la Repubblica, ed.Bari online, 17 marzo 2017
Uno stabile destinato a ospitare migranti è stato occupato da una decina di famiglie del quartiere Salinella a Taranto. La zona di via Plinio è stata transennata e presidiata dalle forze di polizia. I circa 50 occupanti protestano: «Perché dare queste case ai migranti quando noi siamo senza casa e lavoro». Secondo il coordinatore regionale dei giovani di Forza Italia Mimmo Lardiello, «i residenti della zona sono preoccupati perché si parla dell'arrivo di 400 immigrati. Il governo non può decidere da un giorno all'altro di trasformare un quartiere che ospita numerosi studi professionali in un ghetto». I poliziotti hanno poi proceduto alle operazioni di sgombero dell'immobile in seguito alla denuncia presentata la proprietario.
Da giorni circolava la voce che lo stabile al numero 16 di via Plinio, edificio di proprietà privata fino a due anni fa sede di uffici comunali, sarebbe stato preso in fitto da cooperative che si occupano dell'accoglienza e dell'assistenza ai migranti. L'allarme fra le famiglie della zona è scattato quando sul posto si è presentata una ditta di pulizie. In pochi minuti i manifestanti hanno allontanato i dipendenti della ditta e messo un guardiano all'ingresso dello stabile. La zona è stata subito presidiata dalla polizia. Poi sono arrivate mamme e bambini che hanno occupato gli alloggi.
La protesta ha un duplice volto: da un lato le famiglie della parte più popolare del quartiere che chiedono aiuto e alloggi al Comune, dall'altro professionisti e residenti della zona Bestat (Beni stabili), «preoccupati che l'arrivo di alcune centinaia di migranti peggiori ulteriormente la qualità della vita in un quartiere scarsamente illuminato e già teatro di atti vandalici contro portoni e auto in sosta», come spiega il consigliere comunale di Fi Giampaolo Vietri.
«L'accoglienza non può essere improvvisata e schizofrenica. Bisogna individuare razionalmente - aggiunge Lardiello - aree dove sono garantiti controlli di polizia e impatto sociale. Pochi mesi fa trenta migranti sono stati sistemati in un palazzo in pieno centro a Taranto ed hanno violato il regolamento condominiale creando scompiglio fra i residenti».
«Libia. Incontro con la piattaforma libica della società civile che chiede al prossimo Consiglio Onu per i diritti umani di creare un team di monitoraggio. «Abusi sistematici, torture, rapimenti: diritti violati da tutti gli attori del conflitto». il manifesto, 11 marzo 2017
Due appuntamenti vanno segnati sul calendario libico di qui a 15 giorni: il 15 marzo la Corte d’Appello di Tripoli emetterà la sentenza sul memorandum d’intesa firmato da Italia e governo di unità nazionale (Gna) sui migranti; e il 22 all’Onu si riunirà nella sua 34esima sessione il Consiglio per i diritti umani.
Due date importanti. Ad attenderne i risultati ci sono anche Zahra’ Langhi, fondatrice della Libyan Women’s Platform for peace; Karim Saleh, responsabile per la Libia del Cairo Institute for Human Rights Studies; e Hisham al Windi, attivista.
Li abbiamo incontrati a Roma dove sono incontreranno istituzioni e associazioni della società civile in rappresentanza della piattaforma nata nel settembre 2016 e che mette insieme 16 organizzazioni di base libiche impegnate in campi diversi, migrazione, genere, media, libertà di espressione. L’obiettivo è dare la misura della sistematicità delle violazioni in atto nel paese e la distruttiva frammentazione in autorità diverse che impedisce l’individuazione dei responsabili di crimini.
Il quadro ce lo danno mostrandoci la lettera inviata al Consiglio per i diritti umani e sottoscritta, tra gli altri, dal Cairo Institute, Amnesty International e Human Rights Watch: 450mila sfollati interni, centinaia di migliaia di migranti africani in transito detenuti e abusati, migliaia di prigionieri nelle carceri delle diverse autorità.
«La situazione umanitaria in Libia non ha mai smesso di deteriorare dal 2011 – ci spiega Karim – È peggiorata nel 2014 con la scissione delle autorità centrali in due e poi nel 2016 con la scissione in tre diversi esecutivi in competizione, ognuno con un braccio armato. Le violazioni sono sistematiche: detenzioni arbitrarie, tortura e stupro nelle carceri, rapimenti e sparizioni forzate che hanno come target sia i difensori dei diritti umani che la comunità giudiziaria, giudici, avvocati, procuratori e le famiglie delle vittime che tentano le vie legali».
«Gli abusi sono perpetrati da tutti i diversi attori del conflitto, che si muovono in una free-zone. La comunità internazionale deve creare un meccanismo di monitoraggio degli abusi».
Che è esattamente quello che chiedono al Consiglio per i diritti umani: una missione di esperti indipendente che monitori la situazione umanitaria e faccia progressi per perseguire i responsabili.
«L’Isis non è il solo gruppo criminale in Libia – continua Karim – All’interno delle frammentate istituzioni di est e ovest la situazione è la stessa. E dietro di loro ci sono Stati che trasferiscono con regolarità armi e denaro, come l’Egitto a favore di Haftar in violazione dell’embargo Onu. Armi che non solo impediscono di spezzare il circolo della violenza, ma che aumentano il potere di gruppi estremisti in totale contraddizione con le dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane: dicono di sostenere Haftar in chiave anti-terrorismo, ma nella realtà lo creano».
«A monte sta il fallimento dell’intervento occidentale che non ha disarmato e demobilitato i gruppi nati dopo Gheddafi né aiutato alla costruzione di un sistema di sicurezza interna basato sul rispetto dei diritti umani – aggiunge Zahra’ – Il fallimento nello state-building e nel bloccare il flusso di armi ha disintegrato il paese».
Lo si vede nel fenomeno delle città-Stato libiche: ogni gruppo governa uno specifico territorio con un diverso obiettivo politico, religioso o etnico. Hisham tenta da tempo di monitorare i diversi attori che nascono e si riproducono, «le repubbliche militari» le chiama.
«Alcune milizie sono legate al premier del Gna Sarraj, al generale Haftar o all’ex primo ministro Ghwell; altri non si sono coalizzati con nessuno. Tale ramificazione di poteri in competizione è dovuta all’enorme afflusso di armi nel paese dal 2011. Non è stato immaginato alcun piano per il post-Gheddafi, per disarmare le milizie e far partecipare questi soggetti in un processo politico serio. Le dinamiche delle ‘repubbliche militari’ sono in continua evoluzione: si ampliano e si riducono con grande rapidità; alcune sono legate a poteri precedenti, clan, tribù, altre sono frutto di poteri nuovi o di scissioni, come lo stesso Haftar o i cosiddetti ‘quiet salafi’, i salafiti non jihadisti, invisibili sotto Gheddafi ma ora presenti anche tra le fila di Haftar in chiave anti-jihadista. La parte più debole, in tutta questa situazione, è lo Stato».
Uno Stato che non c’è, sebbene qualcuno finga di vederlo. Come l’Italia che con il Gna, che controlla a mala pena Tripoli, ha raggiunto un’intesa per frenare i migranti. Il giudizio della società civile è pessimo: «Un atto immorale: l’Italia ha forzato un paese troppo debole – dice Zahra’ – Non è un accordo, ma un memorandum, trucco che elimina aspetti legali come la ratifica dei due parlamenti che infatti non c’è stata. Il Gna è debole, si aggiunge ad altri due “governi”, non ha autorità né legittimazione perché non è stato votato da nessuno. In questa situazione senza potere di fatto né legittimazione popolare il Gna si è visto imporre un accordo dall’Italia che incrementerà gli abusi sui migranti che resteranno in un paese dove le milizie abusano di loro dall’arrivo alla tentata partenza. È immorale e esacerba la fragilità del Gna, un governo che tra 9 mesi scade. Qual è il piano dopo 9 mesi?».
Internazionale online, 10 marzo 2017 (p.d.)
Il 2 febbraio il primo ministro italiano e il primo ministro del governo di unità nazionale libico Fayez al Serraj hanno firmato un memorandum d’intesa per fermare l’arrivo dei migranti in Europa. Nel memorandum si dichiara l’intenzione di rinchiudere i migranti in centri di detenzione di prossima costruzione in Libia e di offrire sostegno finanziario e addestramento alle forze di sicurezza libiche affinché sorveglino i confini della Libia. Una volta tanto i libici si trovano d’accordo su qualcosa: molti giornalisti, blogger, leader di milizie e politici hanno condannato il memorandum, tutti per motivi diversi e da diversi punti di vista. Permettetemi di condividere con voi alcune delle opinioni espresse su questa sponda del Mediterraneo.
La posizione di forza dell’Italia
In un articolo intitolato “Acqua calda e governo complice”, il giornalista Salem Barghouti ha affermato che il documento è “simile a un memorandum d’intesa imposto a paesi che sono stati sconfitti e occupati, attuato con l’aiuto del governo complice dell’occupazione”. E prosegue: “Dal 2004 l’Italia cerca di istituire un centro regionale in Libia per impedire l’immigrazione irregolare, ma non c’era riuscita perché lo stato era forte. Tuttavia, questo progetto, o per meglio dire il sogno italiano, è tornato alla ribalta politica quando l’Unione europea ha avuto la certezza che la debole e dispersiva Libia era pronta ad accettare l’avvio degli insediamenti. Prima di firmare un simile memorandum, il governo di unità nazionale avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che il documento non dovrebbe esentare l’Italia dal rispetto degli impegni presi in precedenti accordi e trattati stipulati con l’ex regime, in particolare il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008. Quel trattato comprendeva un risarcimento per le vittime libiche delle mine seminate dall’Italia per impedire l’ingresso delle truppe dell’Asse in Libia e un risarcimento per il periodo coloniale sotto forma di investimenti per un valore stimato di cinque miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro). I centri di riabilitazione a cui si fa riferimento nel memorandum d’intesa disporranno di alloggi, strutture sanitarie, medicine e attrezzature, una prova eloquente del fatto che questi centri sono concepiti per essere stabili e modulabili. E questo significa il reinsediamento di migranti in un paese che gli europei ritengono uno stato al collasso in cui non si prevede alcun significativo miglioramento nel prossimo futuro. Gli italiani si trovano in una posizione di forza. Sono stati in grado di dettare le condizioni nell’interesse dell’Italia, tenendo conto del prezzo pagato per il sostegno offerto alla rivoluzione libica. Non sono scontento del memorandum d’intesa; so che presto arriverà un altro governo nazionale e getterà a mare quell’accordo, e il mare lo risospingerà sulle coste italiane”.
Un grande gioco
Il coordinatore delle relazioni libico-egiziane con le tribù, Akram Jirari, ha messo in discussione le intenzioni e la credibilità della concomitante decisione presa dalla Banca centrale della Libia di liquidare i dollari per i cittadini libici. In base a questa decisione, ciascun libico avrà il diritto di ritirare un totale di 400 dollari statunitensi (378 euro circa) per ciascun membro della sua famiglia. Jirari ha spiegato che questa risoluzione non è altro che “un grande gioco per distrarre la gente con la questione del cambio del dollaro mentre in Libia si costruiscono gli insediamenti per profughi e migranti”. In un linguaggio aspro ha aggiunto che la decisione di costruire insediamenti ha lo scopo “di sbarazzarsi dei migranti irregolari e impedire loro di arrivare in Europa facendoli invece stabilire in Libia, con tutte le malattie e i danni che possono causare, un peso che adesso stanno sopportando in Europa”.
Un altro commentatore ha tracciato dei parallelismi con un argomento doloroso tra i più citati, la dichiarazione di Balfour, che stabiliva il sostegno del governo britannico alla fondazione di un “focolare ebraico” in Palestina. Lo stesso commentatore si chiede: “In Libia sarà la volta della dichiarazione di Al Serraj, la promessa di istituire una patria per gli africani in Libia?”.
La camera dei rappresentanti con sede a Tobruk ritiene “nullo e privo di valore” il memorandum d’intesa. Secondo i parlamentari, la questione non “è soggetta a interessi individuali né agli interessi dei paesi europei, in particolare della repubblica italiana”. E continuano: “L’Italia sta cercando di sbarazzarsi del peso e dei pericoli dell’immigrazione clandestina per la sicurezza, l’economia e la società in cambio di un po’ di sostegno materiale alla Libia, che è peraltro già obbligata a fornire”.
In molti hanno sottolineato come già nel 2008 la Libia avesse firmato un accordo dettagliato sullo stesso argomento. Si chiedono se il nuovo memorandum d’intesa sia stato un tentativo da parte dell’Italia di disattendere gli obblighi imposti dal precedente trattato o di sfruttare la situazione di vulnerabilità della Libia. In una dichiarazione, la commissione nazionale sui diritti umani in Libia ha espresso un netto rifiuto del memorandum d’intesa o di qualsiasi altro “progetto, protocollo, convenzione o memorandum politico o legale che possa suggerire il rimpatrio dei migranti africani o il loro reinsediamento in Libia”.
L’assenza del punto di vista dei migranti
Come ho detto prima, quasi tutte le fonti libiche tendono a concordare su questa vicenda. Cosa ancora più significativa, nonostante la grande varietà di punti di vista sono tutte accomunate anche da quello che non dicono. Criticando il memorandum d’intesa, nessuno ha espresso preoccupazione per le condizioni disumane che i migranti subiscono e continueranno a subire. Leggendo le notizie sui mezzi d’informazione internazionali, capita di imbattersi in titoli come questo: “I leader dell’Ue discutono di come il blocco dei 28 stati membri possa impedire ai migranti di imbarcarsi su navi di fortuna sulla costa libica per attraversare il Mediterraneo diretti in Europa”.
In altri termini, finché tenete i migranti lontani dalle coste europee possiamo fare finta che vada tutto bene: quello che succede a Tripoli resta a Tripoli. Le condizioni dei migranti sono già un incubo in Libia. Perciò firmare un documento che istituisca per loro una Guantanamo libica è servito soltanto a sancire ufficialmente le loro sofferenze e a suggellare la loro situazione disperata. L’assenza del punto di vista dei migranti limita la possibilità di una vera comprensione della situazione e di un vero dibattito.
Definiamo noi stessi e i nostri rapporti con gli altri soprattutto in base ai dettagli sul nostro conto che permettiamo agli altri di conoscere: quanto riveliamo di noi stessi, e come e quando scegliamo di rivelarlo. In una prospettiva più ampia, una catena di informazioni stabile, illimitata e senza censure è essenziale per comprendere qualsiasi condizione umana. Nella vicenda relativa alla crisi dei migranti e alle soluzioni proposte osserviamo ciò che accade quando le persone più colpite da una situazione non hanno alcuna voce in capitolo, quando il loro punto di vista viene ignorato. Nonostante l’accesso immediato a un’enorme quantità di informazioni, il resto del mondo continua a non sapere molto di quello che accade sull’altra sponda del Mediterraneo.
Venti mesi fa mi sono unito ad Andrea Segre nel suo viaggio per la realizzazione del film L’ordine delle cose. Mi ha spiegato la sua idea di aprire un varco sulle storie che accadono lontano dai riflettori quando si firma un accordo di questo tipo. Sono convinto che la sua idea diventerà un’importante testimonianza cinematografica.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
«». il blog di Guido Viale, 7 marzo 2017 (c.m.c.)
A che punto è la notte? Molto avanti. Sull’Europa è calata una coltre buia. Quando ci ridesteremo ci ritroveremo nelle tenebre. Si è ormai affermato un vero e proprio apartheid continentale che sconfina in pratiche di sterminio. Certo, nel corso della storia l’”uomo bianco” ha fatto di peggio: conquista delle Americhe, schiavismo, colonialismo, nazismo… Ma non è una ragione per non vedere ciò che sta ora di fronte a tutti.
Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza alcuna base giuridica, aperte violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie impegnate nel salvataggio dei profughi, eserciti mobilitati ai confini, reti, filo spinato e muri (tra cui quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani). Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.
Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’ONU come UNHCR, OIM, UNICEF e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per “disincentivare l’afflusso di nuovi profughi”: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.
Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico. Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.
Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.
Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il Governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.
Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.
Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.
il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)
Nei giorni scorsi un incendio e due morti hanno richiamato di nuovo l’attenzione dell’opinione pubblica sul ghetto di Rignano Garganico (vicino Foggia), un gruppo di miserabili baracche abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali e ora distrutte con le ruspe. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”.
Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro “prossimo”.
Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce.
Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di “caporali”, proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna.
Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il “New Deal”. Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della “Rural Resettlement Administration”, l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri.
Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: “Gli zingari dei campi” (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda.
È la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i “caporali”, le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento.
La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa “comunista” che Roosevelt però difese con coraggio.
Il libro Furore finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto. Furore è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali.
Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi: lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità, costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole.
”Muoiono di fame perché noi si possa mangiare”, oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro.
La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale, vogliamo dire cristiana?, della politica.
Il Fatto Quotidiano online, 4 marzo 2017 , con riferimenti (m.p.r.)
Cronaca
Da vent'anni raccoglie i migranti che arrivano in Puglia per raccogliere i pomodori, in estate ospita quasi 3mila persone. "Vogliono lavorare, non delinquere" dice a il Fatto Quotidiano. il questore di Foggia, secondo cui "è una città alternativa da chiudere subito". Per il ministro Orlando "è qualcosa di inaccettabile". Eppure la favela più grande d'Italia è ancora lì, nonostante progetti e idee che le varie amministrazioni locali hanno messo in campo negli anni per radere al suolo le baracche. Invano, a causa dei molti interessi, primo fra tutti quello dei caporali e della criminalità organizzata, che hanno gioco facile con la disperazione lavorativa degli schiavi stagionali. Nel frattempo all'interno è nata anche una radio, che dà voce a chi voce non ne ha mai avuta.
Una città invisibile nata attorno a un gruppo di vecchie masserie e costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. Il ‘Grande Ghetto’ è sorto nei campi tra San Severo, Rignano Garganico e Foggia quasi una ventina di anni fa, dopo lo sgombero di uno zuccherificio abbandonato, dove trovavano riparo molti braccianti stranieri sfruttati nei campi vicini. Mentre lo Stato si voltava dall’altra parte (ma non facevano lo stesso mafia e caporali) questo ‘non luogo‘ è diventato il più grande accampamento di migranti e lavoratori stagionali d’Italia. D’estate sono quasi tremila quelli ospitati in baracche dopo aver lavorato tutto il giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori. Per poche manciate di euro. Fra i tre e i quattro euro per ogni ora o per ogni cassone di raccolto riempito.
La città fantasma
Capo free-ghetto out
Roghi, morti e un piano mai finanziato
Cos’è accaduto da allora? A maggio 2016 è stato sottoscritto un Protocollo sperimentale contro il caporalato, mentre la Regione ha ideato un piano da 5 milioni di euro per chiudere la baraccopoli, utilizzando strutture di proprietà dell’Ente in alcuni comuni vicini. Non se n’è fatto nulla a causa del mancato finanziamento da parte del Ministero dell’Interno. Il ghetto è rimasto lì ancora una volta e, a luglio dello scorso anno, un altro cittadino del Mali è morto nel corso di una rissa scoppiata nell’accampamento invisibile. Il 2 dicembre scorso si è verificato un altro incendio che ha interessato un centinaio di baracche, anche in quel caso senza feriti. Il 9 dicembre, invece, un rogo ha ucciso un migrante di 20 anni nel cosiddetto Ghetto dei bulgari, tra Borgo Tressanti e Borgo Mezzanone non lontano da Foggia. Giovedì notte, l’ennesimo incendio nel quale sono morti altri due migranti del Mali.
A il Fatto quotidiano.it il questore di Foggia, Piernicola Silvis, parla di una “città alternativa, una favela”, dove però i migranti “si sono raccolti per lavorare nei campi e non per delinquere”. Nel frattempo le operazioni per cercare di bonificarlo sono state difficili. “Bisogna assolutamente chiuderlo - spiega Silvis - perché ad oggi si rischia la sicurezza ogni giorno”. Le soluzioni alternative al ‘Gran ghetto’ sarebbero due strutture nei pressi di San Severo, ossia Casa Sankara e l’Arena, ma c’è molta resistenza. Dopo l’incendio di giovedì sera è intervenuta la federazione regionale dell’Usb Puglia: “Queste sono le conclusioni tragiche di anni di assenza di politiche del lavoro, in modo particolare sull’agricoltura e contro il caporalato”. Il problema, dunque, non è solo quello dell’accoglienza. Secondo l’Unione sindacale di Base “aver avviato lo sgombero del campo di Rignano senza coinvolgere i lavoratori che lo abitano è stato un atto di prepotenza istituzionale che non è possibile accettare”, mentre “gravissime sono le responsabilità del prefetto di Foggia” ed “enormi i ritardi della politica”.
L’esperienza di radio ghetto
I mille modi nei quali, con inventiva tutta italiana ma volta al male, stiamo realizzando pezzo per pezzo la più micidiale e disumana barriera per respingere le moltitudini che fuggono dagli inferni che il nostro Primo mondo ha creato per loro.
Il manifesto, 4 marzo 2017
Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza base giuridica, violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie, eserciti mobilitati ai confini, filo spinato e muri.
E tra i muri quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani. Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.
Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’Onu come Unhcr, Oim, Unice e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per «disincentivare l’afflusso di nuovi profughi»: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.
Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico.
Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.
Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.
Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.
Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.
Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.
il manifesto, 4 marzo 2017
Alla fine è successo. Il Ghetto di Rignano è stato sgomberato dalle ruspe ma due ragazzi originari del Mali sono morti dopo che un incendio, scoppiato nella notte, ha raso al suolo gran parte del campo. Ieri mattina colonne di fumo nero facevano da sfondo a dozzine di migranti che si allontanavano con le poche cose messe assieme negli anni: un materasso, una bombola del gas o un bidone per fitofarmaci pieno di acqua potabile. Sembra Calais ma siamo Foggia, nel granaio di Italia.
Il 1 marzo inizia lo sgombero della baraccopoli, disposto dalla Dda di Bari nell’ambito di indagini avviate nel marzo del 2016 e culminate con il sequestro con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. Nonostante le ruspe siano sul posto e la zona sia stata sottoposta a sequestro, il giorno seguente una delegazione di abitanti del ghetto si dirige verso Foggia per incontrare il prefetto. La manifestazione sfila per la città con cartelli che recitano «Vivere Ghetto». Chiedono di poter restare nelle proprie baracche, così da non perdere quei contatti lavorativi maturati negli anni: un privilegio che vale meno di 3 euro l’ora.
La notte tra il 2 e il 3 marzo un incendio distrugge parte del campo, quasi 5.000 mq di case di cartone carbonizzate. Al loro interno dormono alcuni migranti che, miracolosamente, riescono a fuggire, tranne due ragazzi. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, avevano 33 e 36 anni e venivano entrambi dal Mali. Una delle due vittime, Konate, è stato trovato disteso su una brandina, carbonizzato. L’altro è stato trovato vicino l’uscita della baracca.
Non è la prima volta che le case di cartone del Ghetto vanno a fuoco. Questo, ad esempio, è il terzo incendio di grosse dimensioni che avviene solo nell’ultimo anno. Mai nessuno però era ancora morto durante questi episodi.
La procura di Foggia ha escluso la matrice dolosa, anche se per alcuni le cose non sono andate esattamente così: «L’incendio del ghetto di Rignano è doloso perché molti lavoratori non hanno gradito lo sgombero. E’ un gesto di protesta paradossale, da condannare perché nessuno ha il diritto di uccidere; ma resta un tragico gesto di protesta», dice Yvan Sagnet.
Secondo un vigile del fuoco che si trovava sul posto al momento dell’incendio «l’incendio è stato troppo violento e improvviso, e quindi non si esclude che possa essere stato appiccato da qualcuno».
Dopo aver riconosciuto i corpi dei propri compagni, gli ultimi abitanti del Ghetto hanno improvvisato un corteo funebre per scortare i feretri dei due ragazzi. «Non si può morire così, come i cani in gabbia» urla Mamadou alla stampa «noi chiediamo solo di lavorare in pace. Dove andremo ora?».
I carri funebri sfilano affianco a cumuli di immondizia bruciata che delimitano le porte del Ghetto. I migranti li lasciano andare soli nel loro viaggio verso l’obitorio e decidono di tornare indietro per potersi organizzare.
Dopo qualche ora accade l’impensabile: un altro incendio di grandi dimensioni distrugge e mortifica le ultime baracche rimaste in piedi. Si odono delle esplosioni, una macchina di un caporale va in fiamme e diverse bombole del gas esplodono pericolosamente tra le baracche. L’aria è irrespirabile. Il ghetto inizia a svuotarsi silenziosamente. Molte persone si dirigono attraversano gli uliveti, simbolo della puglia, con i materassi arrotolati sulla testa. Gli autobus sono pronti ad accoglierli per poterli portare in alcune strutture messe a disposizione della regione e dal comune di San Severo, che saranno attrezzate per accogliere temporaneamente 320 migranti.
Il presidente della Regione Michele Emiliano si dice soddisfatto della «chiusura di questo luogo dove per vent’anni si è calpestata la dignità umana», aggiungendo che «la tragica morte dei due cittadini maliani conferma la necessità di procedere senza indugio alla chiusura del campo, ma lascia un profondo sconforto perché se avessero accettato, come tanti hanno fatto, l’alternativa abitativa adesso sarebbero ancora vivi».
La giornata sta per finire, le fiamme hanno ormai lasciato spazio alla cenere ed al fumo. Il rumore delle ruspe copre ogni suono. Molti migranti non sanno dove andare, nessuno a quanto pare si è preoccupato di spiegare loro cosa stia succedendo: «non mi importa – dice un ragazzo - qualunque posto sarà meglio di questo».
«Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina».
A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno.
Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del «Gran Ghetto» di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata. Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso.
Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare. E’ questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla.
Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato?
Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico. Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione.
Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco.
E’ lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera.
il manifesto, 25 febbraio 2017
«Come fate a vivere senza documenti? Se vi chiappano i carabinieri, vi rimbarcano in Africa». Con ingenuo stupore Benito, uno dei reporter, uno degli ospiti della "comunità XXIV luglio handicappati e non» che si sono improvvisati giornalisti e hanno girato con un pulmino nelle comunità d’accoglienza dei migranti, fa domande, chiede agli anziani dei paesi, riflette coi compagni e si confronta con questi ragazzi stranieri venuti dal mare.
«Siete del Bangladesh? E addò sta il Bangladesh?», «Fate il Ratatan? No, si chiama Ramadan, un mese di digiuno per osservanza religiosa». La faccia del paese migliore, quello dove due fragilità – i disabili e gli immigrati- si incontrano e s’interrogano, abbattendo i pregiudizi. L’Italia di questi piccoli paesi, dove l’accoglienza ha radici antiche ed è un gesto di arricchimento culturale.
La XXIV luglio è una onlus dell’Aquila, attiva da oltre quarant’anni, che utilizza il teatro, la fotografia e altre forme di comunicazione nel percorso di riabilitazione. Nata come attività di reportage audiovisivo (con l’assistenza di volontari videomaker professionisti), un viaggio durato una settimana tra i paesi dell’Appennino (Marche, Molise e Abruzzo,) incontrando maghrebini e africani, asiatici e profughi.
Ora è un doc I migrati, diretto da Francesco Paolucci, che andrà in onda stasera alle 23.50 su Tg2Dossier e domani alle 19.20 su Tv2000. Uno sguardo ravvicinato e curioso verso questi nuovi cittadini che provano a inserirsi nella società, a dimenticare un passato fatto di guerre, privazioni e violenze. «Sono stati quattro giorni in mare, l’esperienza più terribile che mi è capitata, prima il viaggio passando per Sudan, Egitto e Libia, qui voglio rifarmi una vita» racconta una ragazza somala, accolta in una di queste cooperative solidali che si avvalgono dell’aiuto di mediatori culturali.
I quattro cronisti di giornata – Benito, Barbara, Gianluca e Giovanni – chiedono agli abitanti se gli stranieri si sono integrati nella vita del paese. «Ma questi ragazzi, la sera, se ne vanno fuori a bere un aperitivo, una birra?». E restano sorpresi del divieto di consumare alcol, per motivi religiosi. Le situazioni sono molto più semplici e gestibili, dando un carattere leggero e piacevole a tutta la vicenda dove si lavora per l’apprendimento dell’italiano, tra giochi linguistici e indovinelli metafisici.
a Repubblica online, ed. Milano, 23 febbraio 2017
LaLega Nord è stata condannata per il reato di discriminazione, per aver usato iltermine 'clandestini' per indicare quelli che, a termini di legge, sono invece'richiedenti asilo'. Lo stabilisce una sentenza del giudice Martina Flaminidella prima sezione civile del tribunale ordinario di Milano, che ha condannatola Lega a pagare 10mila euro di danni (oltre a 4mila euro di spese processuali)"per il carattere discriminatorio e denigratorio dell'espressioneclandestini” contenuta nei manifesti affissi nell'aprile scorso a Saronno. Unasentenza che potrebbe creare un precedente, visto che a partire dal segretarioMatteo Salvini, molti esponenti del Carroccio definiscono i profughi come'clandestini'.
il manifesto, 23 febbraio 2017 (c.m.c.)
Come un gambero il mondo va all’indietro: ripiombato in un buio clima da anni Trenta, diviso con l’accetta nell’inquietante binomio “noi” e “loro”, permeato di populismo razzista che lambisce il fascismo.
Il quadro che emerge dal Rapporto 2017 di Amnesty International è allarmante perché smonta l’impalcatura di falsa democrazia che l’Occidente – esperto “esportatore” – ha sempre usato per distanziarsi dalla funzionale categoria degli Stati canaglia.
La violazione dei diritti umani si allarga a macchia d’olio, tocca la quasi totalità dei paesi del mondo (159 quelli analizzati). Le parole chiave della deriva si accavallano: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri.
Come si accavallano i nomi di chi oggi rappresenta «un mondo martoriato da una distruzione di vita e beni senza precedenti negli ultimi 70 anni»: Trump, Duterte, Erdogan, al-Sisi, Orbán.
Qualche numero: in 23 Stati sono stati commessi crimini di guerra, in metà si pratica la tortura, in 22 sono stati uccisi difensori dei diritti umani e in 36 è stato violato il diritto internazionale in materia di richiesta d’asilo.
Sullo sfondo un clima di razzismo strisciante che divide gli esseri umani in etnie, confessioni, razze e che riguarda anche l’Italia: «Esiste una retorica di divisione alimentata dal alcuni leader politici come Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia», dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia.
Una retorica che entra nell’amministrazione italiana e europea, fisicamente visibile nei muri e i lacrimogeni che accolgono i migranti in fuga e nei pacchetti di aiuti miliardari a paesi che violano palesemente i diritti umani.
Nel mirino di Amnesty finiscono gli accordi sui migranti siglati da Roma e Bruxelles, fatti di Cie, maltrattamenti, respingimenti in violazione del diritto d’asilo, morti in mare: «L’applicazione da parte delle autorità italiane dell’approccio hotspot europeo – si legge nel rapporto – ha portato a casi di uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e espulsioni collettive».
Non si salva la Francia chiamata in causa per quattro estensioni dello stato di emergenza e attacchi come lo sgombero della “giungla” di Calais. Né si salva la Ue che con Ankara ha siglato un accordo che prevede la deportazione dei nuovi arrivati (senza valutarne l’eventuale diritto d’asilo) sulla base della definizione della Turchia come «paese sicuro».
Un «paese sicuro» in cui è in corso una guerra contro i kurdi, due milioni di rifugiati vivono in campi profughi o per le strade delle grandi città senza opportunità di integrazione, 10 parlamentari sono in prigione insieme a 150 giornalisti.
E tale pare essere la definizione che tocca alla Libia, destinataria di un altro accordo seppur divisa in parlamenti rivali, preda di milizie armate e nota per il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione nel deserto.
Mentre si raccoglievano le spoglie delle 74 vittime dell’ultimo naufragio sulle coste della città di Zawiya, il ministro degli Interni Minniti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza presentava il memorandum libico come modello di un progetto strategico per l’Africa: «Abbiamo fatto un accordo importante con il Niger, più di recente con la Tunisia e firmato un memorandum con la Libia. L’idea è che l’Italia possa svolgere il ruolo di paese apripista».
L’«emergenza migranti», evento epocale che sveste l’Europa di decenni di presunta cultura di pace e accoglienza, si inserisce in un più vasto imbarbarimento dei discorsi promossi da movimenti xenofobi e di ultradestra che puntano a farsi (o si sono già fatti) governo.
Il linguaggio cambia e plasma la dicotomia noi/loro, rintracciabile nelle politiche dell’amministrazione Trump o del governo ungherese di Orbán.
«Il cinico uso della narrativa del noi contro loro, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta – scrive Salil Shetty, segretario generale di Amnesty – Un numero elevato di politici risponde ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie».
Una manipolazione che investe di riflesso la rete di alleanze globali ed erge a colonne portanti della lotta al terrorismo islamista regimi di stampo autoritario.
Ce lo ricorda Giulio Regeni, vittima della pervasiva macchina della repressione egiziana che oggi ripropone ad un livello ancora peggiore le stesse politiche dell’era Mubarak: torture, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, soffocamento della società civile sono pratiche ormai sistematiche.
L’elenco potrebbe continuare: le Filippine di Duterte e i 7mila omicidi giustificati con la lotta al traffico di droga; le bombe saudite in Yemen; la legge sulla sorveglianza di massa del Regno Unito; gli attacchi in Polonia ai diritti di donne e Lgbti; il fuoco che ha distrutto centinaia di villaggi in Darfur; la pratica israeliana dello “spara per uccidere” e la strutturale confisca di terre palestinesi da parte di Tel Aviv.
E, compiendo un giro completo, si torna all’Italia. Amnesty rilancia la lettera inviata con Antigone, A Buon Diritto e Cittadianzattiva al ministro della Giustizia Orlando: Roma introduca il reato di tortura.
La città e l'accoglienza e raccoglie testi di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, Enzo Scandurra. Gli autori ci hanno concesso di pubblicare in anteprima la loro introduzione. Li ringraziamo
Un Popolo Nuovo arriva alla frontiera della civilissima Europa. Un Popolo composto dai “dannati della Terra”; da coloro che non hanno più nulla da perdere perché hanno perso tutto. Parte da lontano: dalla sponda sud del Mediterraneo e, prima ancora, dai paesi dell’Africa. Attraversa deserti, fiumi e mari; abbandona alle proprie spalle luoghi di morte: rovine in fiamme, terre desertificate dal furore predatorio del modello occidentale. All’Europa presenta il conto da pagare per gli anni di benessere da essa goduto estraendo ricchezze dai loro territori.
Nelle città europee, un tempo luoghi di accoglienza e di ibridazioni etniche, sociali, religiose, si alzano muri per fermarne il cammino, per arrestarne la marcia silenziosa. Così la Fortezza-Europa pensa di difendere se stessa dall’“invasione”. Fuori da quei muri ci sono loro, i nuovi barbari, che fuggono da terre devastate; dentro quei muri i cittadini che hanno goduto dei dividendi provenienti dalle loro terre. Solo governi miopi e terrorizzati di perdere i loro antichi (e attuali) privilegi possono pensare di fermarli. L’Europa rischia la barbarie poiché si mostra incapace di affrontare la crisi da essa stessa provocata, il nuovo disordine mondiale prodotto dalla sua politica coloniale. I governi degli stati nazionali sono divisi e imbelli, tenacemente decisi a difendere una identità nazionale figlia di “mille letti” e spazzata via dalla Globalizzazione.
L’Europa disporrebbe di strumenti assai più efficaci per disinnescare il conflitto che non l’erezione di muri. Si chiamano: accoglienza, diritti, libertà, riconoscimento dell’alterità. E invece l’Europa non ha saputo fare altro che riscoprire il valore del “confine” compiendo un pericoloso passo indietro rispetto alle questioni di inclusione e di libera circolazione.
Dagli anni Novanta si è assistito in tutte le città del mondo, con intensità variabile, a un processo di deregolamentazione che ha fiancheggiato la privatizzazione di intere parti di città. La città è diventata il luogo dove si manifestano e si concretizzano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le sue condizioni di vivibilità, ma aumentare i profitti d’impresa.
Questo libro, scritto da urbanisti, nasce per sostenere una tesi opposta alla tendenza in atto che vede la città farsi fortezza contro il “diverso”. La nascita e lo sviluppo delle città europee ci parla di un’altra storia dove il meticciato di lingue ed etnie, insieme al dovere dell’accoglienza, caratterizzavano lo splendore delle città e la loro solidità civile. Ricordare questa lunga storia non è oziosa operazione accademica: essa sola può aiutarci a costruire un futuro di pace considerando i nuovi transiti e le nuove migrazioni anziché fenomeni da demonizzare e da cui difenderci, occasioni di un nuovo vivere insieme e di ripensare l’idea stessa di città moderna.Perché la storia ci insegna che le nostre città sono l’esito di complessi e straordinari processi d’interazione e di scambio tra componenti culturali eterogenee. È grazie a questi processi, prodotti dall’incontro-scontro di differenze, che esse hanno acquisito la forma attuale sussumendo i diversi modi dell’essere insieme e di costruire beni comuni.
È noto come la storia d’Italia negli ultimi secoli del Medioevo coincida con quella delle sue città, le quali furono, fra l’xi e il xii secolo, caratterizzate da un grande dinamismo demografico ed economico. Nell’ambito di questo sviluppo, le comunità urbane erano costituite da persone tra loro molto diverse: mercanti, immigrati dal contado, operai, artigiani, religiosi, studenti universitari, forestieri, mendicanti e proprietari di grandi fortune. Facevano parte di questa comunità anche gli appartenenti a etnie e a confessioni religiose minoritarie, come gli ebrei, i musulmani, i greci, tutelati da uno stato giuridico particolare.
Il carattere accogliente e ospitale che risale alle origini della città e ne costituisce l’essenza profonda, attraversa la lunga storia urbana e ricorre negli statuti delle città europee.
Lo possiamo osservare, oltre che nei processi che hanno contribuito a generare le città, nelle stesse architetture dedicate all’accoglienza, a lungo considerata atto dovuto e, soprattutto, gratuito: dall’ospitalità caritatevole di matrice ecclesiastica, nell’alto medioevo, all’accoglienza laica inquadrabile nel fenomeno della «religione civica» delle città comunali.
Già dal v secolo le città si dotano di architetture deputate all’accoglienza: xenodochia, hospitia, foresterie. Ricoveri sorgeranno presso le sedi vescovili nel cuore della città, nei monasteri esterni alle mura, lungo le vie di pellegrinaggio e sui valichi montani.
Secoli dopo, le libere città comunali rappresentano una concreta possibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei “servi villatici”, in fuga dal contado: dietro le mura di cinta la vendetta dei loro signori non avrebbe potuto raggiungerli («l’aria della città rende liberi»). In quest’epoca, presso il ceto che oggi definiremmo “dirigente”, si diffonde l’aspirazione alla fondazione di monasteri, cappelle e, non ultimi, di ospedali. Le città europee conoscono così un’ondata di fondazioni di case di mendicità nelle quali trovano rifugio: pauperes, peregrini, transeuntes, mulieres in partu agentes, parvuli a patribus et matribus derelicti, debiles et claudi, generaliter omnes.
Oggi siamo di fronte a un processo di occupazione e privatizzazione delle città ad opera di gruppi economici e finanziari che promuovono politiche urbane che massimizzano profitti e producono nuove povertà, a tal punto che è lecito chiedersi: di chi è la città?
E tuttavia, alle porte delle nostre città chiamate postmoderne, si affaccia un mondo composto di persone in movimento, di soggettività fluide, di alterità, dei diversi e non assimilabili. La moltiplicazione e l’intensificazione dei flussi migratori agisce da contrappeso alla privatizzazione e, anzi, la contrasta. Le città ridiventano incroci di progetti di vita che producono nuovi spazi pubblici conseguenti alle pratiche di scambio messe in azione dai migranti e quelle di supporto ai diversi progetti migratori: le pratiche di mutuo-aiuto dei migranti e quelle delle società ospitanti. Locale e globale s’intrecciano e interagiscono in forme sconosciute nelle epoche precedenti producendo, nelle città, nuove centralità, nuovi e inediti luoghi di incontro, luoghi-sosta di radicamenti dinamici e di mobilità multiformi, luoghi-intersezione di nomadismi che cortocircuitano la dimensione locale e quella globale.
Il tradizionale rapporto comunità/territorio tende a modificarsi. La rottura dei legami e dei vincoli tradizionali delinea ora un’idea diversa di comunità: permeabile, mutevole, instabile, che oggi si riconosce in una polifonia di forme e sfumature differenti. La figura del migrante non annuncia la morte della comunità. Se i movimenti migratori producono, da una parte, de-territorializzazione in quanto scompaginano assetti geopolitici, configurazioni di potere e strutturazioni sociali consolidate, allo stesso tempo sono anche agenti di ri-territorializzazione poiché riconfigurano inedite forme comunitarie, costruiscono nuove grammatiche spaziali e inediti radicamenti territoriali.
L’annullamento della logica identitaria può diventare, dunque, il presupposto operativo per un rinnovato umanesimo antropologico che ritrova proprio nella città il suo terreno originario.
La Nuova Venezia, 17 febbraio 2017 (p.s.)
Marghera. Un gruppo di trentacinque persone e un obiettivo: comprare un appartamento per accogliere e ospitare, almeno in questa prima fase, i richiedenti asilo, i «fratelli profughi». E’ il loro modo di trasformare «lo sgomento in decisione e la compassione in azione diretta», spiegano i membri dell’associazione, ispirati dalle parole di Papa Francesco: «Quanta indifferenza e ostilità nei confronti dei fratelli profughi!». E da quelle del presidente Sergio Mattarella: «Io, con la mia famiglia e la mia comunità, cosa posso fare?».
L’appartamento dei migranti è il modo dei membri dell’associazione di praticare l’accoglienza diffusa, impegnandosi in prima persona. «Ognuno di noi», spiega Antonino Stinà, il presidente dell’associazione DiCasa, «ha messo una quota compresa tra 500 e 3000 euro come forma di prestito infruttifero all’associazione».
L’impegno di chi aderisce, partecipando all’associazione, è di vincolare il prestito per almeno tre anni trascorsi i quali l’associazione, in caso di richiesta, si impegna a restituire la somma nell’arco di un anno. In pochi mesi l’associazione è riuscita a raccogliere 80 mila euro, individuando un appartamento, a Marghera.
Nei prossimi giorni l’appuntamento dal notaio per il rogito e l’acquisto dell’abitazione mentre in primavera è previsto l’arrivo dei primi ospiti. L’appartamento verrà dato in comodato d’uso gratuito a una cooperativa vicina alla Caritas, tra quelle accreditate e autorizzate dalla prefettura di Venezia, e sarà la cooperativa ad occuparsi dell’accoglienza dei migranti, tra i quattro e i sei.
I soci dell’associazione DiCasa sono famiglie che abitano in città e che hanno deciso che era il momento di fare qualcosa, rimboccarsi le maniche. Tra i soci anche don Nandino Capovilla, parroco alla Cita di Marghera, molto impegnato sul fronte delle persone più bisognose: «Questo progetto è il sogno di un gruppo di persone, cattoliche e non, che si sono chieste: che cosa possiamo fare per questi fratelli?».
La nascita dell’associazione per l’acquisto della casa è stata la risposta. «Perché non ci si può lamentare e allo stesso tempo stare con le mani in mano», nota don Nandino.
L’esperienza di Marghera è anche la risposta a Cona, il maxi centro dove sono ospitati oltre mille migranti, anche per le ostilità di molti altri comuni del Veneziano che si oppongono ai trasferimenti, mettendosi di traverso alle indicazioni della prefettura.
«Dicono che le cooperative fanno soldi con i migranti? Non tutte le cooperative sono uguali, ci sono realtà e persone seriamente impegnate in progetti con piccoli numeri, che rendono più facile l’integrazione», aggiunge Stinà.
I volontari dell’associazione daranno ai profughi (e in particolare alle profughe e ai loro figli che, secondo la Prefettura di Venezia, sono l'attuale emergenza in quanto soggetti più deboli ancora) un tetto sotto il quale stare, ma cercheranno anche di stare loro vicino nella gestione della casa, oltre il lavoro degli operatori della cooperativa. «Li aiuteremo con la lingua, nei rapporto con il quartiere».
Che poi vuol dire imparare a fare la spesa, capire come funziona la raccolta differenziata, trovare la fermata giusta per andare a prendere l’autobus, conoscere il fornaio sotto casa. «Un investimento? Sì, nella giustizia, nell’accoglienza e nella solidarietà».
«». arcipelagomilano.org, 7 febbraio 2017 (m.c.g.)
Evidenziare collegamenti tra le due città una settimana fa era quasi immediato: là un grande attivismo di avvocati, qui una grande ammirazione per il loro agire, per le generose modalità di opposizione all’ordine di Trump sul «ban dei cittadini o nativi dei 7 paesi». Come altre volte prima (come già fu per il digitale e sulla collaborazione per la giovane imprenditoria) cercare nessi e distinzioni nei comportamenti degli abitanti delle due città sembrava immediato. Unica la domanda che nasceva: perché a tanta ammirazione per gli avvocati americani, che si esprimeva sui nostri social e nelle conversazioni, non corrispondeva un analogo ammirato rispetto verso i giuristi italiani che nel nostro paese sono costantemente impegnati nella tutela dei diritti civili? Mentre promuovono azioni di advocacy, difesa degli stranieri e dei migranti, esprimono pubblicamente a Milano la loro solidarietà ai colleghi incarcerati nella Turchia di Erdogan.
Certo un’insorgenza di attenzione, emozionata e preoccupata o a momenti esultante, per quelle che apparivano vittorie, anche se parziali e temporanee in USA, era determinata dall’enormità del fatto, dal senso di valanga che avrebbe potuto determinare tra gli stati del pianeta; mentre qui in Italia più che in Europa abbiamo i nostri “momenti” nei lutti, nel dolore di una nuova strage nel Mediterraneo, di un assassinio di un giovane africano. E purtroppo non fanno quasi notizia i numerosi episodi di discriminazione razziale e religiosa e siamo ormai assuefatti all’incessante numero di morti in mare al quale i media prestano sempre meno attenzione. Ma non ancora assuefatti a Milano, non così diffusamente, non sempre: è l’orgoglio del nostro senso civico.
Una settimana fa la domanda era come rendere più conosciute le azioni dei singoli legali e delle associazioni presenti (dall’ASGI Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, ad Avvocati per Niente, ma anche la Camera Penale e la Camera Minorile); come creare presso i cittadini “normali”, i non esperti, i non professionisti nel campo, eppure mediamente informati, un moto di vicinanza. Attenzione e conoscenza, considerazione per quelli che nel nostro paese come i loro colleghi negli aeroporti americani sono protagonisti di quotidiane azioni legali dirette a fianco di vittime della tratta, di diritti di famiglie da ricongiungere, di espulsioni, di trattenimento nei CIE e di altrettante significative attività di formazione verso studenti universitari e più giovani colleghi, di informazione a operatori sociali … registrando negli ultimi anni un aumento di sensibilità negli ambiti appunto giuridici e sociali.
Una settimana fa era una domanda da rivolgere ai cittadini milanesi, a quelli e quelle che hanno costituito una compagine infaticabile e una costante presenza di supporto alle variegate forme di accoglienza ai migranti, ai rifugiati, ai transitanti, alle decine di migliaia che sono passati di qui … una domanda a una città che è stata protagonista dell’accoglienza sociale, dalle prime necessità allo sviluppo di modalità sempre più accurate, per esempio verso i minori che viaggiano da soli.
Una domanda da rivolgere alla città perché questa esperienza, e le scelte che l’hanno sottesa, vengano portate con sempre maggior forza a livello nazionale, al Parlamento e al Governo; perché vengano sviluppate norme necessarie per l’integrazione, come la riforma della cittadinanza cioè la legge sullo ius soli, sia pure nella forma temperata, e l’abolizione della Bossi-Fini.
Sono passati pochi giorni e abbiamo invece un accordo sulla Libia che segue le orribili orme di quello sulla Turchia, e le nostre frontiere non sono diverse dal Ban di Trump. Come scrive Annalisa Camilli su Internazionale: «Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con la firma del memorandum d’intesa con la Libia l’Italia viola “il diritto di asilo consacrato nella costituzione italiana e il dovere di rispettare i diritti umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per il nostro paese». Secondo l’Asgi, inoltre, l’Italia usa i fondi della cooperazione per finanziare la militarizzazione della frontiera.
“L’Unione Europea tradisce i principi cardine della civiltà giuridica e viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei cittadini” afferma il presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’avvocato Lorenzo Trucco. E anche Emma Bonino ha espresso una posizione molto netta sulla Stampa: «L’Europa si è scandalizzata per il bando di Trump e il muro al confine con il Messico, ma quello che stiamo facendo in Europa non è poi così diverso. Un Paese, la Libia, viene pagato perché metta un “tappo” per trattenere tutti i migranti di qualunque nazionalità. Un piano che qualcuno ha definito “Trump soft”, simile a quello già applicato in Turchia».
La nostra indignazione sui Ban di Trump ci coinvolgerà anche e fino a difendere la nostra Costituzione e i principi fondativi dell’Europa? Questa domanda ci riguarda tutti, tecnici professionisti e cittadini.
Verona-in online, 13 febbraio 2017 (c.m.c.)
Le vicende di questi ultimi giorni, legate all’accoglienza dei profughi in città e in provincia, aiutano molto a chiarire perché in Italia, ogni volta che ne arriva qualcuno, ci troviamo perennemente nella confusione più totale e nell’emergenza.
Le politiche migratorie sono regolate dalla Legge 189 del 2002, la Bossi-Fini. Non si può quindi ragionevolmente pensare che contenga indicazioni buoniste o di sinistra. In base a questa legge il Prefetto di Verona ha deciso di destinare all’accoglienza di una quindicina di profughi (mica migliaia) un edificio del quartiere San Zeno, sede dello Sportello Immigrazione. La Lega Nord ha promosso una raccolta di firme contro questa decisione, raccogliendone 517, fra persone della zona e passanti occasionali.
Poco lontano, a Lugagnano, il Prefetto ha pure richiesto al Sindaco la disponibilità ad accogliere giovani profughi o mamme italiane vittime di violenza coi loro bambini. Il Sindaco Mazzi, invece di opporsi, ha avviato una serie di incontri coi membri della sua comunità, cercando di coinvolgere tutti per trovare la soluzione migliore. Ha fatto il suo dovere. Si sta dando da fare per risolvere il problema nel migliore dei modi invece di crearne altri.
Le leggi in materia, anche se discutibili, ci sono. Vanno ottemperate senza sollevare continue opposizioni. Basterebbe organizzarsi, basterebbe che tutti si attivassero per fare la propria parte e i cittadini non vivrebbero in uno stato d’ansia permanente per le paure sollevate ad arte da politici poco interessati al loro benessere. I problemi sono già tanti senza che ci sia chi li ingigantisce.
Detto questo, diamoci da fare perché questi centri funzionino al meglio. Mi pare che la scelta di favorire gruppi poco numerosi, all’interno della città, sia più positiva rispetto a quella dei grandi CIE sovraffollati e isolati che abbiamo visto tante volte in televisione.
E’ importante che ci siano regole ferme e chiare e che gli ospiti vengano coinvolti nella gestione del Centro, nella sua pulizia, nella preparazione dei pasti… Lasciare delle persone inattive serve solo ad incattivirle. Bisognerebbe organizzare da subito corsi di lingua italiana per dar loro la possibilità di comunicare in fretta; far intervenire i mediatori linguistico-culturali (a Verona ce ne sono molti, formati anche attraverso Master universitari); mettere i richiedenti asilo in contatto con i loro compatrioti arrivati in Italia già da tempo; creare occasioni di incontro con gli abitanti del quartiere per facilitare la loro inclusione sociale.
Fra un po’ avremo una nuova amministrazione cittadina; spero che si adoperi da subito per organizzare una dignitosa accoglienza di queste persone, che non scappano da casa per puro divertimento, favorendo in questo modo anche la serenità di tutti i cittadini.
Il cuore e il cervello dei governanti italiani continuano a rimpicciolirsi. Ciò che resta del secondo viene impiegato per per irrigidire le barriere e rendere schiavi chi riesce a superarle. Articoli di Leo Loncari e Alessandro Dal Lago.
il manifesto, 11 febbraio 2017
RIMPATRI, LAVORO E MENO DIRITTI
PER I RICHIEDENTI ASILO
di Leo Lancari
Lettera 43 online, 9 febbraio 2017 (c.m.c.)
Ventimiglia «controlli alla frontiera del diritto». Il titolo del rapporto pubblicato da Amnesty International France non poteva essere più esplicito: secondo l'organizzazione umanitaria decine di migliaia di respingimenti dalla Francia di richiedenti asilo sono avvenuti e continuano ad avvenire in maniera «illegale e contraria agli accordi internazionali, in violazione dei diritti umani».
Ninte possibilità di ricorso. Ai rifugiati, secondo il documento, non verrebbe messo a disposizione un interprete e il foglio di espulsione consegnato dalla polizia francese conterrebbe soltanto l'ordine di allontanamento e sarebbe privo delle due pagine (obbligatorie per la legge francese) nelle quali la persona viene informata dei propri diritti, in particolare quello di presentare ricorso contro l'espulsione. Anche i minorenni, secondo Amnesty, vengono maltrattati: il rapporto indica casi di ragazzini non accompagnati, fermati dalla polizia e caricati da soli sui treni per l'Italia.
Il rapporto è frutto di due fonti: l'analisi dei dati del 2016, forniti dalla prefettura delle Alpi marittime francesi, e che parlano di 35 mila persone controllate, e la missione di un gruppo di osservatori di Amnesty che, tra il 19 e il 26 gennaio 2017, sono andati alla frontiera di Ventimiglia, dal lato francese. Sul suo sito, Amnesty spiega che i suoi uomini hanno stilato un «resoconto preciso delle violazioni che la Francia commette verso i rifugiati che attraversano la frontiera franco-italiana».
Respingimenti senza formalità. Secondo il documento «le autorità non applicano le garanzie né rispettano i diritti delle persone che controllano alla frontiera». E l'accusa si fa più pesante quando l'organizzazione osserva che «nella gran parte dei casi i respingimenti in Italia sono organizzati senza formalità, in condizioni che lasciano pensare che tutto potrebbe essere organizzato in modo tale che le persone non possano esercitare i propri diritti».
Obiettivo di tutto ciò, secondo gli osservatori, sembra essere quello di rispedire i rifugiati in Italia: nel 2016 ne sono stati respinti quasi 30 mila.Il rapporto cita una serie di testimonianze raccolte direttamente sul campo dagli osservatori e spiega che «nemmeno i minori non accompagnati sono oggetto dell'attenzione richiesta dalla legislazione francese per la protezione dell'infanzia». Quindi riporta il racconto di una giovane eritrea, Bilal: «Se vieni fermato dalla polizia a Mentone o un po' prima, se sei un minorenne la polizia ti rimette direttamente sul treno» che conduce in Italia, dove il ragazzino si ritroverà da solo.
Cammino a piedi per 10 chilometri. Invece «se sei maggiorenne o ti considerano tale, ti portano alla stazione di Mentone, ti circondano di poliziotti e ti consegnano alla polizia italiana che si trova proprio di fronte». E da lì «comincia un cammino a piedi di 10 chilometri», con gli agenti francesi «silenziosi, che non ti informano nemmeno dei tuoi diritti».
Amnesty parla di «violazioni dei diritti umani», perché ai richiedenti asilo non viene nemmeno permesso di compilare la domanda alla quale avrebbero diritto, mentre le attese dell'espulsione avvengono in condizioni di gravissime carenze igieniche, senza accessi a luoghi per dormire né servizi. E di questa situazione «Francia e Italia sono corresponsabili». Il rapporto sostiene che la durezza dei controlli francesi ha spinto negli ultimi mesi i rifugiati, in gran parte africani, a cercare nuovi punti di passaggio della frontiera, con un «conseguente aumento dei rischi».
Chiesta l'apertura di un'indagine. La prefettura delle Alpi marittime riferisce di aver controllato nel 2016 circa 35 mila persone, il 40% in più rispetto all'anno precedente. E aggiunge che nove persone su 10 controllate sono state respinte in Italia. E dato l'esito della missione degli osservatori, Amnesty considera come sia lecito pensare che la gran parte delle espulsioni sia avvenuta nella violazione di garanzie e diritti dell'uomo previsti dalle leggi francesi e dagli accordi internazionali. Contro queste prassi, Amnesty chiede la mobilitazione dei cittadini e l'apertura di inchieste da parte della magistratura.
LasciateCIEntrare online, 7 febbraio 2017.
"LasciateCIEntrare" condanna fermamente la politica di accordi e partenariati con i Paesi terzi portata avanti dall’Europa e dal Governo italiano in totale sfregio ai valori fondanti e fondamentali UE, al diritto di asilo sancito dalle leggi internazionali e al dovere di accoglienza previsto dalla nostra Costituzione.
Con il Memorandum con il Governo libico, infatti, l’Italia si impegna a fornire strumenti e sostegno, sia economico che militare, ad un paese che di fatto non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, continuando a sottoporre le persone in fuga e intrappolate in Libia a trattamenti disumani e degradanti. Attualmente, sono centinaia di migliaia di migranti e rifugiati (oltre 300.000 secondo OIM) che si trovano in Libia, gran parte detenuti in centri che non rispettano gli standard stabiliti dal diritto internazionale e costretti a vivere in condizioni inumane, alla mercé di violenze e abusi di ogni sorta per mano delle forze dell’ordine, delle milizie, dei trafficanti e delle reti criminali. Campi che la stessa Commissione Europea definisce “inaccettabili e lontani dagli standard di rispetto dei diritti umani”, e che l’ambasciata tedesca ha definito “peggiori dei campi di concentramento”, denunciando esecuzioni, torture e stupri al loro interno.
Gabriella Guido (LasciateCIEntrare): “L’Europa delega la gestione del diritto di asilo ad un Paese che, di fatto, non lo riconosce. La Libia, infatti, non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.” E precisa: “L’assenza di un sistema di asilo in Libia impedisce alle persone in cerca di protezione internazionale di vedere la propria richiesta esaminata secondo procedure eque conformi al diritto internazionale dei rifugiati. Un memorandum illegale, quanto vergognoso, concluso peraltro con un “referente” politico non riconosciuto e che ancora di fatto non governa l’intero Paese. Le immagini dei migranti fermati dalla flotta libica e riportati indietro, tra i quali donne e neonati, sono le immagini per le quali un giorno l’UE verrà condannata per crimini contro l’umanità.”
La CEDU - Corte europea dei Diritti Umani - si è già pronunciata nel 2012 sui respingimenti in mare effettuati dal nostro paese verso la Libia di migranti condannando l’Italia per la violazione del divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti, l’impossibilità di ricorso, il divieto di espulsioni collettive e la violazione del principio di non-refoulement.
Questo accordo non è che l’ennesima dimostrazione della volontà dei leader europei di voltare le spalle ai rifugiati.
Ma questo punto ci chiediamo: esiste davvero differenza tra i muri di Trump e le navi militari europee? Nei giorni scorsi alla Valletta è andata in scena l’ennesima farsa dell’Europa e dei suoi leader politici che criticano a gran voce i provvedimenti USA ma si preparano a fare di peggio.
L’Italia revochi immediatamente il memorandum e fermi i rimpatri: impedire alle persone di lasciare Paesi non sicuri o costringerle a ritornarvi, equivale a sancire la loro vita e la loro morte.
Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg. i numerosi articli di Alex Zanotelli, Guido Viale, Filippo Miraglia, Luigi Manconi, Carlo Lania, Ilaria Boniburini, Alberto D'Argenio, Leo Loncari, nelle cartelle 2017 Accoglienza Italia e 2015. EsodoXXI
il manifesto, 4 febbraio 2017
«Il muro di Malta. Via al piano italiano per fermare le carrette in partenza dalla Libia. Soldi e mezzi al leader libico, che però non controlla il paese»
A questo punto c’è solo da sperare che la stretta sui migranti voluta dall’Europa per impedire loro di partire dalla Libia, non finisca per soffocarli. Il rischio non solo esiste, ma è anche probabile se non addirittura scontato.
Il primo passo perché questa accada è stato fatto ieri nel vertice dei capi di Stato e di governo che si è tenuto a Malta. I 28 leader europei hanno sostenuto il piano messo a punto dall’Italia Roma e che prevede di affidare alla Guardia costiera libica il compito di riportare indietro i barconi carichi di disperati, mentre le navi della missione europea controlleranno dal limite delle acque internazionali. Sono inoltre previsti aiuti economici sia alle comunità locali costiere, che alle tribù che popolano il sud del paese e che l’Unione europea spera di coinvolgere nel contrastare i migranti provenienti dal Corno d’Africa attraverso Ciad e Sudan.
Tribù nomadi che, ha ricordato ieri il premier maltese Jospeh Muscat, oggi guadagnerebbero fino a «sei milioni a settimana» aiutando le organizzazioni criminali che trafficano in migranti e con le quali, sempre secondo Muscat, sarebbero già stati avviati dei contatti. In che modo questa gente potrà fermare i migranti, sembra essere per tutti un problema secondario. E questo anche se la Ue si impegna a migliorare le condizioni di vita dei centri nei quali migliaia di migranti vengono tenuti prigionieri, anche con l’aiuto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma mentre l’Oim già la prossima settimana potrebbe essere a Tripoli per effettuare i primi sopralluoghi, qualche resistenza ci sarebbe da parte dell’Unhcr. Non ha caso ieri l’organismo dell’Onu ha sottolineato i rischi di un piano che si limita a parlare genericamente di migranti senza considerare la posizione dei rifugiati.
Per finire ci sono poi i capitoli relativi alla fornitura di mezzi (sono previste otto motovedette per la futura guardia costiera insieme a droni per il controllo delle frontiere, equipaggiamenti, infrastrutture e training di addestramento) e al finanziamento del piano. E qui si rilevano altri problemi. In attesa che il parlamento europeo decida sui fondi da stanziare per i migration compact (fino a 40 miliardi di euro) per ora di fatto ci sono solo 200 milioni di euro. Pochi, come non ha mancato di far notare il premier libico Fayez al Serraj parlando nei giorni scorsi sia con il premier italiano Paolo Gentiloni che con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.
Proprio Gentiloni ieri a Malta non tratteneva la soddisfazione per i consensi ricevuti dai partner europei al piano italiano. In realtà quella di Roma e Bruxelles è una scommessa dagli esiti molti incerti. Intanto perché tutto si basa sulla tenuta di Serraj, nella speranza che il riconoscimenti che gli arrivano da interlocutori internazionali possano aiutarlo a rafforzarsi. Ammesso e non concesso che questo avvenga si tratta sempre di un premier che controlla un’area ristrettissima del paese. E anche la nuova Guardia costiera libica, che da ottobre viene addestrata dalla missione europea Sophia, potrà controllare solo poche miglia delle coste libiche.
C’è poi il problema non trascurabile della sorte dei migranti. Che fine fanno quelli riportati indietro dalla Marina libica? Serraj può garantire l’accesso alle organizzazioni internazionali solo in una minoranza dei 24 centri di detenzione presenti nel paese, quelli che si trovano in Tripolitania, regione solo in parte controllata dal governo di accordo nazionale che presiede. Tutti gli altri, compresi le centinaia di magazzini e hangar dove i trafficanti tengono prigionieri in condizioni disumane uomini, donne e bambini, sono e restano fuori controllo. Senza contare che, proprio in vista di un’attuazione del piano europeo, le bande criminali stanno già organizzando nuove rotte, compreso un passaggio a est della Libia nella parte controllata dal generale Haftar amico dell’Egitto e della Russia. Mettendo così di fatto il traffico di migranti nelle sue mani. E rendendo così l’Europa più ricattabile di quanto non lo sia oggi.
Nel vertice di La Valletta i 28 si sono trovati d’accordo nell’intensificare i rimpatri dei migranti irregolari (ma accordi in tal senso esistono solo con quattro paesi), sorvolando però sui ricollocamenti europei ancora al palo. Una «rigidità», come l’ha definita lo stesso Gentiloni, sulle quali l’Europa non sembra intenzionata a cedere. All’ultimo minuto, invece si è riusciti a cancellare dal documento finale del vertice ogni riferimento alla riforma di Dublino. La formula utilizzata inizialmente non piaceva all’Italia che è riuscita a farla togliere grazie all’aiuto del premier greco Tsipras. La proposta che gira da tempo in Europa continua a penalizzare i paesi di primo sbarco contrariamente a quanto vorrebbero Italia, Grecia e la stessa Malta. Ma su questo l’unanimità dimostrata dai leader nel fermare i disperati in Libia, si subito persa.
il manifesto, 3 febbraio 2017
PARIGI- Inizia con una seduta di lavoro sulle migrazioni nel Mediterraneo centrale – cioè dalla Libia verso l’Italia – il vertice informale dell’Unione europea, oggi a Malta. Tutti i 28 saranno attorno al tavolo, mentre la Gran Bretagna, dopo il pranzo dedicato alla situazione internazionale, sarà esclusa dalla discussione del pomeriggio, a 27, sul seguito da dare dopo l’incontro di Bratislava, lo scorso settembre, in vista del vertice di Roma del 25 marzo, per i 60 anni della costruzione europea. Conciliare l’impossibile: una riflessione sui “valori”, che vanno sottolineati e anche rilanciati in questo periodo di crisi e di sfide accresciute con Trump, mentre in pratica c’è la ricerca del modo più efficace per impedire ai migranti di imbarcarsi verso l’Europa, facendo ricorso con Frontex ad attività operative civili e militari.
Ieri, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha affermato che “il flusso di migranti dalla Libia verso l’Europa non è sostenibile”. Bisogna agire e il “modello” è l’azione tra Turchia e Grecia, anche se tra i paesi membri c’è chi non nasconde che la situazione umanitaria in Grecia resta preoccupante per i migranti: “l’Europa ha dimostrato di essere in grado di chiudere le rotte di immigrazione illegale, come ha fatto nel Mediterraneo orientale”, ha pero’ affermato Tusk a Bruxelles, dove ha ricordato di aver “discusso di questo esempio” con il governo italiano, perché “è ora di chiudere la rotta tra Libia e Italia”. Per Tusk, “il piano è a nostra portata, abbiamo solo bisogno di una piena determinazione per realizzarlo”.
Dopo un incontro con il libico Fayez al Sarraj a Bruxelles, ha promesso per oggi a Malta “misure operative”. Nelle principali capitali sono pero’ molto più prudenti. Quando la Germania ha deciso di concludere un accordo con la Turchia, Erdogan non aveva ancora portato l’affondo definitivo contro la democrazia anche se ieri Merkel ha visto il sultano turco diventato dittatore senza troppi stati d’animo. Per la Libia non c’è nessun fragile paravento di rispettabilità, una cooperazione diretta con il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj è complicata, anche se ha il sostegno dell’occidente, la Libia resta un paese non sicuro, c’è il conflitto con l’esercito del generale ribelle Khalifa Haftar (sostenuto da Egitto, Emirati, Russia) e l’Onu si allarma per il trattamento inumano dei migranti sul posto.
La dichiarazione di oggi a Malta cercherà cosi’ di conciliare l’impossibile: ricordare i “valori” (rispetto del diritto internazionale, umanitario ecc.) e proporre alcune misure, che saranno soprattutto un ampliamento di quelle già in parte in atto (formazione di guardiacoste, equipaggiamento, sostegno ai comitati locali sulla strada dei migranti, aiuto alle organizzazioni internazionali che operano sul posto). La Ue si interessa anche alle frontiere della Libia, da cui entrano i candidati all’emigrazione in Europa: da mesi si è intensificata la cooperazione con il Niger, da cui passa l’80% dei flussi (500 milioni di euro in cooperazione), verrà evocata la collaborazione con Tunisia e Egitto, l’aiuto allo sviluppo per Mali, Nigeria, Senegal, Sudan, con l’obiettivo di “scoraggiare” le partenze. Nella dichiarazione finale c’è un riferimento a un “migliore ritorno” dei migranti espulsi o caldamente invitati ad andarsene (alcuni paesi versano somme in denaro). Il problema è che molti paesi, Tunisia compresa, mettono ostacoli alla riammissione dei loro cittadini.
I 27 cercheranno un fronte unito di fronte alla Brexit, anche se c’è l’intenzione di evitare che questa questione assorba tutte le energie. Malta è una tappa intermedia, verso il Consiglio del 9 marzo (e poi a giugno), dove dovranno essere prese decisioni sulla difesa comune: le “tappe” per uno stato maggiore permanente, il funzionamento della rivista annuale di difesa, un aumento dei finanziamenti, dei programmi di ricerca comuni, un processo che dovrebbe venire concluso entro il 2020 e che dovrebbe essere potenziato, vista la sfida di Trump, sia per l’integrità e l’esistenza stessa della Ue, che per la Nato. Francia e Germania sperano di convincere i reticenti, il gruppo di Visegrad e i Baltici, finora aggrappati alla Nato ma che si sentono traditi da Trump. Francia e Germania vorrebbero anche convincere sulla difesa del libero scambio e degli obiettivi della Cop21 per far fronte al disordine climatico. Ai paesi del sud in crisi, la Commissione offrirà un Libro bianco, pronto per metà marzo, dove verrà promesso per la zona euro “stabilità, convergenza e crescita”.
Il razzismo di stato del neo presidente degli Usa dimostra che i principi della democrazia moderna non sono dati una volta per tutte. Avere un sistema democratico dotato di strumenti di controllo, pesi e contrappesi, non è di per sé sufficiente a impedire che si affermino nuove forme di fascismo. Il turbo capitalismo finanziario non solo mina i principi delle costituzioni democratiche, a partire dal principio di uguaglianza, ma punta ad affermare modelli che sono l’esatto contrario della democrazia.
In un sistema democratico ciò che conta è che chiunque vinca le elezioni garantisca i diritti di tutti, in primo luogo quelli delle minoranze. I giudici da soli non possono rimediare ai guasti della politica, come si vede nel caso dei provvedimenti firmati da Trump, contro i quali si è per fortuna levata una grande protesta popolare.
Intanto cresce la rabbia di chi ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita, rabbia che viene strumentalmente indirizzata verso l’immigrazione e il mondo islamico, vittime di continue campagne razziste e oggi principali capri espiatori nel dibattito pubblico. In Europa e in Italia ci sono state reazioni anche molto critiche alle decisioni del presidente americano, mentre la destra xenofoba si augurava che simili misure venissero adottate anche da noi.
Le istituzioni europee e i governi, al di là delle parole di sdegno, in realtà stanno da tempo muovendosi nella stessa direzione. L’accordo con la Turchia è servito a impedire ai rifugiati siriani e iracheni (due dei Paesi colpiti dal provvedimento di Trump) di arrivare in Europa. Venerdì prossimo, a La Valletta, capi di Stato e di governo dell’Ue s’incontreranno per discutere di flussi migratori nel mediterraneo centrale.
L’obiettivo, dopo aver chiuso la rotta balcanica, è quello di chiudere anche la rotta che passa dalla Libia, stanziando 200 milioni di euro per formare ed equipaggiare la guardia costiera libica e per favorire i ritorni volontari dei migranti verso i Paesi d’origine. Un finanziamento che viene ipocritamente presentato all’interno di un quadro di cooperazione internazionale.
La verità è che, come per l’accordo con la Turchia, si vogliono esternalizzare le nostre frontiere, chiedendo all’instabile governo libico di fermare l’immigrazione per conto dell’Ue. E presentando questa operazione come una forma di aiuto ai Paesi d’origine o transito dei migranti.
In questo quadro, il Fondo italiano per l’Africa, così come in generale gli aiuti allo sviluppo, rischiano di diventare lo strumento per finanziare accordi con governi o regimi che si impegnino ad attuare politiche aggressive di controllo delle frontiere e contenimento dei flussi. Questa sarà probabilmente la linea che verrà confermata dal prossimo vertice a La Valletta, un favore ai regimi dittatoriali e ai trafficanti di esseri umani.
I fondi per la cooperazione dovrebbero invece essere condizionati al rispetto dei diritti umani, introducendo per legge una clausola in tal senso. Non si vuole prendere atto che l’emigrazione rappresenta, con le rimesse e con le relazioni che s’innescano, il principale fattore di sviluppo delle comunità locali nei Paesi di provenienza. Bisogna scegliere se promuovere quella legale o favorire quella irregolare, come è stato finora.
E importante che il governo italiano usi il Fondo Africa per far fronte alle cause che determinano i fenomeni migratori, sostenendo attivamente le comunità locali, incentivando le loro economie, producendo occupazione, difendendo i diritti umani.
Va valorizzato il ruolo delle Ong (Organizzazioni non governative) come soggetti attuatori delle azioni di solidarietà, aiuto umanitario e di sviluppo comunitario che il Fondo metterà in campo. Deve essere garantito l’accesso alla procedura d’asilo a chiunque ne faccia richiesta, così come prevedono la legge e la Costituzione. È infine necessario che il Parlamento vigili attentamente sui contenuti del decreto d’implementazione del Fondo per l’Africa e in particolare sugli aspetti che riguardano i diritti e le libertà delle persone.
Si impedisca all’Ue di criminalizzare le organizzazioni umanitarie che operano al largo della Libia per mettere in salvo le persone in cerca di protezione e si cancelli qualsiasi forma di guerra ai migranti praticata impiegando le nostre forze armate o quelle di altri Paesi. Solo realizzando canali d’ingresso sicuri e legali si può salvaguardare la vita delle persone, combattere scafisti e trafficanti, fermare la tragica conta delle morti nel Mediterraneo.
«L'iniziativa. Accordo con sette sindacati dei paesi mediterranei, presenti anche i rappresentanti di quattro religioni. Barbagallo: «I lavoratori possono fare da pacificatori e sostenere lo sviluppo». La sindaca Nicolini: La nostra isola simbolo di accoglienza è un orgoglio»
Stop ai muri e alle barricate, l’Italia, l’Europa, i paesi mediterranei devono allearsi per un’accoglienza intelligente e solidale dei migranti. Il messaggio arriva da Lampedusa, dove ieri si è tenuto «Per un mare di pace e di lavoro», iniziativa della Uil con i sindacati di Israele e della Palestina, Tunisia (con Hassine Abbassi, premio Nobel 2015 per la Pace), Algeria, Marocco, Egitto, Libia (con Nermin Sharif, la prima donna leader di un paese del Nord Africa). Con loro anche i rappresentanti di quattro religioni. Gli otto sindacati hanno firmato l’Accordo di Lampedusa, che oltre ai principi contiene anche iniziative concrete.
L’Accordo di Lampedusa chiede alla Ces (confederazione europea dei sindacati) di «proporre all’Unione europea l’istituzione di un Fondo in cui tutti i Paesi membri facciano confluire risorse derivanti da forme di solidarietà fiscale – sul modello dell’8 per mille – da destinare alla realizzazione di progetti idonei a creare lavoro in quelle zone prostrate dall’indigenza, dalla povertà e dalla guerra. La Ue dovrà farsi carico del coordinamento e della gestione di tale attività di sostegno alla crescita».
La Uil, dal canto suo, ha preso un ulteriore impegno, da realizzare nei diversi paesi grazie alla collaborazione dei sindacati ospiti: istituirà uffici o punti di Patronato, con l’obiettivo di limitare i casi di immigrazione offrendo assistenza e tutela alle persone coinvolte. Verrebbero poi realizzati, in loco, «corsi di formazione per l’apprendimento di specifiche mansioni o di rudimenti e tecniche di auto-imprenditorialità che i lavoratori formati potrebbero mettere a frutto, quando le condizioni lo consentissero, nei Paesi di origine o, secondo indirizzi preventivamente individuati, in Paesi dell’Unione europea».
«Per un mare di pace e di lavoro» verrà replicato ogni anno in uno dei paesi firmatari, possibilmente lo stesso 2 febbraio, ma c’è l’obiettivo di allargare la sua rete anche ad altri paesi del Mediterraneo come Spagna, Grecia e Turchia, e agli altri sindacati italiani.
«Non si possono sperperare risorse per la costruzione di muri e barriere – ha spiegato il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo – Bisogna puntare al contrario sulla cooperazione, la partecipazione e l’inclusione. Solo così cominceremo ad aprire una nuova strada per la pace, la coesione e il lavoro nel mondo. La Uil ha lanciato un progetto di cooperazione con quegli stessi paesi da cui i migranti sono costretti a fuggire per i conflitti, la povertà e la fame. Il sindacato può e deve assumersi le proprie responsabilità, svolgendo il ruolo di pacificazione e di sviluppo economico».
Se si riuscirà a creare il Fondo europeo sollecitato dal sindacato, esso si andrà ad aggiungere ad altre importanti iniziative per i migranti finanziate proprio dall’8 per mille: come i già collaudati Corridoi umanitari messi in campo dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche e la Chiesa valdese.
L’Accordo di Lampedusa è stato salutato con favore dalla sindaca dell’isola, Giusi Nicolini: «Siamo persone normali, cittadini, pescatori, gente che vive di turismo – ha detto – Un’isola da cui anche gli abitanti volevano scappare. Ma oggi c’è il nostro orgoglio: l’orgoglio che come sindaco ho della mia isola e della mia gente. Lampedusa oggi è un ponte, è un esempio – ha concluso – e può dare un esempio diverso. È stata lasciata sola in Europa, e sola nel suo contesto nazionale, dove ogni giorno vediamo l’esempio di altre città che invece fanno barricate. Di accoglienza non si muore».
il manifesto, 2 febbraio 2017
Mezzi, tecnologie e addestramento delle forze di sicurezza di Libia, Niger e Tunisia in cambio dell’impegno da parte dei tre paesi africani a fermare le partenze dei migranti. La logica del «do ut des», avviata con l’accordo firmato un anno fa tra Unione europea e Turchia, comincia a estendersi concretamente anche in Africa. L’iniziativa, però, questa volta è del governo italiano che pur di riuscire a mettere un argine agli sbarchi di migranti sulle nostre coste ha creato un nuovo Fondo per l’Africa nel quale per ora sono stati stanziati 200 milioni di euro, soldi che vanno a sommarsi ai 430 milioni già previsti per la Cooperazione.
Ad annunciare l’iniziativa è sotto ieri Angelino Alfano «Noi diamo una mano nel finanziare sviluppo e attività di controllo, ma in cambio chiediamo una mano per diminuire le partenze» ha spiegato il ministro degli Esteri annunciando l’intenzione di arrivare in futuro ad accordi simili anche con Nigeria, Senegal, Egitto ed Etiopia.
Per il governo Gentiloni è sempre più urgente riuscire chiudere la rotta del Mediterraneo centrale attraversata dai migranti. Per questo i tre paesi africani destinatari dei finanziamenti risultano fondamentali. Dalla Tunisia partono molti dei barconi diretti in Sicilia, mentre il Niger è uno snodo centrale per chiunque tenti di imbarcarsi dalla Libia. Chiudere le frontiere di questi Stati significa creare un grosso ostacolo ai migranti. Come poi i governi locali adempiranno allo scopo è qualcosa che non sembra interessare Roma. «Loro dovranno dirci di cosa hanno bisogno e noi lo finanzieremo, gli daremo una mano nel controllo delle frontiere», ha aggiunto Alfano.
Certo, sulla carta il rispetto di diritti umani di quanti fuggono da dittature o miseria continua a essere fondamentale ma difficilmente eventuali controlli, sempre ammesso che ci saranno, metteranno in luce violazioni che già oggi sono all’ordine del giorno.
L’iniziativa della Farnesina arriva quando mancano ormai poche ore al vertice dei capi di stato e di governo che si terrà domani a Malta e durante il quale verranno decise le strategie europee per fermare il flusso di migranti. «Non c’è una soluzione tutta italiana al problema dei flussi migratori irregolari, occorre fare squadra con l’Unione europea, le agenzie specializzate dell’Onu e le Ong», ha proseguito Alfano.
Serraj, da ieri a Bruxelles, incontrerà oggi la rappresentante della politica estera della Ue Federica Mogherini per chiarire la fattibilità del piano europeo. E’ possibile che il leader libico si limiti a chiedere maggiori finanziamenti, visto che per ora l’Ue ha stanziato 200 milioni di euro. Oppure, ed è più probabile, sul tavolo c’è la fragilità del governo Serraj e di conseguenza l’impossibilità – al di là di inutili proclami – di garantire la fattibilità del piano di contrasto dei migranti. Così come, al di là delle rassicurazioni, è impossibile garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti in un paese dove pestaggi, stupri e violenze sono all’ordine del giorno.
Seppur poco affezionato al contributo dato dalle statistiche ufficiali e radicalmente orientato ad approcci di tipo qualitativo mi sembra doveroso partire da un elemento quantitativo che emerge dall’ultimo rapporto di Frontex sui flussi migratori che interessano l’Europa1. Pur presentandosi come un dato consistente non è quello degli sbarchi sulle coste italiane durante il 2016 (181.436) a colpire principalmente l’attenzione.
L’Europa si trova in una posizione di sostanziale marginalità strategica rispetto a una situazione geopolitica che con un forte acuirsi di guerre e situazioni di alta conflittualità sociale e militare sta interessando l’Africa centro-settentrionale ed il Medioriente. Questa ormai conclamata perdita di centralità si accompagna ad una tendenziale assenza di una progettualità politica strutturata a livello delle istituzioni europee nella governance dei movimenti migratori che interessano i confini esterni e quelli interni del vecchio continente.
Se una politica migratoria coerente e condivisa dagli Stati membri e dalle varie istituzioni transnazionali è difficilmente individuabile la gestione di questi fenomeni sembra delegata a soluzioni, anche molto radicali, contingenti ed estemporanee come l’accordo con la Turchia che viene costantemente richiamata per la sistematica negazione dei diritti umani, ma risulta utile, come dimostra il dato richiamato prima sul crollo degli arrivi in Grecia, per bloccare i flussi, soprattutto dalla Siria.
Per quanto riguarda invece la rotta meridionale un primo tentativo di filtrare gli imbarchi dalla Libia avviene attraverso il rafforzamento dei campi libici dove notizie di violenze, torture e stupri sono all’ordine del giorno, mentre il rafforzamento degli Hotspot rappresenta una soluzione per il contenimento e la ricollocazione disciplinata di chi riesce a raggiungere le coste italiane.
La governance europea rappresenta oggi un mosaico di equilibri e strategie abbozzate in modo controverso e spesso contraddittorio dove razzismi del tutto istituzionalizzati, separatismi, ordoliberismi appena farciti da logori welfarismi, populismi di varia natura e radicali antieuropeismi convivono come separati in una casa che di certo ha abbandonato un’idea forte di politica di progresso e di modernità. La direzione intrapresa per arginare una potenza soggettiva immensa che di fatto ridisegna le sembianze del territorio europeo è quella di de-localizzare in Turchia e in Libia i confini stessi dell’Europa, sigillare con brutalità il perimetro esterno orientale (con un conseguente utilizzo sempre più sporadico della logica dell’inclusione differenziale) e costituire infiniti confini interni.
I movimenti migratori di cui parliamo qui non sono entità astratte o trascendentali, ma materialmente animate da centinaia di migliaia di soggetti che rappresentano certamente un potenziale bacino di forza lavoro a bassissimo costo oltre a prefigurarsi come esercito di riserva per minare ulteriormente la capacità di negoziazione dei lavoratori, ma allo stesso tempo minacciano gli interessi produttivi e finanziari di una frastagliata elite capitalistica europea che dovrà fare i conti con nuove possibili rivendicazioni legate proprio al tema del reddito e del lavoro e dell’universalizzazione del welfare.
Il moltiplicarsi di muri, recinti, presidi militari, Hotspot, canali forzati di transito e centri straordinari per l’accoglienza è animato, come hanno ben sottolineato a diversi livelli Martina Tazzioli e Francesco Ferri2, dalla finalità di contenimento e dispersione della reale e potenziale carica conflittuale della soggettività migrante che si presenta sempre più come una forza costituente transnazionale.
La situazione italiana ci può indicare il senso di questo tipo di approccio al fenomeno delle nuove migrazioni.
Il Ministro degli interni Marco Minniti ci ha messo poco per mettere a punto il primo provvedimento coerente con la sua “sinistra” carriera. Parliamo della riattivazione e della moltiplicazione dei CIE nell’ottica di rendere più efficaci le procedure di identificazione ed espulsione dei migranti irregolari. Il quadro pubblico-mediatico è ormai quello in cui gli ultimi attentati terroristici in Germania e Turchia ed episodi come la drammatica morte di Sandrine Bakayoko nell’hub di Cona, con la relativa rivolta di centinaia di ospiti della struttura, vengono naturalmente collegati tra loro e presentati come segnali della forte minaccia rappresentata dai processi migratori che interessano l’Europa. Era forse dai tempi delle “war on terror” seguita all’attacco delle Torri Gemelle che i dispositivi di controllo non attingevano così diffusamente alla qualifica di “potenziale terrorista” per stigmatizzare e tenere sotto pressione la popolazione migrante.
Le parole del procuratore aggiunto della procura di Venezia Carlo Nordio che, interpellato sulla morte di Sandrine in quanto titolare dell’inchiesta che porta avanti le indagini, parla di possibili strutture criminali organizzate nei campi di accoglienza e di possibili infiltrazioni terroristiche ci trasmettono un’idea chiara della situazione. Le sue sono allusioni assolutamente generali ed estemporanee, ma capaci di produrre senso comune, e vengono presentate sulla stampa in totale assenza di dettagli investigativi e specifiche ipotesi di reato. Quello che più ci interessa è il modo particolarmente diretto con cui il procuratore stesso ci illumina sull’operazione in atto quando interrogato da un giornalista di Repubblica sulle ragioni di tali riferimenti a crimine e terrorismo risponde in questo modo:
«Alcuni sembrano molto pacifici e interessati a vivere nella legalità accettando le regole dell’accoglienza, altri appaiono più violenti e fomentatori. I primi sono collaborativi, i secondi no. Dobbiamo capire perché».
Raramente la retorica che contrappone l’immigrato buono da quello pericoloso è stata così ben descritta da un importante attore istituzionale che ricordiamo ha sempre gravitato nell’area del centro-sinistra italiano. La logica di criminalizzazione che sembra imporsi in questa fase vede dunque la separazione tra chi subisce in silenzio le angherie tipiche dell’attuale sistema di accoglienza ed è dunque meritevole di essere lasciata lì dov’è rischiando ogni giorno di ammalarsi o morire e chi si lamenta o si ribella allo stato di cose etichettato come criminale e potenziale terrorista.
Per trovare una conferma di questa tendenza torniamo a Minniti il quale dichiara alla stampa che i nuovi CIE che verranno attivati non coinvolgeranno tutti gli irregolari ma soltanto quelli considerati “socialmente pericolosi” e ci tiene ad aggiungere, a conferma della forte esigenza in Italia di manodopera ricattabile e dunque a basso costo, che di certo non ci verranno portate le badanti irregolari. Viene di nuovo esplicitato che questo nuovo sicuritarismo risponde direttamente all’esigenza di effettuare una selezione stigmatizzante attraverso la criminalizzazione di chi non si rassegna alle inaccettabili condizioni nelle varie tappe dell’accoglienza e la tolleranza caritatevole verso chi accetta in silenzio e passivamente violenze, umiliazioni e privazioni sistematiche della libertà.
Quello che si va pericolosamente delineando in Italia sembra dunque assumere le sembianze di un nuovo frame sicuritario estremamente grezzo connotato da orientamenti dichiaratamente essenzialisti xenofobi e razzisti che tende a imporre un ordine discorsivo e delle politiche di controllo finalizzate a contenere e neutralizzare e prevenire, attraverso l’illusoria logica della deterrenza, le diffuse resistenze dei migranti: rifiuto di lasciare le impronte digitali negli hotspot, proteste e ribellioni alle condizioni nei campi di accoglienza, indisponibilità a rinunciare alla loro autodeterminazione negata dai regolamenti di Dublino e quella a sottostare a forme di lavoro schiavistico e ipersfruttato.
Non ci scordiamo certamente il carattere forzato di questi movimenti legato alle condizioni di estrema deprivazione e ingiustizia che caratterizzano i luoghi di partenza per non parlare dei bombardamenti e delle guerre in corso a variabile intensità, guerre sempre più asimmetriche e a geografia mobile.
Un esempio ancora più territorialmente situato, la gestione dell’accoglienza nel territorio Veneto ed in particolar modo a Padova e Provincia, aggiunge ulteriori elementi di analisi e di comprensione della situazione in corso. Anche qui partiamo da un dato numerico. Secondo il “Rapporto sulla protezione internazionale 2016”3 al mese di ottobre del 2016 in Veneto su 14.754 richiedenti asilo presenti su territorio 11.426 trovavano posto nei vari CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e soltanto 500 nel sistema SPRAR, con un’incidenza di quest’ultimo del 4.3%.
I richiedenti asilo incontrati nel corso di una inchiesta in corso sulle forme dell’accoglienza nel territorio padovano, spesso protagonisti di forme autorganizzate di protesta con cortei e blocchi stradali nelle aree circostanti i campi che li ospitano dove ricordiamo rimangono anche per un anno intero, denunciano la qualità scadente del cibo causa di diffusi problemi gastro-intestinali, la pressoché assenza di servizio medico e di medicinali ( l’unica soluzione esistente è la distribuzione massiccia di paracetamolo!), la mancanza totale di fornitura di vestiti (alcuni ragazzi a diversi mesi di distanza dall’approdo hanno addosso ancora i vestiti e le scarpe con cui hanno affrontato il viaggio verso l’Europa) e l’insufficienza di servizi igienici ( in diverse occasioni abbiamo visto fossati scavati all’aperto che fungevano da vespasiani).
Negli ultimi due anni il Governo si è limitato a potenziare gli Hotspot per garantire le regole di Dublino (ricordiamo che i piani di “ricollocamento” stabiliti recentemente dalla Commissione Europea sono tuttora del tutto disattesi nella pratica) e a collocare gran parte di queste persone in strutture emergenziali attraverso bandi di assegnazione privi di meccanismo di controllo: questi bandi hanno evidentemente agevolato quel “business umanitario” le cui caratteristiche cominciano finalmente a venire a galla ed interessare anche il dibattito pubblico mainstream anche per le sue connessioni con le note faccende di “Mafia Capitale”.
Eccoci al secondo elemento. Sono alcuni settori del capitalismo veneto, fortemente segnato da corruzione e familismo clientelare, a sostenere finanziariamente questo tipo di gestione emergenziale dell’accoglienza4. Parliamo di veri monopoli (vedi la Cooperativa Ecofficina oggi rinominata Edeco) che nonostante diverse inchieste giudiziarie in corso continuano a gestire grandi centri come quello di Conetta e di Bagnoli e dunque a essere al centro di dinamiche di speculazione che riguardano introiti e giri di capitali di grande volume. Basti ricordare che il fatturato di Ecofficina-Edeco negli ultimi 4 anni, e dunque da quando si è prettamente occupata di accoglienza, è passato da 114 mila euro e circa 10 milioni di euro.
Infine troviamo un fatto di una certa rilevanza dal punto di vista politico, ma anche tecnico-burocratico, e cioè l’indisponibilità di gran parte delle amministrazioni comunali venete a prevalenza leghiste a fare la loro parte ad esempio mettendo a disposizione risorse per attivare forme di accoglienza diffusa o partecipando ai bandi SPRAR, soluzioni che potrebbero senz’altro rappresentare una svolta importante.
Questo incrocio di interessi economici e orientamenti politici ha come conseguenza materiale il collocamento di migliaia di Richiedenti Asilo in una posizione di estremo disagio e marginalità a cui si aggiunge una infame ricattabilità a cui sono sottoposti nell’attesa della riposta della Commissione Territoriale che giudica le loro domande di Asilo. Molti avvocati e operatori di piccole strutture ci riportano la tendenza sempre maggiore di queste Commissioni a giudicare non tanto in base a un già discutibile metro di misura legato alla storia migratoria del soggetto, ma al suo comportamento più o meno “adeguato” successivo all’approdo in Italia. Ecco di nuovo, nel vivo delle procedure territoriali, il dispositivo di selezione tra migranti buoni e cattivi orientato violentemente a colpire chi protesta e si batte per strapparsi porzioni di libertà.
C’è però un’altra dimensione, più simbolica, ma di certo non priva di effetti anche violentemente materiali, toccata fortemente dalle attuale approccio al fenomeno delle migrazioni e cioè quella dei populismi che sempre più vanno radicandosi in Italia e altrove. La recente tendenza che vede in campo sempre più strutturalmente queste soluzioni emergenziali di irretimento di migliaia di perone e una forte “accelerazione del processo di risemantizzazione del corpo migrante”5, presenza una base ideale per la cristallizzazione della rabbia e delle insicurezze degli autoctoni intorno alla presenza migranti e ai loro comportamenti.
Non è facile individuare il modo migliore per accompagnare, mettersi al servizio ed implementare la conflittualità, la “politicità” e la forza costituente di questi processi in corso nei nostri territori. Sicuramente bisogna partire intervenendo direttamente nei contesti locali e nel farlo la condizione principale è quella di trovare ogni soluzione per interagire e relazionarsi con continuità con i migranti stessi. È la loro voce diretta e la valorizzazione della molteplicità di necessità e desideri in campo, opportunamente amplificate attraverso reti territoriali che la sappiano fare irrompere nel dibattito pubblico, a dover veicolare la potenzialità politica delle nuove rivendicazioni soggettive che già attraversano i territori in cui viviamo.
La costruzione di reti cittadine allargate che abbiano la forza di chiedere la chiusura immediata dei grandi concentramenti in cui vivono i richiedenti asilo si presenta ormai come una battaglia politica improrogabile. In termini pratici e concreti quello di chiedere l’allargamento dei progetti SPRAR attraverso il coinvolgimento delle amministrazioni comunali e, nella prospettiva di una sua cancellazione, di rivoluzionare l’accoglienza temporanea con un utilizzo esclusivo di strutture qualificate di piccole e medie dimensioni (dove la preparazione degli operatori e la presenza di programmi di “inclusione” spazzino via la logica assistenziale e caritatevole) sono obiettivi minimi che parlano direttamente delle condizioni materiali di vita dei migranti, ma contemporaneamente si presentano come condizione necessaria per cercare di neutralizzare l’offensiva razzista e xenofoba.
In questo senso le sperimentazioni “neo-municipaliste” in corso in alcuni territori, e quelle in divenire, dovranno necessariamente misurarsi con questi nodi ed avere la capacità di imporre in tutte le discussioni cittadine il tema della libertà e dei nuovi diritti dei migranti e la progettazione di nuovi percorsi di una cittadinanza attiva. I populismi si possono sconfiggere non assumendo i loro angusti frame di riferimento, ma avanzando un’idea degli spazi urbani e metropolitani fortemente segnata dalla capacità di soggettività diverse di cooperare e costruire forme di lotta e innovazione sociale comuni attraverso la costruzione di linguaggi ed immaginari condivisi.
Sarebbe infine necessario non scordarci della nostra attitudine, per nulla utopica, a elaborare rivendicazioni universalitistiche e “ricompositive” situando proprio dentro questi processi alcune battaglie come quelle per un permesso di soggiorno europeo per tutti i migranti che approdano o che già vivono sul territorio a prescindere dagli status normativi in cui sono costretti e quelle orientate alla conquista di un reddito minimo d’esistenza e di nuove forme di welfare universale.
La straordinaria mobilitazione di decine di migliaia di persone nelle metropoli e negli aeroporti contro l’executive order di Trump diventa per tutti noi un punto di riferimento importante non solo per la sua naturale vocazione anti-sovranista e anti-populista, ma anche alla luce della sua composizione moltitudinaria che vede ad esempio movimenti antirazzisti come Black Live Matters intrecciare in questi giorni le loro lotte insieme a quelle femministe per la libertà e l’autodeterminazione messe in scena il 21 gennaio con la women’s march on Washington.
1 http://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annula_Risk_Analysis_2016.pdf
2 http://www.euronomade.info/?p=8566; http://www.euronomade.info/?p=8521
3 http://centroastalli.it/wp-content/uploads/2016/11/Rapporto_protezione_internazionale_2016_SINTESI.pdf
4 http://ilmanifesto.info/ecofficina-lanima-nera-del-modello-veneto-fra-capannoni-dismessi-e-simulacri-industriali/; http://ilmanifesto.info/le-mani-sul-business-dei-profughi-ma-il-sistema-di-borile-c-non-e-inossidabile/; http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/03/venezia-tutte-le-ombre-su-chi-gestisce-il-centro-di-cona-indagini-per-truffa-parentopoli-e-la-cacciatada-confcooperative/3293882/
5 http://www.euronomade.info/?p=8638
«Ho inviato oggi a tutti i 1.524 sindaci della Lombardia la circolare interpretativa della legge sui luoghi di culto. Il documento contiene le indicazioni utili e necessarie per regolamentare la presenza di quei centri culturali islamici che, come emerso chiaramente in questi mesi, agiscono al di fuori delle regole svolgendo regolare attività di culto senza averne titolo. Si tratta a tutti gli effetti di moschee irregolari».
«La circolare - prosegue Viviana Beccalossi - dice chiaramente che i centri culturali nati dopo l'approvazione della legge, se prevedono nel loro statuto finalità religiose o, di fatto, svolgono regolarmente funzioni di luogo di preghiera, sono da equipararsi a tutti gli effetti a luoghi di culto e devono quindi sottostare alle norme previste. Quelli già esistenti prima del 2015, potranno svolgere attività legate al culto se previsto nella destinazione d'uso dell'edificio che ne ospita la sede che può essere concessa solo dopo una modifica del Pgt per inserire l'area nel piano delle attrezzature religiose».
«Se non si rispettano i requisiti previsti dalla Legge - conclude l'assessore Beccalossi - i sindaci possono intervenire per interromperne l'attività perché non è ammissibile continuare a chiudere gli occhi di fronte a magazzini, negozi, capannoni o appartamenti privati usati come moschee. Strutture prive di alcun tipo di controllo e spesso in disprezzo a ogni normativa vigente».