«L’ex Alimarket può ospitare fino a 480 persone quindi siamo a norma. Poi è chiaro che più aumenta il numero di ospiti, più la gestione diventa difficile. Rispetto a quello che potenzialmente potrebbe succedere è successo anche poco».
il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2017 (p.s)
I letti a castello sono ammassati gli uni vicini agli altri. Il caldo è asfissiante perché le finestre non ci sono. Quando piove, invece, com’è successo domenica, lo stanzone si allaga perché l’acqua viene fuori da sotto al pavimento. C’è chi parla di cimici, altri raccontano che i bagni non vengono mai puliti. A Bolzano trecento migranti vivono in un ex supermercato, si chiamava Alimarket. E’ lì che la Provincia di Bolzano li ha alloggiati, pagando un affitto di 39mila euro al mese al proprietario, un “prezzo congruo” secondo l’ente. Per i Cinquestelle, invece, «è inaccettabile che una Provincia ricca come Bolzano tenga così tante persone ammassate insieme in condizioni disumane», come dice al fattoquotidiano.it la consigliera comunale Maria Teresa Fortini. Per la Provincia, tuttavia, è tutto in regola: «In un anno ho visitato il centro 10 volte e rispetta gli standard accettabili di una struttura di quel tipo» assicura Luca Critelli, direttore della Ripartizione politiche sociali della Provincia.
Il centro di accoglienza bolzanino di via Gobetti è gestito da CroceBianca, Croce Rossa e Associazione Volontarius. Prima dell’allagamento di domenica era già finito sui giornali altre volte. Per esempio ad aprile quando erano scoppiate tre risse in pochi giorni. L’ultima, la più grave, aveva causato 10 feriti e portato a otto arresti. «La convivenza in un unico spazio di tante persone provenienti da molti Paesi diversi ha portato a questo – spiega la consigliera Fortini – tanto che è stato necessario istituire un servizio di vigilanza». Nella rissa erano coinvolti libici, marocchini, gambiani, afghani e pakistani. Un nigeriano aveva raccontato al quotidiano Alto Adige di essere “terrorizzato” per via della “presenza di armi all’interno della struttura”.
Ibrahima, un giovane senegalese che da quattro mesi vive nell’ex supermercato, ha iniziato a frequentare un corso di italiano: «Abbiamo tanti problemi - racconta al fatto.it - viviamo tutti in grandi stanze, dove fa molto caldo e non ci sono finestre. I bagni non vengono mai puliti, sono sempre sporchi». I letti sono uno attaccati, l’uno accanto all’alto, così la convivenza ravvicinata può creare attriti: «Le persone che vengono dai Paesi arabi non vanno d’accordo con chi viene dall’Africa centrale, con noi neri», spiega Ibrahima.
La consigliera M5s Fortini ha parlato anche con altri ragazzi dell’ex Alimarket «Mi hanno parlato della presenza di cimici - spiega - di pessime condizioni igieniche e di un’aria irrespirabile». Infine l’allagamento: «Quel giorno era allagata mezza Bolzano - replica Critelli - e i gestori del centro mi hanno assicurato che nel giro di qualche ora la situazione si è comunque risolta. Non credo che un paio di centimetri di acqua siano un problema esagerato». E gli ospiti del centro devono essere “attenti” con le loro lamentele, secondo i consigli del funzionario della Provincia: «Gli ospiti sono liberi di dire quello che vogliono - dice - Di solito però consigliamo loro di stare attenti a lamentarsi, perché la popolazione reagisce considerandoli degli ingrati».
Ad oggi ci sono circa 1600 profughi in Alto Adige, di cui 800 a Bolzano e più di 300 solo nel centro ex Alimarket. «La soluzione sarebbe distribuirli su tutti i Comuni della Provincia - propone Fortini - ma in molti si oppongono, specialmente ora che è periodo di turismo. Il risultato è che nel capoluogo qualche profugo finisce anche a dormire per strada». Stando ai dati di fine 2016, in Alto Adige sono operativi nell’accoglienza 18 Comuni, per un totale di 27 centri di accoglienza. «Anche noi preferiremmo avere solo strutture con 25-60 ospiti - spiega Critelli - ma per gestire un sistema di accoglienza serve almeno un centro con grandi numeri. L’ex Alimarket può ospitare fino a 480 persone quindi siamo a norma. Poi è chiaro che più aumenta il numero di ospiti, più la gestione diventa difficile. Rispetto a quello che potenzialmente potrebbe succedere è successo anche poco».
«Gentiloni cede alle destre e avverte l’Ue:"I porti italiani potrebbero essere chiusi alle Ong straniere che salvano i migranti"», Articoli di Giampiero Calapà da
il Fatto Quotidiano e Rachele Gonnelli da il manifesto. 29 giugno 2017 (p.d.)
il Fatto Quotidiano
L’ITALIA: “EUROPA BASTA,
VIETIAMO I PORTI ALLE ONG”
di Giampiero Calapà
Il governo Gentiloni minaccia l’Europa: situazione insostenibile, pronti a chiudere i porti agli sbarchi dei migranti salvati da navi di Ong battenti bandiera non italiana. Il sospetto è che la virata verso destra sia stata caldamente consigliata dal segretario del Partito democratico Matteo Renzi, dopo le disastrose elezioni amministrative che hanno rinvigorito la xenofobia della Lega nord. La certezza sono i numeri, sciorinati dal Viminale: nelle ultime 72 ore sono sbarcati sulle coste del Sud più di dodicimila migranti, salvati da 22 imbarcazioni di organizzazioni non governative, “la maggior parte delle quali – riferiscono dal ministero dell’Interno – battenti bandiera straniera”. Dall’inizio dell’anno c’è un aumento del 14 per cento rispetto al 2016: 73.380 contro 64.133 al 27 giugno (alla fine dell’anno scorso erano stati 181 mila). Il sistema di accoglienza è saturo ma saranno presto aggiunti 20 mila posti.
La reazione del governo Gentiloni è il piano, elaborato dal premier con Marco Minniti e con il ministro della Difesa Roberta Pinotti, eseguito dall’ambasciatore presso l’Unione europea Maurizio Massari; il commissario per le migrazioni, il greco Dimitris Avramopoulos (del partito conservatore Nuova democrazia) ha già ricevuto la lamentatio italiana: “È diventato ormai insostenibile che tutte le navi impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo approdino solo e soltanto in Italia. O Bruxelles fa qualcosa o i nostri porti saranno chiusi”.
Il premier Paolo Gentiloni prova a spiegare al congresso della Cisl: “Non per soffiare sul fuoco, ma per chiedere all’Europa che la smetta di girarsi dall’altra parte”. E Avramopoulos, postando la foto dell’incontro con l’ambasciatore Massari, risponde su Twitter: “Ho discusso con l’ambasciatore italiano del nostro sostegno verso il loro Paese a seguito dell’aumento degli arrivi. Gli Stati membri devono rendere concreti gli impegni presi nel Consiglio Ue sul Mediterraneo centrale”.
Per Gentiloni, poi, “l’Italia intera si sta muovendo per gestire quest’emergenza migratoria”, ma ormai la situazione è fuori controllo. Su questo la versione che il Viminale dà al Fatto è diversa: uno dei motivi della minaccia di chiusura dei porti dipende dal rifiuto della stragrande maggioranza dei Comuni italiani del piano di accoglienza stabilito con l’Anci (l’associazione nazionale delle città): solo 2.800 Comuni su ottomila hanno risposto positivamente al progetto “accoglienza diffusa, che permette di evitare concentrazioni di disagio in grossi centri come a Mineo, in Sicilia”. Inoltre, la diffidenza verso l’Ue è crescente, “perché dei quarantamila migranti – spiegano dal Viminale – che avrebbero dovuto essere ricollocati dagli altri Paesi europei dopo lo sbarco in Italia, nell’ultimo anno ne sono stati accolti solo settemila, questo è un accordo già in essere, disatteso mentre è stata sigillata la rotta balcanica riversando nel solo corridoio libico tutte le migrazioni verso l’E uropa ”
E non solo, a far maturare la decisione della minaccia all’Ue è stato anche un altro episodio, che coinvolge il più europeista dei capi di Stato attuali, almeno a parole, il francese Emmanuel Macron. “Cento migranti che avevano varcato il confine di Ventimiglia, tra Liguria e Francia, sono stati rispediti in Italia due giorni fa. Quel confine è militarizzato dai francesi che dispiegano una forza di elicotteri, polizia e sorveglianza impressionante”.
Dunque sono questi i fattori e gli episodi che hanno fatto maturare la scelta, oltre i motivi post-elettorali che hanno convinto anche il Nazareno, di questa “minaccia” all’Ue, che rischia di diventare, se messa in atto, soltanto una mannaia sulla pelle dei migranti rendendo impossibile il lavoro delle ong che li soccorrono nel cimitero Mediterraneo.
il manifesto
MSF: «SI VUOLE LASCIARLI
SULLE NAVI? GLI OBBLIGHI
INTERNAZIONALI SONO PRECISI»
di Rachele Gonnelli
«È vero che c’è un sensibile aumento delle persone che si imbarcano dalla Libia, lo vediamo ogni giorno e era previsto, ma non è possibile non salvarli, ci sono obblighi internazionali precisi». Michele Trainiti è il coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso della nave Prudence di Msf, Medici Senza Frontiere.
State vivendo un’emergenza sbarchi?
Sì, numeri importanti. Del resto le stesse Nazioni Unite hanno segnalato da tempo che ci sono 250 mila persone nei centri di detenzione libici pronte a partire verso l’Europa.
Se l’Italia chiudesse i porti all’attracco delle navi delle ong, cosa succederebbe?
Non abbiamo nessun tipo di comunicazione in questo senso, solo notizie rilanciate dai giornali, niente di concreto. Chiudere i porti sarebbe una non soluzione perché cosa potremmo fare? lasciare le persone sulle navi? e poi? Sono anni che aspettiamo una iniziativa dell’Unione europea per la ricerca e il soccorso delle persone in mare, un meccanismo ufficiale dedicato. Invece di fronte a un flusso storico, alla chiusura di altre rotte e alla mancanza di alternative di arrivo legale, ci sono sempre più partenze su questa che è la tratta più pericolosa di tutte del Mediterraneo centrale.
Perché sempre più migranti in arrivo dalle coste libiche? Sono aumentati i fattori che li spingono, come dice l’Oim?
I «push factors» sono a monte, sono ciò che li spinge ad abbandonare le proprie case, e sono sicuramente aumentati perché nessuno lo fa volentieri. Poi ci sono le condizioni in Libia, agghiaccianti, le loro testimonianze e i rapporti delle organizzazioni internazionali parlano di torture efferate nei centri di detenzione dove i migranti sono lasciati anche senza acqua potabile e senza servizi igienici, di mercati di schiavi nelle piazze dei paesi della costa, di persone rapite per chiedere un riscatto ai genitori…La situazione è sicuramente molto peggiorata rispetto all’anno scorso.
Ancora peggiore?
Sì, confrontando i racconti delle violenze subite dai migranti salvati l’anno scorso con quelli di quest’anno, la percezione è netta: le condizioni, sia per strada che nei centri di detenzione, si sono ulteriormente deteriorate.
Per questo partono in numero maggiore?
I grandi numeri di quest’anno dipendono dalla capacità organizzativa dei trafficanti in Libia, che evidentemente sono cresciute perché non è mica uno scherzo mettere in acqua ogni giorno 2mila gommoni. Si deve contare che molti di quelli che siamo riusciti a salvare sono in così cattive condizioni perché sono al secondo o al terzo tentativo, in precedenza sono stati intercettati e riportati a terra dalla Guardia costiera libica e una volta ritornati in Libia venduti come schiavi, ricattati e torturati in modo sempre più agghiacciante. Sarebbe inaccettabile per noi riportali lì.
E se venisse dirottato il flusso in altri porti più vicini rispetto all’Italia?
C’è un obbligo internazionale al soccorso dei naufraghi in base alle convenzioni Sar e Solas che non può essere disatteso. Le stesse convenzioni impongono di portarli nel porto «sicuro» più vicino. La Tunisia non garantisce il diritto alla richiesta di asilo, quindi può essere considerata un porto sicuro per i naufraghi di uno yacht ma non di una imbarcazione di profughi. L’Algeria è troppo lontana, la Francia lo è più dell’Italia, la Spagna è più vicina solo per i naufragi a largo del Marocco.
E se in Libia si verificasse davvero una riconciliazione nazionale tra i governi di Tripoli e di Baida?
Se anche fosse, e per ora l’Oim parla di violazioni incredibili di diritti umani, la Libia dovrebbe ancora ratificare le convenzioni Sar e Solas. Altra cosa è l’attività della Guardia costiera libica nelle sue acque nazionali e in quelle contigue, dove può liberamente intercettare e riportare indietro i barconi, come fa.
I libici che l’Italia aiuta regalando motovedette e addestrandoli possono fare questo?
Certo, anche nell’incidente del 10 maggio, quando la nave dell’ong SeaWatch fu quasi speronata, non c’era nessun rapporto gerarchico tra i libici e la Guardia costiera italiana che coordina i soccorsi internazionali. La Guardia costiera italiana non ci ha mai chiesto di collaborare con i libici né può chiederci di consegnare le persone a loro, è solo tenuta ad avvertirli per primi delle operazioni di soccorso. Ma la clausola del divieto di respingimento a mare è valida solo per i paesi terzi come il nostro rispetto ai migranti in fuga dalla Libia. Certo, resta il dilemma degli aiuti dati a chi non è in condizioni di assicurare il rispetto dei diritti umani. Un bel dilemma per l’Italia.
. il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2017 (p.d.)
Ogni anno, appena il sole scalda abbastanza per il primo bagno, Enrico Ioculano, il sindaco Pd di Ventimiglia, mette in campo un ’iniziativa per limitare l’afflusso di migranti nella città frontaliera. Lunedì un’ordinanza per pulire il letto del fiume Roya ha fatto ‘scappare’ circa 400 subsahariani accampati sotto il cavalcavia dell’autostrada. Per quasi 48 ore, i migranti si sono nascosti tra i boschi al confine con la Francia. Ieri sera buona parte di loro è stata trasferita forzatamente a Taranto.
Nel giugno 2015 il neo-eletto Ioculano assisteva allo sgombero dei Balzi Rossi, spiaggia vip alle spalle del valico di ponte San Ludovico. Le immagini degli agenti in assetto antisommossa che inseguivano i migranti sugli scogli divennero il biglietto da visita di Ventimiglia. L’attenzione sul confine italo-francese non durò molto: quel’estate ci furono la crisi greca e subito dopo l’apertura della rotta balcanica. Lo scorso anno, invece, il primo cittadino vietò la somministrazione di pasti e alimenti da parte dei volontari ai richiedenti asilo. E mentre Ioculano dal palco della tv pubblica parlava di accoglienza, i vigili liguri multavano chi distribuiva da mangiare ai profughi.
Nonostante i tentativi dell’amministrazione comunale di bloccare il flusso di migranti, Ventimiglia è diventata il più trafficato snodo di uscita dall’Italia. Ma questo non dovrebbe sorprendere nessuno. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, migliaia di ebrei scapparono in Francia attraverso le mulattiere che, dalla frazione Grimaldi arrivano a Mentone.
Anche Sandro Pertini prese questa via per arrivare nel suo esilio francese. Quel cammino è chiamato ‘il sentiero della morte’. Il percorso, usato nei decenni dai contrabbandieri, sale veloce per le Alpi e sovente chi scappa non conosce la strada. Basta una svolta sbagliata per cadere in un crepaccio. Negli ultimi anni sono oltre dieci i migranti ritrovati cadavere nel tentativo di arrivare in Costa Azzurra. L’instabile situazione libica sta spingendo decine di migliaia di persone sui barconi attraverso il Mediterraneo. Con questo scenario transnazionale è facile immaginare l’accalcarsi di persone sulla frontiera ligure.
Le strutture messe in campo da Caritas e Croce Rossa non bastano a sopperire tutte le necessità. Quindi dal 2015 i NoBorders, una rete di volontari della zona, tentano di organizzare l’accoglienza per chi non rientra nell’ombrello messo a disposizione dalle organizzazioni governative. Nei mesi scorsi gli attivisti si sono scontrati prima con il Comune e poi con l’autorità giudiziaria. Molti di loro sono indagati e altri, decine, colpiti da fogli di via. Come in un copione che si ripete sulle frontiere più calde d’Europa, nel vuoto lasciato dall’assenza dello Stato e dalla repressione delle iniziative locali si inseriscono volontari provenienti da altri Paesi europei. Nella notte tra domenica e lunedì alcuni attivisti tedeschi hanno interpretato l’ordinanza del sindaco per la pulizia del fiume come la minaccia di uno sgombero, che per impulso della Questura potrebbe avvenire mentre il giornale va in stampa.
I volontari hanno quindi proposto ai 400 migranti di accompagnarli in Francia, attraverso le montagne. All’unanimità viene data fiducia ai tedeschi: marcia notturna, guado del fiume, giornata nascosti nei boschi e una nuova marcia notturna. Per poi finire tra le braccia della gendarmerie che ha riaccompagnato i migranti in Italia. Sul confine la polizia li ha fatti salire sui dei bus e li ha spediti a Taranto.
Qualche mese fa le avremmo potute chiamare deportazioni, oggi con il decreto Minniti sono invece accompagnamenti nei centri d’identificazione. In qualche settimana verranno verificate le loro generalità, a qualcuno verrà dato un foglio di espulsione, quasi tutti torneranno a Ventimiglia. I migranti avranno perso tempo e l’Italia credibilità.
«.Articoli di Baobab experience onlus il manifesto e che-fare.com, 25, 26 giugno 2017 (c.m.c.)
il manifesto
BAOBAB CHIAMA
FERROVIE
DELLO STATO
DATE SPAZIO AI MIGRANTI
Baobab experience onlus
Gentile Ingegnere Renato Mazzoncini,
sono passati solo tre giorni dalla presentazione dell’ultimo rapporto dell’Unhcr e ancora una volta i numeri confermano che decine di milioni di persone sono in fuga, e che quasi una persona su cento è costretta ad abbandonare la propria casa. Le risposte di governi nazionali ed istituzioni europee sono scoordinate, incoerenti ed improntate ad una visione difensiva in cui l’unica scelta comune consiste nell’innalzamento delle barriere in entrata, e nella corsa al ribasso dei sistemi di accoglienza. E’ quando smettiamo di leggere i numeri, ed iniziamo a guardare i volti di chi arriva, ad ascoltarne le parole, a curarne le sofferenze, che ci rendiamo conto che dietro i proclami e gli auspici alla solidarietà internazionale si nasconde il vuoto. E allora, dietro il nulla delle parole rimangono solo le persone da difendere.
La nostra associazione, Baobab Experience, lavora da due anni con i migranti: più di 60mila persone sono passate dai nostri campi, ed hanno ricevuto cure mediche, cibo, un riparo per la notte, assistenza legale. Sono donne e uomini, alcuni di loro in transito verso altri paesi europei, altri richiedenti asilo in Italia. Questi ultimi, a Roma, sono costretti ad aspettare in media un mese e mezzo prima di poter accedere alle pratiche, e in questo tempo non viene assegnato loro un centro. L’unico riparo che trovano nella capitale è quello offerto da Baobab Experience.
In questi due anni abbiamo dovuto far fronte alla indisponibilità delle istituzioni cittadine a consentire che l’assistenza ai migranti potesse essere fornita in un luogo adatto a garantire condizioni umane per loro ed a ridurre l’impatto della loro presenza sulla comunità ospite. I venti sgomberi forzati che Baobab Experience ha subito hanno prodotto solo altri disagi e sofferenze sui migranti, e non hanno risolto alcuno dei problemi che in tanti a loro attribuiscono. Dopo venti sgomberi, non è aumentata la sicurezza della nostra città. Non ne è aumentato il livello di pulizia e decoro. Non è diminuita la marginalizzazione e l’esclusione di chi arriva, né i rischi ad esse associati. E soprattutto, gli arrivi non si sono fermati, e non si fermeranno.
Noi pensiamo che si possa fare meglio di così. Pensiamo che si possa provare, di fronte al fallimento di un sistema che non riesce a trovare soluzioni diverse da muri e sgomberi, a pensare a una diversa visione. Sappiamo che il Gruppo che Lei guida rappresenta una delle realtà più avanzate sul terreno della responsabilità sociale, e che numerose iniziative sono state già intraprese per il recupero a fini sociali di immobili non più utilizzati in attività industriali. Come ha detto Claudio Cattani, presidente di RFI, appena tre giorni fa: «L’emergenza sociale investe tutto il territorio nazionale e la capillarità del nostro sistema di stazioni ci impegna da sempre ad avere attenzione per quanti cercano riparo, aiuto e solidarietà presso i nostri spazi». Per questo,
Le proponiamo di intraprendere insieme un percorso coraggioso, di concederci l’utilizzo del parcheggio per bus totalmente inutilizzato, attualmente occupato dai migranti che la notte vi trovano riparo, e di consentirci di attrezzare un campo che assicuri condizioni minimali di assistenza, sicurezza, pulizia, decenza, ed in cui sperimentare insieme, un nuovo modello di accoglienza che possa fare da esempio.
Siamo pronti ad attrezzare quel campo in pochissime ore, grazie all’aiuto delle associazioni mediche e legali con cui condividiamo da anni il nostro percorso, insieme alle Ong internazionali e ai cittadini che ci sono solidali: abbiamo un progetto che saremmo lieti di presentarle.
Pensiamo sia venuto il tempo delle scelte. Siamo convinti che sia possibile dare, qui a Roma, una coraggiosa risposta, con i fatti, nel modo in cui noi e voi sappiamo eccellere, per la nostra stessa natura di uomini del fare, ad una delle grandi sfide di questi tempi difficili. Proviamoci insieme.
BAOBAB SGOMBERATO.
IL RACCONTO DI PICCOLI MAESTRI
di Carla Susani
Giovedì scorso siamo stati al Baobab, una manciata di Piccoli maestri per ragionare su un progetto ideato da Elena Stancanelli, un’Orazione civile, un’opera corale da scrivere a partire dall’Eneide; eravamo Maria Grazia Calandrone, Nadia Terranova, Tommaso Giartosio, Federico Cerminara, Tiziana Albanese e io.
Il Baobab è stato tanti luoghi dal 2015 in poi, centro di accoglienza sotto un tetto a via Cupa, tendopoli a ridosso del Verano, tendopoli in un parcheggio prossimo alla Stazione Tiburtina e ora in un parcheggio ancora un po’ più lontano sotto il sole a picco.
Da due anni, Baobab experience, il gruppo di volontari che ha condiviso e condivide l’esperienza, risponde al continuo afflusso di profughi e transitanti; lo fa in modo emergenziale perché le istituzioni non hanno attivato a Roma una struttura di prima accoglienza. Sul loro sito dichiara di avere assistito 35000 persone, ma probabilmente sono di più.
Chi arriva non ha acqua, cibo, informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo e sui diritti, si ritrova sulla strada; Baobab experience, con l’aiuto di MEDU Medici per i diritti umani, molte altre associazioni e una quantità di persone che continua a crescere prova a far fronte ai bisogni minimi, alle necessità sanitarie, fornisce informazioni. Ma offre qualcosa in più: si fa strumento di incontro e di conoscenza: chi arriva ha l’opportunità di fare amicizia, di conoscere Roma antica, di giocare a calcio, di suonare, di avere libri da leggere.
La presenza di noi Piccoli Maestri sul piazzale ha a che fare con questo stile di : ci sono momenti in cui persino il pane e l’acqua sono incerti, ma neanche in quei momenti essere umani si riduce a questo, in ogni circostanza abbiamo bisogno di pensare e di pensarci.
L’effetto è che la disumanizzazione di chi ha bisogno, ma persino la carità straziante e cieca verso i derelitti, è messa sotto scacco. Sia chiaro, Baobab non è una soluzione, è una supplenza che non è in grado di supplire: una tendopoli su un piazzale assolato, quando va bene, solo pensarlo è sconfortante. Ma alle istituzioni persino questo è sembrato troppo, le istituzioni non hanno affrontato la questione in modo strutturale.
La risposta si è risolta in questi anni negli sgomberi. Sgomberi in cui spesso vanno distrutte anche le tende, i viveri, le donazioni.
I Piccoli maestri sono invece scrittrici e scrittori che vanno nelle scuole pubbliche a leggere e raccontare gratuitamente i classici, nascono da un’idea Elena Stancanelli ha avuto alcuni anni fa.
Più di una volta la strada di Baobab experience e quella dei Piccoli maestri si sono incontrate. Siamo andati giovedì alla tendopoli curata da Baobab experience con l’idea di costruire un’opera nuova leggendo e raccontando l’Eneide (sul solco di Xeneide, un progetto artistico promosso da Stalker e noworking da poco concluso all’Auditorium).
Il piazzale aveva un aspetto desolato, faceva caldo anche alle sette del pomeriggio. Eravamo all’inizio imbarazzati, anche turbati. Gente giocava a palla, c’era una famiglia con quattro figli che poi abbiamo scoperto curda, c’erano volontari qua e lì, qua e lì crocchi di ragazzi che chiacchieravano.
Ci siamo avvicinati, titubanti, preoccupati di disturbare, abbiamo chiesto una sedia, poi non abbiamo potuto fare a meno di raccontare il nostro progetto, quell’embrione di progetto che avevamo in testa e che a raccontarlo sembrava fragilissimo.Si sono raccolti attorno a noi una decina di ragazzi. Tommaso traduceva, in francese e in inglese. Poi ci ha aiutato anche Momo. Insomma, sono stati contenti e a poco a poco entusiasti all’idea di mettere in relazione la loro storia con un antico poema che parla di un uomo in fuga dalla guerra, che naviga rischiando la furia dei venti attraverso il Mediterraneo.
Al crocchio si sono aggiunti altri ragazzi, uno leggeva Simenon. Tutti si sono fatti coinvolgere, vengono dall’Africa occidentale e da quella orientale. Due hanno cominciato a litigare sulla differenza fra poesia e prosa, uno ci ha raccontato che scrive poesie, uno si è dichiarato lettore di Balzac (e mi scuso perché ancora non so i nomi, non ho fatto a tempo). Ci siamo dati appuntamento il giovedì successivo per cominciare, con l’idea di vederci tutti i giovedì per lavorare al progetto.
Eravamo quasi impressionati dal vedere come fosse vero quello che credevamo, la letteratura, diceva un ragazzo, è la cosa più importante che c’è, la letteratura è la vita stessa. Nella mattina di lunedì l’ennesimo sgombero. La Rete Ferrovie Italiane ha piazzato pesantissimi dissuasori di cemento per evitare che si potesse rimettere su il campo. Volontari e cittadini seduti per terra e una lunga trattativa hanno impedito che le tende donazioni dei cittadini venissero distrutte.
Questo giovedì non siamo potuti tornare al campo perché non c’era più, ma prepariamo il lavoro per essere pronti a incontrarci di nuovo. Ora, a piazzale Maslax è rimasto un presidio, all’ora della cena e del pranzo si distribuisce il pasto, ma dormire si deve dormire da soli evitando assembramenti.
Le solite notizie sulla politica di accoglienza dei rifugiati italiana ed europea. Fanno a gara a che è più vicino ai Trump e a Netanyahu nell’erigere barriere armate. Gentiloni in lizza per il primato ma chiede aiuto.
Corriere della Sera, 23 giugno 2017Sulla missione europea per controllare i confini libici il nostro premier ha detto a Juncker che occorre per svariati motivi. In primo luogo la chiedono gli stessi libici, e ieri Gentiloni ha anche visto nella sede della nostra rappresentanza il capo del governo libico di accordo nazionale, Fayez Al-Serraj. In secondo luogo come ex potenza coloniale l’Italia non può gestire la missione, ha aggiunto Gentiloni, i libici non l’accetterebbero.
Un terzo motivo, non detto, che riferiscono nel nostro governo, è di natura diplomatica, geopolitica, e coinvolge la Francia, che ha una base militare in Niger, nella città di Madama, non lontana dai confini libici, e che vorrebbe avere un ruolo di primo piano nel controllo della frontiera tra Libia e Ciad. Il governo francese avrebbe anche stimato in 500 unità il numero di un contingente che controlli i confini, ma secondo le valutazioni del nostro ministero della Difesa occorrono migliaia di unità.
Di qui la richiesta di Gentiloni, che sia a Macron che alla Merkel, in primo luogo, gira almeno un’altra istanza: un coinvolgimento con fondi propri per la gestione dei flussi migratori, e la prevenzione degli stessi, attraverso la Libia. Prima di volare a Bruxelles il capo del governo aveva detto, in Parlamento, che sulla Libia l’Unione si muove in modo «drammaticamente lento»; le sue richieste di ieri hanno lo scopo di fare dei decisivi passi in avanti, creando una consapevolezza maggiore in tutti i Paesi membri.
Il raddoppio dei fondi europei diretti per la Libia (l’anno scorso erano 200 milioni e sono già stati spesi) si accompagna infatti a un precisa condizione di Palazzo Chigi: i nuovi fondi devono provenire solo in parte dal bilancio comunitario, una parte cospicua deve arrivare dai bilanci nazionali.
L’altra richiesta che Gentiloni ha anticipato a Juncker, chiedendogli un sostegno, e che poi ha esplicitato al tavolo del Consiglio europeo, riguarda i migranti salvati nel Canale di Sicilia, da qualunque nave. Per Gentiloni l’automatismo attuale, secondo il quale vengono accompagnati nei porti italiani, è ormai obsoleto: «Possono anche essere portati sulle coste francesi, maltesi o della Tunisia, se coinvolta», sono gli esempi che il nostro presidente del Consiglio ha fatto a Juncker, con il quale ha anche parlato della candidatura di Milano come nuova sede dell’agenzia europea per il farmaco, che per la Brexit lascerà Londra. In tutto i Paesi Ue candidati sono 20, e nonostante i tanti punti di forza di Milano, il dossier si annuncia difficile, se non in salita.
«Senza il riconoscimento del loro status di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla fame, queste persone vivono nel difficile, sovraffollato limbo dei centri di accoglienza o di tendopoli, senza documenti né la possibilità di lavorare».
la Nuova Venezia on line, 20 giugno 2017
Hanno sfilato in oltre trecento, martedì mattina a Venezia, per chiedere di essere trattati con dignità e protestare contro le condizioni di sovraffollamento del centro di Conetta, nel quale vivono in attesa che lo Stato riconosca o meno il loro status di rifugiati. "Non siamo merce", "Cona no buono", "Basta alla ghettizzazione" alcuni degli slogan che sono risuonati martedì mattina tra le calli e i campi.
Nella Giornata mondiale del profughi, si sono ritrovati martedì mattina nel piazzale della stazione di Santa Lucia, per poi raggiungerre campo Santo Stefano - nei pressi della Prefettura - dopo aver attraversato l'intera città. Ad organizzare la manifestazione è stato l'Unione sindacale di Base-Usb. Ad aprire il corteo, uno striscione con la foto di Sandrine, la giovane ivoriana morta a gennaio per una trombosi, al centro di Cona: un decesso che aveva acceso i riflettori sulle difficili condizioni di vita all'interno della struttura.
Dal 2001, il 20 giugno è la Giornata mondiale dei profughi, per ricordare l’anniversario della convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees), firmata il 20 giugno del 1951.
I manifestanti chiedono un'accelerazione delle pratiche burocratiche per il riconoscimento dello status di rifugiati, migliori condizioni di vita all'interno dei centri di accoglienza e hanno portato in piazza il loro disagio anche con canti e balli, oltre che con slogan contro il razzismo e per chiedere "Asilo per tutti". Tra loro, diverse nazionalità e fedi religiose e un'unica richiesta: "Dignità".
"C'è chi attende anche da due anni il permesso di soggiorno", spiegano dall'Usb, "chiediamo alla Prefettura di organizzare un incontro a breve per affrontare tutte le criticità: prima di tutto, bisogna velocizzare la burocrazia".
Senza il riconoscimento del loro status di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla fame, queste persone vivono nel difficile, sovraffollato limbo dei centri di accoglienza o di tendopoli, senza documenti né la possibilità di lavorare.
ytali.com, 19 giugno 2017 (p.d.)
Nel dibattito sull’ le reazioni d’ira delle destre hanno almeno l’utilità di ricordarci che la legge in corso d’esame al senato – una volta approvata- costituisce un passaggio trasformativo epocale per il nostro paese.
È una riforma che fa la storia, e hanno ragione le destre, dal loro punto di vista, a volerla bloccare, e con essa la storia. Lo
ius soli aggiunge un capitolo fondativo alla vicenda del nostro paese. E pone l’Italia come nazione modello e all’avanguardia in un mondo nel quale la rivoluzione demografica sta cambiando radicalmente in pochi anni assetti di secoli. È una riforma con un peso specifico pari, se non superiore a quello delle riforme che negli anni del miracolo economico furono definite “strutturali”, perché incidevano sulla struttura stessa della nazione, in
primis la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ha la stessa portata, se non maggiore, delle grandi riforme sociali degli anni Settanta, come la 180 che aboliva i manicomi, la legge che riconosceva l’obiezione di coscienza, la Baslini-Fortuna che istitutiva il divorzio, la legge a tutela del diritto di interruzione della gravidanza. Furono riforme spinte e accompagnate da una forte, appassionata e corale pressione della società e della politica. Anche per questo, furono riforme che rivoluzionarono l’Italia.
Questa volta niente di tutto questo. Lo sembra una riformetta capitata chissà come in parlamento (e dire che furono 26 i ddl all’inizio del percorso nel 2014), un affare che riguarda il governo in carica, da una parte, e Salvini, Meloni e Grillo dall’altra, con la chiesa che ancora una volta supplisce alla latitanza della politica progressista nelle grandi battaglie per i bisognosi e gli esclusi. Nei giorni scorsi, abbiamo appreso di riunioni delle sinistre, di operazioni politiche di vario tipo. Di leader vecchi e nuovi tirati per la giacca, di leader vinavil tra fazioni in conflitto. Niente, zero sulla battaglia in corso per i nuovi italiani in attesa di essere regolarizzati. Fa veramente male contemplare l’indifferenza della sinistra, in tutte le sue versioni, e anche dei social, sul tema dello ius soli.
Siamo nell’imbarazzo di scegliere quale sia la spiegazione meno imbarazzante, se cioè l’assenza sia dovuta a distrazione, provocata da un’attenzione puramente autoreferenziale alla proprie vicende interne che esclude il mondo esterno, cadesse pure un meteorite sull’Italia; o se sia a dovuta al non voler riconoscere al governo in carica e al partito che lo sostiene il merito di una riforma storica, di cui l’Italia di sinistra e progressista dovrebbe essere particolarmente fiera. Abbiamo raccolto una voce secondo la quale Matteo Renzi avrebbe adesso intenzione di mobilitare il partito in tutte le sue articolazioni locali per difendere e sostenere la legge. Finora il leader del Pd si è limitato a polemizzare con i grillini, senza però rivendicare con la dovuta forza “in positivo” l’importanza rivoluzionaria della misura. Facendo così, anche lui contribuisce a banalizzare la riforma riducendola a oggettucolo di polemica tra tanti con avversari e concorrenti .
Noi vogliamo prenderla per buona, l’indiscrezione, perché sarebbe addirittura ovvio, da parte del segretario del principale partito di governo, accompagnare il varo della nuova legge con una mobilitazione sociale, non solo per dare più forza al governo, ma per sottolineare la portata storica della riforma. Come le marce che spinsero in America le grandi conquiste dei neri, conquiste che avrebbero portato al pieno godimento, da parte degli africani-americani, di tutti i diritti. Cittadini al pari di tutti gli altri. Come i nuovi cittadini italiani* che tali diventeranno grazie allo ius soli.
* Secondo la Fondazione Leone Moressa, basandosi su dati dell’ISTAT, ci sono circa un milione e sessantacinquemila minori stranieri, in gran parte figli di genitori da tempo residenti in Italia, o che hanno già frequentato almeno un ciclo scolastico (le due categorie si possono sovrapporre). I minori nati in Italia da madri straniere dal 1999 a oggi sono 634.592.
«. il manifesto,
14 giugno 2017 (c.m.c.)
Brutti, sporchi e ovviamente cattivi. Migranti, profughi, rifugiati, fuggitivi, sopravvissuti. Non ne vogliamo più. Scaricateli in qualche altra città. Da oggi Roma è città chiusa.
È partita una lettera trepidante e animosa della sindaca Virginia Raggi. Nella quale chiede alla prefetta Paola Basilone d’interrompere il flusso migratorio in città: non vogliamo più stranieri, accoglierli sarebbe «impossibile e rischioso». E ad amplificare il messaggio arriva di sponda anche Beppe Grillo con il suo sacro blog, a minacciare espulsioni e rastrellamenti: faremo a Roma quello che per vent’anni nessuno ha fatto. Eccola affiorare, la pulsione razzista a cinque stelle. È di sicuro un riflesso elettorale, tanto meccanico quanto primitivo. Conseguenza diretta del deludente risultato nelle amministrative di domenica, con tutti quei voti reazionari che sono tornati da dove erano venuti, cioè a destra.
Ma è qualcosa di più. Fa parte dell’orizzonte culturale piccolo-borghese con cui il movimento di Grillo è riuscito a raccogliere consensi indifferenziati. Interpretando e accarezzando gli egoismi gretti, le angustie benpensanti, le collere malintese, i furori xenofobi. Prendersela allora con i Rom che chiedono l’elemosina alle stazioni della Metro o con i ragazzi africani che si accampano alla Stazione Tiburtina, rassicura il perbenismo incupito e le coscienze ottuse. Finora a Roma ci si era limitati a qualche sgombero di richiedenti asilo e a qualche retata di ambulanti abusivi, con una polizia municipale sempre più manesca e sbrigativa.
E nulla era stato allestito per l’accoglienza, saturando ben presto le strutture preesistenti. Un’inerzia amministrativa inefficiente e impaurita, che non ha regolato i flussi né dislocato i nuovi arrivi, finendo così per amplificare l’impatto migratorio in città.
Non che il Campidoglio brilli per efficacia e prontezza, ma a Roma le possibilità di gestire un’emergenza sociale, accogliendo e ospitando, ci sono e non sono poche. Volumetrie pubbliche inutilizzate, ospedali dismessi, caserme acquisite dal Comune, stabilimenti industriali abbandonati, oltre a migliaia di ettari lungo i margini della città. La sindaca Raggi ha però preferito cullarsi nell’ignavia: per non sottrarre al mercato patrimonio comunale in vendita e per non insediare nuovi centri d’accoglienza invisi ai territori.
Meglio dunque fermare tutto, fermare tutti, e chissenefrega di tutta quella povera gente disperata.
«Giusi Nicolini lo aveva detto ad aprile: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”. Quando lo storytelling renziano nasconde un'altra verità» Del resto, è difficile sostenere insieme Giusi Nicolini e Marco Minniti. il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2017 (p.d.)
Il popolo democratico ventoteniano accogliente terzomondista e obamiano, come da copione leopoldo, vibrava ancora dall’emozione di Fuocoammare vincitore a Berlino quando è arrivata la doccia fredda. Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa ormai per antonomasia, “salvatrice di vite” per l’Unesco e brand della “poesia dell’accoglienza” per Matteo Renzi, non ce l’ha fatta. Ha perso in casa sua contro la lista “Susemuni” (“Alziamoci”, a significare che con lei gli isolani erano riversi o bocconi), creata non da un leghista xenofobo, ma da un ex sindaco di Lampedusa di centrosinistra dal nome da suonatore di pianobar su una nave da crociera americana: Totò Martello.
Questo Totò Martello, che nel profilo Facebook appare col sole in faccia, la sciarpa al collo e il sigaro in mano, secondo le cronache è “amico dei pescatori”, proprietario di alberghi lampedusiani e gestore di un circolo del Pd, uno dei due sull’isola, dove l’altro fa capo al marito di Nicolini. Per noi che seguiamo il Twitter di @matteorenzi, e da tre anni retwittiamo le foto che lo ritraggono insieme alla sindaca mentre osservano entrambi il tramonto da uno scoglio, è stato un trauma. Per i lampedusani, aizzati da Totò Martello, un po’ meno. Sull’isola, Nicolini, candidata al Nobel per la Pace dal pidino Ermete Realacci, era “una ladra di medaglie”, una che badava più alla sua immagine che al benessere degli isolani, e Totò Martello ha meditato la sua rivincita sguarnito di (per 5 anni ha usato Facebook solo per scrivere “Buongiorno”, “Buonanotte” e “Buona Pasqua a tutti”) ma con l’orecchio a terra. E ha capito quel che Nicolini s’è fatta sfuggire nella rapinosa voluttà antropofagica di Matteo.
Così questa storia che pare un canovaccio camilleriano mostra in controluce la filigrana della narrazione renzista. Tutto quel che Renzi tocca, e tanto più quel che costruisce sopra alle persone per suo comodo, si scioglie al sole come il gelato Grom della gag nel cortile di Palazzo Chigi. Così nel marzo dell’anno scorso Matteo “raccontava” l’isola di Giusi Nicolini, che intanto diventava l’isola di Totò Martello: “Lampedusa, cuore d’Europa. Ho scelto di passare qui questo venerdì speciale, accolto da @giusi_nicolini e da una comunità bellissima”. Un mese prima non si faceva scappare gli allori italici: “Berlino premia Gianfranco Rosi, il suo talento e la poesia dell’accoglienza #Fuocoammare #orgoglio”. E poco dopo ribadiva: “Spero che #Fuocoammare vinca l’Oscar. Grazie #Lampedusa” (per chi avesse dubbi, Fuocoammare non vinse). Seguirono i giorni dell’epica: ben “quattro donne ‘simbolo dell'eccellenza italiana’ accompagneranno il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Casa Bianca per la cena ufficiale con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama” (così Ansa l’ottobre scorso, con toni da agenzia Stefani). Come nelle corti del ‘500, quando i sovrani si facevano visita portandosi dietro musici, teatranti, ritrattisti, eruditi, cuochi e danzatori, Renzi con sé – a ornamento della sua gloria – portava due premi Oscar, uno stilista, un campione dell’Anticorruzione e, appunto, un poker di donne (come nell’Urss delle astronaute): l’atleta, la scienziata, l’architetta e la sindaca. Giusi Nicolini fu un colpaccio, spendibile negli Usa anti-Trump al pari del parmesan, simbolo degli italiani brava gente che vincono i premi ripescando la gente in mare (e chissà se Renzi se l’è rivenduta pure alla cena con Obama a Borgo Finocchietto, menù di Luca Bottura: cinque stagionature di parmigiano e dessert a base di fiori).
Erano i giorni della Speranza contro la Paura, dell’Amore che vince sull’Odio. Si favoleggiava di #Italiariparte e si copiava quel che faceva Papa Francesco, che a Lampedusa andò nel 2013 e, con gesto appena un po’retorico, bevve da un calice ricavato dal legno dei barconi. Si mandava Franceschini sull’isola a inaugurare il “Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”; così come una settimana fa si mandava il ministro dello Sport Luca Lotti a “sostenere una grande donna e una brava sindaca” con la scusa di inaugurare un campo di calcio. Ebbene, Nicolini ha perso, con 908 voti contro i quasi 1600 di Totò Martello, avendo contro mezzo Pd locale e pure Pietro Bartolo, medico eroe di Fuocoammare e quindi ovviamente star dell’ultima Leopolda, dove Matteo lo abbracciò mostrandosi commosso. Renzi – che s’è guardato bene dal promuovere le primarie sull’isola – l’ha liquidata su Fb: “Ieri Giusi ha perso a Lampedusa, succede… Ma la qualità dei rapporti umani (come si sa, il suo forte, ndr) non viene mai meno. Grazie Giusi... Lavoreremo ancora nel Pd, avanti, insieme”. Noi le diremmo di scappare, indietro e da sola, perché per quanto ci piaccia Totò Martello, con quel nome da parrucchiere del New Jersey, la nostra solidarietà va lei, che ad aprile,benché tardi,aveva capito tutto: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”.
mediatica dei fatti dopo l'intervento perverso del dott. Zuccaro dimostrata dal rapporto “Navigare a vista - Il racconto delleoperazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale".AssociazioneCarta di Roma, 29 maggio 2017.
Di operazioni di ricerca e soccorso i media parlano, e tanto: presenti nel13% delle notizie sull’immigrazione nei principali quotidiani italiani e nel18% dei servizi sull’immigrazione de itelegiornali in prima serata e legate soprattuttoal racconto di naufragi (39%) e azioni di salvataggio (22%). Ma come se neparla?
Organizzazioni militari e civili: quale il racconto di chi è operativo?
L’analisi di 400 tweet sulle operazioni Sar postati dagli account ufficialidelle Ong più attive, di Eunavfor Med, della Marina militare e della Guardiacostiera italiana ha consentito di rilevare importanti differenze nel raccontodelle Sar da parte degli stessi attori coinvolti: se quello delle Ong è unracconto costante nel tempo e spesso emotivo, che si sofferma sulle personesoccorse, quello di Eunavfor Med e della Marina è un racconto più tecnico,focalizzato sulla gestione delle azioni di intervento. Nel mezzo si pone laGuardia costiera, che alterna entrambe le tipologie di comunicazione.
Diverso anche il linguaggio usato: gli attori civili parlano più spesso di“persone” salvate (nel 42% dei loro tweet), quelli militari di “migranti” (nel77% dei loro tweet); il racconto delle Ong è empatico nel 53% dei casi, mentrelo è solo nel 6% dei tweet delle organizzazioni militari. Ed è solo nelracconto delle organizzazioni non governative che troviamo riferimenti anche aciò che accade prima e dopo il soccorso.
«Nel caso dei soccorsi viene data voce ai protagonisti, esperti, operatoriSar o migranti che siano, nel 67% dei casi», così Paola Barretta,ricercatrice senior dell’Osservatorio di Pavia.
La rappresentazione delle Sar nei mainstream media
Con l’avvio di Mare Nostrum nell’ottobre 2013, in risposta ai tragicinaufragi avvenuti il 3 e l’11 dello stesso mese, le operazioni di ricerca esoccorso acquisiscono centralità nel racconto dell’immigrazione: dagli arrivisulle coste italiane agli incidenti, fino alla cronaca degli interventi stessi.Una narrazione che fino al 2016, se confrontata alla rappresentazione dimigrazioni e migranti nel loro complesso, rappresenta una buona pratica:nonostante il tema dell’immigrazione sia divisivo, quello delle Sar è unracconto positivo, che mette al centro i protagonisti del soccorso e le loroazioni - organizzazioni e esperti hanno voce in oltre la metà dei servizi -presentandoli come “angeli del mare” e che, soprattutto, umanizza il fenomeno,soffermandosi su solidarietà e accoglienza. Se nel totale dei servizi primetime sull’immigrazione, migranti, rifugiati e immigrati stabilmente residentiin Italia hanno voce solo nel 3% dei casi, la percentuale sale al 14% quando sitratta di notizie relative alle Sar. Questo, almeno, fino ai primi mesi del2017. Poi tutto cambia.
Dopo Carmelo Zuccaro: Da “angeli” a “taxi”
Con il video di un blogger divenuto virale prima e le dichiarazioni delprocuratore di Catania Carmelo Zuccaro poi, la cornice da positiva diventanegativa: un’ombra è gettata sull’operato delle ong. Si apre così una nuovafase del racconto delle Sar: l’operato delle organizzazioni che conduconoquesti interventi è messo in discussione, fino a dubitare dello spiritoumanitario che le anima.
A prevalere è ora il sospetto. «La narrazione delleoperazioni Sar porta con sé diversi rischi tra cui la legittimazione dipolitiche migratorie più restrittive e la criminalizzazione della solidarietà»evidenzia Valeria Brigida, giornalista freelance tra gli autori del rapporto. Non solo: i media talvolta confondono e sovrappongono i ruoli diorganizzazioni militari e Ong, mentre la diversità della loro natura e delleloro missioni è emersa anche, come osservato, nelle modalità di comunicazioneda esse adottate.
Afferma Anna Meli, Cospe: «Interrogarsi su cosa davvero succeda a livello dipolitiche globali, lo spostamento di attenzione è un po’ obbligato, ma comegiornalisti è importante domandarsi perché stia accadendo un certo fenomeno edove un certo tipo d’informazione istituzionale ci vuol portare a ragionare».E ribadisce Pietro Suber, vicepresidente dell’Associazione Carta di Roma: «Bloccarei migranti diventa la risposta più facile della politica agli umori dellapiazza. In questo contesto la ricerca che presentiamo oggi assume unparticolare interesse per comprendere come si sta trasformando uno dei temiprincipali del nostro dibattito mediatico, pubblico».
Una cornice, quella del sospetto, che appare difficile da scardinarenonostante le repliche degli attori attaccati, fino a quando non saràsostituita da un frame narrativo più accurato e aderente alla realtà.
Tra gliobiettivi comunicativi portati avanti da Medici senza frontiere, sostieneFrançois Dumont, direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere: «C’èla richiesta all’Europa di mettere in atto delle politiche concordate di Sar masoprattutto di creare dei corridoi sicuri per arrivare in Europa». Tra glistrumenti comunicativi da utilizzare, Fabio Turato, politologo, docente pressol’Università di Urbino, sottolinea come sia importante «autodefinirsi primadi essere definiti dalla retorica portata avanti dagli imprenditori della pauranella cornice del tema immigrazione e Ong».
«». che-fare, 31 maggio 2017 (c.m.c.)
Nausicaa Pezzoni, La città sradicata. Geografie dell'abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano, Prefazione di Patrizia Gabellini, O barra O edizioni, p. 360, 15,5x23, €28
La città contemporanea è solcata da abitanti temporanei che attraversano i luoghi in maniera transitoria e imprevedibile, attribuendo agli spazi significati ogni volta diversi, modificando e risignificando il progetto urbano. Progettare oggi il disegno delle città significa contemplare una forma in continuo divenire, plasmata da relazioni non più fondate su un senso identitario di appartenenza e riconoscimento ma esito di adattamenti ogni volta diversi.
Nausicaa Pezzoni, architetto e urbanista, sceglie di studiare la città attraverso l’esperienza dell’abitare meno codificata e tradizionale, ricercando nello sguardo di 100 migranti al primo approdo a Milano la fase dell’orientamento al suo stato iniziale, quando alcuni oggetti-spazi si fissano nella memoria diventando centro, confine da non superare o spazio dove tornare.
La città sradicata. Nuove geografie dell’abitare. I migranti mappano Milano (O Barra O Edizioni) raccoglie l’esito di questa ricerca: 100 mappe disegnate da 100 migranti che raccontano di un “abitare senza abitudine”, forme di una città non rintracciabile nella cartografia tecnica eppure rappresentative di uno stare al mondo che evidenzia nuovi interrogativi e sollecita un ascolto più attento e profondo, necessario nella progettazione urbanistica quanto in quella culturale.
Questi temi sono stati al centro della lezione aperta La città da reinventare: proposte culturali per la rigenerazione urbana organizzata dal Master Progettare Cultura dell’Università Cattolica di Milano lo scorso giovedì 25 maggio, con gli interventi di Alessandra Pioselli, Roberto Pinto, Paolo Cottino, Elena Donaggio, Nausicaa Pezzoni, Gabi Scardi e Ivana Vilardi, introdotti da Federica Olivares, direttore del Master e Elena Di Raddo, direttore scientifico del corso.
La città sradicata è un’indagine che mette in discussione il modo abituale con il quale pensiamo alla forma e agli usi dei luoghi e degli spazi delle nostre città. Come nasce questa ricerca e quali sono i suoi esiti?
«Questo lavoro nasce da una ricerca di dottorato in Governo e Progettazione del Territorio (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano) dove mi interessava indagare la transitorietà dell’abitare e il modo di vivere la città da parte delle popolazioni che sempre più numerose stanno abitando la città contemporanea in modi diversi, intercettando degli spazi che non sono noti, spesso trasformandone il significato, dando altre interpretazioni e nuove forme. Il mio lavoro di ricerca parte da una mancanza: dal punto di vista tecnico-urbanistico, sociologico, geografico mancano delle rappresentazioni di quello che sta avvenendo nelle città.L’urbanistica, l’ambito di cui mi occupo, è orientata all’abitare stanziale sul quale si fonda la programmazione dei servizi e di tutte le strutture della città.
La transitorietà non è dunque mai contemplata, la rappresentazione tradizionale della città non contiene al proprio interno la dinamica trasformativa di come le persone abitino e trasformino gli spazi.
Ho cercato dunque come primo indizio lo sguardo più estraneo, il punto di vista che includesse tutti i cambiamenti in atto nella contemporaneità e lo sguardo del migrante al primo approdo è sicuramente quello più decentrato, che mi impegna e mi sollecita maggiormente. Scelgo lo strumento delle mappe mentali perché interrogare lo sguardo più estraneo attraverso domande astratte sulla città, sui desideri e i bisogni di chi sta iniziando ad abitarla, sarebbe più difficile e meno diretto: la mappa è un elemento di mediazione tra uno spazio esterno per lo più sconosciuto e l’esperienza intima di relazione con quello spazio.
Ho incontrato e intervistato dunque 100 migranti nei luoghi del primo approdo, cercando di capire e osservare come abitano e interpretano lo spazio dell’abitare, non focalizzandomi mai sulle loro storie personali, che pure emergono inevitabilmente dalle mappe, ma sul loro impatto con il territorio di approdo, con quella che è la loro attuale vita nella città.
Con questo metodo di lavoro ho intercettato campi disciplinari molto diversi dall’urbanistica che poi sono quelli che hanno avuto i risvolti più imprevisti dopo la pubblicazione del libro. Pochi giorni fa, ad esempio, una curatrice di musei letterari ha voluto utilizzare il metodo descritto nella Città sradicata per far disegnare alcune mappe sui percorsi e sui paesaggi di Goffredo Parise ad alcune persone che avevano esplorato con lui i suoi luoghi, cercando di far emergere il paesaggio e creare intorno alla casa-museo un ambiente vissuto, non fossilizzato.
Dalla Città sradicata sono scaturite anche altre esplorazioni su città e contesti diversi. A Rovereto, ad esempio, sono andata a incontrare in un campo profughi un gruppo di 22 rifugiati arrivati con gli sbarchi di pochi mesi prima, proponendo loro un esperimento ancora diverso: al disegno della mappa mentale si aggiungeva in questo contesto la relativa restituzione al gruppo, con una presa di coscienza ulteriore del territorio e della propria esperienza personale.
A Bologna, ancora diversamente, a partire dalle mappe di una ventina di richiedenti asilo al primo approdo ho costruito un itinerario da percorrere in bicicletta che intercettasse sia gli spazi da loro rappresentati sia i luoghi topici di Bologna, quelli consolidati da far conoscere a un nuovo abitante. Il lavoro è stato poi presentato ad un pubblico più ampio durante la giornata conclusiva di “Terra di Tutti Art Festival”.
I risvolti del mio lavoro di ricerca da un punto di vista più politico e amministrativo sono meno diretti: questo studio intende sollecitare uno sguardo critico verso una realtà che in modo sempre più evidente ha un’urgenza di rappresentazione e di trattamento che sta mettendo in crisi le città europee e non solo. Quando ho scritto il libro era meno urgente parlarne e paradossalmente sta diventando più attuale adesso perché la politica e i decisori sembrano non trovare, a mio avviso, delle strade di inclusione che siano efficaci dal punto di vista di una integrazione fondata sulla reciprocità.
Questo lavoro si incentra sulla domanda di un grande impegno: chiedere di disegnare una mappa è una richiesta strana alla quale tutti rispondono in modo un po’ dubbioso, spaesati, inizialmente con un rifiuto; è un lavoro impegnativo ma che incuriosisce e può innescare quel processo di apprendimento e di presa di coscienza di un territorio nuovo ed estraneo che è già quello in cui in realtà il migrante si trova ad abitare. Il processo di individuazione dei luoghi da disegnare, di ricostruzione mentale degli spazi e la loro modalità di restituzione grafica comporta un percorso di apprendimento e riconoscimento di un’appartenenza, e l’esito di questo lavoro impegnativo, la scoperta che il migrante compie, è quella di sentirsi parte della città.
In questa ricerca chiedo un intervento preciso, non si tratta di un lavoro in cui l’altro è un soggetto passivo che accetta una proposta precostituita e mi fa scoprire una città che non conoscevo: quello che emerge dalle mappe è un’immagine sempre nuova, tante città nuove quanti sono gli abitanti che la vogliono rappresentare e quanti sono gli sguardi che la osservano. Parlando di esiti di ricerca più pratici e immediati, vi è poi uno strumento che ho costruito a latere e che ho inserito nel libro, una mappa del primo approdo, uno strumento che ho presentato all’amministrazione di Milano dove sono mappati tutti i luoghi che la città già offre ai nuovi abitanti, dai dormitori, alle mense, gli ambulatori, le scuole d’italiano, le docce pubbliche.
Tutti quei servizi di accesso alla città “del primo approdo” con una legenda pensata con icone facilmente leggibili, molto comunicative per chi non conosce la lingua e sta cercando di orientarsi. Uno strumento che è già la base di un discorso anche progettuale nel suo creare connessioni tra i servizi di primo approdo della città, che esistono e sono molti ma per la maggior parte scollegati, senza una vera e propria infrastruttura che li tenga insieme.
La mappa del primo approdo è uno strumento già pronto di per sé ma l’intento della ricerca è quello di sollecitare e provare a spostare il punto di osservazione sulla città, formare un terreno culturale comune su questi temi per poter includere lo sguardo dell’altro, lo sguardo più diverso in assoluto».
La sensazione, quando si parla di periferie urbane e rigenerazione, soprattutto in questo periodo, è che si rischi di rimanere intrappolati all’interno di una polarità che vede i quartieri periferici alternativamente come luoghi critici del disagio sociale, delle complessità e delle soluzioni architettoniche infelici o, all’opposto, come luoghi generativi, fertili, abitati da comunità da incorniciare, evidenziare, raccontare. Due letture apparentemente distanti che si rifanno però alle stesse categorie interpretative limitanti e riduttive.
«Sono assolutamente d’accordo e anzi mi offri lo spunto per parlare di un altro risvolto indiretto della mia ricerca, che coinvolge però direttamente il lavoro che sto svolgendo in Città Metropolitana di Milano.
Insieme ad oltre 30 Comuni e istituzioni del territorio siamo stati selezionati fra le città vincitrici del Bando periferie promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016.
Con il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana. Superare le emergenze costruire nuovi spazi di coesione e di accoglienza ho cercato di concettualizzare il tema della periferia come luogo di marginalità e non come periferia geografica, cercando di intersecare i due aspetti: quello della riqualificazione degli edifici abbandonati e degli spazi dismessi con quello dell’inclusione abitativa e sociale, dove l’abitare è inteso non soltanto come soluzione residenziale ma come una complessa articolazione di servizi che danno forma a un abitare più ampio.
Quando parliamo di questi temi ciò di cui abbiamo bisogno è di articolare di più il discorso perché la realtà è naturalmente più complessa e mutevole di come viene spesso ridotta a due narrazioni principali, in due direzioni diverse ma forse sullo stesso piano del discorso.
Le mappe cartografiche, il mio abituale strumento di lavoro, sono fondamentali per molti fattori ma non sono in grado di restituire la profondità di cui necessitiamo: abbiamo bisogno di sguardi non ordinari sulla città e nuove modalità di rappresentazione, non per convergere verso una visione conciliante e pacificatoria ma, al contrario, per aprire le questioni e affrontarle in modo più complesso.
Le mappe riportate nel libro sono a volte drammatiche e raccontano un disagio esistenziale profondo, narrano una provvisorietà e un approdo che non è mai finito, un continuo dover cambiare luogo dell’abitare anche una volta arrivati.
Nella ricerca non mi occupo del viaggio migratorio ma alcune mappe danno conto anche di questo, ci raccontano di una migrazione mai finita, di un abitare sospeso, transitorio perché non riesce a radicarsi e forse la condizione della contemporaneità è anche questa e ci riguarda tutti come condizione esistenziale, in particolare in questo momento storico.
Se da una parte si costruiscono muri e barriere di ogni genere per impedire quello che è un flusso storico, dall’altra bisogna trovare degli strumenti più adatti e più sensibili, senza cedere alle banalizzazioni, aprire dei canali di comunicazione e iniziare ad interrogarsi sulle differenze, dialogare con esse, con chi ci porta davvero un modo nuovo di guardare alle cose e alla città e ci fa interpretare ad esempio piazza del Duomo come confine piuttosto che come centro.
Si tratta indubbiamente di un esercizio sfidante, che forse poco rassicura rispetto ad alcuni meccanismi identitari e di costruzione di appartenenza: non c’è un’identità che viene definita una volta per tutte, non c’è la mia città e la tua, ma luoghi che appartengono a entrambi e che entrambi stiamo modificando e conoscendo con una forma via via sempre nuova».
Ha visto recentemente progetti culturali nati e sviluppati con questo tipo di sensibilità e ascolto nei confronti dei territori e delle comunità che li abitano?
«Il progetto Un nuovo paesaggio nutre il viandante, nato in occasione degli eventi culturali che accompagnavano Expo 2015 nel territorio di Gaggiano e Cisliano, e recentemente arrivato nel cuore di Milano, sulla Darsena: un percorso di opere d’arte di Paolo Ferrari, artista e fondatore del Centro Studi Assenza di Milano.
Si tratta di un’installazione di opere d’arte di grandi dimensioni inserite nei luoghi che rappresentano la vita civica della città, la piazza principale, il municipio, la biblioteca, così come nei punti più remoti del territorio, seguendo il corso del Naviglio fino alla Darsena e che inseriscono nuove prospettive attraverso le quali guardare il territorio. Si tratta in un certo senso anche di un progetto di accoglienza nella sua capacità di introdurre nuovi sguardi sulla città attraverso fotografie di scorci urbani e paesaggi, raddoppiati dal segno pittorico dell’artista e lavorati con altri elementi di tipo scientifico, come la carta millimetrata.
Sono opere che compaiono ormai in molti luoghi della città e che si inseriscono all’interno del progetto architettonico come delle finestre sul mondo, un elemento culturale a fondamento dell’abitare e quindi della vita».
Ha avuto modo di confrontare gli esiti del suo lavoro di ricerca con ricerche simili svolte all’estero? So che è stata recentemente invitata al Metropolitan Institute of Technology di Boston per portare la sua esperienza di lavoro sulle città
«Si, è stata un’occasione per aprirsi a nuovi spunti di riflessione e ricerca. Sono stata invitata al MIT Metro Lab, un laboratorio di ricerca e formazione composto da docenti e ricercatori del Dipartimento di Studi Urbani e di Pianificazione del MIT di Boston che organizza conferenze e workshop su alcuni temi della città contemporanea; il mio laboratorio in particolare si interrogava sulla creazione di una disciplina metropolitana con professionisti e docenti provenienti da università di tutto il mondo, da amministrazioni locali e istituzioni che si occupano a vario titolo dell’abitare.
Ho presentato La città sradicata e, nel panel di chiusura della settimana del workshop, insieme alle città di Parigi, Boston e New York, ho raccontato nello specifico il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana della Città Metropolitana di Milano. Tornando al contesto italiano, allo IUAV di Venezia stanno lavorando con alcuni paesi della Locride a un programma di inclusione abitativa e rigenerazione urbana attraverso la collaborazione di molti migranti.
Si tratta di un progetto che nasce sull’esempio di Riace, paese che era quasi completamente abbandonato fino a pochi anni fa, dove il sindaco ha cercato di invertire il processo di spopolamento e impoverimento anche culturale del territorio, ristrutturando le case e rimettendo in attività le botteghe artigiane grazie ai migranti arrivati nella città con gli sbarchi del 1999 e dando il via di fatto alla ricostruzione di un paese. Il modello Riace, come ora viene chiamato, ha saputo dare un indirizzo a tutta la Regione, basando il suo intervento di rigenerazione urbana su una prospettiva di accoglienza e inclusione.
Rispetto a questi temi, ritengo che questa sia la prospettiva di lavoro per il futuro più intensa e avanzata, perché ci può permettere di rinascere come Paese e come territorio. Ci stiamo muovendo, forse in ritardo rispetto ad altri, ma con alcune punte avanzate e progetti di riqualificazione e inclusione dagli esiti efficaci e intelligenti come questo».
Un signore è accusato di reato per aver provocato la morte di un bambino a causa di una diagnosi medica sbagliata. Chi punirà i signore osannati da se stessi e dai media pur avendo ucciso milioni di bambini, nel Mediterraneo e negli inferni di provenienza, per una diagnosi politica sbagliata?
la Repubblica, 28 maggio 2017
La ragazza nigeriana, ridotta ad uno scheletro, gli è morta tra le braccia durante il trasbordo dal gommone su cui viaggiava insieme alla famiglia. Aveva solo 19 anni. « Se fossimo arrivati mezz’ora prima forse a quest’ora sarebbe ancora viva — si dispera Michele Trainiti, capo delle operazioni di soccorso di Msf a bordo della Vos Prudence — ma c’eravamo solo noi giovedì in quel tratto di mare e i gommoni spuntavano uno dietro l’altro. Ne abbiamo soccorsi 12 in 24 ore senza che nessuno potesse venire a darci una mano e adesso ho 1449 persone a bordo di una nave che ne può contenere al massimo 600».
Al largo della costa di Taormina c’è una nave che naviga in condizioni disperate. Uomini e donne ammassate sui ponti, uno sull’altro, avvolti nelle coperte. Tre notti all’addiaccio, sotto il vento teso e il freddo, con le ustioni che bruciano e le ossa rotte dalle violenze inaudite subite in Libia. Non c’è spazio per tutti sotto coperta, entrano solo i 45 bambini, tra cui cinque neonati, il più piccolo ha solo 15 giorni di vita, e qualche donna incinta o in condizioni particolarmente precarie. Non c’è posto neanche per sdraiarsi ed è difficile persino muoversi per fare la fila nei sei bagni della nave. A bordo è pieno di spazzatura, le condizioni igieniche sono al limite ed è impossibile per i medici curare le persone come si dovrebbe. Un po’ di cibo è arrivato ieri grazie alla staffetta assicurata dalle motovedette della Guardia costiera davanti al porto di Palermo dove la Vos Prudence, però, non è potuta attraccare per il divieto di sbarco in tutta la Sicilia durante i giorni del G7 deciso dal capo della polizia Gabrielli per l’indisponibilità delle forze dell’ordine impegnate nella sicurezza del vertice.
E a sera, mentre è in navigazione sotto la costa messinese, Trainiti dice: «Se avessi potuto avrei sbarcato questa gente a Taormina per far capire a quelli che chiamate i Grandi della terra chi sono gli ultimi, per far vedere i loro volti e sentire le loro storie. Ma non ho potuto. Questa cosa dei porti siciliani chiusi per il G7 quando si sa bene che gli arrivi non si fermano è un altro scandalo e ora io mi ritrovo da 48 ore a navigare in queste condizioni. Li abbiamo salvati tutti noi, da soli, 12 soccorsi in 24 ore, in stretto raccordo con la centrale della Guardia costiera a Roma. Ma non c’era nessun’altra nave a meno di cinque, sei ore di navigazione che potesse venire in nostro aiuto.
Mi chiedo dov’erano le navi della Marina militare, quelle di Frontex, quelle di Eunavformed. Mi chiedo, se non ci fossimo stati noi, che fine avrebbero fatto queste 1449 persone. Sarebbero morte tutte come quella povera ragazza nigeriana che è spirata sotto i nostri occhi e come la sua amica che era senza vita sullo stesso gommone. Ora sono nella nostra camera mortuaria a bordo, le stiamo portando a Napoli dove spero potranno trovare almeno una degna sepoltura ». Tre notti e tre giorni di passione a bordo, carichi di tensione tra i migranti sofferenti per le gravissime violenze e torture subite in Libia, ma anche di solidarietà tra questi uomini e donne capaci di togliersi un biscotto dalla bocca per darlo a chi sta peggio. È successo questo venerdì quando gli 800 salvati nei soccorsi del pomeriggio precedente e già rifocillati con le provviste a bordo della nave hanno dovuto stringersi per far posto ai nuovi arrivati per i quali non c’era più cibo. «Ho visto decine di persone spezzare la barretta che gli avevamo dato e offrirla a chi aveva più fame di loro o far posto sotto una coperta. Una lezione di umanità».
Il contenuto dell'accordo è chiarissimo: costruiamo barriere invalicabili per impedire ai disgraziati popoli delle regioni che noi stessi abbiamo fatto diventare inferni di sfuggirne. Se questo non è nazismo!
la Repubblica, 22 maggio 2017, con riferimenti in calce
«Vertice con i ministri dell’Interno di Libia, Niger e Ciad. Cabina di regia a Roma contro il traffico di esseri umani La strategia: centri di accoglienza nel deserto e guardie di confine addestrate per identificare gli schiavisti»
Ora c’è la conferma del ministero dell’Interno. Italia, Libia, Niger e Ciad lavoreranno insieme contro il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina in uno dei punti cruciali delle rotte migratorie, il confine sud della Libia. L’operazione “Deserto rosso” era stata anticipata mercoledì scorso da
Repubblica, ma ieri, dopo il vertice al Viminale presieduto dal ministro dell’Interno Marco Minniti e al quale hanno partecipato i suoi omologhi di Libia, Aref Khoja, di Niger, Mohamed Bazoum, e del Ciad Ahmat Mahamat Bachir, c’è stata la descrizione dell’accordo nei particolari.
Roma ha ottenuto dunque la cabina di regia per gestire le operazioni in Africa e verificare periodicamente gli obiettivi dell’accordo. Quattro i punti principali dell’intesa: «Lavorare assieme per contrastare il terrorismo e il traffico di esseri umani, con l’obiettivo di assicurare la sicurezza dei confini; sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera creando una “rete di contatto” tra le forze che controllano i vari confini; sostenere la costruzione di centri di accoglienza in Niger e Ciad; promuovere lo sviluppo di un’economia legale alternativa a quella collegata al traffico di esseri umani».
Per sostenere le guardie di frontiera saranno impiegati i militari italiani, tuttavia la missione al momento non è stata annunciata dal ministero della Difesa perché i negoziati sia con i Paesi africani, sia con i partner europei, Francia e Germania su tutti, sono stati portati avanti soprattutto dall’Interno. Il finanziamento sarà invece a carico degli Esteri, con 200 milioni già stanziati per l’assistenza alle aree interessate dalle rotte dei migranti. Per quanto si parli di promozione dell’economia legale in alternativa ai proventi del traffico di esseri umani, la missione sarà essenzialmente militare. Una squadra specializzata dello Stato Maggiore della Difesa è in Niger da settimane, per studiare le possibili basi, in collaborazione con i militari francesi già presenti nella zona. L’obiettivo principale è infatti di addestrare un corpo di guardie di confine libiche, come previsto dagli accordi siglati a Roma lo scorso 2 aprile tra una sessantina di tribù del Sud, per contrastare jihadisti e trafficanti. Poiché però i governi libici non accettano la presenza di forze straniere, è stato necessario puntare sul Niger e il Ciad per i centri di accoglienza in cui potenziare i controlli di frontiera per identificare gli schiavisti e assistere i migranti.
L’incontro di oggi è un passaggio cruciale della strategia voluta da Minniti fin dal suo insediamento al Viminale, per chiudere la rotta migratoria dalla Libia all’Italia. Il ministro dell’Interno vuole rafforzare la guardia costiera libica e per aiutarla a fermare i barconi è prevista entro giugno la consegna di dieci motovedette. Poi si punta a chiudere la rotta del Mediterraneo all’origine, con operazioni di polizia sui cinquemila chilometri di confine che separano appunto la Libia dal Niger e dal Ciad, dove da anni agiscono indisturbate le organizzazioni di trafficanti di esseri umani.
riferimenti
L'accordo promosso e firmao dal governo italiano (Minniti ha voluto che la "cabina di regìa fosse a Roma) è un'applicazione del patto scellerato (come lo ha definito Alex Zanotelli) per contrastare con la violenza l'esodo, reso inevitabile dalle efferrate politiche compiute dal capitalismo negli ultimi secoli, e particolarmente nella sua attuale fase terminale. Si veda anche, di Alex Zanotelli, No Migration compact
La grande manifestazione milanese. Una fiumana unita, ma senza ipocrisie. Articoli di Marco Revelli e Luca Fazio, Piero Colaprico, Daniele Fiori. il manifesto, la Repubblica, il Fatto quotidiano, 21 maggio 2017il manifesto
20 MAGGIO,
LA RIVINCITA DELL’UMANO
di Marco Revelli
Un mare di persone, coloratofestoso e accogliente. «Il mare a Milano» si presentava così ieri a chiarrivava alle due del pomeriggio a Porta Venezia, con il grande striscioneufficiale giallo «Insieme senza muri», a segnare il denominatore comune del grandemosaico. E poco distante l’altro, bianco a lettere nere, a far chiarezza pertutti sul comune sentire: «No one is illegal», con vicino, a colori,quello ancor più grande con la traduzione, «Nessuna persona è illegale».
Affermazione perentoria che ritornerà in mille cartelli,magliette, adesivi zizzagando lungo tutto il serpentone del corteo. Intornotanta, tanta gente di ogni etnia, di ogni età, di ogni paese che s’incrociava,incontrava, mescolava con accenti diversi, vestiti diversi, storie diverse, appartenenzediverse, ma tutti trascinati nel ritmo amico della grande festa tranquilla. Etutti coinvolti nella comune consapevolezza che si stava, insieme, sul versantedi uno spartiacque che sta decidendo del futuro del mondo e del mondo delfuturo, rispetto al quale non si può più dilazionare il momento della scelta.Se non ora quando?
Si è discusso molto sulle linee di frattura che organizzano oggiil campo del conflitto politico e sociale. Quella che divide Destra e Sinistra,dichiarata da più parti obsoleta e stracca. Quella che contrappone Alto eBasso, emergente e turgida, capace di disegnare lo scenario dei nascentipopulismi. Quella tra Conservazione e Innovazione, con tutto il carico diambiguità che entrambi i termini contengono. La linea di frattura rispetto allaquale si è schierata ieri Milano (e a Milano l’Italia) è la linea che separa econtrappone Umano e Inumano. Linea d’ombra estrema, in qualche modo terminale,che conduce le comunità alle questioni ultime: essere o non essere ancora capacidi riconoscersi l’un l’altro, e il Noi nell’Altro.
Chi ha sfilato ieri ha sentito il bisogno di dire moltosemplicemente, che voleva «restare umano». Non girare lo sguardo di fronteall’immagine di un uomo che muore, di un bambino che affoga, di una donna chepartorisce su una spiaggia e poi spira. Una scelta potente (con una carica dienergia positiva forte), perché quando l’Umano scende in campo con tutta la suaforza, gli argomenti del Disumano svaniscono, come i fantasmi di un romanzogotico: lo si vedeva bene ieri dove, nella «sua» Milano Matteo Salvini sembravauna misera ombra, irreale e grottesca, evocata solo da qualche cartelloirridente (uno recitava + Salvati /- Salvini).
Ma il 20 maggio milanese ha detto anche un’altra cosa. Un calmo,pacato ma fermo No all’ipocrisia politica. Alle finzioni e ai giochi doppi otripli. I cartelli gialli con su scritto «No Minniti e Orlando» checostellavano il corteo in tutti i suoi segmenti, dalla coda alla testa, nonerano espressione di una posizione «di parte». E nemmeno di una vocazione«divisiva».
Nella loro rizomatica pervasività esprimevano un sentimentodiffuso e condiviso d’intransigenza su questioni di fondo quali sono quelle deidiritti e del rispetto della vita: non si può ridurre la nuda vita a minacciadel «decoro urbano». Non si possono creare corsie veloci e preferenziali per leespulsioni a scapito dei giusti gradi di giudizio. Non si può trattare constati canaglia e tribù affinché respingano a crepare nel deserto coloro che nonsi vuole veder approdare sulle nostre spiagge… Semplicemente non si può. Chi lofa, magari di nascosto, dietro il paravento dell’ipocrisia diplomatica, sicolloca sul versante del disumano.
il manifesto
IN 100 MILA ALLA PARATA PER I MIGRANTI.
UN MONDO È GIÀ QUI
di Luca Fazio
«Insieme senza muri. Con la giornata per l'accoglienza, fortemente voluta dall'assessore Piefrancesco Majorino, e sostenuta dal sindaco Beppe Sala, si materializza il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia. Un successo clamoroso che ha dato voce a chi con diverse sfumature chiede a questo governo politiche immigratorie inclusive e non discriminatorie come la legge Minniti-Orlando»
Siamo contenti? Contentissimi. Ma consapevoli. Che non ci si può godere in eterno un pomeriggio come questo trascorso in una delle piazze più accoglienti d’Europa. Torneremo nella dura realtà, ma domani. Oggi siamo stati travolti, organizzatori compresi, da una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. La parata per l’accoglienza è sfuggita di mano, a tutti. Meno male. Passerà alla storia come il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia, anche perché si è materializzato come per incanto in uno dei momenti peggiori della storia recente. I numeri contano: sono circa100 mila persone, vere. Chilometri di storie diverse, unite da uno stesso sentimento, magari confuso ma sincero. Milano-Barcellona 1-1. E così Milano – e speriamo che davvero sia sempre in anticipo sui tempi – da ieri potrebbe cominciare a raccontarsi come una città “top player” dell’accoglienza.
Direbbe così il sindaco manager Beppe Sala, uno dei protagonisti assoluti di questo 20 maggio che somiglia a un 25 aprile di quelli meglio riusciti. Sembra l’unico politico, lui che politico non è, consapevole che – sommessamente – “il tema dell’immigrazione riguarderà le nostre vite per i prossimi decenni e io voglio essere un costruttore di ponti non di muri”. E ancora: “Di fronte al tema epocale delle migrazioni non si può girarsi dall’altra parte, vi prometto che non lo farò. Lavoro ogni giorno per costruire una grande Milano, ma questo non avrebbe senso se si perdesse l’anima solidaristica della città, io cercherò di fare Milano grande ma senza dimenticare la solidarietà”. Vedremo nei fatti se saprà onorare questo suo indiscutibile successo. Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso – “chi nasce e studia qui è italiano” – si è lasciato andare sul palco in piazza del Cannone che fino a sera ha raccolto i pensieri di chi ha voluto testimoniare la propria presenza (con Radio Popolare che trasmetteva il tutto facendo gli onori di casa). Emma Bonino ha guardato avanti: “Milano oggi esprime quello che sarà il futuro del paese, piaccia o non piaccia”.
Il 20 maggio è anche una liberazione per tutti. Da un incubo che per anni ha paralizzato e continua a demoralizzare la parte migliore della società: è la paura di dichiararsi e fare politica definendosi antirazzisti, anche alzando la voce. Invece, forse, si può fare anche se per essere convincenti bisognerà lavorare duro, aggiornarsi e sporcarsi le mani. Compitino per la sinistra: erano tutti a Milano i leader del nuovo frastagliato corso (Mdp compreso). La voce per esempio l’ha alzata l’assessore Piefrancesco Majorino (giù il cappello, please) quando ha urlato contro Matteo Salvini e le sue “infamie” dette per insultare le persone che hanno raccolto il suo invito ad esserci, ognuno con la sua specificità e non senza qualche asprezza dichiarata.
Sono schegge di un vortice impossibile da mettere a fuoco con un’occhiata. Lasciamo perdere il “variopinto” ed il “colore”. La musica, ça va sans dire, ma non basta per dare l’idea. Ecco: il vero motivo per cui è andata alla grande è la presenza dei cittadini stranieri, mai visti così tanti tutti insieme. Non erano invitati, sono protagonisti a casa loro. Un mondo è già qui. Speriamo che un documentarista abbia raccontato la complessità delle moltitudini che si sono palesate con le loro storie drammatiche o già risolte, in t-shirt pettoruta o in costume tradizionale come all’apertura delle Olimpiadi. C’erano tutti. Ucraini, cinesi (nella loro compostezza marziale), cingalesi, salvadoregni, messicani, senegalesi, e profughi, persone non illegali che stanno aspettando di sapere se l’Italia vorrà farne dei cittadini o nuovi prigionieri da rispedire da qualche parte. Forse a morire. Tanto per tornare sul tema dell’accoglienza, che dopo una giornata come questa sarebbe bene non declinare in maniera approssimativa per lavarsi la coscienza senza tenere conto che le leggi approvate dal governo fanno carta straccia proprio di tutto quanto è stato detto ieri a Milano. Nuove prigioni, legislazione su base razziale, espulsioni di massa e respingimenti in Libia concordati con milizie da addestrare.
Chiedono altro i centomila. La contrarietà alla legge Minniti-Orlando è stata espressa in forme diverse lungo chilometri di percorso. Con cartelli, sventolando lembi di coperte termiche oro e argento, quelle che avvolgono i corpi dei migranti sopravvissuti. Guardarsi attorno e cogliere questo comune sentire non significa voler semplificare il dato politico. Il nodo rimane quello. Ognuno lo ha ribadito a modo suo. Tutte le associazioni cattoliche la pensano così e hanno dato prova di una grande capacità di mobilitazione (un leader credibile loro ce l’hanno). Tutte le associazioni laiche che si occupano di immigrazione hanno voluto esserci e potrebbero tenere seminari sui danni che provocherà la legge del Pd. I ragazzi dei centri sociali, quelli della piattaforma “Nessuna persona è illegale”, lo hanno urlato in faccia ai pochi esponenti del partito che ieri hanno preso coraggio e si sono rintanati nel primo spezzone del corteo. Chi con la guardia del corpo e chi un po’ meno al sicuro protetto da una gabbietta comica costruita dai City Angel per attutire le contestazioni. Sono stati presi a male parole ma niente di che, l’unico striscione del Pd che ha preso aria era un simpatico fake che ha guastato il colpo d’occhio alle prime file ingessate: “Pd, peggior destra” (niente di eversivo, solo centri sociali che citano Saviano…).
A proposito, sinceri applausi all’assessore extraterrestre del Pd,Pierfrancesco Majorino. Ci ha creduto fin dall’inizio. Adesso? E’ già ora di rimettere i piedi per terra. Ieri sono sbarcati 358 migranti a Trapani, 560 a Vibo Marina e 734 ad Augusta.
la Repubblica
LA MARCIA DEI CENTOMILA
di Piero Colaprico
«A Milano il popolo dell’accoglienza: “Ponti, non muri. ”In piazza anche il presidente del Senato Grasso: “È italiano chi nasce e studia qui” Berlusconi: “Così si delegittimano gli agenti del blitz alla stazione”»
Ma dov’è stata tutta questa gente che è uscita, verrebbe da dire, da chissà quali catacombe? Dov’erano per esempio sino a ieri, con le loro bandiere con il leone giallo in campo rosso, che ricordano quelle dei leghisti veneti, i giovani dello Sri Lanka? Hanno i costumi tradizionali, c’è chi balla e chi sfila con le divise della scuola, a decine mostrano alcuni cartelli vagamente surreali: «Visitate il nostro paese», con le foto del mare. Dai Bastioni di Porta Venezia è talmente tanta la gente, e a occhio uno su due è straniero, che il corteo parte mezz’ora prima, alle 14. All’inizio ci sono 50mila persone, alla fine dal palco si dice che erano centomila, in effetti, siccome i telefonini funzionano come radio militari, si sentivano messaggi di questo genere: «Dove sei esattamente?». E le risposte stupiscono: «Ancora in piazza Repubblica?, ma noi siamo in piazza del Cannone, al Castello, ma com’è possibile?».
Il sindaco Giuseppe Sala ci ha visto giusto, nel voler rilanciare, in una Milano dove crescono gli investimenti immobiliari e la popolazione universitaria, la marcia pro-migranti di Barcellona. Lo descrivono a volte come un gelido manager, ma non ha detto no alla mamma, Stefania: «Sono orgogliosa, gliel’ho chiesto io di venire, ho 86 anni, ma capisco — dice — quando bisogna scendere in piazza». E così, chi sognava il flop, il «meno di diecimila persone », chi pontificava, «Milano non ha bisogno di manifestazioni, tanto si sa che Milano tradizionalmente accoglie», è stato sconfitto. C’è una Milano che non si nasconde e, almeno in parte, sa che può crescere sia con i cinesi che sfilano dietro al dragone giallo e sia con gli africani che portano a spalle un canotto. Marciano a venti metri di distanza gli scout in divisa e i «Sentinelli», il gruppo che sfila in rappresentanza delle famiglie non tradizionali. Arabe con il velo e messicani con il sombrero, borchie e crocifissi, mani di Fatima e cornetti. Ballano i peruviani e le peruviane, con costumi teatrali, rigidamente separati, comandati gli uni da un uomo e le altre da una donna con un fischietto. Si capisce immediatamente che la giornata — vale la pena di sprecare un aggettivo retorico — può essere «epocale», nel senso che questo 20 maggio contrassegna un’epoca, la nostra, ed erano anni che non si vedevano così tante persone, bambini compresi, come quelli della scuola Palmieri, i più allegri con un gigantesco telo arcobaleno, alzare la voce. E manifestare per «un’Europa che accoglie», slogan che allineano le bulgare con i fiori tra i capelli e il ragazzo con la maglietta «Non sono straniero, sono stranero».
C’è chi certamente si ostina a vedere l’immigrazione di un unico colore, quello ritenuto più utile nel voto: il colore della paura, il nero della cronaca. Da Ismail Hosni, l’accoltellatore scoppiato della Centrale, che scaricava sì i video dell’Isis, ma pure quelli delle gang latine. Ad Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ammazzato a Sesto San Giovanni, non mancherà mai materiale per il leghista Matteo Salvini: «Questa è la marcia degli invasori, siamo ostaggi degli immigrati, ci stanno portando la guerra in casa, farò una marcia degli italiani», grida. E, da destra, anche Silvio Berlusconi prova ad attaccare quella che è la sua Milano, sostenendo che il corteo «delegittima le forze dell’ordine, io non l’avrei fatto».
Sono parole molto lontane dal fiume di colori, che vanno dal giallo argento delle coperte lucide con le quali si coprono i naufraghi al bianco-rosso di Emergency. Dallo striscione della Camera del Lavoro di Brescia a Pax Christi e al bianco della comunità di Sant’Egidio, portato da tre ragazze del liceo Berchet e da un giovane nero che dormiva al «Binario 21», nello stesso luogo dal quale partivano i treni per i campi di sterminio. C’è un gruppone autodefinito «via Padova», i ragazzini di una scuola di teatro con addosso la tuta bianca usata dalla polizia scientifica e ci sono, impresse su un lenzuolo, le mani dei giovani stranieri accolti in una comunità del Giambellino. Molta musica, di ogni genere, si leva lungo le strade e si cammina come spinti da un vento nuovo, quello di chi, come dice il presidente del Senato, Piero Grasso «Non vuole muri e siamo qui a dirlo anche a chi i muri li vuole, io sono qui per difendere la costituzione e chi nasce e studia qui è italiano». Lo stesso spirito viene colto dall’ex segretario Pd Pierluigi Bersani: «Sono qui perché questo 20 maggio è una specie di 25 aprile dei tempi nuovi». Si sono visti don Colmegna, Massimo D’Alema, Giuliano Pisapia, continuamente braccato da chi gli dice di unire sinistra e centrosinistra, Carlo Petrini di Slow Food, Susanna Camusso della Cgil, e da parte del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni arriva un tweet, «Grazie Milano,sicura e accogliente».
Contro Grasso, contro Sala, contro gli assessori Carmela Rozza e Giancarlo Majorino la sola contestazione è mossa da una quarantina di persone del centro sociale Cantiere, e fa un po’ impressione che il più esagitato sia Leon Blanchard, figlio di un famoso e ricchissimo gallerista. Per loro il Pd è «la peggior destra» e «Minniti razzista», ma la contestazione dedicata anche al ministro dell’Interno non ha prodotto alcun effetto concreto: «Meglio le contestazioni, che rinunciare alla marcia. C’è tantissima gente — dice il sindaco Sala — e so di vivere in una grande città con tante contraddizioni, ma sono convinto che se avessero chiesto ai militari feriti se fosse giusta la manifestazione avrebbero detto di sì. Hanno sofferto ma sono servitori dello Stato. Come sindaco io voglio essere costruttore di ponti e non di muri».
Molto applaudita anche Emma Bonino, che ha rincarato la dose: «Dobbiamo imparare a rimanere umani. Questa è la Milano dell’integrazione e della legalità e ora fatevi un regalo. Mettete una firma per voi e per il vostro futuro», e cioè contro la legge Bossi-Fini.
Finite le parole della politica e delle persone, è cominciata la musica e la festa in piazza gestita da Radiopopolare: a qualcuno non piacerà, ma è come se, in nome dei diritti sociali, la Milano che non sta a destra avesse ritrovato un po’ se stessa, quello che era, quello che potrebbe essere.
Il Fatto Quotidiano
PER I MIGRANTI 100 MILA IN CORTEO
(CON FISCHI AL PD)
di Daniele Fiori
«Sinistra divisa - I Democratici contestati per il decreto Minniti»
Una manifestazione parallela, perché le parole sono condivise, ma i fatti vanno in un’altra direzione e i promotori dell’iniziativa “sono gli stessi del decreto Minniti-Orlando”. Così si spiegano le proteste che hanno segnato la marcia “Insieme senza muri”, organizzata dal Partito democratico milanese con l’assessore Pierfrancesco Majorino in testa, sostenuto dal sindaco Beppe Sala. Lo slogan dell’iniziativa ha funzionato e ha portato circa 100mila persone a marciare per le strade da Porta Venezia fino a Parco Sempione, tra associazioni, stranieri di tutte le etnie e cittadini. Allo stesso tempo però ha messo in luce la chiara contraddizione che il Pd ha portato con sé ponendosi alla guida di una manifestazione pro-migranti. Una buona parte di chi era in strada considera infatti lo stesso Pd il responsabile della situazione in cui versa l’accoglienza oggi in Italia. E più che contro la legge Bossi-Fini, ha protestato contro il decreto del governo a firma dei ministri Marco Minniti e Andrea Orlando. Proprio Sala e Giorgio Gori, primo cittadino di Bergamo, sono stati a lungo contestati dai giovani del centro sociale Cantiere. Gridavano: “Minniti razzista” e mostravano lo striscione “Pd peggior destra”.
D’altronde la scritta “No Minniti Orlando”, insieme alle coperte termiche, è stata uno dei simboli della manifestazione. Portata al collo con fierezza da chi, come Roberta, sostiene sia “inutile parlare di Milano senza muri se poi è la stessa sinistra a costruirli”. Effetti collaterali di uno slogan che ha riunito in strada diverse anime della politica e della società civile, ma che è considerato in contraddizione con l’operato del governo. Lo dimostrano la presenza di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Stefano Fassina, fuggiti dal Pd, come anche di Gino Strada, Carlo Petrini e Moni Ovadia, rappresentanti di anime diverse della sinistra. Ma lo dimostrano pure le parole di Emma Bonino, eretta dagli stessi organizzatori a simbolo della marcia, che ha ammesso come il decreto Minniti-Orlando stabilisca “un diritto affievolito per i richiedenti asilo”. E così quando Sala ha cominciato il suo discorso dal palco di Piazza del Cannone, punto finale della marcia, davanti a lui campeggiava lo striscione “No Minniti Orlando”.
Subito dopo ha preso la parola il presidente del Senato Piero Grasso, interrotto a metà del suo discorso ancora dal coro “No Minniti”. La scommessa del sindaco di Milano è stata vinta in termini numerici, nonostante la difficoltà di organizzare una marcia a favore dei migranti nel mezzo delle polemiche sull’operato delle Ong nel Mediterraneo. Ma allo stesso tempo la grande risposta di pubblico ha fatto sì che emergesse in modo netto la contestazione di chi condivide i valori della marcia, ma non quello che il governo Pd ha fatto fino ad oggi. “Abbiamo organizzato e aderito all’iniziativa per fare una manifestazione parallela – spiega Zoe, membro della piattaforma No one is illegal – perché le parole portate oggi in strada dal Pd non corrispondono ai fatti”. Un’iniziativa pacifica, che si è unita al corteo dei migranti, facendo indossare anche a loro i cartelli con la scritta contro il decreto Minniti-Orlando.
“Una legge che aumenta le difficoltà dei disperati che arrivano in Italia”, accusa Santino. Le fa eco Paola: “Quando si costruiscono muri non importa se siano di destra o di sinistra, sempre muri sono”. Non stupisce lo striscione mostrato dall’associazione Clash city workers: “Pd = Lega”. E non sorprende che la maggior parte dei manifestanti siano d’accordo. Questo il pensiero di un’anima della marcia, una parte di elettori che si autodefiniscono “di sinistra”, con cui il Pd dovrà tornare a fare i conti, considerato il successo che l’iniziativa ha avuto. Anche perché in molti dicono di essere contenti dell’assenza di Renzi, “altrimenti la contestazione sarebbe stata dura”.
«Insieme senza muri. Più di mille associazioni laiche e cattoliche, centri sociali, partiti della sinistra e sindacati oggi partecipano alla marcia antirazzista. La piazza, critica apertamente le leggi sull'immigrazione Minniti-Orlando».
il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)
«Nessuna persona è illegale», poco importa se non sarà questo lo striscione che oggi a Milano aprirà la marcia per l’accoglienza dei migranti. L’incursione di chi ha lavorato per impedire che questa giornata antirazzista si trasformasse in una festosa e inutile parata filogovernativa ha già dato i suoi frutti.
Non è ancora una novità politica ma potrebbe essere più di un semplice slogan, forse è la speranza di ritrovare la forza per rovesciare un discorso a senso unico che negli anni ha tolto voce a chi si oppone al razzismo e alle leggi discriminatorie contro gli stranieri. E’ una storia lunga che si chiama Turco-Napolitano-Bossi-Fini-Minniti-Orlando.
L’obiettivo di chi oggi prova a rivoltarsi è ambizioso, riaggregare per andare oltre il 20 maggio e non farsi più schiacciare dalle schermaglie tra chi esibisce politiche razziste da destra e chi applica le stesse ricette criminali mascherandole con la retorica dell’accoglienza (in mare e nel deserto libico, si muore).
Con questa consapevolezza, sarà anche una festa. Con i bambini in prima fila (che ci guardano) e le musiche e le comunità straniere, per questo sarebbe bene dirla tutta senza ipocrisie. Sono attese in piazza migliaia di persone e considerata l’aria che tira, in Italia e in Europa, è già un fatto inedito rilevante. Un’occasione da non sprecare, pensano molti antirazzisti che da troppo tempo sono rimasti al palo. Non tutti però.
Comunque, sulla carta, ci saranno tutte le associazioni e le organizzazioni politiche e sindacali che vorrebbero riconoscersi in una società più aperta e inclusiva. Laiche e cattoliche, più di mille.
Ci sarà anche il Pd con qualche imbarazzo, è l’unica «formazione» invitata a non presentarsi in piazza con bandiere e simboli di partito (anche la presenza del ministro Maurizio Martina è percepita come un grattacapo).
Sono tre mesi che l’assessore Pierfrancesco Majorino (Pd), il primo a credere nella necessità di questa giornata, procede a tentoni con i piedi in due scarpe: da una parte non può fare a meno delle associazioni che lavorano con i migranti, tutte critiche con la legge Minniti-Orlando, e dall’altra non può rischiare di organizzare suo malgrado un corteo contro il governo e il Pd.
Ormai ci siamo. La voglia di esserci, forse per dovere, perché non ci si può sempre fare del male per eccesso di politicismo, è cresciuta in dirittura di arrivo anche per dare un segnale in controtendenza dopo un fatto di cronaca accaduto l’altra sera a Milano. Stazione Centrale, scenario perfetto: un giovane italiano senza fissa dimora, madre milanese e padre tunisino, Ismail Tommaso Ben Youssef Hosni, ha ferito tre agenti con un coltello da cucina durante un controllo. E’ indagato per terrorismo internazionale perché avrebbe postato un filmato sull’Isis. Leghisti, post fascisti e centro destri con la bava alla bocca - in testa Salvini e Maroni - hanno chiesto la sospensione della marcia.
Esemplare la risposta di Beppe Sala: «Resto convinto che l’accoglienza sia un dovere della nostra città e di chiunque possa alleviare le sofferenze di chi è in difficoltà serie e chiede aiuto. Confermo che guiderò la marcia . Il criminale che ha accoltellato gli uomini delle forze dell’ordine è figlio di madre italiana e di padre nordafricano ed è italiano a tutti gli effetti. Ciononostante a qualcuno fa comodo buttare questo atto criminoso sul conto dei migranti». Buon senso di libero manager.
Il sindaco è anche l’unico tra gli organizzatori che non avrà problemi di identità - e di relazioni con il Pd - se gran parte delle associazioni oggi non dimenticheranno di puntare il dito contro le leggi del governo che sono in contraddizione con lo spirito di accoglienza.
Lo sostiene chi si ritrova nella piattaforma «Nessuna persona è illegale» (centri sociali non solo milanesi, partiti della sinistra che non hanno bisogno di nascondere le bandiere, studenti, Arci Milano, Asgi, Naga, Melting Pot e altre 270 sigle).
E anche associazioni socialmente meno «pericolose» come Legambiente: «Affrontare la questione migranti come se fosse un problema di ordine pubblico, come fanno le pessime leggi 46 e 48 su nuove procedure per i richiedenti asilo e sicurezza urbana, proposte dal governo e approvate dal parlamento, è un’operazione pericolosissima» (la presidente Rossella Muroni).
E il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra, un’organizzazione non filogovernativa ma non per questo tacciabile di estremismo: «Chiediamo l’abrogazione delle leggi Minniti-Orlando, provvedimenti che, in nome di sicurezza e decoro urbano, portano ad un passo indietro sul piano dei diritti civili». Inutile nascondersi dietro un dito: fare nomi e cognomi oggi non è reato.
Chi ci sta scende in piazza alle 14,30 in Porta Venezia (la “piattaforma” anticipa alle 12 pranzando con i migranti). Pigri e riottosi possono rimediare con Radio Popolare, fanno una diretta esagerata.
«Il prontuario.Dal sarcasmo alla compassione ecco come zittire chi incita all’odio. Perché la prima guerra da combattere è contro il silenzio».
la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)
Come rispondere al razzismo aggressivo e manifesto senza mettersi sullo stesso piano di violenza verbale? Sono in tanti a tacere per questo timore, ma è un chiamarsi fuori che non paga. Il demoniaco sproloquio sul web dilaga anche perché sono forse troppo pochi quelli che hanno animo di rispondere pubblicamente, sul treno, per strada, al bar. La prima, vera guerra da combattere è contro il silenzio.
Brecht scrisse: «Non si dica mai che i tempi sono bui perché abbiamo taciuto». E i tempi furono bui per davvero. Non è la xenofobia il problema: ad essa va prestato attentamente ascolto. Essere inquieti di fronte all’Altro è un riflesso naturale e umano. Sbaglia chi non sa ascoltare questa paura. La classe politica ha il dovere di capire e gestire le tempeste identitarie generate dalla società globale per evitare che diventino odio, perché con quell’odio, poi, non si potrà più ragionare. È quanto accade sempre più spesso oggi.
Oggi siamo oltre il limite. Ed è diventato indilazionabile chiedersi in concreto con che parole rispondere a caldo, in modo efficace, alle provocazioni, stante che non serve porgere l’altra guancia, belare come agnelli o lanciarsi in raffinati pensieri. Bisogna avere a disposizione un’arma. Un vocabolario forte, metaforico, fulminante, capace di viaggiare su registri diversi. Qui provo a proporre un primo, un modesto arsenale di parole, una piccola officina che faccia da base per un vocabolario antagonista alle parole ostili.
La preghiera
«Prego perché tuo figlio non debba mai finire dietro un reticolato e perché tu non debba mai essere guardato come un miserabile. Prego Iddio che il tuo denaro e il tuo passaporto non siano mai rifiutati come carta straccia da un agente di polizia. Invoco il Signore perché i tuoi nipotini non debbano passare inverni nel fango, sotto una tenda, a mezzo chilometro da un cesso comune, con gli scorpioni e i serpenti che si infilano nelle loro coperte. Prego perché il tuo focolare non si riduca a un mucchietto di legna secca e il tuo unico contatto con la famiglia lontana sia il telefonino. Prego soprattutto perché tu non debba mai udire, rivolte a te, parole come quelle che hai appena pronunciato».
L’augurio
«Vorrei che tu non diventassi mai un miserabile, perché lo si diventa in un attimo. Basta molto meno di una guerra. È sufficiente un terremoto, un’alluvione. Una malattia, un tradimento, una truffa, un divorzio, un licenziamento, un bancomat che si nega allo sportello. Mio nonno emigrò per fame in Argentina, fece fortuna, poi la banca con tutti i suoi risparmi fallì e lui morì di crepacuore a quarant’anni, lasciando la famiglia in miseria. Oggi è peggio. Si diventa superflui per un nonnulla. Ti licenziano con un Sms. Anche senza emigrare».
L’accusa
«A sentire parole come le tue, se fossi un terrorista dell’Isis mi fregherei le mani. Penserei: che bisogno ho di fare altri attentati? Questi europei sono la mia quinta colonna. Si dividono invece di unirsi. Alzano reticolati fra loro. Risuscitano frontiere morte e sepolte. Picconano i loro valori: il laicismo, le garanzie, l’educazione scolastica. Invocano lo stato di polizia. Odiano le vittime del nostro stesso odio. Allontanano proprio quelli che meglio conoscono il loro nemico e potrebbero proteggerli dalla nostra aggressione. Cosa posso chiedere di più?».
L’ironia
«Bravi! Quando non ci saranno più stranieri, tutti i problemi saranno risolti. Niente più evasori fiscali, niente più debito di Stato, esportazioni di capitali, banche rapinate, assenteismo, inquinamento, disoccupazione, camorra, istruzione a pezzi... niente più ladri e imboscati, niente più congreghe di raccomandati che costringono i nostri figli a emigrare... Ma già, tu non chiami “emigrazione” quella dei tuoi figli, anche se finiscono nei call center con paghe da fame: la chiami “mobilità”, perché credi che a emigrare siano solo quelli con la pelle di un altro colore».
Lo sfottimento
«Urla, urla pure contro i migranti... Urlare è l’unica libertà che hai... Avrai tutti i megafoni che vuoi... Ti lasceranno fare perché le tue urla fanno il gioco dei potenti. Servono a coprire le loro responsabilità. A impaurire gli stranieri e abbassare il costo del lavoro. Le mafie, la grande distribuzione, l’alta finanza sentitamente ringraziano. Ma sappi che dopo gli stranieri toccherà ai tuoi, ai nostri figli. Non è mai stata inventata una forma più perfetta e perversa di dominio».
Il ghigno
«Però ti fa comodo che non tocchi a tuo figlio scannare galline in serie, sotterrare morti, pulire cessi e sottoscala, conciare pelli puzzolenti, raccogliere pomodori a cottimo, scuoiare manzi abbattuti, pulire i nostri vecchi in casa o in ospedale... Ti fa comodo, confessa, che ci siano gli stranieri. Il problema è che vorresti che, finito l’orario di lavoro, sparissero e che l’happy hour fosse solo per i tuoi figli. E io so perché: perché hai paura di conoscerli, gli stranieri. Perché se li conoscessi sapresti che sono come noi. E allora capiresti che il cerchio si chiude. Capiresti che dopo di loro toccherà a noi scannare galline in serie, pulire cessi e conciare pelli puzzolenti».
La commiserazione
«Vedi, io ho un’immensa pietà per quello che dici. Me ne dispiace. Perché se Gesù bambino tornasse, con sua madre, suo padre e l’asinello, lo chiuderesti in un centro di espulsione. Guai pensare che c’è qualcuno fuori al freddo. Sono cose pericolose. Fanno venire scellerati pensieri di frugalità... Non sia mai che la macchina del consumo rallenti prima di aver raschiato il fondo del barile. Perché solo allora capiremo che tra ghetti e agenzie di lavoro interinale, tra mafia e call center, tra il caporalato e le ottanta ora settimanali di lavoro inflitte legalmente da aziende senza patria, tra gli schiavi dei pomodori e i profitti dei signori in grigio non c’era nessunissimo confine».
L’avvertimento
«Ti piace Trump? Ti piacciono Theresa May e Marine Le Pen? Guardati dai falsi profeti, dai ladri e dagli scassinatori, guardati dai clown che recitano copioni da tragedia, dai contrabbandieri e dai seminatori di zizzania. Solo un’immensa, planetaria ingenuità può farti credere che un miliardario possa farsi paladino degli ultimi. Solo una colossale ignoranza, dopo due guerre mondiali, dopo l’autodistruzione della Jugoslavia e i massacri in Ucraina, può farti credere ancora alle parole di chi invoca la costruzione di muri nel nome delle nazioni. Additare nemici è l’ultima risorsa dei governanti incapaci».
La maledizione
«Via dall’Euro? Abbasso l’Europa? Vai, vai pure. Poi te lo paghi tu il mutuo. E dimmi, dove andrai? A diventare una colonia cinese? Ricordati la notte dell’Europa! Ricordati che ci siamo già suicidati due volte! Perfino il fascismo era meglio del berciare analfabeta! Oggi è Mein Kampf più Facebook, un’idea di stato governato da sceriffi e regolato dal porto d’armi universale. È questo che vuoi? Ricordati dei giornalisti uccisi! Ricordati che ci sono luoghi dove per il diritto all’informazione si muore!».
Le citazioni
«Non molesterai lo straniero, né l’opprimerai, perché foste anche voi stranieri in Egitto. Bibbia, Deuteronomio, 10.14 e 16-19». E ancora, anche se il rimando non è letterale: «Omero, Odissea, canto sesto. E Ulisse si accasciò sulla spiaggia dei Feaci, orrido a vedersi, ma Nausicaa, la figlia del re, non scappò da lui, gli diede di che mangiare, lavarsi e rivestirsi, e poi disse: raccontami la tua storia, straniero».
Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Per questo motivo lo scorso febbraio Barcellona è scesa in piazza. È stata la manifestazione più grande d’Europa a favore dell’accoglienza dei migranti. Ed è nata per la volontà della società civile e con l’appoggio delle istituzioni. Siamo davvero felici di sapere dunque che anche a Milano il 20 maggio si riaffermerà questa stessa volontà e la necessità di non barricarsi dietro anacronistici muri “ideologici” e fisici.
“Vogliamo accogliere” non è solo lo slogan in cui si è riconosciuta la manifestazione che ha sfilato nella mia città a inizio anno. È molto di più. “Vogliamo accogliere” è la nostra risposta, della cittadinanza e anche di molti sindaci, di fronte alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” con cui l’Europa tutta si deve confrontare.
Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché è nostro dovere. Siamo infatti noi, le città — e non gli Stati -, ad offrire un’opportunità reale di integrazione a immigrati e rifugiati. È nelle nostre strade e nelle nostre piazze che le persone smettono di essere numeri e diventano cittadini e cittadine. Ecco perché noi vogliamo e dobbiamo accogliere più persone e meglio.
Se non lo facciamo — se non ci impegniamo ad aprire la nostra comunità e la nostra società a chi lascia la sua casa e il suo Paese per cercare un’occasione di vita migliore nelle nostre città — , i nostri figli, i nostri concittadini ci chiederanno dove eravamo quando in Europa si alzavano muri e barriere contro quelli che fuggivano dalla guerra. Soprattutto ci chiederanno: che cosa avete fatto per evitarlo?
Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché l’appello del “popolo dell’accoglienza” che ha manifestato a Barcellona e che sfilerà a Milano per un “20 maggio senza muri” non lascia spazio a interpretazioni. Non abbiamo scuse per ignorarlo. Anzi, il coraggio, l’entusiasmo e l’apertura che così tante persone hanno dimostrato, dimostrano e dimostreranno ci spinge con forza a intraprendere azioni concrete e politiche.
Per questo motivo, serve l’aiuto e la collaborazione di molte altre città del mondo. Da Barcellona e Milano può nascere un network internazionale, in grado di indicare ai governi la via migliore da seguire per rispondere ai bisogni dei migranti, riconoscendoli come un’opportunità per la nostra società. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché nella gestione dei migranti l’Europa si gioca il proprio futuro e la propria credibilità. Le immagini che abbiamo visto in Italia, in Grecia e in altri Paesi stanno minando il progetto europeo e le sue conquiste; stanno mettendo in dubbio gli stessi principi fondanti dell’Europa. Oggi, davanti al pericolo di una “Europa- fortezza”, come città e come cittadini abbiamo la responsabilità storica di intervenire per cambiare la situazione. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo con serietà, ma anche con allegria ed entusiasmo. Perché le manifestazioni di Barcellona e di Milano altro non sono che una festa per i cittadini di tutto il mondo, un momento di incontro e di scambio, ricco di musica, colore, gioia e solidarietà.
Ecco allora che emerge con forza la necessità di ridare valore al Mediterraneo, di offrire al mondo un altro punto di vista per raccontare ciò che sta accadendo. Quel mare, che si è trasformato per molti migranti nel “mare della morte”, è infatti ancora il ponte, è il luogo in cui le culture si incontrano, è la ricchezza dei popoli che lo abitano. Affinché questa narrazione sia possibile ed evidente a tutti, le città devono unire le forze e continuare a essere un luogo di libertà che riconosce e garantisce i diritti a tutti coloro che in esse vivono. Per difendere tutto ciò, scendiamo nelle strade a manifestare. Vogliamo accogliere. Vogliamo continuare a farlo. E lo faremo, dando il nostro sostegno a Milano e a tutte le città che vorranno unire la loro voce alla nostra.
«I casi veneziani al Campus universitario nel convegno su criticità e pratiche sostenibili nel Nordest».
La Nuova Venezia, 17 maggio 2017 (m.p.r.)
Mestre. «Dopo Germania e Giappone, l’Italia è il terzo stato al mondo con il tasso demografico più negativo da anni, un Paese di vecchi destinato alla scomparsa se non saprà integrare al meglio i migranti». Senza peli sulla lingua il professor Giorgio Conti - coordinatore degli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia - ha introdotto ieri al Campus universitario di via Torino il convegno dedicato ad un tema sempre più scottante nel mondo d’oggi, per l’Italia in particolare che è il primo approdo della fiumana di migranti che fugge da guerre, discriminazioni, miseria e disastri ambientali.
«Da immigrati a produttori: l’inclusione produttiva dei migranti: buone pratiche e criticità del e per il Nord-Est». Piaccia o no, l’Italia - come ha dimostrato la relazione di un ricercatore della Fondazione Leone Moressa piena di dati aggiornati - l’Italia è destinata al «declino demografico se non affronta la sfida delle grandi migrazioni con una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva di tutto il Paese». L’altra chiave per leggere l’epopea delle nuove migrazioni è «conoscere le cause delle migrazioni che non sono solo le guerre».
Francesco Della Puppa, del Master dell’Università Ca’ Foscari sull'Immigrazione ha parlato del lavoro autonomo immigrato, nel quadro dell’attuale crisi economica, in particolare del caso delle popolazioni immigrate dal Bangladesh in Italia e si sono stabilite in gran numero anche a Venezia dove lavorano, in gran parte nei cantieri navali. Al convegno – organizzato dagli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia – sono stati presentati una serie di casi di «integrazione riuscita» di migranti, diventati una risorsa per l’Italia.
«Non bastano i dati per capire cosa sta succedendo» ha puntualizzato Stefano Soriani, docente del dipartimento di Economia di Ca’ Foscari «ci vogliono racconti positivi di integrazione e ci sono, basta volerli vedere e magari imitare». Sono stati così mostrati i casi emblematici, il senegalese Moulaye Niang “Muranero”, artigiano del vetro a Venezia e in questi giorni ospite a Riace, in Calabria, dove sta insegnando il suo mestiere ad altri migranti che si sono stabiliti in quel comune, diventato esempio nel mondo di un’integrazione multiculturale positiva. E ancora, il caso di Hamed Mohamad Karim, un afgano che ha già messo in piedi quattro ristoranti etnici a Venezia. Oppure i giovani del Mali che ora lavorano e sui terrazzamenti in abbandono della Val Brenta e “Casa Colori” uno strumento innovativo di social housing per il turismo sociale e responsabile di Dolo
«La settimana scorsa, motovedette libiche (riattivate dagli accordi con Minniti) hanno tentato di speronare una nave salva-profughi».
il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)
Il battesimo del fuoco è stato inquietante, il seguito si annuncia da brivido: alla prova dei fatti la politica euro-italiana per fermare l’immigrazione dalla Libia sembra la premessa di una catastrofe umanitaria essenzialmente ‘made in Italy’. Questo racconta la sorta di battaglia navale occorsa la mattina del 10 maggio davanti alle coste della Tripolitania. Ha opposto la nave di Seawatch, una Ong umanitaria tedesca, in quel momento impegnata nel salvataggio di forse 600 migranti stipati in un barcone che faceva rotta verso l’Italia; e due motovedette libiche, primo nucleo di una Guardia costiera che Roma sta resuscitando. Una delle due motovedette ha minacciato di speronare la nave di Seawatch, come dimostra il filmato che la ong ha messo in Rete; l’altra ha abbordato il barcone e l’ha ricondotto sulla costa, dove presumibilmente i passeggeri sono stati trasferiti in un ‘campo di detenzione’.
Formalmente le motovedette obbediscono al governo libico, che però è una finzione; di fatto sono la Marina del Viminale, essendo parte della strategia ideata dal ministro degli Interni Marco Minniti per contrastare il traffico di migranti. Iniziativa lodevole, quella italiana, se non fosse che le politiche si giudicano dai risultati, e questi sembrano pessimi. Impedire la partenza dei barconi senza aver organizzato una soluzione alternativa significa chiudere l’unica via di scampo rimasta ai migranti intrappolati in Libia, dai 150 ai 180 mila secondo la stima dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). La gran parte non ha i soldi per tornare indietro al Paese d’origine. Decine di migliaia sono prigionieri di bande armate e trafficanti.
Soltanto una piccola quota, seimila, detenuti illegalmente da milizie cosiddette ‘filo-governative’ in condizioni secondo l’Oim “inaccettabili”, ha il privilegio di ricevere ogni tanto coperte e medicine. Altri migranti vivacchiano, precariamente liberi, in attesa di un imbarco. Altri ancora sono in balia di tribù che per secoli, e fino a ieri, razziavano villaggi africani e rivendevano gli abitanti catturati come schiavi ai mercanti del Golfo (l’Arabia saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1960); e oggi, tornate all’antica vocazione, in un paio di città del sud organizzano aste pubbliche in cui vanno all’incanto migranti di pelle scura.
Tutto questo è ampiamente confermato da Oim, varie ong, agenzie Onu e documenti raccolti dalla Corte penale internazionale, che potrebbe presto formalizzare le indagini (secondo la procura dell’Aja numerose testimonianze confermano quanto siano comuni “omicidi stupri e torture” e quanto diffuso “il mercato di esseri umani”). Malgrado questo, Roma e l’Unione europea fingono di non sapere quale Cuore di tenebra sia oggi la Libia.
Pretendono anzi di applicare anche in Tripolitania la strategia cui sono ricorsi in precedenza, offrendo soldi e aiuti a governi mediterranei purché fermassero i flussi di migranti. Il problema è che la Libia non è l’Egitto o la Turchia, anzi non è: non esiste più uno Stato, tantomeno uno stato di diritto. Dietro la Guardia costiera c’è soltanto un caos ribollente di 200 mila armati. Dunque che ne sarebbe di quei 150-180mila esseri umani se le motovedette libiche riuscissero a bloccare o almeno a socchiudere la via per l’Italia?
Per sottrarsi a questa domanda Minniti, ma di fatto l’Unione, hanno deciso di nascondere il problema con uno stratagemma semantico. In Libia, dice il ministro degli Interni a Repubblica, ci sono soprattutto migranti ‘economici’, categoria esclusa dalle tutele internazionali: “Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra”, dunque non può chiedere di essere accolto come rifugiato politico. Ma è così? In Nigeria, Gambia e Bangladesh chi vive in alcune regioni o appartiene a determinati gruppi etnici o politici ha discrete possibilità di finire torturato o ammazzato.
Inoltre è ovvio che i migranti finiti in Libia sono molto più poveri di quanto li pretenda Minniti, altrimenti avrebbero comprato il visto in uno tra i consolati europei specializzati in questi traffici. E anche la povertà può comportare condizioni di vita intollerabili, come il ministro dell’Interno scoprirebbe leggendo, per esempio, quanto scrive Human Rights Watch sul lavoro minorile nel Bangladesh.
Se però partiamo dall’idea che quei migranti siano quasi tutte persone avventurose che cercano fortuna in Italia, allora diventa legittimo fermarli e rimandarli da dove sono venuti: e questo è il nucleo della nuova strategia euro-italiana. La Guardia costiera fermerà i barconi e ricondurrà i migranti sulla terraferma, dove troveranno, annuncia Minniti, “campi di accoglienza sotto la responsabilità dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dell’Oim”, già finanziati dalla Commissione europea con 90 milioni. I campi di accoglienza, “oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti”, renderanno “più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito”, cioè rimanderanno a casa i migranti ‘economici’.
Quel che Minniti omette è che Alto commissariato e Oim sbarcheranno in Libia solo quando potessero operare in condizioni di sicurezza, cioè in futuro imponderabile, comunque lontano; e se anche oggi fossero lì, riconoscerebbero alla gran parte dei migranti il diritto di ottenere la protezione internazionale almeno come “appartenenti a gruppi vulnerabili”, in quanto ostaggi o vittime delle milizie libiche (status che li metterebbe in condizione di chiedere asilo all’Europa). Dunque la sostanza della politica euro-italiana è che i guardacoste di Minniti fermeranno illegalmente i migranti in mare e li deterranno illegalmente, probabilmente fin quando non potranno scaricarli illegalmente in Niger, uno dei 10 Paesi più poveri del mondo. Nel frattempo in Italia continueremo a dibattere sul tema se quelli delle Ong siano o no cinici mentitori che violano la legge.
«Nel 2013 una nave italiana era vicina al barcone affondato. La Marina poteva salvare i migranti ma l’ufficiale ordinò: “Andate via”.Indagine archiviata». Gli assassini colpevoli di questa strage saranno punbiti come meritano?
la Repubblica, 13 maggio 2017
LA Marina militare italiana si nascondeva. Il peschereccio crivellato di colpi con a bordo 480 profughi siriani in tutto, il dottor Mohanad Jammo, sua moglie, i loro tre figli e altri100 bambini, sta affondando a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Ma da via della Storta 701 a Roma il Comando in capo della squadra navale, il Cincnav, ordina a nave Libra di togliersi di mezzo. Proprio così: deve nascondersi per non farsi vedere dalle motovedette maltesi. Sono le 15.37 dell’11 ottobre 2013. La Libra dall’inizio dell’emergenza è l’unità più vicina, appena 17 miglia, un’ora di navigazione. Il capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, ufficiale in servizio alla centrale operativa aeronavale telefona a Luca Licciardi, 47 anni, capo sezione attività correnti della sala operativa del Cincnav. Gli chiede che cosa deve riferire alla Libra. La risposta di Licciardi è questa: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro».
Malta è lontana 118 miglia. La motovedetta maltese è ancora a più di due ore. Il capitano Giannotta obbedisce e chiama la Libra. Ordina che si tolga dalla congiungente tra Malta e il barcone, la rotta più breve. Con le seguenti parole: «Perché se vi vede a un certo punto (la motovedetta maltese)... eh, gira la capa al ciuccio e se ne va». E così l’ultima salvezza, la nave militare comandata da Catia Pellegrino, 41 anni, l’unico ufficiale davvero all’oscuro dello scaricabarile, si allontana oltre l’orizzonte, portandosi a 19 miglia nella direzione opposta al barcone. A quell’ora potrebbero ancora salvarli tutti. Il peschereccio si rovescia alle 17.07, dopo cinque ore di inutile attesa dalla prima richiesta di soccorso alla Guardia costiera. Almeno duecentosessantotto morti, sessanta bambini, quasi tutti caduti in mare e mai più ritrovati.
La motovedetta maltese, il pattugliatore P61, arriverà sul punto del disastro soltanto alle 17.51. Nave Libra addirittura più tardi, alle 18. Riescono a tirare a bordo duecentododici persone. Scende la sera. E molti bimbi che i sopravvissuti giurano di aver visto in acqua aggrappati a tavole di legno non appaiono nell’elenco dei superstiti. Nel buio sono finiti alla deriva per sempre.
«Ricordo perfettamente il dramma di quel naufragio», dice Enrico Letta, capo del governo in quei terribili giorni: «Questa nuova tragedia dell’11 ottobre, insieme con quella della settimana prima a Lampedusa, ci spinse a varare subito l’operazione Mare nostrum. Ci sono momenti in cui il salvataggio delle vite umane è questione di ore, se non di minuti. E mi resi conto che non si poteva lasciare la soluzione di queste vicende alla mercé della buona volontà o della casualità, ma bisognava costruire un quadro giuridico ben preciso perché non ci fossero morti. Io sono orgoglioso della soluzione che trovammo, perché servì a salvare migliaia di vite. Anni dopo resto convinto che quel modello vale anche oggi».
La Procura di Roma ritiene che il comportamento tenuto dagli ufficiali della Marina sia regolare. Il 3 aprile di quest’anno, con un atto firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone e i sostituti Francesco Scavo Lombardo e Santina Lionetti, viene chiesta l’archiviazione per gli unici quattro indagati. Sono il capitano Giannotta, il collega Licciardi, la comandante Pellegrino e Leopoldo Manna, capo della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, tutti sotto inchiesta per omissione di soccorso. Nelle undici pagine della richiesta, da cui abbiamo estratto le telefonate del Comando della squadra navale, i magistrati scrivono che l’azione dei quattro «può ritenersi rispettosa della complessa e dettagliata disciplina del settore». Secondo Pignatone e i due sostituti procuratori, gli ufficiali non erano consapevoli del reale pericolo a bordo del peschereccio. L’indagine affidata alla Guardia di finanza, però, sembra non aver preso in considerazione le precise informazioni riferite alla Guardia costiera da Mohanad Jammo, 44 anni, il medico di Aleppo che con un telefono satellitare dal barcone alla deriva chiamava la sala operativa di Roma e della Valletta. Scartate anche parte delle conversazioni tra il Cincnav e la Guardia costiera e tra questa e le Forze armate di Malta durante le quali, alla formale richiesta dei maltesi, gli ufficiali italiani negano l’invio di nave Libra. Sono le stesse che sentiamo nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica.
Un’altra inchiesta contro ignoti è stata aperta ad Agrigento. Qui il procuratore Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Silvia Baldi hanno chiesto l’archiviazione perché, secondo loro, la responsabilità dell’omissione di soccorso è delle autorità di Malta: «L’imbarcazione dei migranti si trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali di quel Paese», scrivono i magistrati. Forse una svista: le acque territoriali arrivano a 12 miglia, il dottor Jammo e tutti gli altri sono fermi a 118 miglia da Malta. In realtà il peschereccio, pur essendo molto più vicino a Lampedusa, è nell’area di competenza maltese per le attività soccorso. Alle richieste di archiviazione hanno presentato opposizione i genitori che hanno perso i loro bambini, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini. Il loro appello alla giustizia è ora nelle mani dei giudici.
Le informazioni che il dottor Jammo riferisce al tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, l’ufficiale di servizio alla centrale di Roma, sono inequivocabili e ben comprese. Tanto che l’allora comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Felicio Angrisano, le riporta in una lettera inviata a
L’Espresso nel 2013: «Ore 12.39... presenza a bordo di due bambini bisognevoli di cure... unità che con motore fermo, imbarca acqua», scrive l’ammiraglio. A quell’ora Jammo dice che l’acqua nello scafo ha raggiunto il mezzo metro. Difficile sostenere che non si sappia del pericolo.
Alle 14.35 l’ufficiale di servizio a Roma, parlando con le Forze armate di Malta, scopre che non hanno ricevuto la parte di fax con cui la Guardia costiera chiedeva ai maltesi di assumere il coordinamento dei soccorsi. Due ore perse. Nonostante questo, la Marina continua a nascondere nave Libra. Alle 15.12 l’operatore Butera di Cincnav chiama il tenente Torturo per avere aggiornamenti. «Malta ha risposto: assumo il coordinamento », spiega Torturo: «Gli abbiamo detto che c’è una unità della Marina in zona. Non gli abbiamo dato posizione e niente». «Ah, ok», risponde Butera. A quell’ora la Libra, molto adatta quel tipo di soccorso, è ad appena 17 miglia. Il mercantile più vicino è a 70. Malta dirotta una sua motovedetta, ma è ancora lontanissima.
E alle 15.37 i superiori di Butera, Luca Licciardi e Nicola Giannotta, ordinano a Catia Pellegrino di andare a nascondersi. Alle 16.38 Antonio Miniero, 42 anni, tenente di vascello della Guardia costiera, telefona al capitano Giannotta della Marina. Gli dice che Malta ha mandato un aereo sui profughi alla deriva e i piloti hanno scoperto che la Libra è praticamente lì, a 19 miglia. Vogliono dare istruzioni alla nave, essendo i maltesi l’autorità di soccorso competente. La richiesta di Malta è ufficiale. «Sarebbe il caso... », suggerisce Miniero. «Un attimo, io qua ne devo parlare con il capo ufficio operazioni», risponde Giannotta. Alle 16.44 Licciardi, il capo ufficio, contatta Giannotta: «E chiude la telefonata dicendo che a nave Libra non devono dire niente», annotano i magistrati romani nella richiesta di archiviazione. Solo alle 17.04, all’ennesimo sollecito di Malta, il comando della Marina ordina a Catia Pellegrino di avvicinarsi. Tre minuti dopo il barcone dei bambini si rovescia. E la Libra è ancora lontana.
Fabrizio Gatti intervista Mohanad Jammo è il dottore che nel 2013 lanciò l’allarme. La nave, carica di 480 profughi dalla Siria, stava affondando. Salvare vite umane era l'ultima preoccupazione delle autorità italiane e maltesi che ne avevano la responsabilità. E non intervennero.
la Repubblica, 12 maggio 2017
IL dottor Mohanad Jammo non risponde al telefonino. Subito dopo manda un selfie su WhatsApp in cui appare in camice verde, mascherina su naso e bocca, la cuffia da chirurgo in testa. E il messaggio: «Mi scusi, sto per entrare in sala operatoria». La sua voce, nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica, ha fatto il giro del mondo: dal Washington Post alla Bbc ad Al Jazeera e molti altri l’hanno rilanciata in tv, alla radio e su Internet.
«La barca sta andando giù, ti giuro, c’è circa mezzo metro d’acqua nella parte bassa. Stiamo morendo, per favore», grida al telefono satellitare il dottor Jammo dal peschereccio su cui lui, sua moglie, i loro tre bambini e altri 480 profughi siriani stanno affondando. E l’ufficiale nella sala operativa della Guardia costiera italiana, impassibile: «Vai, vai, chiama Malta. Loro sono lì, sono vicini». Ma non è vero. La nave più vicina è un pattugliatore militare italiano. Si chiama Libra, è a poche miglia, meno di un’ora e mezzo di navigazione. Malta è a 118 miglia. Lampedusa a 61. Il mare quasi calmo. È il pomeriggio dell’11 ottobre 2013. Il peschereccio si rovescia dopo cinque ore di telefonate e di inutile speranza, con la Libra all’orizzonte in attesa di ordini. Duecentosessantotto morti, sessanta bambini annegati tra i quali Mohamad, 6 anni, e il fratellino Nahel, 9 mesi, due dei tre figli di Mohanad Jammo. Un disastro che ci ricorda quanto sia pericolosa la mancanza di collaborazione tra governi europei, comandi militari e autorità di soccorso nell’affrontare la tragedia del nostro tempo.
«Penso che ci abbiano lasciati affondare e che credessero che così poi nessuno avrebbe raccontato la storia. Non mi so dare altre spiegazioni», dice al telefono Mohanad Jammo, 44 anni, non appena esce dalla sala operatoria dell’ospedale dove oggi lavora. Ad Aleppo dirigeva l’unità di terapia intensiva e il servizio di anestesia e antirigetto del team per i trapianti. Ora vive in Germania, la patria che l’ha accolto con la moglie e l’unica figlia sopravvissuta, gli ha insegnato il tedesco e gli ha dato i mezzi perché tornasse a fare bene quello che sa fare.
Ha visto il video, ha risentito la sua voce?
«Sì, ho visto il film. Ma mi lasci dire, anche se sapevo che c’era stata qualche negligenza nei soccorsi, mi ha scioccato. Non immaginavo che qualcuno potesse sostenere di voler salvare centinaia di persone con la sua sola decisione, semplicemente lasciandole morire».
Nelle sue chiamate lei ripete più volte di essere un medico. Cosa si aspettava di ottenere? «Credibilità. Continuavo a dichiarare che sono un medico, sperando di ottenere credibilità perché sentivo che il destinatario delle mie chiamate non prestava molta attenzione a quello che stavo dicendo».
Sono molti i medici a bordo di quel peschereccio. Partono alle dieci della sera prima da Zuwara in Libia. E vengono presi a mitragliate nella notte da miliziani libici che, su una motovedetta fresca di fabbrica, vogliono fermare il barcone per rapinare o rapire alcuni passeggeri. I proiettili sparati sotto la linea di galleggiamento aprono i buchi nello scafo da cui comincia a entrare l’acqua. Due bambini sono gravemente feriti. È la prima ondata di massa di profughi, le cui case sono finite in mezzo ai combattimenti tra i ribelli e l’esercito di Damasco. Se ne vanno insegnanti, professori universitari, la borghesia di Aleppo. La Svezia ha appena annunciato che ai richiedenti asilo siriani sarà dato un permesso di soggiorno permanente. Mohanad Jammo, che allora ha 40 anni e i suoi amici e colleghi Mazen Dahhan, 36, neurochirurgo, e Ayman Mustafa, 38, chirurgo, si informano. E scoprono che però per arrivare in Svezia, così come in Germania o in Italia, non esistono vie legali. C’è soltanto la rete dei trafficanti libici. Loro sono già tutti in Libia con le famiglie perché, dopo i primi due anni di guerra ad Aleppo, rispondono all’invito della comunità medica libica che vuole riaprire gli ospedali. È un periodo di pace apparente. E infatti la guerra riesplode anche in Libia. I nuovi integralisti infastidiscono le loro mogli. Un capobanda locale vede la famiglia Jammo e pretende che, per il suo primogenito, Mohanad gli prometta in sposa la figlia di cinque anni. La piccola è bionda, la guardano tutti. Non resta che partire.
Il 3 ottobre leggono su Internet che un barcone è affondato davanti a Lampedusa e ci sono centinaia di morti. La paura fa cambiare idea. Ma arrivano notizie di combattimenti sempre più vicini. Le famiglie dei medici passano le giornate barricate in casa. E l’amico Ayman Mustafa una mattina in ospedale fa capire che non c’è altra soluzione: «Qual è la percentuale di rischio della traversata?» chiede a un certo punto. La calcolano: 366 morti a Lampedusa, su trentamila persone sbarcate in Italia dall’inizio dell’anno. L’1,2 per cento. «Siamo chirurghi», concludono subito dopo: «E in chirurgia un margine di rischio dell’1,2 per cento è praticamente nullo». Vendono le loro cose.
Pagano di più per essere imbarcati su un peschereccio sicuro. Il pomeriggio prima di partire i trafficanti li rinchiudono dentro una casa in costruzione. Un solo rubinetto e forse un buco da qualche parte per centinaia di persone. Due giorni senza mangiare e senza poter nemmeno far pipì. Mohanad Jammo ha comunque pensato a tutto. Anche al biberon e al latte in polvere per il piccolo Nahel. In un saccone di cellophane ha messo i giubbotti di salvataggio che ha comprato per tutta la famiglia. Ma nella notte s’addormentano sfiniti e glieli rubano. La scatola di latte in polvere gliela sequestrano all’imbarco: «Non vi serve, tanto tra poche ore sarete in Italia», gli dice un libico.
Come ha spiegato a sua figlia quello che è successo?
«Chiedo scusa, ma non voglio parlare della mia famiglia. Hanno fin troppi ricordi e troppo dolore ».
Come vi trovate ora?
«Qui in Germania ci troviamo bene. Ho cominciato a studiare tedesco fin dal mio arrivo a fine 2013. Ho poi superato un esame e nel novembre 2014 sono tornato a fare il mio lavoro di medico. L’autorità tedesca ha riconosciuto i titoli di studio che avevo in Siria ».
Cosa le è rimasto dentro diquel viaggio?
«Senta, io sono scappato dalla guerra perché non sono un fighter, un combattente. Io non posso combattere contro nessuno. Un essere umano non è un nemico. No, io sono un medico. Lavoro nel mio campo, conosco a fondo la mia specializzazione e questo è tutto ciò che posso fare. Ma vivere nel mezzo dei combattimenti, no, non posso. Non c’è nulla che possa valere la pena tanto da lasciare le nostre famiglie per andare in guerra».
Salirebbe a bordo di un barcone se si trovasse oggi dall’altra parte del Mediterraneo?
«La mia meta era trovare una vita migliore per i miei bambini. Ora, nonostante quello che è successo, la penso allo stesso modo e prenderei le stesse decisioni. Non cambierò i miei principi e non darò mai il mio sostegno a nessuna parte in nessuna guerra. Non credo nella guerra».
Il dottor Dahhan ha perso nel naufragio la moglie e i tre bambini di 9, 4 e un anno. Il dottor Mustafa la moglie e la figlia di 3 anni. È ancora in contatto con loro?
«Mazen e Ayman sono amici che erano con me sulla barca. Siamo in contatto e so che anche loro stanno lavorando duro per riavere la vita che meritano».
In tutta Europa molti pensano che stiano arrivando troppi profughi.
«Mi spiace, ma non credo in queste definizioni, così come non credo nei confini. Chi dà a lei il diritto di vivere e lavorare qui e di respingermi? Chi pensa che i probleminelle altre parti del mondo siano isolati da quello che succede qui si sbaglia. Così come credo che i governi di molte nazioni europee abbiano un ruolo enorme, negativo o positivo, in ciò che sta succedendo là
Il dottor Jammo torna al suo lavoro. I suoi piccoli Nahel e Mohamad sono rimasti per sempre a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Come quasi tutti gli altri sessanta bambini annegati, mai più ritrovati. E come Mabruk, significa augurio. È nato pochi minuti prima delle 17.07, l’ora del ribaltamento. Il terrore di quei momenti ha provocato il parto. Quando sentono le grida della madre, la pediatra Ola Mouaffek Shihab Eddin, 32 anni, e la ginecologa Naya Raslan, più o meno la stessa età, lasciano le loro famiglie e scendono sotto coperta per far nascere Mabruk. Sanno come finirà, ma non si tirano indietro. Annegheranno anche loro. Due gesti di eroismo in un mare pieno di vigliacchi.
la Repubblica online, ed. Milano) e un commento di Guido Rampoldi (il Fatto quotidiano online, blog Guido Rampoldi), 7 e 8 Maggio 2017, con postilla
la Repubblica, 7 maggio
TRAGEDIA IN ZONA STAZIONE:
GIOVANE RIFUGIATO SI TOGLIE LA VITA
DAVANTI AI PASSANTI
di Zita Dazzi e Franco Vanni
«Trovato impiccato non lontano dal nuovo centro di accoglienza. Aveva 31 anni, arrivava dal Mali ed era da un anno e mezzo in Italia. L'assessore Majorino: "Rafforzare ancora di più la rete degli interventi sociali, in questo Paese è priorità assoluta"»
Le indagini dei carabinieri di Porta Monforte hanno portato a identificare il cadavere nel corpo di un 31enne cittadino del Mali. Decisivo è stato il rilievo delle impronte digitali. L'uomo si trovava in Italia da almeno un anno e mezzo. Aveva un regolare permesso di soggiorno per protezione internazionale, già concesso e in corso di rinnovo a Modena. Non risulta che avesse indicato un luogo di dimora recente. L'autorità giudiziaria al momento non ha ritenuto di dovere disporre autopsia.
Il corpo è stato rinvenuto lungo la massicciata della ferrovia. Il giovane è stato visto mentre saliva sul muretto e poi si calava con la corda al collo. La morte è stata accertata intorno alle 12.50, ma quando è stato soccorso era ancora vivo, è morto nell'ospedale Niguarda. Una foto del giovane suicida è stata mostrata a tutti gli operatori che lavorano nei centri gestiti da Caritas e da Progetto Arca in Stazione e dintorni, ma per ora nessuno sembra averlo mai visto.
Si è suicidato appendendosi con un cappio a un pilone verso i binari della ferrovia, davanti ai passanti, in via Ferrante Aporti. Un giovane migrante di colore, senza addosso documenti o altri elementi di riconoscimento, è stato trovato così dagli agenti di polizia stamattina, domenica, a poca distanza dal Casc, il centro di aiuto sociale del Comune che da qualche giorno sta svolgendo le funzioni che prima venivano svolte all'hub di via Sammartini. Qui vengono controllati i documenti e i profughi vengono inviati ai centri d'accoglienza in città. I migranti neo arrivati, secondo le nuove disposizioni, non possono più restare nella zona della stazione ma vengono inviati in via Lombroso e al Palasharp, in strutture dedicate ai senza fissa dimora.
il Fatto quotidiano, 8 maggio
MIGRANTE SUICIDA A MILANO,
UN INVITO A NON VOLTARSI DALL’ALTRA PARTE
di Guido Rampoldi
Non si conoscono esattamente i motivi per i quali un ragazzo del Mali si è impiccato due giorni nella stazione centrale di Milano, ma colpisce il modo distratto e burocratico con il quale la gran parte di politica e stampa stanno archiviando l’episodio. Non mancano preziose eccezioni (l’assessore Pierfrancesco Majorino, il parroco don Giuliano Savina, per esempio). Però nel complesso sembra prevalere un desiderio di voltarsi educatamente dall’altra parte.
Grossomodo è quel che accadde in gennaio quando un altro migrante si uccise a Venezia, gettandosi nel Canal Grande. In quella occasione una giovane veterinaria emigrata in Francia, Lia Morpurgo, scrisse una lettera che tuttora mi pare l’antidoto migliore contro la nostra fretta di rimuovere questi suicidi. La pubblico qui di seguito con un’avvertenza: nel mettere in relazione l’indifferenza e l’ostilità che circondano i migranti con gli analoghi sentimenti della popolazione civile verso i prigionieri del lager nazisti, ovviamente Lia Morpurgo non ha voluto in alcun modo
La lettera e i versi
di Lia Morpurgo
«Sono una ragazza di 27 anni, e attualmente lavoro come veterinaria in un piccolo paesino nel nord della Francia. Sono una dei tanti giovani italiani emigrati all’estero alla ricerca di lavoro. O meglio, alla ricerca di condizioni di lavoro più dignitose, più umane, più rispettose della legalità, rispetto a ciò che il nostro Paese ahimè ci offre. Una migrante economica, insomma, come i tanti migranti provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente a cui invece vengono negati permessi di soggiorno, lavoro, speranze.
«Ieri, degli amici francesi mi hanno interpellato riguardo alla vicenda di Pateh Sabally, il giovane migrante gambiano morto annegato nel Canal Grande, sotto gli occhi indifferenti di centinaia di cittadini e di turisti. Me ne hanno parlato con gli occhi attoniti e addolorati, chiedendomi come potesse essere possibile che l’indignazione e la vergogna non brucino i nostri volti e le nostre coscienze. Pochissimi i commenti che i giornalisti italiani hanno dedicato a questo fatto doloroso. Pochissimi i commenti sugli onnipresenti, onniscenti “social”.
«L’indifferenza dell’opinione pubblica italiana si aggiunge, come un macigno, all’indifferenza con cui i presenti hanno lasciato annegare Pateh, come se non fosse un loro pari, come se fosse intoccabile. Giacché “… noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno tra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi, cenciosi e affamati e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione”.
«Non è un migrante a scrivere queste parole, ma Primo Levi, in Se questo è un uomo, parlando delle popolazioni che abitavano accanto ai campi di concentramento, indifferenti allo sterminio.
«Settant’anni dopo, due giorni prima del Giorno della Memoria, un giovane migrante di 22 anni è stato lasciato solo ad annegare nell’acqua gelata, circondato da una folla di persone che hanno poi continuato a dedicarsi alle proprie faccende, allo shopping, ai souvenir. Vi domando, come è possibile aver voltato la testa, aver dimenticato?
«Riflettiamoci, e soprattutto, ricordiamo:
«Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi»
postilla
È proprio il piazzale antistante la Stazione centrale di Milano lo scenario che il governo Gentiloni Minniti scelse pochi giorni fa per mostrare a tutti, e in particolare ai "clandestini", il pugno duro che si era pronti a usare nella repressione dei "diversi". Non sappiamo se c'è una connessione diretta tra i due eventi, ma certamente quello sfoggio di violenza di Stato non ha contribuito a tranquillizzare quei nostri simili che sono fuggiti dagli inferni che il nostro mondo ha pesantemente contribuito a rendere tali.
Ha preso il via, dal 1° maggio scorso, la raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare della campagna "Ero straniero - L'umanità che fa bene", per cambiare le politiche sull'immigrazione in Italia.
Il suo scopo: cambiare il racconto, superare la legge Bossi-Fini e vincere la sfida dell’immigrazione, puntando su accoglienza, lavoro e inclusione .
L’iniziativa è promossa da: Radicali Italiani, Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ACLI, ARCI, ASGI, Centro Astalli, CNCA, A Buon Diritto, CILD, con il sostegno di numerosi sindaci e organizzazioni impegnate sul fronte dell’immigrazione, tra cui Caritas Italiana e Fondazione Migrantes.
Proposta di legge di iniziativa popolare “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”.
Sintesi delle proposte
Permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari
S’introduce il permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani e per consentire a coloro che sono stati selezionati, anche attraverso intermediari sulla base delle richieste di figure professionali, di svolgere i colloqui di lavoro. L’attività d’intermediazione tra la domanda di lavoro delle imprese italiane e l’offerta da parte di lavoratori stranieri può essere esercitata da tutti i soggetti pubblici e privati già indicati nella legge Biagi e nel Jobs Act (centri per l’impiego, agenzie private per il lavoro, enti bilaterali, università, ecc.), ai quali sono aggiunti i fondi interprofessionali, le camere di commercio e le Onlus, oltre alle rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero.
Reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta)
Si reintroduce il sistema dello sponsor, originariamente previsto dalla legge Turco Napolitano, anche da parte di singoli privati per l'inserimento nel mercato del lavoro del cittadino straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio nazionale, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale.
Regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”
Si prevede la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l’esistenza in Italia di un'attività lavorativa (trasformabile in attività regolare o denunciabile in caso di sfruttamento lavorativo) o di comprovati legami familiari o l’assenza di legami concreti con il paese di origine, sul modello della Spagna e della Germania. Tale permesso di soggiorno per comprovata integrazione dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso attesa occupazione” e nel caso in cui lo straniero, in mancanza di un contratto di lavoro, dimostri di essersi registrato come disoccupato, aver reso la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego. Si prevede inoltre la possibilità di trasformare il permesso di soggiorno per richiesta asilo in permesso di soggiorno per comprovata integrazione anche nel caso del richiedente asilo diniegato in via definitiva che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.
Nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali
Il riconoscimento delle qualifiche professionali deve avvenire non solo su base del titolo acquisito all’estero, ma anche attraverso procedure di accertamento standardizzate che permettano la verifica delle abilità e delle competenze individuali acquisite mediante precedenti esperienze professionali.
Misure per l'inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo
Si prevede di ampliare il sistema Sprar puntando su un'accoglienza diffusa capillarmente nel territorio con piccoli numeri, rafforzando il legame territorio/accoglienza/inclusione attraverso tre azioni essenziali: apprendimento della lingua, formazione professionale, accesso al lavoro. Si introducono misure per aumentare, a beneficio di tutti, l'efficacia dei centri per l'impiego, da finanziare con i fondi europei Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione), a partire dall'aumento del numero degli addetti e la creazione di sportelli con operatori e mediatori specializzati nei servizi rivolti a richiedenti asilo e rifugiati.
Godimento dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati
Ai lavoratori extracomunitari che decidono di rimpatriare definitivamente – a prescindere da accordi di reciprocità tra l’Italia e il paese di origine - va garantito il diritto a conservare tutti i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati in modo che possa goderne, al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, anche in deroga al requisito dell’anzianità contributiva minima di vent’anni.
Uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale
Vengono eliminate tutte le disposizioni che richiedono, per l’accesso a molte prestazioni di sicurezza sociale (assegno di natalità, indennità di maternità di base, sostegno all’inclusione attiva ecc.), il requisito del permesso di lungo periodo, tornando al sistema originario previsto dall’art. 41 del T.U. immigrazione che prevedeva la parità di trattamento nelle prestazioni per tutti gli stranieri titolari di un permesso di almeno un anno.
Garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri
Sono previsti interventi legislativi a livello nazionale affinché tutte le Regioni diano completa e uniforme attuazione a quanto previsto dalla normativa vigente in materia di accesso alle cure per gli stranieri non iscrivibili al Sistema sanitario nazionale (SSN). In particolare si chiede: piena equiparazione dei diritti assistenziali degli stranieri comunitari a quelli degli extracomunitari, coerentemente con i LEA, e inclusa la possibilità di iscrizione al medico di medicina generale, onde garantire la continuità delle cure, e il riconoscimento ai minori, figli di cittadini stranieri, indipendentemente dallo stato giuridico, degli stessi diritti sanitari dei minori italiani.
Effettiva partecipazione alla vita democratica
Si prevede l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Abolizione del reato di clandestinità
Si abolisce il reato di clandestinità, abrogando l’articolo 10-bis del decreto legislativo 26 luglio 1998, n. 286.
Se chi governa sapesse governare e decidesse che salvare vite umane viene prima delle competenze allora la burocrazia sarebbe uno strumento di salvezza, e non uno strumento di morte.
la Repubblica, 9 maggio 2017
«PER favore, stiamo morendo. Per favore, 300 persone, stiamo morendo ». Il lucido terrore, la voce incredula e supplicante di Mohanad Jammo, medico siriano in fuga dalle bombe con la moglie e i tre figlioletti, è un pugno allo stomaco che stordisce in giorni in cui la legittimità della presenza delle navi delle Ong a ridosso delle acque libiche e il loro operato sono fortemente messi in discussione. Le registrazioni audio pubblicate sul sito dell’Espresso delle conversazioni telefoniche dell’11 ottobre 2013 tra la sala operativa di Roma della Guardia costiera e un grosso barcone in balia delle onde nel Canale di Sicilia dopo essere stato mitragliato da una motovedetta libica raccontano il drammatico e dimenticato retroscena (su cui nessuna Procura ha mai indagato a fondo) di uno dei più grossi naufragi della storia. Appena otto giorni dopo quello davanti alle coste diLampedusa, a rovesciarsi in un tratto di mare tra l’isola e Malta, fu un grosso barcone di legno su cui viaggiavano 480 profughi siriani, quasi tutte famiglie. Annegarono in 268, tra cui 60 bambini mentre, vergognosamente, Italia e Malta si rimpallavano la “competenza” sul soccorso e la nave Lybra della Marina militare rimaneva ferma per più di cinque ore in attesa di ordini per poi arrivare sul luogo del naufragio quando era ormai troppo tardi.
L’audio delle conversazioni tra il dottor Jammo, a bordo del barcone che stava già imbarcando acqua, e gli operatori che rispondevano alle chiamate di soccorso alla sala operativa di Roma è sconcertante. Un’ora e un quarto dopo aver ricevuto la prima richiesta di soccorso, con le coordinate navali precise e il numero elevatissimo di bambini, donne e uomini in gravissimo rischio di vita, a Roma continuano a suggerire ai migranti di chiamare Malta. «Signore, ti ho dato il numero dell’autorità di Malta. Siete vicino Malta. Vai, vai, chiama Malta direttamente, loro sono lì».
A nulla serve il grido disperato che arriva dal barcone dove l’acqua è ormai alta più di mezzo metro sul fondo e ha invaso la stiva. «Per favore, ho chiamato Malta. Ci hanno detto che siamo vicini a Lampedusa più che a Malta». E poi, scandendo le parole: «Stiamo morendo, per favore, stiamo morendo, 300 persone, stiamo morendo».
Niente da fare. Da Roma, con molta flemma, sanno solo rispondere: «Hai chiamato Malta? Devi chiamare Malta, signore, Stai parlando con Italia». «Sì, sì, Italia. Lampedusa è in Italia — insiste disperato il medico siriano che è ormai agli sgoccioli con il telefono dopo due ore di chiamate — Non abbandonateci, il credito è finito. Siamo senza credito. Se tagliano la linea, per favore, hai il mio numero ora, chiamami tu».
Ma da Roma l’unica chiamata che parte ben tre ore dopo è verso la sala operativa di Malta per una burocratica contesa sulla competenza di quel soccorso. I maltesi fanno notare che la nave più vicina è una della Marina militare italiana, ma nulla si muove fino alle 17.07 quando è Malta a chiamare per dare notizia dell’avvenuto naufragio.
«Il nostro aereo ha visto il barcone rovesciarsi, la gente è in acqua, è urgente, il barcone è affondato ». «Ma è lo stesso barcone? », chiedono da Roma. Sì, lo stesso che per quattro ore e mezza ha invocato aiuto invano. Solo a quel punto intervengono Italia e Malta, i superstiti vengono recuperati e divisi tra i due paesi. A Porto Empedocle sbarcano cinque bimbi piccolissimi soli che, un mese dopo, solo grazie a Repubblica sono stati ricongiunti ai genitori, finiti a Malta, che li credevano ormai morti.