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Si terrà a Venezia il 20-21 aprile 2015 presso l'Università Iuav di Venezia. Globalproject.info, 15 aprile 2015 (m.p.r.)

L’autorecupero è una modalità di intervento che prevede l’ “autorganizzazione” della società civile ed è finalizzata a restituire all’uso beni pubblici e non, compromessi da degrado fisico causato da sottoutilizzo o da vero e proprio abbandono. Sono differenti le condizioni e i modi in cui si esplica, diversi i soggetti che lo propongono e lo attuano; così come possono esserlo le risposte in reazione – fra accettazione e rifiuto - a tali pratiche da parte delle istituzioni preposte al governo urbano. Fa parte di un insieme di “modi d’agire”, attraverso cui cittadini esperti e autorganizzati, in Italia, rivendicano il proprio diritto all’abitare, inteso anche come forma di resistenza proattiva all’espulsione dalla città di soggettività non intercettate e/o penalizzate dai controversi risvolti delle tradizionali – e poco aggiornate - politiche di welfare (in particolare quando il bene in questione è la “casa”).

L’interesse per l’autorecupero, come pratica alternativa e opzione preferibile di riutilizzo, risiede oggi nell’incapacità degli enti locali di gestire con efficacia parti considerevoli del patrimonio immobiliare pubblico, motivata anche dagli alti costi dei lavori necessari, secondo norme e istituzioni, a riadattare gli edifici; di converso, i diversi casi, fra autorecupero e autocostruzione. nel workshop posti allo studio, possono essere considerati come vere e proprie sperimentazioni di modelli sostenibili e a basso costo, capaci di ribaltare -attraverso il coinvolgimento diretto dei futuri abitanti nel cantiere- l’illogicità limitante del profitto privato, della spesa pubblica e di una qualità solo presunta, che norme e consuetudini spesso sganciate alle reali necessità, sostengono. Non ultimo, da rilevare è il valore che a tali esperienze si assegna per gli effetti capacitanti dei soggetti coinvolti, tanto nella costruzione di reti di relazione comunitaria che di scambio di competenze, siano esse tecniche che di cittadinanza.

“Autorecupero e abitare”, pertanto, inteso non solo come un’azione mirata per il riutilizzo di un bene collettivo ma anche come pratica virtuosa capace di generare forme di aggregazione e solidarietà con effetti sulla comunità locale, sull’ambiente urbano e sulle modalità - alternative – di abitarlo; ciò, restituendolo come effettivo spazio politico, capace di esprimere un’opinione in merito ai bandi regionali di accesso agli immobili, alle svendite dei beni comuni, all’abbandono del patrimonio pubblico (a partire dalla casa), al drenaggio di risorse economiche e ambientali delle grandi opere e della cementificazione del territorio.

Il workshop, pertanto, è da intendersi sia come occasione per il riconoscimento di competenze di cui sono portatrici tali esperienze e i soggetti che le hanno promosse e attuate, sia come opportunità per l’elaborazione condivisa di un “manifesto operativo” dell’autorecupero come modalità effettivamente praticabile per il ri-abitare la città.

Workshop del ciclo “on Self-Managment City. Collective Movement(s) and Shared Spaces” Workshops and Seminars a cura di Ruben Baiocco, DPPAC, Iuav. Qui il programma

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi. Il Fatto quotidiano, 23 febbraio 2015

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. A fronte di tanto patrimonio in eccesso, si spende un milione di euro l’anno per ospitare il "rappresentante del governo" nel prestigioso Palazzo Diotti. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi

Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per unasuperficie fondiaria equivalente a cento campi di calcio. E tuttavia, a fronte di tanto patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803 fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno uno fra i più prestigiosi del centro storico. Da 156 anni questo gioiello è il “Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la schioda. A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo. Città che vai, paradossi che trovi.

Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita (scarica) e lo si incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati(scarica), il paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anziché buttare i soldi in un affitto. Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.

Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga. Se un sindaco prova a sfrattare il prefetto fa subito notizia. Succede a Grosseto, dove il primo cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli Rosselli. Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto. L’epilogo è tutto da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2 di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino, Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.

Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le città. A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora alquanto modesti. Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobiliritenuti non necessari dai quali prevede di incassare 220 milionidi euro quest’anno e 100 nel 2016. L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese. Da allora sono partite girandole ditavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà. Ma quel che è certo è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città, ci si rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri e pubblici.

Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato premier ha premuto l’acceleratore. Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa. Ancora non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del Prefetto. Eh sì, perché la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876 l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini. Per le due locazioni lo Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15 caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali perché dichiarate di pregio storico e architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche certe dislocate nel cuore della città. Ma neppure questo basta a far scattare la scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.

Milano, si diceva. A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica “Mameli” nell’area nord del capoluogo. Insieme fanno una superficie fondiaria di 720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio. Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura? Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato. E così mentre la Difesa dismette, il Viminale spende. Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato. “Due mesi fa abbiamo dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede principale”, fanno sapere dalla Prefettura. A conferma del fatto che di spazio, forse, ce n’era in abbondanza. Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per quanti anni l’assegno è stato doppio.

Più paradossale ancora la situazione nella Capitale. Il 7 agosto 2014 è stato sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente. Ma sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni di euro l’anno. A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal 1873. Una partita di giro tra amministrazioni. Ma c’è anche l’Ufficio territoriale del governo divia Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e mezzo di euro. Perché non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia? L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno. Ma chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali? A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a 1,6 milioni.

Passiamo a Torino. Nel paniere delle vendite sono finite le casermeCesare di Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica. A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi militari. Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano oltre400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via del Carmine.

Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il casoNapoli. Nel capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno, lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica funzionale. Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato. Il Ministero dell’Interno, a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla. Nel 2014 ha pagato1,3 milioni di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissimaPiazza del Plebiscito che è una delle più grandi e belle d’Italia. Difficile, del resto, trovare una location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.

Schema del dialogo tra Edoardo Salzano, Sergio Pascolo, Mariarosa Vittadini, Enrico Tantucci, organizzato da Corte del fòntego editore, a Venezia, palazzetto Bru Zane, il 15 gennaio 2015. In calce il link alla registrazione su youtube

1 il paradosso:

EDOARDO SALZANO: Venezia è una città nella quale alla perfezione dell’assetto urbanistico si accompagna una grave difficoltà, da parte dei residenti, a continuare ad abitarla: “Ogni anno qualche migliaio di persone abbandona Venezia rinunciando a vivere in una delle più straordinarie strutture urbane del mondo. Come spiegare questo paradossi?”. Questa è la domanda che pone Sergio Pascolo, autore di "Abitando Venezia”. Gli chiedo di argomentarla.

SERGIO PASCOLO: vorrei precisare che quando diciamo “una delle più straordinarie strutture urbane del mondo” oggi, più che qualche decennio fa, significa anche una delle città più attuali del mondo; infatti ovunque si sta facendo una riflessione profonda sulla crescita urbana e sull’insostenibilità dei modelli ormai obsoleti basati sulla crescita infinita e sregolata permessa dalla diffusione del trasporto individuale con l’automobile; oggi si sta discutendo proprio della necessità di fissare nuovi paradigmi dello spazio urbano che riportino la città a dimensione umana; la condizione di pedonalità, il rapporto continuo con la natura (l’acqua) il vivere muovendosi all’aria aperta e potendo incontrare persone, sono i valori che costruiscono questi nuovi paradigmi necessari per la città del XXI secolo; mentre molte città cercano di perseguire questi obiettivi anche con progetti impegnativi e difficili Venezia è già così ma viene abbandonata – Abitare = Vivere = Lavorare= Tempo libero: qualità complessiva della vita

2. l ragioni del disagio:

EDOARDO SALZANO: a me sembra che le ragioni essenziali del disagio, i suoi fattori, siano tre:
1. il prezzo, in termini economici, del vivere a Venezia (la casa, i prodotti, i servizi per la casa)
2. il disagio provocato dalla congestione: le code e la ressa ai vaporetti, le movida nei campi più frequentati, …
3. l’assenza, da almeno un ventennio, di un governo che si faccia carico dei problemi degli abitantistabili.

MARIAROSA VITTADINI: Il problema dei trasporti è stato storicamente un fattore potente di abbandono della città da parte dei suoi abitanti. Per il costo generalizzato, come lo chiamano i trasportisti, fatto dei costi diretti e soprattutto del tempo di viaggio. Ma fatto anche di profonde ragioni culturali. Negli anni sessanta e settanta l’automobile è stata una conquista sociale, un simbolo di ricchezza e averla sotto casa un fattore di libertà. Venezia è stata vissuta come una città difficile, scomoda, frenante. Da qui molte politiche di omogeneizzazione della città finalizzate ad una presunta efficienza. Emblematica la storia di piazzale Roma, della concentrazione di uffici e attività e del rovesciamento della città storica intorno alla testa di ponte.

Il grandissimo successo dell’automobile nel mondo ne ha fatto uno dei principali problemi per la città. Inquinamento, congestione (che vuol dire lentezza, incertezza sui tempi di spostamento, disagio collettivo oltre che individuale), limitazioni crescenti e anche disaffezione stanno cambiando radicalmente le cose. Non c’è ragionamento sulla città di domani, etichettata come amichevole, intelligente, eco-sostenibile, resiliente e così via che non inizi con la riduzione delle mobilità automobilistica, la riconquista della salute e del piacere di muoversi a piedi e la trasformazione dell’auto in un servizio piuttosto che in un bene privato. Questa aspirazione d’altrove a Venezia è già un fatto, con una qualità dello spazio che fa del semplice camminare una continua gioia per gli occhi e una continua avventura di scoperta della storia. delle tradizioni, dei valori culturali ed artistici. Ma gli amministratori di Venezia non se ne sono accorti e perseguono con impegno degno di miglior causa l’ostinazione a omogeneizzare Venezia a vecchi modelli, magari sentendosi innovativi quando propongono la metropolitana sub lagunare da Tessera a Fondamente Nuove.

Accade così che si aggiungano così nuovi parcheggi a Piazzale Roma, al Tronchetto, alla Marittima, alla radice del ponte translagunare. Arrivare presto e più vicino possibile, rosicchiando i margini per far posto alle auto: quelle privilegiate degli addetti al porto, quelle dei turisti che partono con le grandi navi, quelle dei turisti che possono permettersi alte tariffe giornaliere. Anche per i residenti, certo, riservando loro quote minime. Tuttavia per quelli che abitano Venezia il problema automobile è veramente minimo. Il servizio acqueo funziona benissimo quando non è congestionato dai turisti, anche se recentemente i tagli ai finanziamenti ne hanno minato la regolarità. La ferrovia, l’aeroporto una fin troppo estesa rete autostradale collegano efficacemente al resto del mondo. Il problema sono piuttosto i trasporti di vicinato, una terraferma ad insediamento disperso, fondata sull’uso obbligatorio dell’automobile, dove gli investimenti si concentrano sulle autostrade e contribuiscono potentemente alla ulteriore dispersione. Il SFRM vent’anni dopo la decisione di farlo non ha partorito neppure una linea e soprattutto non è riuscito a raccordare Venezia e la sua area metropolitana. Si arriva più facilmente dalla Francia o dalla Germania che da Spinea.

EDOARDO SALZANO: Sul tempo avrei qualcosa da aggiungere. Io sostengo che per valutare la qualità del trasporto, della mobilità, non basti misurare la durata del percorso, ma anche la sua qualità. Altro è una brutta metropolitana, altro è un bel tram, come a Strasburgo, altro ancora è un vaporetto nell’arciplago che è Venezia. La riflessione di Maria Rosa sugli effetti della mobilità interamente affidata al mezzo individuale mi induce ad anticipare un tema su cui fra poco vorrei tornare: Venezia, proprio per il modo in cui storicamente si è organizzata la sua mobilità, ha molto da insegnare al mondo. Se non ricordo male era Le Corbusier che diceva che a Venezia si era raggiunto un obiettivo che era stato proposto ma raramente raggiunto dall’urbanistica moderna: la separazione del traffico pedonale da quello meccanico. Ma sentiamo anche Sergio.

SERGIO PASCOLO: sui PREZZI: sicuramente quello del costo della casa è il problema maggiore e non può che essere affrontato con un ri-equilibrio del mercato tramite interventi di housing sociale; per quanto riguarda il costo generale della vita credo che si debbano considerare molti aspetti; per esempio non avere bisogno dell’automobile è un grande risparmio nell’economia di una famiglia; è chiaro però che i servizi di trasporto pubblico, di car sharing e quant’altro debbano essere efficientisssimi; uno stile di vita diverso, migliore più sano, più ecocompatibile è un valore e non va considerato un difetto rispetto all’omologazione con altri stili di vita urbana; E questo corrisponde a significativi risparmi; sulle RAGIONI del disagio: ne aggiungerei una quarta a mio avviso fondamentale: la mancanza di prospettive di lavoro per la fascia più importante della popolazione attiva, quella che si butta nella vita reale appena finiti gli studi; quella fascia di popolazione da 25 a 40 anni, gli anni più dinamici di invenzione e crescita, non c’è oggi e non ci sarà in futuro se la città non cambia passo

EDOARDO SALZANO: La questione del lavoro è certamente nodale. Ci torneremo tra poco. Ho invece qualche perplessità quando si parla di social housing. In Italia significa una forma nuova di speculazione. Il comune, o lo Stato, danno al proprietario del un suolo più cubatura di quanta ne consentirebbe il piano urbanistico, e in cambio ottiene che il proprietario riservi, per qualche tempo, un po’ di alloggi a un costo inferiore a quello di mercato. Il problema, e l’obiettivo, devono essere quelli di offrire abitazioni a chi non può permettersi di pagare gli intollerabili prezzi che fa il mercato. Si tratta perciò di avere edilizia pubblica da dare in uso a prezzi accessibili a chi effettivamente dimostra di avere, e di conservare i requisiti giusti.

3. l'autodifesa:

EDOARDO SALZANO: I cittadini tentano di difendersi in molti modi. Voglio sottolinearne due:
1. Chi ha una stanza in più, diventa affittacamere. Conseguenza negativa: diminuiscono le abitazioni per gli abitanti stabili.
2. Nei luoghi della movida gli abitanti recintano pezzi del suolo pubblico, la città viene negata,

MARIA ROSA VITTADINI: L’autodifesa passa attraverso molti modi. Vivere ai margini, ad esempio. Alla Giudecca o a Castello o a S. Elena dove la pressione turistica è minore si vive molto bene e si esce dal proprio quartiere più spesso per uscir da Venezia che per andare a S. Marco. Anche perché le attività e i negozi tra Rialto e S. Marco sono ormai solo a misura di turista e molti negozi e servizi necessari all’abitare si trovano a Mestre (e questo è un grave problema dell’abitare a Venezia).

EDOARDO SALZANO: Hai ragione, Mariarosa. Ma non possiamo pensare di obbligare gli abitanti di Venezia a vivere ai margini della loro città. E temo che la situazione della Giudecca sia del tutto transitoria. Comunque, hai toccato un tema centrale: il peso dell’attuale forma del turismo. Sergio, Enrico, avete qualcosa da dire su questo argomento? O sulla ghettizzazione crescente degli spazi pubblici come risposta all’effetto movida?

SERGIO PASCOLO: Chi ha pensato e pensa ancora oggi al turismo come unica fonte di economia ne ha evidentemente considerato le grandi OPPORTUNITA’ ma non le MINACCE che invece sono molto rilevanti proprio per la qualità della vita; adesso le minacce sono sempre più evidenti ……

4. Le cause:

EDOARDO SALZANO: Perché succede questo? Perché viviamo le contraddizioni paradossali tra qualità urbana e disagio degli abitanti permanenti? Abbiamo toccato una delle cause: La prevaricazione del turismo. Anzi, dei due tipi di turismo attualmente dominanti: il turismo mordi e fuggi e il turismo di lusso. Ma ce ne sono altre due rilevanti: le convenienze personali e l’assenza di governo.

Insomma, quattro cause fondamentali del veneziano disagio di abitare Venezia:
1. Turismo mordi e fuggi: conseguenze: una mandria di bufali in una cristalleria
2. Turismo di lusso: la ghettizzazione e privatizzazione della città
3. Le convenienze degli abitanti (quelli che gravitano attorno al turismo di massa, gli affittacamere, ecc)
4. L’assenza di un governo efficace della città

MARIAROSA VITTADINI: Prevaricazione significa che la facilità e la convenienza di lavorare nel turismo vincono sistematicamente su qualsiasi altra attività. Gli spazi si convertono in negozietti di ricordini e cianfrusaglie, le attività artigianali si inaridiscono nelle produzione di mascherette, con un ricambio rapidissimo dato l’alto livello degli affitti. Nelle vetrine delle Mercerie si trovano, a carissimo prezzo, gli stessi abiti e le stesse firme di ogni altra città, ovviamente prodotti altrove. E’ naturale? è fatale? Si se non si governa in alcun modo. In altri paesi esiste una alleanza forte tra attività e amministrazioni, che si aiutano non tanto in termini finanziari quanto in termini stimolo di innovazioni, creazione di occasioni per attività di eccellenza, reti di relazioni.
Venezia e la sua storica capacità di rapportarsi con l’ambiente lagunare ne farebbero un campo privilegiato per gli studi sulle acque, sulla laguna, sul cambiamento climatico. Dove i ricercatori producano ricerca e non, come ora avviene, vetrina di lusso per presentare le ricerche condotte altrove. Invece Venezia pur avendo due università non è capace di radicare gli studenti che fuggono ogni giorno per le loro case di terraferma e dopo la laurea se ne vanno perché non trovano qui alcuna possibilità di costruirsi un avvenire con quello che hanno imparato.

ENRICO TANTUCCI: cause e responsabilità (soprattutto delle Amministrazioni comunali degli ultimi mandati, da Cacciari a Costa e Orsoni), con alcuni rapidi esempi significativi di ciò che non si è fatto e si poteva fare, e su come la prevaricazione del turismo ha influito sul problema dell'abitare sia in termini di disponibilità di alloggi che di comportamenti e di scelte anche amministrative.

SERGIO PASCOLO: le convenienze degli abitanti sono conseguenza della mancanza d’altro rispetto al turismo; la prevaricazione è diventata esclusiva e quindi comprensibile in quanto priva di alternative credibili; per quanto riguarda la limitazione del turismo è già stato detto molto da molti: bisogna creare un sistema di programmazione controllata degli arrivi turistici come si sta facendo in molte città europee (vedi Barcellona e Berlino) La prenotazione obbligatoria e programmazione per lo meno dei viaggi organizzati è fattibile senza grandi difficoltà e comporterebbe una significativa limitazione dell’ altrimenti inevitabile esponenziale ed insopportabile aumento degli afflussi. Spero che non ci sia più da discutere se fare o non fare la limitazione ma solo sul come realizzarla; qui le nuove tecnologie possono essere di grande aiuto; Recentemente i contributi di Scurati e quelle del Prof. Fabio Carrero hanno messo in evidenza le possibilità; è un tema specifico che va portato avanti

5 La strategia in atto

EDOARDO SALZANO: se queste sono le cause allora è chiaro che non è certamente sufficiente l’autodifesa individuale o localistica dei cittadini per rimuoverle. E’ necessario un forte governo pubblico, espressione della volontà dei cittadini, ed è necessaria una chiara strategia. Un governo pubblico diverso da quello che guida la città da qualche decennio, e una strategia diversa da quella seguita da chi oggi ci governa. Domandiamoci intanto quali sono oggi il governo della città e quale sia la strategia dominante, A me sembra che esiste oggi una precisa strategia, che fa capo a poteri che stanno dietro all’attuale governo della città (da vent’anni, un’amministrazione complice) . E che può riassumersi nella mercificazione della città.

Due distinzioni essenziali:
1. città come patrimonio / città come risorsa,
2. città come bene / città come merce
Oggi sono egemoni i gruppi sociali che utilizzano la città, la sua qualità, come una risorsa da sfruttare (il turismo come petrolio, Venezia come giacimento: estraggo, trasformo in altro da sé, vendo)

E oggi, per chi governa la città, compiti essenziali sono di fatto due:
1. promuovere, incoraggiare, servire lo sfruttamento economico della città
2. fare cassa per compensare la diminuzione delle risorse che arrivano dal bilancio dello stato
Un esempio: ci si indebita per fare il carnevale, e si cancella dal bilancio comunale l’acquisto di libri per le librerie comunali: più feste, più promotionE, e meno cultura.

SERGIO PASCOLO: Vendere piuttosto che Fare mi sembra sia la malattia della società e dell’ economia occidentale di questo secolo; sicuramente è stata la malattia dell’Amministrazione Comunale; molte città hanno fatto grandi trasformazioni urbane a vantaggio dei cittadini proprio a partire dalla logica contraria: la città deve acquisire (terreni, edifici) e gestire le trasformazioni; la vendita del patrimonio è in ogni caso una politica distruttiva del bene comune che nella vita urbana è altrettanto importante del bene individuale…..oltre alla vendita del Patrimonio di pregio in città palazzi sul Canal grande e molti altri – il Comune ha venduto anche aree a Marghera che erano da considerare preziose per poter avere in mano la Regia di qualsiasi trasformazione urbane per il futuro

6. una strategia alternativa

EDOARDO SALZANO: Una coppia di domande su cui vorrei concludere questa prima fase dell’incontro di stasera, per aprire un dibattito con gli altri presenti:
1. Come costruire una strategia alternativa?
2. E soprattutto e di conseguenza: come costruire un blocco sociale in grado di implementarla?
Io credo che una strategia alternativa debba partire proprio dal rovesciamento di quelle coppie di parole che ho prima enunciato: bisogna vedere Venezia e la sua Laguna come patrimonio e non come risorsa, come bene e non come merce.

Venezia e la sua Laguna sono:
1. un modello di equilibrato rapporto tra lavoro e natura, tra storia e natura, tra cultura e natura tra conservazione e trasformazione
2. un deposito di insegnamenti da proporre al mondo intero, perché il rapporto tra ambiente e lavoro è un tema centrale in tutto il mondo
3. un patrimonio che richiede un’enorme applicazione di lavoro per essere restaurata, manutenuta, studiata, raccontata, presentata a chi vuole conoscerla nei suoi mille spessori – e non per usarla come scenografia per un selfie

Ecco, credo che partire da Venezia come patrimonio e da Venezia come occasione di lavoro qualificato sia un punto di partenza giusto per costruire una nuova strategia e un nuovo “blocco sociale”

MARIA ROSA VITTADINI: Lavorare e produrre a Venezia non è certo solo per i residenti. Si lavora e si produce per il mondo intiero e i turisti sono anch’essi una componente di domanda interessante . Lo straordinario ambiente veneziano può offrire opportunità di incontro, di cultura, di creatività per una vastissima gamma di attività di produzione ad alta intensità di cultura, ad esempio in materia di comunicazione o di ricerca scientifica o per attività artistiche o, ancora, per un artigianato di qualità . Quanti studenti e ricercatori e artisti sarebbero ben felici di passare a Venezia qualche mese alimentando con il loro lavoro le reti internazionali della loro disciplina solo che fosse possibile abitare e lavorare a Venezia.

EDOARDO SALZANO: torniamo così al tema del turismo. Domandiamoci adesso: quale turismo è omogeneo a una visione di Venezia come patrimonio? E come governarlo?

MARIAROSA VITTADINI: L’arrivo dei circa 30 milioni di turisti pone un serio problema di sopravvivenza per la città. Tutte le misure per gestire tali flussi come il tiket di ingresso (paradossalmente fatto pagare solo a coloro che pernottano negli alberghi) o le card di prenotazione volontaria con vari sconti sui servizi non sono serviti a frenare la massa dei “giornalieri” che passano poche ore in città. La misura principale per costoro è stata la istituzione della grande ZTL per i bus turistici, con tariffe di ingresso calibrate sulle prestazioni ambientali dei veicoli. Un bus euro 0, ovvero vecchio e inquinante in massimo grado, paga 340 euro e può portare i turisti al Tronchetto oppure ai terminal di Tessera o di Fusina. Per ciascun passeggero fa poco più di 5 euro: una tariffa che non scoraggia nessuno. Se è vero, come credo che la congestione turistica deriva dalla massa e dalla brevità del tempo della visita prima ancora che porre ticket o improbabili numeri chiusi si può pensare al rallentamento degli arrivi.

Si arriva solo per acqua e per acqua si accede alla città principalmente dai margini e non dal canal grande. Per percorrere il ponte occorre un permesso, così come succede normalmente negli accessi regolati delle città in ogni parte d’Europa. E allora sì il permesso può essere governato sulla base del tetto massimo di turisti sostenibili. Certo se non si può arrivare dal ponte si può arrivare dai terminal: via acqua, ovvero lentamente, e anche qui in base alla prenotazione e al rispetto del numero sostenibile di visitatori. Tutte formule davvero da subito fattibili, solo che ci sia la volontà politica. Ma proprio questa difetta: gli interessi legati a questo tipo di turismo sono oggi assai forti e ben rappresentati nelle istituzioni.

EDOARDO SALZANO: La direzione di marcia giusta per il governo del turismo era già stata proposta all’inizio degli anni 80. Luigi Scano: Il razionamento programmato dell’offerta turistica.

SERGIO PASCOLO: Partire dal lavoro; è necessario creare le basi perché si stabiliscano e crescano diventando sempre più rilevanti, nuove attività oltre a quelle legate al turismo. Questo è fondamentale per ri-creare una base sociale equilibrata generazionalmente; oggi le persone giovani che iniziano la loro carriera professionale vogliono avere opportunità, cercano occasioni e sinergie. A Venezia non trovano nulla e se ne vanno per lavorare e fare famiglia altrove in Italia o all’estero. Esistono molte sinergie da rafforzare ed è possibile farlo con un grande progetto pubblico che coinvolga tutte le istituzioni cittadine; è fondamentale però che questo progetto sia trasmesso in modo chiaro e trasparente nei suoi obiettivi, perché possa essere capito e condiviso, nella sua necessità (pena la scomparsa della città stessa) e nella sua opportunità per tutti nel medio e lungo periodo…..
partire dall’attrarre attività e quindi capitali, selezionandoli, per coerenza con le sinergie ricercate
partire da progetti di sinergia per la creazione di un comun sentire; bisogna creare un clima di fiducia nel nuovo futuro della città; bisogna creare la consapevolezza che un nuovo futuro è possibile ed è migliore di quello offerto dal turismo soffocante; per dare respiro alla città si potrebbero seguire i percorsi di Programmi come L’European Green Capital Award, o altri che riguardano la città resiliente e la città vivibile del futuro in uno scenario internazionale

EDOARDO SALZANO: Un grande progetto pubblico: un New Deal roosveltiano per Venezia. Quesito forse è lo slogan che occorrerebbe lanciare.

Ma apriamo un dibattito più ampio

Qui i video dell'evento

Mille proroghe nella legge del governo, ma per i più deboli non c'è proroga alcuna. Gli assessori di Roma, Milano e Napoli contro il governo. Il ministro Lupi: «Non drammatizzate». Il manifesto, 7 gennaio2015

Le deci­sione del governo di non rin­no­vare la pro­roga degli sfratti per il 2015 rischia di tra­sfor­marsi in «una bomba sociale». A lan­ciare l’allarme su un pro­blema che non si può ridurre a una pura e sem­plice que­stione di ordine pub­blico sono stati ieri Fran­ce­sca danese, Daniela Benelli e Ales­san­dro Fucito, asses­sori alle poli­ti­che abi­ta­tive di Roma, Milano e Napoli, tre dei quat­tro Comuni ita­liani ( l’ultimo è Torino) mag­gior­mente col­piti dall’emergenza sfratti. E lo hanno fatto lan­ciando un appello al governo Renzi in cui si chiede di fer­mare l’intervento delle forze dell’ordine per quanti si tro­vano ad avere il con­tratto sca­duto, scon­giu­rando così «una situa­zione altri­menti inge­sti­bile». Un appello al quale il mini­stro dei Tra­sporti Mau­ri­zio Lupi ha rispo­sto invi­tando i tre asses­sori a «non dram­ma­tiz­zare». per l’emergenza casa, ha detto Lupi, «il governo nel 2014 non è stato a guar­dare, anzi ha final­mente imboc­cato una strada nuova, cosciente che l’emergenza andava affron­tata in modo più radi­cale e e non con lo stru­mento vec­chio e logoro della proroga».

Il pro­blema nasce con al fine dell’anno e l’approvazione del decreto Mil­le­pro­ro­ghe senza l’abituale pro­roga degli sfratti per fine loca­zione. Un inter­vento giu­sti­fica dal mini­stero delle Infra­strut­ture con il fatto che nel decreto casa sono già attivi due fondi per un totale di 446 milioni, e salu­tato con sod­di­sfa­zione da Con­fe­di­li­zia, l’organizzazione dei pro­prie­tari immo­bi­liari per il cui pre­si­dente Cor­rado Sforza Fogliani, il governo ha messo fine a quella che era ormai diven­tata una «litur­gia». In realtà si tratta di un auten­tico dramma per le fami­glie inte­res­sate, circa 30 mila in tutta Ita­lia, che rischiano adesso di ritro­varsi con la poli­zia alla porta di casa. Tanto più se si con­si­dera che si tratta di fami­glie par­ti­co­lar­mente disa­giate dal punto di vista economico(il prov­ve­di­mento riguarda quanti hanno un red­dito infe­riore ai 27 mila euro annui lordi) oppure con a carico un parente anziano, por­ta­tore di han­di­cap o malato ter­mi­nale. «Non sono fami­glie che vogliono restare nella casa in cui sono per­ché par­ti­co­lar­mente attratte da quell’abitazione, ma per­ché non sono in con­di­zione di tro­vare sul mer­cato un altro allog­gio ade­guato alle loro ristrette pos­si­bi­lità», ha denun­ciato nei giorni scorsi il segre­ta­rio gene­rale del Sunia Daniele Barbieri.

Nei pros­simi giorni i tre asses­sori por­te­ranno la que­stione sfratti anche all’attenzione dell’Anci ma i tempi sono stretti e la situa­zione rischia dav­vero di diven­tare esplo­siva in tutta Ita­lia, dove le fami­glie a rischio sfratto sono tra le 30 e le 50 mila.

Quella legata agli sfratti è un’emergenza ulte­rior­mente aggra­vata dalla crisi eco­no­mica. Dal 2008 a oggi Roma ha regi­strato oltre die­ci­mila sen­tenze per finita loca­zione, Napoli 4.500 e Milano 4.000. Anche se lo stesso Vimi­nale ammette di no avere dati certi, il 70% delle fami­glie inte­res­sate dal prov­ve­di­mento ha i requi­siti pre­vi­sti dalla legge per otte­nere una pro­roga. Delle oltre 70 mila sen­tenze di sfratto emesse nel 2014 in Ita­liane sono state ese­guite 30 mila il 90% delle quali per moro­sità spesso incol­pe­vole. In pra­tica nel nostro paese si ese­guono media­mente 140 sfratti al giorno con la forza pub­blica e se si esclu­dono le fami­glie pro­prie­ta­rie di case e gli asse­gna­tari di alloggi pub­blici, que­sto signi­fica che ogni anno in Ita­lia uan sen­tenza di sfratto quasi sem­pre per moro­sità incol­pe­vole, tocca una fami­glia su quattro.

Defi­nire allar­mante un simile qua­dro della situa­zione è a dir poco ridut­tivo. La pro­roga sarebbe dovuta ser­vire pro­prio per inter­ve­nire in aiuto a que­sti nuclei fami­liari, che il governo ha invece pre­fe­rito igno­rare garan­tendo in com­penso un inter­vento a soste­gno di ade­guati piani casa da parte dei comuni,. Inter­vento che, però, finora non si è visto.

Chiaro che la situa­zione rischia adesso di diven­tare incan­de­scente. «Si rischia una bomba sociale deva­stante», ha detto ieri il depu­tato di Sel Fili­berto Zaratti. «Serve un piano straor­di­na­rio che affronti e risolva l’emergenza abi­ta­tiva con stan­zia­menti di risorse per l’edilizia resi­den­ziale pub­blica e poli­ti­che abi­ta­tive che ci con­sen­tano di uscire dalla logica dell’emergenza»

Un intervento ambiguo di un autorevole opinionista a proposito dell'ultimo libro di Salvatore Settis e del futuro di Venezia: privatizzare ulteriormente la città é un auspicio o un timore? con postilla. Corriere della Sera, 18 dicembre, 2014

Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale», sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda, Salvatore Settis (Se muore Venezia, Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde, aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne i problemi, vi diffonde la corruzione.

A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda» , l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5 (almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a norma di legge, Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato, nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si sarebbe arrestata sei mesi prima.
Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia. «La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di Venezia?
In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e, senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia».
Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane, veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400 strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più gran parte».
Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli pensava che le città del futuro, Manhattan in primis, avrebbero dovuto essere modellate su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis, l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la 49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma “alla veneziana”».
Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious New York: «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora, facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia — questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel risultato di gettare tutto ciò al vento.
È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e veneziani hanno affidato le loro città.

postilla

Affermare, da parte di un opinionista così autorevole (e per di più, ci dicono, così ascoltato ai piani alti del Palazzo) che oggi, occorra intrecciare Venezia e i grattacieli fa aggricciare la pelle a chi sa che in questa città vistose pressioni si propongono di punteggiare i margini della Laguna, che di quella città è parte integrante, di vistosi grattacieli (quello proposto dal couturier Cardin ne è vistosa testimonianza, ma il cosiddetto waterfront é soggetta dai tempi del "doge" De Michelis e della proposta di Expo 2000, fino a oggi e, forse, domani.
Ma la colpa non é delle leggi speciali né dal flusso del denaro pubblico. È dell'uso perverso che il personale politico di quel denaro pubblico ha fatto, dell'infrazione sistematica delle regole rigorose prescritto da quelle leggi, del trasferimento progressivo di potere, competenze, risorse dal pubblico al privato. Colpe di un personale politico (romano, veneto e veneziano) dominato, dall'inizio degli anni Novanta e via via divenuto più grave, dall'ideologia della "innovazione" e della "modernizzazione", della sostituzione del privato al pubblico, dell'assunzione di una concezione distorta dello "sviluppo" (identificato nella crescita del PIL) e nella prassi del continuo cedimento del potere di decisione ai grandi poteri privati. Precisamente, i potentati dalle "grandi firme" della moda e quelli delle infrastrutture e delle costruzioni. Nella mappa dei poteri veneziani gli amministratori non appaiono come gli arbitri e i governatori dei poteri privati, ma i loro servi consapevoli o inconsapevoli. E' piu che giusto l'invito di Settis, ripreso da Giavazzi. di cogliere l'occasione delle prossime elezioni amministrative per imboccare una strada alternativa. Ma ciò sarà possibile solo se i nuovi eletti non siano coinvolti nè con le loro azioni ne con le proprie omissioni, con chi ha gestito la città nell'interesse dei grandi gruppi privati; perché, insomma, ci sia piu Stato e meno mercato.
Perciò desta un qualche stupore la frase finale dell'articolo di Giavazzi. Chi lo stima pensa che sia sarcastica: che esprima il timore di un possibile futuro al quale i cittadini devono reagire. Ma si potrebbe sospettare che in quella frase si nasconda invece il suggerimento a una ulteriore spinta alla privatizzazione della città. Se così fosse il suggerimento sarebbe certamente ben accolto nel Palazzo, donde risponderebbero al suggeritore: stiamo già alacremente lavorando in quella direzione, e le azioni dell'attuale governatore della città (a Ca' Farsetti come a Palazzo Chigi, un nuovo personaggio non eletto che decide in dispregio alle regole della democrazia. rappresentativa).
Così come stupisce che l'attenzione di Giavazzi (come quella di numerosi altri autorevoli osservatori delle malefatte dei politici di oggi, si fermi alla deprecazione della corruzione e trascuri del tutto la nefandezza delle scelte che quei politici hanno compiuto: dal Mose alle nuove ferite inferte alla Laguna, all'incentivazione della deregulation e dalle colate di cemento.

«Test di mercato tramite affidamento diretto del comune a Nai Global: negozi e ristoranti» quello che il mercato vuole. Tutt'altro emerge nei tavoli di lavoro in cui i cittadini si esprimono, di cui nell'articolo di Elisa Lorenzini (Corriere del Veneto) e dal comunicato stampa di Italia Nostra, firmato da Paolo Lanapoppi (m.p.r).

Corriere del Veneto, 3 dicembre 2014
TEST DI MERCATO: NEGOZI E RISTORANTI COSÌ L'ARSENALE PIACE ANCHE A DIESEL
di Elisa Lorenzini
Venezia. Negozi di maison di design e moda, con showroom e annessi laboratori di produzione nell'Arsenale sud, vicino alla Biennale. Appartamenti in social housing nella parte ovest, cantieri per yacht di lusso oltre i venti metri a est e a nord abitazioni collettive e strutture ricettive pensate per studenti, ricercatori, lavoratori dell'Arsenale. E poi contenitori culturali, un centro eventi per ospitare concerti e spettacoli, una corte del gusto dedicata a locali e ristoranti. Quattro fasi di interventi, per 237 milioni di euro. Così Nai Global società internazionale, specializzata in attività finanziarie e immobiliari e che fa capo a Island Capital Group, ha disegnato un piano per l'Arsenale da usare come test di mercato.
Quanti e quali privati sarebbero disposti a investire se queste fossero le attività previste? Un lavoro iniziato lo scorso maggio quando l'Ufficio Arsenale ha commissionato lo studio tramite affidamento diretto a Nai Global. I risultati sono stati presentati ieri alla Tesa 105 durante l'incontro di «Partecipa Arsenale» organizzato dal Comune e hanno scatenato un mare di proteste: sul metodo (come e perché è stata scelta questa società) e sul merito (il tipo di attività), tanto più che nell'ora precedente, ai tavoli di discussione si parlava di ospitare il Centro unico delle maree (Luigi Alberotanza, presidente del Centro Maree) di un polo rappresentativo della ricerca (Pierpaolo Campostrini, Corila).
Giovanni Smaldone, chairman di Nay Italy ha spiegato tutt'altro di fronte ai 150 cittadini. «Il progetto va sviluppato in quattro fasi. Una prima di infrastrutturazione per creare la rete e rendere la zona accessibile. Una seconda dove si insediano le attività nella parte nord. Una terza con l'arrivo di attività di cantieristica negli ex bacini Actv, social housing e di industria creativa. E la quarta con laboratori artigiani di ricerca e esercizi commerciali a sud». Secondo Nai Global ci sono già 50 brand internazionali ma ancora non presenti in Italia disposti a insediarsi all'Arsenale nella zona dei negozi e dei laboratori. Tra i candidati ci sarebbe anche Diesel.
L'incarico a Nai Global termina oggi, la palla torna al Comune quando vorrà partire con le gare pubbliche. Il percorso non sarà facile, almeno a giudicare dai commenti di ieri: il progetto presentato da Nai non è piaciuto al Forum Futuro Arsenale. «Prima va pensato un progetto unitario sull'area — dice secco Stefano Boato — e solo dopo vanno cercati gli investitori». E il portavoce Roberto Falcone: «Siamo perplessi, noi abbiamo idee completamente diverse, chiediamo che sia preservata l'unitarietà dell'area mentre così non lo è. Avevamo intuito questo progetto già durante a maggio, quando sono stati invitati immobiliaristi».
Neppure la Municipalità sapeva nulla. Il vicepresidente Giorgio Tommasi chiede perché «lo studio è stato affidato a questo soggetto e non ad altri?» E aggiunge: «Questo vuol dire che non è un progetto partecipativo, ma già fatto da altri». Più duro Pasquale Ventrice, presidente del Centro studi Arsenale: «Un pessimo, inadatto, non credo che 50 brand internazionali possano convivere con la Biennale e con il Consorzio Venezia nuova, come si può dirlo senza fare un tavolo di concertazione?». Ventrice ha una sua idea: all'Arsenale possono sopravvivere solo le tecnoscienze. Replica Federica Di Piazza dell'Utfp «Parlare di un piano finanziario è fondamentale, i costi fanno parte di un progetto. Privato non è sinonimo di speculazione se il pubblico è forte». Gli spazi a disposizione del pubblico potrebbero allargarsi ancora.
Marina Dragotto, direttore dell'Ufficio Arsenale, ha detto ieri il Comune è in una fase «di trattativa avanzata per riportare alla città i bacini medi ma anche gli edifici attigui, come la mensa». Cioè una parte degli spazi oggi del Consorzio. «Noi abbiamo sempre dato la nostra disponibilità», dice Hermes Redi direttore del Consorzio. All'incontro ha partecipato anche il sub commissario Michele Scognamiglio che preme sull'acceleratore: «Se perdiamo tempo ora, non perdiamo solo 4 o 5 mesi ma molto di più perché con la gestione commissariale è più facile concludere percorsi tecnici come questo». L'intenzione è di approvare il documento direttore entro dicembre, dopo un incontro con le categorie.
Comunicato Stampa Italia Nostra Venezia, 5 dicembre 2014

L’ARSENALE DIVENTERÀ UN CENTRO COMMERCIALE?
di Paolo Lanapoppi Vicepresidente, Italia Nostra, Sezione di Venezia
Il subcommissario Michele Scognamiglio, che agisce per incarico del commissario Zappalorto, sembra avere molta fretta di formulare un piano per il destino dell’Arsenale prima che scadano i termini del suo mandato. Il piano dovrà poi essere confermato da sindaco e giunta che usciranno dalle elezioni di primavera; ma per qualche ragione, forse puro di puro zelo burocratico, i due
commissari intendono chiuderlo e approvarlo prima della metà di aprile. Così hanno autorizzato, e anzi incoraggiato, l’Ufficio Arsenale istituito dall’ex sindaco Orsoni a proporre un Piano direttore,
che indica molto chiaramente la direzione nella quale intendono muoversi. Essa consiste principalmente nella ricerca di aziende private disposte ad accollarsi i costi di restauro e manutenzione dei moltissimi edifici disponibili. Il complesso è stato diviso in lotti, ognuno dei quali è oggetto di una scheda illustrativa che ne descrive la destinazione d’uso e i costi di
ristrutturazione (il totale è di circa 240 milioni di euro). Per tutte le tese, nelle quali i veneziani
costruivano le loro navi, è prevista l’introduzione di solai che aggiungeranno un piano di calpestio:
forse un modo per rendere più appetibili degli edifici così maledettamente scomodi per chi
volesse installarvi dei centri commerciali.

Tra qualche tempo, a quanto è stato comunicato, verranno lanciati dei bandi per le concessioni
dei singoli lotti. E’ presumibile che essi verranno ceduti ai migliori offerenti, anche se il
subcommissario Scognamiglio ha dichiarato in una riunione con alcune associazioni che dovrà
contare molto anche la qualità dei prodotti aziendali trattati. In un incontro con la cittadinanza il subcommissario ha illustrato il suo piano e poi ha ceduto la parola all’azienda che il Comune ha assunto (per ora non si sa a quali costi) per reperire gli “investitori”. Il rappresentante di quell’azienda (specializzata nel settore immobiliare e nella ricerca di investitori professionali) si è anche sbilanciato ad accennare al tipo di attività che vorrebbe vedere installate nel nostro Arsenale: “fashion (si cerca sempre l’inglese per essere più moderni), arti visive, musica, etc.” Alla stampa ha dichiarato che ci sarebbero già 50 brand (vuol dire marchi) internazionali disposti a insediarsi nell’Arsenale.

Ciò che interessa non è dunque una testimonianza della storia navale, civile e artistica del nostro
Paese e dell’Europa intera, ma una serie di contenitori per brand e fashion. Sarà praticamente
impossibile leggere negli edifici rimaneggiati, rivestiti, trasformati la solennità e bellezza
dell’antichissima fabbrica navale. Contro queste proposte la comunità veneziana si è già levata
con molta forza: non solo le associazioni, ma anche individui singoli stanno protestando sia nelle
sedi ufficiali sia nei social network. Sta nascendo così un’idea unitaria dell’uso da fare del
compendio, tale da esaltarne insieme la bellezza, la storia e il messaggio di vita: farne un polo della
civiltà del mare, che comprenda la testimonianza dell’antico e una visione del presente e futuro,
forse anche un centro per gli studi sulla laguna e per la produzione e il restauro di barche antiche e
moderne. Invece che agenzie immobiliari, il Comune dovrebbe affidarsi all’esperienza e sapienza
dei nostri grandi storici dell’arte e dei direttori dei grandi musei marittimi del mondo.

Il meraviglioso Arsenale di Venezia è una grande opportunità e una forte responsabilità, di fronte
non solo ai residenti ma a tutto il mondo civile: chi verrà a visitarlo dovrà uscirne più ricco, più
completo come uomo e come cittadino del mondo. A questo serve la bellezza, non a incassare
profitti.

Ulteriore passo del neoliberismo renziano: con un'operazione in cui Politica e Mercato collaborano. I poveri ancora più poveri ed emarginati, il Potere degli immobiliaristi più forte e più ricco. E i beni comuni diminuiscono ancora. Sbilanciamoci.info, 4 novembre 2014

Il governo accelera sulla dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica. Ma solo un porzione minima della popolazione residente oggi in quegli alloggi potrebbe affrontare l’acquisto all’asta. E così l’operazione rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo alla rendita immobiliare

Un decreto del Ministro Lupi, in corso di pubblicazione dopo il concerto avuto presso la Conferenza Unificata Stato – Regioni e Comuni, detta nuovi criteri ai fini dell’accelerazione della dismissione del patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica (quelle che vengono comunemente chiamate le case popolari). In questo modo, il governo attua quanto previsto dall’articolo 3 della legge 80 del 2014 (il cosiddetto “piano casa Lupi”), che ha per titolo proprio “misure per l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico.”

Può destare stupore che la Conferenza Unificata abbia dato il relativo consenso nella seduta dello scorso 16 ottobre, in quanto si viene ad intervenire su patrimoni di proprietà di Regioni e ed enti locali. Si stabilisce, infatti, che le nuove norme, in deroga alle precedenti disposizioni procedurali previste dalle leggi vigenti, si applichino “agli immobili di proprietà dei comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli istituti autonomi case popolari (gli IACP) comunque denominati”. Lo Stato, quindi, interviene dettando norme e criteri di alienazione su immobili non suoi e sui quali Regioni e comuni esercitano una competenza esclusiva.

Per quanto stupefatti, il testo uscito dalla Conferenza unificata, nelle linee essenziali, è tale e quale a come vi è entrato. Ricapitoliamone i passi salienti:

gli organi di gestione presentano i piani di vendita (addirittura divengono operativi con il silenzio assenso della Regione); c’è una graduatoria di priorità (condomini misti, immobili fatiscenti) ma la procedura si applica a tutto il patrimonio, senza salvaguardie; gli immobili fatiscenti o i cui costi di manutenzione sono “dichiarati” insostenibili possono essere ceduti in blocco; la tutela per gli assegnatari è il diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione dell’asta.

Il decreto demanda agli Istituti e alle Regioni l’individuazione di eventuali ulteriori forme di tutela che, comunque, vista l’attuale situazione deficitaria in materia di offerta di alloggi pubblici, non potrà essere quella dell’assegnazione di un alloggio alternativo.

Qual è il giro di affari potenziale di questa manovra? Malgrado l’ERP sia lasciato al degrado e rappresenti sempre più un settore marginale dell’intervento pubblico, il suo valore rappresenta un “tesoro nascosto” e l’interesse a smobilizzarlo può essere alto.

Le case popolari gestite dagli Istituti o Aziende regionali sono poco più di 800 mila. Aggiungendo ad esse quelle di proprietà dei comuni e degli altri enti territoriali possiamo parlare di circa 1 milione di immobili. Il prezzo medio di vendita di un alloggio ERP nel 2011 è stato di 39.144 euro. Secondo Federcasa, il valore di mercato si aggira intorno ai 70/80 mila euro ad alloggio, per un totale quindi di 70/80 miliardi.

Quale porzione degli assegnatari potrebbe acquistare l’alloggio in cui risiede, sulla base di una dismissione che parta dal prezzo di mercato? Ai prezzi con cui il patrimonio è stato finora messo in vendita (circa il 50% in meno del valore di mercato) hanno acquistato una percentuale che oscilla tra il 20 e il 25% di coloro che hanno ricevuto l’offerta. Si parla di vendere all’asta con priorità nei condomini misti. Essi esistono, però, in quanto già gli Istituti o i comuni hanno messo in vendita i palazzi e solo una parte dei residenti ha comprato. Come è pensabile che possano comprare oggi all’asta quando prima non hanno potuto acquistare l’alloggio a un prezzo molto inferiore?

Forniamo alcuni dati sulla composizione sociale e reddituale di chi abita nel comparto. Riferendosi al comparto principale dell’ERP (gli alloggi gestiti dagli IACP, ATER, ecc.), abbiamo questi risultati:
un terzo delle famiglie ha redditi inferiori a 10 mila euro l’anno;
la morosità, attestata nel 2011 intorno al 20% del totale degli assegnatari, è in ulteriore aumento a causa dell’impoverimento di massa causato dalla crisi;
vi è una fortissima presenza di anziani (sono segnalate oltre 400 mila persone con più di 65 anni nel comparto);
145 mila sono le persone con disabilità.

E’ del tutto lampante che solo un porzione minima dell’intera popolazione residente oggi nell’ERP, valutabile in non più del 10 – 15%, potrebbe affrontare l’acquisto all’asta o esercitare il previsto diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione.

In pratica, si realizzerebbe il paradosso che potrebbero acquistare la casa popolare solo coloro che possiedono un reddito superiore alla decadenza (quelli che dovrebbero essere accompagnati verso il social housing, rimettendo l’alloggio nel circuito dell’affitto sociale).

Se il patrimonio venisse quindi posto in vendita all’asta (per singoli alloggi o come abbiamo visto per immobili interi) sulla base del prezzo di mercato, la conseguenza ovvia sarebbe che passerebbe di mano a terzi soggetti, almeno per le parti più appetibili dal mercato.

Si sommerebbero tre effetti negativi: rischi speculativi molto alti (specialmente nel caso delle aste di interi fabbricati); conseguenze sociali devastanti (se gli immobili abitati passano a terzi, lo sfratto degli abitanti è la logica conseguenza); dissesto del comparto ERP, di fatto trasformato, più di quanto sia ora, in “bad company”, essendo previsto il mantenimento del patrimonio più degradato e senza interesse da parte del mercato.

Tre ragioni, ognuna di per sé valida, per affermare che sarebbe saggio ritirare un progetto che è al tempo stesso socialmente iniquo e senza prospettiva per il settore ERP.

Sembra davvero inconcepibile che il governo si avvii nell’avventura senza ritorno del completo azzeramento dell’intervento pubblico nelle politiche abitative, in una condizione generale di acuta sofferenza abitativa segnata da dati incontrovertibili: 700 mila famiglie, utilmente collocate nelle graduatorie comunali senza risposta; oltre 200 mila sfratti nei soli ultimi 3 anni (di cui il 90% per morosità); circa 1 milione e mezzo di famiglie in difficoltà a pagare l’affitto; una carenza di almeno 1 milione di alloggi sociali.

Eppure, una strada alternativa sarebbe percorribile.Tre sono le mosse per renderla praticabile: ritirare i processi di dismissione che mettono a rischio la coesione sociale, investire sul recupero e riuso ai fini della residenza sociale del già costruito, finanziare questa operazione cominciando a tagliare finalmente le unghie alla rendita immobiliare parassitaria.

«Le prospettive aperte, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile. Ma il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, esclusi da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy». Today.it, 24 Novembre 2014

Appena è diventata ufficiale la notizia, ampiamente anticipata, del premio International Highrise conferito al Bosco Verticale di Milano, si sono scatenate le critiche dei dubbiosi. Intendiamoci: la maggior parte dei commenti su stampa e web erano ampiamente positivi, ma più che alla sostanza parevano badare all'aura mistica in perfetto stile archistar che aleggia sempre attorno a questi progetti. E le motivazioni ufficiali del premio parevano addirittura più simbolicamente barocche del pieghevole pubblicitario dell'immobiliare, nello sperticarsi in lodi sulla capacità del progetto di riportare l'uomo alla natura, o addirittura di costituire un modello per la città densa del terzo millennio.

I dubbiosi, magari polemici, magari addirittura scurrili nella loro diffidenza faziosa, coglievano però un punto assai evidente: e che sarà mai un palazzone con le vasche a fioriera? La risposta potrebbe darla la schiera di tecnici internazionali che ha reso possibile non solo piantare a quell'altezza alberi maturi e farli convivere con appartamenti abitati, ma anche avviare una sperimentazione socio-ambientale. Però si tratta di una risposta ancora in linea con l'approccio tutto interno all'architettura del premio International Highrise.

Assumono una prospettiva più interessante, le critiche anche più sarcastiche al Bosco Verticale, se le inquadriamo in una più generale perplessità su alcuni progetti di verde urbano a dir poco ideologici, che in ordine sparso si stanno conquistando parecchia notorietà da qualche anno. Il primo è stato quello della High Line a Manhattan, ex viadotto ferroviario dismesso che invece di essere abbattuto è stato – nel quadro di una assai più ampia politica di valorizzazione immobiliare e riqualificazione – arredato a verde con tecniche innovative, e rivenduto all'opinione pubblica come nuovo modello di parco, anziché passeggio, o area pedonale che dir si voglia. Lì vicino, al Pier 55 sul fiume Hudson, i medesimi promotori hanno già presentato e portato parecchio avanti nel processo di approvazione finale un secondo e più grande “parco tecnologico” montato su piloni, che più o meno come il ponte ferroviario è del tutto artificiale e serve un'area di valorizzazione e riqualificazione di iniziativa privata. A Londra si sta concludendo il percorso del Garden Bridge sul Tamigi, organizzato come una specie di green shopping mall ad accesso limitato e forse a pagamento, negazione dello spazio pubblico, mentre a Singapore la limitatezza dello spazio (così ci raccontano) obbliga gli amministratori della città-stato a cercare i parchi in cielo, con giganteschi Alberi artificiali.

Cos'hanno tutti questi diversissimi progetti in comune, tra di loro e con le torri “a fioriere” del Bosco Verticale di Milano? Come intuiscono vagamente i critici nei loro sfottò, una certa tendenza a prendere per i fondelli il pubblico: da un lato aprono potenziali prospettive per la città del futuro, ma in buona sostanza ne chiudono di assai più vaste. Le prospettive aperte, inutile sottolinearlo, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile, ma tutto si intuisce ha un prezzo. In questi casi il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, noi strabordante maggioranza esclusi prima da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e anche quando liberamente accessibili come nel caso della High Line, facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy. Nel caso delle torri milanesi, evidentemente, la privatizzazione doppia del bosco salta ancora di più all'occhio, e il “modello per la città futura” non dichiarato lo intuiscono anche i più distratti: è la fortezza dei ricchi assediata dal disastro. Ma siamo sicuri che i progettisti-progressisti, invece, volessero con la loro provocatoria opera di architettura esattamente denunciare questo rischio. O no?
Today/Città Conquistatrice

«Deve essere ripri­sti­nata una stra­te­gia invisa al nostro attuale pre­mier: le poli­ti­che devono basarsi sulla pia­ni­fi­ca­zione di ter­ri­to­rio e paesaggio». Il manifesto, 18 novembre 2014 (m.p.r.)

Le cifre che stanno venendo fuori a pro­po­sito dei disa­stri ter­ri­to­riali di que­sti giorni – con eventi meteo esa­spe­rati dai cam­bia­menti cli­ma­tici che si abbat­tono su un ter­ri­to­rio inde­bo­lito dalla iper­ce­men­ti­fi­ca­zione – sono da auten­tica guerra.

Un Rap­porto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono regi­strati quasi mille morti da dis­se­sto idro­geo­lo­gico, per oltre 15 mila eventi cala­mi­tosi e un danno eco­no­mico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno. Se si com­puta dagli anni ses­santa, a par­tire dal disa­stro del Vajont e dalle allu­vioni di Vene­zia e Firenze i morti diven­tano più di 4 mila.

L’Italia paga le con­se­guenze di decenni di incu­ria e di sostan­ziale attacco alle sue stesse carat­te­ri­sti­che eco-paesaggistiche. Esse, fino a qual­che decen­nio addie­tro, ave­vano cor­re­lato vir­tuo­sa­mente ambiente e inse­dia­menti; di più, ave­vano sem­pre con­no­tato que­sti ultimi secondo le carat­te­ri­sti­che eco­lo­gi­che e cul­tu­rali dei con­te­sti. Da cui il sopran­nome di Bel­paese. Negli ultimi decenni, la grande tra­sfor­ma­zione ha signi­fi­cato grande cemen­ti­fi­ca­zione: il Bel­paese si è tra­sfor­mato in «città dif­fusa»; con salti di senso comune, e anche seman­tici e les­si­cali. Le grandi com­po­nenti eco-paesaggistiche del ter­ri­to­rio ita­liano sono state via via rino­mi­nate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diven­tata «mega­lo­poli padana»; la «grande conur­ba­zione costiera» ha occu­pato l’intera cimosa lito­ra­nea adria­tica; e ana­lo­ga­mente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la cam­pa­gna urba­niz­zata romana» e «Gomorra», l’infernale mar­mel­lata inse­dia­tiva del napo­le­tano, inqui­nata, con­ge­stio­nata, ad alto tasso di illegalità.

E ancora la città costiera con­ti­nua cala­bra, a fronte dello svuo­ta­mento dell’interno; gli orridi abu­sivi sici­liani – che offen­dono un pae­sag­gio altri­menti note­vole; le «grandi mac­chie urbane» delle città sarde.

Gli entu­sia­smi per la moder­niz­za­zione antro­piz­zata del Paese si sono da tempo tra­sfor­mati in pre­oc­cu­pa­zioni per le con­se­guenze di un inse­dia­mento abnorme e quanto dan­noso e para­dos­sale: oggi in Ita­lia abbiamo, oltre a qual­che miliardo di volumi indu­striali e com­mer­ciali e tante incom­piute infra­strut­tu­rali spesso inu­tili, un edi­fi­cio ogni 4 per­sone, ma un allog­gio su 4 e oltre 20 milioni stanze risul­tano vuote; tut­ta­via fanno noti­zia i disa­giati, tut­tora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occu­panti, pro­ba­bil­mente legit­ti­mati da tale situa­zione). Con costi ambien­tali e sociali che infatti sono cre­sciuti sem­pre più.

Oggi, la cri­ti­cità di que­sta con­di­zione irrompe in tutta la sua dram­ma­tica evi­denza. Da Genova a Milano, dal Pie­monte al Veneto, da Roma alla Sici­lia, i tem­po­rali cau­sano disa­stri: rilievi e ver­santi abban­do­nati fra­nano sugli inse­dia­menti sot­to­stanti; la piog­gia rigon­fia fiumi, tor­renti e ruscelli, che diven­tano con­dotte for­zate, tro­vano le aree di pro­pria per­ti­nenza tra­sfor­mate in brani di città e rom­pono alla fine gli argini, anche per­ché le costru­zioni hanno bloc­cato le vie di fuga dell’acqua. Si regi­strano così i feno­meni dei «vasconi urbani», den­tro cui anne­gano oggi quar­tieri di Genova e Milano, come di Roma e, qual­che mese fa, di città e paesi emi­liani, veneti o sardi.

Il Governo tenta adesso di sca­ri­care ogni colpa sui pre­de­ces­sori o sulle Regioni; ma – fino alla dram­ma­tica emer­genza di que­sti giorni – ha per­pe­tuato e addi­rit­tura ali­men­tato le cause del disa­stro. Lo dimo­strano il Ddl Lupi –che pre­ten­de­rebbe di accen­tuare ulte­rior­mente la dere­gu­la­tion e svuo­tare la pia­ni­fi­ca­zione di potere nor­ma­tivo e descrit­tivo – e lo «Sblocca Ita­lia». Quest’ultimo prov­ve­di­mento è teso a pro­muo­vere altre atti­vità ad alto impatto ambien­tale: dalle tri­vel­la­zioni, a nuovi impianti a rischio, alle auto­strade, a nuova Alta Velo­cità. Al suo interno, prima degli eventi tra­gici degli ultimi giorni, la lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico era appena una cita­zione di oppor­tu­nità: 3 miliardi dichia­rati per 200 milioni real­mente disponibili.

E a fronte dei quasi 5 miliardi stan­ziati per le ope­ra­zioni ad alto impatto; tra cui si resu­sci­tano pro­getti di auto­strade da tempo supe­rati, come la biz­zarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla mas­so­ne­ria filo­de­mo­cri­stiana. Nelle ultime ore – sull’onda emo­tiva degli eventi — l’esecutivo annun­cia lo sblocco di 2,2 miliardi anti­dis­se­sto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.

Serve che gli impe­gni si tra­du­cano in risorse reali e per un pro­gramma molto più ampio: è neces­sa­rio un piano di risa­na­mento del ter­ri­to­rio da 50 miliardi di euro nei pros­simi dieci anni; di cui almeno il 10% da impie­gare subito. Se si pensa di ricor­rere per que­sto ai «300 miliardi di euro di inve­sti­menti euro­pei pro­messi da Jun­ker» si rischia di restare agli annunci o di dila­zio­nare troppo le ope­ra­zioni. Lo «Sblocca Ita­lia» – come hanno già pro­po­sto gli ambien­ta­li­sti – deve diven­tare «Salva Ita­lia», fina­liz­zando le risorse per intero e soltanto al risa­na­mento del ter­ri­to­rio, e can­cel­lando tutte le altre opere inu­tili e dan­nose con­te­nute nel provvedimento.

Deve essere ripri­sti­nata una stra­te­gia invisa al nostro attuale pre­mier: le poli­ti­che devono basarsi sulla pia­ni­fi­ca­zione di ter­ri­to­rio e paesaggio.

In Italia la risposta privata (speculativa) al bisogno di abitazioni produce immani quartieri di case vuote, e non consente a migliaia di abitanti di soddisfare il proprio bisogno. Ora lo stock di potenziale offerta pubblica è ceduto al mercato: è il neoliberismo nell'era renzista, baby. Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014

La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione. Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa. Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.

Ebbene, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine. La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta – probabilmente alla prima data utile – ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%. L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari). Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): «Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso – sostiene il sindacalista – proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni, favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita».

Va detto che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” – il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà –, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo. D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo).

Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà. D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, «anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica». Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.

L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi – assieme alla Spagna
– con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28). Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi. La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.

Le buone leggi ci sono (c’erano), ma l’assenza di controlli rigorosi e la colpevole negligenza dei notai hanno consentito la privatizzazione selvaggia e iniqua del patrimonio pubblico. Il Fatto Quotidiano”, 4 giugno 2014

Se i sindaci di Roma di destra, centro e sinistra si fossero limitati a far rispettare la legge nella compravendita delle decine di migliaia di case della sterminata periferia romana costruite dalla fine degli anni Settanta sui terreni espropriati dal Comune, oggi le casse del Campidoglio non piangerebbero con un debito che ha sfiorato i 900 milioni di euro. Per decenni quel gigantesco patrimonio immobiliare che va sotto il nome di edilizia popolare è stato un Far West. Intorno a quelle case e sotto gli occhi di tutti è stato organizzato un mercato selvaggio con migliaia di atti di compravendita solo all'apparenza regolari, con perfino i timbri e le firme dei notai al posto giusto, ma effettuati aggirando la legge.

Una mastodontica giostra immobiliare su cui sono saliti in molti. I proprietari delle case popolari in primo luogo, gente in genere con redditi bassi, a cui il Comune aveva concesso di realizzare a poco prezzo il sogno di avere un tetto. Ma ai quali è stato poi regalato un terno secco, permettendogli di vendere quello stesso tetto non a un prezzo contenuto e concordato, considerando che si trattava di immobili che all'origine costavano poco proprio perché realizzati su terreni espropriati e quindi quasi regalati. Ma a prezzo pieno, di mercato. Con un guadagno eccezionale per i venditori, tre o quattro volte il prezzo iniziale. Case pagate a suo tempo meno di 200 milioni di lire, sono state rivendute di recente a 350 mila euro e anche più. Ci hanno guadagnato i politici romani che con le case di edilizia residenziale pubblica si sono fatti molti amici tra gli elettori delle periferie. Ci hanno guadagnato i notai che, fidandosi ciecamente delle attestazioni degli uffici comunali, hanno messo il bollo su atti che alla prova delle aule dei tribunali si stanno dimostrando per quel che sono: illegittimi. Ci hanno guadagnato anche molti tecnici comunali che hanno assistito imperterriti alla fiera e in alcuni casi l'hanno agevolata, se non promossa. E ci hanno indirettamente guadagnato i grandi immobiliaristi capitolini, da Francesco Gaetano Caltagirone in giù, perché se il prezzo delle case a Roma per decenni e prima che arrivasse la falce della crisi aveva toccato livelli di pazzia collettiva lo si deve anche al fatto che l'enorme serbatoio dell'edilizia convenzionata è stato scambiato a prezzo pieno, lasciando che andasse a farsi benedire ogni effetto calmieratore. Chi ci ha rimesso sono state le casse comunali e quindi tutti quei milioni di romani, la maggioranza, che non hanno partecipato alla sarabanda o perché non la ritenevano giusta o perché non erano nelle condizioni di poter partecipare, ma che alle tasse comunali non si sono potuti sottrarre neanche un po'. E ci hanno perso anche migliaia di famiglie romane sotto sfratto (una ogni 191) non più in grado di pagare affitti saliti in media del 160 per cento a causa della speculazione.

Secondo un calcolo prudenziale di Giuseppe Di Piero, presidente di Area 167, l'associazione che si è dedicata anima e corpo alla denuncia dello scempio, insieme all'avvocato che ha sostenuto la causa, Antonio Corvasce, il Comune di Roma ci ha rimesso almeno mezzo miliardo di euro. Il legale ha presupposto che il Comune rispettasse la legge facendo pagare ai trasgressori la multa prevista fino a 4 volte la differenza tra il prezzo giusto, calmierato, e quello realmente preteso dai venditori. Corvasce ha vinto alcuni giorni fa una causa promossa da una privata cittadina che si riteneva danneggiata dal sistema di compravendita usato a Roma per le case di edilizia pubblica. Il tribunale civile della Capitale ha accolto la tesi della cittadina e dell'associazione Area 167 secondo cui “concedere una sorta di patente speculativa in capo al primo acquirente/assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, costruito su aree espropriate, non può essere considerato interesse pubblico”.

Quando un cittadino compra a buon mercato una casa popolare acquisisce la proprietà dell'immobile, ma con un vincolo forte: non può rivenderlo al prezzo massimo che riesce a spuntare, ma deve accontentarsi di un prezzo calmierato. A Milano, Firenze, Reggio Emilia, Torino, Pisa, Venezia, Ferrara, Bologna, Parma, Cagliari e in molte altre città la legge è stata rispettata. A Roma no. Ora la giunta Marino non sa che pesci prendere: per l'assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, il problema c'è ma non sa da che parte cominciare per risolverlo. A scanso di equivoci l'associazione Area 167 gli ha spedito una diffida invitandolo a interrompere una volta per tutte la giostra delle case popolari.

Analisi critica dell'art. 10 del DL n. 47 del 28 marzo scorso “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Nuvola di parole accattivanti a nascondere «accordi coi privati basati su indici urbanistici arbitrari e tesi a garantire il conseguimento della rendita attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite. Inviato a eddyburg il 15 aprile 2014

Il ministro Lupi ha maturato nella propria passata esperienza di assessore all’urbanistica del Comune di Milano come si possa fomentare uno scambio ineguale tra presunte virtù private e permissivismo pubblico, accettando la demolizione di ogni regola basata su un razionale rapporto tra quantità costruite, densità di popolazione e spazi ed aree per strutture pubbliche a fronte della promessa di edifici "verdi", "intelligenti", "energeticamente autosufficienti", "riciclabili"o "resilienti" (in altre parole, tutto l'armamentario ideologico delle tecnologie delle smart cities), per promuovere accordi coi privati basati su indici urbanistici del tutto arbitrari e tesi solo a garantire loro il conseguimento della rendita fondiario-immobiliare attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite.
E’ esattamente ciò che viene riproposto su un orizzonte di mercato esteso all’intero quadro nazionale con l’art. 10 del Decreto Legge n. 47 del 28 marzo scorso intitolato non casualmente “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Il pensiero di fondo del provvedimento è alimentato da una mancanza di fiducia nella capacità della società di costruire progetti comunitari condivisi a lungo termine, come avviene nei piani urbanistici promossi dal pubblico sulla base di una propria visione dell’interesse generale, ed utilizza invece la pressione della domanda insoddisfatta di edilizia abitativa ad uso sociale, soprattutto in locazione, per tentare di smaltire a condizioni di smobilizzo senza regole insediative lo stock edilizio privato accumulato nel periodo della bolla speculativa immobiliare montante e il poco patrimonio edilizio pubblico sopravvissuto alle ricorrenti ondate di cartolarizzazioni e svendite.

Infatti, secondo il primo comma dell’art. 10, ciò dovrebbe avvenire “senza consumo di nuovo suolo rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, favorendo il risparmio energetico e la promozione, da parte dei Comuni, di politiche urbane mirate ad un processo integrato di rigenerazione delle aree e dei tessuti attraverso lo sviluppo dell’edilizia sociale”.

Per conseguire questo scopo, tuttavia, il comma 5 mette in campo ogni genere di possibile intervento dalla “ristrutturazione edilizia, restauro o risanamento conservativo” alla “ sostituzione edilizia mediante anche la totale demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione con modifica di sagoma o diversa localizzazione nel lotto di riferimento” alla “variazione di destinazione d’uso anche senza opere” (e quindi, eventualmente, anche con opere di trasformazione), alla “creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio (…) necessarie a garantire l’integrazione sociale degli inquilini degli alloggi sociali” alla “creazione di quote di alloggi da destinare alla locazione temporanea dei residenti di immobili di edilizia residenziale pubblica in corso di ristrutturazione o a soggetti sottoposti a procedure di sfratto”.

E’facile prevedere quali di queste modalità di intervento verranno preferite dai privati proponenti, soprattutto se si tiene conto che il comma 8 consente che essi “possono essere realizzati in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e ai regolamenti edilizi ed alle destinazioni d’uso, nel rispetto delle norme e dei vincoli artistici, storici, archeologici, paesaggistici e ambientali, nonché delle norme di carattere igienico-sanitario e degli obiettivi di qualità dei suoli” e il comma 9 prescrive che tali interventi “devono comunque assicurare la copertura del fabbisogno energetico necessario per l’acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento, tramite impianti alimentati da fonti rinnovabili”. Cioè, nel rispetto di ogni vincolo esterno, fuorché quelli di carattere di carattere intrinsecamente urbanistico-insediativo, che vengono totalmente deregolamentati.

Suona beffardo, infine, che tutto ciò si prescrive debba essere regolato “da convenzioni sottoscritte dal comune e dal soggetto privato, con la previsione di clausole sanzionatorie per il mancato rispetto del vincolo di destinazione d’uso”. Un’urbanistica “à la carte” che richiama in auge le convenzioni senza piano regolatore o il “rito ambrosiano” degli Anni Cinquanta-Sessanta che, nonostante il disastro insediativo di cui portiamo in gran parte ancora le nefaste conseguenze, si concluse solo dopo il simbolico episodio della frana di Agrigento del 1966, il cui impatto sulla pubblica opinione vinse le resistenze anche delle forze politiche più conservatrici nei confronti della necessità di una regolamentazione pubblica dell’assetto insediativo.

Anche il finanziamento che viene stanziato per l’attuazione dell’evento Expo 2015 a Milano-Rho lascia del tutto impregiudicato ciò che accadrà su quell’area (pochissimo adatta all’uso residenziale per le pesanti barriere infrastrutturali che la contornano) dal 2016 in poi, e su cui invece già aleggiano le aspettative del mondo della sussidiarietà cooperativistica dalle larghe intese, in assenza di chiari criteri insediativi prefissati dagli enti pubblici.

Oggi, l' urbanistica, dopo essere stata oggetto di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Settanta e Ottanta, negli ultimi decenni, non gode più di una buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista o dal liberismo da regole insediative per l’attività economica imprenditoriale o familiare.

C’è da augurarsi che non occorra un nuovo choc analogo a quello provocato dalla disastrosa frana di Agrigento per comprendere su quale strada rischiamo di tornare a metterci.

Un’iniziativa da seguire con interesse, e da monitorare con attenzione soprattutto per gli aspetti sociali e a quelli economici: chi ci guadagna e chi chi rimette, oggi e domani? La Repubblica, 15 novembre 2015

SOTTO forma di un condominio formato da quattro edifici di nove piani, per un totale di 123 appartamenti, sorto in soli 18 mesi nel quartiere San Siro di Milano, non lontano dallo stadio. Domani, con l’ingresso degli ultimi inquilini, ci sarà una sorta di cerimonia ufficiale per l’ultimo atto di un progetto in cui pochi credevano quattro anni fa, quando partì l’iter burocratico.

Perché l’obiettivo era ambizioso: dare in affitto a prezzi calmierati abitazioni in edilizia convenzionata abbattendo i costi di edificazione e allo stesso tempo ottenendo un prodotto di qualità in classe energetica A. Un progetto, firmato dallo studio Rossi Prodi di Firenze, molto particolare: una struttura portante in legname sovrapposto (abeti e larici provenienti da foreste sostenibili austriache), ricoperto da uno strato di cartongesso ad elevate prestazioni, tenuta insieme da viti lunghe 40 centimetri. Tanto che nell’ambiente già si scherza definendolo come “il modello Ikea delle costruzioni”. Tutto questo, a canoni di locazione “fuori mercato”: per un bilocale di 75 metri quadrati si paga un affitto di 450 euro al mese. Quando la media per la stessa metratura nel nostro Paese si aggira sui mille euro. Tutto questo garantendo comunque un profitto alla società che ha curato l’operazione.

Il privato che ha realizzato il progetto, la Polaris Real Estate, si è rifatta a realtà che in Europa esistono da almeno vent’anni. E rispondono al nome di “housing sociale”, un settore che fa parte del più vasto mondo dell’economia e della finanza etica e che vuole dare risposte abitative a chi non si potrebbe permettere i prezzi di mercato. In pratica, quasi più nessuno: perché se è vero che i prezzi degli affitti in Italia sono in media con l’Europa, gli stipendi sono molto al di sotto.

Progetti che per avere gambe devono far convivere in modo virtuoso pubblico e privato: le case di San Siro - il progetto social più grande d’Europa - è stato realizzato con un finanziamento del Fondo Immobiliare di Lombardia, promosso da Fondazione Cariplo e Regione, ma i cui sottoscrittori sono banche come Intesa e Bpm, assicurazioni come Generali, la Cassa Italiana geometri e la Cassa Depositi Prestiti.

E poi c’è il ruolo dell’amministrazione. «Il Comune di Milano, che si è anche occupato anche dei bandi per l’assegnazione degli alloggi tramite avvisi pubblici spiega l’amministratore delegato di Polaris Fabio Carlozzo - ha ceduto i terreni in diritto di superficie per 90 anni considerandoli come standard, come se fossero destinati a opere come ospedali o scuole, proprio per la rilevanza sociale del progetto». Questo ha permesso di abbattere una delle componenti di costo dei progetti edilizi. Sempre Carlozzo: «A Milano all’apice della bolla si è arrivati a pagare fino a 700-800 euro al metri quadrato il terreno, a noi è costato 150 euro. Così, alla fine, il costo di costruzione è arrivato a 1.100 euro al metro quadrato contro 1.500».

Come detto, è bastato copiare quanto già accade nel resto d’Europa. Pochi giorni fa, in un convegno sul tema organizzato a Torino, la società di consulenza Scenari Immobiliari ha presentato uno studio che evidenzia lo scarso peso dell'housing sociale: a Roma e Milano incide per il 4 e il 7 per cento sul totale delle locazioni. A Londra raggiunge il 26, a Copenaghen il 20, a Parigi il 17, mentre la media europea è del 15. Ecco perché, potrebbe essere una risposta sia alla crisi dell'immobiliare (prezzi crollati del 30 per cento in 7 anni e compravendite scese del 20 solo nell'ultimo anno e del 50 in un decennio) sia dell’edilizia (i permessi di costruzione nel 2012 sono calati di un altro 22 per cento, ai minimi dal dopoguerra). L’housing sociale diventa così una strada su cui si potrebbero avviare in tanti. Proprio la Cassa Depositi Prestiti, la spa controllata del Tesoro che si occupa di mettere a frutto il risparmio postale degli italiani, ha destinato nell’ultimo bilancio un miliardo di euro per progetti edilizi con locazioni calmierate. E il caso di San Siro a Milano potrebbe fare da modello.

Un Commento di Michela Barzi a questo articolo e alle proposte descritte

Che fa il Mercato (la divinità che, secondo i suoi sacerdoti, ha come fine il raggiungimento dell’interesse collettivo) quando vuole aumentare il prezzo di una bene? Ne distrugge una parte. E’ il capitalismo, baby. La Repubblica, “Economia e finanze”, 23 ottobre 2013

Non riusciamo a vendere le case? Non ci sono problemi: abbattiamole. Svolta a Madrid per cercare di far ripartire il mercato immobiliare: stanziati 103 milioni di euro per iniziare la demolizione di parte delle 800mila case vuote nel paese. L'obiettivo? Risparmiare sulle spese di gestione e far risalire il valore degli altri edifici in vendita per rilanciare l'economia

La Spagna, travolta cinque anni fa dalla Burbuja del ladrillo (la bolla del mattone) e sommersa da uno stock di 800mila case invendute, ha scelto la linea dura: il Sareb, la banca pubblica che ha ereditato il patrimonio immobiliare dalle banche per salvare gli istituti di credito, ha stanziato in bilancio una cifra di 103 milioni di euro per procedere alla demolizione di un pezzo del suo tesoretto edilizio.

La recente ripresa economica non è ancora riuscita a rilanciare il mercato: nel secondo trimestre di quest'anno sono stati venduti solo 80mila appartamenti circa - ha certificato il ministero del Commercio - il 2,3% in meno dell'anno prima e lontanissimi dai 250mila circa che venivano acquistati nello stesso arco di tempo negli anni d'oro. E allora, dopo aver fatto fare i calcoli ai suoi economisti, il Sareb ha rotto gli indugi: meglio radere al suolo le proprietà che ancora non sono state terminate. Non solo perchè non ci sono i soldi per finire i lavori, ma soprattutto per evitare le spese di gestione e per provare a dare un piccolo elettrochoc al mercato, visto che i prezzi - malgrado un crollo del 40% dal 2008 - stanno continuando a calare mettendo a rischio gli stessi conti del Sareb.

La decisione, come ovvio, ha scatenato polemiche a Madrid. La Plataforma de Afectados por la Hipoteca, l'associazione che rappresenta le migliaia di famiglie sfrattate nel paese, ha attaccato il "Banco malo", come lo chiamano in Spagna, chiedendo piuttosto di assegnare gli appartamenti a chi è in difficoltà e non ha un tetto sulla testa. E il Sareb ha tenuto a precisare che il progetto di demolizione partirà in modo graduale e riguarderà solo edifici fantasma allo stato del tutto inutilizzabili. Nello stesso tempo però ha provato a spiegare le ragioni della sua scelta: in Irlanda, altro Paese alle prese con una pesante crisi del mattone che ha lasciato 300mila case vuote, il governo ha già provveduto a radere al suolo diversi complessi arrivando così a generare in modo artificioso un timido rialzo dei prezzi.

La mossa della cassaforte immobiliare iberica (che ha tempo 18 anni per liquidare i suoi assett) ha in realtà un obiettivo preciso: ridare un po' di fiato alle banche del Paese, che malgrado i 40 miliardi di aiuti internazionali faticano ancora a far quadrare i loro conti. La ripresa del Pil non si è ancora tradotta in un miglioramento delle condizioni di vita nella quotidianità. E il numero di persone che faticano a far tornare i conti di casa è in costante aumento: i prestiti in sofferenza del settore creditizio, per dire, sono arrivati alla stratosferica quota dell'11,8%, pari a circa 180 miliardi di euro. E in vista delle nuove regole patrimoniali per le banche una piccola ripresa dei prezzi di mercato potrebbe aiutarle a rispettare i paletti della Bce. Si vedrà. Ruspe e gru sono in agguato. Questa volta non per far ripartire la bolla del ladrillo. Ma per cancellarne il ricordo.

Proprio nel momento in cui i movimenti sociali italiani per la casa incontrano un ministro da sempre sostenitore del ruolo dominante dei privati, una rassegna di problemi dalle esperienze in corso a Londra: recinti nei recinti per dividere chi ha da chi non ha. The Guardian, 22 ottobre 2013 (f.b.)

Titolo originale: Unsocial housing? Gates within gates divide the 'haves' and 'have-nots' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le inserzioni pubblicitarie dello High Point Village, intervento di 600 alloggi a Hayes, fascia esterna occidentale londinese, parlano di “moderno accostamento di case economiche e di lusso, perfettamente progettate e attrezzate, che offre un'oasi di tranquillità nel nostro mondo frenetico e programmato, per garantire agli abitanti un ambiente davvero di comunità, del tipo che manca nella metropoli anonima”. Ecco, non è esattamente quello che hanno scoperto gli inquilini della parte “economica” del quartiere. Chi abita le case pubbliche o di edilizia convenzionata, afferma di essere considerato un cittadino di serie B, come nel caso delle cancellate interne che li dividono dai vicini della parte “lusso”. C'è addirittura una divisione nel parcheggio per le auto, fra quelle della zona economica e le altre.

Audrey Verma, abitante in un o dei complessi economici, spiega come High Point Village sia “una specie di gated community dentro cui esistono altri cancelli per separare gli abitanti delle case pubbliche da quelli delle private”. Ci sono addirittura delle carte dove le aree più di lusso sono divisa da specifici nomi, mentre i due isolati delle case economiche restano anonimi. Il massimo della tensione si è raggiunto in agosto, quando si è rotta una condotta d'acqua che ha lasciato a secco la parte economica per quasi due giorni. Alcuni abitati hanno scoperto un rubinetto d'emergenza destinato alla sezione privata, ma hanno appreso contemporaneamente che non era possibile usarlo ad alimentare le loro case. Per trovarsi costretti a riempire bottiglie ad una fontanella decorativa all'ingresso della zona lusso.

“Molti si sono trattenuti dal parlare in passato temendo effetti sulle valutazioni immobiliari, ma quanto successo con l'impianto dell'acqua va oltre ogni limite” continua Verma. “Non si può neppure usare un rubinetto con la canna. Le cancellate sono da sempre un problema, a dividere chi ha da chi non ha, ma non poter neppure usare provvisoriamente l'acqua con un tubo è troppo”. Situazione addirittura peggiorata dopo che qualcuno è stato sospeso da una pagina Facebook dedicata agli abitanti di High Point Village, per aver sollevato la questione.

Gli interventi residenziali misti, una scelta molto sollecitata dai governi laburisti, non sono nuovi a polemiche. Si accusano i costruttori di usare tattiche di divisione sociale, ad esempio inserendo per la parte non di lusso esclusivamente tagli piccoli, monolocali. Il parlamentare eletto nella circoscrizione di Hayes e Harlington, il laburista John McDonnell, racconta che l'idea originale di High Point Village era di quartiere misto con una serie di servizi disponibili a tutti. “Ma nell'attuazione pratica è diventato un classico esempio di realizzazione in cui si isola la parte economica e convenzionata in un angolo, separato da recinzioni. Quello del guasto alla condotta d'acqua è solo l'ultimo esempio di un'idea generale tesa solo ad aumentare al massimo il profitto vendendo gli appartamenti a mercato libero”.

Sarah Blandy, professore di diritto all'Università di Sheffield ed esperta di gated communities, spiega come ai costruttori venga spesso imposto, se vogliono ottenere l'autorizzazione a un progetto, di inserire una quota di case economiche o convenzionate. “Quella quota poi viene spesso segregata da quella privata, e vistosamente diversa. Le cancellate poi rendono il tutto più esplicito. La divisione all'interno di una altra divisione, de resto, non è cosa rara, spesso ufficialmente per motivi di sicurezza, a prevenire ingressi sgraditi o fughe troppo facili di malintenzionati”.

I lavori dello High Point Village li ha iniziati nel 2007 il Ballymore Group, già importante protagonista dell'intervento londinese dei Docklands.
La Thames Valley Housing (TVH), responsabile della gestione del complesso, sostiene che “Il guasto alla rete idrica dello High Point Village evidenzia le difficoltà di funzionamento di un progetto misto, ma non abbiamo avuto proteste dagli abitanti. Abbiamo previsto un incontro di responsabili per discutere questo incidente con TVH Ballymore e altri interessati, per far sì che il servizio sia garantito a tutti indistintamente”. Secondo Ballymore occorre prestare grande attenzione “a tutte le componenti di una situazione mista di case economiche e di libero mercato nel medesimo contesto, specie in un contesto come High Point Village con edifici autosufficienti per motivi economici e di gestione”. Si aggiunge, che la sezione case economiche è dotata di giardini recintati e campi da gioco, e che la piscina del complesso è disponibile per tutti gli abitanti.

Adrian Gill, presidente della High Point Village Residents Association, spiega che certo il suo gruppo rappresenta esclusivamente gli abitanti di tre isolati, ma che non si tratta si esclusione sociale: sono le leggi che governano questo tipo di rappresentanza. “Le difficoltà che incontriamo credo siano conseguenza di insediamenti sempre più densi – resi indispensabili dalla forte crescita di popolazione nell'area di Londra – e da politiche delle amministrazioni locali semplicistiche e ingenue. Dobbiamo lavorare a rimuovere gli ostacoli materiali che segregano gli abitanti di fasce di reddito e godimento dell'alloggio diverse, e che oggi ne stigmatizzano socialmente la condizione”.

Una nota sulla manifestazione di sabato 19 ottobre scorso, per la casa e il lavoro, il diritto alla città e contro le Grandi opere inutili, nel ricordo di un’altra manifestazione che tentò di cambiare la nostra storia ma fu arrestata dal terrorismo dei “servizi deviati” dello Stato

Sono stati migliaia i corpi che, attraverso un lungo serpentone colorato, sabato 19 ottobre, hanno assediato tre specifici edifici statali che molto a che fare hanno avuto e dovrebbero avere con la “casa”: il Ministero dell’ Economia che dovrebbe pensare alle risorse con cui rendere possibili programmi abitativi; il Ministero delle Infrastrutture che questi programmi dovrebbe progettare e rendere realizzabili; la Cassa Depositi e Prestiti, oggi usata come un bancomat per far tornare il bilancio dello stato ricorrendo alla dismissione di quell’ingente patrimonio pubblico che potrebbe, anche se usato solo in piccola parte, risolvere il problema dell’emergenza abitativa.

I luoghi ministeriali di Roma sono la precisa traduzione in pietra del modello proprio alla costruzione capitalistica dello spazio della città. Tre edifici ben piantati nel’asse “direzionale” di cui, dopo il 1870, il nuovo stato italiano si era voluto dotare aprendo, a partire dal Quirinale, lal via del proprio apparato: il ministero della Guerra, dell’Agricoltura, delle Finanze e, subito dopo la Porta, quelle dei lavori Pubblici. Terreni a ridosso della zona in cui, solo qualche anno più tardi (1883) con la lottizzazione Ludovisi, la rendita immobiliare si esibirà nei primi devastanti esercizi di rendita.

Il corteo, quasi un paradosso per i tanti oggi esclusi dal diritto all’abitare, ha toccato così, nel suo dipanarsi, le case che quei ministeri, atterrando da Torino con l’unità d’Italia, si portarono appresso, circondando i massicci ingombri volumetrici degli uffici con le altrettante massicce volumetrie residenziali. I “casermoni” (con questo termine fu ribattezzata dai romani quella tipologia a loro estranea) possenti, con il cortile interno, dove alloggiare il personale chiamato a dar vita alla macchina amministrativa del nuovo Stato. pUna macchina cresciuta su se stessa che ha barattato, da allora, la propria espansione priva di regole e la conseguente rendita dei proprietari di terreni e edifici da riconvertire, con la rinuncia a quell’ipotesi di delocalizzazione dei ministeri che, “pensata” nella seconda metà del 900, con la realizzazione di un sistema esterno al centro storico (S.D.O.), avrebbe interrotto quella bulimia espansionistica e la conseguente scomparsa, dalla parte antica della città, di un sempre più massiccio numero di abitanti. pLa giornata del 19 ottobre, ma anche quella del giorno prima con la manifestazione del sindacalismo di base, si è mossa a partire dalle sofferenze dell’abitare nella crisi alimentata giorno dopo giorno dal dominio del capitale finanziario. Per questo il corteo radicale, ma certo non violento, capace anzi come si è visto di auto tutelarsi, ha detto chiaramente che le risorse per l’abitare non possono essere sottratte e indirizzate alle banche. Questo chiede il popolo delle occupazioni che a macchia d’olio si stanno espandendo nel paese. Ovunque nascono numeri di una strana urbanistica .

Le oltre diecimila persone che vivono nelle 60 occupazioni romane (abitative e culturali) per esempio, sono in realtà gli abitanti di un quartiere che non c’è, ma che è capace spandendosi nel costruito del corpo della città, di porre una richiesta di partecipazione, che nasce dalle forme precarie di vita in cui si costretti a vivere, per un’idea di città diversa. Non è un caso che la forte presenza al corteo dei migranti (significativo il cartello innalzato da molti di loro: ci dispiace non siamo affogati!) ha significato proprio che occupare non è solo una forma di risarcimento, ma piuttosto una riappropriazione per tendere con una nuova forma di welfare al diritto alla città. Accanto a loro la miriade di reti sociali dove questo già avviene, e i tantissimi lavoratori precari: nei servizi, nel commercio che, con il diritto all’abitare intendono dire no alle politiche di austerità che si intende costruire intorno alla vita di tutti noi.

Martedì prossimo questo movimento incontrerà insieme ai Sindaci delle città dove più forte è l’emergenza abitativa, il ministro Lupi che intanto, ha trovato il modo di mettere in pratica il suo ben noto credo urbanistico consegnando ad un super fondo pubblico un consistente pacchetto di “immobili di stato” per far cassa e ridurre così il debito pubblico. Una devastante risposta che vede i “ragionieri” contabilizzare in sei miliardi di euro entro il 2017 i possibili incassi, ma a non considerare che cosa accadrà nelle nostre città e nei nostri territori pAncora una volta i tre edifici di cui sopra hanno deciso di non parlare tra loro anche se sarebbe sufficiente, data la loro ubicazione, farlo aprendo le finestre . A nessuno di loro è venuto in mente che questi immobili liberati e consegnati al mercato avranno l’effetto devastante di altrettante bombe, minando con gli altrettanti cambi di destinazione d’uso che chi compra vorrà vedersi assicurato, la definitiva possibilità di poter parlar ancora di una città pubblica. E’da questi palazzi consegnati al capitale finanziario che verrà l’assedio alla nostra vita. pLa manifestazione del 19 ottobre ha voluto dare anche questo segnale richiedendo, insieme al blocco degli sfratti, l’interruzione del piano di dismissione di questo patrimonio e della sua riconversione residenziale esprimendo un diritto di cittadinanza che è il diritto alla città. A farla finita con il rincorrere il mito delle grandi opere come hanno gridato i tanti NOTAV presenti, a non cedere la sovranità del nostro territorio agli americani per trasformarlo in casa del loro grande orecchio indagatore, come ha gridato lo spezzone del corteo dei NO.Muos .

I più anziani tra noi sabato pomeriggio si sono commossi. Non certo per i lacrimogeni che non ci sono stati, ma ripensando che proprio una manifestazione come questa, nel 1969 aveva dato vita con primo sciopero generale sulla casa a un movimento capace di togliere dalle città l’infamia delle abitazioni precarie (baracche), aprire una stagione di edilizia popolare, a parlare di abitare prima di parlare di costruire.

Siamo stati capaci, allora, di rompere l’assedio del “blocco edilizio” riusciremo, oggi, a fare altrettanto con quello del blocco “ finanziario immobiliare”.

«Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa». Corriere della Sera, 13 settembre 2013
Circola in Italia strana Una idea di legalità. I Suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare Il Ruolo improprio di «controllori» ma non Appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per Calcolo elettorale. E Il Caso di Napoli, città-faro del Movimento giustizialista Visto Che ha Eletto sindaco un pm, colomba has been Appena approvata, Praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle casi comunali. Nel capoluogo partenopeo si Tratta di un Fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le Domande di condono Giunte al Comune per altrettanti Alloggi. Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa. NON C'E Modo Migliore di sancire la legge del Più forte, del Più Illegale; e di Invitare Altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare Alloggi Destinati: ai bisognosi.

Ma Nelle PARTICOLARI Condizioni di Napoli la sanatoria Non E assolo iniqua; E Anche un premio alla Camorra Organizzata. E Stato infatti provato da Inchieste giornalistiche e Giudiziarie Che «l'Occupazione abusiva di caso è i clan per la Modalità Privilegiata di Occupazione del territorio», vieni ah Detto un Pubblico Ministero. In rioni diventati tristemente famosi, un Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per Mettere al posto Loro Gli Affiliati oi clientes della famiglia camorristica e Il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le Strutture architettoniche dell'Edilizia popolare per Creazione e veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di Blocco, Praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga.

Non Che tutto this non lo Sappia il sindaco de Magistris, il Che a Napoli ha Fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la Responsabilità of this Scelta. L'ha però lasciata tariffa al Consiglio Comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non e Una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa ». E in Effetti e Una delibera Che riconosce il diritto alla casa a chi Già ce l'ha, avendola Occupata con la forza o l'astuzia.

This Genere di arretramento del diritto, dettato da interesse politico, populismo sociale o connivenza vera e propria, ha Fatto di Napoli la città sregolata e dolente Che ë. QUANDO una New York si decise di applicare la teoria della «tolleranza zero", si Comincio con il controllare Quelli che viaggiavano Sulla metropolitana senza biglietto. La Polizia Municipale fu stupita di Scoprire Che la Maggioranza dei Fermati era ricercata Dalla Giustizia per Altre Ragioni. Se de Magistris volesse osare un colpo serio alla Criminalità Organizzata Nella SUA città, potrebbe forse cominciare col GUARDARE nell'elenco di occupanti abusivi Che il Suo Comune ha Appena DECISO di legalizzare.

Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Il manifesto, 21 agosto 2013, con postilla

Dall'azzardo berlusconiano al crollo delle quotazioni, e poi una tassa iniqua Si è costruito e si continua a costruire troppo. Aumenta la quota dell'invenduto. È un sogno la casa dell'ineffabile Roberto Carlino che da mesi incombe sugli schermi nazionali per reclamizzare le "sue" abitazioni. Niente di male: ognuno è libero di spendere i soldi guadagnati con i folli livelli delle quotazioni immobiliari come vuole. Soltanto che il nostro eroe esagera spudoratamente. Con inequivocabile accento all'amatriciana per invogliare all'acquisto afferma infatti che «...del resto la risalita del mattone è fenomeno inevitabile e fisiologico».

Scherza, il nostro, inducendo alla confusione tra un suo legittimo auspicio e un principio della fisica. Non è affatto detto che nel prossimo futuro sia inevitabile e fisiologica la crescita delle quotazioni immobiliari. Molti operatori di settore temono anzi un nuovo calo in autunno. Perché si è costruito troppo in questi anni di deregulation e la quota dell'invenduto continua ad aumentare perché nel frattempo si costruisce ancora molto.

Roberto Carlino ha avuto una fugace (per colpa di Renata Polverini) incursione nella politica regionale: è stato presidente della commissione urbanistica, eletto nel vasto arcipelago berlusconiano. Così dal sogno di una casa passiamo all'incubo che perseguita il leader della destra che proprio sul sogno di far arricchire tutti gli italiani con il mattone ha fondato molta parte delle sue fortune. Dal 1994 è iniziata l'offensiva condotta sulla parola d'ordine «padroni a casa propria»: legge dopo legge dalla semplificazione edilizia alla cancellazione del falso in bilancio - che c'entra molto con questa storia come ci insegna il caso Ligresti - i valori immobiliari sono saliti vertiginosamente per quindici anni. Molti italiani hanno continuato a dare a Berlusconi il loro consenso, nonostante il crescente disgusto, proprio perché anche il loro piccolo salvadanaio cresceva.

Dal 2008 quel castello di carte è stato spazzato via dal fallimento del neoliberismo e inizia la fase dell'inarrestabile caduta dei prezzi delle case. Ci sono famiglie che hanno acquistato dieci anni fa una casa che oggi vale dal 20 al 40% in meno di quanto l'hanno pagata. Il decremento non è omogeneo, è molto più accentuato al sud rispetto al nord; nelle aree interne rispetto alle grandi città; ma interessa tutti ad eccezione degli immobili di pregio dei centri storici accaparrati dai vampiri che dominano l'economia di rapina. Il sogno berlusconiano era dunque un azzardo: ha fatto credere in un paradiso per tutti e ha fatto arricchire senza misura solo pochissimi speculatori e immobiliaristi.

Il rischio della perdita del consenso era così evidente che Berlusconi ha giocato d'azzardo, strumento in cui eccelle anche perché l'opposizione parlamentare al suo ultimo governo fu talmente inesistente che il gioco gli è riuscito alla perfezione. All'inizio del 2009, pochi mesi dopo la crisi dei mutui subprime statunitensi, lancia il piano casa. Il mattone continuerà a girare, avrete una stanza in più e diventerete ancora più ricchi. Un flop miserevole, oggi ammesso da tutti. Allora tutti ci credettero, comprese le regioni guidate dal centro sinistra che con la loro dabbenaggine coprirono la finzione berlusconiana.

A volte, poi, il destino è imprevedibile e proprio nel momento in cui era chiaro il fallimento del piano casa ecco un vero amico, Supermario. E' il governo dei professori a togliere le castagne dal fuoco al centro destra imponendo una tassa immobiliare iniqua e contraria al criterio costituzionale della progressività che invece di tassare i grandi patrimoni immobiliari accumulati in venti anni ha colpito indiscriminatamente il ceto medio, spesso proprietario di un'unica abitazione. Il paradosso italiano è che la bandiera di questo grande segmento di società non è stata presa in mano dalla sinistra ma dalla stessa destra che con la sua follia cementizia ha posto le basi per la discesa dei valori immobiliari.

Il Pdl urla di togliere l'Imu. Per tutti, compresi i possessori di ville e di grandi patrimoni immobiliari. Pochi urlano più forte che essa va tolta solo ai piccoli proprietari e aumentata per tutti coloro che detengono la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare italiano. Del resto il governo Letta non ha mai affermato che ci sarà un provvedimento progressivo che rimetta un poco a posto la bilancia dell'equità. Ciò di cui si sente parlare in questo scorcio di agosto è una furbesca evoluzione dell'Imu, camuffata nella tassa sui marciapiedi e di altri servizi urbani.

Così la compagine berlusconiana si avvia a portare a casa qualche prezioso risultato per le lobby che la sostengono. A meno che il Parlamento abbia un sussulto e accenda i riflettori sulla folle politica che ha favorito il cemento negli ultimi venti anni. Non c'è da essere ottimisti. Del resto, e lo affronteremo in un prossimo articolo, nel decreto del "fare" strenuamente difeso dal Pd c'è un'ulteriore spinta alla deroga edilizia. Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Favorendo ancora la rendita e intaccando l'ultimo salvadanaio, la casa, delle famiglie italiane sempre più povere e senza rappresentanza.


Postilla
Ciò che a me stupisce di più è che tutti si affannino a battersi pro o contro il reddito percepito dal possesso di un immobile e nessuno si proponga di sottrarre ai proprietari di immobili il maggior valore che la loro proprietà ottiene grazie alle decisioni e agli investimenti dell'azione pubblica. Da Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan (per non parlare della borghesia post-risorgimentale), fino a Fiorentino Sullo e ad Aldo Natoli, liberali "veri" e sinistre si sono sempre proposti di restituire al pubblico ciò che è del pubblico: il maggior valore degli immobili nel momento del passaggio di proprietà.

Berlusconi e il problema della casa (tanto per sorridere, nel solleone). «Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni», il manifesto, 10 agosto 2013

Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni. Da casa la prima volta, sulla casa tutte le altre. Cominciano così le campagne elettorali di Silvio Berlusconi, dalla videocassetta del 1994 registrata tra le mura domestiche di villa San Martino, Arcore, alla propaganda sulle abitazioni degli altri, di cui negli anni ha promesso la costruzione, l'estensione e soprattutto la detassazione. Così quando il cavaliere torna a parlare di casa, specie della prima casa «che è sacra» (lui ne ha altre venti profane) non si sbaglia: c'è aria di elezioni.

Partito come imprenditore immobiliare, Berlusconi ha detto più volte che vorrebbe essere ricordato come colui che ha dato una casa a chi non ce l'aveva. «Sogno un paese di proprietari di casa» risale alla campagna elettorale del 2006. Non essendoci riuscito, anche perché l'Italia era già e resta almeno all'ottanta percento un paese di proprietari di casa, ha fatto sogni diversi. Siamo nel 2009: «Una mattina mi sono svegliato e ho detto, ecco qua, cementifichiamo l'Italia. Scherzo, non c'è nessuna cementificazione, le famiglie potranno fare qualcosa che renderà più bella e più preziosa la propria abitazione. Siccome l'ho sognata io, Tremonti e Ghedini la chiamano lex Silvia». È il piano casa. Quello che doveva consentire ai proprietari di ampliarsi in libertà, fino al 30%, rilanciando così l'edilizia - che da sola «cambia il corso della politica economica», questa è di ieri - senza controlli, nel paese degli abusi e dei terremoti.

La casa. Niente che tocchi di più gli italiani. Wikipedia conta una cinquantina di proverbi sul tema, tra i quali quello che assegna al mattone anche il derby con la religione: «È buona cosa la messa udire, ma è meglio la casa custodire». Per lanciare il piano casa Berlusconi scelse un altro motto: «Padroni in casa nostra». Poi disinvoltamente esteso dai muri perimetrali alle frontiere blindate. E tale era l'identificazione del leader col popolo che tra le prime richieste di applicazione del piano casa ci fu quella della Idra immobiliare per la realizzazione di alcuni bungalow all'interno di villa Certosa in Sardegna. Ad altri lavorucci domestici tipo la costruzione di un tunnel a mare per le imbarcazioni e un laghetto artificiale si preferì ovviare con il segreto di stato.

Con la testa nel mattone, quando ha dovuto aiutare qualche amico in difficoltà Berlusconi gli ha comprato casa. Lo ha fatto con Dell'Utri, l'ha fatto con un certo numero di ragazze poi conosciute come «olgettine» (dall'indirizzo del condominio di Milano 2 dove veniva gratuitamente ospitate), l'ha fatto persino con il pianista delle notti di Arcore. E si capisce quanto gli sia spiaciuta la curiosità dei magistrati per quelle cena eleganti, anche se indotta da un'errata strategia difensiva. Sono state così violate tutte le stanze, la tavernetta della lap dance, la camera del lettone di Putin, persino il bagno fotografato da un'ospite infedele.

Tutto il circuito «padronale» delle mura domestiche della villa di Arcore da privato è diventato pubblico. Quella villa il cui acquisto è all'origine di uno degli incontri più importanti nel destino del cavaliere, quello con l'avvocato Cesare Previti curatore degli interessi della marchesina Anna Maria Casati passato rapidamente dalla parte del cavaliere acquirente. L'affare fu concluso, si stima, per un quarto del valore reale dell'immobile e dei suoi arredi. E si sa che il primo gesto d'amore per una casa consiste nell'ottenere uno sconto sull'acquisto. Certo non a tutti capita come a Berlusconi di trovare all'interno quadri e libri di valore compresi nel prezzo, ma col tempo abbiamo scoperto che il cavaliere non è solo un costruttore, è anche un arredatore. Come aveva già avvertito Giuliano Ferrara nel volume agiografico del 2001 spedito per posta agli italiani: «Arredare le case è un suo hobby, cura ogni particolare, dalle foto in cornice ai fiori, alle luci studiate in un certo modo». La prova sta nelle immagini che accompagnavano Una storia italiana, perché quelle stanze furono presentate al pubblico molti anni prima che ci ficcassero il naso i pubblici ministeri. E quasi a concludere il ciclo, Natale 2011, in pieno Ruby-gate, ecco il desco di Arcore che splende di rosso e oro nel paginone centrale di Chi. Trentacinque a tavola, accanto a Berlusconi un prete (cugino).

Quando negli affari ha comprato una catena di negozi l'ha chiamata «la casa degli italiani», quando in politica ha fondato una coalizione «la casa delle libertà», quando ha voluto distruggere un avversario politico si è concentrato su una casa (di Montecarlo), quando si è messo a risolvere il problema dei rifiuti ha detto ai napoletani di «considerare le strade come le vostre case», quando si è dedicato ai terremotati dell'Aquila ha spianato le colline per impiantarci le C.A.S.E (complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e poi è andato ad accogliere i terremotati in diretta tv con lo spumante nel frigo: «Le donne cadono nelle mie braccia incredule». Quando, in quella che sembra la fine di tutto, ha pianto sulle sue sorti di condannato, l'ha fatto da un palchetto costruito - pare abusivamente - davanti al portone di casa, rientrandoci poi svelto con fidanzata e cagnolino. E se saranno arresti saranno arresti domiciliari.

Inserto del giovedì sul manifesto, "L'Italia che va" 8 agosto 2013. Il problema della casa, irrisolto per i deboli numerosi dopo decenni di lotta per un diritto. Soluzioni che aprono speranze per una città più equa. Articoli di D. Chanaz, S, Medici, D. Bevilacqua, E. Scandurra, G. Salvetti

Spazi di libertà
di Dafne Chanaz

Dagli squat urbani agli ecovillaggi, l'abitare diventa un atto rivoluzionario, antiliberista ed ecologista. Le nuove parole d'ordine sono cohousing, autorecupero, autocostruzione. Mentre si riscopre il mutuo soccorso ottocentesco e le nuove Comuni ricordano il '68

«L'ecovillaggio è la cellula del futuro corpo sociale, trasformazione in atto - o se volete "rivoluzione" - dal basso, non violenta e silenziosa, che ha dimensione mondiale e prefigura una fuoriuscita radicale dal sistema. In Italia (...) il raddoppio in pochi anni del numero degli ecovillaggi costituiti e dei progetti in fase di realizzazione mette in luce un nuovo corso, esistenziale e politico, soprattutto tra le giovani generazioni». Una tale affermazione può sembrare forte a chi non abbia fatto esperienza diretta di queste forme di vita comunitaria che partono dal rapporto con gli ecosistemi per costruire modelli relazionali più equi, conviviali e soddisfacenti. Può sembrare ottimista a chi non abbia visto fiorire la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, anno dopo anno, fino all'ultimo incontro di fine luglio 2013, gremito di giovani e ricco di così tante nuove esperienze. Versione italiana del Global Ecovillage Network, la Rive si è formalizzata nel 2007 - grazie anche all'iniziativa del mensile Terranuova , che funge da organo ufficioso della rete - ed è già un punto di riferimento e d'ispirazione per moltissimi. Chi erano gli oltre 500 partecipanti al raduno di quest'anno e cos'è un ecovillaggio? Gran parte erano giovani romani, ma anche persone provenienti da tutte le regioni d'Italia e dall'estero (Spagna, Slovenia, Brasile) interessati alle conferenze ed ai workshop offerti (bioedilizia, cesteria...) e ad apprendere qualche cosa circa alternative di vita concrete ed accessibili, lontane dalla nevrosi urbana e dal precariato. Poi c'erano una trentina di volontari che avevano allestito il campo e coordinavano le operazioni. Ed infine un centinaio erano rappresentanti degli oltre 20 ecovillaggi toscani, milanesi, bresciani, padovani, vicentini, siciliani, calabresi...

NUOVI IMMAGINARI
Sperimentiamo l'autogoverno
di Sandro Medici

La devastante spinta edilizia favorita e coltivata dall'urbanistica deregolata di fine secolo, quel voluminoso flusso di cemento che ha rovinosamente impattato su città e territori, sta ormai consumando i suoi ultimi cantieri. È il tramonto di una parabola che ha tuttavia alterato e deformato interi paesaggi, lasciando nelle pianure piantagioni di prefabbricati industriali vuoti e abbandonati, quartierini di affettate palazzine dai tristi balconcini ai bordi delle città, malinconici villaggi finto-leziosi sulle coste e nelle valli e perfino sui monti. Ora non si costruisce più, nel nostro paese. Finalmente. Ma non grazie a quell'auspicato rinsavimento invocato per decenni dalla cultura del limite, dalla critica al produttivismo, dalle tante soggettività indignate per i danni alla natura e le ferite alla bellezza. Quanto, più crudamente, per l'esaurirsi di profitti e rendite nel mercato immobiliare. Uno dei più vistosi effetti, quest'ultimo, della crisi economica in corso. Gli stabilimenti chiudono, le case non si vendono, le attività commerciali languono. Le banche non finanziano più iniziative imprenditoriali e progettazioni espansive, né, ancor meno, assicurano mutui alle famiglie. E sono ormai migliaia e migliaia le concessioni edilizie, un tempo spasmodicamente agognate, che si accumulano nei cassetti degli uffici tecnici comunali. È l'esito di un processo che fin dal suo esordio conteneva un inganno, oltreché un errore strutturale. Ritenere cioè che, in forza delle sue esclusive dinamiche, il mercato avrebbe riequilibrato il settore edilizio componendo con efficacia sviluppo immobiliare e fabbisogno alloggiativo. Una scelta socialmente rovinosa, che nel corso dell'ultimo ventennio ha finito per sovrabbondare l'offerta ma non per questo soddisfare la domanda. Una domanda che è sensibilmente cresciuta, perché a quella cronicamente inevasa si è aggiunta nell'ultimo scorcio quella degli esodati, affittuari morosi e quindi sfrattati, piccoli proprietari inadempienti a cui le banche pignorano casa, oltre ai tantissimi giovani che restano in famiglia, respinti dai costi eccessivi delle nuove abitazioni. Il panorama immobiliare italiano in questo momento è dunque gravemente scompensato: un paradosso che né favorisce gli affari né soddisfa le necessità. È aumentata la disponibilità e nel contempo si è ampliato il bisogno. Affidarsi alle ritmiche del mercato, a quella logica d'impresa che avrebbe dovuto far felicemente incontrare offerta patrimoniale e domanda sociale, s'è rivelato tanto illusorio quanto tragicamente fallace. E così, oggi, c'è sempre più gente senza casa e sempre più edilizia invenduta. Non c'è che dire, un vero capolavoro di idiozia economica e ferocia sociale. Reso possibile da norme urbanistiche sempre più permissive e compiacenti, attraverso generose concessioni per valorizzare, ristrutturare, razionalizzare (leggi: sfruttare), facilitazioni nei cambiamenti di destinazione d'uso di suoli e fabbricati, affidamento commerciale di beni demaniali e perfino culturali. E poi con la cartolarizzazione e la privatizzazione del patrimonio abitativo pubblico, insieme alla definitiva rinuncia a realizzare nuova edilizia popolare.

L'intero pacchetto, insomma, delle scelte politiche che hanno accomunato negli ultimi decenni centrosinistra e centrodestra, entrambi penosamente travolti da quei furori liberisti che inevitabilmente hanno generato disagio, esclusione, collera, conflitto.Quei sentimenti che stanno oggi animando una reattività sociale sempre più estesa e combattiva. E che si deposita nelle centinaia di occupazioni che si susseguono nelle nostre città. Effetto inevitabile di una situazione completamente chiusa e bloccata. Con un mercato immobiliare inaccessibile perché totalmente gestito dai privati, società d'impresa o finanziarie che siano, in assenza di alternative di edilizia sociale o comunque calmierata, senza alcuna offerta alloggiativa pubblica perché ormai estinta, cosa volete che facciano tutte quelle persone che si ritrovano in mezzo a una strada, che vivono nelle auto, che s'affollano da amici e parenti, che s'accampano nei parchi o sugli argini dei fiumi, tutto quel popolo nomade per necessità, se non per destino? Dunque ci si sistema laddove ci sono spazi inutilizzati, nei fabbricati abbandonati o nelle palazzine invendute, nelle fabbriche dismesse o nelle scuole svuotate, in tutta quella volumetria residuale che giace malinconica agli angoli delle città. In natura, così come in politica, il vuoto non esiste: prima o poi viene riempito. E torna a vivere. Sono quasi commoventi le facce speranzose di chi di chi per la prima volta si ritrova con un tetto sulla testa, con un bagno dove lavarsi, con un letto solo suo, con una stanza dove appendere una vecchia fotografia. C'è gente, in questi edifici recuperati, in questi nuovi falansteri, che prima d'ora non aveva abitato da nessuna parte. Ma le occupazioni non solo soltanto abitative. Si occupa anche per avviare un'attività produttiva, per inventarsi un lavoro, per riconvertire un impianto e rimetterlo in moto, per sviluppare un progetto collettivo, per riattivare un vecchio teatro, un cinema abbandonato, accendere insomma una speranza culturale. E anche in questo caso, avviene per quell'impellente necessità di dare senso a un luogo, a uno spazio, oltreché a se stessi. Quanti ragazzi, quante ragazze nelle nostre città hanno bisogno di lavorare o anche soltanto di esprimersi, di mettere a disposizione la propria passione, la propria creatività? Chi raccoglie queste aspirazioni, quando, al contrario, si fa di tutto per comprimerle e marginalizzarle? Allora succede che ci si organizza e ci si riappropria di ciò di cui si ha diritto. E sapete come va a finire? Be', c'è da restarci davvero sorpresi. Perché in queste occupazioni di nuovo conio si sviluppano attività "utili", soprattutto alla città e ai cittadini: si avviano progetti, si realizzano servizi, si organizzano mercati, si allestiscono spettacoli, ci si diverte, si sta bene, arriva gente, si chiacchiera, si sta insieme. Si fanno tutte quelle cose che andrebbero fatte ma che nessuno più fa. Quelle cose insomma che rispondono ai bisogni di quartieri e territori: case-famiglia, palestre, centri anti-violenza, biblioteche, spazi espositivi, sportelli d'ascolto, laboratori culturali, saleprova, osterie sociali,attività per l'infanzia. Soddisfano esigenze diffuse e in più che creano quella preziosa qualità immateriale, fatta di socialità, relazioni umane, solidarietà, allegria e piacere. Non ci si crederà, ma producono anche economie e redditi: di sussistenza, certo, ma quel tanto o poco che comunque consente di gestire al meglio l'occupazione. Se è proprio necessario definirlo, questo modello si chiama autogoverno. E l'impressione è che si tratta di un processo destinato a estendersi. È una risposta sociale e culturale alla crisi dell'economia e all'opacità della politica.

ROMA
Gli invisibili della Capitale
di Dario Bevilacqua

Gli scrittori a Communia, il mercatino Terra Terra al Forte Prenestino, il jazz all'ex Snia, le palestre popolari e le ciclofficine. Ecco dove batte il cuore della Roma alternativa

All'inizio di giugno, presso il centro sociale Communia, nel quartiere romano di San Lorenzo, si è tenuto il festival Letteraria , con dibattiti, reading , rappresentazioni teatrali e conferenze che hanno coinvolto, tra gli altri, anche Carlo Lucarelli e il Collettivo Wu Ming. Ogni prima e terza domenica del mese, nel centro sociale Forte Prenestino, a Roma, si tiene il mercato Terra terra che mira a consentire, come fanno ogni settimana i tantissimi Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) diffusi sul territorio, l'accesso a prodotti buoni, puliti e giusti, riducendo i passaggi della catena distributiva degli alimenti. All'Esc Atelier, spazio occupato nel cuore di San Lorenzo, sono attivi sportelli legali per i diritti di cittadinanza e di tutela del lavoro precario. Oltre a concerti, rassegne e iniziative serali, Esc ospita gli incontri della Lum - Libera Università Metropolitana - un esperimento di autoformazione e laboratorio che organizza, inter alia , seminari e ricerche. Al centro sociale Strike, a Portonaccio, dal martedì al venerdì è aperta la cucina sociale "Strkitchen Stirkespa", che presenta ogni giorno un menu diverso di ottima qualità, a prezzi modici. In via delle Isole Curzolane, nel quartiere Tufello, la Palestra popolare Valerio Verbano organizza corsi di Ginnastica Artistica, Boxe, Kick Boxing, Ginnastica posturale, Karate e Fung Fu, a prezzi accessibili. A Casal Bertone, il Centro sociale La Torre mette in piedi una serie di attività di vario tipo, dal bioristoro e forno della Riserva della Valle dell'Aniene La Trattoriola, alla Palestra Popolare Corpi Pazzi, passando per il laboratorio informatico Bugslab e il progetto MediaMemoria, che lavora alla costruzione di laboratori di ricerca storica nelle scuole medie e si attiva per restituire vive le memorie della Resistenza partigiana al nazifascismo. Infine, presso il Centro sociale Ex Snia, dal 14 giugno, per 5 venerdì consecutivi, si tengono i concerti di Jazz al Popolo, con concerti e iniziative musicali, che quest'anno confluiscono nell'alveo di Artindipendenti 2013, un'ecofesta che intende convogliare differenti arti per promuovere la cultura. Sono solo alcune delle numerosissime attività e iniziative messe in piedi dai vari spazi occupati e autogestititi che popolano la capitale.

Cosa vuol dire centro sociale? Quale modello di centralità propongono questi luoghi? E perché sono tenuti ai margini dell'ufficialità? Poiché molti di questi luoghi sono occupati illegalmente - anche se in tal modo sottratti all'abbandono e riqualificati dalle persone che li gestiscono - i centri sociali sono mal visti dalle amministrazioni e molti sono sotto sfratto o a rischio sgombero. C'è un'ufficialità che non digerisce certe realtà magmatiche e autorealizzate, ostacolando la loro vitalità, frutto della risposte alle esigenze reali della popolazione, soprattutto giovanile, o di chi è vissuto e cresciuto nel quartiere. Ciò nondimeno, mentre le istituzioni cittadine e nazionali confermano che l'Italia non è un Paese per giovani, questi luoghi altri, non ufficiali, resistono e crescono. Esattamente perché consentono ai giovani, che non riescono a esprimersi altrove, di trovare e definire nuovi spazi e perché forniscono un contributo fondamentale per chi risiede a Roma, elaborando e diffondendo cultura, organizzando e offrendo corsi, aiutando concretamente cittadini e migranti, riqualificando periferie, sollecitando continuamente alla riflessione chi li frequenta. Il nuovo nuovo sindaco Marino si trova di fronte non pochi problemi. Intanto quello gigantesco della mobilità: la città detiene il record di macchine per abitante (in un rapporto che è quasi di 1 a 1) e dispone di mezzi pubblici inadeguati. Segue l'esplosiva emergenza abitativa, che riguarda migliaia di famiglie.
Ora, mentre le nuove e inutili costruzioni sono destinate a rimanere vuote, si diffondono nel territorio isole di resistenza, che offrono un contributo importante alla diffusione di modelli alternativi a quelli istituzionali, sia in tema di mobilità privata che dei bisogni abitativi. Si pensi alle ciclofficine, diffuse in quasi tutti i centri sociali della Capitale, e alle Ciemmone, che con cadenza regolare vedono gruppi sempre più nutriti di ciclisti invadere pacificamente la città. Significative a tal proposito le occupazioni che nell'ultimo anno hanno interessato edifici vuoti e abbandonati, reazione eterodossa a una gestione affaristica degli alloggi popolari e a una rimozione dell'edilizia pubblica popolare dall'orizzonte politico. Le attività che hanno luogo nei centri sociali occupati o autogestiti, nelle palestre popolari e in altri piccoli spazi di quartiere, nati grazie alla buona volontà di poche persone e contro pregiudizi e ostacoli ufficiali, contribuiscono a caratterizzare i quartieri e a forgiare la cittadinanza, rendendo i romani maggiormente consapevoli delle potenzialità del territorio, dei propri diritti e dei propri doveri. È grazie alla cultura, tra le altre cose, che una città prende vita ed emancipa i suoi abitanti, che acquistano sicurezza e desiderio di viverne i luoghi, uscendo dalle anguste mura domestiche e dalla passività. È con la diffusione delle idee, delle buone pratiche, dei saperi, che il cittadino può sentirsi al centro della polis , di un progetto volto al futuro e al miglioramento. Lo si è visto, con risultati alterni, anche con le Estati Romane, in questi ultimi anni, tuttavia, sempre più lontane dal modello iniziale nato dal genio di Renato Nicolini: sempre più dispendiose e dispersive, sempre più mondane e omologate a una cultura mainstream appiattita sugli sponsor privati e sulle idee dei promotori istituzionali. La forza della cultura e delle buone pratiche si vede ancor di più nelle iniziative dal basso di questa "Roma alternativa": concerti, teatro, corsi, trattorie, palestre, tutto è funzionale ad arricchire lo spirito di chi li frequenta, e tutto nasce dall'impegno di persone volenterose e da piccole associazioni, con un costo basso per chi organizza - se non in termini di tempo ed energia - e un prezzo accessibile per chi fruisce. Infine, questi spazi influiscono sull'identità e sulla crescita culturale di interi quartieri. La presenza di centri sociali in zone periferiche - dal Tufello a Cento Celle, passando per Casal Bertone, Portonaccio, San Lorenzo e il Pigneto - ha contribuito a trasformare aree una volta degradate, difficili, inospitali, in luoghi vivi, attraenti e sicuri. In tal modo non solo si è favorito l'accesso all'offerta culturale di chi vive o frequenta questi posti, ma si è anche fortemente limitata la diffusione di criminalità. È politica con la P maiuscola, è politica di sinistra e intervento sul territorio e dal basso. Che rappresenta un'Italia - perché Roma non è l'unico caso - che non si dà per vinta, che non si piange addosso, che cresce, con entusiasmo, grazie alla vivacità delle idee e alla bontà dei progetti. E che andrebbe incoraggiata, sostenuta, alimentata, seppur senza ingabbiarla nella burocrazia, nei vincoli e nei veleni dei canali ufficiali. Anche solo prendendo parte alle iniziative, godendo delle loro offerte fruitive e culturali. La maggioranza hanno tra i 10 e i 20 abitanti, ma con dei picchi a 200 (il Popolo degli Elfi) e 600 (Damanhur). Si tratta di comunità intenzionali ecosostenibili, gruppi umani che intendono dare ai luoghi in cui vivono più di quanto vi hanno trovato , e che hanno scelto come impegno prioritario di condividere la loro esistenza con altre persone in virtù di una visione comune (di ordine etico, spirituale, ecologico, sociale). A differenza del cohousing , chi va a vivere in un ecovillaggio, oltre a fare una scelta abitativa a basso impatto ambientale, decide di aprire la propria vita professionale, economica ed affettiva al gruppo di persone e al luogo scelti. Le realtà più grandi hanno strutture produttive, falegnamerie, scuole autogestite ispirate ai modelli libertari e percorsi didattici per i bambini delle scuole intorno. Questi luoghi, infatti, sono veri e propri laboratori di scambio di saperi intergenerazionale ed università del fare a cielo aperto. La Comune di Bagnaia Un esempio? Provate ad immaginare 19 adulti di età e professionalità diverse - insegnanti, pensionati, artisti di strada, impiegati, agricoltori, artigiani - che versano in una cassa comune i propri stipendi e che una volta prelevata una paga uguale per tutti, impiegano le restanti risorse per le spese comuni, ovvero per le cure mediche, educazione dei bambini, parco auto, energia, cibo, abitazione ecc. Un'utopia? Eppure è quanto avviene da quasi quarant'anni nella Comune di Bagnaia. La Comune infatti esiste dal lontano 1979 ed insiste su un podere di 80 ettari sui colli senesi, i suoi abitanti, dopo aver acquistato il podere ne hanno ceduto la proprietà all'associazione. Oggi metà di loro lavorano fuori e metà nel podere che produce vino, olio, miele, carne, ogni genere di ortaggi, conserve, pane, formaggi e insaccati. C'è un parco auto con ottimi sconti assicurativi, ne bastano 6 o 7 per tutti. Si produce un secchiello scarso di spazzatura al giorno in 18, poiché si compra all'ingrosso, il latte delle mucche e le verdure dell'orto non hanno imballaggi, le bucce e gli scarti organici vanno al compost. Così rimangono solo i tovagliolini di carta da buttare! Le decisioni vengono prese con la metodologia del consenso e le idee che accomunano i membri sono di stampo pacifista e libertario, laico. Gli ecovillaggi sono tutti molto diversi tra di loro, ma ci riconciliano con un aspetto che anche i progressisti hanno perso per strada, nella misura in cui le loro azioni muovono da concetti astratti in società statalizzate costituite di regole e relazioni anonime: la dimensione comunitaria , a volte tribale, che si reinserisce a pieno nella modernità attraverso un dialogo stimolante. Gli ecovillaggi risvegliano i fondamenti stessi delle democrazie: così come l'Agorà ateniese (piazza del mercato dove confluivano le messi delle campagne dell'Attikì), sono luoghi nei quali il rapporto tra le persone è indissolubilmente legato al rapporto tra la civiltà e la natura circostante.
Un altro modo di vivere Francesca Guidotti, che oggi compie 27 anni ed è la neo-presidente della rete nonché l'autrice del libro Ecovillaggi e cohousing , ci racconta: «Chi cerca un posto per questo tipo di esperienza parte dal bisogno di trovare un punto fisso per la propria vita, spesso lontano dalla città, sia per ritessere un rapporto con la natura, sia perché le aree rurali permettono di soddisfare almeno parte del proprio fabbisogno alimentare. Le chiavi sono il vivere comunitario, il pensare ecologico e il volersi migliorare. Trasformare un territorio dismesso o abbandonato è un modo per oggettivare la scoperta di sé, come fece Carl Gustav Jung verso la fine della sua vita costruendo una casa-simbolo del suo lavoro psichico. Appartenere ad un luogo dà la misura fisica dei cambiamenti che siamo in grado di operare, su scala locale e globale. Stranamente però questo dono di sé al luogo non crea attaccamento ed i moderni ecovillaggisti si spostano molto: grazie anche al supporto della comunità sono più liberi e meno vincolati rispetto ai componenti delle piccole famiglie contadine». E conclude: «La vita di tutti i giorni tuttavia pone problemi molto concreti e per risolvere gli eventuali conflitti bisogna attrezzarsi. Risulta così indispensabile dotarsi di strumenti adeguati sul piano della facilitazione e della progettazione condivisa: comunicazione non violenta, comunicazione empatica, metodologia del consenso, dragon dreaming , permacultura, sono alcune delle tecniche usate nella maggior parte degli ecovillaggi. Infatti dal dopoguerra in poi, abbiamo sviluppato una cultura fortemente individualist a in cui paghiamo per avere ciò che vogliamo e non dobbiamo chiedere più nulla a nessuno. Abbiamo disimparato a chiedere, a contrattare. In questo caso invece del denaro si impara ad usare la mediazione e la relazione per arrivare a realizzare i propri desideri. Non ultima poi la dimensione spirituale, una caratteristica diffusa in molti eco villaggi. quelli a matrice spirituale o dotati di forti ideali sono i più saldi, poiché le pratiche di consapevolezza, i rituali e gli obiettivi condivisi tessono fili invisibili ed aiutano a trovare una guida nelle proprie scelte».

PISA
La «nuova polis» pisana dell'ex Colorificio
di Enzo Scandurra

Arrivato alla stazione di Pisa, viene a prendermi Fausto. Ci riconosciamo subito come succede spesso - e misteriosamente - tra compagni. Mentre ci rechiamo all'ex colorificio liberato, mi parla del convegno, dell'occupazione, delle attività che si svolgono nell'area dismessa. Lo fa senza ostentare fanatismo, con un tono quasi professionale da cui traspare però passione e speranza. Ero già stato a Pisa anni prima sempre invitato da Serena, quando ancora l'occupazione riguardava Rebeldìa. Dal 20 ottobre quel gruppo ha invece liberato, e occupato, una ex fabbrica, un ex colorificio di 14mila metri metri quadrati, non distante dalla Piazza dei Miracoli. Fausto mi parla del convegno: due giorni di discussione con architetti e urbanisti sul tema delle aree dismesse e di come utilizzarle per rivitalizzare la città di Pisa. Nel programma è ben messo in evidenza come si voglia superare il concetto di "valorizzazione" immobiliare e dell'irremovibilità del costruito nell'interesse della collettività: basta consumare suolo e risorse. Fausto ci tiene a farmi visitare l'ex colorificio, mostrarmi i lavori e le iniziative già allestite. Laboratori di aggiustaggio e falegnameria, di ceramiche, una ciclofficina di biciclette, sala del teatro. In una delle grandi sale c'è anche un trapezio per equilibristi; in un'altra sono state realizzate pareti artificiali per l'allenamento alle scalate. Fanno parte della comitiva esplorativa due altri compagni che non conosco e che poi si presentano come architetti che lavorano su altre aree di Pisa, come lo stadio di calcio ormai in disuso. Fausto ci fa vedere altre sale vuote in attesa di decidere che iniziative potrebbero accogliere. Dovunque ci sono persone affaccendate in qualche lavoro: la fabbrica funziona di nuovo, ma per altri scopi e per produrre altre merci, diverse da quelle fordiste: adesso si producono beni comuni, relazioni, convivialità; si coltivano speranze. A me viene in mente quel vecchio film di Truffaut, Fahrenheit 451 , ambientato in un futuro opprimente dove una società despotica e autoritaria ha messo al bando (anzi al rogo) i libri diventati merce clandestina e antisociale. Il corpo dei vigili urbani è continuamente al lavoro per bruciare i libri nascosti da abitanti sovversivi. Così si infoltisce la comunità - il popolo-libro - di coloro che, perseguitati e ricercati dalla polizia, trovano rifugio nelle foreste. Ognuno di loro, per salvaguardare il patrimonio di sapere dei libri, ne impara uno a memoria. Ogni uomo diventa un libro vivente, dal Pinocchio di Collodi al David Copperfield di Dickens. Quando inizia il dibattito, mi sento inadeguato. Mi sembra che tutto quello che avrei da dire sul tema stabilito dal convegno, "Cartografia del desiderio. Per la creazione di una nuova Polis", loro lo stanno già tentando di realizzare. Stanno progettando anticipazioni di un futuro di città. I crateri che emergono dalle macerie della città fordista, si riempiono di iniziative sociali. Serena fa il medico all'ospedale, è una delle principali protagoniste dell'occupazione. Qui, dentro l'ex fabbrica fordista, mi sento finalmente a casa, sento che si sta tentando di realizzare qualcosa di importante. Fuori il mondo impazzito che magari in quest'area vorrebbe realizzare case, centri commerciali, multisale e chissà quali e quante altre diavolerie con la scusa di ripianare i debiti comunali, valorizzare le aree, fare profitti. Mi chiedo se ce la faranno Serena, Fausto e tutti gli altri a tenere, a resistere e anzi a trovare una sponda nell'amministrazione. Non sono isolati, si sta tentando di attivare una rete che colleghi queste esperienze che proliferano sempre di più in tante città italiane. Il Teatro Valle Occupato, il cinema Palazzo a Roma sono ormai riferimenti nazionali che producono speranze e aspettative, contagiano. Faccio fatica, con la mia vecchia educazione al posto fisso, a convincermi che qui si sprigiona un'energia nuova, che si tenta di ripristinare vecchi mestieri e sapienze andate in malora con la mitologia dello sviluppo. Dico a Serena che ho un cagnolino che mi aspetta a casa, non posso restare oltre le otto di sera, c'è l'ultimo treno che ferma a Termini. Lo dico per darmi una ragione per non rimanere, perché questo invece desidererei fare. Fermarmi qui con loro non tanto per continuare a parlare, ma per trovare un mio posto dove materialmente partecipare alla costruzione di questo futuro ancora incerto e pieno di aspettative e speranze. La festa deve ancora iniziare ma Serena e Fausto mi fanno preparare un piatto di pasta e un dolce. Ecco, sto a casa, in una grande famiglia, accolto come un vecchio amico, magari uno zio. Peccato non aver portato il mio cagnolino. Insieme potevamo restare.

MILANO
Il centro sociale degli sfrattati
di Giorgio Salvetti

Uno Spazio di mutuo soccorso per senzacasa nella Milano dell'Expo. Dove il mercato immobiliare è crollato, 5 mila persone sono state sfrattate e altre 19 mila lo saranno

Ale ha 19 anni. Ha passato tutta la sua giovane vita tra occupazioni e sgomberi. È un "abusivo", se così si può chiamare chi è costretto a combattere in prima persona per avere un tetto che le istituzioni non sono in grado di garantire. Si chiama diritto alla casa. E a Milano, come in molte altre città italiane, è sempre più una chimera. Adesso Ale ha finalmente trovato un posto sicuro dove vivere con suo padre e sua madre che hanno 60 anni. Si chiama Sms, Spazio di Mutuo Soccorso. Sono tre palazzine di quattro piani occupate lo scorso 24 aprile dal centro sociale Cantiere e dal comitato degli abitanti del quartiere di San Siro. Dopo due mesi qui ci vivono 20 nuclei familiari, un totale di una sessantina di persone, bambini e anziani compresi. Ma non si tratta solo di un luogo abitativo. A Sms hanno trovato casa anche molte altre iniziative: una università popolare, spazi espositivi, prossimamente anche una palestra popolare. È un altro modo di abitare la città e di renderla viva e attiva. Case da matti Milano negli ultimi decenni ha vissuto sul business del mattone. Dopo i fasti dell'epoca industriale i soldi hanno girato intorno alle speculazioni nelle aree dismesse grazie a enormi crediti delle banche, alla connivenza dei politici e a non poche ingerenze della malavita. Una colata infinita di cemento e di malaffare. Lo skyline della città è cambiato e si è riempito di gru e grattacieli avveniristici destinati a ospitare uffici e abitazioni di lusso, le uniche che ancora si riescono a vendere. Poi è arrivata la crisi, il mercato immobiliare è crollato. Alcune dei suoi protagonisti sono falliti - come Zunino o Ligresti - ed è caduto anche Roberto Formigoni. L'ultimo scossone che ha messo fino all'impero del governatore Celeste è stato l'arresto del suo assessore alla casa, Domenico Zambetti, accusato fra le altre cose di comprare i voti dalla 'ndrangheta. Mentre non si faceva altro che costruire la città si impoveriva e sempre più persone non riuscivano ad avere un tetto sopra la testa.

A Milano ci sono 23 mila famiglie in lista d'attesa per avere una casa popolare, ogni anno ne vengono assegnate solo mille: 500 in virtù delle graduatorie, l'altra metà per rispondere ai casi di emergenza che sono in vertiginoso aumento. Nel 2012 sono stati effettuati 4.924 sfratti quasi tutti per morosità e le richieste di sfratto sono 19 mila. Eppure ci sono ben 5 mila case popolari vuote, riscaldate, ma chiuse da inferriate di ferro: duemila del comune e 200 dell'Aler, l'ente che gestisce l'edilizia popolare e che dipende dalla Regione. Gli appartamenti privati sfitti sono ben 80 mila. Senza contare l'enorme numero di spazi inutilizzati per uffici, ex caserme e ex fabbriche. Il centro sociale Macao dieci giorni fa ha deciso di andarli a segnalare: hanno scritto le cifre dei metri quadrati inutilizzati a caratteri cubitali sulle pareti degli edifici fantasma. Ecco solo qualche esempio: ex macello in via Lombroso, Torre Galfa, ex provveditorato in via Ripamonti 9.000. In totale 916 mila metri quadrati vuoti, per una superficie pari a quasi 85 campi da calcio. Spazio di mutuo soccorso Il cancelletto di Sms si apre con un pulsante elettronico, come in qualsiasi palazzo che si rispetti. «Abbiamo anche il telecomando del cancello grande». Si fa sul serio. C'è anche la madonnina storica che veglia su un ampio cortile alberato. C'è il bar, il palco, la domenica si fanno grigliate e il martedì il cineforum. Al primo piano del primo palazzo c'è l'area di mutuo soccorso, si chiama Crise , ed è un mercatino di scambio solidale per affrontare attivamente la crisi. Una serie di ampi locali appena imbiancati ospita oggetti di ogni tipo, vestiti, libri, attrezzi per la casa, lo spazio per i bambini con i laboratori, info point con i computer e la rete. Al primo piano è già funzionante l'università popolare. Nelle aule con tanto di parquet e lavagne si tengono lezioni di italiano per stranieri, di inglese, spagnolo e arabo, oltre a corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Negli altri due piani vivono le famiglie. Così come nel palazzo accanto. Dove al pian terreno si sta allestendo una grande palestra popolare. I muri dell'intonaco dei palazzi sono ancora scrostati ma sono in parte ricoperti da grandi graffiti. Il terzo edificio non è ancora abitato, per il momento ospita una mostra artistica e fotografica sugli sfratti in Italia (ci sono anche le lettere dei vari prefetti conservate in teche di vetro). La storia di questi palazzi è tipica. Sono di proprietà di una grossa immobiliare che da vent'anni sfratta gli abitanti e lascia andare tutto in malora in attesa di far fruttare gli stabili in ben altro modo. Gli abitanti di San Siro Sotto gli edifici ci sono le "cantine sociali". Il vino non c'entra. Sono destinate a ospitare i mobili e gli oggetti di chi è stato buttato fuori casa e non sa dove tenerli. Ale sa di cosa parla. Tra uno sgombero e l'altro, ha dovuto vivere con i suoi genitori dentro una baracca costruita in un orto di periferia abbandonato. È lì che doveva tenere le sue cose, mobili compresi, in attesa di ritrovare un tetto. Ha fatto tanti lavoretti, in famiglia adesso lavora solo sua madre, fa le pulizie in un ospedale, ma i soldi per un affitto non ci sono. L'ultima volta è stato sgomberato con la forza dalla polizia in assetto antisommossa che ha caricato gli abitanti del quartieri in presidio, compresi i bambini e le donne incinta. A San Siro dal 2009 si è costituto un comitato di abitanti, "abusivi" e non. All'inizio si trovavano in piazza Selinunte per organizzare manifestazioni e picchetti anti-sgombero, Poi sono cresciuti, adesso hanno uno sportello per la casa dove offrono assistenza ma chiedono in cambio partecipazione. A Sms non ci sono solo ex occupanti per necessità, ma anche persone che hanno perso la casa, classe media, colpita dai pignoramenti sempre più frequenti. Il comitato mette tutti insieme e impedisce che si sviluppi una guerra tra poveri dove tutti sono sconfitti. Adesso fanno parte di "Abitare la crisi", la rete nazionale che chiede lo stop degli sfratti e degli sgomberi e che manifesterà il 19 ottobre a Roma con molte altre realtà. Spazio comune A Milano, in piena era Pisapia, gli sgomberi continuano. Sia degli occupanti di case che degli occupanti di spazi sociali. La pasdaran della legalità a tutti i costi in tema di case, l'ex segretaria Sunia Carmela Rozza, prima è stata capogruppo del Pd a Palazzo Marino e poi è stata promossa assessore ai lavori pubblici. Il vice sindaco Lucia De Cesaris pochi giorni fa ha bacchettato i ragazzi del Cantiere che avevano organizzato una sessione di writing per colorire una squallido cavalcavia proprio di fronte ai mega grattacieli appena costruiti in zona Garibaldi-Repubblica. Pisapia qualche mese fa si è fatto fotografare con tutina bianca e pennello mentre copriva i graffiti. Immagini simbolo che stanno compromettendo il rapporto tra la giunta e quel vasto movimento che l'ha portata alla vittoria. Nel giro di poche settimana è stato sgomberato il centro sociale Zam - con tanto di manganellate ai cittadini venuti a protestare davanti a palazzo Marino - e Remake, ovvero l'occupazione del cinema Maestoso, uno spazio immenso inutilizzato in zona corso Lodi. In quell'occasione i manifestanti sono riusciti a entrare a Palazzo Marino e hanno scambiato qualche battuta con la vice-sindaco che per lo meno ha accettato un breve confronto. Nulla di più. Il comune ha appena annunciato di voler destinare uno grande spazio da 1.550 metri quadri vicino alla strada dei vip, corso Como. Sarà destinato a creativi, spazi espositivi, show room, coworking e il bando per l'assegnazione è aperto fino al 30 settembre. Ma per risolvere la fame di spazi della città ci vuole ben altro. Intanto Palazzo Marino sta cercando di capitalizzare - ovvero liquidare - una quarantina di palazzi di sua proprietà per far fronte a un bilancio sempre più magro e spolpato dalle enormi somme destinate a Expo 2015. E Pisapia dovrà trovare il modo di convincere il nuovo governatore lombardo, Roberto Maroni a rifinanziare l'Aler che, dopo vent'anni di Formigoni, ha un buco di 80 milioni di euro. A Ferragosto i ragazzi del Cantiere e gli abitanti di Sms offrono un festa a base di tango proprio sotto le finestre di palazzo Marino sperando che il Comune li ascolti. Si tratta di una delle tante iniziative della kermesse itinerante "Occupy Estate" che coinvolge tutti gli spazi sociali e i movimenti milanesi e che si concluderà con un grande concerto ai primi di settembre.

Due iniziative di co-housing, promosse da gruppi di cittadine e sostenute dalle amministrazioni comunali, mostrano quanti spazi si possono conquistare, investendo con intelligenza nelle politiche abitative. Una riflessione tra Vienna e Ferrara (m.b.).


Testo pubblicato sulla rivista on-line inGenere il 06/02/2013. In calce, è disponibile un articolo più esteso, sullo stesso argomento, presentato dalla conferenza Espanet, nel settembre 2012. Le foto si riferiscono all'incontro organizzato il 6 giugno scorso da Chiara Durante presso la residenza ro*sa a Vienna, nell'ambito dell'iniziativa della scuola di eddyburg "Una città un piano: Vienna" (m.b.)

A fronte dell’incalzante arretramento dei sistemi di welfare, con l'attuale crisi si assiste a un rifiorire dei temi dell’economia solidale; tra questi c'è il forte ritorno di forme di abitare comunitario che rimanda ad una tradizione nata negli anni Settanta, quella del cohousing. Oggi questo modello abitativo offre l'opportunità di ripensare la condizione femminile e il lavoro di cura, attraverso lo sviluppo di forme di collaborazione che si spingono ben oltre le tradizionali “relazioni di buon vicinato” (1).
La formula che si è affermata nel corso degli anni prevede l’associazione di alloggi privati e spazi comuni, spesso caratterizzati dalla progettazione partecipata e da un disegno degli spazi volto a favorire lo sviluppo di “comunità”, nonché da forme di gestione (e a volte anche di proprietà) cooperativa di spazi e servizi, di cui si fanno carico in prima persona gli stessi abitanti.
Com’è facile immaginare, il cohousing non rimanda ad un modello univoco, ma costituisce un concetto con una forte carica suggestiva, che, in base ai differenti contesti e momenti storici, è stato reinterpretato e declinato a livello locale in molti modi. La grande fascinazione oggi esercitata dal cohousing si basa su una notevole semplificazione, ma la sua storia non è stata affatto lineare: in base alle caratteristiche dei gruppi che se ne sono fatti promotori è più o meno evidente come le iniziative della società civile abbiano fatto i conti con varie forme di conflitto sociale; infatti nonostante si tenda a pensare il cohousing come un fenomeno radicato nella sensibilità delle classi medie, molte delle esperienze originarie (soprattutto in Olanda) nascono dalla legalizzazione a posteriori di case occupate.
Oggi è interessante identificare il modo con cui le diverse iniziative si inseriscono nelle problematiche sociali e abitative in atto, di quali bisogni e istanze si facciano portavoce, e soprattutto come queste iniziative possano contribuire alla costruzione delle politiche pubbliche: due recenti esperienze europee ci permetteranno una piccola incursione in questa realtà.

Nel 2003 a Vienna un gruppo di donne (supportate dalla presenza di un’architetta-attivista) avviano un percorso dal basso: il progetto di cohousing ro*sa. Il progetto verrà poi sostenuto dalla municipalità, molto attiva nella sperimentazione sul fronte dell’housing sociale e in particolare delle politiche di genere. Un ruolo centrale è svolto da una struttura specifica della realtà viennese, il Frauenbureau (Ufficio delle donne) con funzioni di coordinamento dei diversi livelli e temi della pianificazione urbana; inoltre il progetto si colloca nel più vasto contesto di incentivazione/educazione alla qualità urbana e dell’abitare, attivato in un rapporto dialettico tra pubblico e privato, a partire dai primi anni Novanta. In particolare il gruppo di progetti Frauen Werk Stadt, di cui il cohousing ro*sa diventa l’espressione più recente, ha visto il coinvolgimento di imprese e professionisti in una progettazione più attenta alle differenze e una maggiore attenzione alla richiesta di servizi, che, pur riguardando l’edilizia pubblica, ha indotto un adeguamento anche nell’edilizia privata.

Con ro*sa, si riconosce un ruolo da protagonisti ai cittadini, anzi alle cittadine: un virtuoso percorso di contrattazione tra queste e la pubblica amministrazione ha fatto sì che le attiviste potessero realizzare il progetto con un supporto pubblico soprattutto rivolto all’acquisizione del terreno e all’assistenza alla progettazione, ma al tempo stesso ha permesso all’amministrazione di avere in cambio una quota di alloggi di edilizia pubblica. Si sono cioè messe in atto delle politiche di “social mix”, volte a promuovere una composizione sociale disomogenea degli abitanti (evitando così la realizzazione di quartieri esclusivi o, al contrario, di ghetti di povertà). Nel caso di ro*sa questo ha portato all’inclusione di un gruppo di donne immigrate nel progetto, le quali, attraverso il cohousing, hanno potuto ampliare la propria rete di conoscenze amicali aprendo una finestra sul mondo culturale e sociale della città, con possibili buone ripercussioni anche a livello lavorativo.

In realtà il rapporto tra cittadini “attivi” e amministrazione locale non appare del tutto privo di ambiguità e attriti: infatti alcune clausole a cui è vincolato il supporto tramite sussidi pubblici, sono state inizialmente contestate dalle attiviste. Tra queste l’eliminazione di forme di discriminazione positiva, quale la scelta di concedere la titolarità dell’alloggio alle sole donne, ma anche la stessa cessione del 30% degli alloggi alla municipalità, vista come un rischio per le dinamiche di coesione e collaborazione interna.

Il caso di Ferrara segue lo sviluppo di un’azione dal basso declinata al femminile un po’ “per caso”, in relazione alla specifica sensibilità “di genere” al tema dell’abitare comunitario. Quest’esperienza, condotta entro il quadro dell’iniziativa privata, ha portato alla maturazione di capacità di innovazione e “imprenditorialità” al femminile che si avvalgono però, almeno nell’avvio, del sostegno di politiche istituzionali sensibili, e in particolare di quelle legate ad Agenda21 locale per cui la città di Ferrara è nota. A partire da un gruppo di acquisto solidale, nel 2008 nasce l’associazione di cohousing Solidaria, che continuerà ad essere supportata con misure indirette dalla pubblica amministrazione (apertura di canali informativi, formativi e divulgativi).
L’associazione è composta prevalentemente da impiegati pubblici, ben dotati in termini di cultura, tempo e know-how: si pensi solo alla capacità di individuare dei referenti pubblici a cui rivolgersi, alla conoscenza di tempi e modi dell’azione delle istituzioni, all’atteggiamento implicito di fiducia in queste ultime, pur nella consapevolezza dei loro limiti, che caratterizza tutto il percorso. Nonostante l’interesse dimostrato per l’iniziativa, quello che qui non si verifica è tuttavia un riconoscimento diretto del valore collettivo dei processi di empowerment attivati nella gestione del processo costruttivo, che è anche costruzione di senso in comune: questi aspetti, valutati molto positivamente dalle donne coinvolte, sono relegati dalle istituzioni in una dimensione privata. Il risultato è che i soggetti coinvolti non possono che essere limitati a coloro che sono già in partenza caratterizzati da quella dotazione iniziale, sia economica che culturale, che li ha resi in grado di auto-organizzarsi e di farsi coinvolgere dalle stesse politiche per la partecipazione attivate a livello locale. A ciò si aggiunga che la mancanza di un impegno più diretto del pubblico ha indotto l’impossibilità di supportare il gruppo nei momenti di
difficoltà, sempre più pesanti rispetto all’avanzamento del progetto proprio perché la crisi rende sempre più fragili e isolati gli stessi promotori iniziali.

L’occasione perduta, anche nel confronto con l’esempio viennese, è quella di sfruttare il processo avviato con il Cohousing per supportare più a fondo l’attivazione dei cittadini, coinvolgendo al tempo stesso nei processi di empowerment anche i soggetti più fragili: la possibilità di prevedere quote di alloggi sociali nei cohousing autopromossi, rappresenta sicuramente un’opportunità (da indagare anche in Italia) per costruire dei percorsi di inserimento in un contesto di apprendimento e responsabilizzazione, oltre che un implicito correttivo contro i rischi di una eccessiva omogeneità sociale e culturale.
Il cohousing esprime oggi la ricerca di un welfare spaziale che è stato un cavallo di battaglia storico delle lotte femministe, col risultato di ottenere un miglioramento della qualità urbana con ricadute positive molto più generali. Il tema, riproposto nei termini di un più ampio diritto alla città, è ancora di forte attualità, ma (come argomentato efficacemente in varie occasioni da Cristina Bianchetti (2)) corre il rischio di essere declinato in chiave di “diritti privatistici”, rivendicati da differenti gruppi sociali con scarsi contatti reciproci.
Imprescindibile è allora la capacità delle istituzioni di svolgere un ruolo di regia, che passa attraverso il riconoscimento dell’esistenza di interessi molteplici, da incanalare però nella costruzione di convergenze (per quanto instabili o mutevoli) in una dimensione di interesse collettivo, oltre che comunitario.
Le opportunità offerte dal cohousing in questo senso riguardano soprattutto le componenti di processo che lo caratterizzano: il controllo diretto dell’intero processo costruttivo da parte degli abitanti, se opportunamente accompagnato e supportato dal pubblico, offre l’opportunità di migliorare l’accessibilità economica dell’alloggio, sottraendolo a dinamiche speculative. Questa è la logica sviluppata storicamente dalle cooperative di abitazione, oggi riletta nel cohousing attraverso l’attenzione alle differenze espressa a partire dalle esigenze e caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti.
Se nel contesto della crisi, le pratiche di vita comunitaria possono rappresentare un nuovo luogo di produzione di servizi, occorre partire proprio dai punti irrisolti, che vanno esplicitati come stimoli per definire un rapporto tra pubblico e privato “attivo” in cui il ruolo della governance istituzionale è centrale nel rendere più aperti e inclusivi i percorsi attivati dal basso.

Note
(1) Il tema è stato trattato con maggiore dettaglio nel contributo presentato in occasione delle V conferenza Espanet “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in Europa” (Roma, 20 — 22 Settembre 2012).
(2) Bianchetti C., 2012, L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica, Atti della XV Conferenza Nazionale SIU “L’urbanistica che cambia. Rischi e valori”, in Planum. The Journal of Urbanism n.25, vol.2/2012

Il manifesto, 19 gennaio 2013
Interi quartieri sorti nel nulla e disabitati per l'esplosione della bolla immobiliare. Una città nella città, fatta di 300 mila case vuote, mentre ogni anno 2500 famiglie vengono sfrattate
Madrid e Roma. Le modalità di osservazione sono le stesse. Diversi i risultati. A Madrid prendi la metropolitana (direzione nord) e vedi - dopo molto, il tragitto è lungo - i vagoni svuotarsi completamente.
Scendi dove il treno finisce e, da una deserta stazione, arrivi in una selva di centri commerciali dove, con tutta evidenza, si va esclusivamente in automobile. Una sorta di mura che ti lasci alle spalle per spingere lo sguardo al contrario, verso il luogo di partenza al centro della città.
Ti accorgi della marea di case. La qualità tipologica è buona e ti stupisci, anche, della loro varietà, del mix tra tipi edilizi. T'incammini convinto di rifare a piedi il percorso che, poco prima, avevi fatto in sotterranea e, solo allora, ti accorgi che le case sono vuote.
Gli ingressi sbarrati, lo zoccolo dei negozi murato. Case e strade fantasma dove, ogni tanto, come patetiche fessure di piccoli occhi, niente di più di qualche foro all'interno delle porzioni murate, è segnalata la presenza di un ufficio immobiliare con incollate sulle vetrine offerte, riproduzioni di interni, piante. Nessuno dentro, neppure un impiegato.
A Roma, accade di notare più o meno lo stesso fenomeno. Solo che prendere la metropolitana non basta. Arrivi, mettiamo a sud, partendo dalla stazione Termini, ma i vagoni non mollano neppure un passeggero. Emergi dal buco dell'Anagnina e qui le case ci sono, c'è il traffico e una folla costante diretta oltre il raccordo anulare.
Volendo seguirla per un po' la consistenza tipologica non cambia. Analoga in qualsiasi direzione: la ressa dei centri commerciali e case e ancora case. Anche se il tuo occhio non è pronto a cogliere le differenze, ti accorgi presto che molte di queste costruzioni sono tra loro uguali.
Stesso disegno, stessi materiali, strade larghe e ancora: qualche capannone che contende a qualche rudere edilizio l'occupazione di lotti miracolosamente residui.
È dal progressivo stato di abbandono, da strade solo accennate, da malinconici vialetti sterrati che conducono verso il nulla, da cancelli e passi carrabili assediati da piccole dighe di terra e arbusti che li rendono così inespugnabili, da avanzi di cantiere, da buche e da mucchi di terra (tanti mucchi), da enormi cartelloni di Ufficio vendita, che t'accorgi che sei all'interno del regno dell'invenduto.
Pochi i segni di vita, pressoché inesistente il numero delle finestre aperte, quello delle caldaie in funzione, qualche rarissima parabola. Anche qui, come a Madrid, le case sono tante , le case anche qui sono vuote e, ancora anche qui, le molte gru - ormai parte integrante del paesaggio circostante - segnalano che si continua a costruire.

Roma e dintorni
Per restare, per il momento, a Roma, partiamo dal paesaggio di riferimento. Per capire dove sono localizzate queste case, facciamo un piccolo passo indietro andando a vedere la consistenza del costruito e il numero degli abitanti prendendo in esame gli ultimi dieci anni.
Dal 2003 al 2007 (anno in cui si registra la prima contrazione del fenomeno costruttivo) sono stati costruiti 10 mila alloggi privati all'anno per un totale di 52 mila unità. Dal 2003 al 2010, tuttavia, 163 mila persone hanno lasciato Roma per trasferirsi in provincia, alla ricerca di case dai prezzi più bassi.
Questo ha determinato una sorta di mutazione territoriale/geografica. Abitiamo un territorio urbanizzato a bassa densità che, espandendosi da Roma verso tutta la provincia, si rappresenta attraverso frammenti di città, aree isolate, isole più o meno grandi.
Luoghi dove non ci sono servizi. Senza infrastrutture e urbanizzazioni non comunicano tra loro, né sono connessi con nulla.
È all'interno di questo paesaggio, che senza alcun elemento di identità si autodefinisce per parto genesi dalle stesse case, che vengono costruite ed è localizzata la maggior parte del patrimonio abitativo interrotto e inaccessibile. È la nuova nebulosa geografica.
Quale corona, irta dalle spine dello sprawl (la diffusione edilizia), cinge lo spazio urbano da cui ha espulso (continua ad espellere) chi non può più sfruttare fino in fondo al'interno di quella parte del territorio che vuole tutto produttivo. Questo ha prodotto, e continua a produrre, un doppio fenomeno: il perdurare di un patrimonio edilizio bloccato, rappresentato da case vuote e da case invendute.

Case vuote, case invendute
Le prime, secondo stime pressoché unanimi, sono, su un totale di un milione e 700 mila appartamenti censiti, di poco al disotto delle 250 mila unità. Un numero che le porta a poter essere considerate superiori per numero di abitanti possibili da insediare (500 mila dato che 2,3 è la media che viene considerata come numero degli occupanti possibili per casa) a quello di città come Firenze o Bologna.
Le case invendute sono intorno ai 51 mila alloggi. Di questi il 60% è esistente solo "su carta", trattandosi di interventi che hanno ottenuto tutte le concessioni per dare inizio ai lavori, ma si aspettano gli acquirenti prima di aprire i cantieri. Ma anche se non realizzati, in forza dell'acquisizione del permesso a costruire, producono reddito avendo rappresentato, almeno fino a qualche tempo fa, un valore negoziabile per l'acquisizione di mutui spendibili sul mercato finanziario.
Oggi per la crisi economica le banche non erogano più mutui alle imprese né ai possibili acquirenti, ma sono state proprio le banche a determinare questo stato di fatto.

L'anteprima spagnola
Per andare a vedere cosa è successo, torniamo, ora per qualche riflessione, a Madrid e alle sue case prive di abitanti. Il fenomeno che oggi vediamo intorno a noi è avvenuto, nella capitale madrilena in anteprima e con qualche anticipo, lungo la nuova direttrice urbana che prolunga nel territorio la "gran via" cittadina.
La Spagna nel corso degli anni '80 si è caratterizzata per il varo e la sperimentazione di politiche di riforma urbana, caratterizzate sia da una preponderante presenza dell'operatore pubblico che dalla centralità della governance pubblica. Una doppia condizione che attribuiva al programma espansivo delle città un grande valore sociale.
A partire dalla fine degli anni '90 si assiste ad un progressivo passaggio all'operatore privato, che immette massicci investimenti nelle grandi infrastrutture e nel real estate (investimento immobiliare). Dalla città "sociale" si passa alla città "offerta" sui mercati internazionali.
L'esempio di Barcellona, con la costruzione del Forum 2004 lungo la spiaggia, è indicativo della trasformazione della politica urbana. Si sono costruite attrezzature ricreative, porti turistici, centri commerciali per turismo internazionale, senza alcun legame con il tessuto urbano.
Si parlava di miracolo spagnolo quando, nel 1998, Aznar innescava il boom dell'edilizia con la "legge del suolo" e con forti incentivi per l'acquisto della casa. Ma era già dal 1985 che lo sviluppo edilizio e la lievitazione dei prezzi avevano gonfiato il mercato. Le banche erogavano mutui su mutui a bassi tassi d'interesse con estrema facilità e il settore immobiliare era motore del boom economico del paese, artefice di una crescita scomposta e drogata. Nel 2005 e nel 2006 si era arrivati alla cifra record di 900 mila compravendite immobiliari all'anno.
La fase del mercato che vedeva i prezzi aumentare vertiginosamente in un breve arco di tempo a causa di una forte domanda (tra il 1996 e il 2006 il valore degli immobili si era rivalutato del 160 per cento) è finita nel 2008, quando si è determinato un calo del valore degli immobili pari al 34 per cento.
Oggi in Spagna ci sono 1 milione di case invendute. Le banche spagnole hanno nei loro portafogli circa 150 mila case che non riescono a vendere.
Ne sono tornate in possesso perché molte famiglie non sono più state in grado di pagare i mutui che avevano contratto e molte imprese di costruzione sono fallite. L'aumento della disoccupazione dal 2008 a oggi e la trasformazione della maggior parte dei contratti da tempo indeterminato a tempo determinato ha costretto molte famiglie a rinunciare all'acquisto della casa e a non poter più pagare gli affitti e i mutui contratti, così che oggi in Spagna gli sfratti sono divenuti una piaga sociale.
A novembre dell'anno passato una donna di 53 anni ha visto dalla finestra arrivare i poliziotti insieme all'ufficiale giudiziario. Sapeva che erano lì per lei e si è gettata di sotto. Non poteva più pagare il mutuo residuo di 214 mila euro per la sua casa di due stanze, bagno e cucina.
Ogni giorno nel 2012 l'ufficiale giudiziario si è presentato con la notifica di sfratto da 317 cittadini. Dall'inizio della crisi sono 350 mila le persone buttate in mezzo alla strada. E tante sono le case tornate sul mercato.
Così il mattone si è trasformato da motore di un'economia drogata, a responsabile di una crisi che non vede via d'uscita. Da un eccesso di domanda nel comprare case si è passati ad un eccesso di vendite, dettato da una offerta smisurata e conseguente ribasso del loro valore.
A Madrid ci sono, come detto, interi palazzi nuovi con appartamenti vuoti, senza compratori, presenze inquietanti e testimonianza di quella ricchezza immobiliare produttrice dell'attuale miseria urbana, del saccheggio delle città operato a colpi di valorizzazioni immobiliari da parcheggiare e far viaggiare nel circuito della finanza mondiale, del fenomeno mondiale delle "case di carta".
Il bambino che fa scorrere il suo triciclo in una strada deserta lo fa su una lunga striscia di un largo marciapiede disegnato al di là della strada. Pur nell'assenza di persone, si nota una certa, seppur non soddisfacente, opera di manutenzione; una sorta di cura, un tentativo impossibile per fare di quelle case un pezzo di città.
Impossibile perché quelle finestre sbarrate, quei portoni inaccessibili dimostrano che quella ricchezza immobiliare era stata pensata per produrre e continuare a produrre plusvalore attraverso uno schema uguale in tutto il mondo: vendere sui mercati finanziari tutti i tipi di crediti (i mutui richiesti da chi costruisce e quelli di chi acquista), accrescere il numero e il valore delle transazioni, rendere liquidi i beni immobili.
Un processo totalmente indifferente alla localizzazione, pensato per fare profitto rivendendo pacchetti finanziari da alimentare attraverso l'imposizione di un sempre maggior numero di mutui alle famiglie.
Le case stanno lì, appoggiate le une alle altre , ma è come se fossero state fate sparire dalla città essendo destinate a non essere abitate.

In Italia si replica
Lo stesso è avvenuto a qualche anno di distanza in Italia, dove fra il 1997 e il 2007 sono stati realizzati 1,1 miliardi di metri cubi di nuova edilizia residenziale. La crisi finanziaria globale, bloccando il flusso del credito, ha trasformato il rallentamento iniziato nel 2006 dell'attività edilizia, dovuto a sovra-produzione, nel crollo a picco che si riscontra oggi. Gli ultimi cinque anni hanno visto aumentare lo stock di invenduto, senza che i prezzi delle abitazioni subissero un calo evidente, restando fra i più alti d'Europa.
Oggi, secondo i dati Nomisma, in Italia esistono 694 mila alloggi invenduti, a fronte di una domanda di edilizia sociale pari a 583 mila alloggi (dati Federcasa). Uno studio del Politecnico di Milano afferma che tra il 2002 e il 2008 il 75% delle costruzioni ha riguardato l'edilizia libera, mentre la domanda di edilizia sociale si attesta sul 42,5%.
Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63 mila sfratti di cui ben 56 mila per morosità, di questi 28 mila sono stati eseguiti dalle forze dell'ordine. In testa Milano con il 30% del totale.
Nei prossimi tre anni sono previsti in Italia altri 220 mila sfratti (dati Ministero dell'Interno). Spesso si stratta di sfratti per "morosità incolpevole", cioè non si paga l'affitto perché non si è materialmente nelle condizioni di farlo.
Con la legge di stabilità si è decisa solo una proroga di sei mesi degli sfratti per finita locazione in scadenza al 31 dicembre 2012, per le sole fasce deboli.

Che succede nella capitale?
A Roma ogni anno 2.500 famiglie perdono la casa, 10 famiglie al giorno, che cercano rifugio da amici e parenti o finiscono per strada od occupano un alloggio dei tanti vuoti che ci sono. Sono circa 10 mila quelli che vivono nelle occupazioni. Una città fatta di case su case, vuote.
Dove sono le 51 mila unità che abbiamo visto all'inizio rappresentare lo stock dell'invenduto romano da sommare alle 250 mila unità di quelle tenute vuote disseminate nel corpo dell'intera città? Andiamo a vedere.

Dove si trovano le case invendute?
Non tutte queste case sono state realizzate, lo saranno quando ci sarà l'acquirente. Anche a Roma si registra il crollo del rilascio dei permessi di costruire, che nei grandi comuni, rispetto solo quattro anni fa, è pari all'85%, essendo passato dai 1821 rilasciati nel 2008 ai 263 nel 2011 ! A Roma, secondo dati dell'assessorato alle politiche urbanistiche, oltre 400 permessi di costruzione non sono stati ritirati mettendo in crisi , a Roma come altrove dove si registra analoga tendenza, la strategia di molte amministrazioni, che hanno ceduto suolo su suolo alla ricerca dei contributi finanziari relativi alle urbanizzazioni primarie, secondarie e al costo della monetizzazione degli standard.
Oggi la geografia cittadina di cantieri finiti e da aprire vede le zone nord (Talenti, Cassia, Salaria) nelle prime posizioni. A nord est nel quartiere di Bufalotta si stima che il 60% di quanto realizzato sia invenduto.
Una gran parte di patrimonio d'invenduto è presente nella zona est (Tiburtina, Ponte di Nona, Tor Sapienza, Collatina, Lunghezza). Si stima che questa "fetta" di case sia pari alle 20 mila unità. Quantità più contenute si trovano ad ovest (Casetta Mattei, Boccea, Aurelia); mentre numeri consistenti si ritrovano nella zona sud (Laurentina, Torrino, Grotta Perfetta,Ostiense fino a Parco Leonardo). Acilia, Laurentina, Ostia, Romanina, Massimina sono le località che aspettano di vendere prima di partire con la colata di cemento.

Quante e come sono?
Stime prudenti valutano che il tasso di "assorbimento" (alloggi acquisiti rispetto quanti costruiti) oggi non superi il 30% . Nel 2007 questa percentuale era pari all'80%. La tipologia richiesta è cambiata a Roma come nel resto del paese L'appartamento per la famiglia si disintegra, sezionandosi per alloggi destinati a fasce deboli: studenti, immigrati, anziani. La risposta è del tutto insoddisfacente sia per tipologia degli alloggi ritagliati all'interno di modelli esistenti né pensati come tipologia specialistica e sia perché localizzati nelle periferie urbane prive di servizi.

Cosa trovano intorno a loro?
Paradossalmente le zone dove si registra la maggiore consistenza di invenduto sono le medesime su cui si abbatterà il diluvio cementizio contenuto in molte delle 64 delibere relativa alla manovra urbanistica. Nello stesso luogo, contendendosi palmo a palmo metri di terreno uno dopo l'altro, case che ci sono e resteranno vuote e case che si vogliono realizzare, consumeranno ulteriore suolo invece di pensare a recuperare il tanto spreco edilizio.
Questo a fronte delle stime dell'Agenzia del Territorio che, analizzando i dati dell'ultimo trimestre disponibili del 2012, stima il decremento delle transazioni immobiliari precipitare dal -17,8% del primo trimestre all'attuale -25,8%.
Nel periodo compreso tra gli anni 1966 e il 2006 le compravendite di case erano raddoppiate arrivando alla cifra monstre di 900 mila del 20026 con un incremento per quel che riguarda gli scambi pari al 3,1. Lo scorso anno con l'1,8% dello stock scambiato si è ritornati ai valori di 26 anni fa.

Saranno mai abitate?
A lungo si è parlato dell'Italia come di un paese di "proprietari di casa". È ancora così? In effetti dagli anni '50, quando era proprietario della casa in cui abitava il 40% degli italiani, si è passati a circa l'80% attuale, mentre la media europea è intorno al 64%. In realtà sono stati soprattutto i figli della classe media impiegatizia ad accendere mutui per comprare la casa, mentre la maggior parte dei figli della borghesia ne è entrata in possesso per via ereditaria.
La contrazione del credito da parte degli istituti finanziari e la maggiore disoccupazione e precarietà del lavoro hanno di fatto impedito la possibilità dell'acquisto, o il pagamento di mutui già contratti.
Ed è così che si rivolgono al mercato dell'affitto giovani italiani e immigrati, mercato che non è stato mai incentivato e che non è in grado di rispondere alla attuale domanda in ascesa.
Gli enti previdenziali hanno svolto un ruolo importante nel mercato dell'affitto, ma la dismissione del loro ingente patrimonio, tutt'ora in atto, ha trasformato una parte degli inquilini in proprietari e ha messo sulla strada gli altri.
Dal 2001 al 2012 a Roma sono state vendute agli inquilini 90 mila case a prezzi molto bassi. Poi la vendita degli alloggi è stata delegata a Fondi Immobiliari che, protagonisti dei processi di cartolarizzazione, hanno preteso, per rientrare dei mutui acquisiti per permettere i sopradescritti processi finanziari, sia per l'acquisto che per l'affitto i prezzi di mercato, troppo alti per poter essere sopportati da famiglie colpite dalla crisi.
Un fenomeno che sembrava finito, quello della coabitazione di più nuclei familiari, conosce invece una ripresa e un forte incremento.
Sono sempre di più le persone che condividono un appartamento per dividere le spese di affitto, il cui costo negli ultimi dieci anni ha visto un aumento di circa il 150% e rimane la voce che incide in maniera sostanziale nelle spese delle famiglie. E sono, come detto, quasi 10 mila le persone che vivono in case occupate (lasciate vuote o invendute). Tante quanti sono gli abitanti di San Lorenzo, fanno parte di un quartiere che non c'è in case che ci sono. Si è costruito tanto. Si è consumato tanto suolo. Si continuano a costruire case destinate a non essere abitate.
Così il 6 dicembre scorso un percorso nomade varcando molte soglie di queste case ha detto che quelle case debbono essere abitate perché ogni casa lasciata vuota, non abitata, cancella insieme alle tracce di tutte queste esistenze anche l'abitare di tutti noi.

Tecnicamente si chiama "morosità incolpevole" ed è alla base della stragrande maggioranza degli sfratti. Il rischio che diventi una vera bomba sociale. Anche perché sta crollando l'acquisto di immobili e crescendo sempre più la richiesta di affitti.

Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63mila sfratti di cui ben 56mila per morosità. Un dato impressionante se si pensa che oltre 28 mila di questi sono stati eseguiti dalle forze dell'ordine. Una "bomba sociale", come l'hanno definita i sindacati, che rischia di esplodere in un Paese già percorso da molte tensioni. E quelle relative alla casa possono diventare molto pericolose.

Il maggior numero di richieste di sfratto si verifica in Lombardia (12.922), il 20,2% del dato nazionale (dati del Ministero degli Interni). Seguono Lazio (7.625), Emilia Romagna (6.532) e Piemonte (6.208). Lazio a parte, ai primi posti tutte Regioni del Nord, quindi. E il dato preoccupa sempre di più perché dal 2010 al 2011 l'intervento delle forze dell'ordine è cresciuto dell'11%. Se pensiamo che il 90% degli sfratti avvengono per "morosità incolpevole", determinati cioè dal reddito insufficiente, significa che a fronteggiarsi nelle strade saranno sempre di più persone disperate contro polizia e carabinieri che eseguono ordini dati da istituzioni che non sanno come affrontare il problema. "È in questo momento che il Governo deve urgentemente intervenire, - dice Guido Piran, Segretario Generale del Sicet, Sindacato Inquilini Casa e Territorio -. E deve farlo prima della fine della legislatura, perché questa è una situazione che con la crisi economica e occupazionale si fa sempre più grave".

Le proposte da parte dei sindacati di settore, uniti nella stessa richiesta, sono precise: "Serve una sospensione degli sfratti dopo il 31 dicembre -, continua Piran -. Poi è necessario ampliare l'offerta di edilizia residenziale pubblica. La strada è l'immediata disponibilità per gli IACP (edilizia popolare) di 70 milioni di euro giacenti al Ministero delle Infrastrutture". Questi fondi sono messi a disposizione per emergenze abitative, in particolare volti al recupero di alloggi inagibili per i quali bastano interventi dal costo inferiore ai 30mila euro ciascuno. "Utilizzando questi fondi si potrebbero recuperare 3000 alloggi in tutta Italia da assegnare agli sfrattati. A questi immobili si aggiungerebbe la possibilità di poter usufruire delle detrazioni per le ristrutturazioni e l'efficientamento energetico. Questo per il pubblico. Sul versante degli affitti privati è necessario introdurre una fiscalità di vantaggio per i contratti concordati agendo sulla cedolare, abbassando l'aliquota dal 19 al 10% e sull'Imu con percentuali ridotte sulle locazioni". Anche l'evasione è particolarmente florida negli affitti: "I canoni devono essere pagati con mezzi tracciabili e l'inquilino deve avere delle detrazioni su una quota del canone come per i mutui".

Milano ha una delle situazioni peggiori per quanto riguarda gli sfratti e nel giro di pochi anni i dati sono peggiorati di molto: 10.372 sfratti emanati su 16.783 sentenze definitive. Il 30% delle esecuzioni presentate all'Ufficiale Giudiziario in tutta Italia arrivano dalla Lombardia e sono 4.731 quelle eseguite con la presenza dell'Ufficiale Giudiziario stesso. Ogni giorno, sono 25-30 le richieste di intervento delle forze dell'ordine, 4-5 le esecuzioni. "Nel 1983, nel capoluogo lombardo la percentuale dei morosi era il 10%", spiega Stefano Chiappelli, segretario del Sunia, Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari. "Una delle motivazioni di questo aumento di morosità è sicuramente il caro affitti che ha segnato l'emigrazione di numerose famiglie verso città limitrofe, Novara su tutte. A Milano persino nelle periferie non si paga meno di mille euro al mese. Le fasce più deboli della popolazione, soprattutto giovani e studenti, trovano una sistemazione nella periferia della periferia".

Poi ci sono i tagli al Fondo sostegno affitti lombardo (che quest'anno cambia nome in Fondo sostegno disagio acuto). Per il 2012, la quota disponibile è di 12 milioni di euro. Nel 2011 il fondo contava su 40,8 milioni e addirittura per il 2013 non è previsto nessun contributo. Solo due domande di sostegno economico su dieci verranno soddisfatte. Tagli da parte dello Stato, ma anche dalla Regione e dai singoli Comuni. Il risultato: delle 65 mila domande di sostegno che mediamente si raccolgono ogni anno, ne saranno accolte solo 14 mila.

"Il problema non sono le case che mancano ma i prezzi inaccessibili per la cittadinanza", spiega Leo Spinelli del Sicet. Infatti sono 70mila gli alloggi sfitti a Milano e 4.500 gli occupanti abusivi sparsi in tutta la città. "È inutile fantasticare su ceti medi che non esistono", continua Spinelli. "Se si guardano i redditi delle 23mila famiglie che hanno fatto domanda per una casa popolare, ci si rende conto che per loro è impossibile pagare anche un affitto di 500 euro al mese. Sono circa 16mila, infatti, le persone con un reddito Isee inferiore ai 7.500 euro. Questi non pagheranno mai, hanno bisogno di tutele". Otto famiglie su dieci fanno fatica ad arrivare a fine mese ma il costo della vita aumenta e con questo anche l'affitto. Secondo l'Istat, dal 2002 ad oggi i salari medi annui sono diminuiti di 1500 euro pro capite, al contrario dei prezzi di mercato. "Vogliamo che siano estese le tutele di chi ha difficoltà a pagare un mutuo anche a chi fatica con l'affitto", riprende Chiappelli. "A questo si aggiunge la riforma nazionale della legge 431, ritornando all'affitto legato al reddito. La Regione invece dovrebbe aumentare la quota per il sostegno agli affitti, usando ad esempio i 6 milioni di euro destinati all'abbattimento degli interessi sui mutui".

L'affitto di abitazioni probabilmente modificherà il mercato immobiliare. La domanda di locazioni in affitto, come dimostrano i dati resi pubblici dal Sicet, cresce sempre di più: le transazioni relative all'acquisto della casa sono diminuite del 25% in pochi anni e i prestiti bancari del 50%, cioè si sono dimezzati. Nello stesso tempo la richiesta di alloggi in affitto è aumentata del 20%. Un trend che lo Stato non può più ignorare.

È record di case invendute. Intanto si continua a costruire

Seicentonovantaquattromila. A tanto ammontano gli alloggi invenduti in Italia secondo la società di studi economici Nomisma. Dall'altra parte, secondo Federcasa, ne servono 583mila per soddisfare l'esigenza di abitazioni popolari. Un conto che non torna. Ma non per l'Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che persegue la costruzione di 328mila nuovi appartamenti ogni anno.

Intanto i redditi diminuiscono e i prezzi delle case non scendono creando le basi per una bolla immobiliare.Il rapporto "Abitare in Toscana" redatto dalla Regione Toscana riassume questa dicotomia in pochi e semplici numeri: da una parte ci sono 423mila immobili toscani non locati, dall'altra 24mila domande di alloggio popolare. L'idea, in tempi di crisi, che è venuta all'Assessore al Welfare Salvatore Allocca è stata quella di tassare gli immobili inutilizzati. Allocca ha proposto di istituire una tassa di scopo di 10 euro al mese su ogni immobili sfitto: già questo basterebbe per generare un introito di 50milioni di euro che potrebbero essere usati per garantire a chi subisce uno sfratto una sorta di sostentamento. Il contributo statale sugli affitti in Toscana è sceso da 8,6 milioni a 600mila euro: una riduzione del 93%.

Un'idea che potrebbe piacere a molti, al di fuori della Toscana. In particolare a chi ha trovato nell'occupazione l'unico modo per non rimanere senza casa: "Sono quindici anni che seguo casi di occupazione degli alloggi inabitati da parte di famiglie sfrattate" racconta Carlo Sottile. Sottile fa parte di un'associazione che si chiama Coordinamento Asti-Est. Negli ultimi anni sta coordinando la gestione di tre case occupate ad Asti. "Da una parte c'è gente che rischia o che ha perso la casa e dall'altra degli alloggi vuoti, sfitti o invenduti. Basta questo fenomeno, che negli anni si è aggravato, a giustificare le azioni di chi come noi contrasta gli sfratti e gestisce le occupazioni di alloggi altrimenti abbandonati all'incuria". L'occupazione più significativa dura dal 2010: si tratta di un edificio costituito da 6 alloggi di proprietà del Ministero della Difesa: "Ora è autogestito da altrettante famiglie: ci sono delle regole da rispettare, non è un bivacco ma un'abitazione a tutti gli effetti. Le famiglie versano un canone d'affitto simbolico all'associazione, canone misurato sul reddito e il salario dei lavoratori, come si faceva prima dell'introduzione della legge 431".

"La seconda occupazione riguarda degli ambulatori di proprietà dell'Asl, abbandonati anche questi, che abbiamo dovuto manutenere ricavandoci 11 unità abitative. Tra tutte le fatiche per allacciare la luce e l'acqua abbiamo ricavato un ottimo risultato abitativo, da prendere come esempio dato che sempre più la gente è costretta a pagare affitti esagerati per vere e proprie topaie. L'ultima occupazione invece era di una proprietà bancaria".

Ad Asti ci sono 700 richieste di alloggi popolari ma entro la fine dell'anno si prevede la costruzione di 18 alloggi nuovi più 30 nel 2013 "quando sarebbero disponibili 3000 alloggi residenziali vuoti e più di trenta edifici abbandonati. La logica delle amministrazioni è che tutto debba passare attraverso il libero mercato: ma queste famiglie sono fuori mercato, escluse dalle logiche immobiliari colpevoli di aver accumulato edifici senza funzioni e di aver fatto un uso disordinato del territorio. E come se non bastasse adesso si fanno affari con il social housing".

Già. Molte famiglie fanno richiesta di alloggi "sociali", a canoni convenzionati, ma finora l'edilizia non è stata particolarmente attenta a questa domanda. Secondo il Dipartimento di architettura e pianificazione del Politecnico di Milano il 75% della produzione edilizia tra il 2002 e il 2008 si è concentrata nell'edilizia libera e solo il 7,5% all'edilizia sociale nonostante il 42,5% della domanda faccia riferimento a quest'ultimo tipo di edilizia (e secondo le loro proiezioni nel 2018 ci saranno più di 367mila abitazioni vuote). Ma ora il trend sta cominciando a cambiare. Con l'aiuto dello Stato. Infatti CDP (Cassa depositi e prestiti) ha attivato un Fondo investimenti per l'abitare (Fia) che permetterà la costruzione di 15mila nuovi alloggi di housing sociale, nuove costruzioni ovviamente, di cui però il 65% verranno, secondo il Cresme (Centro Ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio), affittate non a canone sociale ma venduti a prezzi convenzionati e affittati "con patto di futura vendita". Come dire alle aziende costruttrici: se il mercato edilizio libero è in crisi perché non vi buttate su quello sociale? Lo Stato ti dà una mano. Con soldi pubblici.

Sostegno alle famiglie? È un "diritto per tutti"

Così si chiama l'associazione, composta in larga parte da immigrati, che a Brescia aiuta le persone sotto sfratto. Il presidente del comitato Umberto Gobbi: "Le ordinanze non riguardano solo più immigrati, come molti credono, ma sempre più italiani".

Se una famiglia viene lasciata da sola il più delle volte non resiste a un'azione di sfratto e per cui deve lasciare l'abitazione. Ma se il giorno dello sfratto si presentassero decine e decine di persone le cose cambierebbero.

E così, attraverso la partecipazione, l'Associazione Diritti per Tutti da sostegno a centinaia di famiglie investite dalla valanga sfratti. Nata a Brescia due anni fa, l'Associazione Diritti per Tutti è un gruppo spontaneo autorganizzato composto in larga parte da immigrati. "Il nostro è un comitato nato non solo per sostenere le famiglie sotto sfratto" precisa Umberto Gobbi, portavoce dell'Associazione "ma anche per contrastare tutte quelle forme di razzismo istituzionale che stanno dilagando nel nostro Paese, vedi tutte quelle leggi fatte per escludere gli immigrati dalla società. Per quanto riguarda gli sfratti c'è da dire che le ordinanze non riguardano solo più famiglie di immigrati, come molti credono, ma riguardano sempre più anche famiglie autoctone. Direi che quelle italiane sono un buon 40%. Finora siamo riusciti a bloccare più di duecento sfratti in presenza degli Ufficiali giudiziari e delle Forze dell'Ordine in due anni. E questo grazie soprattutto alla partecipazione di molta gente sensibile al tema".

Il Comitato opera già da tempo perché gli enti locali mettano al centro delle proprie politiche la questione del diritto alla casa. Nel solo mese di settembre l'Associazione ha preso parte a oltre venti sfratti in presenza dell'Ufficiale Giudiziario. Sempre a settembre ha dato avvio alla campagna "Nessuna casa senza persone, nessuna persona senza casa". "La soluzione deve passare dalla moratoria e dalla requisizione di migliaia di edifici vuoti degli enti, società, banche, immobiliari e grandi proprietari. Vanno messi a disposizione delle famiglie sfrattate seguite dai Comuni e dai loro servizi sociali" chiosa Umberto. "Per gli immigrati, che fanno parte attivamente dell'Associazione, una casa non significa solo un'abitazione ma anche una residenza legale, usufruire dei servizi pubblici e anche iscriversi alle graduatorie per la domanda di un edificio popolare. La casa, da molti Comuni leghisti, viene ormai usata come strumento per discriminare ed escludere".

Giuseppe Guzzetti cerca le parole giuste. «Il governo sta perdendo un'occasione incredibile. Potrebbe comunicare al Paese che si sta per realizzare nelle varie Regioni uno straordinario piano di edilizia sociale ma non lo fa. Ci vorrebbe una bella conferenza stampa! Ci sono almeno altri due miliardi di investimenti da qui al 2015 che aspettano solo di partire. Valgono tra i 20 e i 30 mila alloggi da offrire in affitto a prezzi vantaggiosi. E tutto ciò mentre metà delle imprese edili italiane rischia di chiudere per mancanza di lavoro. La nostra, poi, è un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico».

Guzzetti parla da presidente dell'Acri ma anche in virtù del fatto che ha seguito sin dal primo giorno dal suo ufficio in Fondazione Cariplo l'esperienza italiana dell'housing sociale, una formula che da noi ha una tradizione recente mentre in altri Paesi europei (Olanda e Inghilterra) vanta radici robuste. In Italia esiste un apposito Fondo nazionale, il Fia, che è partecipato dalla Cassa depositi e prestiti e dalle principali banche, assicurazioni ed enti previdenziali. In virtù del decreto emesso a luglio il Fia è stato dotato di maggiori spazi di intervento nelle realtà territoriali e potrà intervenire in misura più consistente nei singoli fondi locali. Ma purtroppo il decreto governativo da agosto a oggi non ha fatto un passo in avanti e non è stato ancora pubblicato inGazzetta Ufficiale. Le indiscrezioni di stampa parlano di dubbi avanzati da parte della Corte dei conti e la sensazione è che le burocrazie centrali non amino questa novità e in qualche modo non ne facilitino lo sviluppo. Guzzetti sogna una bella conferenza stampa nella quale l'esecutivo spieghi agli italiani che cosa è l'housing sociale e che straordinaria possibilità c'è di dare affitti alle giovani coppie, lavoro alle imprese e maggiore occupazione. È questo il motivo che ha visto impegnare negli anni le fondazioni di origine bancaria. Secondo le stime degli esperti si può costruire un'abitazione di classe A con un costo di costruzione di soli mille euro al metro quadro.

I tre miliardi di euro complessivamente disponibili (tra quelli che hanno già generato interventi edilizi e quelli fermi) possono determinare un volano di attività superiore di almeno tre volte e, pur senza risolvere i problemi strutturali dell'edilizia italiana, possono permettere a molte imprese di passare la nottata, tenere aperto in attesa della ripresa. E non è solo l'industria del mattone che guarda all'housing sociale ma anche l'arredamento. Da tempo le associazioni di categoria come la Federlegno sono attente a questo fenomeno e si sono attrezzate per fornire una sorta di catalogo del made in Italy democratico, divani e armadi di standard italiano a prezzi contenuti. Guzzetti ci tiene a spiegare che l'housing sociale non è «l'industria del mattone low cost» ma è legato e veicola un'idea di coesione sociale «che in un momento come quello che vive il Paese è particolarmente necessaria». Le giovani coppie e gli extracomunitari che vanno a vivere nelle nuove abitazioni sono coinvolti in progetti di solidarietà di vario tipo, dai gruppi di acquisto collettivo per risparmiare sul carrello della spesa alla banca del tempo per mettere a disposizione occasioni di lavoro e di assistenza alle persone. «Reinventiamo in un contesto nuovo i concetti della cooperazione e del mutuo soccorso. E il welfare di domani passa proprio per esperienze di questo tipo».

Tra i progetti che sono in attesa di partire ci sono interventi di riqualificazione urbana a Milano (via Voltri), a Figino sempre vicino Milano e a Verona. A Torino nella centrale via Milano è avanzato un progetto di recupero e rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio esistente come ad Ascoli e a Milano in via Padova. Altri interventi in aree di completamento della città sono previsti sempre a Milano (via Cenni), Parma, Crema, Cremona e Senago ma sono in attesa anche progetti della Regione Sicilia, della Sardegna e della Provincia di Trento. Il governo sfrutterà quest'occasione per aiutare la crescita?

Postilla

Guzzetti parla di “un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico” e c’è probabilmente da crederci, soprattutto per ciò che non dice. Ovvero che da un lato la sua Fondazione Cariplo è quella che ha sostenuto e finanziato le ricerche sul consumo di suolo, contribuendo negli ultimi anni a costruire quel tipo di sensibilità che ha portato tra l’altro al disegno di legge ministeriale sulla tutela delle superfici agricole dallo sprawl urbano; dall’altro scorrendo gli esempi citati dall’articolo pare di individuare un filo rosso che indica recupero, riqualificazione, tutela dell’articolazione sociale di città e quartieri e quindi della loro vitalità. Insomma l’esatto contrario dell’idea speculativa, ideologica, insostenibile, che la parola edilizia ha finito per evocare negli ultimi anni. Se son rose fioriranno, e dopo la clamorosa sconfessione delle new town emergenziali appaltate agli amici degli amici su terreni extraurbani di altri amici, magari qualche speranza c’è (f.b.)

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