loader
menu
© 2024 Eddyburg

il manifesto

Oggi a Roma si svolgerà la manifestazione nazionale contro il razzismo promossa da Arci, A buon diritto, Medu, Amnesty, Acli. All’appello «Migrare non è reato», sottoscritto da decine di associazioni, laiche e cattoliche, personalità della cultura, tra i primi firmatari, insieme al vescovo emerito di Caserta Raffaele Nogaro, lo scrittore Andrea Camilleri, c’è anche don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera.

Don Luigi, nell’appello che ha firmato per la manifestazione di oggi, si rifiuta la differenza tra migranti economici e rifugiati. Eppure proprio questa distinzione è oggi alla base delle politiche europee sull’immigrazione.

Don Luigi Ciotti
Don Luigi Ciotti

«È una distinzione pretestuosa, infondata. È noto lo stretto rapporto fra le guerre e gli interessi economici. Tante guerre sono state dichiarate per il possesso del petrolio, sempre più se ne dichiareranno – se non cambiano le cose – per quello dell’acqua o di altri beni necessari alla vita. Per non parlare di come i conflitti hanno fatto da volano per la produzione e il commercio delle armi.

«Ma oggi c’è un fatto nuovo. Questo sistema economico è diventato esso stesso uno strumento di guerra contro il più incolpevole e indifeso dei popoli: i poveri. È tempo di riconoscere l’intrinseca violenza di un sistema che produce enormi distanze sociali, dividendo il mondo tra pochi ricchi sempre più ricchi e tanti poveri sempre più poveri. A quanto sembra, però, uno dei pochi che ha il coraggio di denunciarlo con forza è papa Francesco, che non ha esitato a definire «di rapina» questa economia, e «ingiusto alla radice» il sistema che la include. Sono parole su cui i potenti del mondo dovrebbero riflettere, alla luce delle quali la distinzione fra rifugiati e migranti economici appare per quello che è: un esercizio retorico e ipocrita».

Cosa pensa degli accordi siglati dall’Italia con la Libia per fermare i migranti?
«Che ricalcano la logica di quelli siglati dall’Unione Europea con la Turchia per fermare l’immigrazione dei profughi siriani. Anche in questo caso un misto di cinismo e di ipocrisia, perché è noto a tutti che in quei Paesi il rispetto dei diritti umani non esiste, e che la repressione e la violenza sono strumenti usuali per reprimere ogni voce di dissenso e di libertà. Questi accordi sono allora una vergogna politica e una macchia d’infamia per l’Europa, la cui civiltà è prosperata anche grazie alla tutela delle minoranze e al rapporto con le altre culture».

In estate abbiamo assistito a una campagna di criminalizzazione verso chi si adopera a favore dei migranti. Penso a quanto accaduto con le Ong impegnate nelle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, ma non solo. L’intolleranza non colpisce più solo che è «diverso», ma anche chi lo aiuta. Perché secondo lei?

«Duole dirlo: per un basso calcolo politico. Si mira a guadagnare consenso dipingendo l’immigrato come un usurpatore e un invasore, e dunque criminalizzando chi si impegna per accoglierlo, dargli lavoro e dignità e, prima ancora, impedire che muoia in mano a scafisti e bande criminali. Questo non esclude di stilare protocolli per meglio coordinare le operazioni di soccorso, ma nel rispetto dei rispettivi ruoli e senza dimenticare che la stragrande maggioranza delle Ong che operano in mare o nei contesti urbani, merita riconoscenza, anche perché colma i vuoti della politica, che sull’immigrazione ha spesso voltato la testa o agito a seconda di come tirava il vento. Non si può spiegare altrimenti perché l’operazione Mare Nostrum, varata dopo i 366 morti di Lampedusa dell’ottobre 2013, dimostratasi efficace sia in termini di vite salvate che di migliore gestione del fenomeno, sia stata accantonata. I dati dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati parlano di 15mila morti in mare nell’ultimo decennio: un olocausto. È questo a dover scuotere le coscienze, non l’impegno delle Ong».

A proposito di Ong. Recenti prese di posizione dei vescovi italiani farebbero pensare a un cambiamento della posizione della Chiesa verso il fenomeno migranti. È davvero così?

«Sul tema ci possono essere diverse sfumature, ma resta inderogabile, per una Chiesa fedele al Vangelo, il principio dell’accoglienza e della cura delle persone, a partire da quelle fragili, escluse, perseguitate. E poi a garantire sulla posizione della Chiesa è la voce di papa Francesco, che nella Evangelii Gaudium ha scritto parole che non lasciano spazio a equivoci: «I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti».

Cosa direbbe a una persona per convincerla a manifestare?

«Che i migranti sono per tre ragioni la nostra speranza. La prima umana: la loro presenza è un invito a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi e dalle nostre paure. La seconda culturale: la cultura vive finché non si chiude in se stessa, nei suoi pregiudizi e nei suoi idoli. La terza economica: la logica del mercato ci ha messo in ginocchio, solo quella del bene comune ci permetterà di rialzarci. La speranza oggi ha il volto degli esclusi. Sono loro i messaggeri di un mondo di pace, dignità e benessere.

il manifesto,

Sarà una giornata per dire no al razzismo, ma anche agli accordi che Italia e Europa stanno siglando con alcuni Paesi africani per imprigionare i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. E contro le leggi Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza che non solo non fanno alcuna distinzione tra chi delinque e chi invece arriva nel nostro Paese in cerca di lavoro, ma aboliscono anche il secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo.

Sarà una giornata come a Roma non si vedono da anni. L’appuntamento è per sabato prossimo e sono attese migliaia di persone da tutta Italia. Solo l’Arci – tra le sigle che hanno promosso l’iniziativa insieme a Libera, A Buon diritto, Amnesty International Medu e altre – ha organizzato 22 pullman, altri sette sono attesi dalla Campania e poi da Lecce, Bari, Milano, Genova, Bologna. «Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini per costruire il futuro di questo Paese» si legge in una lettera-appello firmata da monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Enrico Ianniello, Moni Ovadia. Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina e Carlo Petrini. Per chi deciderà di aderire alle 14,30 da piazza della Repubblica partirà un corteo che attraverserà via Cavour e via Merulana per concludersi in piazza Vittorio.«Un mondo laico e religioso vasto – spiega una nota dell’Arci – che da sempre è schierato in difesa del diritto di migrare e che agisce in prima persona, anche disobbedendo a decisioni italiane ed europee che sono in aperto contrasto tanto con la nostra Costituzione che con i fondamentali principi internazionali».

Da anni assistiamo a un escalation di comportamenti sempre più aggressivi nei confronti di migranti, rom e qualunque forma di diversità. Dalle ruspe leghiste per spianare i campi rom si è arrivati in poco tempo a siglare accordi con milizie libiche alle quali è stato affidato il compito di impedire ai barconi carichi di disperati di prendere il mare. Il modo in cui questo avviene è, come raccontano innumerovoli testimonianze, tenendo prigionieri uomini, donne e bambini in centri all’interno dei quali le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Da una settimana l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sta lavorando a Sabrata, in passato uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia, per assistere circa 14 mila migranti che le milizie libiche tenevano prigionieri all’interno di hangar, magazzini, case e fattorie, riuscendo in questo modo a far diminuire notevolmente il numero di sbarchi nel nostro Paese. La maggior parte dei migranti tratti in salvo sono traumatizzati e agli operatori dell’Unhcr hanno raccontato di aver subito violenze sessuali, di essere stati costretti a lavori forzati o a prostituirsi. «La strada degli accordi con i regimi dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo – scrivono tra gli altri monsignor Nogaro e Andrea Camilleri – non solo implica aiuti economici e governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu».

Una strada che l’Europa, Italia in testa, sembra decisa a percorrere sempre più e la recenti successi elettorali ottenuti in Germania e Austria da forze xenofobe e populiste non faranno altro che rafforzare ulteriormente questa scelta. Utilizzando anche l’ipocrita distinzione tra rifugiati e migranti economici, «etichette – proseguono i firmatari della lettera-appello – con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati, come i cosiddetti migranti economici, tentano tutti di sfuggire alla morte».

Al corteo parteciperanno anche numerose realtà e centri sociali dietro uno striscione che ricorderà come «Nessuna persona è illegale». Tra gli altri ci saranno i romani di Baobab, Action, Esc, Communia, ma è è prevista anche la partecipazione di realtà milanesi, bolognesi e da Genova. «Vogliamo essere in piazza – è scritto nell’appello dei centri sociali – perché riteniamo urgente rispondere al clima di odio razziale e di guerra ai poveri che sta imperversando nelle nostre città e che viene alimentato ad arte dal razzismo istituzionale e dallo sciacallaggio d formazioni esplicitamente neofasciste. Vogliamo essere in piazza insieme agli uomini e alle donne migranti che continuano a mostraci grande coraggio e determinazione nel disegnare le proprie rotte e costruire il proprio futuro».

L'appello è pubblicato qui, su eddyburg

l'Avvenire

Il rappresentante Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli racconta il caos di Sabratha. «Compiute 730 visite nei centri ufficiali di detenzione e ottenuta la libertà per 1.400»
«I violenti scontri tra milizie della zona di Sabratha hanno provocato prima di tutto un altissimo numero di sfollati interni, cittadini libici che stanno affrontando nuovamente situazioni di precarietà e disagio. E poi sono state scoperte diverse prigioni clandestine dove erano rinchiusi migliaia di rifugiati e migranti, almeno 10 mila persone per stare a una stima prudenziale, che si trovavano in attesa di poter attraversare il Mediterraneo e che oggi stiamo assistendo».

Roberto Mignone è il rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Risponde, considerato il ruolo e il contesto, calibrando il tono e le parole. L’agenzia guidata da Filippo Grandi ha scelto per il non facile ritorno a Tripoli un funzionario con una lunga esperienza negli interventi di risposta rapida in situazioni d’emergenza. Solo nel 2016, da Principal emergency response coordinator dell’Acnur, Mignone è intervenuto durante emergenze e catastrofi in Burundi, Senegal, Ecuador, Honduras, Guatemala, El Salvador, Panama, Venezuela, Sud Sudan e Iraq.

Qual è la situazione a Sabratha?
«Da una settimana lo staff dell’Agenzia Onu per i Rifugiati è al lavoro per far fronte agli urgenti bisogni umanitari nella città e nelle zone limitrofe. Non facciamo differenze, perciò le Nazioni Unite stanno assistendo tutte le persone che necessitano di aiuti, e tra queste vi sono decine di migliaia di libici sfollati interni, anch’essi vittime troppe volte dimenticate di questa crisi. Al termine degli scontri, 3.000 famiglie libiche sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 10.000 tra rifugiati e migranti sono in difficoltà e hanno bisogno urgente di assistenza. Ci sono 2.000 famiglie che hanno fatto ritorno nelle loro abitazioni, ma necessitano comunque di assistenza. Più di 500 sono le case danneggiate o distrutte dai colpi di mortaio e dai bombardamenti. Le autorità locali parlano anche di un certo numero di scuole danneggiate e stiamo lavorando per riaprirle».

Migranti e rifugiati si sono trovati nel mezzo delle periodiche battaglie. Con quale risultato?
«I combattimenti hanno permesso di scoprire un imprecisato numero di prigioni clandestine, sotto il diretto controllo delle milizie e dei trafficanti di uomini. E da queste migliaia di persone sono scappate. Migranti e rifugiati sono stati trasferiti nell’hangar che si trova nella zona di Dahman, dove questo sito sta iniziando a essere utilizzato come punto di raccolta e ospita al momento 4.500 persone».

Quali sono le vostre priorità in Libia?
«Innanzitutto lavorare sull’identificazione dei casi più vulnerabili, persone che rischiano di essere trasferite nei centri di detenzione. L’Acnur ha già fatto presente alle autorità la necessità che i rifugiati al momento detenuti vengano rilasciati immediatamente e trasferiti in un posto sicuro dove possiamo fornire loro assistenza. Intanto lavoriamo a stretto contatto con le autorità di Sabratha, Sorman e Zuara, per individuare e avviare progetti di risposta rapida, compresa la riapertura delle scuole per gli sfollati interni».

Riuscite ad avere libertà di movimento all’interno del Paese?
«A giugno un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato a colpi di mitra e bazooka e solo per un caso non è stata una strage di funzionari internazionali. Nonostante questo, il personale internazionale dell’Acnur viaggia ogni settimana in Libia per missioni di rotazione. Io stesso sto aspettando dalle Nazioni Unite (che valutano i rischi per la sicurezza e autorizzano o vietano gli spostamenti, ndr) il via libera per raggiungere Sabratha».

L’Acnur riesce ad accedere nei centri di raccolta dei migranti? Che tipo di lavoro riuscite a compiere?
«Ad oggi abbiamo compiuto 730 visite nei centri di detenzione ufficiale, dove interveniamo per offrire cure mediche, assistenza materiale, e per identificare i casi su cui possiamo intervenire per ottenerne il rilascio (1.400 le persone liberate nel 2016, ndr) e la concessione dello status di rifugiato, ma si tratta di procedure complicate perché bisogna sempre concordare tutto in anticipo con le autorità libiche».

Cosa chiedete in particolare alle autorità di Tripoli?
«Fino ad ora abbiamo registrato 43.133 persone come rifugiati o richiedenti asilo. Di questi l’85% era in Libia da tempo. Ma non dimentichiamo che ci troviamo ad agire in un contesto precario. La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, e Tripoli non ha neanche un memorandum con l’Acnur. Quello che ci permettono di fare è registrare e identificare i migranti, su cui discutiamo caso per caso per riconoscere la protezione internazionale».

Cosa dovrebbero fare la comunità internazionale e Paesi come l’Italia, che sono in stretto contatto con il governo riconosciuto, per facilitare il vostro lavoro?
«Un esempio: stiamo cercando di negoziare con le autorità anche sul numero di nazionalità meritevoli di protezione, in modo da poterle ampliare poiché la Libia ammette solo un ristretto gruppo di provenienze. Ma qui abbiamo casi di profughi da Yemen, Sud Sudan, Congo. Ci sono poi anche profughi siriani, arrivati quando nel loro Paese era scoppiata la guerra. Per il momento Tripoli non ne riconosce lo status, ma confidiamo di ottenere risultati in tempi brevi. E crediamo che queste istanze siano ben note a quanti nel mondo si relazionano e possono insistere con Tripoli».

il Fatto Quotidiano,

Non ci sta Mimmo Lucano a passare come uno dei tanti politici malandrini e truffatori che speculano sui bisogni dei rifugiati. Riace è il paese dell’accoglienza e lui non è un Buzzi qualsiasi. Il suo borgo, che dall’alto di colline bianche di calcare guarda allo Jonio, non è Mafia Capitale. Venerdì in centinaia hanno affollato le piazze del suo paese per portargli solidarietà. “Non posso accettare che per colpa mia si mortifichi un ideale”, ha detto con le lacrime agli occhi.
Le accuse che rischiano di stritolarlo sono pesanti, “truffa aggravata allo Stato e alla Ue, concussione, abuso d’ufficio”. La morte del modello Riace. Quello che ha portato la rivista Fortune ad inserire Lucano tra le cinquanta personalità più influenti del mondo, e che fece dire a Wim Wenders che “la vera utopia non è il crollo del Muro, ma quello che sono riusciti a fare a Riace”. E allora Mimmo ’o curdu (come lo chiamano) vuole essere interrogato e subito. Martedì sarà davanti ai pm di Locri. Ma prima vuole che si passi al setaccio la sua vita. Proprietà, conti correnti, beni della sua ex moglie e dei suoi tre figli e quelli del padre, maestro elementare in pensione. Noi lo abbiamo fatto. Lucano ha una piccola casa al borgo, una Giulietta comprata a rate, e due conti alle poste, con un unico versamento fisso, poco più di mille euro, la sua indennità da sindaco. Solo a giugno di quest’anno una impennata, un bonifico di 10mila euro accreditato dalla associazione umanitaria tedesca Friends of Dresden Deutschland.
Erano il frutto di un premio, soldi suoi, quindi, che in buona parte (9500 euro prelevati ad agosto) ha destinato “ad attività di accoglienza”. Un altro premio in denaro, scrive nella lettera inviata al procuratore di Locri, ha voluto che fosse destinato ai terremotati di Amatrice. Ma la battaglia di Lucano è difficile, perché il conflitto che ha innescato è di livello altissimo. È lo scontro tra legalità formale e giustizia sostanziale, emergenza e regole burocratiche, umanità e protocolli, freddi burocrati e uomini in carne e ossa.
Leggere le varie relazioni fatte, nell’ordine dal Servizio centrale di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati e dalla Prefettura di Reggio Calabria, è fare un viaggio in un labirinto di articoli di legge, commi, capitolati d’appalto. Un insieme di regole formali, che così come sono non funzionano. Se si vuole assicurare una vita dignitosa e l’integrazione dei profughi, vanno cambiate radicalmente, sostiene Lucano. Destinato sempre a scontrarsi con un “tuttavia”, avverbio onnipresente nelle conclusioni degli ispettori. Relazione del dicembre 2016 della prefettura di Reggio, frutto di una ispezione richiesta dallo stesso sindaco Lucano dopo quella del Servizio centrale di protezione del 20-21 luglio. Premessa.
“Il modello Riace assicura la necessaria accoglienza e assistenza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità degli stranieri”. Rapporti con gli abitanti: “Pacifica convivenza. Clima di armonizzazione e serena integrazione”. Lavoro degli immigrati e laboratori artigiani: “Virtuosa riqualificazione ambientale grazie a progetti sostenibili”. Tutto bene? No, perché a questo punto irrompe il mortale “Tuttavia”… “Tuttavia gli aspetti positivi non giustificano di per sé previsioni derogatorie alla normativa vigente”.
Gli ispettori venuti da Reggio, e che vogliono smontare “l’idilliaco alone” che aleggia su Riace, contestano le concessioni con gli enti esistenti (le coop sorte in paese), le strutture di ricezione (le case date ai migranti, il cui costo mensile, 300 euro, è giudicato alto), l’assunzione dei 70 operatori, la carenza di personale specializzato. Un numero consistente di profughi viene ancora ospitato nonostante la scadenza dei termini previsti dalla legge.
Poi la bomba: a Riace si batte moneta, come fosse uno Stato autonomo. Si tratta di buoni di carta che vengono dati agli ospiti per fare la spesa. Sono parte dei 35 euro destinati per ogni migrante e hanno impresso l’immagine del Che, di Berlinguer e Pasolini. I pochi commercianti di Riace li accettano in attesa di essere pagati con i soldi veri, quelli del ministero che arrivano sempre con mesi di ritardo. Quei “buoni”, si legge in un’altra relazione del Servizio centrale sono “succedanei della moneta”, acquistate i ticket, oppure ricorrete a prestiti bancari in attesa dei soldi del Viminale.
Risposta di Lucano: “Non voglio sottrarre risorse ai progetti per pagare interessi bancari”. Le controdeduzioni di Mimmo Lucano alle relazioni, sono durissime. Le ispezioni sono state “eseguite in modo approssimativo e parziale”, non sono stati sentiti gli immigrati, né le gente di Riace. “Avete controllato solo carte e documenti. Vi siete limitati alla burocrazia”. Sugli affidamenti diretti. Ad ogni sbarco, “ministero e prefettura mi chiamavano per ospitare altre persone, se c’è stata mancanza di iter trasparenti, questa può essere una responsabilità condivisa con gli organi superiori”.
Si sono utilizzate le cooperative del posto “perché avevamo bisogno di coinvolgere la popolazione locale. Non vogliamo aprire le porte alle holding dell’accoglienza che controllano il mercato, spesso illegale, della gestione di mega centri e di Cara su scala nazionale”. Noi non abbiamo “costruito ghetti”, ma “accoglienza diffusa”, da qui la ristrutturazione e l’uso delle case abbandonate del borgo. Infine la risposta sugli immigrati trattenuti oltre i tempi previsti dalla normativa. “Per evitare le critiche degli ispettori dovremmo abbandonarli?”, scrive Lucano. “ Se dopo sei mesi ci ritroviamo in strada decine di immigrati, qual è l’utilità del progetto e della relativa spesa? Questo epilogo tutela l’ordine pubblico e la legalità, oppure favorisce criminalità e disordine?”.
Gli esseri umani “non hanno scadenza”, dice Mimmo ’o curdu, “e l’accoglienza non è un valore ad orologeria”. Burocrazia e realtà. A Riace 150 rifugiati sono usciti dai progetti di assistenza e vivono stabilmente in paese, “definitivamente inseriti nel contesto sociale ed economico”. È l’utopia della normalità.

il manifesto

Dai bonus alle permanenze oltre limite, il modello di accoglienza funziona ma cozza con la burocrazia, da cui l'inchiesta della procura. Ma lui dice: sono innamorato dell'onestà e della giustizia, non ho niente da nascondereono arrivati in tanti, da tutta la Calabria e oltre, per sostenere il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. La procura di Locri lo indaga per «abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza».

Lui ha lo sguardo indignato ma sicuro delle proprie ragioni. E si commuove davanti all’affetto di tanti compagni: «Ciò che dirò in procura martedì prossimo, lo dico adesso a voi. Ribadisco la piena fiducia nel lavoro dei magistrati». Poi racconta l’inizio di quello che oggi è definito il modello di accoglienza Riace.

Cominciò tutto nelle famiglie riacesi che ospitavano i profughi, in modo spontaneo. «Io sono partito una ventina d’anni fa, con i miei ideali, quando ho conosciuto Dino Frisullo e la causa curda», spiega Lucano ripercorrendo le tappe che hanno portato all’apertura del fascicolo da parte della procura.

«C’è stata – prosegue – un’attività di monitoraggio nel luglio 2016 che ha messo in evidenza delle irregolarità burocratiche. Dopo pochi giorni abbiamo ricevuto un’altra visita ispettiva da parte dei funzionari della prefettura di Reggio Calabria. E nonostante noi lo abbiamo richiesto diverse volte, non ci è stato mai fornito l’esito di questa ispezione».

Eppure finì sul tavolo di un cronista de Il Giornale che – aggiunge il sindaco – «la usò per denigrare il nostro operato. Persino Forza Nuova e Fiamma Tricolore misero mano a quella relazione, quando vennero a manifestare qui contro di noi».

Il rapporto con la prefettura rimane in effetti ancora pieno di ombre. Non potrà mai recepire la dimensione umana dell’accoglienza. «Quella dimensione che non può scadere dopo 6 mesi, come prevederebbe la normativa», precisa il primo cittadino con riferimento a una delle contestazioni che gli vengono mosse: l’utilizzo dei fondi a sostegno di migranti non più ospitabili perché i progetti sancirebbero il loro allontanamento alla scadenza dei 6 mesi. Eppure sono ben 80 le persone che lavorano nei progetti, più altre 14 dopo la creazione di un asilo nido multietnico.

«La nostra è un’economia diffusa in cui è difficile per le mafie avere un controllo perché è coinvolto tutto il territorio. E a proposito, mi piacerebbe vedere le carte relative ai controlli sulle strutture di Isola Capo Rizzuto e Crotone», attacca Lucano, precisando che i suoi familiari “sono stati costretti ad andare via per cercare lavoro altrove, mentre sul mio conto corrente io possiedo solo 500 euro».

Per quanto riguarda la questione dei bonus, rivendica la correttezza del suo operato: «Serviva una moneta locale per l’accesso ai servizi sul territorio locale». Gli sembrava infatti assurdo che profughi sfuggiti alla guerra dovessero pure subire i ritardi della burocrazia italiana nell’erogazione dei fondi.

«Sono più innamorato della giustizia che della legalità», chiosa il primo cittadino, denunciando i limiti di una legalità strabica, che spesso autorizza delle grandi ingiustizie sociali ma non riconosce diritti elementari.

«Che cosa potrei raccontare ai miei figli ed a tanti compagni venuti qui da altre parti del mondo, se commettessi atti disonesti? Noi non siamo legati ad un partito, ma ad ideali forti».

Scattano in piedi tutti i presenti. Spontaneo affiora un applauso che sembra non finire mai. Dopo Lucano, prendono la parola in tanti.

Omar, arrivato qui dal Ciad nel 2012, spiega il meccanismo perverso che porta molte amministrazioni dei progetti Sprar a chiedere prestiti alle banche quando non riescono a coprire le spese per l’accoglienza: «Sono costrette a contrarre prestiti per anticipare i fondi che vengono erogati con molto ritardo. Spesso sono a tassi agevolati, ma non è giusto usare i fondi pubblici per pagare le banche. Con i buoni, noi permettiamo ai profughi di fare acquisti, aiutando anche le piccole realtà locali a restare in vita, e quando i soldi arrivano, ripaghiamo i debiti».

Tramonta il sole alle spalle di Riace. Ma tutto è ancora più chiaro, adesso, dopo le parole del popolo dell’accoglienza.

il Fatto Quotidiano,

Le politiche sull’immigrazione del governo italiano e gli accordi con la Libia nel mirino del Consiglio d’Europa. È il commissario per i Diritti umani Nils Muiznieks a chiedere spiegazioni al ministro dell’Interno Marco Minniti. Il commissario giudica in modo positivo l’impegno dell’Italia nel salvare vite umane nel Mediterraneo e le politiche di accoglienza, ma lo Stato, sottolinea Muiznieks, ha il dovere di garantire i diritti umani.
“La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è chiara su questo dovere. Alla luce dei recenti rapporti sulla situazione dei diritti umani dei migranti in Libia, consegnandoli alle autorità libiche o ad altri gruppi li si espone a un rischio reale di tortura o trattamenti inumani o degradanti. Per questo motivo chiedo al governo italiano di chiarire il tipo di operazioni di sostegno che pensa di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali e quali salvaguardie l’Italia abbia messo in atto per garantire che le persone intercettate o soccorse da navi italiane in acque libiche non si trovino in situazioni contrarie all’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

Fin qui le richieste contenute in una lettera del 28 settembre scorso, evidentemente scaturita da notizie e reportage pubblicati dai più importanti giornali internazionali. Ieri la risposta del ministro Minniti. “Mai navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti tratti in salvo. L’attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, equipaggiamento e supporto logistico della Guardia costiera libica, non ad attività di respingimento”, chiarisce il titolare del Viminale. “Ci tengo a sottolineare – aggiunge inoltre Minniti – che la più recente strategia italiana, condivisa e apprezzata a livello europeo, è imperniata anche, ma non solo, sul sostegno alle autorità libiche deputate al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, per favorire una gestione degli stessi e contribuire, obiettivamente, a ridurre il rischio di incidenti e naufragi, rischio che potrà essere azzerato solo con l’interruzione delle partenze”. Ed è proprio questo il nodo: fino a che punto reggono gli accordi ufficiali con le fragili autorità libiche, e quelli “ufficiosi” (ammessi pubblicamente dagli stessi capi delle bande di trafficanti, ma sempre smentiti dalla Farnesina) con le più potenti milizie, soprattutto quelle che si finanziano con il traffico di esseri umani e il contrabbandi di greggio?

A giudicare dalle ultime notizie arrivate dalla Libia sembra che la situazione si stia già sfaldando e che presto assisteremo a una ripresa degli sbarchi. Secondo le notizie riportate da Saleh Graisia, portavoce della “Sala operativa per la lotta all’Isis”, nei giorni scorsi migliaia di migranti sono rimasti intrappolati a Sabrata, a 70 chilometri da Tripoli, dopo essersi ritrovati in mezzo agli scontri tra opposte milizie. Centinaia di morti e feriti, e migliaia di profughi rinchiusi nei centri di raccolta della milizia di Al Ammu, una delle principali organizzazioni del traffico di esseri umani. Nei suoi magazzini, rivelano fonti governative libiche, sarebbero stati ammassati migliaia di profughi pronti a partire. Almeno 3.000 sarebbero stati rintracciati dall’ente che contrasta l’immigrazione clandestina e trasferiti nei campi di detenzione ufficiali. In questi centri, dove ancora scarso è l’intervento e il controllo dell’Onu, sono garantiti i diritti umani?

Il rispetto di questi standard, è la risposta di Minniti alla lettera di Nils Muiznieks “è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche, proprio per favorire forme operative di cooperazione sempre più strutturate con le agenzie delle Nazioni Unite”.

postilla

Da ciò che si comprende, la questione del rispetto dei diritti umani «è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche», ma i fuggitivi sono sempre intrappolati tra il deserto e i campi di concentramento dei trafficanti di schiavi. E Minniti è tranquillo.

il Fatto quotidiano

Quando qualcuno urla “morte agli arabi” cosa intende? Chi deve ucciderli esattamente? Se tocca a lui, che fa, suona i campanelli del suo condominio e se chi apre è un arabo lo sgozza?

Insomma, come si cura un fanatico? Partire dall’inseguimento di un gruppo di esaltati armati sulle montagne dell’Afghanistan, nel deserto dell’Iraq o nelle città della Siria è una cosa. Combattere contro il fanatismo in sé è tutt’altra.

L’attacco alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, così come altre decine di attentati in centri urbani e luoghi affollati in diverse parti del mondo, non è il frutto della rabbia che i poveri nutrono contro i ricchi. Questa guerra si gioca tra i fanatici, convinti che il loro fine giustifichi qualunque mezzo, e tutti gli altri, per i quali la vita è un fine, non un mezzo. È una battaglia fra chi ritiene che, a prescindere da quello che intenda per “giusto”, il giusto sia più importante della vita stessa, e gli altri, secondo i quali la vita viene prima di quasi tutti gli altri valori.

Molti dimenticano che l’islam estremista non ha affatto il monopolio del fanatismo violento. Il fanatismo è molto più antico dell’islam. Più antico del cristianesimo e dell’ebraismo. Chi tira bombe contro gli studi medici in cui si praticano aborti, chi uccide immigrati in Europa, chi assassina donne e bambini ebrei in Israele, chi brucia una casa con dentro un’intera famiglia palestinese nei Territori occupati da Israele, chi profana sinagoghe, chiese, moschee e cimiteri, tutti costoro sono diversi da al Qaeda e dall’Isis per quello che fanno e per la misura del loro operato, ma non nella natura dei loro misfatti. Oggi si parla di “crimini d’odio”, ma forse sarebbe meglio dire “crimini di fanatismo”.

Un importante scrittore israeliano, Sami Michael, raccontò un giorno di un lungo viaggio in macchina insieme a un autista. A un certo punto questi cominciò a spiegargli quanto importante, e pure urgente, fosse per noi ebrei “uccidere tutti gli arabi!”. Sami Michael ascoltò educatamente finché l’autista non ebbe finito la sua concione e, invece di scandalizzarsi, gli fece una domanda ingenua: “E chi, secondo lei, dovrebbe uccidere tutti gli arabi?”. “Noi! Gli ebrei! Bisogna farlo! O noi o loro! Non vede cosa ci fanno continuamente?” “Ma chi di preciso dovrebbe uccidere tutti gli arabi? L’esercito? La polizia? O i pompieri? O i medici in camice bianco, con delle iniezioni?”. L’autista si grattò il capo, tacque, rifletté sulla domanda e alla fine rispose: “Bisogna dividerci il compito fra noi. Ogni maschio ebreo dovrà uccidere alcuni arabi”.

Sami Michael non si arrese: “Va bene. Diciamo che lei, in quanto cittadino di Haifa, ha in carica un condominio della sua città. Passa di porta in porta, suona il campanello, domanda educatamente agli inquilini: ‘Scusi, siete per caso arabi?’. Se rispondono di sì lei 31 spara e li uccide. Finito di uccidere tutti gli arabi del condominio che le è stato assegnato, scende e se ne va a casa e allora, prima di allontanarsi, sente improvvisamente da un piano alto il pianto di un neonato. Che fa? Torna indietro? Sale su per le scale e spara al neonato? Sì o no?”. Lungo intervallo di silenzio. L’autista meditò. Alla fine rispose al suo passeggero: “Senta, signore, lei è una persona veramente crudele!”. Questa storia fa uscire allo scoperto qualcosa del guazzabuglio che si trova talora nell’animo del fanatico: un insieme di ottusità, sentimentalismo e scarsa fantasia. Grazie a quel neonato Sami Michael ha costretto il fanatico seduto al volante a mettere in funzione la propria fantasia, facendo con ciò vibrare le sue corde emotive. L’autista, che amava i bambini, è rimasto interdetto, si è offeso, si è riempito di rabbia per quel passeggero che lo ha costretto a materializzare in una terribile immagine l’astratto slogan “Morte agli arabi!”. Ed ecco che proprio nella rabbia di quell’autista è forse riposto un barlume di speranza, per quanto timida e parziale: quando il fanatico si trova nella condizione di dare concretezza allo slogan, di configurare i tratti dell’orrore e di mettersi nei panni dell’assassino di un neonato, forse a volte – solo a volte – si risveglia in lui un certo disagio. Una lieve esitazione. Compare tutt’a un tratto una crepa nell’ottusa muraglia del fanatismo.

Certo, non si tratta di una medicina miracolosa. Ciononostante, forse ogni tanto l’attivarsi dell’immaginazione, la costrizione a osservare molto più da vicino la sofferenza delle vittime, forse tutto ciò ogni tanto può fare da contraltare all’astratta crudeltà di formule quali “Morte agli arabi!” o “Morte agli ebrei!” o “Morte ai fanatici!”. Uccidere tutti gli arabi è molto più facile che uccidere un solo neonato arabo.

La storia di Sami Michael, che riuscì a mettere in imbarazzo o a confondere per un attimo l’autista che invocava l’uccisione di tutti gli arabi, dimostra che al fanatico non piace immaginare i dettagli del gesto al quale si vota con ardore. Gli piace lo slogan, il proclama, sempre che non si trovi costretto a tradurlo in urla, suppliche, gemiti di agonia, pozze di sangue, cervelli spappolati sul marciapiede. È vero che il mondo è pieno di sadici ma gran parte dei fanatici non è fanatica per sadismo, anzi, lo è per ideali astratti, desiderio di redenzione e riscatto universale in nome dei quali “ci si deve liberare dei malvagi”. Chissà se ad alcuni fanatici, nel momento in cui traducessero lo slogan “Dobbiamo annientare tutti i malvagi” in una descrizione delle sofferenze che ciò necessariamente implica – sofferenze terribili e strazianti – tremerebbe la mano… Almeno a quelli che non sono anche dei sadici patologici…
Immaginare il mondo interiore, le idee e anche le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro. Farlo anche – anzi: soprattutto – mentre dentro di noi monta quel miscuglio febbrile di rabbia, umiliazione, obbrobrio, tracotanza e incrollabile convinzione di aver subìto un torto, di essere dalla parte del giusto. Forse anche chiederci di tanto in tanto, “E se io fossi stato lei? O lui? O loro?”, mettendosi per un attimo nei panni del prossimo e persino nella sua pelle non per attraversare il fiume o “rinascere”, ma soltanto per capire e anche sentire quel che c’è laggiù: cosa ’è oltre il fiume? Che cosa hanno in testa? Come si sentono laggiù? E che aspetto abbiamo noi, da laggiù?

Questa curiosità non ci conduce necessariamente a un relativismo etico onnicomprensivo e neanche alla negazione di sé in nome dell’affermazione dell’altro. Ci conduce, ogni tanto, a una scoperta sensazionale, la scoperta che esistono molti fiumi, che da ogni sponda di quei fiumi si vede un paesaggio diverso, affascinante e sorprendente; che sono affascinanti anche se non si attagliano a noi, sorprendenti anche se non ci conquistano. Forse la curiosità ha davvero un potenziale di apertura, di tolleranza.

il manifest

IL SINDACO DI RIACE INDAGATO:
«SONO POVERO E SERENO,
FORSE DO FASTIDIO»

intervista di Silvio Messinetti

Intervista a Mimmo Lucano. Il primo cittadino: Non posso farci nulla se il modello di accoglienza che stiamo sperimentando è visto come un’anomalia burocratica. Funziona. Ben vengano i controlli, io non ho conti segreti
Sindaco Lucano, dalle contestazioni avanzate dagli inquirenti pare che lei in concorso con altri abbia architettato «la grande truffa dei migranti». Come si sente? Sta vivendo un incubo?

«L’inchiesta parte da una vecchia ispezione prefettizia venuta a verificare presunte anomalie burocratiche nella gestione dell’accoglienza. Sono sconcertato e senza parole, ma per certi versi mi viene quasi da ridere perché non ho nessun bene nascosto. Non possiedo niente, non ho nessun conto segreto, percepisco una modesta indennità di 1.050 euro, non ho mai praticato familismo e nepotismo, la mia famiglia vive fuori da Riace, a mille km da qui, in Toscana. Non ho mai approfittato della mia posizione. Ma una cosa voglio ribadirla proprio al . Io sono un comunista nel senso ideale più ampio. Se un cittadino viene a Riace per me ha gli stessi miei diritti. Per questo oggi Riace non è più solo un comune calabrese. È un comune del mondo. E io accolgo tutti. Io vivo di ideali. Se questa la chiamano “anomalia burocratica” io non posso farci niente. Allora ben vengano i controlli su di me e che siano i più approfonditi possibili».

In effetti, dopo questi primi controlli lei stesso ha sollecitato ulteriori verifiche, poi effettuate. Adesso questo avviso di garanzia inaspettato. Lei si sente perseguitato perché scomodo?

«Non voglio fare del vittimismo. Ma è chiaro che vogliono colpire un modo diverso, e in controtendenza, di approccio ai flussi migratori. Noi non alziamo muri ma costruiamo ponti. Conservo sempre presente l’insegnamento di Dino Frisullo, la sua utopia di fratellanza tra popoli. Il nuovo conflitto di classe è l’immigrazione e io sto con gli immigrati, con i subalterni di questo secolo».

Nelle scorse settimane si era detto indignato e sfiduciato con lo Stato e con il Viminale dopo la sospensione dei fondi e dopo il rischio di abolizione dei bonus e delle borse-lavoro. Che rapporti ha con il Viminale?

«Diciamo altalenanti. Dopo questi dubbi sollevati dal ministero mi sono recato personalmente a Roma in questi giorni e mi hanno assicurato che sbloccheranno i fondi, anzi pensano anche di aumentarli. Ma di sicuro tutte queste voci che periodicamente si rincorrono contro i pilastri del nostro modello possono penalizzarci. Perché i bonus tutelano la dignità del rifugiato, spesso umiliato nella consegna di alimenti. Grazie ai buoni-moneta queste persone hanno immediatamente autonomia economica e libertà di scelta dei beni di prima necessità, entrano subito in contatto con i riacesi e si integrano. È questo il succo del modello Riace: costruire processi rigenerativi e perenni della società. Perché i migranti non devono essere dei pacchi depositati per sei mesi e poi recapitati altrove. Da noi costituiscono la linfa vitale e rigenerativa del territorio. Ed è così che siamo sopravvissuti alle lungaggini burocratiche di trasferimento delle risorse dallo Stato agli enti territoriali, grazie ai bonus. Ma negli ultimi due anni ci hanno costretto a un calvario, due anni di falsità e di congetture sulla base di verifiche effettuate in modo superficiale e approssimativo, senza sentire i soggetti beneficiari dei progetti, veri testimoni in grado di attestare la qualità dei servizi a loro erogati. Nessuna audizione con gli operatori, nessun colloquio con la popolazione, nessun contatto con i commercianti. la verifica è stata solo sulla documentazione e con toni ostili e punitivi. Forse vogliono costringerci a chiudere. Ma se manca la fiducia sono io il primo a volerlo».

Bergoglio ha sempre espresso gratitudine e ammirazione per il suo operato. «Le porte della mia casa saranno sempre aperte per lei», ha dichiarato in sua presenza. Magari se fosse respinto dallo Stato italiano, lei potrà chiedere asilo in Vaticano?

«È una buona idea. Anche perché a volte rifletto e mi dico che il papa argentino è l’ultimo uomo a dire cose di sinistra nel mondo».

IL POLVERONE DI RIACE

«La scheda. Le tappe di ispezioni e accuse contro Mimmo Lucano, sindaco calabrese amato da Wenders e da Bergoglio»

Prima la relazione del prefetto di Reggio, Michele Di Bari, che annotava «criticità estremamente preoccupanti, sia per gli aspetti amministrativi e organizzativi che per gli aspetti di merito, riguardanti i servizi rivolti agli stranieri, assolutamente carenti e privi di effettiva pianificazione».

A fine 2016 un video su Youtube, pubblicato da un nick name anonimo, che voleva far credere che il sindaco avesse pilotato un appalto con i fondi regionali per il dissesto idrogeologico. Da qui le sue dimissioni, poi revocate a furor di popolo. Poco tempo fa la visita degli ispettori del ministero chiamati a giudicare il modello dell’accoglienza che anni fa ha colpito anche il regista tedesco Wim Wenders. Infine la circolare del Viminale e della prefettura reggina che decretava la sospensione dell’erogazione dei fondi per presunte irregolarità.

Nell’attacco concentrico contro Mimmo Lucano, sindaco di Riace mancava solo quel tassello: un’indagine che dipingesse «la grande truffa dei migranti». E puntualmente, l’indagine della procura di Locri è arrivata. Insieme a un avviso di garanzia con un capo d’accusa pesante che sembra fatto apposta per sollevare un polverone: truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ai danni dello Stato e dell’Ue, concussione e abuso d’ufficio, in concorso. Poco importa che in realtà si tratta nient’altro che del supplemento di una vecchia indagine del gennaio scorso per le contestazioni sollevate dagli ispettori prefettizi per verificare l’eventuale fondatezza delle accuse.

Per questo è stato eseguito anche un decreto di perquisizione e sequestro per acquisire tutta la documentazione sui progetti. Tra i destinatari dell’avviso anche Fernando Capone, presidente di Città futura-don Puglisi, l’associazione che oggi coordina tutti i progetti in corso. Lucano dopo la prima ispezione- con risultati negativi – non solo ha presentato puntuali controdeduzioni, ma ha sollecitato ulteriori controlli, poi effettuati, dei quali tuttavia non è mai riuscito a conoscere l’esito.

Left

«La Libia è diventata una prigione a cielo aperto, lontano dagli occhi e lontano dal cuore… Oggi non è più possibile nemmeno onorare la morte o curare e alleviare le sofferenze di chi affronta questi viaggi della speranza». Parole dettate dall’esperienza, parole che suonano come un possente atto d’accusa rivolto ai “securisti” di casa nostra, in primis al ministro dell’Interno, plenipotenziario per il Mediterraneo, Marco Minniti.

A pronunciarle, nel corso di un dibattito al Festival d’Internazionale a Ferrara, è Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti di migrazione e delle operazioni di Medici senza frontiere in Libia. Occorre tenerle bene in mente, queste parole, quando oggi, 3 ottobre, assisteremo alla solita parata di dolore e lacrime di coccodrillo in ricordo della più grave strage di innocenti avvenuta nel “mar della morte”: il Mediterraneo (3 ottobre 2013, la strage di Lampedusa, il terribile naufragio vicino all’isola dei conigli, costato la vita a 368 persone, quasi tutte eritree).

Tenere a mente quanto denunciato da Nancy Porsia, reporter coraggiosa che ha documentato sul campo gli orrori dell’inferno libico: «Al momento – spiega – la Libia non è un partner per la risoluzione di un problema europeo di consenso elettorale», gli fa eco Porsia, che anzi rincara la dose: «la politica migratoria europea è un sistema criminogeno», non è il traffico ad alimentare i flussi, ma al contrario esso è la risposta a una domanda crescente. Per questo la soluzione sarebbe «una politica più aperta di rilascio di visti presso le ambasciate». Ai securisti che blaterano di un rischio per la nostra democrazia determinato da una inesistente “invasione” di migranti, andrebbe risposto con le parole di Khalifa Abo Khraisse, sceneggiatore trentenne libico, autore delle “Cartoline da Tripoli”, che fa la spola fra Sud e Nord del Mediterraneo.

«Voi qui leggete e ascoltate termini che in Libia non hanno significato. Leggete che il governo italiano ha fatto un accordo con il governo libico, ma quelle sono semplicemente persone alle quali le milizie hanno permesso di insediarsi come governo. E lo stesso vale per la guardia costiera libica: non esiste. Anche ‘centri di detenzione’ è una definizione molto aleatoria: come si fa a stabilire quanti sono, quando a volte sono semplici punti di raccolta in mezzo al deserto? Non c’è possibilità di monitorare questi centri». Occorre prestare attenzione, e dare risalto, alle denunce di quanti praticano solidarietà verso i più indifesi tra gli indifesi, e per questo considerati testimoni scomodi, presenze ingombranti da chi, per una manciata di voti, a quel mondo – Ong, gruppi di base, volontari – ha dichiarato guerra.

Così come non può considerarsi un elemento marginale, a sinistra, nella discussione di ipotetiche alleanze elettorali con il Partito democratico, oggi al Governo, quello della politica estera. Quel mondo solidale chiede tre atti concreti: la chiusura dei lager libici e la fine del sostegno ai signori della guerra, milizie e tribù, in affari con i trafficanti di esseri umani, che l’Italia sta pagando per fare da aguzzini di migranti; la fine della vendita di armi all’Arabia Saudita, armi (bombe) con cui l’”Isis bianco” (il regno Saud), massacra il popolo yemenita; il riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina a fronte della forsennata politica di colonizzazione portata avanti da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono richieste che richiamano coerenza, determinazione, rispetto di quei principi spesso evocati ma quasi mai praticati. E i principi, i valori, non sono negoziabili.

la Repubblica

Petruno Irpino (Avellino). «Si chiama Victory, ma per noi è Vittorio, anzi Vittò. E da quando a Petruro sono arrivati Vittò, Testimony, Marvellous, Shiv e tutti gli altri, anche noi vecchi abbiamo ricominciato a sentirci vivi, qui prima c’erano soltanto silenzio e funerali». Ubaldo Mazza, 80 anni, ex minatore, “zio Ubaldo” per tutti, una selva di capelli bianchi, gioca con Victory, nigeriano di 17 mesi, catapultato dalla vita con la mamma Precious in questo borgo dell’Irpinia arroccato tra boschi e castagneti. Strade di pietra, vento, montagne, l’odore del mosto e dell’uva. «Sapete? Andrà all’asilo. Con tutti questi nuovi bambini il Comune ha deciso di riaprirlo, qui la scuola era chiusa da vent’anni».

Victory corre, saltella, guarda zio Ubaldo e ridono come matti, il mondo — a volte — può anche essere salvato dai ragazzini, un vecchio e un bambino che sanno di essere una coppia irresistibile, testimonial, anzi, di una “integrazione possibile”. Italiani e migranti insieme in un progetto che la Caritas di Benevento ha chiamato Rete dei comuni welcome. Ossia un’alleanza basata sull’accoglienza e su un “welfare locale ad esclusione zero” che fermi l’esodo da questi piccoli paesi bellissimi ma ormai spopolati tra il Sannio e l’Irpinia, disseminati di vitigni abbandonati, campi incolti, bar deserti e nascite zero.

E dunque porte aperte ai profughi in attesa di asilo che attraverso i fondi degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) stanno riportando vita, nascite e reddito tra le strade deserte dei borghi. Ma anche alle famiglie italiane più fragili che qui potrebbero ritrovare migliori condizioni di vita. E bisogna addentrarsi nel silenzio di Petruro Irpino, provincia di Avellino, 210 abitanti, dove grazie a sette bambini migranti a breve riaprirà l’asilo, per assistere a un esempio di laboratorio sociale. Dove Precious, nigeriana, fa il tirocinio da parrucchiera, mentre la piccola Testimony passa le sue mattine con Teresa, ragazza italiana che le fa da baby sitter e così si paga gli studi, mentre la mamma Pamela, anche lei nigeriana, lavora in un’azienda agricola.

Nella loro lindissima casa, Rajvir Singh e la moglie Meher, afghani di religione Sikh, preparano ravioli di verdure da cuocere in un brodo speziato, in attesa che Shiv, 10 anni, torni con lo scuolabus. Perseguitati in Afghanistan perché di religione Sikh, Rajvit, Meher e Shiv portano nel cuore il dolore più grande. Racconta Marco Milano, esperto di relazioni internazionali, oggi responsabile dello Sprar: «I talebani hanno ucciso davanti ai loro occhi il fratello di Shiv, Meher non si è mai ripresa…». Per questo Rajvit vuole restare in Italia. «Qui è bello, ci sono le montagne e la terra. Posso lavorare e mio figlio può crescere nella pace». E Rajvit entrerà a far parte della cooperativa che italiani e migranti stanno per fondare recuperando terre e coltivazioni.

«Il Greco di Tufo, l’Aglianico, il Fiano, abbiamo un patrimonio di vigneti che rischiano di morire. Molti giovani di qui — dice Marco Milano — emigrati al Nord o all’estero, stanno tornando per partecipare ai progetti “welcome”. Tanto che oltre ai bambini stranieri ricominciano a nascere i figli di coppie italiane...». Ma non c’è solo Petruro Irpino. A Chianche, dove «c’erano più lampioni che abitanti», era rimasta una sola adolescente italiana, Carmela, adesso ci sono quindici rifugiati e tra poco aprirà un nuovo alimentari “etnico”.

Il cibo è memoria e gli odori che escono dalle cucine si mescolano, il riso e pollo dei migranti, i fusilli al pomodoro delle case italiane. «Favorite — dice Zi’Ngiulina — la mia porta è aperta». Carmela ha un bel sorriso: «Studio a Benevento ma qui, a casa, mi sentivo davvero sola. Adesso con le ragazze e i ragazzi migranti è tornata la vita...». A Rocca Bascerana i rifugiati sono trenta, il sindaco Roberto Del Grosso dice con chiarezza: «L’integrazione c’è stata, possiamo ospitarne altri». «Con i 35 euro al giorno destinati ai richiedenti asilo — spiega Francesco Giangregorio dello Sprar di Chianche — paghiamo i corsi, ma affittiamo anche case dai proprietari italiani. Gli ospiti, poi, con i cinque euro al giorno che vengono loro consegnati come pocket money, fanno la spesa nei negozi di qui che infatti stanno riaprendo».

Insomma una micro-economia che ricomuncia a muoversi grazie a un melting pot italiano e straniero che consuma e chiede servizi. Donne, uomini e bambini che hanno vissuto l’orrore, i lager libici, gli stupri e adesso tra questi boschi che volgono all’autunno sembrano respirare. Hayatt, etiope, bella e riservata, oggi diventata “operatrice agroalimentare”, fuggita dopo lo sterminio della sua famiglia. Mercy e Evelyn, nigeriane, scampate (forse) alla tratta. E tanti, ottenuto lo status di rifugiati scelgono di restare. Noman, ad esempio, assunto legalmente come edile alla fine del tirocinio, così come Seck, del Mali, in una ditta di compostaggio.

«Il nostro obiettivo è che restino, ripopolino i nostri comuni e si integrino in percorsi di legalità», spiega con passione Angelo Moretti, responsabile comunicazione della Caritas, cuore e anima della rete dei “Comuni Welcome”. «I grandi centri di accoglienza del Sud sono in mano alla criminalità, lo sappiamo. Nei nostri progetti gli ospiti invece devono formarsi, vivono in piccoli gruppi, i bambini vanno a scuola. E questo dà dignità. Abbiamo lavorato molto prima che i migranti arrivassero per preparare l’integrazione. Oggi raccogliamo i frutti. E anche questa economia inizialmente assistita, si sta trasformando in economia reale, con le cooperative tra italiani e migranti».

Alle 5 del pomeriggio sulla piazza di Petruro quindici bambini giocano a pallone. Italiani, afghani, nigeriani, sudamericani, ghanesi. «Goal» lo sanno dire tutti. «Quante voci — dice Zio Ubaldo — sembra di essere cinquant’anni fa...».

il manifesto,

Sarà stato l’effetto del voto tedesco o magari, come è più probabile, le frizioni interne al partito e la paura di perdere voti. Fatto sta che ieri Angelino Alfano ha lanciato l’ennesimo altolà sullo ius soli. «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata e un regalo alla Lega» ha mandato a dire il ministro degli Esteri al premier Paolo Gentiloni, dimenticando che in un anno e nove mesi in cui il testo è rimasto fermo al Senato forse il momento giusto per approvarlo si sarebbe potuto anche trovare.

Le parole del titolare della Farnesina suonano invece ancora una volta come una pietra tombale sulla legge e, guarda caso, arrivano appena ventiquattro ore dopo l’appello che il cardinale Gualtiero Bassetti, neo presidente della Cei, ha lanciato al parlamento e allo stesso Gentiloni perché invece si affrettino a dare il via libera al ddl sulla cittadinanza, indicato come un passaggio fondamentale per l’integrazione di decine di migliaia di giovani nati nel nostro Paese da genitori immigrati. Probabilmente la paura che la richiesta dei vescovi potesse fare breccia a palazzo Chigi e smuovere il premier, magari convincendolo a porre finalmente la fiducia sul provvedimento come promesso, deve aver convinto Alfano a intervenire per rassicurare i suoi elettori in vista del voto siciliano, scongiurando allo stesso tempo possibili (ma per la verità ormai alquanto improbabili) sorprese da parte del capo del governo.

Le sue dichiarazioni hanno comunque l’effetto di provocare il consueto fiume di reazioni da parte di chi, sempre a parole, fosse dipeso da lui la legge l’avrebbe già approvata da tempo. «Non è vero che non è questo il momento propizio», dice quindi Matteo Richetti, portavoce della segreteria Pd, che annuncia l’intenzione del partito di cercare in aula i voti necessari, uno per uno. «La maggioranza parlamentare è la maggioranza parlamentare, e chi ci sta lo approvi con noi». Già, peccato che solo qualche sera fa, parlando a «Cartabianca» su Rai3 della possibilità di approvare lo ius soli, era stato lo stesso segretario Matteo Renzi ad ammettere: «In questo momento non ci sono i numeri perché c’è paura, e se non ci sono i numeri non è che si possono stampare».

La verità è proprio questa: senza la fiducia per lo ius soli non c’è nessuna possibilità di vedere la luce in questa legislatura. Tra discussione del Def e legge di stabilità i tempi sono ormai strettissimi e senza un intervento di palazzo Chigi cercare i voti in aula è un’impresa pressoché disperata. Sulla legge pendono inoltre 48 mila emendamenti, presentati quasi tutti dalla Lega, e anche a volerli «cangurare» ne resterebbero sempre almeno 6-700. Troppi per discuterli in così poco tempo. Non a caso il coordinatore di Mdp – che insieme a Sinistra italiana e a qualche senatore ex 5 stelle è l’unico partito a non mostrare incertezze sulla legge – si appella al premier chiedendogli di dimostrare «forza e autonomia». «Basta paure e incertezze, il governo non insegua la destra. Lo ius soli riguarda 800 mila ragazzi e questo conta molto di più di Alfano», dice Roberto Speranza. E non manca chi, nel movimento di Bersani, è pronto a scommettere che un intervento del premier sbloccherebbe davvero la situazione «Se il governo mettesse la fiducia – spiega infatti una senatrice – gli alfaniani uscirebbero dall’aula e la legge passerebbe. Nessuno ha davvero voglia di far cadere il governo».

A destra intanto, com’era prevedibile, si brinda. Anzi, le parole di Alfano scatenano una gara per aggiudicarsi il merito di aver affossato la legge. «Amici, grazie a voi siamo riusciti a fermare lo ius soli e perfino l’inutile Alfano! Grazie», esulta su Facebook Matteo Salvini. Al leader del Carroccio replica però la portavoce del partito di Alfano, Valentina Castaldini: «Mentre Salvini sbraita e invoca le ruspe noi facciamo i fatti», dice. «Se sullo ius soli non viene posta la fiducia e non viene approvato è solo grazie ad Alternativa Popolare che si è opposta in maniera energica negando la propria disponibilità a votarlo. Salvini se ne faccia una ragione».

Secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate sulle coste italiane 103.097 persone, in calo rispetto al 2016 soprattutto a causa del codice di condotta per le Ong emanato dal governo italiano e a causa degli accordi stretti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj che fermano le persone in Libia. Nigeria, Guinea e Bangladesh rimangono i Paesi da cui proviene la maggior parte dei profughi»

Guerre, carestie, povertà: sono tanti i fattori che spingono decine di migliaia di persone a raggiungere l’Italia dalle coste dell’Africa (già oltre 100mila nel 2017). Il nostro Paese è da tempo il principale porto di arrivo per le rotte dei migranti nel Mediterraneo: secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate 103.097 persone, in calo rispetto alle 130.620 dello stesso periodo del 2016. Parliamo di una cifra pari circa al 2% del totale degli stranieri residenti in Italia, che secondo l’Istat sono poco più di 5 milioni.

Il dato sugli sbarchi non rappresenta che una parte di chi emigra. A migliaia non raggiungono la meta, perché bloccate prima dei porti di Libia e Tunisia o perché vittime di naufragi. L’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) riporta che, nel 2017, 2.561 persone hanno perso la vita sui barconi di fortuna in viaggio verso l’Italia, un numero comunque in calo rispetto al record dello scorso anno, quando si registrarono 5.096 morti in mare, di cui ben 700 tra il 25 e il 28 maggio.

La diminuzione degli arrivi e delle tragedie nel Mediterraneo sono anche il risultato di un drastico cambiamento nella gestione dell’emergenza immigrazione da parte del governo italiano, a partire dal codice per le Ong. Gli accordi raggiunti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj hanno fatto sì che da luglio a settembre 2017 – cioè nei mesi in cui generalmente partono più barconi – siano arrivate in Italia “soltanto” 19.343 persone, contro le 61.821 del 2016. Quindi, tre mesi fa, l’invito alle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo a sottoscrivere il codice di condotta che limita il loro raggio d’azione e prevede che, su richiesta delle autorità nazionali, le navi delle organizzazioni debbano ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per “raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani”. Se da una parte gli accordi hanno limitato in modo considerevole gli sbarchi, dall’altra hanno aumentato il numero di persone rimaste bloccate in Libia: secondo alcune associazioni umanitarie sarebbero circa 15mila i migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, fermati nel tentativo di partire.

Tra i 103.097 arrivi di quest’anno, una percentuale considerevole è costituita da minori non accompagnati. Sono stati 13.418, più del 13% del totale, e per loro il Parlamento ha approvato da pochi mesi una legge che sancisce parità di trattamento rispetto a chi gode della cittadinanza italiana o è cittadino dell’Unione europea, disponendo anche che il respingimento alla frontiera non possa essere disposto in nessun caso.

1. Nigeria:
il terrore cieco di Boko Haram
nel paese dei sei figli per donna

La maggior parte delle 103.097 persone sbarcate in Italia nel 2017 viene dalla Nigeria. Sono 17.061, pari al 16,5% degli arrivi. Il Paese è in guerra da più di 7 anni, da quando Boko Haram, l’organizzazione terroristica affiliata all’Isis in guerra contro il governo, ha ottenuto il controllo su alcuni territori. Secondo l’Onu, il fertility rate (il numero di figli per ogni donna) è di 5,7, mentre l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni per gli uomini e 52,6 per le donne. Secondo i dati della Word Bank, nel 2011 85,2 milioni di persone (circa il 53% della popolazione di allora) viveva con meno di 1 dollaro e 90 al giorno, la soglia della povertà assoluta. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International riferisce che “le forze di sicurezza continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.

2. Guinea:
i tristi primati della tortura
e delle mutilazioni genitali

La Guinea è uno degli Stati più poveri del mondo. Sono 9.056 (8,7% del totale) gli uomini e le donne in fuga dal Paese in cui tre anni fa scoppiò l’epidemia dell’Ebola, causando 2.346 morti. Lo scorso anno il nuovo codice penale ha abolito la pena di morte, ma Amnesty International denuncia ancora “episodi di tortura e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Nella graduatoria stilata dall’Onu in base all’Isu (l’Indice di Sviluppo Umano, che incrocia dati sul reddito pro capite, sull’istruzione e sulla qualità della vita), la Guinea occupa il 183esimo posto su 188 Paesi. L’Unicef riporta che circa il 96% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subìto mutilazioni genitali di qualche tipo, in un Paese in cui un’indagine del 2015 mostrava che il 63% delle ragazze tra i 20 e i 25 anni si fosse sposata prima dei 18 anni.

3. Bangladesh:
spinti ad ovest dalla povertà
e (anche) da altri profughi

Dal Bangladesh, Paese separatosi dal Pakistan nel 1971, sono giunti in Italia 8.794 persone da gennaio, pari all’8,5% del totale degli sbarcati. In queste settimane il Bangladesh vive l’emergenza dei Rohingya, la minoranza islamica in fuga dalla Birmania. Circa 400mila profughi hanno passato il confine birmano, rifugiandosi in Bangladesh, in un Paese che è tra i più poveri dell’Asia e che non è in grado di gestirne l’accoglienza. Dal 2015 ci sono state decine di attacchi terroristici – in quello di Dacca, nel luglio 2016, morirono anche 9 italiani – riconducibili a gruppi vicini all’Isis. Secondo l’Unicef, circa il 18% delle ragazze si sposano prima dei 15 anni: è uno dei tassi più alti al mondo. Anche il dato sull’alfabetizzazione è preoccupante: solo il 61% della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (la media mondiale è dell’86%).

4. Costa d'avorio: una lotta tra fazioni infinita
e le cellule superstiti di Al Qaeda

Proprio quando la Costa d’Avorio sembrava uscita dall’incubo della guerra civile, iniziata nel 2002, le elezioni del 2010 hanno portato nuovamente il caos nel Paese. Il presidente Alassane Ouattara ha dovuto vedersela con le truppe legate al vecchio presidente, Laurent Gbagbo, poi arrestato e accusato di crimini contro l’umanità. Adesso il Paese, da cui nel 2017 sono arrivati in Italia 8.482 persone, pari all’8,2% del totale, fa i conti con i continui attacchi jihadisti di Aqim – una cellula di Al Qaeda – e con condizioni di estrema povertà per la popolazione. La Costa d’Avorio è al 171esimo posto sui 188 della graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e ha un’aspettativa di vita di soli 53 anni. Il tasso di mortalità infantile è del 5,3%, tra i più alti del mondo.

5. Mali: l’intrigo internazionale
nella terra dei bambini soldato

Nel 2012 in Mali è scoppiato un conflitto interno che ha portato le truppe del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ad occupare la parte nord del Paese. L’attività di alcuni gruppi islamisti ha complicato il quadro e nel 2013, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia di Hollande ha inviato i propri aerei in supporto del governo centrale, contro le truppe indipendentiste dell’Azawad e contro gli estremisti islamici. Anche l’Italia, dal 2013, ha fornito supporto logistico all’operazione. Tutte le trattative di pace sono finora saltate e il conflitto è ancora in corso, mentre le Nazioni Unite denunciato l’ampio utilizzo di bambini-soldato. Dal Mali – in cui si registra il secondo tasso di mortalità infantile più alto del mondo, pari al 10% – sono arrivate in Italia 6.121 persone da gennaio, circa al 6% del totale.

6. Eritrea: isolamento internazionale,
dittatura e schiavitù militare

Ex colonia italiana nel periodo fascista, l’Eritrea è sotto la dittatura di Isaias Afewerki da quasi 25 anni, cioè da quando, nel 1993, un referendum ne legittimò il potere. L’Eritrea è stata gradualmente isolata dalla Comunità Internazionale. Una commissione d’inchiesta voluta dall’Onu nel 2014 ha stabilito che l’Eritrea “non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha né un parlamento né istituzioni democratiche” e “c’è un clima di impunità per i crimini contro l’umanità commessi da un quarto di secolo”. Secondo l’Onu, migliaia di persone – 5.612 quelle giunte in Italia nel 2017, il 5,4% del totale – fuggono dal servizio militare, paragonato a una schiavitù camuffata: la leva dura ufficialmente 18 mesi, ma i militari vengono poi costretti a rimanere nell’esercito.

7. Senegal: la giustizia sommaria
alle porte del Sahara

Il Senegal è uno snodo fondamentale per le partenze verso il deserto del Sahara, anticamera dei porti in Tunisia e in Libia. Da gennaio sono arrivate 5.610 persone, il 5,4% del totale, in fuga da un Paese in cui oltre 5 milioni di persone – il 37% della popolazione – vive sotto la soglia di povertà assoluta di 1 dollaro e 90 al giorno. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International evidenzia come ci siano forti limitazioni alle libertà personali, comprese quelle sessuali, e ai diritti civili, come la facoltà di espressione e associazione. La giustizia, secondo Amnesty, è applicata in modo sommario e contribuisce a un grave sovraffollamento delle carceri. Il tasso di natalità è di circa 5 figli per ogni gni donna e fa sì che la popolazione, negli ultimi 15 anni, sia aumentata di circa il 50%.

8. Gambia: due milioni
sotto lo scacco di una Repubblica islamica

Dopo 22 anni di dittatura, lo scorso anno il presidente Yahya Jammeh è stato costretto all’esilio. Il Gambia era stato dichiarato “Repubblica Islamica” e Amnesty International ha a lungo denunciato la soppressione di ogni libertà, soprattutto per mano dei Jungulers, un esercito di sicurezza privato. Da qualche mese le cose vanno meglio, ma il Gambia resta un Paese poverissimo – 173esimo su 188 nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano – con ancora molte difficoltà a lasciarsi alle spalle la dittatura. Secondo le Nazioni Unite, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni ben il 16% delle donne si è sposata prima dei 15 anni. Dal Gambia, dove vivono appena due milioni di persone, sono arrivate in Italia 5.594 persone negli ultimi nove mesi, il 5,4%degli sbarcati.

9. Sudan: emergenza umanitaria
tra guerra civile e secessione

Sette anni fa un referendum ha ufficializzato la separazione tra Sudan e Sudan del Sud. Al voto si era arrivati dopo una guerra civile che, seppur a intermittenza, andava avanti dagli Anni 80. Nella parte ovest dello Stato, in Darfur, si alternano periodi di guerra e di tregua in un conflitto che, si stima, ha causato negli anni oltre 400mila vittime. Mentre in Sud Sudan si è tornati a combattere e il Paese è in grave emergenza umanitaria, in Sudan Amnesty International denuncia che “le forze di sicurezza hanno preso di mira membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altre violazioni”. Questi fattori, uniti a una diffusa povertà, hanno spinto 5.480 persone ad arrivare in Italia nel 2017, pari al 5,3% del totale.per raggiungere le famiglie

La comunità marocchina in Italia è composta da oltre 430mila residenti, che costituiscono uno dei principali motivi per cui anche quest’anno 5.064 persone (il 4,9% del totale) hanno raggiunto l’Italia dal Paese del Maghreb. Nonostante sia considerato uno dei casi più virtuosi dell’Africa, il Marocco ha ancora molti problemi di diritti. Le Nazioni Unite, in un rapporto inviato a Rabat nei giorni scorsi, hanno chiesto interventi, per esempio, sul riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, sulla disparità di trattamento tra i generi sulle questioni di eredità – le donne sono escluse dalla successione, a meno di diverse indicazioni –, sulla condanna delle violenze coniugali e sul problema delle spose bambine. Amnesty International, intanto, continua a denunciare l’opera di contrasto del governo all’attività di diverse organizzazioni per i diritti umani.

il Fatto Quotidiano

"La natura torna al galoppo”. È un detto francese che uso per spiegare i fenomeni migratori che sono ciclici e impossibili da frenare, nonostante nuove restrizioni e frontiere fisiche e commerciali”. Si intitola per l’appunto Frontiere (Il Mulino) l’ultimo saggio del professor Manlio Graziano. Piemontese, da anni insegna Geopolitica e Geopolitica delle religioni alla Sorbonne di Parigi e presso l’istituto di Studi Geopolitici a Ginevra.


Professor Graziano, è giustificato l’allarme immigrazione che dura ormai da un paio d’anni?

No, non lo è. Nella storia ci sono state altre ondate di globalizzazione. La più eclatante nell’era moderna è stata tra il 1870 e il 1913 quando, non è un caso, si strutturò il diritto internazionale, che contribuì a ridurre l’importanza delle frontiere. Durante quella fase si spostò il 10% della popolazione mondiale, allora di circa un miliardo di persone. Significa almeno 100 milioni di individui. Una cifra che, fatte le proporzioni con gli attuali 7 miliardi di abitanti del pianeta, mostra di per sé che l’allarme che percorre l’Occidente è quantomeno prematuro.
Ma allora stava iniziando la seconda Rivoluzione industriale, c’era bisogno di qualsiasi tipo di manodopera. Oggi no.
È vero che oggi c’è più richiesta di manodopera di alto livello, ma ci sarà comunque sempre bisogno di forza lavoro a bassa qualificazione.
Quella più bassa rimane generalmente in Italia. Perché?
Chi ha delle ambizioni, voglia di emergere, di studiare per ottenere un lavoro decente sa che l’economia italiana è stagnante e quindi cerca di andare in Germania o Francia. L’Italia, inoltre, non ha l’autorevolezza sufficiente per esigere dall’Europa un comportamento più equo. Speriamo che dopo le elezioni di ieri in Germania, la situazione si stabilizzi, si esca dalla campagna elettorale, un periodo che inevitabilmente costringe i leader politici a non esporsi sul tema dell’immigrazione o a demonizzarlo come fanno in molti, proponendo soluzioni irrealistiche ammantate di buon senso che fanno presa sulla gente disorientata e ansiosa a causa dei mutamenti sempre più rapidi. Ma è un problema psicologico, non reale, questo sì devastante, alimentato da politici opportunisti. L’essere umano tende a volere certezze, ecco perché risorgono i nazionalismi e gli estremismi religiosi. La gente vi si aggrappa come alle rocce nella corrente temendo di perdere la propria identità.
Le Monde ha criticato il ministro dell’Interno Minniti accusandolo di fatto di aver pagato tangenti ai trafficanti per bloccare i migranti africani nei paesi di passaggio. Ma non le sembra che anche Macron sia connivente con questo sistema quando chiude le frontiere a Ventimiglia e senza sborsare un euro? O la Merkel, quando diede i soldi europei a Erdogan per nascondere sotto il tappeto turco i profughi di guerra che tentavano di venire in Europa attraverso il mare Egeo e la Grecia?
Sì, è così. Con la differenza che i migranti nei cosiddetti centri di accoglienza libici sono sottoposti a trattamenti inumani, a torture, stupri, schiavitù. Con la fretta di risolvere il problema, il governo italiano, se è vero quello che leggo e sento dire, sembra abbracciare soluzioni farraginose e al limite del disumano.
Cosa dovrebbe fare intanto il resto d’Europa?
Io sono un analista e non propongo soluzioni. Ma è certo che un’Europa forte e coesa dovrebbe avere un unico piano di gestione dei flussi a livello comunitario e costringere i paesi recalcitranti a soddisfare le quote di ricollocamento stabilite.
Ma anche tra chi ha tenuto fede al programma di ricollocamento, come la Germania e la Francia, sembra orientato a non accettare più i migranti, meglio rifugiati. E visto che il fenomeno durerà anni l’Italia, che è il molo dell’Europa, cosa dovrebbe fare ?
Ripeto, il mio compito non è proporre soluzioni. Ma sono convinto che se tutte le risorse fossero destinate all’accoglienza anzichè alla chiusura, quello che è un problema potrebbe diventare un’opportunità.
I tedeschi prevedono ogni anno di essere in grado di ricevere un certo numero di migranti, sorpassato il quale non sarebbero più in grado di scolarizzarli e di dare loro un’opportunità di lavorare né di curarli gratuitamente con il sistema sanitario pubblico. L’Italia non può chiudere le coste sul Mediterraneo come se fosse un confine di Stato.
Anche la cancelliera Merkel deve lisciare il pelo dell’elettorato. I tedeschi, come pure gli italiani, le risorse le avrebbero, ma per non urtare i possibili elettori preferiscono spendere per bloccare gli immigrati anziché per accoglierli.

E la soluzione proposta da Matteo Renzi di “aiutarli a casa loro”?
È assurda perché l’emigrazione è una conseguenza dello sviluppo che provoca l’espulsione dei contadini dalle campagne. Più aiuti in loco si traducono in più sviluppo e dunque in maggior emigrazione. Del resto, come dicono i cinesi, “il serpente sciocco si morde sempre la coda”.

il manifesto

Era il 28 marzo del 1999 quando alla riunione del Tavolo di Coordinamento governo associazioni per gli aiuti alla ex Jugoslavia, presenti l’attuale ministro Marco Minniti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Livia Turco, allora ministra del governo D’Alema, alle organizzazioni intervenute fu proposto – racconta Giulio Marcon nel suo libro “Le ambiguità degli aiuti umanitari: indagine critica sul terzo settore” – di partecipare al grande progetto italiano di assistenza ai profughi kosovari: Missione Arcobaleno. “Mentre bombardano, aiutano i profughi”, scrive Giulio Marcon. Dopo quasi vent’anni il governo Gentiloni e il ministro Minniti propongono un metodo analogo. Lo stesso schema di allora.

«Non staremo sotto il vostro elmetto». Questa fu la risposta di Raffaella Bolini, dirigente dell’Arci, per esprimere il dissenso del Consorzio Italiano di Solidarietà e di una parte delle organizzazioni presenti, che non partecipò alla Missione Arcobaleno. Anche oggi per noi dell’Arci, e non solo, la questione si pone negli stessi termini: non indosseremo la giacca del governo italiano e dell’Unione europea che hanno dichiarato guerra ai migranti. Fanno accordi con dittatori e governi fantoccio, con milizie criminali che torturano e stuprano, inviano strumenti e risorse per bloccare le persone in modo che nessuno possa arrivare alle nostre frontiere a chiedere protezione. Alle organizzazioni sociali, alle Ong che si occupano di progetti di cooperazione allo sviluppo, chiedono di collaborare per garantire servizi e i diritti umani delle persone che subiscono trattamenti disumani e violenti.

Come con la missione Arcobaleno si mettono in campo risorse, pare 6 milioni di euro, per intervenire nei lager libici, aprire nuovi campi e gestirli, in collaborazione con le autorità libiche. Presentate progetti, diranno, come avrebbero detto da lì a poco, nel lontano 1999 per i profughi kosovari. Aiutiamoli in Libia, con progetti da finanziare alle Ong. Cioè aiutiamoli a casa di altri per non farli arrivare in Europa, a “casa nostra”, e sentirci a posto con la coscienza. Un tentativo, come avvenne all’epoca, di avere una copertura dalla società civile, dal terzo settore, per un’operazione vergognosa, in questo caso di esternalizzazione delle frontiere, di guerra ai migranti, che ha trovato una forte opposizione sociale, nonostante l’ampio consenso pubblico.

Il tentativo di dividere le organizzazioni tra buone e cattive, com’è stato fatto con il codice delle Ong. Chi collabora sarà premiato, sul piano della comunicazione pubblica e delle risorse. Chi dissente sarà criminalizzato e isolato. Si rilancerà l’insulto “buonista” per mettere all’indice chi non vuole arrendersi alle violazioni della nostra Costituzione (ex art.10), della legge e delle convenzioni internazionali. Si dirà, com’è stato detto con il Codice Minniti, che c’è chi vuole partecipare a risolvere i problemi e chi invece fa l’anima bella e non si preoccupa del crescente razzismo che deriverebbe dagli arrivi sulle nostre coste, come dicono i “razzisti democratici”.

La Missione Arcobaleno fu una brutta pagina della storia delle organizzazioni che svolgono attività di solidarietà internazionale e di tutela dei diritti. Un’iniziativa di un governo di centrosinistra per dividere e distrarre l’opinione pubblica, ricercando un consenso altrimenti difficile da ottenere. Oggi, protagonisti nuovi e vecchi, ripropongono quel tentativo. Speriamo che nessuno caschi in questo tranello, per soldi o per calcolo politico. Una risposta forte e chiara di dissenso dalla società è auspicabile. E proveremo insieme ad altri a metterla in campo in questo autunno.

Nel frattempo, come in quella primavera del 1999, è bene far arrivare al governo un forte signornò!

Ecco i personaggi di cui Gentiloni e Minniti sono complici: uomini come Al Ammu «il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza».

Corriere della Sera, 9 settembre 2017

Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato all’aperto. Uno di quelli che si presta per lavoretti a ore di ogni tipo, trasporta le cassette della frutta, scarica i camion e aiuta anche nei traslochi, con il padre impiegato all’ufficio postale di Sabratha e i fratelli ancora bambini che giocano a pallone per la strada.

«Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo. “Ammu, mi regaleresti una sigaretta?”, chiedeva strascicato a quelli che incontrava. Così diceva, “ammu”, che in arabo significa zio. E per tutti era diventato “Al Ammu”, lo zio. Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?».

Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. E rispecchiano fedelmente ciò che a Sabratha e dintorni è oggi il parere più comune: Al Ammu, l’ex facchino, ha fatto fortuna.

D i ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel caos seguito alla rivoluzione «assistita» dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose, ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo «regno»: Sabratha, il cuore pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso le coste italiane. La «riconversione»

A fine agosto gli uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a rivelare la sua recente «riconversione» da principe degli scafisti a collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia locale ci dice «che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj». Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine. «Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi», ci dice con tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di Sabratha. Questi afferma di «non escludere, ma non sapere, se davvero gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma». Cosa del resto già nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a Tripoli.

Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. «È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato», dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati: hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011.

Da tempo «Al Ammu» aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico. Uccise «quasi per caso» un miliziano di Zintan che insidiava alcune ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300 ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della sua giovinezza.Affari di famiglia

La sua struttura si militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la «Brigata Anis Dabbashi», intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra Brigata, la «48», è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed chiamato «al Bushmenka», con la partecipazione attiva dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che «Al Ammu» si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle attività Eni nel Paese. «Probabilmente è allora che lui ha i primi contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente assassinati, ndr. )», aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi, oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. «Yihab ha trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie saranno legalizzate», leggono dai loro documenti i capi dell’intelligence.Il blocco

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. «Quanto erano efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla», afferma Algrabli.

Vedere per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a macchia d’olio. «Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il 30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza all’arrivo dei dati di fine settembre», dice ancora il sindaco di Sabratha.I «prigionieri»

La nuova situazione si manifesta amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. «Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non si parte più», dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra. Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24 anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici. «Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi», ricorda. Sono vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio. Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno intervenendo. «Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a visitarci?», protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro.

E Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato commenti. «Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità di Tripoli», ci fa dire, più formale e legale che mai.

«il manifesto, 7 settembre 2017

STUPRI, TORTURE, SCHIAVISMO:
DENUNCIA-SHOCK SULLA LIBIA
di Michele Gonnella

«Stati d'accusa. La presidente internazionale dell’ong Msf Liu: «L’Italia e l’Europa vogliono essere complici»
«Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo». Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama «ultra cinismo».

Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati «per il solo crimine di desiderare una vita migliore» – la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo – «storie che mi tormenteranno per anni», dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà.

Tripoli, donne profughe nelcentro di detenzione dopo la cattura

Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: «complicità» con i criminali, cioè con «un modello di business che trae profitto dalla disperazione». Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani. Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles – e nel video-messaggio diffuso sui social dall’Ong che non ha firmato il codice Minniti – c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle «vie legali e sicure» per accogliere e non inprigionare questa umanità africana in fuga.

Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si «augura» che «gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere».

L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza «delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane». «Non siamo ciechi e sordi», ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per «monitorare» l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica.

A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. «Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli – inizia Liu – c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali». «Sussurravano “Tirateci fuori da qui”. Ho ho potuto solo dire loro: “Vi sento”». E ancora: «Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: “La mia storia non è neanche la peggiore”. E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile». Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. «Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime».

Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’ong ha accesso. «L’Unhcr – Jan Peter Stellem di Msf – riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro».

La gestione dei miliziani libiche invece – come risulta anche da inchieste giornalistiche – non si può mettere in discussione.

UN URLO
CONTRO LA COMPLICITÀ
di Tommaso Di Francesco


La lettera d’accusa al piano migranti dell’Italia e dell’Ue inviata da Joanne Liu e da Loris De Filippi, rispettivamente, presidente internazionale e responsabile italiano di Medici Senza Frontiere (Msf), sia a Bruxelles che al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni – che negli stessi minuti vantava da Lubiana: «I risultati sull’immigrazione si vedono nel senso della riduzione degli sbarchi e dei flussi» – non appartiene a quelle rivelazioni che possono passare inascoltate. Perché gridano, urlano una verità ormai incontrovertibile.

Il titolo infatti di questo nuovo rapporto della Ong – la stessa che il «Codice Minniti» ha messo all’indice mentre salvava vite umane nel Mediterraneo – potremmo sintetizzarlo con le stesse parole di Msf: «I governi europei complici nell’alimentare il business della sofferenza in Libia».

Accusa Joanne Liu, reduce da un viaggio-inchiesta in Libia di una settimana fa: «Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell`Europa» che invece, «accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall'Europa, con le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi».

Perché «la riduzione delle partenze dalle coste libiche – denuncia Msf – è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti, ma sappiamo bene quello che succede in Libia. Ecco perché questa celebrazione è nella migliore delle ipotesi pura ipocrisia o, nella peggiore, cinica complicità con il business criminale».

Ecco gli abusi testimoniati: «Nei centri di detenzione di Tripoli le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Gli uomini ci hanno raccontato come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato – accusa la lettera- dossier di Msf – avevano le lacrime agli occhi e continuavano ripetutamente a chiedere di uscire da lì».

È la conferma del primo reportage televisivo di Amedeo Ricucci per la Rai di un anno fa, di quello della Reuters di questa estate, dei duri giudizi di Angelo Del Boca e Alex Zanotelli, del viaggio a Sabhrata dell’Associated Press (e di questi giorni della Frankfurter Allgemeine) che ha svelato come le milizie di quella città (e delle altre, costiere e non), istruite, finanziate e armate dai nostri servizi, cambino casacca. Diventando da trafficanti le milizie di controllo della disperazione dei migranti, gestendo volta a volta, viaggi micidiali a mare, traffici di esseri umani, torture, stupri e centri di detenzione.

Ma che il j’accuse di Medici Senza Frontiere non può stavolta essere nascosto e tacitato nel silenzio del potere e dei media contigui, viene anche dalla stessa Commissione europea, già in imbarazzo per quei reportage.

«I centri d’accoglienza in Libia sono prigioni – dice la Commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem già in Libia nel 2016 – e le condizioni in effetti sono atroci»; e anche Catherine Ray, portavoce di Federica Mogherini (Mister Pesc) ammette: «Siamo consapevoli, le condizioni di detenzione sono scandalose e inumane», ma l’Ue vuole «cambiare quelle condizioni» è per questo che «Unhcr-Onu e Oim vengono finanziate con 180milioni di euro». Si danno la zappa sui piedi e non se ne accorgono.

La risposta a questo patto criminale è stata finora in Italia una vergognosa esaltazione dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti che sarebbe stato capace di convincere la cosiddetta Libia. Ma quale? Se quello Stato non esiste più e che sono almeno quattro le parti in cui è divisa dopo la guerra della Nato, con interposti conflitti tra centinaia di clan e fazioni armate.

Una capacità di convinzione appoggiata col «patto di Parigi» anche da Germania, Francia e Spagna. Che, per tenere lontano il misfatto occidentale, autorizzano in Libia, in Ciad e in Niger l’istituzione di un sistema concentrazionario di lager purché i disperati non arrivino in Europa. Con l’aggiunta della «coperta di Linus» di un presunto controllo dei diritti umani da parte dell’Unhcr e dell’Oim.

Per una fase temporale che semplicemente dimentica di rispondere a questa domanda: che fine fa adesso quel milione di migranti e profughi intrappolati in Libia, in cammino nei deserti e senza più vie di fuga? L’importante è che la loro tragedia sia nascosta nella sabbia.

Minniti, manco a dirlo, ammirato a manca e più ancora a destra come astro nascente, ha trovato in quella occasione una schiera di inaspettati elogiatori: Gabanelli, Travaglio, Gramellini, ecc… E guai a criticarlo. Il presidente del Pd Matteo Orfini ha tuonato: «Chi lo critica è una sinistra salottiera»; e gli «antimperialisti» Pierferdi Casini e Nicola Latorre hanno addirittura subodorato l’ingerenza Usa per il petrolio libico. Siamo davvero curiosi di sapere che cosa dirà ora questo stuolo militante di ammiratori sulla pelle altrui.

Le conseguenze dell'esternalizzazoine dell'"accoglienza" in salsa europea. Articoli di Enrico Fierro da

il Fatto Quotidiano e Francesca Mannocchi da L'Espresso. 8 settembre 2017 (p.d.)


il Fatto Quotidiano
“TORTURE E VIOLENZE IN LIBIA
PAGATE PER METTERLI NEI LAGER”
di Enrico Fierro
«L’accusa a Italia ed Europa. Duro rapporto di Medici Senza Frontiere sui campi di Tripoli: “Chi aiuta i trafficanti, chi salva vite o chi consente di trattarle come merci?”»

È impietoso, documentato, offre soluzioni e all’Europa la possibilità di salvarsi la faccia di fonte al mondo. È il rapporto che Medici senza frontiere ha inviato ieri alla Ue e ai governi e che è sui tavoli di Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Italia ed Europa tirano un sospiro di sollievo per il calo drastico degli sbarchi, i migranti sono stati fermati in Libia, la “pancia” delle opinioni pubbliche europee soddisfatta. Ma a quale prezzo? La situazione dei campi per i profughi in Libia “è vergognosa”, i finanziamenti e le politiche europee “alimentano un sistema criminale di abusi”.

Medici senza frontiere ha trascorso un anno a Tripoli, ha curato e assistito i migranti, quello che operatori, medici e volontari hanno visto è agghiacciante. “Estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base” subiti da uomini, donne e bambini. In quei campi di detenzione, gestiti da milizie spesso contigue ai trafficanti di carne umana, “le persone vengono trattate come merce da sfruttare”. I racconti di esseri umani ammassati “in stanze buie e sporche, prive di ventilazione, costretti a vivere uno sopra l’altro”, sono da brividi. “Uomini costretti a correre nudi” nei cortili dei centri di detenzione fino all’esaurimento di ogni forza, “donne stuprate e costrette a chiamare le famiglie e chiedere soldi per essere liberate”. “La loro disperazione è sconvolgente”, commenta Msf. E allora, celebrate il calo degli sbarchi, ma “è pura ipocrisia, oppure, nella peggiore delle ipotesi, complicità con il business criminale che riduce gli esseri umani a mercanzia nelle mani dei trafficanti”. Attacco duro alla Ue e alle scelte del governo italiano da parte di una delle più stimate organizzazioni umanitarie a livello mondiale.

Msf non dimentica di essere stata attaccata, delegittimata, non dimentica che la Guardia costiera libica “finanziata dall’Europa ci ha sparato addosso”, e pone una domanda: “Chi è davvero complice dei trafficanti, chi cerca di salvare vite umane, oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci?”. Infine una domanda al capo del governo italiano Paolo Gentiloni: “Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù, è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?”. L’interrogativo, pesante e ineludibile, è sul tavolo della Ue e del governo italiano.

Quella di Msf non è l’unica denuncia sulle condizioni dei campi di detenzione in Libia e sulla particolare diplomazia anti-immigrati del governo italiano. Una interrogazione al Parlamento europeo tenta di squarciare il velo sui rapporti con le milizie e i trafficanti. Relatrice la deputata di Possibile, Elly Schlein, firmatari tanti deputati europei e molti italiani, tra questi Barbara Spinelli e Sergio Cofferati. I deputati vogliono sapere “quali misure si intenda assumere per assicurare che i fondi Ue non finiscano nelle mani delle milizie che gestiscono il traffico di esseri umani”. Si tratta di 46 milioni di euro stanziati per la formazione della Guardia costiera libica, per il controllo delle frontiere e il miglioramento delle condizioni di vita nei centri di detenzione. Tema, quello dei rapporti tra milizie, trafficanti e governi, soprattutto quello italiano, sollevato da una inchiesta dell’Associated Press, il 30 agosto scorso. Nel reportage si parla esplicitamente di un “accordo diretto” tra milizie libiche e governo italiano, soprattutto nella città di Sabrata, a ovest della Libia, uno dei porti da dove partivano i gommoni degli scafisti. Le milizie tirate in ballo sarebbero due, entrambe capeggiate da due fratelli, detti “i re del traffico”, della potente famiglia al Dabashi. Si tratta della Al-Ammu (500 combattenti e legata al governo Sarraj), e la Brigata 48, vicina al ministro dell’Interno. Un punto delicatissimo e che riguarda direttamente l’azione del governo italiano, ma che per il momento ha ricevuto solo una flebile replica dalla Farnesina: “Non trattiamo con i trafficanti”. L’opinione pubblica deve accontentarsi.

L'Espresso
LA COSTA DEI LAGER:
I CENTRI DI DETENZIONE DEI MIGRATI
IN LIBIA, DOVE NEANCHE L'ONU ENTRA
di Francesca Mannocchi

«In Libia ce ne sono ormai dozzine. Ufficiali, gestiti da milizie vicine al governo. E segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga. e tribù hanno capito che tenere i migranti sotto chiave è un guadagno proprio come farli partire».

Zawhia? «Appartiene alla Libia solo sulla carta, ma in realtà ha le sue leggi, è uno stato a se stante». Mahmoud ha quasi quarant’anni, lavora per una società che si occupa della sicurezza delle aziende straniere a Zawhia, città nella parte occidentale della Libia, a circa 50 chilometri dalla capitale Tripoli. Siamo nella parte di paese solitamente indicata come “controllata dal governo di al-Sarraj”, quello riconosciuto internazionalmente, ma che invece è in mano a milizie contrapposte e bande armate che si spartiscono tutti i traffici illegali, compreso quello dei migranti.

Anche per percorrere le cinquanta miglia che separano Tripoli da Zawhia è meglio andare in barca, via mare: in automobile è troppo pericoloso. La strada costiera, rimasta chiusa più di due anni per gli scontri tra milizie rivali, ora è di nuovo aperta, ma una delle tribù della zona, quella dei Warshafana, organizza check point improvvisati per rapire le persone - e naturalmente gli stranieri valgono di più.
Quando arriviamo al porto di Zawhia, intorno a noi il silenzio è irreale. Sul pontile ci sono una manciata di pescatori: puliscono le barche, rimettono in ordine le reti. Non c’è traccia della guardia costiera e non ci sono più i volti noti del contrabbando che qui era facile incontrare fino a poche settimane fa. Non c’è traccia nemmeno dei migranti africani, che prima affollavano il porto. Un uomo di Sabratha, città vicina e anch’essa tristemente nota per il traffico di uomini, sorride: «Se pensate che il traffico si sia davvero bloccato, siete solo illusi. I trafficanti si stanno solo riorganizzando. Molti di loro si stanno spostando nella zona di Garabulli, un centinaio di chilometri più a est. Alcuni stanno solo aspettando qualche settimana per riorganizzare i viaggi non più con i gommoni ma con le grandi navi di legno che contengono più migranti».
Lungo la strada che porta al centro di detenzione di Zawhia, l’autista ha mille occhi, si guarda intorno come se fossimo sempre sul punto di incontrare le bande armate. Che hanno le mani su qualsiasi cosa e gestiscono il centro di detenzione illegale della zona. Quello inaccessibile: sia ai giornalisti sia alla polizia sia alle organizzazioni umanitarie.
Nel centro di detenzione “ufficiale” sono rinchiuse circa 1.100 persone, quasi tutti uomini, divisi in gruppi da 100 o 200 persone per stanza. Una delle guardie apre il lucchetto della cella, e gli occhi dei ragazzi incrociano i nostri, in cerca di aiuto, in cerca di risposte. John è uno dei detenuti, viene dal Gambia. «Non viene mai nessuno qui, nemmeno le Ngo. Siamo completamente abbandonati. I libici ci trattano bene solo quando arriva qualche giornalista come voi, ma appena la porta alle vostre spalle si chiude noi torniamo ad essere meno che animali. E nessuno ci dice che ne sarà di noi, fino a quando staremo rinchiusi qui e perché». Accanto a lui c’è Alizar, 17 anni, eritreo, uno tra le centinaia di migliaia di minori che fuggono dai loro paesi da soli e restano incastrati nell’inferno libico. Alizar è orfano, non riesce a lasciare la Libia e comunque non potrebbe tornare nel suo Paese, perché in Eritrea la leva è obbligatoria anche per i ragazzi giovanissimi e lui ormai è un disertore. Se tornasse, sarebbe ucciso.
Lasciamo Zawhia alzando gli occhi verso la raffineria sullo sfondo, il fumo, la fiamma, che sono simboli della ricchezza del paese, verso un’altra prigione di migranti, quella di Surman. Da Zawhia dista pochi chilometri, ma bisogna percorrere strade secondarie per evitare check point e sottrarci alle milizie di zona: ce ne sono decine, specializzate nell’assaltare e rubare i mezzi blindati o nei rapimenti i locali. E poi ci sono le milizie islamiche: sono poche, nascoste, tuttavia molto pericolose.
Il centro di detenzione di Surman è un ammasso di cemento in mezzo al nulla. Dentro ci sono circa 250 tra donne e bambini. L’unica porta è chiusa a chiave da un lucchetto. In una stanza ci sono quattro donne stese a terra con quattro neonati: hanno tutte partorito nel centro di detenzione, nessuna di loro ha mai visto un dottore, nessuno le ha visitate, nessuno ha visitato i bambini. Non hanno niente: al posto dei pannolini usano delle coperte di lana, anche se è agosto, tenute addosso ai bimbi con dei pezzi di plastica.
Due bambini sembrano denutriti. La scorsa settimana, ci dicono, è morta una donna che aveva partorito un mese prima: ora il suo corpo è nell’ospedale di zona e nessuno sa che farne. Oggi di suo figlio, Bright, si prende cura Happiness, una ragazza, anche lei nigeriana, che ha attraversato il deserto insieme alla mamma del bambino. «Mentre stava morendo le ho promesso che mi sarei occupata io di Bright, ma come posso fare?», ci dice Happiness con il bimbo in braccio. «Qui non c’è latte, non ci sono medici, non viene nessuno ad aiutarci». Un’altra donna ci dice di aver perso le tracce di suo marito, arrestato con lei sulle coste di Zawhia. Un’altra racconta di aver viaggiato da sola nel deserto: ricorda la sete feroce, e di aver bevuto la sua pipì per sopravvivere. E ricorda di aver visto, lungo il cammino, scheletri di chi al deserto non è sopravvissuto. Questo è il destino cui sono condannati le centinaia di migliaia di migranti intrappolati in Libia.
In quasi tutti i centri di detenzione libici le organizzazioni umanitarie e i funzionari internazionali delle Nazioni Unite non possono arrivare per ragioni di sicurezza. Non arrivano dottori, non arrivano assistenti. Non arriva nessuno.
In una spiaggia lungo la costa tra Zawhia e Sabratha incontriamo un uomo che chiameremo Khaled: parla volentieri, qui lontano da orecchie indiscrete, ma preferisce non rivelare la sua identità per ragioni di sicurezza. «Tutto ha un prezzo qui in Libia, tutto si paga», dice. «I migranti erano un affare quando i trafficanti dovevano organizzare i gommoni per farli arrivare in Italia e sono un affare anche oggi che devono essere trattenuti qui con la forza. Parliamo di milioni di dollari. Secondo voi i trafficanti libici interrompono le partenze perché il ministero dell’interno italiano blocca le navi umanitarie lungo le coste? I trafficanti interrompono le partenze solo in cambio di soldi». Khaled riferisce poi di un incontro segreto tra alcuni uomini dell’intelligence italiana e i capi delle principali milizie di Zawhia e Sabratha: per la “sicurezza delle coste” le milizie avrebbero chiesto cinque milioni di dollari, e nella trattativa la milizia Anas Dabbashi, che già controlla la sicurezza del compound Mellitah Oil e Gas, avrebbe chiesto un hangar proprio a Mellitah dove basare il proprio quartier generale.
Altre fonti ben informate di Tripoli, riferiscono di numerosi incontri nella parte orientale della capitale libica tra i servizi italiani e le milizie che gestiscono la sicurezza della città, Nawasi e Tajouri. Le milizie avrebbero chiesto di garantire il blocco delle partenze, dietro il pagamento di una quota giornaliera a migrante.
La situazione economica nella Libia “di Serraj” del resto è al collasso. Un dollaro al cambio ufficiale vale un dinaro e mezzo, al mercato nero nove dinari, anche dieci. I libici non possono prelevare più di duecentocinquanta dinari ciascuno, al mese. Poco più di venticinque dollari. Anche le banche sono in mano alle milizie, sono le bande a decidere chi può avvicinarsi ai bancomat. Subito dopo la rivoluzione i nuovi deboli apparati statali avevano cercato di smobilitare e contemporaneamente premiare i combattenti che avevano rovesciato il regime: così anziché dissolversi le milizie hanno conquistato autonomia, potere e i soldi e le armi libiche sono diventate un piatto ricco, cui le bande più potenti hanno attinto indiscriminatamente.
Nella capitale, Tripoli, i gruppi armati si dividono tra chi sostiene e chi si oppone al governo di Sarraj. Tra i primi, le milizie più potenti sono le forze Rada, gruppo salafita di Abdel Rauf Kara, che ha il quartier generale nell’aeroporto di Mitiga, le milizie Nawasi che si occupano della sicurezza del primo ministro e la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la più grande nella capitale, guidata da Haitham Tajouri. Questo Tajouri è un signore della guerra, ha interessi economici enormi in città, i libici raccontano che quasi tutte le filiali delle banche della capitale siano controllate dai suoi uomini.
Lo scorso maggio Tripoli è stata teatro di violenti scontri tra milizie rivali per il controllo del mercato nero della valuta. Negli scontri tra le brigate Nawasi, in possesso degli uffici della società Libyana (poste e telecomunicazioni) nella parte ovest della città, e la brigata Ghazewy, presente nella città vecchia è morta una donna e diversi sono stati i feriti.
Le milizie non dominano solo la vita economica del paese: ne determinano anche la vita politica. Lo scorso maggio la brigata Nawasi ha attaccato il ministero degli esteri del governo Sarraj, accusando il ministro Mohamed Taher Sayala di aver rilasciato una dichiarazione troppo amichevole nei confronti del nemico Haftar. Sempre gli uomini della brigata Nawasi meno di un mese fa hanno fatto irruzione nell’ufficio del capo della sicurezza della Guardia Costiera Libica, Tareq Shanboor, accusato di aver criticato le decisioni italiane in Libia.
Shanboor stava lavorando come ogni giorno, quando una decina di uomini armati è entrata nel suo ufficio dicendo: vattene per sempre e senza ribellarti, da oggi l’ufficio sarà gestito sotto la nostra autorità. Hisham - un impiegato di una banca di Tripoli - ci spiega che ha impedito alla figlia maggiore di andare all’università: ha paura che gli uomini delle milizie la rapiscano. Solo a giugno e nella capitale i rapimenti sono stati più di cento, quasi duecento le rapine a mano armata. «Non guardate questa città da lontano, come fosse una cartolina», ci dice Hisham. «Se la guardate da lontano la vita sembra scorrere normalmente, ma qui la sicurezza è un miraggio, viviamo nel terrore, siamo tutti sotto il ricatto delle milizie. Tutti, cittadini e governo. La rivoluzione è stata una bolla, un’illusione. Il prezzo del pane e della frutta è cinque volte quello di pochi mesi fa, la gente non sa più cosa vendere. Ormai tutto è in mano a bande armate».
Questa è la Libia in cui l’Europa e l’Italia cercano di bloccare i migranti. «I trafficanti fermeranno le partenze per un mese, forse due. Hanno chiesto soldi, ne chiederanno ancora. È il prezzo che i vostri paesi pagano per non accogliere migranti», ci dice il nostro accompagnatore Mahmoud, mentre guarda il mare. E a voce bassa aggiunge che al posto di Gheddafi, ora ci sono centinaia di piccoli Gheddafi. Durante il regime del dittatore la vita era come anestetizzata, senza gioia e senza odore. Oggi, invece, nel regime delle milizie, la vita puzza e basta.

il manifesto, 7 settembre 2017

L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza. Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati. Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa. Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.

Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti. Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali. Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto. E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.

Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso. Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.

Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia. Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani. Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.

Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese. Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.

Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati. Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci. Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.

Un' ulteriore degenerazione della cooperazione internazionale ormai destinata alla gestione dei flussi migratori. Sparita anche la retorica della sradicazione della povertà e della sostenibilità. L'Occidente si rivela per quello che è: rapace.

il manifesto 31 agosto 2017 (i.b.)

Gli accordi di Parigi sulla gestione dei flussi migratori nei Paesi del nord Africa sancisce una nuova cornice geopolitica. Nell’ambito del lungo periodo della Guerra fredda, in cui gli Stati africani ottennero o si conquistarono l’indipendenza dal giogo coloniale, nacque la cosiddetta Cooperazione allo sviluppo, uno strumento geopolitico sostanzialmente volto a coprire, con la retorica sviluppista, la necessità dei due blocchi di spartirsi le risorse africane, e non solo, imponendo, al posto delle tanto decantate democrazie, i «loro figli di puttana», secondo la celebre definizione che Roosevelt diede del dittatore nicaraguense Somoza. Un caso tra tutti, il più emblematico perché poi riprodotto serialmente con la copertura ed il sostegno sia dell’Est sia dell’Ovest, è quello del Congo, in cui l’assassinio del giovane ed indipendentista Primo ministro Lumumba segnò l’avvento della lunga e sanguinaria cleptocrazia di Mobutu, inaugurando i termini reali del paradigma di «sviluppo» che si voleva imporre.

Eppure, in quel contesto, proprio per affermare la supremazia del modello occidentale contro quello del socialismo reale sovietico, e viceversa, si arrivò ad investire nel sostegno alle popolazioni africane sino allo 0,5% del Pil, con risultati certo deludenti dati gli obiettivi chiaramente neocoloniali, ma anche con la creazione ed il sostegno, in special modo da parte delle Ong di sviluppo, allora ci si definiva così, di una società civile africana consapevole del proprio ruolo nel Continente e nel mondo. Basti ricordare l’altezza di leader come Kenyatta, Nyerere, Sankarà, e dei dibattiti che allora si confrontavano sulle loro idee, come pure analizzare le cifre, irrisorie, degli spostamenti di popolazione africana nei decenni dagli anni Sessanta agli Ottanta. Poi, con il crollo del muro di Berlino, l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo venne meno perché il nemico sovietico era stato sconfitto e non c’era più bisogno di convincere ma semplicemente di vincere.
Si entra così nella fase in cui nasce il WTO contro l’Onu, ed il libero commercio mondiale diviene il nuovo paradigma universale. Le conseguenze delle disparità tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, cominciano ad acuirsi ed i flussi di popolazioni ad aumentare. Si arriva poi ai giorni nostri in cui il bioliberismo, cioè la biopolitica come forma costitutiva del liberismo, dopo aver normalizzato i movimenti sociali e messo in crisi le esperienze alternative latino americane, cerca di dare la spallata finale alle idee socialiste acuendo una divisione internazionale del lavoro di enormi proporzioni. È questo che sta condannando l’Africa, non a caso il continente con maggiori diseguaglianze e assenza di Diritti umani, ad essere sempre più un fornitore netto di materie prime strategiche, dal coltan al petrolio, dagli esseri umani al legno. Qui giocano oramai indisturbati, al riparo da movimenti sociali di una qualche forza, gli Usa, la Cina, quel che resta dell’Europa e le elites locali.

Ecco allora che a Parigi, Francia, Italia, Germania, cercano di riprendersi una fetta di influenza imponendo politiche para-coloniali e paramilitari a governi inesistenti come quello libico, o lasciando indisturbati quelli «amici» che non hanno nessuna intenzione di rispettare i Diritti umani, ma solo di assicurarsi il mantenimento di quel potere che hanno conquistato a suon di repressone e mazzette occidentali. Il solo evidenziare che gli accordi di Parigi siano stati in primis gestiti dai ministri degli Interni e che la cooperazione allo sviluppo, o quello che ne rimane, sia una componente chiaramente accessoria e residuale, inaugura una fase in cui gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, approvati all’unanimità dalle Nazioni Unite nell’ormai lontano 2015, e che prevedevano l’impegno dello 0,7% del Pil a sostegno di target quali l’eradicazione della povertà, il sostegno ai Diritti umani, la parità di genere, l’accesso all’acqua per tutti, alla salute e all’istruzione in un quadro globale di rispetto dell’ambiente, non vengono neppure nominati. Una regressione culturale e politica grave dunque, in cui gli interessi di una parte, quella già ricca della popolazione europea ma anche africana, vengono fatti prevalere su quella, maggioritaria, destinata a restare fuori dal supermercato globale o, alla meglio, ad entrarci solo come merce.

Siamo in realtà in una lunga campagna elettorale europea in cui Stati e governi in difficoltà crescente sperano di riacquistare crediti imponendo muri sempre più distanti, affinché i problemi legati alla migrazione, all’integrazione, ai cambiamenti culturali e climatici, all’esclusione sciale, restino fuori dalla percezione dell’opinione pubblica o vengano attribuiti all’invasione dei migranti. Eppure, in queste giornate calde, devastate da incendi e da scarsità di acqua, dovrebbe essere chiaro che tutto è collegato e che soprattutto, respingendo i profughi economici, oltre a quelli politici, non si fa che mettere la cenere sotto un tappeto oramai logoro e sporco, sporco come le coscienza dei leader che si stringono le mani creando così ponti di interessi che sanno essere in contrasto anche tra loro, perché così facendo si brucia e consuma, oltre all’ambiente, un’altra risorsa cui non si può rinunciare: la solidarietà umana.
* L’autore è Presidente Terre des Hommes
Trasformiamo in lager buona parte del continente africano, finanziamo milizie mafiose, reprimiamo i migranti e trasformarli in carne viva da vendere. Come non definire colonial-criminale questa politica, in cui si spende Marco Minniti? Articoli di Domenico Romano, Tommaso Di Francesco e un'intervista ad Alex Zanotelli.

il manifesto, 31 agosto 2017

«ACCORDO TRA L’ITALIA E LE MILIZIE
PER FERMARE I MIGRANTI IN LIBIA»
di Domenico Romano

«Patto criminale. L’agenzia Ap: “I servizi italiani trattarono con i trafficanti. Poi lo stop alle partenze”»
Dietro la forte diminuzione di sbarchi nel nostro Paese potrebbe esserci un accordo siglato dal governo italiano direttamente con due milizie libiche coinvolte nel l traffico di esseri umani. A rivelarlo è una lunga e dettagliata inchiesta dell’agenzia americana Associated press che cita numerose testimonianze, tra le quali anche quella di un portavoce di una delle due milizie.

«Non c’è nessun accordo tra il governo italiano e i trafficanti», ha smentito ieri una nota della Farnesina, mentre da Bruxelles una portavoce dell’esecutivo europeo ha rifiutato di commentare le notizie in arrivo dalla Libia: «Suggerisco di chiedere alle autorità italiane», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti. «Quando si tratta di fondi europei – ha poi sottolineato la portavoce -, sono soggetti a controlli molto stretti, con destinazione molto chiara. Noi continuiamo a seguire le regole, come facciamo sempre».

La scorsa settimana era stata un’altra agenzia di stampa, la Reuters, a riferire di una milizia denominata «Brigata 48» che a Sabrata impedisce ai barconi carichi di migranti di prendere il mare. Sabrata è ormai da tempo uno dei principali punti di imbarco per i disperati che dalla Libia tentano di raggiungere l’Italia. Secondo la Reuters la milizia, formata da «agenti, militari e civili», in cambio del suo lavoro riceverebbe finanziamenti direttamente dal governo di Tripoli guidato dal premier Fayez al Serraj (nella foto con Minniti e Gentiloni).

Notizie che adesso troverebbero conferma nell’inchiesta condotta in Libia dall’Ap. Due, secondo l’agenzia americana, le milizie coinvolte: oltre alla già citata «Brigata 48» anche un’altra denominata «Al Ammu», il cui nome ufficiale sarebbe «Brigata del martire Anas al-Dabashi». Quest’ultima dal 2015 si occuperebbe della sorveglianza dell’impianto petrolifero di Melitah che l’Eni gestisce insieme alla National oil corporation (Noc) libica. Entrambe le milizie avrebbero base a Sabrata e sarebbero guidate da due fratelli appartenenti al clan dei Dabbashi che controlla la città.

L’Ap ricorda come nello scorso mese di luglio gli arrivi lungo le coste italiane siano notevolmente diminuiti rispetto all’anno passato, tendenza confermata ad agosto con appena 2.936 sbarchi rispetto ai 21.294 del 2016. «Una diminuzione dell’86%», spiega l’agenzia, che attribuisce la flessione in parte alle condizioni del mare e all’attività della Guardia costiera libica ma, soprattutto, «all’accordo con le due più potenti milizie della Libia occidentale».

A sostegno delle sue affermazioni l’agenzia cita almeno cinque funzionari della sicurezza e attivisti di Sabrata che confermano il coinvolgimento delle milizie nel traffico di uomini. Un funzionario arriva a descrivere i fratelli Dabashi come «i re del traffico» di esseri umani a Sabrata. «Nel suo ultimo rapporto di giugno – scrive inoltre l’Ap – le Nazioni unite hanno indicato la milizia al Ammu come il principale agevolatore del traffico di esseri umani».

Secondo quanto affermato da Bashir Ibrahim, definito dall’Ap come il portavoce di al-Ammu, due mesi fa le milizie avrebbero raggiunto un accordo «verbale» con il governo italiano per fermare le partenze dei migranti e da allora avrebbero impedito la partenza delle imbarcazioni imponendo anche alle altre organizzazioni criminali di interrompere il traffico. «Come contropartita ricevono attrezzature, barche e stipendi», ha spiegato Ibrahim, secondo il quale in questo momento sarebbe i atto «una tregua» destinata a durare finché durano i sostegni alle milizie. «L’integrazione ufficiale delle due milizie tra le forze di sicurezza di Serraj – scrive l’Ap – permetterebbe all’Italia di lavorare direttamente con loro visto che non sarebbero considerate come trafficanti ma parte del governo riconosciuto».

Secondo alcuni attivisti di Sabrata intervistati dall’Ap l’Italia avrebbe gestito l’accordo saltando il governo Serraj e inviando agenti dei servizi in Libia a trattare direttamente con i capi delle milizie. «I trafficanti di ieri sono la forza anti-traffico di oggi», ha detto un poliziotto che ha preferito mantenere l’anonimato. «Quando la luna di miele tra i trafficanti e gli italiani finirà ci troveremo in una situazione pericolosa» ha aggiunto il funzionario spiegando come le forze regolari non siano sufficientemente armate per affrontare le milizie. «Un portavoce del governo italiano- conclude l’Ap – ha detto che l’Italia non commenta notizie che riguardano i servizi segreti»


ZANOTELLI: «PER RAZZISMO E LINEA MINNITI
SAREMO GIUDICATI DALLA STORIA»


Rachele Gonnelli intervista Alex Zanotelli

«Intervista a padre Alex Zanotelli. Il missionario: Le ong colpite per presunte collusioni con i trafficanti con cui ora è il governo a stringere patti L’accordo per bloccare chi fugge da guerra e torture in Libia è criminale»

«Un giorno diranno di noi e di ciò che stiamo facendo sui migranti ciò che noi diciamo sui nazisti e sulla Shoah». Padre Alex Zanotelli si è svegliato male ieri e ha iniziato così la giornata, con una sorta di scomunica, se non fosse che è un missionario e non un papa. «Sì, sto male – ammette come un fiume in piena – sono arrabbiatissimo, mi fa star male ciò che sento, specialmente questa guerra contro le ong perché, si diceva, facevano accordi con i trafficanti e ora invece è il governo a fare accordi con i trafficanti. Si resta a bocca aperta, sono esterrefatto, bisogna reagire, meno male che c’è papa Francesco ma non basta, chiedo a tutti i missionari e i sacerdoti di schierarsi, di fare di più».

I paesi forti dell’Europa hanno approvato la linea italiana di fermare i migranti in Libia e prima ancora in Ciad e Niger. Cosa prevede che succederà?

«È dall’anno scorso che, Renzi prima, con quello che venne chiamato l’Africa compact, e Gentiloni poi, il governo italiano cerca di copiare l’accordo con Erdogan per sigillare anche la rotta africana come già quella balcanica. È un atto criminale su cui un giorno verremo giudicati dal tribunale della Storia. Anche il caso Regeni è connesso con questa politica di esternalizzazione delle frontiere, come la chiama Renzi».

Come c’entra il caso Regeni con l’accordo con la Libia del premier Serraj?

«C’entra perché quando si parla di Libia si deve ricordare che lì non c’è uno Stato sovrano, ma una situazione caotica, di guerra e violenze, scatenata tra l’altro proprio dall’intervento militare di Francia e Italia in quella guerra assurda del 2011 contro Gheddafi. Ora, vista l’estrema debolezza del premier di Tripoli Serraj, è chiaro che bisogna tener buono il generale Haftar, perché non si sa mai con chi fare accordi, chi prevarrà, quindi visti i legami di Haftar con l’Egitto di al Sisi si manda l’ambasciatore al Cairo. Anche Regeni fa parte del grande gioco dell’Europa in Africa. Questo accordo con la Libia è peggiore di quello con Erdogan, che pure è un dittatore, perché in Libia ci sono solo milizie che si combattono e queste milizie possono essere benissimo imbrigliate con la mafia o la camorra. C’è un problema di legalità enorme».

La base legale è ancora l’accordo sulla detenzione dei migranti fatto da Berlusconi con Gheddafi.

«Sì, è un misto di ironia e ferocia quasi machiavellico. Il problema è che sappiamo bene cosa succede a chi resta bloccato in questa Libia. Tutte le testimonianze parlano di stupri, torture, schiavitù. E in ogni caso la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sul rispetto dei diritti umani. Perciò siamo alla criminalità pubblica, istituzionale».

Paolo Mieli pur riconoscendo che si utilizzano personaggi equivoci delle milizie di Sabratha e tra i capi tribù spacciati per sindaci del Fezzan, definisce provvidenziale la linea Minniti di bloccare i migranti in Libia e a sud della Libia.

«Si vuole utilizzare soprattutto il Ciad, che tra i due paesi del Sahel interessati è quello più forte militarmente, per bloccare i migranti nel deserto prima del loro arrivo in Libia. Non ce la faranno, sfonderanno altrove. Magari riusciranno a rallentarli un po’ e così vinceranno le elezioni ma questo è quanto. Già adesso sono aumentati gli arrivi in Spagna. Si apriranno altre rotte, è ovvio. Non si può fermare chi fugge da guerre e situazioni terribili e terrificanti. E hanno diritto a scappare, mentre l’Europa, cioè noi abbiamo il dovere, in base a tutte le convenzioni dell’Onu, di accoglierli».

Minniti spiega di essere motivato a salvaguardare la tenuta democratica del Paese.

«Già i suoi decreti mi facevano star male poi questa affermazione…sono rimasto a bocca aperta, non so chi pensi di essere. Ma posso capire la real politik del governo, mi fa più male il silenzio della chiesa di base. Se non è la coscienza critica non so a cosa serva, fortuna che c’è papa Francesco ma non basta ed è la prima volta che lo sprone viene dall’alto. Mentre l’odio è scatenato, il razzismo sta crescendo, ci inonda, indotto da molti fattori ma soprattutto dal fatto che non vogliamo accettare che il nostro benessere, il nostro stile di vita, per cui il 10% del mondo consuma il 90% delle risorse, non può più continuare. E noi andavamo bene con le adozioni dei negretti a distanza, ma quando l’adozione è a vicinanza non va più bene, disturba».

LO STILE COLONIALE DI MINNITI
di Tommaso Di Francesco

Che arriva dal patto di Parigi di quattro Paesi decisivi per i destini dell’Ue? Niente di concreto e niente di vero. Solo uno stile coloniale, confermato dalle ultime dichiarazioni di Minniti: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Smentito ieri clamorosamente dal ministro della giustizia Orlando. Quindi trasformiamo in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? In realtà finanziando milizie mafiose, come rivela un veridico reportage dell’aurorevole Ap, per reprimere i migranti. Come non definire colonial-criminale questo lessico e questi intenti?

Da Parigi dunque solo l’evidenza di una pervicace quanto elettorale volontà di dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale, il fenomeno epocale delle migrazioni, quelle dei rifugiati da guerre e persecuzioni e quelle da miseria.

E nonostante sia eguale questa condizione, invece con infinita perfidia si è ribadito a Parigi per bocca di Angela Merkel la nefasta distinzione che relega i cosiddetti «migranti economici» in un limbo di morte.

Perché niente di concreto? Lo ha ribadito anche la rappresentante della politica estera Ue Mogherini: non ci sarà alcuna promessa di piano Marshall per l’Africa «già spendiamo – ha spiegato – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…». Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati direttamente e indirettamente con il commercio di armi in tante guerre, e dal quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre, per affari che rimpinguano il nostro interscambio commerciale e i bilanci delle multinazionali, lo scambio ineguale che proponiamo è «addirittura» di 20 miliardi di euro all’anno più varie centinaia di milioni per le operazioni di contenimento vere e proprie.

Tutti finanziamenti che finiscono per la maggior parte nelle mani predatorie delle leadership locali corrotte (anche da noi). Una somma – con le chiacchiere sui «limiti di Dublino», e sulla presunta «perfezione» del ruolo dell’Italia» – che, com’è chiaro, non può essere sufficiente allo sforzo che si annuncia. Che intanto propone centri di identificazione in Africa, con tanto di coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Oim.

Ma che fine farà subito quel milione di profughi che in questo momento è rimasta intrappolata in territorio libico? Dice il governo Minniti-Gentiloni che ci penseranno i «sindaci» delle città costiere libiche, la guardia costiera libica e forze militari che la Francia metterà a disposizione in Niger e Ciad (paesi le cui economie sono nelle mani di Parigi e si rifletta sull’assenza-presenza del Mali dove è in corso un intervento militare francese).

Per la conoscenza che abbiamo della Libia e sulla base di veridici reportage, prima della Reuters e ieri dell’Ap – che preoccupano la stessa Ue per i quali il governo italiano si trincera dietro un «non commentiamo le operazioni dei Servizi» – vale la pena ripetere che le città libiche, della costa e non, altro non sono che potentati e clan locali spesso legati ad una storia di jihadismo estremo. E che la cosiddetta guardia costiera spesso cambia casacca e si trasforma nella milizia di questi potentati. Che, come a Sabrhata, spesso si spartiscono anche il lucroso traffico di migranti, controllando relativi e spaventosi centri di detenzione dove non entrano i diritti umani.

Ora tutte queste forze di controllo sono impegnate da noi, dopo la campagna vergognosa di colpevolizzazione delle navi umanitarie delle Ong, sia contro i profughi sia contro le Ong rimaste uniche e sempre in minor numero a soccorrerli in mare.

Perché niente di vero? Si parla di Europa, ma sono solo quattro Paesi che, se pur centrali, sono stati continuamente contraddetti in questi tre anni fra loro e da tutti gli altri, da quelli dell’Est e dall’Austria. E poi si parla di «Libia» e di «autorità libiche», ma Fayez al Serraj chi rappresenta? Le Libie sono tante, dopo la devastazione della guerra a Gheddafi, e tutte in conflitto fra loro. Lo ha insediato la nostra Marina, ora gli arriverà – ma a lui solo o anche al signore della guerra della Cirenaica Khalifa Haftar e agli altri clan del Fezzan? – anche un pacchetto di milioni di euro.

Del resto questo scambio «per la democrazia» è già accaduto per l’altro interlocutore fondamentale dell’Occidente, il Sultano Erdogan, che ha appena finito di essere il santuario delle milizie jihadiste dell’Isis ed è impegnato in un repulisti violento contro ogni opposizione; o come l’altro leader sponsorizzato dall’Italia, il presidente golpista egiziano Al Sisi. Naturalmente e subito nel pieno disprezzo del diritto-dovere all’accoglienza e alla normalizzazione dei flussi: questo un governo democratico dovrebbe fare, non rincorrere le pulsioni razziste.

E di fatto trasformando la Libia e ora anche Niger e Ciad in un grande campo di concentramento. Un fatto è certo: piuttosto che attenti al numero di morti a mare, nella grande fossa che è diventata il Mediterraneo, valutiamo la riduzione degli arrivi con un occhio ai sondaggi, meno il 46% in estate ma solo meno 6% in un anno. Disperazione e vittime non si devono vedere. Né si deve dire che se fortunatamente i morti diminuiscono, i flussi no.

Ora li «concentriamo» tra sponda libica a confini a sud del Sahara, armando milizie e facendo le sentinelle su un percorso di 5mila chilometri? Meglio se il misfatto avviene nel grande deserto a sud della Libia e nel Sahel, lontano da telecamere e coinvolgimenti diretti, ma con tanto di timbro dell’Onu, la coperta di Linus buona per tutte le stagioni. È in quel deserto che, adesso, stiamo ricacciando milioni di persone alla disperata quanto impossibile ricerca di una nuova, mortale, via di fuga.

L'ENI coinvolta negli ignobili traffici degli schiavisti e dei capibanda della criminalità internazionale. Scenario, i «fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri».

il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2017

«5 milioni di euro - I soldi erogati alle milizie coinvolte anche nella sicurezza degli impianti Eni. Ed è un accordo solo provvisorio»

Questione di punti di vista. La linea del governo sull’immigrazione piace alla Merkel e a Macron, non dispiace in Italia all’opposizione ed entusiasma la nostra stampa, che ne canta i numeri: sbarchi calati del 72%, scafisti in ritirata, Guardia costiera libica arrembante e adesso perfino umanitaria, avendo trasferito ben diecimila migranti intercettati in mare in “campi di accoglienza”. Vista dalla Libia la situazione quantomeno sconta un problema di traduzione.

Lì sono invece chiamati “campi di detenzione”, trattandosi in effetti di fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri. E la “lotta agli scafisti” in arabo più o meno suona come una formula sarcastica, tipo “comprare una breve tregua dagli scafisti, e dopo chissà”, che potrebbe corrispondere ai misteriosi accadimenti recenti sulla costa tra Sabrata e Zawiya.

Lungo un centinaio di chilometri a ovest di Tripoli, quel tratto di litorale è in relazione con l’Italia per due motivi: ospita il terminal Eni ed è il principale pontone degli scafisti, quello da cui parte il maggior numero di imbarcazioni dirette alla Penisola.

Queste due funzioni si intersecano – ricavo da un puntiglioso reportage pubblicato da Middle East Eye e non smentito dagli interessati. Infatti la Mellitah Oil and Gas (una joint-venture tra Eni e Noc, la compagnia statale libica, che gestisce concretamente le attività in loco) ha affidato la guardiania del terminal e dell’annesso compound alla milizia di Ahmed Dabbashi; quest’ultima sarebbe da anni nel traffico di esseri umani, al pari di un altro contractor di Noc, la milizia di Mohammed Kashlaf, anch’essa nel giro delle guardianie petrolifere. Il terzo mammasantissima è il comandante al-Bija, capo dei guardacoste, citatitissimo nei rapporti di Human Right Watch e della missione Onu al Consiglio di sicurezza.

Intorno a queste tre figure si serra la razionalità dell’economia locale. Le milizie arrestano e depredano i migranti arrivati sulla costa, sistematicamente i neri, e li stipano nei centri di detenzione, statali o “privati” (un luogotenente di Kashlaf, l’ex colonnello Fathi al-Far, fino a ieri controllava il lager di Zawiya). Prigionieri e alla fame, per racimolare i soldi necessari a pagare il viaggio in Europa i migranti sono costretti ad accettare le condizioni dei loro custodi, che li affittano come lavoratori-schiavi spesso al settore petrolifero. Questo calvario può durare anni. Al termine i migranti ottengono il diritto a imbarcarsi, per un prezzo che include tanto la traversata quanto la mazzetta per il comandante al-Bija, altrimenti implacabile nell’intercettare natanti non autorizzati (da lui).

Perché d’improvviso milizie e guardacoste ora sorvegliano la costa e impediscono le partenze (non tutte)? Sono arrivati medicinali per l’ospedale di Sabrata. Ma soprattutto, spiega Middle East Eye, l’Italia ha accordato incentivi alle milizie, pare per 5 milioni di euro. La milizia di Kashlaf avrebbe chiesto ai nostri servizi segreti un hangar per custodire l’autoparco e per gli uffici: l’ha avuto.

Come insegna l’Afghanistan, i miliziani puoi affittarli per un po’ ma non comprarli per sempre. Sulla costa si dà per certo che l’accordo reggerà un mese, grossomodo fino alle elezioni tedesche. Magari la tregua durerà un po’ di più, ma finirà.

Nel frattempo pare improbabile che gli europei si affanneranno a permettere all’Alto commissariato per i rifugiati di accedere ai campi di detenzione e valutare il diritto di ciascun prigioniero a ottenere protezione internazionale: sia perchè quegli sventurati in Europa nessuno li vuole, sia perchè le milizie potrebbero reagire male se le privassimo di un’altra fonte di reddito.

Potremmo pagare per compensare i mancati profitti: ma quanto e per quanto? Avendo capito come butta, con un giornalista suo estimatore, il generale Haftar si è detto disponibile a risolvere il problema di flussi e migranti in cambio di 20 miliardi di euro, venti volte quello che Erdogan finora ha incassato dall’Ue. Nei territori controllati dai suoi lanzichenecchi Haftar fa torturare a morte gli oppositori e protegge un suo luogotenente ricercato dalla Corte penale internazionale.

Per tutto questo non è affatto escluso che la linea intrapresa dal governo produca un disastro umanitario made in Europe. Il ministro dell’Interno Marco Minniti finora si è dimostrato abile (e spregiudicato, anche se non credo che la figura dello sceriffo law and order gli corrisponda). Ha riattivato la politica estera italiana in Libia, per giunta adesso finanziata dalla Ue; ridotto il numero degli affogati; arginato flussi migratori che qualsiasi al-Sisi del Mediterraneo poteva usare per ricattarci. Ma né Minniti né alcuno in Europa sa come risolvere due problemi enormi: come estrarre dalla Libia 150 mila migranti, come stabilizzare un Paese prigioniero delle milizie. Su questo scacco forse dovremmo iniziare a riflettere piuttosto che raccontarci balle.

: «Era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo». il Fatto quotidiano, 30 agosto 2017

Bene, riassumiamo le linee etico-strategiche della nuova politica sulla migrazione dall’Africa. Noi non siamo capaci di fare gli hot spot di identificazione in modo decente. O fanno schifo con un cesso per seimila persone, o chi li gestisce ci specula sopra come una specie di schiavista, o c’è un giro di mazzette, o tutte e tre le cose. Quindi il nostro geniale piano è di spostare tutte queste belle cose verso sud, e che se la vedano un po’ loro. Naturalmente non è un servizio gratuito: bisogna dare qualcosa a chi si prende questa briga, la Libia, il Ciad, il Niger. L’abbiamo già fatto con il signor Erdogan, che incassa dei bei soldi per fare da tappo alla migrazione da sud-est, dalla Siria in particolare.

Certe cronache plaudenti si esaltano per numeri dell’aiuto europeo all’Africa, e alla Libia in particolare: già pronti 170 milioni! Urca! È un po’ come dire: mi compro una villa al mare e ho già pronti 27 euro e mezzo.

Dunque i migranti, i disperati, uomini e donne che attraversano mezzo mondo verso nord nella speranza di mangiare tutti i giorni, o di non essere arrestati dal regime, o di non dover fare il militare a vita come in Eritrea, hanno un buon valore di scambio, diciamo paragonabile a quello del petrolio e delle materie prime. È un affare far arrivare il gas in Italia, ed è un affare non far arrivare i migranti.

Naturalmente tutto questo prevede un aggiustamento delle rotte, delle strategie per spostare grandi carichi di persone. Insomma cambia la logistica dello schiavismo, e per ora gli accordi di Parigi sono questo, niente di più: era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo e non sentiamo quel disagio di veder crepare la gente sotto casa. Se si espellono dal vocabolario parole come “etica”, “morale” e “umanità”, va tutto benissimo (si attende con ansia la pubblicazione di un vocabolario Italiano-Minniti). In ogni caso, sia chiaro, alle vite di quelli che prima morivano o venivano ripescati nel Mare nostrum e che ora rischiano la pelle nel Sahara, non frega niente a nessuno, sono numeri, statistiche, flussi da bloccare. La distinzione tra migranti politici e migranti economici – che a Parigi è stata molto sottolineata – è ormai accettata dalla politica di ogni colore, come se la situazione economica di un paese che non riesce a dar da mangiare ai suoi cittadini, costringendoli a rischiare la vita per scappare da lì, non fosse una questione politica, che scemenza. Insomma, l’Europa mette un tappo – un altro – per difendere i suoi confini da quella clamorosa fake news che si chiama “invasione”, una parola prima rumorosamente inventata dalla destra xenofoba e leghista, poi sdoganata dai media, e ora praticamente diventata verità ufficiale anche se i numeri dicono il contrario. Naturalmente siamo tutti contenti se i cittadini di Sabrata, in Libia, avranno un laboratorio per analisi mediche, ovvio, e se Zwara avrà la sua rete elettrica costruita dall’Europa, benissimo, molto bene.

Si segni a verbale, però, che tutto questo sarà (forse, speriamo che le pompe idriche a Kufra vengano fatte con più efficienza delle casette per i terremotati del centro Italia, ecco) costruito sulle spalle di centinaia di migliaia di migranti internati in lager libici, o morti di sete nel deserto, o arrestati prima della partenza. Il piano europeo di Parigi sottolinea anche l’esigenza di “fare opera di pedagogia” (questo l’ha detto Macron), cioè spiegare bene (suggerirei delle slide) a gente che mette in gioco la sua vita, che fa viaggi di anni, che viene picchiata, incarcerata, derubata, violentata e torturata ad ogni tappa, che qui non li vogliamo. Una pedagogia del “sono cazzi vostri”, insomma, salutata come una grande vittoria europea sul fronte dell’“emergenza immigrazione”. Amen.

«Folla alla celebrazione nella parrocchia di Vicofaro dopo le polemiche sui migranti. La formazione di destra accolta dai fischi». Resoconto agro-dolce d'un bell'episodio d'accoglienza praticata e d'antirazzismo corale.

Avvenire, 27 agosto 2017

Don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro, a Pistoia, nel mirino dell’estrema destra per le sue aperture generose verso gli immigrati, che nei giorni scorsi ha accompagnato in piscina scatenando anche le ire di Salvini, ha due prerogative vincenti. Innanzi tutto è un uomo di grande simpatia, poi ha una stazza da lanciatore di peso, più di un metro e novanta per circa un quintale di peso. La prima caratteristica gli è servita per accogliere con il sorriso le centinaia di fedeli che ieri mattina si sono presentate alla Messa nella sua parrocchia di Santa Maria Maggiore.

La seconda per stringere la mano con cordiale sicurezza anche agli esponenti di Forza Nuova - proprio coloro che l’avevano contestato - guardandoli dall’alto al basso mentre entrano in chiesa, mansueti come agnellini. Buoni buoni, i quindici esponenti del movimento di estrema destra che avevano annunciato la loro presenza alla Messa per “verificare” la correttezza dottrinale – absit iniuria verbis - delle parole di don Biancalani, sono stati scortati ai banchi loro assegnati. Gli ultimi tre della fila a sinistra dell’altare, dove hanno seguito disciplinatamente tutta la celebrazione, senza unirsi però alle esplosioni di applausi che, durante l’omelia, hanno costellato le parole del parroco. Tante le sue riflessioni di buon senso sul dovere dell’accoglienza, qualche spunto originale sull’esigenza di unire e non dividere, un racconto appassionato del suo apostolato con persone come gli immigrati “che ci regalano in umanità più di quanto riusciamo a dare loro”.

Ma anche una serie di critiche pesanti al governo per le scelte in Libia, “con tanti soldi pagati per non far più partire gli immigrati”. Forse sarà davvero così, ma è davvero l’omelia della Messa il momento più adatto per valutazioni politiche di questo tipo? In tanti applaudono, qualcuno sospira: “Don Massimo è così, prendere o lasciare”. Appassionato, simpatico, ribelle, un po’ sopra le righe. Prima dell’inizio della celebrazione, mentre smista il flusso di fedeli che prendono posto, alza gli occhi verso il matroneo e avverte: “Non appoggiatevi alla balaustra, che non è a norma. Accidenti, adesso mi prendo un’altra multa”.

E non si tratta dell’unico fuori programma della mattinata. Perché, è bene ammetterlo subito, la liturgia celebrata nella parrocchia all’estrema periferia ovest di Pistoia, è stata tutt’altro che ordinaria. La preghiera – se c’è stata – è stata tutta ritmata dagli applausi e, soprattutto all’inizio e alla fine, condita da qualche fischio, qualche slogan vecchio stile e alcuni canti partigiani. D’altra parte, con quel lungo preludio di polemiche e di tensioni, non avrebbe potuto andare diversamente. L’impegno del vescovo Fausto Tardelli per riportare la questione nel suo alveo naturale – quello di una celebrazione eucaristica –, per precisare anche con toni indignati che la pretesa di “esaminare” l’operato di un sacerdote appariva del tutto inaccettabile e per chiedere alla politica di fare un passo indietro, è valso a convincere solo gli uomini di buona volontà. Ma tra il migliaio di persone che già un’ora prima dell’inizio della celebrazione, affollano il piccolo piazzale davanti alla moderna costruzione, difficile dire quante lo siano davvero. Ci sono, numerosissimi, gli operatori dei media.

Ci sono in forze polizia e carabinieri. Ma anche molte decine di esponenti di estrema sinistra con striscioni antirazzisti che rumoreggiano e lanciano slogan. Quando appare lo sparuto gruppetto di Forza Nuova, quasi tutti con crani rasati e bicipiti palestrati, la tensione sale altissima. Un doppio cordone di forze dell’ordine divide i contendenti. Breve trattativa. Gli esponenti dell’estrema destra potranno entrare in chiesa a patto di seguire docilmente le indicazioni. Mentre la polizia fa barriera, volano insulti e sputi, partono slogan storici (“Fascisti carogne…”) ma a giudicare dalle barbe grigie e dall’abbigliamento ex Lotta Continua, sono “storici” anche gli autori degli stessi.

Poi, sul gradino più alto del sagrato, ecco la sagoma imponente di don Biancalani. Sorride e alza le manone in segno di pace. La piazza si placa. Chi vuole entrare in chiesa, compresi gli uomini di Forza Nuova, sfila davanti a lui che stringe mani, ascolta, sorride, ringrazia. Poi, una volta dentro, in una chiesa zeppa, verrebbe da dire “in ogni ordine di posti”, la celebrazione s’avvia secondo il registro stabilito. Il vicario generale, don Patrizio Fabbri, mandato dal vescovo a concelebrare, per portare a don Biancalani solidarietà e sostegno della diocesi, prende spunto dalla partecipazione straordinaria per invitare tutti a tornare anche domenica prossima. Sì perché – fa capire – il Vangelo e la Messa sono sempre gli stessi e non si capisce perché tutto questo entusiasmo non possa essere replicato. E anche l’impegno del parroco, la sua dedizione per i poveri, sono gli stessi da anni. Se merita di essere sostenuto oggi, perché non può avvenire la stessa cosa anche tra una settimana? Ma le ragioni della partecipazione straordinaria non sono un mistero per nessuno.

C’entra il clima di scontro alimentato sui social da posizioni intollerabili e da qualche uscita non proprio ben calibrata, c’entrano le tensioni sociali di un fenomeno come l’immigrazione che né a livello locale né sui grandi scenari nessuno sembra in grado di governare al meglio, forse c’entra anche la voglia assurda di rispolverare vecchie contrapposizioni che sembravano sepolte sotto la polvere dei decenni e delle tragedie. Invece, quando alla fine della Messa, il gruppetto di Forza Nuova viene accompagnato all’uscita dalla polizia, c’è ad attenderlo una folla di antirazzisti e di altri “anti” che riprende minacciosamente con gli slogan di cui sopra e conclude intonando a lungo “bella ciao”. Per canti liturgici e segni di pace ripasseremo un’altra volta.

Sla Repubblica, 27 agosto 2017

CENTRI IN AFRICA, CODICE ONG
IL PIANO EUROPEO PER I MIGRANTI

«Oggi a Parigi vertice con i big Ue. Arriva il sostegno alla linea italiana Intesa con i paesi del Sahel per fermare l’esodo attraverso la Libia»
I grandi d’Europa riuniti oggi a Parigi daranno il loro sostegno alle politiche migratorie italiane e cercheranno di lanciare un piano europeo, sul quale poi far convergere gli altri partner Ue, per chiudere la Rotta del Sahel che porta i migranti in Libia. E’ questo l’obiettivo del vertice organizzato da Emmanuel Macron al quale parteciperanno Merkel, Gentiloni e Rajoy. Un format che prevede anche una presenza europea con Federica Mogherini e coinvolge i paesi africani con l’arrivo a Parigi dei leader di Libia, Niger e Ciad. Sullo sfondo l’idea, che poi sarà sviluppata a livello europeo nel corso dell’autunno, di aiutare i paesi del Sahel a costruire campi dove raccogliere i migranti nel rispetto dei diritti umani prima del loro ingresso in Libia per poi, questa è l’intenzione del momento, procedere al rimpatrio volontario di quelli economici e all’accoglienza in Europa di chi ha diritto alla protezione internazionale. C’è anche il sostegno al lavoro della Guardia costiera libica, con l’impegno a favorire la costruzione di nuovi campi Unhcr dove accogliere i migranti che restano bloccati in Tripolitania.

Ieri la stessa Merkel ha riconosciuto che «non è possibile lasciare sole Italia e Grecia solo per la loro posizione geografica». Il vertice voluto da Macron riprende e cerca di razionalizzare una serie di idee — a partire dal coinvolgimento dei paesi del Sahel — che datempo circolano tra le capitali, in particolare tra Farnesina, Viminale e il team di Mogherini. Non a caso i quattro big dell’Unione promuoveranno le ultime misure italiane: «Germania, Francia, Spagna e Alto rappresentante Ue — reciterà la dichiarazione finale — si felicitano per le misure prese dall’Italia nel rispetto del diritto internazionale. Il codice di condotta sui salvataggi in mare è un passo positivo per migliorare coordinamento ed efficacia dei salvataggi.

I capi di Stato e di governo chiedono a tutte le Ong che operano in zona di firmare il codice e rispettarlo». Ancora, Berlino, Parigi e Madrid «continuano a sostenere l’Italia in particolare intensificando i ricollocamenti e fornendo il personale necessario a Frontex e all’Ufficio europeo che si occupa di asilo». Promosse anche le intese tra Roma e le 14 comunità locali libiche volte a contrastare il business dei trafficanti di esseri umani. Stesso discorso sulla cooperazione con Niger e Ciad, paesi di transito che possono aiutare a chiudere i flussi, così come l’impegno a lavorare con i paesi di origine dei migranti per bloccare le partenze.

TAJANI: “PER TRIPOLI 6 MILIARDI DI AIUTI
COME QUELLI CONCESSI ALLA TURCHIA”
Alberto d’Argenio intervista il presidente del Parlamento europeo

«Una parte dei finanziamenti dovrebbero andare a Niger e Ciad per chiudere la rotta del Sahel»

Un piano europeo immediato per la Libia uguale a quello messo in campo per la Turchia: sei miliardi per favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli e chiudere il Mediterraneo centrale. E poi un investimento di lungo periodo da 50-60 miliardi per tutta l’Africa capace di contrastare le cause più profonde delle migrazioni. È quanto chiede il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ai leader di Francia, Germania, Italia e Spagna che si riuniscono proprio oggi a Parigi per varare una strategia sui flussi migratori. «Non serve a nulla dare spiccioli, qualche decina di milioni: per contrastare le migrazioni dobbiamo varare un grande piano Ue per l’Africa», afferma Tajani forte della pressione che negli ultimi mesi l’aula di Strasburgo ha saputo esercitare su governi e Commissione europea.

Presidente Tajani, cosa si aspetta dal vertice di Parigi?«Quello che conta è che facciano un passo avanti verso la soluzione dei problemi legati alle migrazioni».

Quattro paesi possono dare risposte senza gli altri partner Ue?
«Chiaramente serve una strategia europea, ma trovo giusto che i governi che hanno un ruolo fondamentale in Europa prendano la guida dell’Unione e provino a trascinare gli altri verso una soluzione».

A suo giudizio come si risolve la questione dei flussi?
«Con decisioni di breve e di lungo termine. L’Europa ha dato sei miliardi alla Turchia per chiudere la Rotta balcanica. Ecco, è arrivato il momento di fare lo stesso con la Libia: diamo subito alla Libia 6 miliardi di euro e poi investiamo in una strategia complessiva per l’Africa».

Finora si è detto che era impossibile dare soldi a Tripoli perché il Paese è instabile e il governo, al contrario di quello turco, non controlla il territorio.
«Questi soldi servirebbero anche a favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli».

In che termini?
«Il generale Haftar potrebbe diventare il capo delle forze armate libiche e il premier Al Serraj potrebbe mantenere la leadership politica. Ma andrebbero coinvolte tutte le tribù, in particolare quelle del Sud».

I soldi andrebbero solo alla Libia o anche ai paesi confinanti che devono chiudere la Rotta del Sahel?
«Naturalmente parte dei sei miliardi dovrebbero andare anche a Niger e Ciad per chiudere il corridoio libico. Il presidente del Ciad, tra l’altro, mi ha detto che nei prossimi mesi l’Isis potrebbe far entrare in Europa proprio da quella rotta foreign fighters che sta arruolando nel Sahel per fare attentati nel nostro continente. Per questo serve subito un investimento europeo capace di chiudere la rotta e costruire campi in Ciad e Niger sotto l’egida dell’Onu dove accogliere i migranti. Stessa cosa andrà fatta anche in Libia appena sarà stabilizzata».

E i diritti umani?
«Ovviamente questi soldi dovrebbero finanziare la costruzione di strutture Onu capaci di rispettare i diritti dei migranti, di curarli e di sfamarli».

È d’accordo con chi chiede che la loro posizione sia esaminata in loco e che chi ha diritto alla protezione internazionale venga portato direttamente in Europa?
«Certo, chi è perseguitato, come ho visto con i cristiani che scappavano da Mosul per non essere decapitati, deve essere accolto. Farlo è un nostro dovere e va bene se accogliamo chi ancora si trova in Africa».

Parlava anche di un piano Ue a lungo termine.
«Dovremmo fare campagne di informazione nei paesi di origine e transito per scoraggiare le partenze visto che chi si mette in cammino pensa di trovare il Bengodi mentre poi rischia di morire nel deserto o in mare oppure, se ce la fa, finisce a fare lo schiavo in campagna. E poi sì, serve un piano europeo di lungo termine: a luglio il Parlamento ha sbloccato 4 miliardi per progetti in Africa, ma non basta. Servono 50-60 miliardi freschi che grazie all’effetto leva dei privati potrebbero mobilitare fino a 500 miliardi. Con questi soldi potremmo finanziare progetti in tutta l’Africa con un approccio economico, non di puro sfruttamento come fanno i cinesi, per rilanciare l’economia del continente e contrastare le cause che spingono le persone a partire verso l’Europa. Ovviamente i soldi andrebbero concessi solo dietro un sistema di monitoraggio di programmi e spesa. È questo il modo in cui la politica si prende le sue responsabilità, altrimenti che facciamo, continuiamo con le polemiche sugli sgomberi a Roma e magari diamo la colpa alla Polizia? O andiamo avanti con le liti elettorali sullo ius soli?».

Come si risolve il problema della cittadinanza?
«È inutile mettere queste persone in mezzo alla campagna elettorale, lascerei stare e spingerei per una norma europea. D’altra parte chi diventa cittadino italiano diventa anche cittadino europeo».

© 2024 Eddyburg