stanza. Devono rimpiazzare qualcuno, fare cassa. Prendo, in poche ore, cinque appuntamenti. Li distribuisco in un sabato bollente di fine maggio. Si disegna, lentamente, un mondo.

Comincio dal sontuoso quartiere dell’Eur. Davanti al laghetto, mi tende la mano Rossella, una signora sulla cinquantina, timida e nervosa. Stringe la sua borsa firmata sotto il braccio, mi fa strada con prudenza nel suo condominio: elegante, con un grande giardino. Ci passa accanto il portiere e lei abbassa la testa. Ci metto un po’ a capire che succede. «Glie lo dico subito: io le faccio vedere una stanza, ma non potrei. Insomma, affitto a nero». Parla sottovoce, si vergogna. Saliamo una rampa di scale in un silenzio surreale, come due ladre. Poi lei entra nella porta accanto. La lascia aperta per qualche secondo. Si scorge un appartamento enorme: soggiorno a perdita d’occhio, mobili di buona fattura. Esce con in mano un mazzo di chiavi. «In pratica saremo vicine, ma lei avrà un ingresso indipendente. È importante, per la sua autonomia». Finiamo dentro una camera buia, minimale e un po’ dimessa. Un corridoio stretto, un bagno in disordine, un letto a una piazza davanti a una finestra senza balcone, un piccolo frigo marrone, un armadio. Non vedo la cucina. Chiedo spiegazioni. «Ho due figli, ci teniamo alla nostra privacy e la nostra cucina non si può usare. Però lei si può organizzare: può portare un fornelletto da campeggio, oppure un forno a microonde, o il “bimbi”. Ha presente il robot? Con quello, al giorno d’oggi, si prepara ogni ricetta». Annuisco senza convinzione. Vengo a sapere che per questo accampamento di fortuna chiede 550 euro al mese. Più spese. La metà del mio stipendio. In contanti e sottobanco. «Il contratto io non glie lo posso proprio fare. Dall’altra parte sono in affitto. Ma mi sono separata e questa casa costa. Ha visto il portiere? Lo vede il giardino? Sono tutti lussi che uno si deve poter permettere. Allora mi sono organizzata così». Scivolo via con una strana angoscia addosso. Per un momento sono dispiaciuta per lei.

La macchina sfreccia sul raccordo anulare e, senza navigatore, la casa della signora Claudia è difficile da scovare. Siamo in zona Anagnina, qualche chilometro oltre l’Ikea, a due passi dal campus della Ericsson. La signora mi aveva contattata via sms: «Affitto stanza elegante 500 euro più spese». Ora mi accoglie sulla porta in tuta da ginnastica, rincorsa da un cane che sembra un cartone animato. Sono travolta dal suo calore meridionale. Mi accorgo subito, anche qui, di violare un segreto. «Vieni, entra, passiamo dal giardino. Qui c’è l’orto, guarda. Alla tua stanza si entra di lato». La “mia stanza”, effettivamente, è un incanto. Fa parte di un bilocale che Claudia ha ricavato facendo dividere la sua casa originaria, dove lei adesso abita con il figlio ventenne. «Sono rimasta vedova una decina d’anni fa, allora dovevo trovare un modo per andare avanti. Ho diviso la casa in due e ho ricavato nell’altro spazio due stanze. In una, se vorrai, ci vai tu. Nell’altra c’è una coppia di ragazzi di 25 anni. Lavoratori, puliti». C’è un bagno, c’è una cucina, c’è addirittura il camino. Il giardino con il tavolo e l’ombrellone. C’è il posto auto: è l’unica casa che vedrò in cui la mia macchina non è un problema. Non siamo a Roma, però, ma almeno a un’ora da dove lavoro. E non ci sono mezzi pubblici prima di qualche chilometro. A parte un autobus che sembra passare a singhiozzo. Non c’è il contratto, poi. Neanche qui. «Mi sono sempre regolata così, sulla fiducia. Sullo sguardo». Anche stavolta esco turbata. Divisa tra rabbia e comprensione. Turbata dall’empatia che provo per questa donna che affitta a nero e a prezzi stellari una stanza praticamente fuori città.

Bevo un caffè, lascio la campagna e scappo a vedere altre due stanze in centro. Una è a viale Libia. Zona università e, in teoria, a 10 minuti da dove lavoro. Dovrei abitare con cinque lavoratrici, tutte donne, in un appartamento enorme e fatiscente. La padrona di casa vive al piano di sopra. Non mi conosce, ma continua a chiamarmi con un diminutivo. «Per me siete come figlie, una volta al mese siamo abituate tutte ad andare a mangiare la pizza. A questa cosa, sia chiaro, ci tengo». Niente contratto («a che serve?»), due mesi di anticipo, 450 euro più spese. L’altra camera è in zona San Pietro. Me la mostra un single 40enne: ha ereditato l’appartamento da suo nonno, lui vivrebbe con me, ma non c’è mai, perché i suoi abitano fuori Roma. Affitta la stanza per coprire le spese di gestione. Bollette in comune, più 400 euro al mese. «Il contratto non serve, me li metti in una busta», chiarisce.

Finisco il mio giro dal signor Cesare in zona Capannelle. Di fronte all’ippodromo e alla stazione dei treni. «Ora sono in pensione, ma ero un bancario e ho sempre lavorato in centro. Da qui a Termini sono 10 minuti». È lui a chiedermi la cifra più bassa: 350 euro più spese. Peccato che la stanza sia un loculo e che l’appartamento va diviso con altre tre persone, con un solo bagno in comune. Una cucina appena abitabile, un corridoio stretto, niente soggiorno. Sul contratto, fa una proposta opaca: «Si può fare una scrittura privata, ma speriamo di non doverla usare mai». La filosofia di Cesare è quella di tanti. «Vivo al piano di sopra, ho comprato questa casa per mia figlia. Se un domani si sposa, siamo vicini. Quando mi servirà la casa, io vi avviso e voi ve ne andate. Due, tre mesi ve li do. Così vi trovate un’altra sistemazione. Oppure vi arrangiate. Tanto siete giovani, no?». Esco stordita. Il telefono continua a ricevere telefonate e sms per giorni. «Cerca ancora quella stanza?». No, grazie. Non la cerco più. Meglio restare ancora qualche anno da mamma e papà.

AFFITTARE COSÌ È LA LEGGE

Quattro tipologie contrattuali: dal canone libero a quello minimo prestabilito Molti proprietari italiani affittano casa in nero. Eppure esiste una legge, la 431/98, che stabilisce le tipologie contrattuali a cui attenersi. Che sono quattro: 1) contratto libero: consente al proprietario di stabilire liberamente il canone di affitto. Ma (salvo particolari eccezioni) ha una durata inderogabile 4+4: quattro anni, più rinnovo obbligatorio dello stesso periodo. 2) contratto regolato o concertato o convenzionato: il canone minimo e massimo è stabilito da accordi territoriali delle associazioni sindacali dei proprietari e degli inquilini, di concerto con le istituzioni interessate (Ministero dei Lavori Pubblici e Comuni). La durata è 3+2: tre anni più due di rinnovo. Essendo una forma contrattuale “calmierata”, prevede specifiche agevolazioni fiscali. 3) contratto di natura transitoria: si può stipulare solo in tassativi casi di transitorietà previsti dalla legge; ha una durata di minimo un mese e massimo 18 e non è rinnovabile. 4) contratto studenti universitari: si può stipulare solo nei comuni sede di corsi universitari e nei comuni limitrofi e riguarda solo gli studenti fuorisede. Il canone è compreso entro fasce di oscillazione stabilite dagli accordi sindacali territoriali.

Per far emergere il mercato nero degli affitti, una strada allo studio è quella di ridurre la pressione fiscale sui proprietari, che ad oggi pagano le tasse in base al reddito. Da qui la proposta, nella scorsa legislatura, di una “cedolare secca” sugli affitti: un’aliquota fissa del 20% per tutti i proprietari. A sostenere il provvedimento fu soprattutto Francesco Rutelli, ma mancarono le risorse per tradurlo in una norma. Secondo le stime di Visco, infatti, la manovra sarebbe costata 4 miliardi di euro.

Il 21 maggio scorso sulla proposta è tornato il Ministro Roberto Calderoli, annunciando a margine di un’assemblea di Confindustria di voler riprendere in mano il progetto sulla cedolare secca, assicurando che «presto la misura sarà inserita in un provvedimento». Già a marzo, il Pd si era detto d’accordo al varo di un decreto legge ad hoc. Ma si aspetta ancora.

LA SCHEDA

Nel secondo semestre 2008 gli affitti sono scesi in media in Italia del 4% rispetto al semestre precedente: lo rileva uno studio della Uil secondo il quale il peso dell'affitto sul reddito netto delle famiglie è passato dal 27% del primo semestre al 26,4% del secondo. Tra le città metropolitane solo Genova e Torino hanno registrato aumenti medi dei prezzi di affitto (rispettivamente del 15,8% e del 5,5%) mentre Milano (-17,9%), Bologna (-16,9%) e Roma (-7,9%) segnano una riduzione significativa dei prezzi di locazione. Anche le quotazioni immobiliari di vendita hanno segnato una battuta d'arresto (-0,6% tra il secondo e il primo semestre). La riduzione più pesante l'hanno registrata i prezzi a Bologna con un -6,94%. La città più cara per affittare casa è Roma dove per un appartamento di 70 metri servono in media 1.656,70 euro al mese. A Venezia gli affitti sono in media di 1.470 euro mentre a Firenze ce ne vogliono 1.020. A Milano, secondo lo studio bastano 845 euro a Caltanissetta servono 227

EUROPA A MISURA DI GIOVANI

Germania e Spagna sono le meno care. Qui un neoassunto trova affitti regolari e a prezzo sostenibile. Resta il miraggio di Londra: chi lavora nella capitale inglese spesso costretto a fare il pendolare

Per capire come funziona il mercato degli affitti negli altri paesi, basta scomodare un po’ di amici all’estero. Ne abbiamo tutti molti, in fuga dall’Italia. Esportano sogni e scommesse in posti dove spesso far fiorire i progetti è più facile che qui. A mettere insieme un po’ di storie - via mail, via Facebook o con una chiacchierata su Skype - il dato che emerge è sempre lo stesso: cercare casa a prezzi sostenibili, eccezion fatta per Spagna e Germania, è una fatica anche nel resto d’Europa; ma avere un contratto fuori è la norma. Laura ha 30 anni ed è nata a Pagani, vicino Salerno. Una laurea in architettura, qualche anno tra Parma, Milano e Venezia. È approdata a Parigi tre anni fa, dove lavora in uno studio associato di architetti italiani. «La domanda è molto alta e affittare casa è una guerra. Gli appartamenti per i single sono minuscoli: dai 12 ai 16 metri quadri di media. Tutti i padroni ti offrono un contratto, ma prima di “accettarti” come inquilina devi superare una specie di selezione», spiega. «Le cose vanno più o meno così: trovi un annuncio con sopra l’ora e il giorno per le visite; ti presenti e porti con te un dossier, che contiene le tue ultime buste paga (di solito si chiede una busta paga che sia tre volte il prezzo dell’affitto), una lettera di referenze del tuo precedente proprietario e la dichiarazione dei redditi di una persona che si fa garante per te». Laura spiega che per lei è stata dura: contratto a tempo determinato, genitori-garanti all’estero: ci ha messo un po’ a farsi “scegliere” dai suoi attuali proprietari. «Oggi vivo i miei 16 mq + 4 di soppalco-letto in centro. A 650 euro al mese, tutto incluso».

Angela di anni ne ha 28. Viene da Cagliari, ha studiato a Roma, da quattro anni ha scelto l’estero: prima due anni a Dublino, poi Londra, dove oggi lavora come giornalista freelance e media analyst. «Londra è in assoluto una delle città più care d’Europa. Anche sugli affitti. IPer risparmiare ho scelto una zona residenziale, ai limiti con Peckham, che è considerato un po’ il “bronx” della città. Pago 600 pound al mese, spese comprese. Con contratto».

C’è chi, pur lavorando a Londra come Rocco, - economista 31enne, in Inghilterra prima per un dottorato e adesso per lavoro - sceglie di fare vita da pendolare, per risparmiare un po’. «Sono andato a vivere a Oxford. In molti fanno così. Con 700 sterline». Isabella, invece, è un’antropologa di 30 anni originaria di Fabriano, e lavora a York. «Qui ti fanno sempre il contratto, anche se si tratta di formule più flessibili e meno rigide che in Italia. I contratti tipici durano sei mesi. Ma spesso gli affitti vanno a settimana. Io ho una stanza singola in una specie di studentato privato, dove abitano altre 16 persone, in pieno centro storico. Pago 72 sterline a settimana. Non è molto». Anche in Spagna la situazione è decisamente migliore. Come spiega Marilù, 31 anni, attrice di Taranto. «Abito da sola, in un monolocale a Malasagna, e pago 300 euro al mese, tutto in regola. Qui in Spagna le condizioni di vita per i giovani sono ideali Sto qui da tre anni e non ho mai avuto problemi a mantenermi. Quando abitavo a Roma era tutto più difficile».

«Berlusconi ha dato l'input presentando il suo pacchetto sull'edilizia, non potevamo rimanere passivi. Così abbiamo legiferato dal basso». Paolo Di Vetta, portavoce dei Blocchi Precari Metropolitani, è uno dei promotori, insieme agli altri movimenti per la casa capitolini (Coordinamento di lotta, Action, Comitato e Asia Rdb), della proposta di legge «sul diritto all'abitare» presentata ieri all'ex teatro Volturno di Roma. Sotto gli occhi degli assessori regionali Luigi Nieri e Mario Di Carlo.

Come è nato il percorso?

Prima erano coinvolti solo i movimenti e comitati di quartiere poi si sono aggiunti urbanisti e architetti. La nostra non è solo una proposta sull'emergenza abitativa ma parla di una nuova idea di città, intesa come bene comune.

Cosa avete proposto alla Regione?

Il ritorno del pubblico. Chiediamo che la giunta costruisca 100mila alloggi di edilizia sovvenzionata e che destini una somma non inferiore a 1,3 miliardi di euro per programmi mirati al diritto all'abitare. Poi, tra le proposte, ci sono il recupero del patrimonio dismesso e il vincolo per la realizzazione di nuove cubature edilizie solo alle aree nelle quali esistono già opere di urbanizzazione.

L'incontro com'è andato?

Il giudizio è positivo. Sia Di Carlo che Nieri hanno valutato seriamente la proposta di legge d'iniziativa popolare prendendo sul serio soprattutto l'impianto. Qualche attrito con Di Carlo è nato sulle vendite delle case popolari, scelta che lui vuole perseguire. Ma a fronte di una situazione in cui non vengono costruiti alloggi, mettere in vendita il poco patrimonio pubblico esistente è criminale.

Cartolarizzazioni, housing-sociale, svendita del demanio pubblico... l'emergenza casa in questi anni è stata sempre delegata ai privati.

La rendita fondiara è un potere forte che sta ingabbiando la politica e ha modificato la governance. Il loro interesse a speculare prevale su tutto. Con il gioco delle new-town che si ripete: il pubblico mette l'area, il privato porta i soldi e i palazzinari costruiscono con grandi profitti. Il prodotto finale guarda solo ad inquilini solvibili che si possono permettere di pagare 500-600 euro al mese. Prima di nuovo cemento, di cui una parte rimane inutilizzato, esigiamo il recupero degli immobili esistenti. Sia pubblici che privati. La casa è un pezzo importante del reddito di una persona, lo pretendiamo a scapito della rendita.

Non credi che Veltroni abbia aperto la strada ad Alemanno lasciando Roma con un piano regolatore che di fatto regalava la capitale agli speculatori?

Non proprio. Veltroni ha di certo sottovalutato il problema casa e sopravvalutato i "furbetti del quartierino" facendo prevalere i loro interessi. Alemanno invece porta avanti, in maniera ambigua, un ragionamento sociale. A parole si dimostra sensibile e promette alloggi popolari. Nei fatti, a differenza del minimo tentativo di Veltroni, non ha un piano. Come se non capisse l'emergenza. C'è una fascia di persone che non riesce ad accedere né al mercato dell'affitto né a quello delle vendite. E gli ultimi dati sugli sfratti parlano di proprietari che, non fidandosi più del pagamento, decidono preventivamente di rescindere il contratto.

E il governo nicchia sugli sfratti.

Stiamo arrivando alla fine della proroga per le categorie protette. Dopo la situazione sarà esplosiva, a Roma e non solo. Per questo i movimenti lanciano una campagna radicale per il blocco degli sfratti. Ci vediamo nella città.

Nota: sul medesimo tema si veda qui anche l'articolo di Eddyburg per Carta (f.b.)

Trascorrono gli anni, in Italia sono cambiate tante cose, ma un problema resta sempre lo stesso nella sua drammaticità: il rischio per molte famiglie di subire lo sfratto dall’abitazione. Anzi, gli ultimi dati statistici fotografano un espandersi dell’emergenza, se è vero che nel 2008 le richieste di esecuzione sono aumentate di oltre il 25%, salendo a quasi 140.000. E le cifre, denunciano i sindacati, sono solo provvisorie e destinate ad aumentare viste le difficoltà attraversate dai lavoratori in tempi di crisi mentre l’ormai pluriennale tendenza al rincaro degli affitti non accenna a fermarsi nonostante la recessione economica.

In base ai dati preliminari diffusi dal ministero dell'Interno l’anno passato su un totale di 51.390 nuove sentenze di sfratto (+17,14% sul 2007), la maggioranza assoluta, oltre 40.600, sono state per morosità. Le richieste di sfratto presentate dagli ufficiali giudiziari alla forza pubblica per eseguire gli sfratti sono state 138.040, con un aumento rispetto al 2007 del 26,13%. Gli sfratti eseguiti sono stati invece 24.996, l'11,25% in più rispetto al 2007.

IL CASO DI ROMA

Da qui, si è detto, l'allarme dei sindacati. Il Sicet, l’organizzazione che rappresenta gli inquilini della Cisl, cita alcuni esempi eclatanti: a Venezia gli sfratti emessi sono saliti del 261%. In Emilia, Modena ha visto un'impennata del 50% delle richieste di esecuzione. Mentre a Roma si è arrivati a 53 mila (+171%). Numeri che hanno portato il Lazio al top della classifica regionale con oltre 54 mila richieste e un'impennata del 160%. Dati «preoccupanti» anche a Napoli con 1.800 esecuzioni. Palermo e Catania sono invece ai primi posti in Sicilia con rispettivamente 1.700 e 2.400 sfratti.

In controtendenza, invece, sembra muoversi la Lombardia: le richieste sono state lo scorso anno circa 28.000, il 28% in meno rispetto al 2007. Ma in questo caso i sindacati sostengono che i dati devono essere valutati come assolutamente provvisori e destinati a crescere. Quanto a quel che sta accadendo nell’anno in corso, le previsioni sono tutt’altro che ottimistiche.

I TIMORI PER IL 2009

«Il 2009 sarà peggiore: - sottolinea il segretario generale del Sicet, Guido Piran - prevediamo una ulteriore crescita per i provvedimenti di sfratto stimabile tra il 15 e il 20% e tutta nel capitolo della morosità. Per questo, la prossima scadenza della proroga degli sfratti del 30 giugno deve essere colta come opportunità «per comprendere anche la morosità. Il problema non deve essere solo rinviato di qualche mese. Serve un fondo di contributi per l'affitto finanziato con più risorse e una maggiore offerta di case di edilizia pubblica assieme ad una nuova legge sulle locazioni private che riduca il costo degli affitti».

L'Unione inquilini parla di «frana sociale» e di «Italia sotto sfratto e sempre più povera». Per il segretario nazionale Walter De Cesaris «da questi dati si evince il fallimento delle politiche di liberalizzazione dei canoni e di privatizzazione dei patrimoni pubblici. È giunto il momento di una profonda inversione di rotta».

Da qui le proposte dell’Unione inquilini:«Il sindacato presenta quattro richieste essenziali per affrontare l’emergenza: blocco generalizzato degli sfratti, compresi quelli per morosità; riduzione del 50% degli affitti; stanziamento subito di un miliardo di euro per il sostegno all'affitto; realizzazione di almeno un milione di case popolari a canone sociale».

La Proposta di legge di iniziativa popolare sul diritto alla casa e all’abitare a Roma e nel Lazio è la prima del genere nella Regione. Presentata venerdì 12 giugno nel corso dell’ultima tappa della carovana «Città bene comune», la proposta di legge, che si compone di sedici articoli, non nasce negli assessorati o nelle commissioni di via della Pisana ma da una idea maturata dalla stessa carovana che, a sua volta, come in un incastro di scatole cinesi, lancia, nella sua stessa costituzione, una originale idea di autogoverno del territorio. Difatti, contemporaneamente, lancia anche una seconda legge popolare che riguarda la scabrosa questione dei rifiuti. La carovana nasce dall’incontro tra i comitati di quartiere e la miriade di associazioni che in questi anni si sono opposti allo strapotere della rendita dando vita alla «Rete del mutuo soccorso» e alla Rete dei movimenti per il diritto all’abitare composta da Action, Bpm, Coordinamento cittadino di lotta per la casa, Comitato obiettivo casa.

A questo primo nucleo, in occasione della preparazione della Conferenza urbanistica del 29 febbraio scorso, si sono aggiunti comitati, associazioni e cittadini incontrati nelle diverse tappe del viaggio che, peraltro, è cominciato molto tempo fa. Molti, infatti, hanno in comune l’opposizione alle politiche urbanistiche di Veltroni culminate nell’approvazione del Piano regolatore generale, nei primi mesi del 2008, che a loro giudizio ha prodotto un consumo insensato di territorio, ha peggiorato la qualità della vita cittadina e non ha dato risposte all’emergenza abitativa. L’attuale giunta Alemanno, aggredendo l’agro romano, continua nella stessa direzione, quella di costruire la città secondo i soli dettami della rendita. L’idea della legge d’iniziativa popolare nasce dalla convinzione che l’unica manovra urbanistica possibile sia ripristinare il ruolo pubblico nel programmare e risolvere l’emergenza abitativa e la vivibilità urbana.

Roma, la sua area metropolitana e i maggiori comuni del Lazio sono in emergenza abitativa: decine di migliaia di famiglie vivono in condizioni inaccettabili, in edifici impropri, in assistenza alloggiativa. Migliaia sono sottoposte a procedura di sfratto in corso. Un numero sempre maggiore vive in quartieri sempre più periferici e sempre più privi di servizi sociali. Eppure, in questi anni si è costruito moltissimo, agli stessi ritmi degli anni ‘80, nonostante la popolazione non sia sostanzialmente cresciuta. Ma si sono costruite solo case per il mercato privato ed è stata abbandonata l’edilizia sociale pubblica. Il recentissimo rapporto annuale Istat ha certificato che, a fronte della realizzazione di oltre 3 miliardi di metri cubi di edifici nel periodo 1995-2006, la percentuale di case pubbliche è stata dello 0,7 per cento. In Europa supera mediamente il 30 per cento. E, mentre gli altri paesi cercano di tornare alle politiche pubbliche, l’Italia sembra voler continuare le politiche di demolizione di qualsiasi regola. E le proposte del cosiddetto «Piano Casa» del governo Berlusconi servono solo a incrementare la rendita.

La legge di iniziativa popolare propone la realizzazione in sei anni di centomila alloggi pubblici. È un impegno oneroso per il quale viene previsto, nella proposta, lo stanziamento di circa 8 miliardi di euro. Inizia ora la raccolta delle firme necessarie per l’iter istituzionale di una proposta di legge di iniziativa popolare [va ricordato, peraltro, che il Lazio non si è ancora dotato di una legge ad hoc così come previsto dallo Statuto regionale] ma i promotori già sanno quale sarà la prima obiezione delle istituzioni: non ci sono i soldi. Per questo, propongono di dirottare in questa direzione quelli che dovrebbero venire investiti in opere inutili come l’autostrada Roma-Latina. La legge blocca, inoltre, la svendita del patrimonio pubblico in atto da anni «per risanare i conti pubblici». Per questo, si propone di adottare politiche di risparmi della spesa pubblica. Ma risolvere il problema della casa non basta più. Di fronte all’imponente fenomeno di espulsione da Roma di oltre centomila famiglie nel periodo 1991-2006, l’attuale situazione è che sempre più cittadini vivono in zone periferiche prive di servizi di qualità. Mentre Roma si spopola e in centro si chiudono i servizi per mancanza di popolazione, nella periferia metropolitana non c’è la città. Mancano scuole, servizi alle persone, perfino le opere di urbanizzazione.

La legge propone due parallele politiche: reintrodurre la residenza pubblica nella città esistenti così da rivitalizzarle con azioni di recupero del patrimonio pubblico dismesso o sotto utilizzato. E portare i servizi nelle periferie delle città. Si prevede un piano di realizzazione di servizi pubblici che consente a tutti i cittadini pari opportunità di accesso e punta a recuperare prioritariamente il costruito inutilizzato all’interno delle città così da non costringere molte famiglie a vivere in case senza città e a riempire di abitanti le parti di città ormai vuote per il grande esodo di questi anni. Il diritto all’abitare si completa con il diritto alla mobilità sostenibile: centinaia di migliaia di pendolari raggiungono il centro di Roma per motivi di lavoro impiegando tre ore al giorno per gli spostamenti. Anche in questo caso, occorre far entrare l’Italia in Europa: nessun quartiere potrà essere costruito se non esistono già linee di trasporto su ferro. Basta con i quartieri che nascono in ogni angolo della campagna e obbligano all’uso dell’automobile.

La legge, infine, tocca due ulteriori punti: la riconversione dell’immenso patrimonio edilizio costruito verso l’istallazione di tecnologie energetiche appropriate e le graduatorie di accesso. Il limite di reddito per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica destinata all’assistenza abitativa, a partire dal primo bando successivo alla approvazione di questa legge sarà portato a 20 mila euro [la diminuzione prevista nell’art. 21 della L. 457/78 è determinata in 10 mila euro per ogni componente del nucleo familiare produttore di reddito, e in 6 mila per ogni ulteriore familiare a carico]. Infine, si impegna la Regione Lazio ad attuare la legge entro la definizione del passaggio di competenze, in materia edilizia, al Comune di Roma così come previsto dalla legge istitutiva di Roma Capitale.

Per allargare ancora di più la possibilità di discuterne, oltre che nel corso dei sei mesi previsti per la raccolta delle firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare, Carta offre uno spazio sul sito e nelle pagine di CartaQui. [Il testo completo della proposta di legge popolare su www.carta.org].

Se il problema esiste, chiedetelo a chi vuol mettere su famiglia, o semplicemente vivere per conto suo perché ormai è adulto. Oppure a chi ha trovato un impiego, magari precario, in un centro distante qualche decina o qualche centinaio di chilometri da dove abita. O a qualcuno di quegli immigrati che lo sfruttamento neocoloniale delle loro terre, e le convenienze dei padroni e padroncini italiani, hanno richiamato nel Belpaese.

Soffrono per quel problema soggetti diversi che nel passato. Non più gli operai e gli impiegati “garantiti”, stritolati dalla tenaglia formata dalla differenza tra salario e costo dell’abitazione, ma tutto il vasto e crescente mondo del precariato e della marginalità sociale. Se guarderete con attenzione, vi accorgerete che la “questione abitativa” è intessuta della stessa disperazione e angoscia, e gravida della stessa energia di ribellione, di quando esplose ed alimentò i grandi scioperi che conclusero gli anni Sessanta, conducendo a risultati poi gradualmente cancellati.

Qualcuno tenta di affrontare il problema impiegando le opportunità del “libero mercato”. Inventando operazioni di partnership pubblico/privato che (come ha denunciato Marvi Maggio su eddyburg.it a proposito di Firenze) consentono varianti ai piani regolatori che ne aumentano l’edificabilità (naturalmente ai danni del verde e dei servizi) a patto che i beneficiati assegnino una parte degli alloggi a prezzi convenzionati. Le esperienze dimostrano che la partnership pubblico/privato non può dare risposte significative, e contribuisce invece a peggiorare le condizioni di vita nella città.

Occorre riprendere con forza il tema della casa come servizio sociale, componente essenziale per la costruzione di una città come bene comune.

Mentre prosegue il susseguirsi di annunci e di rinvii sul decreto legge circa la semplificazione e lo snellimento delle procedure per l’attuazione delle attività edilizie che, insieme all’aumento delle volumetrie delle ville e villette, dovrebbe, nelle intenzioni del governo, dare uno slancio all’economia, il Cipe, nella seduta dello scorso 8 maggio, ha approvato quello che viene considerato il piano casa del governo per antonomasia (di piani casa governativi se ne contano almeno quattro), cioè quello disegnato dalle norme contenute nell’articolo 11 della legge 133/2008.

È stato deliberato di assegnare a questo piano 350 milioni di euro, una cifra non proprio entusiasmante per un piano che qualcuno ha addirittura paragonato al piano Fanfani dell’immediato secondo dopoguerra del secolo scorso.

L’accostamento tra il piano casa Berlusconi ed il piano casa dell’allora ministro del lavoro Fanfani è fuori luogo e può essere solo frutto di una forzatura. A distanziare i due piani non è il tempo, ma la loro diversa finalità. Quello di Fanfani fu un piano che permise la realizzazione di un numero rilevante di abitazioni destinate a risolvere il problema della casa della popolazione più povera, dando al tempo stesso un contributo a combattere l’endemica disoccupazione post bellica. Anche ora il governo argomenta le sue scelte in materia edilizia con l’esigenza di rilanciare l’economia. Ma il piano casa che propone di realizzare “è rivolto all’incremento del patrimonio ad uso abitativo attraverso l’offerta di abitazioni di edilizia residenziale”( comma 2, articolo 11 legge 133/2008). L’intenzione è, quindi, quella di promuovere la realizzazione di un piano che incrementi l’offerta di appartamenti a prezzi di mercato, mentre in tutto l’articolato legislativo del piano vi è solo un accenno alla possibilità che si promuovano programmi di “edilizia residenziale anche sociale” (lettera e, comma 3, articolo 11, legge 133/2008).

Una parziale restituzione di una eredità inattesa

Il piano casa di questo governo manca dell’impronta sociale sia del piano Fanfani sia del successivo piano decennale promosso con la legge 457/1978. Ma esso ha addirittura cancellato un rilevante programma di edilizia residenziale pubblica, promosso dal precedente governo, il cui integrale ripristino ridarebbe al piano del governo un connotazione di socialità.

Dei 350 milioni di euro deliberati dal Cipe, 150 milioni costituiscono la dotazione di un fondo immobiliare partecipato dalla Cassa depositi e prestiti, una sorta di “fondo padre”, che promuove e partecipa a tanti altri fondi immobiliari locali. Gli altri 200 milioni di euro vengono restituiti alle regioni per realizzare una parte degli interventi compresi nel programma straordinario di edilizia residenziale pubblica finanziato con 544,5 milioni di euro dall’articolo 21 della legge 222/2007, che fu approvata per realizzare interventi urgenti nel campo dello sviluppo economico-finanziario e dell’equità sociale.

Appena poche settimane dopo essersi insediato, con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 118 (poi convertito con la legge 133/2008), il governo sottrasse quei fondi alla loro originaria destinazione per dirottarli al nuovo piano. In questo modo interruppe la realizzazione di interventi già individuati con un decreto del 18 dicembre del 2007 dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti del precedente governo; decreto che aveva anche assegnato le risorse agli enti incaricati della gestione operativa delle iniziative.

Ad onor del vero, va detto che se i cantieri per accrescer l’offerta di alloggi di edilizia sociale finanziata con quel programma allora non furono aperti immediatamente, una qualche responsabilità ricade anche sull’allora ministro delle infrastrutture Di Pietro il quale propose, quando ormai tutto era pronto per dare inizio ai lavori, una nuova procedura di verifica degli interventi da finanziare. Non fu, quel comportamento, un esempio di buona pratica politico-amministrativa: se in alcuni casi si può giustificare che un nuovo governo cancelli i programmi del precedente è, invece, difficilmente comprensibile che un procedura amministrativa proposta da un ministro sia smentita dallo stesso poche settimane dopo. Il blocco del programma che ne seguì fu una manna per il nuovo governo, il quale considerò quei quasi 550 milioni come un’eredità senza eredi e senza vincoli, da spendere per il nuovo piano casa pensato con l’articolo 11 della legge 133/2008.

Oltre la metà della meta

Sull’utilizzo di quei fondi si è assistito ad un braccio di ferro tra il governo e le regioni: finora sembra aver portato ad un pareggio. Dando seguito ad un accordo, sottoscritto agli inizi dello scorso aprile tra il governo e le regioni, a queste ultime la delibera Cipe restituisce subito 200 milioni di euro, la cui ripartizione tra di esse avverrà a seguito di una nuova istruttoria dei progetti presentati; quell’accordo promette loro che in futuro torneranno in possesso anche dei restanti 344,5 milioni di euro. Questa cifra resta, per ora, a disposizione del governo per il suo piano casa fatto di fondi immobiliari e di interventi di edilizia residenziale a scarsa propensione sociale.

Prima che il piano del governo decolli, trascorrerà altro tempo inutilmente, con risorse finanziarie pubbliche immobilizzate e un peggioramento della condizione di disagio abitativo di un numero rilevante di famiglie.

Se riuscirà a trovare le altre risorse necessarie, con il suo piano casa il governo vuole incrementare, riporta la stampa, di 20.000 unità il numero di alloggi destinati alle famiglie a più basso reddito. Non è un obiettivo particolarmente ambizioso. Ma soprattutto, se l’obiettivo è effettivamente quello, nel giro di pochi mesi si potrebbe percorrere la metà del cammino che porta a quel traguardo, se solo si trasferissero subito alle regioni tutti i 545 milioni per realizzare gli interventi già finanziati.

Un sostegno alle piccole imprese edili

Gli interventi che le regioni sono pronte a realizzare, da ormai quasi un anno e mezzo, consentono di accrescere di 11.922 unità l’offerta di alloggi da assegnare in affitto a canoni contenuti[1]. Un numero non trascurabile, ma verosimilmente inferiore alla sua consistenza reale, poiché molte regioni hanno attinto ai loro bilanci per ampliare i programmi finanziati dallo stato. In ogni caso anche considerando i soli fondi statali, non sarebbero certo trascurabili gli effetti positivi di un loro rapido trasferimento alle regioni o agli enti incaricati di realizzare gli interventi.

Le regioni hanno previsto di realizzare interventi o di promuovere iniziative di immediata fattibilità, con la conseguenza che le risorse sarebbero subito spese per sostenere la domanda di beni e servizi impiegati in edilizia. A livello macro economico questo sostegno, anche se non trascurabile, potrebbe anche non essere considerato determinante. Ma a livello territoriale può rivelarsi incisivo, soprattutto a sostegno delle piccole imprese e delle attività artigianali.

Dei circa 545 milioni di euro complessivi, poco meno di 265 finanzierebbero le spese di recupero e di ristrutturazione di 7.366 case popolari ora vuote per mancanza delle risorse necessarie per riattarle, metterle a norma e assegnarle in locazione. Nella gran parte dei casi si tratta di interventi diffusi sul territorio e sparsi in tutto il patrimonio di alloggi pubblici, con un investimento medio di 36 mila euro per alloggio. La realizzazione dei lavori può, quindi, essere affidata, con procedure di evidenza pubblica molto semplificate, a tante piccole imprese o lavoratori autonomi, per i quali anche cifre relativamente modeste possono salvare il fatturato. Si trasformano in possibilità di lavoro per le imprese anche i 160 milioni programmati dalle regioni per costruire circa 1.500 nuovi alloggi; in alcune aree l’impatto sulla domanda di attività edilizia può essere rilevante.

Viene fatto, da parte delle regioni, anche un tentativo di fronteggiare il fabbisogno di case a basso prezzo ricorrendo al mercato, affittando, attraverso agenzie ed altri strumenti di intervento degli enti locali, circa 2.200 appartamenti da proprietari privati per assegnarli a famiglie sfrattate o in attesa di una casa popolare. È un tentativo di sfuggire ad una prassi assistenziale che di fatto assegna a vita le case pubbliche, ma può contribuire anche a stimolare il mercato dell’affitto.

Un aiuto al mercato può darlo anche il proposito di utilizzare quasi 100 milioni per acquistare circa 850 appartamenti già costruiti, e che la crisi immobiliare lascia invenduti. Ma è anche un aiuto ad incrementare l’offerta di alloggi di edilizia residenziale sociale. Essi accresceranno il patrimonio di “case popolari” dei comuni e degli Iacp, da affittare a canone sociale o comunque più basso di quello di mercato. Anche i prezzi ai quali gli alloggi sarebbero acquistati sono inferiori a quelli di mercato. In media ci si colloca al di sotto dei 120 mila euro per appartamento. È la fase di stanca del mercato immobiliare, con il rilevante stock di alloggi invenduti e l’allungamento dei tempi di vendita, che consiglia o costringe le imprese che ne sono proprietarie ad accettare prezzi da edilizia convenzionata, notevolmente più bassi di quelli di libero mercato.

[1] I dati che seguono sono il risultato delle elaborazioni condotte sulla lista degli interventi proposti dalla regioni e contenuta nell’allegato 2 al decreto del ministero delle infrastrutture del 28 dicembre 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio 2008, n. 14.

VENEZIA. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, lo chiama un piano per trasformare gli inquilini da sudditi in «cittadini liberi» e «proprietari capitalisti». Con gli altri provvedimenti, secondo il ministro, finirà per essere «il più grande piano casa varato dal dopoguerra, il più importante d’Europa». In realtà, più prosaicamente, si tratta di una gigantesca vendita di case popolari a chi le abita, a qualsiasi titolo le possegga o ci sia dentro, e a qualsiasi costo per fargliele comprare pur di disfarsi di un patrimonio immobilizzato che lo Stato non sa gestire. E in questo il Veneto, più virtuoso di altri in quanto a gestione di case popolari, farà da apripista: entro il 31 ottobre tutto il patrimonio pubblico delle case ex Ater sarà venduto «facendo diventare proprietari 41mila inquilini che oggi lo occupano». Ricavo previsto 7-800 milioni di euro, che verranno reinvestiti per costruire nuove case per giovani, coppie e così via.

L’annuncio è stato dato ieri dal presidente della Regione Giancarlo Galan, dal ministro Brunetta teorizzatore della vendita a livello nazionale, e dall’assessore Massimo Giorgetti in una conferenza stampa a Palazzo Balbi. In realtà per scendere dagli annunci salvifici, che fanno risalire il piano casa a quello adottato da Lula per le favelas, alla realtà bisognerà aspettare ottobre, quando saranno note le norme con le quali la Regione intende procedere alla vendita delle case. Molti sono, infatti, gli interrogativi: a quali prezzi, con quali norme dispositive, con quali obblighi e così via. E poi c’è da valutare il ruolo che dovranno assumere le banche, che, ovviamente, dovrebbero fornire i mutui agli inquilini, che comunque avranno prezzi di gran favore.

Per lo Stato, oltre che per gli inquilini, si dovrebbe trattare di un affare, visto che i prezzi medi che le Ater riscuotono dagli affitti non bastano neanche a pagare il costo medio della manutenzione degli appartamenti che, in Veneto, secondo le statistiche fornite dalla Regione sono per oltre il 50% di prima del 1969. Del resto l’Ater ha già avviato in Veneto un programma di vendite immobiliari, anche se per adesso, non ha avuto grande successo: ma i prezzi sono a valori scontati rispetto al mercato.

Da quel che si è capito ieri, in mezzo agli annunci di rivoluzione, il piano dovrebbe seguire alcune linee:

1) gli alloggi verranno venduti agli inquilini che li occupano perché ne hanno diritto o perché di fatto sono lì ormai da molti anni. L’abusivismo in Veneto è modesto ma in alcune Regioni d’Italia è alto. Comunque i prezzi saranno tali da trasformare il canone di locazione nella rata di un mutuo. Il prezzo medio, a quanto stima Giorgetti, sarà circa sui 20.000 euro ad abitazione, comunque dipenderà dalle fasce di reddito. A fornire i mutui dovrebbero essere le banche, ma in che modo e in che forme è ancora tutto da decidere;

2) lo scopo è di vendere quel che c’è senza troppe esitazioni e di riuscire a chiudere entro fine ottobre. Quindi ci dovrebbe essere la possibilità di rivendere gli alloggi, la possibilità che chi non vuole aderire venda la nuda proprietà e così via. Lo scopo è anche di fare sì che alcuni immobili vengano acquisiti per essere abbattuti e poi ricostruiti;

3) Il ricavato dell’operazione dovrebbe essere, di 750 milioni che, dicono gli sponsor del progetto veneto, costituirebbero il volano di una fase due degli investimenti in edilizia popolare. I fondi potrebbero essere anche utilizzati per acquistare l’invenduto sul mercato in modo da avere disponibilità di nuovi alloggi.

4) Con questa gigantesca sanatoria lo Stato si libera di un patrimonio morto che costa molto più di quanto rende (basta pensare l’assurdità che le Ater pagano anche l’Ici sugli immobili che rendono a volte 15 o 20 euro al mese) sorvolando sul fatto che in molti casi si premiano gli abusivi.

Si spera che con la nuova fase si riesca a superare uno dei problemi storici del paese e cioè quello dell’assenza di un mercato dell’affitto e di un’edilizia popolare che premi davvero le fasce più deboli della popolazione. Ma dopo anni di condoni e di sanatorie, sarà difficile imporre e fare rispettare regole. Comunque fine ottobre è vicino: basta aspettare come sarà la legge che verrà predisposta.

Postilla

Regalano a pochi le case costruite (a differenza di quelle nelle favelas) con i soldi di tutti i lavoratori. Spacciano questo per un “piano casa”. Rinunciano a un patrimonio pubblico di case in affitto, prezioso tanto più che è aumentata la mobilità territoriale. Non viene loro in mente che una moderna ed efficace politica della casa deve poter incidere su tutti i segmenti dello stock abitativo, e che non può essere affidata al mercato.

Ma in realtà non sono ignorati (almeno, non tutti). Sono pervasi dall’ideologia per la quale è cittadino solo chi è proprietario. Non avrebbero firmato l’articolo 42 della Costituzione, là dove stabilisce che devono essere posti alla proprietà “i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. Per loro, l’unica funzione sociale utile è quella che assicura il loro potere: più italiani diventano proprietari più noi possiamo illuderli che i loro interessi coincidono con i nostri. É una politica vecchia per l’Italia; praticata dalla vecchia DC, ha contribuito adl allontanare l’Italia del resto dell’Europa riducendo al lumicino il mercato dell’affitto, facendo lievitare i prezzi delle case, costituendo l’alibi per sempre nuove espansioni edilizia, diruttannto risorse dal profitto e dal salario verso la rendita, e infine distruggendo il bel paese e la speranza di un vero “diritto alla casa” – per chi ha bisogno di un tetto a un canone equo e non a chi vuole diventare ricco a spese degli altri.

Qualcuno protesterà per la politica dei Galan e dei Brunetta, e del loro padrone?

''Dobbiamo approfondire perchè stiamo parlando di un'indicazione quadro che daremo alle Regioni perchè sulla casa la legge devono farla le Regioni''. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in merito all’annunciato provvedimento del governo di aumento delle cubature edilizie di un 20/30%. Berlusconi ha inoltre spiegato:''chi ha una casa potrà ampliarla senza far perdere valore e rendendola più bella. Sembra più logico che se uno fa un ampliamento perchè ha bisogno, magari perchè gli è nato un nipotino, potrà farlo e non perderà il valore della casa, anzi lo accrescerà ''.

Il ministro agli affari regionali, Raffaele Fitto, in un’intervista a Il Messaggero ribadisce che “ovviamente il testo verrà sottoposto ad un confronto con le regioni proprio per renderlo compatibile con le normative locali ed evitare che venga svuotato dalle leggi regionali”.

Il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha sottolineato di aver “già affermato che mi preoccupa la politica degli annunci e mi preoccuperebbe ancor più se si facesse la scelta grave delle deregolazioni invece di seri percorsi di semplificazione, che sono necessari". Errani aggiunge: "trovo gravemente sbagliato il metodo. Se si vuole una vera politica della casa, anche per rispondere alla crisi economica, si azzeri questo 'piano segretò, come è stato definito, si rimetta il treno sui giusti binari, si riparta da un corretto rapporto istituzionale con regioni ed enti locali, titolari della materià'.

È una forma surrettizia di condono, “una ferita al territorio", afferma in un'intervista a 'Repubblicà Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio. "È l'idea di fondo che è sbagliata - ha proseguito Marrazzo -. L'emergenza alloggi non si fronteggia solo con l'aumento di cubature, ma attraverso un processo".

Anche per il presidente della Toscana, Claudio Martini, ''il piano annunciato dal Governo è un condono preventivo e camuffato”, quello che serve è un piano nazionale casa. ''Anche le assicurazioni date contro una crescita dell'abusivismo sono ridicole. È bene che si sappia - ha aggiunto Martini - che per i piccoli abusi dettati da esigenze reali esistono già normative regionali di sanatoria. Non c'è quindi alcun bisogno di nuove deregulation”. Occorre pertanto aprire un tavolo tra Governo e Regioni “per definire contenuti, obiettivi e risorse. Le Regioni sono pronte a contribuire e a lavorare per questo obiettivò'.

Per il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, il provvedimento. ''appare frutto di improvvisazione e comunque cosi' come segnalato faciliterebbe molto l'abusivismo e poco l'efficacia di un intervento concreto che solo le Regioni da tempo stanno attuando sui diversi territori regionali”. Secondo De Filippo il Governo “farebbe meglio ad abbandonare la strada dei tagli ai trasferimenti alle Regioni e agli Enti Locali, se realmente vuole sostenere il settore. In mancanza di adeguate risorse anche le politiche delle Regioni e degli Enti Locali in materia di edilizia pubblica e scolastica rischiano di essere del tutto evanescenti''.

Il presidente della Regione Marche, Gian Mario Spacca, afferma di voler vedere prima i contenuti del provvedimento e ribadisce: ''qualunque normativa sull'edilizia e il territorio non potrà prescindere da un ruolo attivo di Comuni, Province e Regioni. Quello che ci aspettiamo è che l'intervento del Governo sia compatibile e concordato con questi livelli di governò'.

Anche il il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, sostiene che ''prima di dare un qualsiasi giudizio sul piano del governo attendiamo di conoscere i dettagli”. ''Sulla base delle notizie di stampa, che parlano della possibilità di aumento delle cubature con procedure poco chiare per consentire alle giovani coppie di avere un proprio tetto mi sento di dire però che si può raggiungere meglio l'obiettivo con incentivi reali come quelli che la Calabria ha messo a disposizione e senza cambiare le regolè'.

Mentre il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, dichiara che ''si può partire anche prima dell'estate. Anzi, si deve partire subitò'. Roberto Formigoni, in un'intervista a Il Tempo, sottolinea che ''l'edilizia è un settore moltiplicatorè', non solo ''direttamente ma anche sull'indottò'. E poi le ristrutturazioni rendono le città più belle quindi ''aiutare l'edilizia significa rimettere in modo il paesè'. Formigoni spiega che ''proprio perchè c'è la crisi'' gli investimenti in borsa non rendono. La casa, invece, ''è quanto di più caro hanno gli italiani'' e ''investire sulla propria casa significa - ricorda il presidente della regione Lombardia - investire sul proprio benè'. Formigoni inoltre afferma che non ci sarà un criterio unico, perchè la possibilità di costruire cambierà da zona a zona, anche se il 20% di cubatura in più è ''una soglia media giusta'. E non ci sarà, assicura, nessun lassismo da parte delle regioni: ''Il testo del governo definirà la cornice generale, offrirà alle regioni la possibilità di decidere. Non c'è alcuna imposizionè'. In Lombardia, annuncia, ''avremo delle regole molto rigide, ci saranno controlli molto intensi e chi sbaglierà -garantisce Formigoni- sarà pesantemente bastonatò'.

Nessuno ''scempio” ambientale, nessuna ''violazione”, sostiene invece Giarcarlo Galan, presidente della regione Veneto: ''ci limitiamo a sveltire la burocrazia” e a rimettere in moto il sistema economico. Lo dice Galan in un'intervista al Giornale, respingendo ogni critica al piano: ''stiamo parlando di un progetto che riguarda il patrimonio edilizio esistente, senza contare che è un provvedimento a termine, che durerà un anno, al più tutto il 2010, e limitatamente agli edifici del 1989''. Galan esorta gli altri presidenti delle regioni a fare altrettanto, a ''far decollare questa proposta”. ''In tanti edifici - aggiunge Galan - c'è dispersione energetica, non si utilizzano fonti alternative. Ecco l'indotto dell'edilizia: non riparte solo il mattone ma anche le tecnologie collegate”.

Il piano casa che si appresta a predisporre il Governo è un contributo concreto per uscire dalla crisi economica, che non si può superare spendendo solo parole. Lo dice il portavoce di palazzo Chigi e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti:"Questo –spiega Bonaiuti- è un progetto che ha due obiettivi: il primo a lungo termine che è tutto del nostro Governo, di eliminare le burocrazie e le carte bollate, la semplificazione, l'uscita dai coni di bottiglia della burocrazia; e l'altro è un discorso più generale che riguarda la crisi in corso e il far lavorare tutte quelle piccole e medie imprese che generano occupazione nel settore edilizio e rientra in quel progetto per cui dalla crisi si esce non con le grandi parolone della sinistra ma con procedimenti concreti, precisi, netti, che danno lavoro alle persone"."Ma perchè -si chiede Bonaiuti- vedere sempre questa volontà di cementificare? Non si tratta di questo, si tratta, con molta semplicità, di ricordare che l'80 per cento dell'occupazione è dato dalle piccole e medie imprese. Quindi vanno bene i grandi piani –siamo stati noi i primi a fare il piano per le grandi opere- però occorre anche rimettere in moto tutta quella miriade di piccole e medie imprese artigiane di poche persone, magari familiari, che si diano da fare con tutto quell'indotto che è piccolo nei singoli casi ma che moltiplicato per 108 Province e 20 Regioni produce un moltiplicatore impressionante". Il meccanismo di aumento delle cubature sarà subordinato a vincoli ambientali precisi “stabiliti dalle Regioni e dai piani regolatori comunali e quindi non si potranno prestare a speculazioni". Bonaiuti è fiducioso su quello che sarà l'atteggiamento delle Regioni: "Quando si va ad un tavolo e si comincia a parlare tutti dimostrano un certo senso di responsabilità: quando si è incominciato a discutere di ammortizzatori tutti escludevano che le Regioni potessero trovare un accordo con il Governo invece poi alla fine l'accordo per quegli otto-nove miliardi di ammortizzatori sociali in deroga sono stati trovati. Le Regioni di destra e di sinistra hanno fatto tutte imparzialmente il proprio dovere ed espletato il proprio senso di responsabilità. Quindi credo che un accordo si potrà trovare".

Scettico in un'intervista a Repubblica il presidente della Sicilia Raffaele Lombardo: "non sono pregiudizialmente ostile, ma ho delle riservè'. ''La Sicilia -ha riferito Lombardo- ha sofferto a lungo la piaga dell'abusivismo, stiamo attenti con le nuove cubature. L'impatto ambientale deve essere compensato da norme di risparmio energetico come quelle che incoraggiano l'uso dei pannelli solari. Ma mi interrogo sui reali benefici economici di questo progetto. in Sicilia, con i consumi depressi non so quante famiglie possano spendere 150mila euro per allargare la propria abitazione".

''Siamo consapevoli- ha aggiunto la presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti - delle esigenze dei cittadini, soprattutto quelli a più basso reddito, per interventi di ampliamento delle proprie abitazioni. Come siamo consapevoli che il settore dell'edilizia può contribuire positivamente alla riprese economica. E siamo anche favorevoli, avendoli chieste noi per primi, ad interventi di semplificazione delle norme. Insomma, si tratta di tante buone ragioni, che però non possono essere un pretesto per dare una spallata al sistema di regolè'.

Lorenzetti, che è coordinatrice per le Regioni proprio per le questioni della casa, spiega che “la cosa più saggia da fare ora è quella di fermare tutto e avviare una seria discussione tra Governo, Regioni e Autonomie locali''.

Per Maria Rita Lorenzetti, ''le rassicurazioni del ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, cercano di sminuire la portata di quanto annunciato, con forte effetto mediatico, dal premier Berlusconi. Resta il fatto che si è trattata di un annuncio improvviso, confuso e senza che di ciò si sia mai discusso con le Regioni ed il sistema delle Autonomie locali''. ''Tutto ciò - ha osservato la Lorenzetti - desta non solo sconcerto, ma grande preoccupazione, visto che per mesi Governo e Regioni hanno discusso del Piano casa, senza che mai fossero emerse le proposte che sono state oggetto delle affermazioni del premier''.

Da Regioni.it, periodico telematico a carattere informativo plurisettimanale N. 1323, lunedì 9 marzo 2009

Signore e signori, ecco a voi la bolla del mattone. Una bolla all'italiana. Piena di furbetti, furbastri, furboni. Ci sono manager, banchieri, grandi imprenditori, politici, uomini delle istituzioni. Tutti a scambiarsi case e palazzi. I pezzi migliori, naturalmente. Sfilati dal patrimonio di società quotate in Borsa con migliaia di piccoli azionisti o dal portafoglio dei fondi immobiliari. Facile, quando si gioca in casa. Facile, quando lo speculatore di turno si trova al crocevia di grandi affari e non resiste alla tentazione di prendersi qualcosa per sé. E i soldi? No problem. C'è sempre qualcuno pronto a far credito ai furboni d'Italia. Per loro le banche sono sempre aperte.

E così, in un'apoteosi del conflitto d'interessi, si scopre che una scelta compagnia di privilegiati è riuscita a cavalcare alla grande gli anni del boom accumulando patrimoni multimilionari. Ci sono case di gran pregio nei centri storici di Milano e Roma che passano di mano più volte nel giro di pochi mesi. Attici di lusso ceduti a prezzi stracciati. Immobili che rimbalzano da un proprietario all'altro a valori sempre crescenti. E a ogni passaggio il venditore intasca la sua bella plusvalenza.

Tutto scritto. Tutto nero su bianco nei documenti ufficiali che 'L'espresso' ha raccolto. Qui non c'entrano i furbetti doc, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola. Quelli hanno ballato una stagione soltanto. In questa storia, invece, troviamo marchi prestigiosi come la Pirelli Real Estate, la più grande società immobiliare italiana controllata dalla Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Industriali come i Benetton e gli Stefanel. Un manager di lungo corso come Vito Gamberale. E poi gli uomini di punta della filiale italiana della Lehman, la banca d'affari Usa fallita nel settembre scorso. Così, poco alla volta, viene alla luce un complicato network di relazioni affaristiche, alcune davvero sorprendenti.

Affari in autostrada

Partiamo da Padova e dall'Antonveneta. Nel 2004, alla vigilia dell'ondata di cambiamenti che l'avrebbe sconvolta, dall'Opa di Gianpiero Fiorani alle indagini, dalla scalata spagnola all'arrivo del Monte Paschi, la banca patavina decide di vendere il proprio patrimonio immobiliare. Antonveneta allora era controllata da un gruppo di imprenditori, tra cui Giuseppe Stefanel, e poi da Benetton, dagli olandesi di Abn Amro e dal Lloyd Adriatico. Nel dicembre 2004 vengono cedute 160 unità immobiliari in tutta Italia per 140 milioni al gruppo Usa General Electric Real Estate. Appartamenti, negozi e sportelli bancari, ma soprattutto i palazzi di rappresentanza nei centri storici delle città. Ma gli americani di GE rivendono dopo pochi mesi. A chi? Mentre Fiorani e Abn Amro si contendono il controllo della banca, entro l'estate del 2005 il patrimonio approda nei portafogli di Benetton e Stefanel.

A Benetton va il gioiello della collezione: il complesso di negozi e appartamenti all'angolo tra piazza Venezia e via del Corso, a Roma. Mentre Stefanel paga 93,4 milioni di euro per 147 immobili sparsi in tutta Italia (con una plusvalenza per GE di una decina di milioni in sei mesi).

I palazzi di piazza Venezia transitano per una società intestata alla fiduciaria Finnat, che nello stesso giorno stipula il preliminare per vendere al medesimo prezzo (42,2 milioni) alla Piazza Venezia Srl di Gilberto Benetton, amministrata dalla figlia Sabrina (nipote di Luciano e cugina di Alessandro). A rileggerla oggi l'intera operazione appare come una spartizione del patrimonio della banca da parte di due soci autorevoli. C'è solo un palazzo che segue una strada diversa. Prima della vendita in blocco a GE Real Estate, una manina sfila lo stabile di via del Mancino, 50 metri da piazza Venezia a Roma, e lo vende a una società di Vito Gamberale. Ancora una volta si resta dalle parti di Ponzano Veneto.

Il manager in quel periodo era infatti amministratore della principale società del gruppo Benetton: Autostrade. Antonveneta ha finanziato pure l'acquisto del manager di Benetton con un mutuo da 1,5 milioni. Un'operazione che pare in conflitto di interessi, ma Vito Gamberale la difende così: "Benetton non c'entra. Mi ha proposto l'affare il mio architetto e quell'immobile era in condizioni pietose e ho pure dovuto alzare la mia offerta perché c'era un concorrente". Resta il fatto che Gamberale compra bene: 2,1 milioni di euro per un palazzetto di quattro piani per 600 metri quadrati in pieno centro. Dopo la ristrutturazione (costata 3,8 milioni) lo stabile è diventato un residence di lusso. Si chiama Dolce vita e con i suoi 12 appartamentini affittati a 200 euro al giorno vale almeno 10 milioni di euro.

I Benetton comunque hanno fatto un affare ancora migliore: la Piazza Venezia Srl di Gilberto ha comprato nel 2005 per 42,4 milioni il complesso di palazzi più belli dell'Antonveneta a Roma e lo ha ceduto nel 2007 per 57,2 milioni, con una plusvalenza di 15 milioni di euro. Anche gli Stefanel si sono impegnati a guadagnare sul mattone della banca. Di più: grazie agli utili di quelle compravendite immobiliari il gruppo veneto riesce a dare ossigeno ai propri bilanci. Ecco come.

Nel 2007 la società Codone (controllata dalla Finpiave, la holding del gruppo quotato in Borsa) realizza 4,6 milioni di euro di plusvalenze liberandosi dei pezzi meno pregiati, poi passa a vendere le ex sedi prestigiose di Antonveneta. Un palazzo in piazza della Vittoria a Pavia, pagato 3,5 milioni, è stato ceduto a 6,2 milioni. A Genova Stefanel ha incassato 14 milioni contro i 9 sborsati nel 2005. E il meglio deve ancora venire: gli stabili Antonveneta rimasti a Codone vanno da via del Corso a Roma a via Toledo a Napoli (sei piani nella galleria Umberto I), per finire alle strade più belle di Padova, Rovigo, Parma, Vercelli, Bari, Foggia.

A conti fatti, Stefanel ha comprato il patrimonio della banca di cui era socio a debito (96 milioni presi in prestito in buona parte da Areal Bank contro i 16 messi in proprio) e lo ha fatto dando in garanzia gli immobili e gli affitti pagati dall'istituto veneto che in quei palazzi mantiene le sue sedi. Giuseppe Stefanel gioca molte parti in commedia. Il 27 luglio del 2005 entra nel cda di Antonveneta. Quando il 12 agosto compra da GE, paga grazie a un mutuo garantito dai canoni della banca di cui è socio, locatore, e grande debitore, in un tripudio di conflitti di interesse. "Codone ha siglato il preliminare con GE, non con Antonveneta, quando Giuseppe Stefanel non era ancora in cda", si difendono da Ponte di Piave, "e comunque Giuseppe Stefanel dal giugno del 2008 è uscito dalla banca".

I Bianco boys

Anche il più grande operatore immobiliare italiano, la Pirelli Real Estate, non sfugge alla regola dei furbetti del mattone. Dietro il volto abbronzato e charmant di Carlo Puri Negri o quello serio di Marco Tronchetti Provera, in realtà il motore di questa azienda è stato il napoletanissimo Carlo Bianco. Vicepresidente e amministratore del comparto residenziale per anni, Bianco è uscito di scena nella primavera del 2008 quando Pirelli RE, colpita in pieno dalla crisi, ha tagliato molti dei suoi top manager. Negli anni d'oro, però, Bianco ha cavalcato il boom facendo fare grandi affari agli amici. A cominciare dal notaio Antonio Bianchi. Lo studio romano di Bianchi ha stipulato migliaia di atti del gruppo guidato da Tronchetti e Puri Negri. A un certo punto però il notaio (e pubblico ufficiale) si è messo a fare affari in proprio. E già che c'era ha scelto proprio la Pirelli del suo amico Bianco come controparte. Con la società Gemien (intestata a lui e alla moglie) Bianchi ha comprato interi blocchi di appartamenti messi in vendita da Pirelli a prezzi di saldo. Poi i suoi tre figli hanno costituito una società, la Ge.Pa., che ha acquistato in otto atti consecutivi 263 appartamenti, box e negozi di pregio a prezzi stracciati. Per avere un'idea delle condizioni di favore garantite alla società dei figli di Bianchi basta sfogliare l'atto del 6 giugno del 2005: Gepa compra 58 unità immobiliari a Roma per 9,6 milioni. Ci sono ben 15 appartamenti in via Po; due a via del Serafico, zona Laurentina-Eur, cinque appartamenti in via Rubicone, quartiere Trieste, tre appartamenti in Lungotevere Testaccio, più una trentina di box, posti auto, soffitte e cantine. Un affarone, per chi compra. Un po' meno per chi vende. E cioè la Iniziative Immobiliari, che ha Pirelli RE come primo socio con il 30 per cento circa del capitale (più il cinque per cento intestato alla Gpi, la cassaforte di famiglia di Tronchetti e Puri Negri), ma ci sono anche Banca Intesa, Capitalia, Monte Paschi e gli americani di Peabody. Nello stesso periodo Iniziative immobiliari vende un solo appartamento nello stabile di Testaccio a 930 mila euro a un privato e ben 25 immobili di quel tipo a soli 9,6 milioni. I figli di Bianchi spuntano condizioni che appaiono di favore.

Pirelli sostiene che gli immobili sono stati venduti con una plusvalenza del 10 per cento e che comunque quando si vende in blocco si punta a far cassa per rimborsare il debito. Certo i sospetti aumentano quando si scopre che il manager Bianco e il notaio Bianchi sono in società, nella Tigullio srl. Questa società nel 2005 compra un locale commerciale nello stabile di Piazzale delle Belle Arti a Roma (348 metri quadrati più altri 169 di cortile). L'iter di questo immobile è interessante: parte da Iniziative Immobiliari di Pirelli e delle banche, passa alla Rema della famiglia Bianco, che lo cede alla Gepa della famiglia Bianchi e finisce per 1,8 milioni di euro alla Tigullio di Bianco e Bianchi (che ad aprile del 2008 l'hanno ceduta alla famiglia Vulcano).

Molti appartamenti di via delle Belle Arti e del Lungotevere Flaminio, i pezzi più pregiati delle società controllate da Pirelli Re, sono finiti a società e persone di Napoli, legate al giro di Carlo Bianco. Esemplare la storia del superattico con terrazza mozzafiato che guarda il Tevere e San Pietro, dove Bianco alloggia e riceve gli amici quando è a Roma. Grazie a una serie di aumenti di cubatura oggi misura cento metri catastali e la Rema della famiglia Bianco (moglie e figli) lo ha comprato per soli 500 mila euro. Tutto il palazzo apparteneva a una società della galassia Pirelli Re, ma Bianco ha comprato attraverso l'immobiliare Monviso (intestata a una Anstalt del Liechtenstein), rappresentata dal suo amico e socio Giancarlo Riccio.

I conflitti di Lehman

Nei salotti della finanza Gianfranco *** viene descritto come un golden boy. Poco più che quarantenne, origini pugliesi, era il gran capo degli affari immobiliari di Lehman. Nel settembre scorso, quando la banca americana ha fatto crack, è rimasto senza lavoro, ma gli amici scommettono che non avrà problemi a ricollocarsi. Del resto i contatti ad altissimo livello non gli mancano di certo. Negli ultimi anni il giovane banchiere ha seguito da consulente operazioni miliardarie per conto di clienti come le Assicurazioni Generali, Beni Stabili, il gruppo Farina e quello di Giuseppe Statuto, per citarne alcuni. Solo che *** ha sempre amato anche giocare in proprio, e qualche volta i suoi affari personali hanno finito per incrociare quelli dei clienti di Lehman. Prendiamo il caso di un immobile in via Bocchetto, in centro a Milano. Il palazzo proviene dal patrimonio di Diomira, il fondo gestito da Pirelli Real Estate, di cui Lehman ha comprato quote per milioni, oltre a diventarne consulente. Nel 2006 *** partecipa all'acquisto dell'immobile milanese in compagnia del suo amico Aldo Magnoni, il cui fratello Ruggero a quei tempi stava ai vertici europei di Lehman. Nel ruolo di venditore compare una società di Vittorio Farina (amico e cliente di ***).

L'affare vale una ventina di milioni di euro. *** e soci, comunque, non impiegano molto a trovare un acquirente. Giusto poche settimane fa è stata siglata la vendita del palazzo di via Bocchetto alla Polis, società milanese di gestione di fondi immobiliari. È una vendita in famiglia, o quasi: l'azionista di controllo di Polis è la Sopaf, la società quotata in Borsa che fa capo ai fratelli Magnoni. Insomma, a decidere l'acquisto è il consiglio di amministrazione di Polis, ma a finanziare l'operazione alla fine saranno gli investitori terzi che comprano le quote del fondo immobiliare.

Stesso schema per un immobile di gran prestigio nella centralissima piazza Santi Apostoli a Roma. La storia di quel palazzo è a dir poco singolare: insieme ad altri due stabili romani in via Veneto e in via XX Settembre, nel 2005 transita dalla Orione Immobiliare (Pirelli e famiglia Tronchetti) alla Spinoffer di Vittorio Farina con profitti milionari per i venditori. Intorno alla casa di Santi Apostoli si scatena però una vera girandola di operazioni. Nel giro di quattro anni cambia cinque proprietari e nel frattempo il prezzo raddoppia da 38 a 76 milioni. L'ultimo acquirente in ordine di tempo (siamo alla fine del 2007) è il fondo immobiliare Vesta, che fa capo al gruppo Beni Stabili. Che c'entra Lehman? C'entra, eccome. A vendere sono ancora i Magnoni, Aldo e Ruggero. Ma al loro fianco, nella società che porta a termine l'operazione spunta Roberto Banchetti, ovvero il banchiere romano che dopo una lunga carriera in Lehman è stato nominato capo della divisione italiana pochi giorni prima del fallimento. La vendita del palazzo di piazza Santi Apostoli frutta profitti per almeno una decina di milioni. Ma il piatto è ancora più ricco. Oltre 4 milioni di euro vengono versati a non meglio precisati "consulenti", come recita un atto ufficiale. E altri tre milioni di euro risultano pagati a titolo di provvigioni. Niente paura. Alla fine, a saldare il conto, sono gli investitori del fondo Vesta gestito da Beni Stabili.

Non finisce qui. Anche il fondo acquirente era legato a Lehman. La società di gestione di Vesta, infatti, faceva capo per il 10 per cento alla banca Usa fallita qualche mese fa. Ed era guidata da un manager, Terenzio Cugia, che per anni ha lavorato in Lehman. Insieme a Banchetti, Magnoni e ***.

*** A seguito di una istanza di appello al Diritto all’Oblio pervenuta alla redazione di Eddyburg, abbiamo cancellato il riferimento personale per non esporre l'associazione a cause giudiziarie. Restiamo convinti che il diritto di cronaca non debba essere sacrificato e ci adopereremo per trovare un giusto bilanciamento. (Mauro Baioni, presidente pro-tempore dell'associazione).

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