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Riuscire a fare cose in sé sbagliate in modi sbagliati per servire meglio le voglie della speculazione immobiliare e il diffuso razzismo. Di questo record d'insipienza morale e politica ci raccontano gli articoli di Carlo Lania, Luca Kocci e Rachele Gonnella. il manifesto, 27 agosto 2017
«SIAMO RIFUGIATI,
ABBIAMO DIRITTO
AD AVERE UNA CASA»
di Carlo Lanìa


La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul presunto racketdegli affitti nello stabile di via Curtatone sgomberato giovedì dalle forzedell’ordine. Un’ipotesi che i rifugiati eritrei che occupavano una parte deisette piani dell’edificio che affaccia su piazza Indipendenza ieri hannorespinto con decisione. «Non pagavamo per poter dormire in una stanza, i soldiservivano per le ristrutturazioni e le pulizie», hanno spiegato in molti.

Dopo le cariche indiscriminate di tre giorni fa, quando sonostati svegliati dalla polizia e sgomberati a colpi di potenti getti d’acqua daigiardini dove dormivano da alcuni giorni, ieri per i rifugiati eritrei èarrivato il momento per un piccolo riscatto. Sono stati loro ad aprire la manifestazioneindetta dai movimenti della casa, e lo hanno fatto con un striscione con cuihanno voluto ricordare a tutti che loro sono «rifugiati e non terroristi». Piùdi cinquemila le persone che hanno partecipato al corteo che da piazzadell’Esquilino ha attraversato pacificamente il centro della città fino apiazza Madonna di Loreto dove i manifestanti hanno dato vita un sit in echiesto l’apertura di un tavolo sull’emergenza abitativa tra Regione, Comune eprefetto.

Ma al centro della manifestazione ieri sono stati i rifugiati divia Curtatone, diventati loro malgrado uno dei simboli delle molte occupazioniesistenti a Roma (secondo alcune stime oltre 90). «Vogliamo una casa, vogliamoun tetto, vogliamo la possibilità di poter mandare a scuola i nostri figli»,hanno gridato lungo via Cavour. Tra di loro anche una delle donne colpitegiovedì dal cannone ad acqua della polizia mentre cercava di recuperare vestitie documenti in piazza Indipendenza. «Gli ultimi episodi avvenuti nella capitaledimostrano il pieno fallimento delle politiche dell’accoglienza in Italia, dovesi ragiona solo per emergenze e in nome del profitto, generando mostri comequello di Mafia capitale», ha spiegato la «Coalizione internazionale deisans-papier».

Italiani e stranieri hanno sfilato insieme. Presenti tutte leprincipali realtà delle occupazioni capitoline, dai Blocchi precarimetropolitani al Coordinamento cittadino lotta per la casa. Nel corteo ancheuna delegazione delle 60 famiglie accampate nella basilica dei santi Apostoli:«La nostra colpa è la povertà», è la protesta affidata a uno striscione.

Dopo quello di via Curtatone in teoria nelle prossime settimane aRoma potrebbero esserci altri 15 sgomberi classificati come urgenti in unalista stilata sedici mesi fa dal prefetto Francesco Tronca, all’epocacommissario prefettizio della capitale, all’interno del «Piano di attuazionedel programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma capitale». Sgomberiche, come indicò Tronca in una delibera, dovrebbero essere eseguiti solo «manmano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa». Lastessa linea adottata ora dal Viminale che dopo gli scontri di giovedì invieràla prossima settimana ai prefetti unacircolare con le nuove linee guida per gli sgomberi, indicando come prioritarioil reperimento di abitazioni alternative prima di poter procedere con le forzedell’ordine. L’emergenza casa potrebbe però entrare anche nell’ordine delgiorno dei lavori del Campidoglio. Stefano Fassina, deputato e consiglierecomunale di Sinistra italiana, ha assicurato di voler chiedere alla conferenzadei capigruppo dell’assemblea capitolina di indire un consiglio comunalestraordinario per il piano casa.

«Qualcuno sta creandouna politica della paura ma non è questa la soluzione», ha detto ieri unaportavoce del movimento riferendosi a quanto accaduto nella capitale negliultimi giorni. L’esito della manifestazione dimostra che però è una politicache si può sconfiggere.

VIA CURTATONE, ILVATICANO:
«VIOLENZA INACCETABILE»
di Luca Kocci
«Migranti. Il segretario di Stato Parolin al meeting di Clesprime sconcerto e dolore per le immagini delle sgombero»
Le immagini dellosgombero dei migranti dallo stabile di via Curtatone e poi da piazzaIndipendenza a Roma «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattuttoper la violenza che si è manifestata, una violenza che non è accettabile danessuna parte». È quello che pensa il segretario di Stato vaticano cardinalePietro Parolin – il più stretto collaboratore di papa Francesco -, interpellatoa margine del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dove ieri èintervenuto sul tema «L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo».

A Roma, precisa ilcardinale, «c’era la possibilità di fare le cose bene, secondo le regole. Oraci sarà l’impegno a trovare delle abitazioni alternative per queste persone.Penso che se c’è buona volontà le soluzioni si trovano, senza arrivare amanifestazioni così spiacevoli». Certo, «ci si poteva pensare prima», rispondead una domanda, «perché soluzioni non mancano».

Se nel dialogoestemporaneo con i giornalisti Parolin cammina sul filo dell’equilibrio,durante il suo intervento all’interno dei padiglioni della kermesse ciellina ilcardinale è più netto. «Una parte non piccola del dibattito civile e politicodi questo periodo si è concentrata sul come difenderci dal migrante», dice ilsegretario di Stato vaticano. «Per la politica è doveroso mettere a puntoschemi alternativi a una migrazione massiccia e incontrollata. È doveroso stabilireun progetto che eviti disordini e infiltrazioni di violenti e disagi tra chiaccoglie. È giusto coinvolgere l’Europa, e non solo. È lungimirante affrontareil problema strutturale dello sviluppo dei popoli di provenienza dei migranti,che richiederà comunque decenni prima di dare frutto». Ma, aggiungerivolgendosi alla platea di Cl, «non dimentichiamo che queste donne, uomini ebambini sono in questo istante nostri fratelli. E questa parola traccia unadivisione netta tra coloro che riconoscono Dio nei poveri e nei bisognosi ecoloro che non lo riconoscono».

«Eppure – conclude, bacchettando i «cattolicidella domenica» – anche noi cristiani continuiamo a ragionare secondo unadivisione che è antropologicamente e teologicamente drammatica, che passa da un’loro’ come ’non noi’ e un ’noi’ come ’non loro’», mentre «abbiamo bisogno diricomprendere senza superficialità il tema della diversità, della suaricchezza, in un quadro di conoscenza e rispetto reciproci».

LO SGOMBERO E IL DESTINO
DEL PALAZZO DI VIA CURTATONE
di Rachele Gonnella


«Affari del mattone nella capitale. Mistero sul futurodell'edificio occupato dai rifugiati da quasi quattro anni»
Il palazzo da cuiesattamente una settimana fa la polizia ha cacciato i circa mille rifugiati –poi in parte accampati con donne e bambini nelle aiuole della sottostantepiazza Indipendenza e cacciati anche da lì con gli idranti tre giorni fa – èormai vuoto. O meglio, dei nove piani – più due sotterranei – dell’edificiorazionalista costruito negli anni cinquanta a non più di cento passi dalla stazionetermini resta vivo solo il supermercato al piano terra.

Attraverso le finestredella balconata rimaste aperte, da dove i bambini eritrei e etiopi sisporgevano durante il blitz per fare linguacce ai poliziotti «caritatevoli» chemanganellavano i loro parenti, ora entrano le cornacchie. E nessuno per ilmomento, neanche al i municipio, sa quale potrebbe essere la prossimadestinazione di quelle ampie metrature che un tempo ospitavano gli uffici della Federconsorzi.

Né si capisce l’urgenzadi quell’ordine di sgombero forzato in pieno agosto, cioè a ridossodell’apertura delle scuole, senza una effettiva e concordata alternativad’alloggio per tante famiglie, per lo più cattoliche, che abitavano là dentro.

L’occupazione andavaavanti dall’ottobre del 2013, e il decreto di sequestro preventivo per«invasione di terreni e edifici» – l’occupazione, appunto – è stato firmato dalgiudice il 1° dicembre di due anni dopo, quindi due anni e mezzo fa.

Di solleciti allaprefettura, per l’esecuzione dello sgombero forzato dei locali, da allora se nesono succeduti almeno tre.

Due solleciti da partedella proprietà risalgono all’inizio del 2016, quando poi all’interno delpalazzo un soprallugo dei vigili del fuoco portò al sequestro di unacinquantina di bombole di gas usate per preparare i pasti. Sempre in quelperiodo indagini della guardia costiera sui tabulati telefonici di sospettiscafisti portarono all’arresto di un paio di occupanti. Ma anche allora non siprocedette allo sgombero.

I dirigenti delsupermercato escludono che il palazzo sia ora stato messo in vendita, magariper sfruttare la ripresina del mercato immobiliare romano. «abbiamoristrutturato tutto solo un anno fa con un grosso investimento e il contrattod’affitto è appena stato rinnovato», dice l’addetto stampa che presidial’ingresso in giacca e cravatta, soddisfatto della cacciata deiclienti-occupanti e della presenza di due blindati dietro l’angolo.

Di certo la proprietà haavuto un danno dall’occupazione, calcolato in 240 mila euro l’anno di bolletteper acqua e luce – allacci che non si possono staccare in casi di primarianecessità come questi – e 575 mila euro di Imu e Tasi. Ma si tratta dispiccioli considerati volumi d’affari e plusvalenze miliardari dei proprietari:il fondo d’investimento omega, ossatura della holding idea fimit sgr, uncolosso finanziario nato per incamerare e mettere a reddito le grandi e spessoprestigiose proprietà immobiliari di banche (omega ha «in pancia» gli immobilidi intesa-s.paolo) o enti pubblici come Enasarco e Inps, diventato inbrevissimo tempo (dal 2008 al 20111, in piena crisi) primo playeritaliano di fondi immobiliari e quarto a livello europeo.

È una creatura dimassimo caputi, ingegnere civile che dall’azienda del padre onofrio, altroingegnere civile amico dell’«asfaltatore d’Abruzzo» Remo Gaspari a Chieti,diventato top manager dell’alta finanza real estate. Caputi, con moltemani in pasta – siede nei cda di Acea, Mps, Antonveneta – è un ex amico e oggi,vice presidente di Assoimmobiliare, concorrente di Caltagirone. E proprio conla ristrutturazione della vicina stazione termini ha avuto il suo trampolino dilancio.

Di recente è uscito daidea Fimit. Nel frattempo la «sua» creatura, tramite il fondo Alpha, è in balloper affittare due grossi edifici a Massimina, periferia nordovest dellacapitale, come hub per immigrati. I fili del destino tra l’1% e gli ultimi delrestante 99% talvolta si intrecciano.
«Prefettura e Campidoglio non sapevano quanti fossero i profughi. Soluzioni solo per 103: “Così famiglie divise”. Le pressioni della proprietà. I 700 in strada».Secondo il Palazzo chi non è "fragile" non ha bisogno di un tetto.

il Fatto quotidiano, 26 agosto 2017


Alla fine rimane la strada. La risposta per i 700 rifugiati – forse 800 secondo altre fonti, forse di più – che ora vagano dopo il doppio sgombero di piazza Indipendenza a Roma si ferma alla lista dei “salvati”. Sono 104 i nomi nell’elenco che la Prefettura di Roma ha consegnato al Campidoglio, con le situazioni ritenute di “fragilità”. Ovvero ammalati, disabili, famiglie con bambini. Le possibili soluzioni sul tavolo – in un caos di rimpalli e scaricabarile – riguardano solo queste persone. Per tutti gli altri nessun diritto e neppure sistemazioni temporanee. Quando si è riunito il Comitato per l’ordine pubblico non sapevano neanche quanti fossero, da tempo la polizia non metteva piede in quel palazzo.

La storia di via Curtatone inizia il 19 agosto, quando la Questura avvia l’espulsione degli occupanti. L’edificio, occupato da quattro anni, era già stato sottoposto a sequestro preventivo da parte del Tribunale e ospitava per lo più rifugiati eritrei ed etiopi. Dopo l’operazione di polizia una task force composta dai servizi sociali del Comune di Roma, dall’ufficio minori del commissariato e dalla proprietà – citata in un comunicato ufficiale della Questura, ma che non è chiaro a che titolo partecipasse alla task force – ha avviato un censimento degli occupanti, con l’obiettivo di individuare i soggetti fragili, ovvero chi, secondo la legge, aveva diritto di ricevere una assistenza, anche abitativa. Un primo elemento anomalo è l’inserimento solo in epoca recente dello stabile nella short list degli sgomberi urgenti. È di proprietà di un importante fondo finanziario che evidentemente è stato capace di far valere le proprie ragioni assai più di numerosi privati che pagano le spese per gli stabili occupati a Roma.

Per cinque giorni, dopo lo sgombero di sabato scorso, i rifugiati rimangono in attesa di una risposta accampandosi, in parte, nei giardini di piazza Indipendenza, a due passi dalla stazione Termini, davanti al Consiglio superiore della magistratura, in una Roma ancora semivuota. Il 23 agosto, ovvero quattro giorni dopo la prima azione di sgombero, si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per discutere sul caso, poche ore dopo un primo tentativo di allontanamento dei rifugiati dalla piazza operato dalla polizia.

In un documento firmato dal gestore dell’immobile, la società romana Sea Srl, e dall’assessore alle politiche abitative della giunta capitolina Rosalia Alba Castiglione, datato 24 agosto, si legge: “In data 23 agosto 2017, in sede di comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, è emersa la necessità di intervento anche dell’Amministrazione capitolina atta a garantire l’accoglienza ricettiva per evitare problematiche di ordine pubblico e sanitarie”.

Sarebbe toccato al Comune, ma era di fatto impossibile risolvere l’emergenza in poche ore e le cariche del 24 mattina hanno fatto precipitare tutto. E dal Campidoglio fanno sapere che in realtà la Prefettura ha chiesto di trovare una soluzione solo per i 104 inseriti in una lista consegnata dopo il primo sgombero. Tutti gli altri? Nessuno sa neanche quanti siano. È la lista dei sommersi, degli invisibili. “Un’operazione di cleaning”, ovvero di pulizia, come ha detto al Corriere della Sera il prefetto di Roma Paola Basilone, che passa la palla alla giunta Raggi. La sindaca, da parte sua, replica che “la Prefettura nei dati che ci ha comunicato il giorno dello sgombero non ha citato la presenza di 37 bambini. Siamo stati avvisati dello sgombero – ha scritto su Facebook – a poco più di 12 ore dall’inizio” e ha attaccato la Regione Lazio “che ha disatteso il decreto legge Minniti che la chiama direttamente in causa” e denunciato “l’assenza di adeguate politiche nazionali”. “Un vergognoso scaricabarile”, attacca la sindaca.

Sono le 6 di mattina di giovedì 24 agosto. Tutti i rifugiati interpellati dal Fatto Quotidiano raccontano la stessa versione: “Siamo stati svegliati dagli idranti”. Parlano di cariche dure, mostrano i lividi, raccontano frasi inquietanti – “Siete come topi, andatevene” – che però non trovano conferma. La Questura anzi ribadisce che la resistenza è stata violenta, con lancio di sassi, bottiglie e di almeno una bombola di gas. Quattro i fermi.

Poche ore dopo una telecamera inquadra un funzionario di polizia, Francesco Zerilli, dirigente del primo commissariato di Roma, Trevi-Campo Marzio, mentre dirigeva una carica. Si sente la frase: “Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Già in serata la questura annuncia l’avvio di accertamenti, la preistruttoria disciplinare è aperta e il dirigente, se i fatti saranno confermati, potrebbe perdere l’incarico. “Non è un violento”, lo difendono i colleghi. Ma è lo stesso dirigente che nel 2014 guidò le cariche che provocarono diversi feriti, sempre a Roma in piazza Indipendenza, tra gli operai della Thyssenkrupp. Con lui si scontrò verbalmente l’allora leader della Fiom Maurizio Landini.

Il giorno dopo gli scontri la situazione è ancora più drammatica. Le case promesse dalla proprietà ai 103 sono in realtà sei villini da 90 metri quadri (due camere da letto), in mezzo alla campagna della provincia di Rieti, a decine di chilometri dalle scuole frequentate dai bambini. Ai nuclei familiari il Comune aveva offerto posti in case famiglia, ma spesso separando genitori e figli. “Volevano mandare la madre con il figlio da una parte e il padre in un’altra zona di Roma, per questo non abbiamo accettato”. Dormono alla stazione Termini o accolti dalla solidarietà del centro Baobab della stazione Tiburtina: “Ora vorremmo andarcene dall’Italia, ma non possiamo”. Un rifugiato registrato e riconosciuto può rimanere solo qui.

La denuncia dell'inazione della sindaca di Roma di fronte al problema dei senza casa cacciati con la forza e le proposte inascoltate di un suo ex collaboratore.

il manifesto, 26 agosto 2017
Le città vivono di avvenimenti simbolici che restano negli anni a venire. I due sgomberi del palazzo e dei giardini di piazza Indipendenza resteranno come una macchia indelebile sull’amministrazione Raggi. Nei quattro giorni drammatici vissuti dalla comunità di rifugiati non si è affacciato né il sindaco né il suo vice, un atteggiamento che dimostra una intollerabile insensibilità sociale. La giunta che doveva riscattare la città dalla vergogna di mafia capitale si è asserragliata nel palazzo Senatorio e occupa il suo tempo a consultare Genova o Milano per avere lumi. Possiamo suggerire di tentare di trovare un nome cui affidare il ruolo di Capo di gabinetto visto che è un anno preciso che fu sfiduciata Carla Raineri e da allora manca il garante della correttezza amministrativa degli atti comunali. Non era mai avvenuto prima.

E passando dal dramma alla farsa ecco le dichiarazioni del vicepresidente della Camera Di Maio che ha addirittura teorizzato la priorità dell’impegno del sindaco Raggi verso i romani, al di là dei quali ci sono evidentemente soltanto leoni. Per un movimento che voleva cambiare la cultura politica italiana non c’è male. Il peggio seguirà.

Se mancava la città capitale, a piazza Indipendenza c’era però lo Stato. Quello con il volto meraviglioso del poliziotto che consola la donna disperata e quello del prefetto Gabrielli che accusa della mancata utilizzazione del finanziamento di 130 milioni conquistato con fatica negli anni scorsi per risolvere i problemi dei senza tetto. Su queste stesse pagine avevamo dato atto del suo lavoro quando era prefetto di Roma. Resta il fatto scandaloso che quei soldi non siano stati ancora spesi per responsabilità dell’amministrazione comunale.

È la prima volta che vinco il riserbo cui mi ero finora attenuto, ma dopo aver assistito a tre sgomberi avevo redatto e consegnato al sindaco e ai membri della giunta un progetto dal titolo «Un tetto per tutti» in cui tentavo di fornire un quadro di obiettivi per risolvere il problema delle occupazioni in atto a Roma.
- Il primo era nel riuso delle caserme abbandonate.
- Il secondo stava nella costruzione su aree pubbliche di piccole dimensioni comunali o dell’Ater (duemila metri quadrati) di edifici da assegnare a senza tetto. I 130 milioni di Gabrielli non erano certo sufficienti ma la bravura di una amministrazione si misura anche nella capacità di strappare risorse. Questa proposta fu in particolare contestata dalla stessa Raggi che mi ricordò che i 5Stelle erano contro il consumo di suolo. Su un altro tavolo erano però favorevoli allo stadio della Roma che prevedeva cemento su 20 ettari (cento volte di più!) solo di parcheggi.
- La terza stava nella piena utilizzazione del patrimonio pubblico spesso abbandonato o occupato da famiglie senza titolo.
- La quarta stava nella legalizzazione di alcune delle occupazioni in atto perché la proprietà privata deve essere certo rispettata ma all’interno di quanto previsto dalla nostra Costituzione.

L’elenco era più ampio, ma ciò che preme sottolineare è il fatto che a Roma ha vinto l’insensibilità sociale e il disprezzo per le condizioni della parte più sfavorita della società.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Con l’inerzia e i silenzi si avalla l’altro volto dello Stato, quello del ministro Minniti che sta riducendo il gigantesco problema dell’integrazione degli immigrati alla sola chiave securitaria: così si smarrisce il senso della comunità urbana e si dà anche voce all’istigazione alla violenza del dirigente filmato alla stazione Termini.

Rigurgiti razzisti anche a Pistoia. Bersaglio: il parroco che porta gli immigrati in piscina. La Diocesi lo difende, i razzisti si arrabbiano.

l'Avvenire, 24 agosto 2017
«Forza Nuova: "Sotto esame la cattolicità del parroco". Il vescovo Tardelli: spero si voglia scherzare. E manda il vicario generale a celebrare la Messa, con don Biancalani: una tutela, non una resa»

Diocesi in campo per evitare di trasformare la Messa in un terreno di scontro politico. E per proteggere, insieme alla sua comunità, un parroco coraggioso che talvolta non sa trattenersi dall’accompagnare con qualche considerazione un po’ colorita i suoi slanci solidali. Succede a Pistoia, dove da giorni si discute sulla decisione di don Massimo Biancalani, parroco di Santa Maria Maggiore in Vicofaro. La sua scelta di accompagnare in piscina un gruppo di quindici immigrati al termine di una giornata di lavoro, è diventata un caso nazionale.

Ha tuonato la Lega, Forza Nuova ha addirittura minacciato di verificare direttamente l’ortodossia del sacerdote durante la Messa domenicale. E il vescovo Fausto Tardelli, giustamente, si è indignato. Così, per tutelare il parroco e far sentire alla comunità la presenza della diocesi, domani la celebrazione festiva delle 11 sarà presieduta dal vicario generale don Patrizio Fabbri.

Nessuna "resa", come qualcuno ha sintetizzato in modo sbilenco. Nessuna volontà di esautorare il parroco. Anche perché don Biancalani sarà presente, concelebrerà e terrà l’omelia. Ma con il supporto autorevole del vicario che – ripetiamolo – non significa commissariamento ma vicinanza fraterna e supporto umano nel caso in cui, prima o dopo la celebrazione – Dio non voglia durante – si dovesse verificare qualche episodio spiacevole.

Purtroppo è già annunciata anche una cospicua presenza di forze dell’ordine. Purtroppo non tanto per l’impegno della polizia, che come sempre farà il suo dovere, ma perché quando una celebrazione eucaristica dev’essere protetta con uno schieramento di agenti significa che qualcosa si è inceppato.

E in questa vicenda sembra davvero che troppi sassolini siano andati a finire tra gli ingranaggi. A Pistoia, don Biancalani è conosciuto e apprezzato. Sempre in prima linea in tutte le emergenze sociali, sempre pronto a schierarsi per gli ultimi. Nella sua parrocchia, grazie al lavoro dell’associazione "Virgilio" che opera in sintonia con la Caritas diocesana, ospita una decina di giovani immigrati. Qualche anno fa non aveva avuto esitazioni ad avviare iniziative pastorali per gli omosessuali e le persone lgbt. E spesso accoglie e aiuta anche bambini rom. Proposte che, è facile immaginarlo, finiscono per risultare un po’ indigeste a coloro che guardano con sospetto a tutti gli slanci di radicalità evangelica. Soprattutto quando questa radicalità si rivolge a gruppi, etnie e situazioni "periferiche".

Certo, don Massimo non è l’unico sacerdote pistoiese schierato con i poveri e i rifugiati. La diocesi accoglie complessivamente circa 130 immigrati che fanno capo ai progetti Sprar e al centro per l’accoglienza rifugiati. Sono coinvolte alcune parrocchie con le rispettive associazioni e soprattutto una casa diocesana a Lizzano in Belvedere, sulle colline pistoiesi, che ospita una quarantina di immigrati. Perché allora questo accanimento contro il parroco di Vicofaro? Qualcuno ritiene che a Pistoia, con la nuova giunta di centrodestra presieduta dal sindaco Alessandro Tomasi (Fratelli d’Italia) il clima sia cambiato. Anche se ieri il sindaco ha detto di concordare pienamente con il vescovo.

Ma c’è anche chi pensa che a don Biancalani, da buon toscanaccio, sia scappata un’espressione un po’ borderline. L’altro giorno, quando ha postato su Facebook le immagini dei suoi immigrati in piscina – volti sorridenti di ragazzi che sembravano aver già conquistato una fetta di paradiso – ha aggiunto una didascalia un po’ provocatoria: «Loro sono la mia patria, razzisti e fascisti i miei nemici». Poteva risparmiarsela? Forse sì. Fatto sta che Forza Nuova è partita all’attacco: «Vigileremo durante la Messa sull’effettiva dottrina del prete». Minaccia che sarebbe ridicola, se non fosse anche fastidiosa. E in ogni caso sproporzionata rispetto all’uscita di don Biancalani, che è comunque uomo che opera per il bene.

« il manifesto, 26 agosto 2017

La notizia del progetto di accoglienza di Riace, messo in crisi da interpretazioni burocratiche sulla validità dei bonus o delle borse lavoro (fino a ieri accettate), è calata come una mannaia. Da un anno gli operatori non vengono pagati, così come gli affitti e i fornitori. Il sistema regge grazie ad una economia di sostegno davvero solidale che sta facendo miracoli. Non è il primo progetto che vede gli stessi operatori mettere mano ai propri risparmi per anticipare il pocket money ai richiedenti asilo. Era il luglio 2012 quando, sempre il sindaco Domenico Lucano aveva iniziato uno sciopero della fame e appeso la fascia tricolore al chiodo, simbolo di una resa, perché stretti dalla morsa dei ritardi questa volta imputati alla Protezione Civile. Si può capire dunque la stanchezza che gli ha fatto dire “Basta chiudiamo tutto”. E qui è partito un tam tam lanciato dalla Rete dei comuni solidali, una raccolta firme per attivare quel mondo che si riconosce in Riace che lo ha eletto come simbolo.

Nonostante la settimana di ferragosto stiamo registrando una risposta forte. Amministratori, pensionati, giornalisti, studenti, il mondo dell’associazionismo, le cooperative che lavorano per i progetti Sprar, persone dello spettacolo, scrittori, docenti universitari. Deputati, europarlamentari. Ma anche molti magistrati, il Comitato esecutivo di Magistratura Democratica e molti giudici a titolo personale da Genova a Pescara, Padova, Firenze Ravenna, Trapani, Sassari. C’è l’operaio tessile di Biella, il farmacista di Pontedera, il grafico di Andria, l’artigiana di Ladispoli, la casalinga di Quartu Sant’Elena. L’Agesci, l’Anpi, la Scuola di Pace di Boves, la neo segretaria della Fiom il comitato della Terra dei Fuochi, lo Spi Cgil di Reggio. Un mondo che si è mosso, consapevole che una firma vale poco, eppure la voglia di metterla per dare almeno un segnale e non essere allineati sul punto più basso della Storia.

Non è proibito essere sindaci ed essere anche gradassi e ignoranti. Come il sindaco di Venezia, che ha dichiarato che se sentisse qualcuno gridare a Piazza San Marco "Dio è grandissimo" in lingua araba lo abbatterebbe in tre passi.

la Nuova Venezia, 24 agosto 2017

RIMINI. «Dobbiamo battere qui in Italia il terrorismo, stiamo alzando le difese, e io dico che se qualcuno si mette a correre in Piazza San Marco gridando 'Allah Akbar' in tre passi lo abbattiamo». Imprevedibile come sempre il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha lanciato questa provocazione parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, a un convegno sulla demografia, riportato dall'agenzia Agi.

Dopo gli attentati di Barcellona e in Finlandia il questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi, spiega: «Eravamo pronti da una settimana». Apparecchiature speciali per garantire la sicurezza di centinaia di star e personalità che affolleranno il Lido durante la kermesse

Gli ha risposto il sindaco di Rimini , Andrea Gnassi, ironizzando: "suggerirò ai romagnoli di non cantare 'Romagna Mia' in San Marco, perchè non si sa mai, anche se non sono sicuro di aver ben capito l'intervento di Brugnaro perchè l'ha fatto per metà in veneto".

Un intervento che ha destato ilarità e un po’ di preoccupazione, visti i tempi, tra gli addetti ai lavori: quasi una sfida alla vigilia degli importanti appuntamenti (Mostra del Cinema e visita del Presidente della Repubblica) che tra pochissimi giorni vedranno arrivare a Venezia centinaia di personalità da tutto il mondo.

Un «bilancio di fine legislatura» sulla politica del PD «su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo» che induce a dimettersi dal partito di Renzi.

Nigrizia, 23 agosto 2017

Correva l’anno Duemila, lo stesso anno in cui ho cominciato a scrivere Giufà, la rubrica per Nigrizia, quando ho sentito per la prima volta un noto leader politico italiano proporre al telegiornale: “Dobbiamo sparare sulle imbarcazioni degli scafisti, affondiamole!”. In quel momento dirigevo il Tg1 e mi toccò dargli qualche minuto di gloria, pur sapendo entrambi che la sua sparata avrebbe lasciato il tempo che trovava. Nei diciassette anni successivi, tale ideona bellicosa è stata replicata infinite volte, sempre con la medesima prosopopea e in favore di telecamera, da leader di opposti schieramenti (dal centrodestra, al centrosinistra, ai grillini). Non mi stupisce, dunque, se quest’estate un tipo come Salvini, che sempre deve manifestarsi il più assatanato di tutti, sia giunto a chiedere anche l’affondamento delle navi delle organizzazioni non governative (Ong), colpevoli di supportare gli scafisti.

La falsa emergenza che descriveva la penisola italiana invasa da orde incontenibili di migranti, smentita dalle cifre ma alimentata dai giornaloni che si trincerano dietro alla scusa del “percepito”, e così manipolano la realtà, si rivela per quello che è: non una “emergenza migranti”, ma una “emergenza elezioni”. Se i giornaloni e le televisioni fanno da megafono a chi sproloquia di invasione, e gli italiani si sentono invasi, ahimè in automatico i politici di ogni ordine e grado innescano il refrain “stop all’invasione”.

Questo sta succedendo, e dobbiamo trarne le conseguenze. Per me la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le Ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale né dai codici di navigazione.

Scusate se approfitto, forse impropriamente, di questo spazio che mi è tanto caro. Ma è venuto il momento di formulare anch’io un mio bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo, che considero di importanza cruciale. Non solo in quanto ebreo, ex apolide, figlio fortunato di più migrazioni. Ma proprio come cittadino italiano che, dieci anni fa, è stato fra i promotori di un Partito democratico i cui valori fondativi vedo oggi deturpati per convenienza.

Metto in fila l’operato degli ultimi tre anni. La revoca dell’operazione Mare Nostrum con la motivazione che costava troppo e con limitazione del raggio d’azione della nostra Marina Militare. La mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, per ragioni di opportunità. La soppressione, solo per i richiedenti asilo, del diritto a ricorrere in appello contro un giudizio sfavorevole. La promessa non mantenuta sullo ius soli temperato. E, infine, la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il “reato umanitario” mirato contro le organizzazioni non governative.

Dietro a questa sequenza si riconosce un vero e proprio disarmo culturale. Vittimismo. Scaricabarile. Caricature grossolane della complessa realtà africana con cui siamo chiamati a misurarci. Il tutto contraddistinto da una impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra. Lo scorso 13 agosto, sul Corriere della Sera, Luciano Violante raccontava di essere rimasto senza parole davanti a un vecchio calabrese che, indicandogli un gruppo di africani, si lamentava: «Per loro lo stato spende 35 euro al giorno, per mio figlio disoccupato, invece, non fa niente».

Ecco, mi lascia costernato che neanche un uomo delle istituzioni come Luciano Violante si mostri capace di far notare a quel cittadino che, per fortuna, lo stato ha speso e continuerà a spendere molto, ma molto di più per suo figlio che non per gli immigrati. Ne ha perso forse contezza, l’ex presidente della Camera?

Ho ben presente l’importanza dell’unità dentro un partito grande e plurale. So anche che nel Pd continuano a essere numerosi coloro che hanno a cuore gli ideali oggi deturpati. Ma io che avevo visto male la scissione, né ho considerato motivi sufficienti per un divorzio le riforme istituzionale e il jobs act, ora, per rispetto alla mia gerarchia di valori, mi vedo costretto a malincuore a separarmi dal partito in cui ho militato dalla sua nascita. L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile.

… e quella
di Nigrizia

Non è una provocazione. Con questo editoriale, si è voluto sottolineare la presa di posizione di Gad Lerner perché coglie con precisione un problema che ha la politica oggi: invece di governare i fenomeni di questa epoca (come le migrazioni) prende la scorciatoia di sforbiciare i diritti e di raccontare all’opinione pubblica che va bene così. È un tragitto pericoloso e inconcludente perché rifiuta di fare i conti in profondità con la realtà politico-economica dell’Africa e del Mediterraneo e porta alla memoria un ammonimento del giornalista e scrittore Tiziano Terzani: «Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore».

Arma non tanto dei generici "populisti", come l'improprio titolo, ma chi alimenta «l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi. evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti».

la Repubblica, 23 agosto 2017
Caro direttore, la sospensione delle attività delle ong impegnate nel soccorso in mare di fronte alle coste libiche ha avuto conseguenze drammatiche, con la chiusura dell’unica via di salvezza verso paesi sicuri rappresentata per centinaia di migliaia di migranti dall’intervento dei volontari da tempo impegnati su questo fronte.

Dietro la riduzione dei salvataggi in mare, ottenuta con il sostegno alle autorità libiche nella loro decisione di limitare l’area di intervento delle navi impegnate nel soccorso umanitario, si consuma una gravissima e sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone: in mancanza di una via di accesso sicura e “legale” all’Europa, si nega il diritto d’asilo a quanti, costretti alla fuga dalla guerra e dalla fame, non sono messi in condizione di raggiungere i paesi dove questo diritto possa essere esercitato; con il trattenimento nei centri di detenzione libici i migranti diventano vittime dei trattamenti inumani e degradanti che in questi luoghi abitualmente si praticano.
Questo effetto giunge dopo vari mesi di costanti attacchi alle ong. La continua enfatizzazione della necessità di “regolamentare” gli interventi di soccorso per ragioni di sicurezza e per lottare contro la tratta di essere umani, evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti, ha ottenuto il risultato sperato. L’opinione pubblica ha ormai metabolizzato l’idea che sia necessario mettere sotto accusa l’attività di salvataggio e che sia legittimo porre “limiti” al nostro dovere di intervenire per sottrarre al loro destino di morte i migranti abbandonati in mare dai trafficanti. Anche le recenti indagini avviate da alcune procure per accertare eventuali condotte di favoreggiamento attuate nel soccorso in mare confermerebbero l’esistenza di un “collateralismo” fra i soccorritori e i trafficanti di esseri umani.
A prescindere dagli sbocchi giudiziari di queste indagini, è evidente la pericolosa semplificazione operata nel dibattito mediatico delle problematiche con le quali si devono confrontare l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali nel contesto di attività di soccorso delle quali è riconosciuta la finalità umanitaria e dove attori privati devono sopperire alle carenze degli stati operando in situazioni molto complesse dove l’inazione o anche la sola prudenza può comportare la perdita di numerose vite umane.
L’attacco alle Ong è parte di un più ampio progetto e dei suoi obiettivi:
- portare in secondo piano le gravi responsabilità dell’Europa e dei paesi europei per non aver saputo e voluto sino ad oggi elaborare una politica di gestione del fenomeno migratorio all’altezza delle sfide e del nuovo ordine mondiale;
- riproporre come prioritarie le risposte in chiave securitaria, difensiva e repressiva alle emergenze legate alla gestione dell’emigrazione, alimentando l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi;
- criminalizzare chi da tempo, con l’impegno umanitario nell’attività di soccorso e di accoglienza e oggi con scelte coerenti con la propria identità e con le finalità della propria missione, ha deciso di stare incondizionatamente dalla parte dei diritti, dei valori di solidarietà e di pari dignità delle persone;
- ridurre al silenzio quanti chiedono con forza alla politica nazionale ed europea sull’emigrazione e sulla gestione della crisi umanitaria che ha determinato, di restituire centralità a tali valori posti a fondamento delle nostre democrazie e del progetto di Europa come luogo di diritti, di accoglienza e di opportunità per tutti.
Il futuro delle nostre democrazie richiede oggi un impegno comune perché si immettano nel dibattito pubblico forti anticorpi ai veleni mortali diffusi dal populismo che nella propaganda sui temi dell’emigrazione ha trovato una delle sue più potenti armi politiche.
Per questo è necessaria la nostra resistenza culturale alla logica del “nemico” che al populismo fornisce linfa vitale e che è sempre alla ricerca di “nuovi nemici”. Per questo occorre la nostra consapevolezza che restare dalla parte dei diritti fondamentali dei migranti significa difendere la nostra democrazia e salvare la nostra Europa dal progetto alternativo di società che nuovi populismi e neonazionalismi perseguono, rinnegando i valori di solidarietà, di eguaglianza e di pari dignità delle persone.
L’autrice è segretaria generale di Magistratura Democratica
«Il messaggio per la prossima Giornata dei migranti. Visti umanitari, ricongiungimenti familiari, prima sistemazione decorosa, libertà di movimento: raccomandate quattro "azioni"».

Avvenire online, 21 agosto 2017

Quattro azioni per cercare di affrontare il tema dei migranti e dei rifugiati salvaguardando - sempre e in primo luogo - la dignità della persona. Papa Francesco ha scelto la giornata odierna per diffondere il testo del suo Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che la Chiesa cattolica celebrerà il prossimo 14 gennaio 2018. Un testo ricco di proposte e azioni concrete, che Francesco offre all'analisi e allo studio della comunità cristiana e di quella internazionale. Del resto, ricorda lo stesso Pontefice "nei primi anni di pontificato ho ripetutamente espresso speciale preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati". Una preoccupazione che lo ha portato a tenere sotto la propria guida quella sezione dedicata ai migranti istituita con la creazione del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano e integrale.
Quattro azioni: accogliere
Ecco allora i quattro verbi-azione che il Papa propone: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Per ognuno di loro il Messaggio offre anche indicazioni pratiche su come attuare questo invito. L'accogliere diventa "innanzitutto offrire a migranti e rifugiati ingresso sicuro e legale nei Paesi di destinazione" in modo che si sfugga al traffico di esseri umani. Sì, dunque, a visti umanitari, ai ricongiungimenti familiari, alla creazione di corridoi umanitari, alla formazione del personale di frontiera perché sappia operare nel rispetto della dignità umana. Forte chiaro il no a "espulsioni collettive e arbitrarie".
Proteggere il loro cammino
Anche il proteggere viene declinato dal Papa con alcune proposte operative concrete. In primo luogo l'informazione, sia in Patria sia nei luoghi in cui si recheranno, per evitare "pratiche di reclutamento illegale". Ma anche con il riconoscimento e la valorizzazione delle "capacità e delle competenze dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati", che rappresentano "una vera risorsa per le comunità che li accolgono". Dunque integrazione passando dal mondo del lavoro, perché in esso vi è anche la dignità dell'uomo. Un pensiero il Papa lo rivolge anche ai minori, specialmente quelli non accompagnati, affinché, in assenza di documenti reali, diventino apolidi. Il Papa chiede che nel rispetto del diritto universale a una nazionalità «questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita».
Promuovere la dignità della persona
Promuovere è il terzo verbo-azione indicato dal Messaggio. In questo punto il Papa invita la comunità che accoglie di "mettere queste persone in condizione di realizzarsi come persone in tutte le loro dimensioni", compresa quella religiosa, garantendo "a tutti gli stranieri presenti sul territorio la libertà di professioni e pratica religiosa". E ancora una volta l'integrazione lavorativa è una azione da promuovere con sempre maggior efficacia.
Integrare, cioè incontrarsi
Non meno importante la quarta pista di lavoro: integrare. Questo non vuole dire affatto assimilare, precisa papa Francesco nel suo messaggio, ma "aprirsi a una maggior conoscenza reciproca per accogliere gli aspetti validi" di cui ogni cultura è portatrice. Ecco allora l'invito ad accelerare questo processo anche "attraverso l'offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel Paese".
La responsabilità degli Stati
Non manca infine un chiaro e diretto richiamo alla responsabilità degli Stati di tutto il mondo che, ricorda il Papa, "durante il vertice all'Onu nel settembre 2016 hanno espresso chiaramente la loro volontà di prodigarsi a favore di migranti e dei rifugiati". Forte anche l'invito alla comunità cristiana "ad approfittare di ogni occasione per condividere questo messaggio con tutti gli attori politici e sociali che sono coinvolti al processo che porterà all'approvazione dei patti globali, così come si sono impegnati a fare entro la fine del 2018".

Guai se i fuggitivi dagli inferni del Terzo mondo danneggiano il turismo firmato Unesco! Rigettiamoli in mare e salviamo il nostro Pil, chiede l'assessore al turismo dell'indigena Sicilia. Il FattoQuotidiano, 18 agosto 2017, con postilla

«In un'intervista al quotidiano La Sicilia, Anthony Barbagallo ha spiegato che a suo avviso la presenza di rifugiati e richiedenti asilo "danneggerebbe" il turismo italiano e deturperebbe il patrimonio paesaggistico d'eccellenza della Penisola: "Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso"»

“L’immigrazione danneggia le nostre eccellenze paesaggistiche”. Ad affermarlo è l’assessore al Turismo della Regione Sicilia, Anthony Barbagallo, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia. “Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso – prosegue il politico del Pd che, nel proprio profilo Facebook riporta la pagina del giornale con le sue parole – Uno di questi: non distribuire i profughi nei comuni turistici. Non si possono fare Sprar con decine di migranti a Taormina, a Bronte o nel patrimonio Unesco. I migranti vanno distribuiti altrove. Perciò chiedo ai nostri solerti prefetti di esentare dall’obbligo di accoglienza i sindaci dei comuni turistici siciliani”.

Secondo Barbagallo la deroga riguarderebbe circa una cinquantina di Comuni: tutti quelli sedi di siti Unesco, più quelli a evidente vocazione turistica. “Non è difficile, secondo me si può fare – ha aggiunto – Sin da subito”. Tra le altre emergenze che danneggiano il turismo nell’Isola, l’assessore ha citato anche “i pesantissimi danni d’immagine” causati dai “rifiuti, per i quali, oltre ai controlli, urge una rivoluzione culturale” e quest’anno dagli incendi: “Calampiso, con le immagini degli sfollati in tv – ha ricordato Barbagallo – ma anche Piazza Armerina con tre ordigni bellici esplosi in mezzo a una lingua di fuoco: sembrava la fine del mondo e io mi sono assunto la responsabilità di sospendere uno spettacolo a Morgantina”.

postilla

Il sig. Antony Barbagallo vive in Sicilia, regione i cui abitanti sono il prodotto di successive migrazioni. Sembra non sapere che le bellezze di cui la Sicilia è piena sono opera di migranti, venuti in gran parte dai paesi che sono oggi gli stessi da cui fuggono i disperati che vorrebbe rimuovere. Certamente non sa che i migranti di oggi fuggono dai loro territori perché sono stati sfruttati, devastati e resi deserti per ottenere il benessere nel quale vive. Se l’Unesco si occupasse di educazione degli adulti potrebbe forse insegnare al sig. Barbagallo qualcosa di utile. Ma è, ahimè, solo un’agenzia mondiale per lo sviluppo del turismo nei paesi ricchi, quindi finirà per raccomandare ai prefetti di accogliere le sue richieste. Oppure provvederà ancor prima il solerte Marco Minniti, che i prefetti comanda.

Paolo Rodari riferisce sulla"svolta" della Commissione episcopale italiana e il priore di Bose rivendica il rispetto della legge "restare umani".

la Repubblica, 11 agosto 2017, con postilla (i.b.-e.s.)

BASSETTI ALLE ONG:
RISPETTARE
LE LEGGI
E NON COLLABORARE
CON GLI SCAFISTI
di Paolo Rodari
«La svolta. Il presidente della Cei interviene sullaquestione migranti»
Il troppo buonismo fa vincere l’oltranzismo. Dopo giorni diriflessione la Cei esce allo scoperto. L’invito fatto sulle Ong allaresponsabilità e al codice imposto dal Viminale – «Si deve rispettare lalegge», ha detto ieri il presidente dei vescovi italiani, il cardinaleGualtiero Bassetti – muove dalla maturazione della consapevolezza che ilprincipio di umanità, che vale sempre e soprattutto nei confronti dei migranti,non può esautorare quel principio di legalità che anche Francesco tornando novemesi fa dalla Svezia aveva richiamato quando spiegò di comprendere le politicherestrittive di Stoccolma in materia di immigrazione. Anche sul tema delicatodell’accoglienza, insomma, il rischio che la Chiesa ha visto come reale è chela misericordia diventi ideologia ed è contro questo spauracchio che Bassetti èieri intervenuto.

Le parole del presidente dei vescovi trovano riscontri inVaticano. In questi giorni sono giunte Oltretevere alcune rimostranze, da partedel mondo cattolico e del mondo politico, per le prese di posizione giudicatetroppo schierate in favore delle Ong di Avveniree di alcuni presuli. Molto attivo verso il Vaticano è stato il ministrodell’Interno Marco Minniti. Bassetti, prima di parlare, ha ascoltato la SantaSede, ma anche la pancia di una buona fetta del mondo cattolico che sul temachiede maggiore rigore: «Non possiamo correre il rischio – ha detto – neancheper una pura idealità che si trasforma drammaticamente in ingenuità, di fornireil pretesto, anche se falso, di collaborare con i trafficanti di carne umana».

E’ stato anche per questo motivo che la maggioranza dei vescovi ha votato perlui quale successore del cardinale Bagnasco alla scorsa assemblea della Cei:era stato ritenuto, anche dai vescovi più a “destra”, e ieri ne è arrivata unaconferma, come la personalità più capace di mediare fra l’anima vicina alleaperture del segretario generale Nunzio Galatino e una base più tradizionale ecentrista.
Con ieri è iniziata di fatto una nuova via, quella di una Cei conuna guida che, rispettata da tutte le anime, è capace di fare sintesi fra lasensibilità del Papa e la tradizione moderata del cattolicesimo del Paese. Unsegnale che Bassetti sarebbe intervenuto è arrivato dalle parole pronunciatenelle ultime ore, dopo prese di posizione più spinte, dal ministro Delrio cheha chiesto, in extremis, di tenere assieme umanità e rispetto delle leggi.Così, tre giorni fa anche il presidente Mattarella che, benedicendo «il nuovocodice sulle Ong», aveva dato un segnale preciso. Fra Mattarella e Bassetti ilrapporto è ottimo: «C’è uno spazio enorme di collaborazione per il bene delPaese», aveva detto il prelato dopo la visita di giugno del Papa al Quirinale.E ieri questa collaborazione è divenuta effettiva e ha mostrato come, in scia auna tradizione consolidata nel cattolicesimo italiano, Bassetti è anche uomodelle istituzioni.

I MIGRANTI
E IL DOVERE DI RESTARE UMANI
diEnzo Bianchi

L’INVITO del presidente della Cei, cardinalBassetti, ad affrontare il fenomeno dei migranti «nel rispetto della legge» esenza fornire pretesti agli scafisti è un richiamo all’assunzione diresponsabilità etica ad ampio raggio nella temperie che Italia e Europa stannoattraversando. Un richiamo quanto mai opportuno perché ormai si sta profilandouna “emergenza umanitaria” che non è data dalle migrazioni in quanto tali,bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima ancora che operative con cui lesi affrontano. Non è infatti “emergenza” il fenomeno dei migranti - richiedentiasilo o economici - che in questa forma risale ormai alla fine del secoloscorso e i cui numeri sia assoluti che percentuali sarebbero agevolmentegestibili da politiche degne di questo nome. E l’aggettivo “umanitario” nonriguarda solo le condizioni subumane in cui vivono milioni di persone nei campiprofughi del Medioriente o nei paesi stremati da conflitti foraggiati daimercanti d’armi o da carestie ricorrenti, naturali o indotte. L’emergenzariguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza difronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioniche sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori ei principi della casa comune europea e della “millenaria civiltà cristiana”,così connaturale al nostro paese.

È un impoverimento del nostro essere umani chesi è via via accentuato da quando ci si è preoccupati più del controllo e delladifesa delle frontiere esterne dell’Europa che non dei sentimenti che battononel cuore del nostro continente e dei principi che ne determinano leggi ecomportamenti. È un imbarbarimento che si è aggravato quando abbiamo siglato unaccordo per delegare il lavoro sporco di fermare e respingere migliaia diprofughi dal Medioriente a un paese che manifestamente vìola fondamenti etici,giuridici e culturali imprescindibili per la nostra “casa comune”.

Ora noi, già “popolo di navigatori e trasmigratori”,ci stiamo rapidamente adeguando a un pensiero unico che confligge persino conla millenaria legge del mare iscritta nella coscienza umana, e arriva aconfigurare una sorta di “reato umanitario” o “di altruismo” in base al qualediviene naturale minare sistematicamente e indistintamente la credibilità delleOng e perseguirne l’operato, affidare a un’inesistente autorità statale libicala gestione di ipotetici centri di raccolta dei migranti che tutti gliorganismi umanitari internazionali definiscono luoghi di torture, vessazioni,violenze e abusi di ogni tipo, riconsegnare a una delle guardie costierelibiche quelle persone che erano state imbarcate da trafficanti di esseri umanicon la sospetta connivenza di chi ora li riporta alla casella-prigione dipartenza.

Ora questa criticità emergenziale di un’umanitàmortificata ha come effetto disastroso il rendere ancor più ardua la gestionedel fenomeno migratorio attraverso i parametri dell’accoglienza,dell’integrazione e della solidarietà che dovrebbero costituire lo zoccoloduro della civiltà europea e che non sono certo di facile attuazione. Come,infatti, in questo clima di caccia al “buonista” pianificare politiche checonsentano non solo la gestione degli arrivi delle persone in fuga dalla guerrao dalla fame, ma soprattutto la trasformazione strutturale di questacongiuntura in opportunità di crescita e di miglioramento delle condizioni divita per l’intero sistema paese, a cominciare dalle fasce di popolazioneresidente più povere? E, di conseguenza, come evitare invece che i migrantiabbandonati “senza regolare permesso” alimentino il mercato del lavoro nero,degli abusi sui minori e della prostituzione?

L’esperienza di tante realtà che conosco e della mia stessacomunità, che da due anni dà accoglienza ad alcuni richiedenti asilo, mostraquanto sia difficile oggi, superata la fase di prima accoglienza e diapprendimento della lingua e dei diritti e doveri che ci accomunano, progettaree realizzare una feconda e sostenibile convivenza civile, un proficuo scambio dellerisorse umane, morali e culturali di cui ogni essere umano è portatore. Non puòbastare, infatti, il già difficilissimo inserimento degli immigrati accolti nelmondo del lavoro e una loro dignitosa sistemazione abitativa: occorrerebberipensare organicamente il tessuto sociale di città e campagne, larivitalizzazione di aree depresse del nostro paese, la protezione dell’ambientee del territorio, la salvaguardia dei diritti di cittadinanza. Questo potrebbefar sì che l’accoglienza sia realizzata non solo con generosità ma anche conintelligenza e l’integrazione avvenire senza generare squilibri.

Sragionare per slogan, fomentare anziché capire e governarele paure delle componenti più deboli ed esposte della società, criminalizzareindistintamente tutti gli operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero ochiunque pensi diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, alcontrario è la via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, perinfliggere alla nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostropaese e l’Europa a un collasso etico dal quale sarà assai difficilerisollevarsi.

Anche in certi spazi cristiani, la paura dominanteassottiglia le voci - tra le quali continua a spiccare per vigore quella dipapa Francesco - che affrontano a viso aperto il forte vento contrario,contrastano la «dimensione del disumano che è entrata nel nostro orizzonte» esi levano a difesa dell’umanità. Purtroppo, stando “in mezzo alla gente”,ascoltandola e vedendo come si comporta, viene da dire che stiamo diventandopiù cattivi e la stessa politica, che dovrebbe innanzitutto far crescere una“società buona”, non solo è latitante ma sembra tentata da percorsi cheassecondano la barbarie. Eppure è in gioco non solo la sopravvivenza e ladignità di milioni di persone, ma anche il bene più prezioso che ciascuno dinoi e la nostra convivenza possiede: l’essere responsabili e perciò custodi delproprio fratello, della propria sorella in umanità.

postilla

Quale legge deve prevalere?

La questione deimigranti del nostro secolo e dell’atteggiamento da tenere nei confronti di chi,come alcune Ong, non rifiuterebbe contatti con “trafficanti di uomini”, (cioè conquegli attori che in cambio di un prezzo,aiutano i profughi a fuggire) divide anche il mondo cattolico.
Le due posizioni alternative emergono conevidenza nei due scritti che riportiamo: l’uno esprime la posizione dellaCommissione episcopale italiana, espressa dal suo presidente GualtieroBassetti, l’altra quella di Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunitàmonastica di Bose.
Il pretesto con cui vieneammantato il dissenso è quello che si tira in ballo di solito quando gliargomenti di merito di una delle parti sono deboli: bisogna rispettare lalegge. Se la legge vieta alle Ong ad avere contatti con i “trafficanti” essesono obbligate a obbedire, quale che sia la pulsione, o il sentimento, o il principioo la convenienza che li spingerebbe a fare il contrario.
È evidente che ilgoverno italiano abbraccia con entusiasmo il rispetto della legge che impedisceogni accordo con i “trafficanti, e che invece parte rilevante del mondocattolico recentemente espressa dal quotidiano della Cei, l’Avvenire, si muove sul versante opposto. Èsignificativo che la stampa attribuisca a Marco Minniti un intervento direttosul Vaticano per convincere le gerarchie ecclesiastiche a mettere in riga i “buonisti”.
Ed è altrettantoevidente che il governo italiano si manifesta debole, impacciato, pusillanimefino alla viltà nel far comprendere all’Unione europea, della quale si spacciaper protagonista, che le migrazioni hanno la Penisola solo come il primo punto l’approdo,e che l’obiettivo e la responsabilità dei flussi migratori sono costituiti dall’insieme dell’Europa. Invece di Gentiloni e Delrio, è Enzo Bianchi a ricordare che sono «i parametri dell’accoglienza, dell’integrazione e dellasolidarietà che dovrebbero costituire lo zoccolo duro della civiltàeuropea»
L’intervento di EnzoBianchi mette in evidenza le due verità di fondo: non si tratta di un impegnoche riguardi solo l’Italia, ma l’intera Europa; né si tratta di un conflittotra chi rispetta la legge e chi non la rispetta, ma è un conflitto tra dueleggi. Deve prevalere lalegge secondo la quale ogni persona umana è portatrice di eguali diritti,oppure la legge (le leggi) che valgono solo a proteggere alcuni? La risposta diEnzo Bianchi, e della parte del mondo cattolico più vicina a papa Francesco,non sembra dubbia: “il dovere”, la legge, di “restare umani” (i.b.-e.s.)

Prosegue instancabile l'abbandono da parte del governo renziano dai principi dello stato liberale e dallo spirito e la lettera della Costituzione, cui i membri del governo avevano giurato solennemente fedeltà. La grande stampa tace. articoli di M. Bascetta e P. Pipino.

il manifesto, 10 agosto 2017
LO SCHEMA È QUELLO
DELLA LOTTA AL NARCOTRAFFICO
di Marco Bascetta

«Migranti. È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza»

Sotto la superficie della cronaca, con le parole sopraffatte dall’uso ripetitivo che se ne fa, scorre una narrativa mai esplicitata, ma tacitamente e immediatamente percepita. Questa narrazione applica all’immigrazione lo schema del narcotraffico.

C’è un cartello (o più cartelli) che manovrano gli scafisti (corrieri), ci sono governi e polizie corrotte che li coprono, ci sono centrali di smistamento in Europa. E, naturalmente, c’è la mercanzia: quell’umanità in fuga dalle più diverse catastrofi che rischia i propri averi e la propria vita nella traversata del mare. E che qualche approfittatore nostrano considera, ma non è vero, più redditizia degli stupefacenti. I trafficanti, piuttosto spietati, esistono e anche il confuso contesto politico-militare che ne consente, complice, l’azione. Ma lo schema si completa implicitamente con un elemento decisamente ripugnante: i migranti avrebbero sulle società europee lo stesso effetto della droga in termini di inquinamento della presunta purezza, di trasgressione delle regole di convivenza, di indebolimento dei legami sociali e di assorbimento indebito delle scarse risorse assistenziali degli stati. In una versione solo apparentemente meno efferata il migrante rivestirebbe invece la parte del tossico, colpevole di cercare scorciatoie per il paradiso, e pronto a farsi spacciare dagli scafisti il sogno di un’Europa immaginaria. Meritevole, dunque, di essere disintossicato a forza in qualche lager libico. Questo schema, che certamente entusiasmerà la destra xenofoba, sottende la riduzione del problema dell’immigrazione (che almeno in partenza è sempre e solo clandestina) alla lotta contro i trafficanti di fuggiaschi.

È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza (degli uni a scapito degli altri). Tutti sanno, beninteso, che non sono gli scafisti la causa delle migrazioni e neanche dell’impossibilità di tenerle sotto controllo, che è la domanda a creare l’offerta e la chiusura a produrre soluzioni fuori dalla legalità. E, tuttavia, i media sono concentrati su questa messa in scena della guerra agli scafisti e alle Ong sospettate di intelligenza con il nemico.

Proviamo a simulare un semplice scenario mettendoci nei panni di un trafficante. Caricando di disperati un natante del tutto inadeguato a raggiungere l’altra sponda, e sempre più frequentemente manovrato da un nocchiero scelto tra i passeggeri stessi, segnalerà via radio le coordinate del naufragio programmato.

Per le unità di soccorso non vi è altra scelta allora che lasciare al loro destino i naufraghi, poiché la segnalazione proviene dai trafficanti e il soccorso internazionale rischia di rientrare nel pacchetto che costoro vendono agli imbarcati, o soccorrere comunque le persone in pericolo di vita. Questa seconda scelta rende la Ong che la adotta rea di alto tradimento, meritevole di messa al bando e l’imbarcazione di essere catturata. Per il trafficante, comunque vada a finire, l’affare è concluso e la domanda non sarà scoraggiata perché non si tratta di un mercato di generi voluttuari e i fattori che lo alimentano lavorano a pieno ritmo.

All’opinione pubblica europea si potrà rivendere un “successo” nella lotta contro i trafficanti di esseri umani. Con il messaggio sottaciuto, perché impronunciabile, che un buon numero di affogati funzionerà da deterrente.

A completare l’intera rappresentazione di fronte alle coste libiche incrociano Ong che hanno firmato il codice di comportamento stilato dal ministro degli interni Minniti e altre che non lo hanno firmato, una nave nazifascista (speriamo resti l’unica) che da loro la caccia, la o le guardie costiere libiche delle quali ben poco si sa, la guardia costiera italiana e la marina militare, nonché quella del generale Haftar che minaccia di bombardarla, scafisti e relitti carichi di disperati. A suo tempo le acque della Tortuga dovevano essere molto più tranquille.

Alle spalle di questa specie di battaglia navale, un’Europa i cui membri cercano di truffarsi a vicenda e l’Unione che, quando si pronuncia richiamandosi ai “valori irrinunciabili”, afferma il contrario di ciò che concretamente lascia fare. Laddove la guerra navale diventa continentale, combattuta sui fronti del Brennero e di Ventimiglia, della Baviera e dei paesi dell’Est. Ma intanto, nella sua sostanziale insussistenza, la crociata contro i contrabbandieri di esseri umani riesce a mettere tutti d’accordo e a coprire i più diversi interessi che si nascondono nel suo cono d’ombra. È la comoda finzione che pretende di conferire perfino una coloritura etica (combattiamo gli schiavisti) al puro e semplice respingimento di una umanità che abbiamo costretto alla fuga o che cerca ragionevolmente di esercitare la sua libertà.

IMMIGRAZIONE,
REATO DI CRITICA.
TORNA GALLA IL VILIPENDIO
di Livio Pipino

«Ritorno all'antico. Un avvocato dice in piazza che i decreti Minniti-Orlando sono “allucinanti” e scatta la denuncia: “Vilipendio delle istituzioni e delle forze armate”. A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di «aver ingiuriato la polizia»

Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido «Abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma «quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte».

Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più». Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante.

Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, «se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana», aveva «candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione». Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta.

Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della “parola contraria” è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità – convalidata da atti di governo – di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono – nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana.

È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli “allucinanti” e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro «vergogna, vergogna» di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per «vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate», poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale).

Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha «incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato».

C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà.

«il manifesto, 8 agosto 2017
Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’«inumano» è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale.

L’«inumano», è bene chiarirlo, non è la mera dimensione ferina della natura contrapposta all’acculturata condizione umana.

Non è il «mostruoso» che appare a prima vista estraneo all’uomo. Al contrario è un atteggiamento propriamente umano: l’«inumano» – come ha scritto Carlo Galli – «è piuttosto il presentarsi attuale della possibilità che l’uomo sia nulla per l’altro uomo».

Che l’Altro sia ridotto a Cosa, indifferente, sacrificabile, o semplicemente ignorabile. Che la vita dell’altro sia destituita di valore primario e ridotta a oggetto di calcolo. Ed è esattamente quanto, sotto gli occhi di tutti, hanno fatto il nostro governo – in primis il suo ministro di polizia Marco Minniti – e la maggior parte dei nostri commentatori politici, in prima pagina e a reti unificate.

Cos’è se non questo – se non, appunto, trionfo dell’inumano – la campagna di ostilità e diffidenza mossa contro le Ong, unici soggetti all’opera nel tentativo prioritario di salvare vite umane, e per questo messe sotto accusa da un’occhiuta «ragion di stato».

O la sconnessa, improvvisata, azione diplomatica e militare dispiegata nel caos libico con l’obiettivo di mobilitare ogni forza, anche le peggiori, per tentare di arrestare la fiumana disperata della nuda vita, anche a costo di consegnarla agli stupratori, ai torturatori, ai miliziani senza scrupoli che non si differenziano in nulla dagli scafisti e dai mercanti di uomini, o di respingerla a morire nel deserto.

Qui non c’è, come suggeriscono le finte anime belle dei media mainstream (e non solo, penso all’ultimo Travaglio) e dei Gabinetti governativi o d’opposizione, la volontà di ricondurre sotto la sovranità della Legge l’anarchismo incontrollato delle organizzazioni umanitarie.

Non è questo lo spirito del famigerato «Codice Minniti» imposto come condizione di operatività in violazione delle antiche, tradizionali Leggi del mare (il trasbordo) e della più genuina etica umanitaria (si pensi al rifiuto di presenze armate a bordo). O il senso dell’invio nel porto di Tripoli delle nostre navi militari.

Qui c’è la volontà, neppur tanto nascosta, di fermare il flusso, costi quel che costi. Di chiudere quei fragili «corridoi umanitari» che in qualche modo le navi di Medici senza frontiere e delle altre organizzazioni tenevano aperti. Di imporre a tutti la logica di Frontex, che non è quella della ricerca e soccorso, ma del respingimento (e il nome dice tutto).

Di fare, con gli strumenti degli Stati e dell’informazione scorretta, quanto fanno gli estremisti di destra di Defend Europe, non a caso proposti come i migliori alleati dei nuovi inquisitori. Di spostare più a sud, nella sabbia del deserto anziché nelle acque del Mare nostrum, lo spettacolo perturbante della morte di massa e il simbolo corporeo dell’Umanità sacrificata.

Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti.

Non si era mai sentita finora un’espressione come «estremismo umanitario», usata in senso spregiativo, come arma contundente. O la formula «crimine umanitario». E nessuno avrebbe probabilmente osato irridere a chi «ideologicamente persegue il solo scopo di salvare vite», quasi fosse al contrario encomiabile chi «pragmaticamente» sacrifica quello scopo ad altre ragioni, più o meno confessabili (un pugno di voti? un effimero consenso? il mantenimento del potere nelle proprie mani?)

A caldo, quando le prime avvisaglie della campagna politica e mediatica si erano manifestate, mi ero annotato una frase di George Steiner, scritta nel ’66. Diceva: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Aggiungevo: Anche noi «veniamo dopo».

Dopo quel dopo. Noi oggi sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega. La cosa può essere sembrata eccessiva a qualcuno. E il paragone fuori luogo. Ma non mi pento di averlo pensato e di averlo scritto.

Consapevole o meno di ciò che fa, chi si fa tramite dell’irrompere del disumano nel nostro mondo è giusto che sia consapevole della gravità di ciò che compie. Della lacerazione etica prima che politica che produce.

Se l’inumano – è ancora Galli a scriverlo – «è il lacerarsi catastrofico della trama etica e logica dell’umano», allora chi a quella rottura contribuisce, quale che sia l’intenzione che lo muove, quale che sia la bandiera politica sotto cui si pone, ne deve portare, appieno, la responsabilità. Così come chi a quella lacerazione intende opporsi non può non schierarsi, e dire da che parte sta. Io sto con chi salva.

Da anni si moltiplicano le denunce dello scandalo delle galere libiche, eppure il governo italiano continua a consegnare agli "alleati"stupratori torturatori assassini chi tenta di fuggirne.

La Repubblica, 8 agosto 2017, con riferimenti

«Il dramma dei migranti riportati in Libia “Picchiati e torturati, aiutateci a fuggire”
Le organizzazioni internazionali: nei centri di detenzione le condizioni sono disumane»

LE mani attaccate alle sbarre della cella del centro di detenzione di Abu Sleem dove è rinchiuso senza un filo d’aria insieme ad altre 39 persone, Mounir chiede aiuto ad un delegato del Cir. «Ho 25 anni, vengo dal Gambia, mi hanno rinchiuso di nuovo in questo inferno. Ero partito dalla spiaggia di Garabouli su una barca in legno, ma le guardie del mare ci hanno arrestato e riportato indietro. I guardiani picchiano i bambini, violentano le donne, ci torturano mentre parlano al telefono con i nostri familiari e chiedono altri soldi per liberarci. Aiutateci ad uscire da qui».

È la lotteria del migrante. Chi è soccorso da una nave umanitaria e portato in Italia è salvo, chi viene recuperato dalla guardia costiera libica torna all’inferno. Ottocentoventisei a Sabrata, 128 a Zawia, 43 a Misurata. In mille, come Mounir, nelle ultime 48 ore sono stati soccorsi in mare dai libici e riportati nei centri di detenzione dove, come denunciano le organizzazioni umanitarie, da Amnesty International all’Unhcr, dall’Oim all’Unicef, le condizioni sono disumane e i diritti umani non garantiti. Federico Soda, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim (organizzazione presente in Libia ai punti di disimbarco insieme all’Unhcr), lo ha detto chiaro al Comitato Schengen: «Consideriamo inaccettabile fare dei soccorsi in mare per poi riportare i migranti in luoghi le cui condizioni sono considerate inaccettabili in tutto il mondo. Quando la Libia potrà essere considerata un porto di sbarco sicuro faremo altri ragionamenti. Per altro così si continua ad alimentare la tratta e il traffico».

Perché chi sopravvive al suo viaggio dall’inferno e ritorno quasi sempre ci riprova. Soprattutto se, come spesso accade, subito dopo essere riportato a terra dalla guardia costiera libica ed essere registrato e soccorso in uno dei dodici centri di disimbarco attualmente attivi sulla costa finisce immediatamente nelle mani dei trafficanti e viene rinchiuso in uno dei centri di detenzione controllati dalle milizie. Può accadere facilmente soprattutto se a recuperare i profughi sono dipartimenti di guardia costiera come quello di Zawia, guidati da personaggi come Abdulrahman Milad, fino a qualche tempo fa ritenuto trafficante di uomini. È lì, tra quelle mura inaccessibili, dietro quelle sbarre invalicabili che nascondono più di 8.000 persone, stupri e violenze a carico di uomini, donne, bambini sono l’inferno quotidiano.

Quattrocentomila persone pronte a partire, stime ufficiali dell’Oim, che raddoppiano da informazioni ufficiose che arrivano da diverse fonti. Ventinove centri di detenzione, non tutti accessibili alle organizzazioni umanitarie. Roberto Mignone, capomissione dell’Unhcr, è in Libia da tre mesi. Loro riescono a supportare e far liberare gli aventi diritto allo status dei rifugiati, ma tutti gli altri finisconorisucchiati nel grande buco nero dei lager in mano alle milizie. «Noi e i rappresentanti dell’Oim — spiega Mignone — siamo presenti nei dodici punti di disimbarco in cui vengono portate le persone intercettate dalla guardia costiera. Abbiamo migliorato le condizioni di assistenza, distribuiamo kit di soccorso e servizi medici. Poi i migranti vengono tutti portati nei centri di detenzione, uomini, donne, bambini, tutti insieme. In quelli sotto il controllo del dipartimento che combatte l’immigrazione clandestina, nonostante le condizioni di sovraffollamento, mancanza di igiene e insicurezza, riusciamo ad attivare l’assistenza per chi ha diritto allo status di rifugiato, ad ottenerne il rilascio, a fornire loro documenti di richiedente asilo e proviamo a facilitare il rimpatrio volontario. Certo le condizioni sono molto molto complicate».

A sei donne, vittime di abusi sconvolgenti e tenute in schiavitù da un gruppo armato, è andata bene. Tre settimane fa l’Unhcr è riuscita a farle liberare dal centro di detenzione e adesso sono al sicuro in una casa protetta in un paese che ha accettato di accoglierle. Ma sono più di cinquantamila le donne e i bambini, soprattutto dell’area subsahariana — denuncia l’Unicef nel suo ultimo rapporto — che sono passati nell’ultimo anno dai centri di detenzione libici.

Rinviamo alla lettura degli articoli di questi ultimi mesi Italia e Libia in guerra contro i fuggitivi, L'accordo sui migranti con la Libiacrea una Guantanamo. Ma non da oggi sono note le condizioni dei luoghi di contenzione e tortura in Libia. si veda, ad esempio, l'articolo dell'Espresso del 23 giugno 2014

Una sindaca feroce contro chi pecca di umanità. C'è nel PD bolognese chi chiede che sia espulsa. Ma i suoi maestri quel partito lo dirigono. E Salvini ancora non ha capito.

Corriere di Bologna, 5 agosto 2017
«Alice Zanardi: "Sto solo riportando un disagio sentito da tutta la popolazione". Ma il segretario regionale dem la striglia: "Proclama impraticabile, non risolve i problemi". E Salvini: «Cosa ci fai nel Pd?"»

CODIGORO - Controlli e tasse più alte ai cittadini che ospitano i profughi. È questa la linea dura, targata Pd, voluta da Alice Zanardi, sindaca da un anno di Cogidoro, Comune del Ferrarese di oltre 12 mila abitanti dove hanno trovato casa oltre 100 profughi, di cui 40 appena arrivati e alloggiati in strutture private. La prima cittadina dice di rispondere semplicemente a «un disagio sentito da tutta la popolazione». Ma si prende una strigliata dal segretario pd dell’Emilia-Romagna («No ai facili proclami») e da Bologna arriva anche la richiesta di espellerla dal partito («Sarebbe l’unico segnale democratico degno di questo nome», dice il vicesindaco bolognese Matteo Lepore). Applaude invece il leader della Lega Matteo Salvini.
«Chiedo che siano rispettate le regole» - Alice Zanardi però non ci sta. «Non la voglio buttare in politica - dice - pretendo solo che le norme vengano rispettate», sottolinea la prima cittadina. «Se c’è la regola del 2,5 migranti per mille abitanti, Codigoro l’ha già abbondantemente sorpassata, indipendentemente da come il Pd la pensa. Solo in un mese da 58 profughi siamo arrivati a 100. Ora basta, come sindaca non faccio altro che riportare un disagio sentito da tutta la popolazione». Ma può veramente alzare le tasse a chi ospita? «Quella sulle tasse è una provocazione. Ma se posso, ammesso che sia legale e possibile farlo, le alzerò per i privati che accolgono», dice.

La minaccia per chi compie il reato di umanità

In una realtà che vorrebbe, da parte di governanti saggi e di popoli civili, la realizzazione di canali sicuri da utilizzare per l'inevitabile esodo, si incolpano quelli che organizzano una supplenza. Articoli di Luigi Manconi e Adriana Pollice. il manifesto, 4 agosto 2017, con postilla
REATO D’ALTRUISMO
di Luigi Manconi


Reato umanitario: come capita non di rado, è stato il quotidiano «dei vescovi» a trovare la definizione più efficace, e moralmente e giuridicamente più intensa, per qualificare la colpevolizzazione delle Ong: e, nel caso specifico, della Jugend Rettet. Il che potrà indurre molti laici, anche solo per questa ragione, a schierarsi dalla parte della magistratura e dello Stato, quasi che gli orientamenti delle chiese e delle organizzazioni umanitarie fossero l’espressione di un profetismo antistatuale e anarcoide.

Altri, e io tra questi, vedono invece in quegli stessi orientamenti un’ispirazione, rigorosamente democratica e liberale, che si rifiuta di ricondurre l’agire umano e l’azione sociale nell’ambito esclusivo degli apparati istituzionali, delle loro norme e del loro ordine superiore.
È un’idea statolatrica, e tendenzialmente autoritaria, che i democratici e i garantisti non possono condividere.

Se gli appartenenti a Jugend Rettet o l’equipaggio della sua nave – ma il pm di Trapani ha parlato solo di «alcuni membri» – hanno commesso reati, vengano processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati.

Ma finora, dai dati conosciuti e dalle stesse dichiarazioni della procura – avrebbero agito «non per denaro» ma per «motivi umanitari» – si tratterebbe solo ed esclusivamente della realizzazione di un «corridoio umanitario». Così ha suggerito Massimo Bordin nella sua rassegna stampa su Radio radicale.
E a me sembra proprio che di questo si tratti. Uno di quei rarissimi «corridoi umanitari» che possono consentire ingressi sicuri in un’Italia e in un’Europa, dove tutti gli accessi legali risultano ermeticamente serrati.

E, dunque, si può dire che – fatte salve l’indiscussa buona fede della magistratura e la necessità di attenderne le conclusioni – siamo in presenza, sul piano della pubblica opinione e del senso comune, di uno degli effetti della campagna di degradazione del ruolo e delle finalità delle organizzazioni non governative, in corso da mesi. E delle conseguenze di un processo – se possibile ancora più nocivo – di svilimento di alcune categorie fondamentali come quelle di salvataggio, soccorso, aiuto umanitario. Questo è il punto vero, il cuore della controversia in atto e la vera posta in gioco morale e giuridica. E, per ciò stesso, politica.

Dunque, e torniamo al punto di partenza, la falsa rappresentazione da cui guardarsi oggi è quella che vedrebbe uno schieramento, definito «estremismo umanitario», utopistico e velleitario (e tanto tanto naif), e, all’opposto, un fronte ispirato dal realismo politico e dalla geo-strategia, tutto concentrato sul calcolo del rapporto costi-benefici. Ma, a ben vedere, quest’ultimo mostra tutta la sua fragilità. Davvero qualcuno può credere che sia realistica e realizzabile l’ipotesi di chiudere i porti? E di attuare un «blocco navale» nel mare Mediterraneo?

Cosa c’è di più cupamente distopico dell’immaginare che la missione militare, appena approvata dal Parlamento italiano, possa essere efficace in un quadro segnato da un’instabilità oggi irreparabile, come quella del territorio libico e del suo mare?
Se considerato alla luce di questi interrogativi, il reato umanitario di cui si macchierebbero le Ong rappresenta davvero la riproposizione, dopo un secolo e mezzo, di quelle fattispecie penali che precedettero la formazione dello stato di diritto. Reati senza vittime e privi di quella offensività e materialità che sono i requisiti richiesti dal diritto contemporaneo: il vagabondaggio, l’anticlericalismo, il sovversivismo, la propaganda antimonarchica.
Di questi comportamenti, il reato di altruismo rappresenta una sorta di forma disinteressata («non per denaro») e ispirata dalla obbligazione sociale e da quel senso di reciprocità che fonda l’idea contemporanea di comunità e di cittadinanza.

«CONDOTTA UMANITARIA»
SORVEGLIATA SPECIALE
di Adriana Pollice

«Immigrazione. La nave Iuventa è bloccata nel porto di Trapani, l’equipaggio sotto scorta a Lampedusa. L'avvocato della ong tedesca precisa: “Faremo ricorso contro il sequestro. Non c'è nessun indagato, sono liberi cittadini”»

L’equipaggio della nave Iuventa, della Ong tedesca Jugend Rettet, è stato trasferito ieri sotto scorta in alcune abitazioni di Lampedusa. La nave, sequestrata mercoledì su ordine della procura di Trapani, è sorvegliata dalla polizia. L’equipaggio è stato interrogato dagli inquirenti: il fascicolo è a carico di ignori, il reato ipotizzato è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Faremo ricorso contro il sequestro. Non c’è nessun indagato, sono liberi cittadini» ha spiegato Leonardo Marino, difensore della Ong, che si è fatta sentire via Twitter: «Per noi il salvataggio di vite umane è e sarà la priorità e ci dispiace non poter operare nella zona di ricerca e salvataggio in questo momento. Stiamo raccogliendo informazioni e solo dopo potremmo valutare le accuse. Speriamo di incontrare le autorità italiane prestissimo».

Jugend Rettet non ha sottoscritto il codice di condotta stilato dal Viminale. Ieri invece è arrivata la firma al regolamento, voluto dal ministro Minniti, da parte di Sea-Eye. Salgono così a quattro (con Moas, Save the children e Proactiva Open Arms) le organizzazioni non governative a essersi allineate. Continuano a opporsi invece Sos Mediterranee, Medici senza frontiere e Sea-Watch. Il commissario europeo per le Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, è tornato a chiedere alle Ong l’adesione al codice mentre la sinistra tedesca attacca: «Il sequestro della Iuventa è un ricatto con il quale il governo italiano vuole forzare le Ong a firmare un accordo-bavaglio» dichiara la Linke. Sia Linke che Verdi sottoscrivono le critiche dell’associazione Pro-Asyl, che accusa il governo italiano di violare il diritto internazionale

Fermata martedì dalla Guardia costiera per «controlli di routine», la Iuventa è stata poi sequestrata e trasferita a Trapani, scortata con un grande dispiegamento di forze. Sequestrati documenti e computer, verranno esaminati gli strumenti di bordo per tracciarne i movimenti. L’inchiesta resterà a Trapani: ci sarà il trasferimento alla Dda di Palermo, competente per legge, solo se la procura decidesse di contestata l’associazione criminale.

«Ci sono gravi indizi di colpevolezza. Gli episodi raccolti contribuiscono a sostenere che questa condotta sia abituale» ha spiegato il procuratore Ambrogio Cartosio. Il titolare dell’indagine ha però specificato che la responsabilità degli illeciti è individuale, non ci sarebbero quindi legami tra i trafficanti e la Ong, infatti non è stata contestata l’associazione a delinquere. «Le persone coinvolte non hanno agito per denaro – ha sottolineato -, sulla nave si sono alternati diversi equipaggi e al momento non pare abbiano percepito compensi. La mia personale convinzione è che il motivo della condotta dell’equipaggio sia umanitario».

Ieri Matteo Renzi ha insistito: «Sul tema migratorio, aiutarli davvero a casa loro non è una parolaccia». Mercoledì è intervenuta Giusi Nicolini, che Renzi ha voluto nella segreteria nazionale del Pd. L’ex sindaca di Lampedusa si è smarcata dalle posizioni del segretario dem: «Se si vuole cacciare le Ong dal Mediterraneo vuol dire che si vuole che di migranti ne arrivino di meno e dunque, quando sono a mare, che ne muoiano di più. Questa visione è andata peggiorando fino alla criminalizzazione delle Ong».

Nell’inchiesta, condotta dallo Sco, è stato usato un agente sotto copertura, che ha lavorato sulla nave Vos Hestia di Save the Children. Sono state le rivelazioni di due suoi operatori a far avviare l’indagine, poi assunti dall’agenzia Imi security service. Cartosio ha spiegato: ci sarebbero stati almeno tre casi in cui alcuni componenti dell’equipaggio della Iuventa, non ancora identificati, avrebbero avuto contatti con trafficanti libici e sarebbero intervenuti in operazioni di soccorso senza che i profughi fossero in pericolo. I migranti sarebbero stati trasbordati sulla nave della Ong scortati dai libici. Il reato si configurerebbe anche perché sarebbe mancato l’imminente percolo di vita.

L’accusa si basa sui testimoni che operavano per Save the children, uno di loro avrebbe raccontato ai pm: «La più temeraria era sicuramente la Iuventa che, da quello che ho potuto vedere sul radar, arrivava anche a 13 miglia dalle coste libiche. La Iuventa, che è un’imbarcazione piccola e vetusta, fungeva da piattaforma ed era sempre necessario l’intervento di una nave più grande». I due avrebbero anche riferito di gommoni restituiti agli scafisti.

Ieri Save the Children ha però precisato: «I testimoni fanno parte del personale di sicurezza della società che collabora con l’armatore, dal quale è stata noleggiata la nave Vos Hestia».

postilla

Un sogno. Ci piacerebbe pensare che un giorno, in un saggio governo universale, un tribunale dotato di giudizio e di potere obbligasse i governanti colpevoli di non aver organizzato la fuga e l'accoglienza dei rifugiati a rimborsare di loro tasca e i migranti dei soldi hanno dovuto pagare agli scafisti e agli altri trafficanti.

Libertà e Giustizia chiede con forza al governo Gentiloni di ritirare, o almeno di riconsiderare profondamente, il Codice di Condotta che ha voluto imporre alle Organizzazioni Non Governative che, nel Mediterraneo, svolgono una fuzione umanitaria fondamentale, sopperendo meritoriamente all’ignavia e all’inerzia dei governi.

Come ha notato l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione si tratta di una misura che «mina l’efficacia delle attività di soccorso». In altri termini, il costo di questo provvedimento ambiguo e sbagliato rischia di essere misurato in vite umane perdute.

Il Codice Minniti è in contrasto sia con il diritto internazionale del mare sia con ciò che il diritto di asilo impone all’Italia. In particolare, appare perfettamente condivisibile la scelta di alcune ong (come Medici Senza Frontiere, insignita del Premio Nobel per la Pace) di non sottoscrivere l’impegno a non effettuare trasbordi (una misura spesso invece necessaria per salvare le vite dei migranti), così come il rifiuto di portare armi a bordo, e la scelta di non ospitare unità di polizia.

Libertà e Giustizia rileva che il Codice Minniti non ha valore di legge, eppure sta già consentendo al governo di intervenire in modo straordinariamente pesante nello scenario già teso e difficile del Mediterraneo. In sostanza, il governo sta ribaltando la politica italiana verso i migranti senza passare dal Parlamento: un passo drastico, preceduto dalla inaudita minaccia di chiudere i porti, e ora accompagnato da oscure minacce alle ong che rifiutano, del tutto legittimamente, di sottoscrivere il Codice.

Libertà e Giustizia si rivolge anche a tutte le forze che sostengono il governo, e in generale al Parlamento della Repubblica: la lunghissima chiusura estiva delle Camere non può certo essere il pretesto per non discutere di questa terribile svolta anti-umanitaria, una svolta che nega e mortifica i principi fondamentali della nostra Costituzione.

Sinistra italiane e Movimento5Stelle hanno votato contro, Forza Italia e l’area gentiloniano-renziana, fino a Pier Luigi Bersani incluso, hanno votato a favore della guerra italo-libica contro i rifugiati. Articoli di Carlo Lania e Daniela Preziosi. il manifesto, 3 agosto 2017-



LA PRIMA NAVE ITALIANA
È GIÀ IN LIBIA.

L’OIM: «NO AI RESPINGIMENTI»
di Carlo Lania

«Messaggio in Codice. Via libera del parlamento alla missione. Forza Italia vota con la maggioranza, Mdp si spacca. Contrari Si, Lega e M5S»

La prima nave militare italiana si trova già nel porto di Tripoli. Si tratta del pattugliatore Comandante Borsini in servizio con la missione «Mare sicuro» che ieri, subito dopo il via libera del parlamento alla missione, ha ricevuto dallo Stato maggiore della Difesa l’ordine di dirigersi in acque libiche. A bordo ufficiali della squadra navale e del Comando operativo del vertice interforze che dovranno coordinarsi con i colleghi libici per decidere quali e quanti mezzi distogliere dall’attività di Mare sicuro – che opera non distante dalle acque territoriali libiche – per essere impiegati nella nuova operazione di contrasto all’immigrazione. Secondo le autorità di Tripoli serviranno almeno cinque giorni per mettere a punto tutti i particolari tecnici dell’operazione (oltre alle navi, l’area entro la quale utilizzarle e che tipo di supporto dovranno fornire alla Guardia costiera del Paese).

A questo punto l’avventura italiana in Libia è davvero cominciata, con tutto il suo carico di incertezze. Poco prima che la Comandante Borsini puntasse la prua verso il paese nordafricano, erano state Camera e Senato ad autorizzarne il via libera, seppure senza «l’ampio consenso» auspicato dal governo alla vigilia. Mentre Forza Italia si è schierata con la maggioranza, Lega Nord, Sinistra italiana e M5S hanno infatti votato contro e Fratelli d’Italia si è astenuto. Spaccato il Mdp, con alcuni deputati che hanno votato contro, altri che si sono astenuti e, infine, altri ancora che si sono espressi a favore. Al Senato i bersaniani hanno invece votato unanimi a favore.

Difficile capire il clima che già a partire da oggi circonderà la missione. Ieri, con una dichiarazione a metà tra l’apprezzamento e le minacce, il colonnello Ayoub Qassem, portavoce della Marina libica che fa capo al Governo di accordo nazionale guidato dal premier Fayez al Serraj, prima ha riconosciuto come il sostegno italiano abbia contribuito «a migliorare i salvataggi», poi ha definito «vaga» la decisione di Roma di intervenire in acque libiche e promesso di «vigilare con attenzione affinché non venga violata la sovranità delle nostre acque territoriali». Parole che in realtà sembrano servire più a smorzare possibili attacchi interni che un avvertimento alle navi della nostra Marina, tanto più se si pensa che richiedere l’intervento italiano è stato proprio Serraj con una lettera inviata il 23 luglio al presidente del consiglio Paolo Gentiloni.

A destare le preoccupazioni maggiori, però, è ancora la sorte che spetterà ai migranti fermati in acque libiche, a questo punto anche con il contributo italiano. «Consideriamo inaccettabile soccorrere i migranti in mare per poi riportarli in Libia dove vivranno in condizioni che tutto il mondo conosce», ha detto ieri parlando al Comitato Schengen il direttore dell’Ufficio coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Federico Soda. «Cercheranno di attraversare il mare di nuovo, e quindi, di fatto, intensificheranno la tratta e il traffico».

In Libia ci sono circa 30 campi governativi nei quali i migranti sono detenuti. Soda ha spiegato come l’Oim riesca a entrare solo in una ventina di questi dove ha potuto verificare le «condizioni pessime» in cui uomini, donne e bambini sono costretti a vivere. «E in quelli in cui non entriamo si trovano presumibilmente in condizioni peggiori», ha proseguito.

Torture, violenze di ogni tipo e sfruttamento sono all’ordine del giorno eppure per le organizzazioni internazionali finora non c’è alcuna certezza che i migranti che verranno ricondotti in Libia non subiranno le stesse sevizie. Duro il giudizio espresso da Amnesty International sul via libera del parlamento alla missione italiana. «Facilitare l’intercettamento e il ritorno in Libia di migranti e rifugiati – ha detto il vicedirettore dell’organizzazione, Gauri Van Gulik – significherà destinarli ai centri di detenzione del paese dove quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi. Il voto di oggi – è la conclusione di Van Gulik – potrebbe rendere le autorità italiane complici di questo orrore».

MDP, IL SÌ ALLA MISSIONE
FINISCE IN MINORANZA»
di Daniela Preziosi

«Libia. Alla camera tra assenti e contrari la maggioranza dei deputati non segue l'indicazione favorevole a un via libera "sofferto". Spaccatura tra gli ex Sel e gli ex Pd che al senato sono da soli e infatti il gruppo resta unito sul voto favorevole»

«Ma no, non ci siamo spaccati, abbiamo avuto una articolazione politica. Ma nulla di drammatico: veniamo da percorsi diversi sui temi della politica estera. E sulle missioni. Ma divisi no: sto preparando un viaggio per il medioriente con Roberto Speranza, a settembre…». In Transatlantico Arturo Scotto minimizza, ma il problema c’è e si vede. Anzi si conta: sulla missione in Libia al senato, dove Mdp è composto da ex Pd, tutti votano sì come un sol uomo. Alla Camera Articolo 1 si fa in tre-quattro, anche più.

Su 43 deputati, in 20 votano sì, in cinque no (come i cugini di Sinistra italiana), uno si astiene, in 13 escono dall’aula – per lo più ex Sel – e il resto sono assenti. Si misurano insomma quelle che in una vecchia sezione si definirebbero «divergenze di analisi». E la famosa «sintesi», che in queste ore viene faticosamente ricercata con Giuliano Pisapia per rimettere in carreggiata «Insieme» , non arriva. Tanto che a Montecitorio Carlo Galli, il filosofo della politica cui spetta l’onere di pronunciare il sì alla mozione governativa a nome del gruppo, deve ricorrere a un’espressione sofferta, parla di «appoggio necessariamente articolato, date le diverse sensibilità presenti».

La linea ufficiale di Mdp è dunque quella di un sì condizionato, ma comunque sì: la decisione del governo «presenta evidenti di criticità, tutte evidenziate nell’atto di indirizzo che abbiamo autonomamente presentato», chiede un «giusto riconoscimento» per il ruolo delle Ong. Eleonora Cimbro ci aggiunge una lamentela per l’ok agli emendamenti di Forza Italia: «Un atteggiamento schizofrenico oppure siamo di fronte a un accordo politico tra Pd e Fi».

Ma alla fine l’appoggio alla mozione della maggioranza non è discussione, «in un’ottica di assunzione di responsabilità nazionale più che di specifica fiducia verso l’esecutivo», dice Galli: esecutivo che pure sostengono, almeno per il momento. In attesa della legge di bilancio, sulla quale già si dichiarano pronti alla rottura.

Dai fuoriusciti di Sel arriva invece un fuoco di fila contro la missione. Per Scotto il sì del parlamento è «un tragico errore», un voto al buio perché l’invio delle navi «trae origine dalla lettera del premier Al Serraj» in cui chiede aiuto all’Italia, che però «il parlamento non ha potuto leggere» (tranne il Copasir).

«La logica del respingimento serve a strizzare l’occhio alla montante pulsione xenofoba», rincara il collega Michele Piras, «l’ingresso italiano nelle acque libiche rischia di generare un contraccolpo ulteriore sulla credibilità interna di Al Serraj» e insomma, «affrontare così un fenomeno colossale è miope ed inutile, un palliativo scorretto». Ancora più duro Florian Kronbichler: «Il passo dal piano politico a quello militare è una dichiarazione di bancarotta dell’Europa nella gestione della crisi migratoria», «governo e parlamento hanno deciso non di aiutare chi fugge, ma di catturare, in modo militare, chi fugge».

Fra le due componenti di Mdp insomma c’è in mezzo un mare di differenze, e sulle missioni militari si capisce: chi proviene dalla sinistra-sinistra lo sa già almeno dai tempi della guerra in Kosovo, per la quale l’allora Prc tolse l’appoggio al governo Prodi: e i Comunisti italiani di Armando Cossutta si scissero da Rifondazione e appoggiarono il governo D’Alema. Quello stesso D’Alema che oggi vuole rimettere insieme tutta la sinistra.

Il Prc, quello di oggi, non si fa sfuggire l’occasione di attaccare i «compagni», gli uni e gli altri: sulla missione in Libia: «Il voto a favore degli esponenti di Mdp e Campo progressista, in coerenza con il disastro combinato quando erano nel Pd, purtroppo conferma che queste formazioni non rappresentano un’alternativa di sinistra per questo paese».

L’Italia di Salvini, Meloni, Renzi, Gentiloni, Berlusconi e Alfano e la Libia dei negrieri saranno alleati nella guerra armata contro le persone che tentassero di fuggire dagli inferni che il Primo mondo ha creato nelle loro terre. La Libia ha tanto petrolio.

Il Fatto quotidiano, 2 agosto 2017

Una missione dai confini operativi labili quella che sta per partire per la Libia. E non tanto per la mancata volontà del governo italiano di stabilirli, quanto per la difficoltà oggettiva di rispettarli, una volta sul campo, trattandosi di un paese diviso e di un’operazione che sarà condotta in gran parte nelle acque territoriali libiche. L’Italia potrà rispondere sparando, se attaccata, e potrà farlo anche se ad essere attaccati saranno i partner libici.

Saranno due le navi italiane impegnate. Un pattugliatore che porterà il team dei nostri ufficiali che dovranno interlo-quire con i loro colleghi libici (da questa interlocuzione deriverà l’area di azione) e una nave logistica (che servirà ad aggiustare altre imbarcazioni). Il pattugliatore sarà stabilmente nel porto di Tripoli (quindi nelle acque territoriali libiche) ed agirà solo su richiesta e mai da solo: questo perché nel caso ci si trovasse in presenza di barconi affondati e di migranti in pericolo di vita dovranno intervenire le motovedette libiche. Per scongiurare due rischi opposti: quello di riportare i naufraghi in Libia, dando il via a respingimenti collettivi vietati dalle convenzioni internazionali.
E quello di portarli in Italia, rischiando un effetto boomerang. È quello il quadro generale illustrato ieri dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano e dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. “L’incontro di Parigi tra Serraj e Haftar è stato definito dall’Economist un piccolo passo. Noi invece gli abbiamo riconosciuto un valore”, ha detto Alfano. Un modo indiretto di confermare che l’accelerazione della missione italiana si deve soprattutto ad evitare di farsi surclassare da Macron.

“Si continua a rimuovere dal dibattito pubblico la vera causa di instabilità in Libia, ovvero il conflitto a bassa intensità tra Francia e Italia sul futuro assetto del Paese”, ha sottolineato Erasmo Palazzotto di Sinistra italiana. È toccato alla Pinotti dare le linee della missione: “Tutte le attività si svolgeranno sulla base delle e sigenze delle autorità libiche. Non si profila alcuna ingerenza o lesione della sovranitàli bica”. Ci ha anche tenuto a sottolineare che la Libia ha definito una sua area Sar (Search and rescue), cosa che l’Italia voleva.

Ma soprattutto: “Le regole d’ingaggio per i militari italiani saranno quelle previste per l’operazione Mare Sicuro” ma “dovranno essere estese al fatto che la missione diventa bilaterale”. Quindi, “il diritto internazionale prevede la legittima difesa estesa all’uso della forza graduale e proporzionale. I dettagli sono da definire con i libici, ma se gli scafisti sparano contro una nostra nave possiamo intervenire e la stessa cosa vale se è messa a ri schio una nave libica”. Le regole di ingaggio di Mare sicuro sono secretate. E verranno adeguate dopo un tavolo tecnico con la Guardia costiera e la Marina libica. Dunque oggi le Camere votano senza conoscerle.

La Pinotti ha ricordato come la richiesta è partita da una lettera arrivata da Serraj a Gentiloni il 23 luglio. La cosa non è stata priva di problemi: di ritorno dall’incontro con il premier Serraj ha smentito il fatto di aver chiesto aiuto all’Italia. Allora, Gentiloni gli ha chiesto una lettera formale. Questa è arrivata e ieri su richiesta fatta nelle Commissioni è stata letta ai membri del Copasir. Al netto della richiesta di supporto logistico non c’è niente di specifico. Da sottolineare anche che non ci sarà budget supplementare, oltre a quello di Mare sicuro.

Ieri nelle Commissioni hanno votato contro Sinistra Italiana e Cinque Stelle e non ha votato Mdp. Dovrebbe andare allo stesso modo nelle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Grazie al sì di Forza Italia i numeri dovrebbero esserci. A quel punto nel giro di un paio di settimane la missione diventerà operativa.

[nostri neretti n.d.r]

Ancora ostacoli alle organizzazioni umanitarie che tentano di aiutare i fuggiaschi che tcercano rifugio in luoghi sicuri. Articolo di Carlo Lania e commento diLuigi Manconi.

Il manifesto, 1 agosto 2017


ONG DIVISE,
SOLO IN DUE FIRMANO
IL CODICE-SALVATAGGI
di Carlo Lania

«Codice a sbarre. Msf rifiuta le nuove regole: contrari alla presenza di agenti armati a bordo delle navi e al divieto di trasbordo dei migranti»

Alla fine solo due Ong – Save the Children e Moas – hanno accettato di firmare il codice di comportamento messo a punto dal Viminale per i salvataggi in mare. Medici senza frontiere ha scelto infatti di non accettare le nuove regole e lo stesso ha fatto la tedesca Jugen Rettet. Tutte le altre Ong, Sea-eye, Sea Watch e Sos Mediterranée, peraltro assenti alla riunione di ieri pomeriggio al ministero degli Interni, starebbero ancora valutando il da farsi, mentre disponibilità a firmare il Codice sarebbe stata dichiarata via mail in serata dalla spagnola Proactiva open arms.

L’accordo tra Ong e Viminale, che sembrava quasi raggiunto solo venerdì scorso, alla fine invece è saltato. E adesso le due parti si rimpallano la poca disponibilità a venirsi incontro. Due i punti principali di scontro, sempre gli stessi da quando la trattativa è cominciata: il divieto a effettuare i trasbordi dei migranti tratti in salvo e la presenza a bordo delle navi di agenti di polizia giudiziaria armati. Questioni dirimenti per le Ong, delle quali però l’ultima bozza inviata venerdì sera in visione dal ministero non avrebbe tenuto contro in maniera adeguata. «Ci preoccupa non aver ricevuto garanzie sul fatto che gli agenti salirebbero a bordo disarmati», spiega Tommaso Fabbri, capo missione di Msf Italia. «Se accettassimo, posso immaginare le ripercussioni che potremmo avere negli altri Stati in cui Msf opera e nei quali abbiamo mantenuto il principio di non avere con noi personale armato. Non dimentichiamo che siamo operatori umanitari».

Stessa cosa per quanto riguarda la possibilità di trasferire i migranti salvati a bordo di navi più grandi, come quelle della missione europea Sophia. Le Ong operano spesso su mezzi non particolarmente grandi, adatti per i soccorsi perché possono accostare i barconi senza creare situazioni di pericolo, ma del tutto inadatte a trasferirli in Italia. Un’ipotesi accordo si era trovata sulla possibilità di effettuare i trasbordi sotto controllo e autorizzazione della Guardia costiera italiana, ma alla fine non se ne è fatto nulla. «Nel codice questa possibilità viene prevista come un’eccezione, senza alcuna garanzia per le Ong di non essere costrette a dover tornare verso l’Italia con i migranti a bordo», prosegue Fabbri.

Cosa accadrà adesso è un’incognita per le organizzazioni umanitarie. Di sicuro a nessuna di loro verrà negato l’accesso ai porti, ma dal ministero degli Interni fanno capire che Moas e Save the Children, le due Ong che hanno accettato il Codice, diventeranno degli interlocutori privilegiati e entreranno di fatto nel sistema nel sistema istituzionale dei soccorso. Questo vuol dire che in caso di un barcone che si trovi in difficoltà la sala operativa della Guardia costiera chiamerà a intervenire prima di tutto loro. «Le altre – spiegano sempre al ministero – si assumeranno la responsabilità per quanto riguarda la sicurezza della navigazione e delle persone che si trovano a bordo».

Molto probabilmente verso le Ong che non hanno firmato verranno effettuati dei controlli più serrati per quanto riguarda la strumentazione di bordo, ma è chiaro che l’assenza delle Ong di fronte alle acque libiche, magari perché costrette a trasportare i migranti in un porto italiano, rischia di aumentare il numero dei naufragi.
Per Valerio Neri, direttore generale di Save the Children, Ong che invece ha accettato le nuove regole, «gran parte dei punti indicano cose che già facciamo e ci sono stati chiarimenti su un paio di punti che ci preoccupavano, quindi non abbiamo avuto problemi a firmare. Siamo convinti – ha aggiunto Neri – di aver fatto la cosa corretta e mi dispiace che altre Ong non ci abbiano seguito, ma evidentemente avevano altre sensibilità».
Il mancato accordo con le Ong ha scatenato le reazioni del centrodestra. Per il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta ha chiesto al ministro degli Interni Minniti «di chiudere i porti» alle Ong che non hanno sottoscritto le nuove regole, mentre Georgia Meloni, leader di FdI, ha chiesto al governo di sequestrare le loro navi.

ONG NEL MIRINO
PER SPORCARE TUTTO
di Luigi Manconi

La controversia tra le Ong e il governo italiano intorno al codice di regolamentazione dell’attività di salvataggio in mare è questione di grande importanza. Guai a pensare che in discussione sia la maggiore o minore severità dei controlli e la tassatività delle regole di ingaggio o la trasparenza di questo o quel finanziamento.

Fosse così, col buonsenso di tutti i soggetti, le contraddizioni si risolverebbero in breve. Ma non è affatto così: e il motivo è che la posta in gioco è rappresentata dalla stessa categoria di salvataggio.

Per questa ragione, il rifiuto da parte di un’organizzazione autorevole come Medici senza frontiere (premio Nobel per la Pace nel 1999) di sottoscrivere quel codice elaborato dal governo italiano, è un fatto estremamente serio. E male farebbe una persona esperta come il ministro dell’Interno Minniti a sottovalutarlo.

Ma come si è arrivati a questo esito?

Nei primi mesi del 2017, Frontex – agenzia europea della guardia di frontiera – solleva alcuni dubbi sull’operato delle organizzazioni non governative che partecipano all’attività di soccorso nel mare Mediterraneo. Si accende, così, una polemica sulle presunte relazioni tra le stesse Ong e le strutture criminali che gestiscono il traffico di migranti; e sui finanziamenti che alcune di quelle Ong riceverebbero da sostenitori sospetti perché interessati a «destabilizzare il quadro economico del nostro Paese».

Come affermato dal capo della Procura di Catania, Carmelo Zuccaro. La Commissione Difesa del Senato decide, in base a ciò, di avviare un’indagine conoscitiva, conclusa da un documento che deve riconoscere come tutte le accuse nei confronti delle Ong non reggano alla verifica dei fatti.

In quella sede, i più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, escludono che siano mai emerse prove di rapporti tra Ong e trafficanti, sottolineando la piena collaborazione in quel tratto di mare tra organismi di coordinamento, imbarcazioni statuali e navi delle associazioni umanitarie. Anche la magistratura siciliana, nel corso delle audizioni, riconosce la sostanziale correttezza delle Ong.

Il procuratore capo di Catania, Zuccaro, sostiene di non disporre di «alcun fondamento probatorio» che suffraghi le proprie ipotesi accusatorie. E tuttavia, nonostante la fermezza della Guardia costiera nel ribadire di avere il pieno controllo di quanto avviene nelle operazioni Sar (Search And Rescue), le conclusioni della Commissione Difesa insistono sulla necessità di un «coordinamento permanente» per razionalizzare «l’attività disordinata» in quel tratto di mare, che sarebbe dovuta alla presenza delle Ong. Se ne conclude che sarebbe necessaria «una contestuale riduzione delle relative imbarcazioni nell’area».

Va detto che, nel corso di questa polemica, sono emersi umori assai pericolosi. In primo luogo, quella velenosa tendenza a «sporcare tutto», che è tanto più irresistibile quanto più il bersaglio del fango da gettare appare lindo, immune da brutture, privo di zone grigie e di ombre sospette. È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito (un muro, un’immagine, una reputazione), a degradare tutto e tutti al livello più basso, a omologare nell’infamia, a confondere nel disgusto universale. Se tutto è miserabile, la mia miseria risulta in qualche misura riscattata o, comunque, attenuata.

Ma c’è anche dell’altro. In quei meccanismi di degradazione, risultano sfigurate, e comunque intaccate, anche quelle categorie che potevano considerarsi intangibili. Indurre a sospettare che il bene possibile, rappresentato da un’attività umanitaria, possa rivelarsi un male contagioso – i soccorritori alleati ai carnefici – contribuisce potentemente a ridurre in macerie principi fondamentali. Le insinuazioni, e la diffidenza che ne consegue, non solo sfregiano le Ong e ne deturpano il prestigio, ma ottengono l’effetto di erodere i valori cui si ispirano. La violenta polemica, pur conclusasi con un pugno di mosche, ma con una persistente ombra di diffidenza da cui nasce anche questa proposta di codice di regolamentazione, mette in discussione quelle categorie di soccorso, salvataggio e aiuto umanitario che rappresentano il fondamento stesso dell’identità umana. Soccorso e salvataggio, infatti, costituiscono il cuore della vita nel momento essenziale in cui quella stessa vita è messa a repentaglio.

Gli uomini riconoscono di essere uniti da una obbligazione etica e sociale quando – innanzitutto quando – è dal rapporto di reciprocità che dipende la loro sopravvivenza. E il fatto che si evochi, in occasione dei salvataggi nel Mediterraneo, la cosiddetta legge del mare sottolinea l’ineludibilità di quel rapporto perché lo colloca geograficamente laddove lo spazio sembra raggiungere la sua assolutezza: il mare, appunto.

È questo che può spiegare i connotati perenni e imprescindibili di quell’obbligo-diritto-dovere al soccorso e al salvataggio come valore irrinunciabile. Non una vocazione utopica né una tentazione profetica nell’affermare tutto ciò. Piuttosto l’esatto contrario: la volontà umile e ostinata di ritrovare – nel fondamento materiale di una mutua necessità – il senso della qualità umana.

Un ampio concentrato di tutte le stoltezze, inequità e ignoranze, spruzzate di falso buonismo, che circolano nel pensiero corrente dai tempi del colonialismo mussoliniano,

la Repubblica, 9 luglio 2017, con postilla (i.b)

Dal confronto tra i cinque continenti, sia dalla loro estensione territoriale e sia dal numero degli abitanti e dalla loro età, emergono alcune considerazioni che vanno tenute presenti per quanto riguarda la storia del prossimo futuro. L'Asia è il continente più esteso e il più popoloso. L'età media è variabile da regione a regione, ma complessivamente non invecchia né ringiovanisce, è stabile. Gli abitanti sono 4 miliardi e 436 mila e il territorio è di 44 milioni e 580 mila chilometri quadrati. L'Europa è il continente territorialmente più piccolo: 10 milioni e 180 mila chilometri quadrati con una popolazione di 749 milioni di abitanti.

Infine è molto interessante l'Africa, con 30 milioni e 370 chilometri quadrati e una popolazione di un miliardo e 216 milioni di abitanti. L'invecchiamento è molto scarso e la crescita demografica molto elevata.

Trascuriamo le Americhe del Nord e del Sud che occupano un diverso emisfero. Qui da noi il vero tema da tener presente è l'Africa: vasta estensione e in proporzione all'Asia una popolazione minimale e giovane. Ha ragione Marco Minniti quando dice che il vero problema dell'Europa in genere e delle nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo è quello di fronteggiare l'Africa. In che modo?

Matteo Renzi è stato durissimamente contestato da tutti gli altri partiti italiani, a cominciare dalla dissidenza della sinistra guidata da Giuliano Pisapia, per aver detto che l'Italia deve bloccare l'accoglienza dei migranti e semmai dirottarli e soccorrerli nel Centro-Africa da cui provengono. Renzi per fronteggiare attacchi e insulti che gli sono piovuti addosso come una tempesta di grandine, ha parzialmente smentito le affermazioni che gli erano state attribuite, col massimo godimento soprattutto di Salvini. Ora si aspetta. Luglio e agosto le vacanze e subito dopo il tema andrà ripreso. Il come non è chiaro né da parte di Renzi né dei suoi critici interni né da quelli esterni. Ma gli estremi di quel tema sono invece chiarissimi fin d'ora e di questo vogliamo ora parlare.

Desidero anzitutto ricordare il mio incontro con Papa Francesco giovedì scorso. Uno dei temi di cui abbiamo parlato è appunto quello della povertà dei migranti in gran parte provenienti dall'Africa e diretti soprattutto verso l'Europa. Tutta l'Europa, del Sud, del Centro e del Nord.

La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura. La popolazione europea sta, in quasi tutti i Paesi, diminuendo e invecchiando. L'accoglienza dei migranti è dunque per Francesco un fatto positivo, destinato a cementare una sostanziale amicizia tra i tre continenti che la geografia pone a confronto tra loro: l'Asia, l'Africa e l'Europa.

Molte nazioni hanno attualmente un sistema dittatoriale, ma il tempo e i popoli migranti possono favorire l'estendersi delle democrazie. Questo penso io. Naturalmente sono percorsi storici pieni di variazioni, nel bene e nel male, per i popoli che ne sono contemporaneamente i protagonisti e le vittime. Ma il percorso storico io credo sia questo perché questa è la modernità che dal Quattrocento domina l'Europa e anche l'India e la Cina. Non ancora l'Africa e perciò è all'Africa che bisogna guardare.

Il Pd vuole instaurare lo "ius soli". Incontra molte difficoltà, soprattutto in Senato dove non dispone d'una maggioranza. Ma lo "ius soli" è una conquista se il Pd riuscirà a ottenerlo. Oppure si potrà introdurre qualche modifica che però non intacchi il principio. Per esempio un diritto che diventa operativo solo quando il bambino è rimasto in Italia per almeno cinque anni dalla nascita, con eventuali assenze d'un mese l'anno se ci fossero esigenze dei genitori stranieri che non possono e non vogliono lasciare il figlio senza di loro.

Uno dei punti di fondo che i Paesi meridionali dell'Ue hanno rifiutato è stato quello di accettare l'attracco di navi cariche di migranti nei loro porti. Gentiloni ha protestato, Renzi ha protestato, ma poi c'è stata la mediazione favorita dalla Germania di aiutare con una "regalia" come contributo all'accoglienza.

Se posso esprimere un mio sentimento, sono sbalordito di quanto è accaduto. L'Italia, secondo me, deve esigere che le navi battenti bandiera francese o spagnola o portoghese o turca o greca o cipriota, attracchino nei rispettivi porti. Saranno poi quei governi a decidere la loro politica nei confronti di quelle navi, ma non rimandandole in Italia perché l'Italia deve accettare l'attracco delle navi di bandiera italiana.

In teoria alcune navi potrebbero battere bandiera europea, questo è uno dei motivi per i quali temi di questa importanza esigono al più presto uno Stato europeo federato. Allora sì, sarebbe relativamente facile governare in vari modi l'accoglienza o il respingimento dei migranti. Nel frattempo tuttavia il bravo e generoso e democratico ed europeista Macron, non vuole accettare le navi che battono bandiera francese. Dovrebbe invece consentire l'attracco nei suoi porti. Comunque può fare quel che vuole, ma sarà difficile a questo punto non mettere in gioco il suo europeismo e il rispetto per la democrazia. Gaullisti? De Gaulle era meglio, fece la pace con l'Algeria.

A questo proposito desidero ricordare che dal 1936, quando Mussolini conquistò l'Etiopia, le persone nate in Eritrea e nella Somalia italiana, erano considerati cittadini italiani. Si cantava una canzone intitolata "Faccetta nera" che diceva: Faccetta nera / sarai romana / la tua bandiera sarà sol quella italiana! / Noi marceremo insieme a te / e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!".

Vedete? Il tempo passa ma spesso i temi d'allora si ripropongono.

Il nostro ministro dell'Interno Marco Minniti, è molto consapevole del problema delle emigrazioni dai Paesi dell'Africa occidentale. Fuggendo da Paesi dove rischiano di morir di fame o di essere imprigionati e uccisi, la loro fortuna sarebbe quella di organizzare un sistema di accoglienza europea, o al momento solo italiano, direttamente in quei territori.

Bisognerebbe trattare con quei governi, assumersi la responsabilità effettuando in quei Paesi una serie di investimenti appropriati alle esigenze locali, alimentari, sociali, culturali, sindacali. Insomma investimenti adeguati e richiesti da quei governi. Gli investitori sarebbero anzitutto italiani e/o europei e/o americani. I lavoratori, adeguatamente retribuiti, sarebbero anzitutto immigrati riportati nei Paesi d'origine e poi utilizzati dai Paesi in questione. Ci dovrebbe anche essere un contingente militare italiano di 200 o 300 effettivi, che dovrebbero sorvegliare e garantire che gli investimenti in corso siano adeguatamente protetti.

Questo è il programma Minniti (ovviamente condiviso da Gentiloni e da Renzi). Minniti sa che i migranti puntano sul confine libico- tripolitano. È là che i migranti vanno ed è là che saranno fermati e riportati nella patria dalla quale stanno fuggendo, ma nelle condizioni di cui abbiamo parlato.

La tesi del nostro ministro dell'Interno (che fa anche il ministro degli Esteri in certe occasioni) è che l'Africa è un continente destinato a crescere più velocemente degli altri e se la crescita avverrà anche sul suo territorio potrà addirittura mettere in moto un movimento alla rovescia: molte ditte e tecnici europei si dislocheranno in Africa per aiutarla a crescere più velocemente e a imparare a costruire nuove imprese e nuove iniziative. Concludo dicendo che il paragone è: aiutiamo l'Africa e l'Africa aiuterà noi.

postilla

Vorremmo ricordare, sempre in riferimento al periodo coloniale mussoliniano che Scalfari utilizza per sorreggere le sua argomentazione, che le leggi razziali impedivano agli Italiani di sposare le donne nere, ma le potevano impunemente stuprare. Ad oggi sono ancora migliaia e migliaia le persone, nate dall'unione di italiani con eritree a cui non viene riconosciuta la doppia cittadinanza. Del nefasto periodo coloniale italiano, d'altra parte, si parla sempre meno, non si insegna nulla a scuola e viene cancellato dalla storia ufficiale. Raccomandiamo di leggere gli scritti di Angelo Dal Boca, importante storico del colonialismo italiano. Alcuni saggi si trovano nelle cartelle di eddyburg "Italiani brava gente". (i.b.)

La ferocia nascosto dietro il buonismo a chiacchiere di Renzi e Minniti. Intervista di Rachele Gonnella a Khalid Chaouk, il parlamentare PD eletto in rappresentanza er migranti.

il manifesto, 9 settembre 2017

Tende ancora a prendere le parti del ministro Marco Minniti, magari aggiustandone il tiro, ma l’ultima svolta del segretario dem in senso neosalviniano della serie «aiutiamoli a casa loro» sta provocando più un forte maldipancia in Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, membro della commissione Esteri, primo musulmano eletto nella storia parlamentare italiana. Già nella sfida dei gazebo alle primarie si era allontanato dalla versione .4 del renzismo, per intenderci quella con sponda sempre più a destra, per avvicinarsi al governatore pugliese Michele Emiliano, fino a entrare a far parte della sua corrente chiamata Fronte democratico. Chaouki chiede ora, dalla tribuna dell’assemblea di Fronte democratico di un torrido week-end romano, la convocazione urgente di una riunione della Direzione Pd interamente dedicata al tema delle politiche sull’immigrazione.

Con quale scopo chiede una direzione ad hoc?

Vorrei capire quale linea condivisa adotta il partito democratico su questi temi. In primo luogo perché intravedo il rischio di rimanere succubi di chi, in minima parte legittimamente e in larga parte forzando, alimenta la paura e lo scontro all’interno della società italiana negando tutte le buone cose fatte in questi anni. In secondo luogo perché ancora non vedo una scelta chiara in direzione dell’inclusione dei nuovi cittadini e anche qui temo si ceda al panico delle ultime settimane. Bisogna capire che ci sono 5 milioni di cittadini che sono già parte integrante del sistema politico, economico e sociale italiano.

La richiesta è che sullo ius soli non si perda altro tempo, è così?
È l’obiettivo principale. Per rispondere alla paura si deve dare un segnale forte. Almeno un milione di giovani, che sono i nostri principali alleati contro chi fomenta odio e intolleranza, aspetta da troppo tempo il riconoscimento di un diritto fondamentale che riguarda la loro identità. Bisogna che siano sicuri che questa legislatura non si chiuderà senza l’approvazione di questa norma.

Crede che questi nuovi italiani saranno anche potenziali elettori di centrosinistra?
Non è assolutamente detto. Anzi, se si guarda ciò che è successo in altri paesi, la prima generazione che accede al voto tendenzialmente si rivolge verso i partiti conservatori. Ma è per un diritto fondamentale che l’Italia deve dar loro una risposta e per sentirsi così più forte attraverso una iniezione di energie positive in tutti i campi della vita pubblica.

La linea cattivista sull’accoglienza non è stata inaugurata da Minniti e dalla polemica sulle ong-pull factor?
Ci vuole riconoscenza verso le decine di migliaia di volontari che sono l’orgoglio dell’Italia, che la fanno grande, impegnandosi ogni giorno per la solidarietà e il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Se ci sono ong non corrette vanno punite, ma non si può criminalizzare un mondo del volontariato, di scuole, chiese e realtà associative nei territori, anche di nostri sindaci e amministratori locali che hanno lavorato e lavorano nel silenzio per tenere alta la bandiera dei diritti umani nel nostro Paese. Non è giusto farne il capro espiatorio dell’incapacità dell’Europa di gestire un problema complesso e strutturale come il fenomeno migratorio.

I governi europei a Tallinn e a Parigi hanno opposto un Niet a tutte le richieste di aiuto del governo Gentiloni. Renzi propone come contromisura di non pagare i contributi europei, è l’unica risposta?
È imbarazzante constatare l’ignavia dei governi europei e l’unica risposta possibile è mobilitare le opinioni pubbliche e anche i partiti vicini in tutta l’Europa per evitare che vinca un egoismo che danneggia tutti. L’Italia deve poi aumentare il suo protagonismo nell’accoglienza attraverso canali legali e sicuri di ingresso operando ove possibile una selezione dei richiedenti asilo già nei paesi di transito e di partenza. Penso alle fortunate esperienze con Tunisia e Marocco e agli accordi con il Niger e con il Sudan.
Scusi ma in Niger e in Sudan non risulta sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali. Così non si cementano regimi autocratici?
Lì porteremo l’Unhcr e le ong europee, che sorveglieranno i percorsi nei paesi terzi e monitoreranno la situazione dei diritti umani in stretto collegamento con l’Ue per canali sicuri e legali verso l’Europa.

Una gaffe di Renzi parlare la stessa lingua di Salvini? Non ci crede nessuno.Articoli di Carlo Lania e di Roberto Ciccarelli e Massimo Franchiil manifesto 8 luglio 2017


MIGRANTI, RENZI CAMBIA ROTTA:
«SERVE IL NUMERO CHIUSO»
di Carlo Lania
Pd. Ilsegretario del Pd: «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli. Aiutiamoli acasa loro»
Chi conosce bene Matteo Renzi assicura che il cambiamento dilinea definitivo sarebbe avvenuto durante lo scorso weekend quando l’ex premier– impegnato nell’ennesima revisione di Avanti, il suo ultimo libro – ha capitoche dall’Europa non sarebbe mai arrivato quell’aiuto chiesto più volte per ungestione comune dei migranti. Da qui la scelta di invertire rotta e – andandoanche oltre le iniziative assunte finora dal governo Gentiloni e in particolaredal ministro degli Interni Minniti – mettere ufficialmente la barra a destraalle politiche del Pd sull’immigrazione. A spingere il segretario anche laconvinzione che esitare ulteriormente avrebbe solo continuato a favorire Lega eMovimento 5 Stelle. «Dobbiamo dire che ci deve essere un numero chiuso diarrivi, non ci dobbiamo sentire in colpa se non possiamo accogliere tutti»,annuncia quindi ieri mattina l’ex premier a «Ore nove», la rassegna stampa chetiene quotidianamente su Facebook. Affermazione compensata solo in parte dallacontemporanea assicurazione che il Pd manterrà la promessa di far approvare loius soli, «una norma di civiltà».
La proposta di istituire un numero chiuso per i migranti non èl’unico indizio del nuovo corso renziano. Anzi, le anticipazioni che sempreieri appaiono su Democratica, la rivista on line del partito, confermano che lasvolta ormai è definitiva. Anche per la scelta delle parole utilizzate. Insiemea una difesa delle frontiere, c’è infatti l’invito «a uscire dalla logicabuonista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tuttiquelli che stanno peggio di noi». A completare il quadro c’è poi un piccologiallo, relativo a una frase del libro apparsa su Facebook e poi rimossa. Frasenella quale, parlando sempre dei migranti, si afferma che «non abbiamo ildovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale diaiutarli. E aiutarli davvero a casa loro». Parole che scatenano le reazioni el’ironia del web.
Rispetto a pochi mesi fa il cambio di rotta è notevole. Fino aquando a Palazzo Chigi c’era Renzi l’accoglienza dei migranti non è infatti maistata messa in discussione dal governo. Il che non significa che siano mancatigli scontri, anche duri, con l’Unione europea, restìa allora come oggi a farsicarico della sua parte di responsabilità. Valgano per tutti la richiesta di nonfar accedere ai fondi europei i paesi che non accolgono i migranti, ma anche lepolemiche sulla richiesta italiana di scorporare le spese per l’accoglienza dalparametro deficit/Pil. Renzi però ha sempre rivendicato con orgoglio isalvataggi effettuati in mare e, soprattutto, non ha mai messo in discussioneil fatto che i migranti venissero fatti sbarcare e accolti in Italia.
Che il vento stesse cambiando, era comunque intuibile. Dadicembre a oggi, da quando al Viminale siede Minniti, Renzi non ha infatti maicriticato il nuovo e più duro indirizzo impresso dal governo alle politichesull’immigrazione. «Certo, quando qualche giorno fa l’Austria ha minacciato dischierare i mezzi corazzati al Brennero, Matteo avrebbe voluto una presa diposizione più dura da parte del ministro degli Interni, ma ha condiviso laminaccia di chiudere i porti», confermano le persone vicine all’ex premier.
La richiesta del numero chiuso rappresenta quindi l’avvio deiuna strategia che, nella mente dell’ex premier, guarderebbe ormai piùall’elettorato di centro che a quello di sinistra. Quanto questo sia poirealizzabile dal punto di vista tecnico, è tutto da vedere. L’unica modo perporre un tetto agli ingressi riguarda infatti solo i migranti in possesso di unpermesso di soggiorno per motivi di lavoro, e si concretizza attraverso undecreto flussi varato dal governo. Misura che chiaramente non comprende le migliaiadi disperati che rischiano di affogare nel Mediterraneo per di raggiungerel’Europa. E che per di più sono tutte potenziali richiedenti asilo e in quantotali impossibili da rimpatriare, almeno non prima che una commissioneterritoriale abbia deciso sul loro destino. «La convenzione di Ginevra nonprevedi tetti al numero dei richiedenti asilo», conferma l’avvocato FulvioVassallo Paleologo, presidente dell’associazione Diritti e frontiere, chericorda anche come l’Italia non abbia firmato la lista dei Paesi Terzi sicuriche permetterebbe di rimpatriare una parte dei migranti irregolari. «Fatico –prosegue Paleologo – a trovare un brandello di fonte normativa che possagiustificare il numero chiuso. Queste affermazioni mi preoccupano come quellefatte dal presidente estone secondo il quale non conta la cornice legale ma lavolontà di fare le cose. Assistiamo a una prevaricazione dei governi rispettoai parlamenti e alle norme vigenti».
Da Tallinn ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando haprovato a ridimensionare le parole di Renzi: «Sono solo un modo, come laquestione dei porti, di dire all’Europa che non riusciamo a gestire da soli unfenomeno che durerà ancora molto nel tempo», ha spiegato il Guardasigilli.
«AIUTIAMOLI A CASA LORO». E LA LEGA DI SALVINI
FINÌ PER COPIARE ILPD DI RENZI
di Roberto Ciccarelli e Massimo Franchi
Clamoroso autogol mediaticodel Pd. Una «card» riprendeva una frase contenuta nel libro di Matteo Renzi suimigranti da aiutare «davvero a casa loro». Le inviperite reazioni social («Masiete come la Lega!», le più educate) hanno portato a cancellare il post. Ma lafrittata ormai era fatta. E lo stesso consulente social di Matteo Salvini (LucaMorisi) ne ha approfittato rilanciando con la versione firmata dalla Lega:«Scegli l’originale». Renzi poi ha cercato di metterci una pezza in un postsuccessivo intitolato «Lotta alla superficialità».
Con poco successo. Tanto cheperfino Enrico Mentana in un post su facebook intitolato “Il caso Mattei” hastigmatizzato questo comune sentire tra i due leader del Pd e Lega accomunatidallo stesso nome. Il tutto mentre su twitter il trend topic più in voga era#renzirispondi lanciato dal Movimento 5 Stelle per accusare Renzi di posizionitroppo morbide sull’immigrazione. A questo campionato di chi supera a destra ladestra ha partecipato anche Forza Italia: “Diffidate dalle imitazioni” è statoscritto sull’account twitter delpartito. Eora, cosa farà Renzi con il suo libro? Lo ritirerà dalle librerie, neldisperato tentativo di correggere il disastroso passaggio xenofobo, oppurelascerà le bozze al suo editore percorrendo la strada fotografata sullacopertina verso la leghizzazione completa del Partito Democratico? Con questauscita il segretario del Pd ha voluto celebrare la fine del rapporto della“sinistra” “con la logica buonista e terzomondista per cui noi abbiamo ildovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi”.

«Il rapporto annuale . Il presidente Boeri dice no alla chiusura delle frontiere: creerebbe un buco di 38 miliardi. Sì al salario minimo fissato dalla legge. Cambiare i contratti a termine, squilibrati a favore dell’impresa».

il manifesto, 5 luglio 2017 (c.m.c.)

«Chiudere le frontiere potrebbe costare un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Conti alla mano, il presidente dell’Inps Tito Boeri ieri – in occasione della relazione annuale sull’attività dell’istituto – ha fornito nuovi numeri su un tema che sta dividendo il Paese. E ha invitato a non alzare muri: «Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere – ha spiegato – Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale». «Gli immigrati – ha concluso sul punto Boeri – offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole».

Ma la relazione è stata l’occasione per il presidente Inps di dire la sua su molti altri temi, in alcuni casi appoggiando le politiche del governo – con un elogio del Jobs Act, contro l’articolo 18 – in altri attaccando di petto i sindacati, facendo intendere che i dati diffusi dalle stesse organizzazioni sulla loro rappresentanza siano gonfiati. Ancora: Boeri ha auspicato l’istituzione di un minimo salariale fissato dalla legge – sulla scorta dei nuovi voucher, che già fissano una paga oraria sganciata dai contratti – e ha chiesto di modificare i contratti a termine, oggi troppo sbilanciati a favore degli imprenditori e a danno dei lavoratori.

Prima dei nodi politici, uno sguardo ai dati del rapporto Inps: nel 2016 i pensionati con un reddito mensile sotto i mille euro sono stati 5,8 milioni, il 37,5% del totale dei pensionati italiani (15,5 milioni). Erano stati il 38% nel 2015: più alta la percentuale di donne sotto i mille euro – il 46,8% sul totale delle pensionate – a fronte del 27,1% degli uomini. Sono invece 1,06 milioni i pensionati sopra i 3 mila euro al mese e 1,68 milioni (il 10,8%) quelli che restano sotto i 500 euro al mese. Nel 2016 l’Inps ha chiuso con un bilancio di esercizio negativo per 6,046 miliardi, in miglioramento rispetto ai 16,2 miliardi di rosso del 2015. Il patrimonio netto si è ridotto alla cifra di 254 milioni di euro. Il contributo degli immigrati è evidente: tanto più se si considera che per il momento è più alto il valore dei contributi incassati rispetto a quello delle prestazioni erogate.

Il presidente Boeri è entrato quindi nel dibattito sull’adeguamento automatico dell’età, pronunciandosi sul possibile stop nel 2019: il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani – ha spiegato – perché i costi si scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». «Sarebbe meglio – ha quindi aggiunto – fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile». Elogio poi per la cancellazione dell’articolo 18: «Ha rimosso il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti». «I nostri studi – ha spiegato – dimostrano che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8 mila al mese di fine 2014 siamo passati alle 12 mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Ancora, Boeri nega che vi siano legami tra la rimozione dell’articolo 18 e il boom dei licenziamenti disciplinari: «Avrebbe dovuto caratterizzare essenzialmente le imprese con oltre 15 dipendenti, ma in realtà – ha spiegato – la crescita del tasso di licenziamento è stata più rilevante nelle piccole imprese, sostanzialmente estranee a tali riforme».

Altro nodo toccato, i contratti a termine: Boeri nota che dopo la fine dei ricchi incentivi a quelli a tutele crescenti (da inizio 2016) sono tornati ad aumentare, cannibalizzando le assunzioni stabili. Sarebbe perciò «opportuno riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore, potendo essere rinnovati ben cinque volte nell’arco di tre anni». OK al salario minimo fissato dalla legge: «Avrebbe il duplice vantaggio di un decentramento della contrattazione e di uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente numero di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione», e dalla paga fissata dai nuovi voucher (9 euro al netto dei contributi sociali) «il passo è breve». Bene il Rei, il nuovo reddito di inserimento, ma la platea è ancora troppo ristretta e le somme erogate sono ancora troppo basse: «Manca ancora in Italia uno strumento universalistico a sostegno della disoccupazione e dell’indigenza».

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