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«Ciò che preoccupa maggiormente le amministrazioni delle Città Santuario è la perdita dei fondi a sostegno di iniziative di sviluppo economico e di contrasto della povertà».

millenniourbano,30 gennaio 2017 (c.m.c.)

Città Santuario è un nome dato ad alcune contee degli Stati Uniti che seguono determinate procedure di protezione degli immigrati privi dei documenti che consentono loro di soggiornare nella confederazione. Queste procedure, de jure o de facto, non consentono che fondi o risorse locali vengano utilizzati per l’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Le Città Santuario, la cui designazione non ha alcun significato giuridico, normalmente non consentono alla polizia o ai dipendenti comunali di acquisire informazioni sullo status dei residenti immigrati.

Mercoledì scorso, in uno dei due ordini esecutivi in materia di immigrazione, Donald Trump ha chiesto alle Città Santuario, tra le quali ci sono praticamente tutte le metropoli americane, di iniziare a collaborare con le autorità federali in merito ai dispositivi di legge sulla immigrazione per non perdere i fondi federali.

Nell’ordine il presidente fa riferimento a «danni incommensurabili al popolo americano e al tessuto stesso della nostra Repubblica» che sarebbero procurati dalle misure di mancata detenzione di individui sospetti privi di documenti. A contraddire però l’affermazione del neo presidente sulle minacce alla sicurezza nazionale, una nuova analisi pubblicata dal Center for American Progress e il National Immigration Law Center, mostra che le Città Santuario hanno tassi di crimine più bassi e un più alto livello di benessere economico.

Nel rapporto, Tom K. Wong , professore associato di scienze politiche presso l’Università della California di San Diego, ha analizzato – in un campione di 2.492 – quelle 602 contee nelle quali la polizia locale non ha accettato di attuare le politiche federali in materia di immigrazione. Queste ultime – soprattutto quelle che fanno parte di grande aree metropolitane – sono significativamente meno violente ed esposte al crimine, oltre a registrare anche migliori condizioni economiche. In media nelle contee che formano le Città Santuario i redditi medi sono più alti, la povertà è più bassa e i tassi di disoccupazione sono leggermente inferiori.

L’argomento a supporto di questi dati positivi è che le comunità sono più sicure quando le forze dell’ordine proteggono tutti i loro residenti, contribuendo ad esempio a tenere insieme le famiglie, invece di profondere i propri sforzi nell’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Se le famiglie e le comunità restano unite gli individui possono continuare a contribuire al rafforzamento delle economie locali, sembra essere la logica conclusione del ragionamento.

E’ difficile dire se le politiche di Trump potranno duramente colpire le Città Santuario, almeno in misura tale da rendere le loro politiche insostenibili. Ciò dipende da quanto le città saranno in grado di colmare con le proprie entrate alcune delle lacune create dalla perdita dei finanziamenti, e da quanta volontà politica sarà messa nel continuare ad opporsi alle leggi federali. Ciò dipende anche da quanto denaro Trump potrebbe in ultima analisi portare via alle città attraverso la necessaria ratifica da parte del Congresso del suo ordine esecutivo.

Le percentuali dei fondi federali sul budget di cinque metropoli come Los Angeles, San Francisco, Washington D.C., New York e Chicago è molto variabile: si va dal 29.4% di Washington D.C al 5,2% di San Francisco. In mezzo, in ordine decrescente ci sono Chicago (13,5%), New York (10,5%) e Los Angeles (6,25%). L’entità dell’effetto “pistola alla tempia” che potrebbe avere l’ordine esecutivo di Trump varia quindi di caso in caso, ma ciò che preoccupa maggiormente le amministrazioni delle Città Santuario è la perdita dei fondi a sostegno di iniziative di sviluppo economico e di contrasto della povertà.

Se i settori della popolazione urbana che beneficiano di questi finanziamenti vedranno nella ostinazione politica delle amministrazioni locali ad opporsi alle leggi federali la causa della perdita dei benefici finora ottenuti il risultato potrebbe essere l’innesco di una guerra tra poveri: da una parte coloro che dipendono dai finanziamenti pubblici, compresi quelli federali, e dall’altra coloro le cui condizioni di vita sono minacciate dall’odine esecutivo presidenziale.

Forse è proprio questo l’obiettivo di Trump, la cui avversione nei confronti delle grandi città che non l’hanno certo sostenuto elettoralmente è ben nota: fare in modo che la chiusura delle frontiere federali sia sostenuta dalla popolazione povera soprattutto urbana che dipende dai finanziamenti pubblici. Il ruolo dei sindaci nel fronteggiare questa sfida sarà quindi decisivo e a questo riguardo alcuni di loro, come il sindaco di Washington D.C. Muriel Bowser, hanno già annunciato che si opporranno alle politiche che «minacciano i valori in cui credono». Resta da vedere quanto Bowser e gli altri sindaci saranno in grado di tenere ferma loro posizione, data la miriade di ostacoli giuridici che Trump promette di mettere sulla strada delle amministrazioni delle città che si oppongono alle sue politiche.

N. Delgadillo, How Badly Could Trump Hurt Sanctuary Cities?, CityLab, 28 dicembre 2016.

T. Misra, Sanctuary Cities Are Safer and More Productive, CityLab, 26 gennaio 2017.

«». NYT, The opinion, 30 gennaio 2017 (m.c.g.)

We’re just over a week into the Trump-Putin regime, and it’s already getting hard to keep track of the disasters. Remember the president’s temper tantrum over his embarrassingly small inauguration crowd? It already seems like ancient history.

But I want to hold on, just for a minute, to the story that dominated the news on Thursday, before it was, er, trumped by the uproar over the refugee ban. As you may recall — or maybe you don’t, with the crazy coming so thick and fast — the White House first seemed to say that it would impose a 20 percent tariff on Mexico, but may have been talking about a tax plan, proposed by Republicans in the House, that would do no such thing; then said that it was just an idea; then dropped the subject, at least for now.

For sheer viciousness, loose talk about tariffs isn’t going to match slamming the door on refugees, on Holocaust Remembrance Day, no less. But the tariff tale nonetheless epitomizes the pattern we’re already seeing in this shambolic administration — a pattern of dysfunction, ignorance, incompetence, and betrayal of trust.

The story seems, like so much that’s happened lately, to have started with President Trump’s insecure ego: People were making fun of him because Mexico will not, as he promised during the campaign, pay for that useless wall along the border. So his spokesman, Sean Spicer, went out and declared that a border tax on Mexican products would, in fact, pay for the wall. So there!

«», New York Times, 29 gennaio 2017 (m.c.g.)

Nel 2016, durante il ritorno dal suo viaggio in Messico, riferendosi al progetto di erigere un muro sbandierato nel programma elettorale di Trump, Papa Francesco aveva definito l’allora candidato presidenziale ‘non cristiano’.
Dopo l’ordine esecutivo presidenziale emesso il 27 gennaio scorso (proprio nella giornata dedicata alla memoria delle vittime della Shoah!) che di fatto congela per 4 mesi l’arrivo negli USA di rifugiati provenienti da paesi di religione islamica e addirittura nega ogni possibilità di accoglienza ai rifugiati provenienti dalla Siria, mentre per quelli di fede cristiana si prefigura un percorso più agevole; e mentre continuano le manifestazioni di protesta nei maggiori aeroporti americani e si mobilitano gli avvocati delle associazioni per i diritti civili, anche le chiese si stanno organizzando per contrastare questa ennesima scelta iniqua.
L’editto presidenziale è oggetto di critiche perentorie da parte dell’Associazione Nazionale delle 1.200 chiese evangeliche, che hanno contestato il provvedimento definendolo “discriminatorio, fuorviante e disumano” e stanno organizzando una estesa raccolta di firme fra i fedeli. Anche la Chiesa Cattolica Romana, attraverso la United States Conference of Catholic Bishops, e la chiesa protestante hanno espresso dure critiche nei confronti di un provvedimento che toglie ogni speranza alle popolazioni in fuga da guerre e persecuzioni.
Soltanto i gruppi più estremisti e sedicenti cristiani, quelli che all’epoca di Obama avevano agitato la “teoria della cospirazione” denunciando una discriminazione dei rifugiati cristiani a favore dei musulmani da parte di ‘Obama il Musulmano’, inneggiano al provvedimento. L’articolo del NYT smentisce con i dati sull’accoglienza e le provenienze geografiche dei migranti questa ennesima campagna di odio che si aggiunge a quella contro le donne.
“Un giorno della vergogna” è stato definito dalle istituzioni religiose americane il venerdì 27 gennaio: quello dell’ennesima iniziativa inaccettabile di The Donald. (m.c.g.)

Christian Leaders Denounce Trump’s Plan to Favor Christian Refugees
Over the past decade, Christians in the United States have grown increasingly alarmed about the persecution of other Christians overseas, especially in the Middle East. With each priest kidnapped in Syria, each Christian family attacked in Iraq or each Coptic church bombed in Egypt, the clamor for action rose.

During the campaign, Donald J. Trump picked up on these fears, speaking frequently of Christians who were refused entry to the United States and beheaded by terrorists of the Islamic State: “If you’re a Christian, you have no chance,” he said in Ohio in November.

Now, President Trump has followed through on his campaign promise to rescue Christians who are suffering.

The executive order he signed on Friday gives preference to refugees who belong to a religious minority in their country, and have been persecuted for their religion.

The president detailed his intentions during an interview with the Christian Broadcasting Network on Friday, saying his administration is giving priority to Christians because they had suffered “more so” than others, “so we are going to help them.”

But if Mr. Trump had hoped for Christian leaders to break out in cheers, that is, for the most part, not what he has heard so far.

A broad array of clergy members has strongly denounced Mr. Trump’s order as discriminatory, misguided and inhumane. Outrage has also come from some of the evangelical, Roman Catholic and mainline Protestant leaders who represent the churches most active in trying to aid persecuted Christians.

By giving preference to Christians over Muslims, religious leaders have said the executive order pits one faith against another. By barring any refugees from entering the United States for nearly four months, it leaves people to suffer longer in camps, and prevents families from reuniting.

Also, many religious leaders have said that putting an indefinite freeze on refugees from Syria, and cutting the total number of refugees admitted this year by 60,000, shuts the door to those most in need.

“We believe in assisting all, regardless of their religious beliefs,” said Bishop Joe S. Vásquez, the chairman of the committee on migration for the United States Conference of Catholic Bishops.

Jen Smyers, the director of policy and advocacy for the immigration and refugee program of Church World Service, a ministry affiliated with dozens of Christian denominations, called Friday a “shameful day” in United States history.

It remains to be seen whether Mr. Trump’s executive order will find more support in the pews.

During the campaign, Mr. Trump successfully mined many voters’ concern about national security and fear of Muslims. He earned the votes of four out of every five white evangelical Christians, and a majority of white Catholics, exit polls showed.

In interviews on Sunday, churchgoers in several cities were sharply divided on the issue, including on whether Christian teachings supported giving priority to Christians.

“Love thy neighbor” was cited more than once, and by both sides: It was seen as both a commandment to embrace all peoples and to defend one’s actual neighbors from harm.

“You look at a city like Mosul, which is one of the oldest Christian populations in the world,” said Mark Tanner, 52, a worshiper at Buckhead Church, an evangelical church in Atlanta, referring to the besieged Iraqi city. “There’s a remnant there that want to stay there to be a Christian witness.”

“So yeah,” he continued. “We should reach out to everyone, but we have to be real about it and as far as who you let come into the country.”

Nmachi Abengowe, 62, a native of Nigeria who attends Oak Cliff Bible Fellowship in Dallas, cited Muslim-on-Christian violence in Africa in defending Mr. Trump’s preference for Christian refugees.

“They believe in jihad,” he said of Muslims. “They don’t have peace. Peace comes from Jesus Christ.”

That was not the view of Makeisha Robey, 39, who was at the Atlanta church. “I think that is just completely opposite what it means to be a Christian,” she said. “God’s love was not for you specifically. It’s actually for everyone, and it’s our job as Christians to kind of enforce that on this planet, to bring God’s love to everyone.”

John and Noreen Yarwood, who attended Mass at the Co-Cathedral of St. Joseph, a Catholic church in Brooklyn, said they feared that a policy of preference for Christians could in practice become a preference for certain denominations of Christianity over others.

“What does this administration mean by Christian?” Mr. Yarwood, 37, asked. He said that refugees are deserving of help and mercy “because of desperation and poverty,” not because of their religion.

“This is not grace,” he said of the president’s order. “It doesn’t follow Christian teachings.”

Christian leaders who defended Mr. Trump’s executive order were rare this weekend.

One of the few was the Rev. Franklin Graham, the son of the evangelist Billy Graham and the president of Samaritan’s Purse, an evangelical aid organization.

Mr. Graham has long denounced Islam as “evil,” and in July 2015 proposed a ban on Muslims entering the United States as a solution to domestic terrorism, months before Mr. Trump made his first call for the same.

In a statement on Saturday, Mr. Graham said of refugees, “We need to be sure their philosophies related to freedom and liberty are in line with ours.”

He added that those who followed Sharia law — a set of beliefs at the core of Islam — hold notions “ultimately incompatible with the Constitution of this nation.”

Jim Jacobson, the president of Christian Freedom International, which advocates for persecuted Christians, applauded the executive order and said, “The Trump administration has given hope to persecuted Christians that their cases will finally be considered.”

Among the claims Mr. Trump made at his campaign rallies was that the Obama administration had denied refugee status to Christians, and had given preference to Muslims.

“How unfair is that? How bad is that?” he told supporters at a rally in St. Clairsville, Ohio, interlaced with boasts about his “tremendous evangelical support.”

The contention was consistent with the conspiracy theories held by some conservative Christians that Mr. Obama was secretly a Muslim, and that he was turning a blind eye to the suffering of Christians while using the reins of government to increase the Muslim population of the United States.

But the claim is simply untrue. In 2016, the United States admitted almost as many Christian refugees (37,521) as Muslim refugees (38,901), according to the Pew Research Center.

While only about one percent of the refugees from Syria resettled in the United States last year were Christian, the population of that country is 93 percent Muslim and only 5 percent Christian, according to Pew.

And leaders of several refugee resettlement organizations said during interviews that it took 18 months to three years for most refugees to go through the vetting process to get into the United States.

Many Syrian Christians got into the pipeline more recently.

“We have no evidence that would support a belief that the Obama administration was discriminating against Christian populations,” said the Rev. Scott Arbeiter, the president of World Relief, the humanitarian arm of National Association of Evangelicals.

His organization has resettled thousands of Muslim refugees, with the help of a network of 1,200 evangelical churches.

Mr. Arbeiter said that World Relief is opposed to “any measure that would discriminate against the most vulnerable people in the world based on ethnicity, country of origin, religion, gender or gender identity. Our commitment is to serve vulnerable people without regard to those factors, or any others.”

He said that World Relief had already gathered 12,000 signatures from evangelical Christians for a petition opposing Mr. Trump’s executive order.

“We’re going to call out to our network, the 1,200 churches that are actively involved,” he said, “and ask them to use their voices to change the narrative, to challenge the facts that drive the fear so high that people would accept this executive order.”

La prima missione militare Usa ai tempi di Donald D. (Devil) Trump:abbattuti un terrorista e «non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più».

Corriere della sera, 30 gennaio 2017

WASHINGTON Lo Yemen è un terreno di caccia americano. Sotto Obama lo hanno «marcato» con i missili. Tanti i terroristi e i civili uccisi. Ora c’è un nuovo sceriffo in città — Trump —, che si pone ancora meno limiti.

Un’incursione di forze speciali statunitensi a Yakla, regione centrale, in un rifugio di Al Qaeda si è chiusa con un bilancio serio. Un soldato americano morto e tre feriti. Un velivolo Osprey distrutto. Quattordici militanti eliminati, non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più. Tra loro ci sarebbe Nora, la figlia di 8 anni dell’imam Anwar Al Awlaki, ispiratore della jihad globale, riferimento per numerosi attentatori occidentali, anche lui fatto fuori nel 2011 da un drone. Numeri non definitivi.

La prima missione nel segno di The Donald e con il primo caduto sotto la sua amministrazione ha avuto le caratteristiche di una battaglia. Una task force, forse partita da una base in Eritrea o da una nave d’assalto anfibio, si è mossa a bordo di elicotteri e velivoli speciali Osprey. Al loro fianco i droni e gli Apaches. Testimoni hanno riferito di un primo bombardamento che ha centrato la casa di Abdul Raouf al Dahab, dirigente di al Qaeda. Quindi sono sbarcati i Navy Seal 6 che hanno aperto il fuoco sui sopravvissuti e hanno ingaggiato il combattimento con i mujaheddin.

Le fonti ufficiali parlano di un’ora di scontri, altre ricostruzioni parlano di due. Nel conflitto a fuoco alcuni commandos sono rimasti feriti. In loro soccorso è intervenuto un Osprey, ma che è rimasto danneggiato in un atterraggio duro. I soldati lo hanno allora distrutto con l’esplosivo. Quindi il reparto ha lasciato il campo portandosi via — come segnala il Comando centrale — materiale per l’intelligence utile per future missioni. Nello stesso comunicato si sottolinea che il blitz fa parte di una serie di mosse «aggressive» nello Yemen e su scala globale. La decisione di colpire al Dahab era stata presa ancora sotto Obama, ma il piano — per motivi tecnici — non era stato completato.

L'Imperatore feroce prosegue e completa ciò che i suoi predecessori mansueti avevano iniziato. La logica dell'impero non è cambiata molto: fu il presidente democratico Bill Clinton a iniziare nel 1994 la costruzione, Hillary Clinton e Barack Obama votarono SI.

il manifesto, 28 gennaio 2017

È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady.

È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada.

Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale.

Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Stati uniti i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni.

Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras.

Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine. Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori.

Attraversare il confine è come andare in guerra, per sfuggire agli elicotteri e ai droni, alle barriere di filo spinato, alle pattuglie armate (molte di veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan), addestrate dai militari con le tecniche usate nei teatri bellici. Emblematico il fatto che, per costruire alcuni tratti della barriera col Messico, l’amministrazione democratica Clinton usò negli anni Novanta le piattaforme metalliche delle piste da cui erano decollati gli aerei per bombardare l’Iraq nella prima guerra del Golfo, fatta dall’amministrazione repubblicana di George H.W. Bush. Utilizzando i materiali delle guerre successive, si può sicuramente completare la barriera bipartisan.

Dopo il muro, il fuoco. I primi giorni da presidente non vanno certo sprecati per Donald Trump, tanto da mettere subito le cose in chiaro: non solo la barriera anti migranti da costruire al confine con il Messico ma anche l'assoluta validità dei metodi di tortura americani «perché dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco».

The Donald tira dritto e parlando nella sua prima intervista post giuramento, alla Abc news, annuncia di credere "assolutamente" nelle torture come il waterboarding. Un metodo, spiega lui, utile per combattere il terrorismo, punto che discuterà con il segretario alla Difesa, James Mattis e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Dai due - dice il presidente - ha già avuto conferme sull'efficacia delle torture in ambito militare e le parole di Trump fanno pensare a un ritorno a torture già abbandonate da Cia e servizi segreti.

«Mi affiderò a Pompeo e Mattis ed al mio gruppo e se loro non vorranno, va bene, ma se verranno io mi impegnerò a renderlo possibile, voglio che sia fatto tutto nell'ambito di quello che è legalmente possibile» ha detto il presidente. «Ho parlato nelle ultime 24 ore con persone ai più alti livelli dell'intelligence ed ho chiesto loro: la tortura funziona? e la risposta è stata, assolutamente sì. Quando tagliano la testa dei nostri e di altri, solo perché sono cristiani in Medio Oriente, quando lo Stato Islamico fa cose di cui nessuno ha sentito dai tempi del Medioevo, cosa dovrei pensare del waterboarding? Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco». Parole che arrivano a ridosso della possibile firma di Trump su un ordine esecutivo che servirà a ripristinare la detenzione carceraria di sospetti terroristi in strutture blindatissime e segrete e che lasciano immaginare un totale ripristino delle vecchie tecniche di tortura.

«Il presidente può firmare tutti gli ordini esecutivi che vuole ma la legge è la legge. Non possiamo riportare indietro la tortura negli Stati Uniti d'America», ha detto il senatore John McCain, in contrasto con Trump. Dello stesso parere l'ex capo Cia Leon Panetta che parla di un errore l'idea di reintrodurre certi tipi di tortura negli interrogatori e spiega come questo «violerebbe i valori Usa e la costituzione».

Dalla Gran Bretagna in nome dell'Europa si fa sentire subito Theresa May, pronta ad opporsi alla idea di torture abbozzata da Trump. La May incontrerà The Donald domani ed esporrà al presidente Usa tutto il suo dissens

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