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Grazie alle esitazioni del governo Renzi (più della verità sull'assassinio di un italiano contano gli affari dell'Eni e dei mercanti d'armi), all'inerzia dell'Unione europea, all'esplicito appoggio della Francia di Hollande e dell'Arabia saudita, ecco che il tiranno egiziano vince un altro round. Articoli di Carlo Bonini e di Francesca Caferri. La Repubblica, 15 aprile 2016


GLI ALLEATI DELLA MENZOGNA
di Carlo Bonini
La sortita arriva alla vigilia della rogatoria della procura di Roma, che partirà oggi Le incertezze dell’Europa contribuiscono a indebolire ogni forma di pressione
E QUEL che è peggio, in undici settimane, tante ne sono trascorse dal 3 febbraio, il nostro governo sembra aver definitivamente perso la leva, gli argomenti e l’attimo utili a convincere il Cairo che l’occultamento della verità sarebbe costata al regime un prezzo infinitamente superiore al suo svelamento. Le acque, fino a ieri quantomeno agitate, si sono richiuse. Nel giorno in cui la Procura di Roma firma la richiesta di rogatoria (dovrebbe partire oggi) con cui si torna a chiedere all’Egitto ciò che l’Egitto ha annunciato di non voler consegnare (tabulati telefonici, prove forensi, accertamenti tecnici), Al Sisi scagiona pubblicamente gli apparati di sicurezza del Paese da ogni responsabilità, quale che sia, nell’omicidio, ricomponendo, ammesso vi sia stato, il conflitto interno al regime. Nel merito, riporta le lancette dell’affaire al suo giorno uno, riproponendo la screditata pista della “criminalità organizzata” (cara al potente ministro dell’Interno Magdi Abdel Ghaffar e al generale Khaled Shalaby), per giunta tornando provocatoriamente ad associare la morte di Giulio alla scomparsa a Roma di un cittadino egiziano in circostanze affatto misteriose. E la mossa non è casuale, perché figlia di una ritrovata forza data dalla chiusura negli ultimi giorni di nuovi accordi economici e strategici con l’alleato Saudita e dall’imminente firma di nuove commesse, militari e non solo, con la Francia di Hollande.
Il Presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi è oggi libero dalla minaccia concreta e imminente di isolamento internazionale che, ancora una settimana fa, sembrava allungarsi sul regime. Il consueto balbettio dell’Europa, il silenzio di Palazzo Chigi, che dopo il richiamo dell’ambasciatore a Roma per consultazioni, non ha evidentemente ancora in testa come e fin dove spingere la sua annunciata «pressione proporzionata », hanno convinto Al Sisi ad andare a leggere le carte italiane prima che qualcuno andasse a leggere le sue. Gli accordi commerciali e finanziari per 16 miliardi di dollari stipulati nei suoi cinque giorni di visita al Cairo dal sovrano saudita Salman Ben Abdel Aziz, con la chiusura della decennale contesa sulle due isole nel Mar Rosso di Sanafir e Tiran (occupate in passato da Israele, quindi riconquistate dall’Egitto e ora riconosciute territorio Saudita), non solo danno ossigeno alle casse del regime, ma gli consentono di avere una solida linea di credito con cui chiudere affari e nuove commesse di armi con la Francia.

Il 18 aprile, Hollande sarà infatti al Cairo e, a dispetto della lingua della diplomazia e delle rassicurazioni che il “dossier Regeni” è nell’agenda degli incontri con Al Sisi, nonostante la mobilitazione delle Ong francesi, si prepara a chiudere nuove commesse per la fornitura di armamenti (oltre 1 miliardo di euro per la fornitura di 6 corvette, che si sommano agli 8,2 miliardi già incassati per la vendita di 24 caccia multiruolo Rafale e due portaelicotteri classe Mistral, originariamente destinate alla Russia di Putin e quindi dirottate sul Cairo dopo le sanzioni), nonché una trentina di accordi commerciali e almeno una decina di protocolli di intesa utili a far salire gli scambi commerciali tra i due Paesi (oggi fermi a 2,5 miliardi di euro) che inietteranno altro cemento nelle fondamenta del regime militare.

Nel rinsaldato triangolo Cairo- Riad-Parigi, il Presidente Abd al-Fattah al-Sisi, ha insomma ora buon gioco a degradare «l’irritazione italiana» e la «richiesta di verità» del nostro Presidente del Consiglio a una pistola scarica. E si prepara a incassare lo spettacolo di debolezza che di qui a prossimi giorni — Gentiloni è ancora in attesa di “lumi” da Renzi sul da farsi — produrrà la «proporzionalità» delle misure annunciate da Roma. Non fosse altro perché appariranno all’opinione pubblica egiziana, ma soprattutto italiana, non solo irrilevanti sotto il profilo del potenziale “danno” al Regime, ma persino “tardive”.
Fino a ieri sera, infatti, la linea immaginata da Palazzo Chigi era quella di continuare a tenere agganciate le nostre mosse diplomatiche al corso dell’inchiesta giudiziaria, e dunque di attendere un nuovo “no” egiziano alla rogatoria della Procura di Roma che oggi partirà per il Cairo, prima di far seguire al «richiamo dell’ambasciatore per consultazioni» un qualsiasi nuovo segnale. È ragionevole pensare che la rumorosa mossa di Al Sisi obblighi ora il Governo a un cambio di programma. Con una certezza, tuttavia. Da ieri, i rapporti di forza con il Cairo, sono mutati. E il generale Abd al-Fattah al-Sisi, da militare quale è, sa quanto contino. Palazzo Chigi gli ha offerto in queste undici settimane un vantaggio in cui probabilmente non sperava. Il tempo. Lo ha utilizzato per ridefinire i termini di una partita che poteva travolgerlo e, al contrario, rischia oggi di umiliarci.

ECCO I MEZZI DI COMUNICAZIONE
FINITI NEL MIRINO DEL CAIRO
di Francesca Caferri

Blog e giornali in inglese, le voci del dissenso. E dopo l’editoriale di domenica di “Al Ahram” anche sui quotidiani in lingua araba cominciano a emergere posizioni frondiste

Che i media non fossero una realtà indipendente ma «parte dell’equazione per preservare l’Egitto», per usare le sue parole, Abd al-Fattah al-Sisi lo aveva chiarito già l’estate scorsa, quando il Parlamento approvò una delle leggi sulla stampa più restrittive del mondo. La norma proibisce a chiunque di diffondere notizie «lesive per sicurezza nazionale»: vietata ogni ricostruzione contrastante con la versione ufficiale, pena la detenzione. L’attacco contro i media lanciato ieri dal presidente egiziano quindi non è strano: strano piuttosto è che in Egitto, nonostante tutto, ci siano ancora zone di libera espressione.

La parte del leone in questo senso la fanno i social media: «Se siete stranieri per favore non venite qui» scriveva poche ore dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni l’attivista Mona Seif. Il suo post, finito sui giornali di tutto il mondo, le è costato l’apertura un’indagine giudiziaria. Seif non è stata la sola a parlare: hanno usato Twitter e Facebook per contestare la gestione del caso Regeni Wael Ghonim e Mona Eltahawi, volti simbolo della rivolta del 2011, e scrittori come Ahdaf Souef e Ala al Aswani. Tutti in risposta hanno ricevuto insulti e minacce: «Anche sui social media la libertà di espressione è limitata», spiega il professor Andrea Teti dell’università da Aberdeen.

L’altro canale di informazione indipendente sono stati i siti in lingua inglese: dal giornale Mada Masr e da diversi blog sono arrivati resoconti puntuali sulle indagini e sulle versioni fornite di volta in volta dal governo. «Storie incredibili», come le ha definite la blogger Zenobia sul suo Egyptchronicles.

In questo caso le reazioni sono state minori, perché a leggere l’inglese è una minoranza ridottissima della popolazione. «L’Egitto ha una tradizione molto forte di libertà di stampa in inglese – conferma la ricercatrice Catherine Cornet – è quando si passa all’arabo che il quadro cambia: non a caso sin dal primo giorno i media accessibili ai più hanno sposato la linea ufficiale». Per questo l’editoriale con cui domenica scorsa il quotidiano in lingua araba Al Ahram ha invitato apertamente il governo a perseguire i veri responsabili della morte di Regeni, è stato un segnale importante: la prima crepa nel muro dell’informazione di regime.

Con tutta probabilità le origini della presa di posizione odierna di Sisi vanno fatte risalire a quell’episodio. A cui nei giorni scorsi se ne è aggiunto un altro: la cessione all’Arabia Saudita di due isole a lungo contese è stata vissuta come un insulto da parte di buona parte della popolazione e come tale riportata dai media, in una serie di articoli critici del tutto eccezionali nel panorama attuale.

«Tutte queste vicende sono tasselli di un puzzle: in Egitto c’è un forte scontento. Nessuna delle cause strutturali della sollevazione del 2011 ha trovato risposta: non c’è ripresa economica, non c’è sicurezza, la vita quotidiana della gente non è migliorata. Ognuno di questi casi è l’ennesima frattura fra il regime e la gente. È questo a spaventare Sisi», conclude Teti.

la complicità oggettiva con gli assassini dei governi della parte del mondo che si spaccia per garante di libertà, democrazia, giustizia. Chi incanalerà la rabbia?

La Repubblica, 10 aprile 2016
Follow the money. L’omicidio di Giulio Regeni non fa eccezione. Basta seguire i soldi per capire la delicatezza (qualcuno dice la timidezza) con cui Roma ha gestito finora il caso con l’Egitto. Il ritiro dell’ambasciatore del Cairo — mossa dall’alto valore simbolico ma dagli scarsi contenuti pecuniari — «è solo l’inizio» ha dichiarato il governo. «Nei prossimi giorni lavoreremo a misure immediate e proporzionali» alla reticenza di giudici e investigatori di Abdel Fattah Al Sisi, ha promesso il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Sanzioni economiche e l’inserimento del paese nella black list delle nazioni a rischio su tutte, due mosse che mettono a rischio la fiorentissima intesa commerciale bilaterale: l’Italia è il secondo partner dell’Egitto dopo la Germania. Gli affari tra le due sponde del Mediterraneo valgono 5 miliardi l’anno. In ballo ci sono investimenti superiori ai 10 miliardi già assegnati alle imprese di casa nostra grazie al legame privilegiato costruito con l’esecutivo del Cairo, dove Matteo Renzi è stato il primo premier occidentale a recarsi in visita dopo la vittoria di Al Sisi alle presidenziali.


GLI SCAMBI COMMERCIALI
La crisi diplomatica tra i due paesi ha fatto finora, economicamente parlando, pochissimi danni. Gli unici affari finiti in stand-by sono quelli (molto virtuali) messi sul tavolo dai 60 imprenditori impegnati nella missione sul Nilo con l’ex ministro Federica Guidi lo scorso 3 febbraio, giorno in cui è stato trovato il corpo del ricercatore. Per il resto “business as usual”, tutto è andato avanti come prima. Nel 2015 Roma ha esportato verso l’Egitto beni per 2,89 miliardi, il 6,6% in più dell’anno precedente, con la meccanica (oltre 900 milioni) in testa a tutti, davanti a metallurgia e chimica. Il vero Eldorado per l’Italia Spa è rappresentato però dai progetti di sviluppo infrastrutturali varati dal Cairo: c’è da concludere il raddoppio del Canale di Suez, da aprire sei nuovi porti e quattro stadi, da ricostruire un intero mega-quartiere nella capitale; ci sono 4 miliardi per l’edilizia e 1,7 miliardi per creare il polo industriale del Triangolo d’oro, 6mila kmq tra Fena, Safaga ed El-Quseir, il cui master-plan è stato affidato, gli amici sono amici, a una controllata dell’italianissima Rina.

GLI AFFARI DELL’ENI
Pecunia, come tradizione, non olet. E quasi tutto il mondo si è messo in fila per questi appalti in cui le aziende italiane — in caso di rappresaglie commerciali contro Al Sisi — rischiano di partire con l’handicap, se non addirittura di rimanere inchiodate ai blocchi di partenza. A dormire sonni agitati sono però anche le imprese tricolori — oltre 700 tra cui quasi tutti i big — che sotto le Piramidi lavorano da decenni o che hanno già monetizzato il flirt, oggi appassito, con Al Sisi. L’Eni, ovviamente, fa la parte del leone. Il cane a sei zampe ha interessi in Egitto per 14 miliardi di euro circa. Un tesoretto destinato a crescere visti i guai della Libia e l’asse geopolitico Israele-Egitto- Grecia-Cipro (con l’Italia a fare da convitato di pietra) sulle ricerche di idrocarburi nell’area. Cinque miliardi sono stanziati solo per il giacimento di gas Zohr, il più grande del Mediterraneo, con un potenziale di gas pari a 850 miliardi di metri cubi. Negli ultimi tre anni, inoltre, Eni ha raddoppiato la produzione nelle concessioni del Western Desert e di Abu Rudeis nel Golfo di Suez.

BANCHE E CEMENTO
In scia all’Eni però si muovono molte altre realtà tricolori. Ci sono presenze storiche come Pirelli, in Egitto dal ’90 e Intesa-SanPaolo — proprietaria dal 2006 di AlexBank. Italcementi è socia del primo produttore del settore e sta lavorando a un impianto eolico a Hurghada e Cementir (Caltagirone) ha una forte posizione. Al Cairo hanno interessi Edison (2 mld di investimenti), la Gemmo che lavora all’aeroporto, Danieli, fresca di un nuovo appalto da 70 milioni e la Tecnimont impegnata nella costruzione di un impianto per fertilizzanti dal valore superiore ai 520 milioni. L’arrivo di Al Sisi ha sbloccato però parecchi affari in più. La scorsa primavera sono stati finalizzati in un unico bilaterale accordi per 8,5 miliardi: Technip si è aggiudicata per 3 miliardi lavori su due raffineria (Assiut e Midor), Ansaldo ha ricevuto commesse dall’Enel locale, la stessa Edison si è garantita nuove forniture, Megacell un contratto sui pannelli solari. Gli affari sono affari. E in fondo tra le vittime delle sanzioni contro il Cairo ci potrebbero essere persino gli accordi di cooperazione tecnico militare tra i due paesi. Un capitolo che prevede tra l’altro la fornitura dall’Italia di ricambi per 1,6 miliardi ai jet F-16 dell’aviazione egiziana. Usati solo, prevede l’intesa, “per attività addestrative”.

La Repubblica, 6 aprile 2016 (m.p.r.)

Roma. Adesso l’Italia alza il tiro sul caso del brutale omicidio di Giulio Regeni: «Se non ci sarà un cambio di marcia - scandisce in Parlamento il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni - il governo è pronto a reagire adottando misure immediate e proporzionate». Il capo della Farnesina mette sul tavolo ritorsioni diplomatiche e commerciali, insomma. E rafforza l’affondo con una promessa: «Per ragioni di Stato non permetteremo che venga calpestata la dignità dell’Italia». Parole che fanno infuriare il Cairo, infiammando la vigilia già tesa della missione degli inquirenti egiziani a Roma. Già oggi atterreranno nella Capitale, pronti a incontrare tra giovedì e venerdì il procuratore Giuseppe Pignatone.

In Senato prima, alla Camera poi, Gentiloni mette in fila concetti poco diplomatici. «Il dossier inviato in Italia ai primi di marzo era carente - accusa il ministro nelle sedi istituzionali - e mancava dei dati relativi al traffico del telefono di Regeni e al video della metropolitana del Cairo». Da qui la richiesta di chiarezza, scandita in modo ruvido: «È per ragione di Stato che pretendiamo la verità, è per ragione di Stato che non accetteremo una verità fabbricata ad arte. Ora è importante che il Parlamento faccia sentire la sua voce unitaria». Più tardi, sui social network, interviene anche il premier Matteo Renzi: «La dignità della famiglia Regeni ha dato una gigantesca lezione al mondo. Noi ci fermeremo solo davanti alla verità vera. Pensiamo e speriamo che l’Egitto possa collaborare con i nostri magistrati».
L’appuntamento decisivo si terrà dunque a Roma, teatro dei briefing tra la delegazione egiziana e Pignatone. «E potrebbero essere incontri decisivi per le indagini», auspica Gentiloni. Resta però, palpabile, la tensione tra i due Paesi. «Ci asteniamo dal commentare le dichiarazioni di Gentiloni - fanno sapere dal ministero degli esteri egiziano - che complicano ancora di più la situazione». Poco dopo tocca direttamente al presidente Al Sisi raffreddare gli animi dei diplomatici. Prima rassicurando Roma sulla «determinazione dell’Egitto a continuare la piena cooperazione con assoluta trasparenza», poi esprimendo fiducia sul fatto che le parti saranno capaci di «trattare con saggezza questi incidenti individuali e di superarli senza impatti negativi».

«In un editoriale il direttore del quotidiano pro-governativo paragona il ricercatore italiano a Said, la cui morte per mano della polizia ha dato il via alle proteste contro Mubarak. Ancora in silenzio il parlamento». Il manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Giulio come Khaled: il doloroso parallelo tra i due 28enni, massacrati dalla brutalità del regime egiziano, lo aveva ricordato la madre del giovane egiziano, Layla. In un video messaggio alla madre di Regeni, Paola Deffendi, ha fatto suo il dolore per il ricercatore italiano e ringraziato per l’attenzione che la famiglia ha attirato sui casi di migliaia di egiziani scomparsi nel silenzio. Oggi quel parallelo lo vede anche la voce del governo egiziano, il quotidiano al-Ahram. In un editoriale di domenica, il direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam avverte del pericolo che Il Cairo corre, molto simile a quello che sei anni fa portò alla caduta di Mubarak: il caso Regeni ha le stesse potenzialità distruttive per il governo egiziano del caso di Khaled Said.

Nel giugno 2010 il giovane era stato pestato a morte ad Alessandria dalla polizia. La foto del suo corpo martoriato è stata resa pubblica, visualizzazione fisica dell’atrocità del regime (esattamente come la famiglia Regeni ha promesso di fare se la verità non verrà a galla) ed è diventata il simbolo della rabbia del popolo egiziano, di attivisti e giovani che hanno lanciato campagne online e per le strade. Un’escalation che sei mesi dopo ha trovato il suo sbocco in Piazza Tahrir. Per questo Khaled è considerato il primo martire della rivoluzione, il sasso che ha generato la valanga sotto cui è sparito Mubarak.
Abdel-Hadi Allam ne è convinto: il "sasso" Regeni, scomparso proprio nell’anniversario della rivoluzione, può avere lo stesso effetto sul presidente-golpista al-Sisi. Domenica ha avvertito i vertici dello Stato, colpevoli di non aver afferrato la gravità della situazione: «Il caso di Said non andò come molti all’epoca si aspettavano - scrive il direttore di al-Ahram, nominanato dall’esecutivo come i predecessori - La storia naive sulla morte di Regeni ha danneggiato l’Egitto all’esterno e all’interno e ha offerto la giustificazione per paragonare quello che avviene oggi nel paese con quello che avveniva prima del 25 gennaio 2011».
Un regime dittatoriale, uno Stato di polizia che al-Ahram - il più diffuso quotidiano della regione - dalle sue colonne descrive con prudenza: riporta notizie di sparizioni e torture (soprattutto nel corso dell’ultimo anno, pubblicando reportage sulle condizioni delle carceri e le campagne degli attivisti anti-governativi) ma le controbilancia con le voci governative che negano una repressione che è strutturale, istituzionalizzata. Stavolta però si gioca fuori casa: annunciate i risultati dell’inchiesta con trasparenza, scrive Abdel-Hadi Allam, o metterete in serio pericolo le relazioni con l’Italia, il cui governo ha dimostrato dalla prima ora l’apprezzamento per la piega presa dal Cairo di al-Sisi.
Il fatto che simili parole - «ricerca della verità», «storia naive» – siano pronunciate da un giornale di proprietà dello Stato lascia il re nudo: «Alcuni funzionari che non capiscono il valore della verità pongono lo Stato egiziano in una situazione imbarazzante ed estremamente grave. Chiediamo allo Stato di affrontare il caso con la massima serietà e portare di fronte alla giustizia i colpevoli. Quelli che non colgono il pericolo per le relazioni tra Egitto e Italia stanno spingendo verso una rottura dei rapporti diplomatici».
Il governo non pare avere il polso della situazione, con un’opinione pubblica ormai ampiamente schierata contro le posizioni dei vertici. Che continuano a rilasciare dichiarazioni per poi rimangiarsele. La strategia del "avete capito male", però, non dà i risultati sperati. Dopo giorni di rimpalli tra Ministeri degli Esteri e degli Interni, domenica a negare di aver mai attribuito la responsabilità della morte di Giulio alla fantomatica banda criminale è stato lo stesso dicastero responsabile della polizia. Quel Ministero degli Interni che aveva pubblicato le foto di un vassoio d’argento con su i documenti di Regeni, dicendo di averli trovati in casa della sorella del capo banda, Tareq Abdel Fattah, domenica ha negato durante la trasmissione tv al-Haya al Youm di aver mai detto che la gang avesse ucciso il giovane.
La televisione resta il luogo preferito per esporre teorie e opinioni. Come successo in passato, c’è chi torna sulla versione del complotto internazionale ordito dai Fratelli Musulmani: Rifaat el-Said, esponente del Partito dell’Unione di Sinistra, sul canale Al-Assema ha "identificato" Regeni come «agente di un apparato italiano» e posto il dubbio che la Fratellanza «possa essersi infiltrata negli apparati egiziani per mettere l’Egitto in crisi». Resta ancora in silenzio il parlamento, ora su indicazione del presidente della Camera dei Rappresentanti: ieri Ali Abdel Aal ha ordinato ai parlamentari di non trattare il caso Regeni durante le sedute pubbliche.

Dopo l’ultimo depistaggio servito da Ghaffar, la famiglia Regeni trova il coraggio di parlare e avverte: "Il 5 aprile ci aspettiamo un gesto forte dal governo italiano". Senza sviluppi "mostreremo le immagini di nostro figlio torturato, come altri egiziani". Luigi Manconi: "L’Egitto va dichiarato Paese non sicuro, e l’ambasciatore richiamato"». Il manifesto, 30 marzo 2016

Quando nella notte tra il 24 e il 25 marzo hanno appreso che «la più cupa delle previsioni si era puntualmente avverata», e che l’ennesimo, incredibile depistaggio era stato servito «su un vassoio d’argento», assunto come «verità» ufficiale direttamente dal ministro dell’Interno egiziano Ghaffar, la famiglia Regeni ha deciso di fare il passo che non aveva mai fatto finora. Di presentarsi in pubblico con lo striscione giallo di Amnesty «Verità per Giulio Regeni» e parlare direttamente ai giornalisti, senza più la mediazione del governo Renzi, pur pagandone un prezzo altissimo. «Rinnoviamo il nostro dolore» che però a questo punto è «un dolore necessario», anche perché «ciò che è successo a Giulio in Egitto non è un caso isolato».

Paola Deffendi ha «bloccato le lacrime» e con lucidità, insieme al marito Claudio Regeni, racconta del figlio e di quella verità che «pressioni» esterne vorrebbero silenziare. Lo fanno rivolgendosi ai media di mezzo mondo convocati nella sala Nassirya del Senato, insieme al presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, alla loro avvocata Alessandra Ballerini e al portavoce di Amnesty international Italia Riccardo Noury.

L’impressione è che confidino ancora nelle istituzioni italiane, in particolare nella procura di Roma, e nella loro capacità di ottenere una reale collaborazione da parte delle autorità cairote, ma che pongano un limite alla paziente ed estenuante attesa. Quando tra pochi giorni gli inquirenti dei due Paesi si incontreranno di nuovo a Roma, «cosa porteranno gli egiziani?», chiede Paola Deffendi. I documenti che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aspetta da un paio di mesi – richiesta rinnovata anche dall’avvocata Ballerini e dal collega egiziano, in modo da aumentare la pressione – o una nuova versione-farsa? «Se il 5 aprile sarà una giornata vuota, confidiamo in una risposta forte del nostro Governo. Forte, ma molto forte. È dal 25 gennaio che attendiamo una risposta su Giulio».

Altrimenti, spiegano i Regeni, si spingeranno sulla stessa strada intrapresa da Ilaria Cucchi e mostreranno al mondo le foto del corpo martoriato del giovane ricercatore. «Se non l’abbiamo fatto finora – aggiunge l’avv. Ballerini – è solo perché la mobilitazione e la protesta generale hanno fatto fare un mezzo passo indietro all’Egitto».

Esporranno le foto di Giulio torturato «come un partigiano dai nazifascisti», solo che «lui non era un giornalista e non era una spia, era solo un ragazzo che studiava». «Torturato come un egiziano», massacrato perché «forse le idee di mio figlio non piacevano».

Mostreranno non più quel «bel viso sempre sorridente, con uno sguardo e una postura aperta», come era aperta la sua mente, ma l’immagine dell’obitorio, come è stato «restituito dall’Egitto», di quell’uomo «completamente diverso» sul quale «si era riversato tutto il male del mondo», «e noi ci chiediamo ancora perché». Di quel «viso che era diventato piccolo piccolo», nel quale «l’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui, ma proprio l’unica, è stata la punta del naso».

Un particolare che fa impressione, ma non è l’unico. Paola Deffendi racconta infatti che non furono loro ad effettuare il riconoscimento di Giulio all’obitorio del Cairo, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità e dai media di entrambi i Paesi finora. Non lo videro prima che i medici egiziani effettuassero l’autopsia, ma solo quando il corpo rientrò a Roma per il secondo esame. «In Egitto ci avevano consigliato di non vederlo, e noi avevamo anche accettato, perché eravamo talmente fuori, credetemi, da pensare che forse sì, era meglio ricordarlo come era prima».

Non solo. La scomparsa di Giulio non venne pubblicizzata, come accade di solito e come avrebbero voluto fare i suoi amici convinti che avrebbero potuto salvarlo con la campagna «Where is Giulio?» lanciata e immediatamente interrotta, perché nel Paese di Al Sisi, “amico” di Matteo Renzi, «ci hanno spiegato – ha ribadito l’avvocata Ballerini – che c’è una procedura informale diversa per i cittadini italiani», anche per fare in modo che un eventuale «fermo si possa trasformare in arresto formale». In sostanza, fin dal primo momento si agì sotto l’impulso di forti pressioni, anche se probabilmente in buona fede, almeno da parte italiana.

Ieri pomeriggio, prima della conferenza stampa, i Regeni hanno proceduto, presso la procura di Roma, al riconoscimento degli oggetti fatti rinvenire in uno dei covi dei presunti “banditi” uccisi dalle forze dell’ordine egiziane e fotografati dal ministero degli Interni di Ghaffar. «Tranne i documenti e forse uno dei due portafogli, nessuno di quegli oggetti che servivano a costruire un’immagine ignobile di Giulio, appartiene a lui», riferisce l’avvocata Ballerini.

D’altronde, anche se Giulio viveva da anni lontano da casa, «avevamo un rapporto strettissimo, profondo, una relazione simile a quella che hanno gli aborigeni a distanza», racconta ancora la madre. Per questo «sappiamo che Giulio non lavorava né ha mai prestato i suoi studi ai servizi segreti», anche «con tutto il rispetto per il ruolo dell’intelligence». «Non aveva un conto corrente da spia e conduceva una vita molto sobria. Sul suo conto c’erano 850 euro, e tanti ce ne sono ancora. Nessun prelievo successivo a quello del 15 gennaio». Il che mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la pista della banda che rapinava stranieri non sta in piedi.

È vero invece che «in Egitto nel 2015 ci sono stati 1676 casi di tortura di cui 500 terminati con la morte del torturato, e nei primi due mesi del 2016 sono già 88 le persone torturate di cui 8 morti», riferisce Noury.

E allora, il 5 aprile la famiglia Regeni non si aspetta «proprio la verità» ma neppure un’altra giornata persa. A questo punto non è escluso che la campagna «Verità per Giulio Regeni» sposi la proposta lanciata ieri dal senatore Luigi Manconi, secondo il quale il governo dovrebbe «porre la questione del richiamo – non del ritiro – del nostro ambasciatore per consultazioni. Un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese considera il caso discriminante per mantenere buone relazioni con il Cairo». «Penso sia necessario considerare la revisione delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Paesi – ha aggiunto Manconi – mettendo in conto l’urgenza e l’ineludibilità di altri atti concreti da parte dell’Unità di crisi della Farnesina, che sulla scorta di quanto accaduto dovrebbe dichiarare l’Egitto Paese non sicuro».

Giulio Regeni non c’è più, lui che, come dice in conclusione sua madre, «avrebbe potuto dare una mano al mondo». «Però – aggiunge Paola Deffendi – ora noi siamo qui a parlare di tortura e a parlare di Egitto, e prima non se ne parlava». L’ultima domanda la pone lei: quello di Al Sisi «è un Paese sicuro?».

La conferenza stampa

Ormai è chiaro il gioco che l'Europa, seguendo l'esempio di Renzi, sta seguendo con il Pinochet egiziano. «Ma con Al Sisi, Netanyahu, Abu Abbas, l’Italia e l'Europa hanno scelto di appiattirsi sul vecchio ordine, ormai incapace di produrre altro che repressione brutale». Il Fatto quotidiano, 17 marzo 2016

Dall’assassinio di Giulio Regeni soltanto al Cairo èaccaduto quanto segue: sono spariti nel nulla due studenti turchi (eprobabilmente altri egiziani, dei quali però mai si parla); la polizia hachiuso con un pretesto l’unico centro che curava le ferite fisiche e psicologicheinflitte a migliaia di torturati; sono stati arrestati per aver bestemmiato ilCorano tre ragazzini cristiani; 17 organizzazioni umanitarie hanno denunciatoil progressivo attacco ai diritti delle donne e alle libertà religiose, sommatoalla crescente ferocia della repressione.

Cinque giorni fa il Parlamento europeo si èfinalmente accorto che il regime egiziano ha costruito “un contesto di tortura,morte in custodia e sparizioni (di arrestati)”, così come è scritto nella mozioneapprovata a larghissima maggioranza, anche su impulso italiano (come sollecitavada tempo questo giornale). Poiché il testo apre la strada a temutissime sanzioniad personam contro alti dignitari del regime, in un’intervista a Repubblicaieri il maresciallo Al Sisi ha promesso piena collaborazione agli inquirentiitaliani per scovare gli assassini di Regeni. Su questo risultato non scommetteremmouna svalutata lira egiziana, tanto più perché il generalissimo precostituiscel’esito delle indagini: Regeni ucciso per sabotare le ottime relazioni traItalia ed Egitto, ovvero il rapporto tra lui e Renzi, “un buon amico mio”.
Però mettiamo che il generalissimo cismentisca, che insomma la magistratura cairota offra una versione nonsgangherata come le precedenti, perfino qualche indizio per arrivare allafeccia che materialmente torturò e uccise: cosa dovremmo fare a quel punto?Torneremmo ad affratellarci con il Pinochet egiziano fingendo di non sapere deisuoi centri di “ interrogatori” , delle migliaia di desparecidos e morti sottotortura? Oppure ci tratterrebbe quel che finora è mancato, un residuo dipudore, un principio di intelligenza?
È sufficiente questo dubbio per capire che laterribile vicenda Regeni ormai investe la nostra politica estera in unoscacchiere, il Mediterraneo, per l’Italia decisivo; e mette in gioco l’identitàe i valori di ciascuno tra i nostri partiti, a cominciare dal Pd. Dunque cosafaremmo? Stando agli editorialisti che hanno sfiorato l’argomento dovremmoconfermare la nostra alleanza con Al Sisi: il generale sarebbe un baluardo contro il terrorismo (così i vari Battistasulla scia di Renzi, che ad Al Sisi disse: “La tua guerra è la nostra guerra”).
Questo modo di ragionaresi richiama a un principio ispiratore della nostra politica estera, ilcosiddetto realismo. Che nella circostanza suona così: noi veneriamo i dirittiumani, fondamento della nostra civiltà; ma se c’è una convenienza ci facciamoamici di qualsiasi sterminatore (purché non tocchi la nostra gente). Applicatoall’Egitto (e ad altri Egitti della nostra politica estera), un realismo checonduce ad un esito così paradossale sembra ribaltarsi nell’irrealtà. Qui non si tratta di opporgli i buonisentimenti o di ignorare il nostro interesse nazionale: però dobbiamo capire seè limpido il percorso di quel rovesciamento. L’Europa che si pretende realistaha deciso di ignorare il nucleo di società civile all’origine delle ‘primaverearabe’ ed ha accettato l’alternativa che proponeva Al Sisi o il despota ol’orda terrorista, nient’altro sulla scena. È una rappresentazione clamorosamentefalsa ma fonda uno schema conveniente per tutti.
Potremmo chiamarlo lo schema-Renzi perché è l’italianoche lo inauguradue anni fa,quando, primotra gli europei afar visita ad Al Sisi, aiuta l’egiziano ad usciredall’isolamento.Il baratto a quelpunto è chiaro: ilgolpista Al Sisiotterrà dagli occidentali rispettabilità e legittimazione (con l’omertà che ne consegue),gli occidentali (i più furbi) ricche commesse e la disponibilità di Al Sisi adassecondare alcuni loro piani. Parigi ne ha ricavato 4,6 miliardi di euro inforniture militari e il sostegno egiziano a varie iniziative nella regione.Anche Roma ha trovato il suo vantaggio, però forse minore di quanto Renziavesse meritato eccedendo nelle lodi del grande statista’ egiziano. Inoltre AlSisi collabora attivamente col governo Netanyahu, e questo coincide con lapolitica estera renziana, che mantiene con Israele un rapporto profondo.

Ma un realista cheguardasse oltre il proprio naso farebbe un bilancio meno entusiasta. Con AlSisi, Netanyahu, Abu Abbas, l’Italia ha scelto di appiattirsi sul vecchioordine, ormai incapace di produrre altro che repressione brutale. Un pensatoioamericano, Foreign policy, si chiedeva se Al Sisi sarebbe arrivato al 2017ancora in sella. Per sopravvivere inventa complotti e spinge sul nazionalismo,tigre rischiosa da cavalcare in tempi di dura crisi economica (e il peggio staarrivando). Di recente ha lasciato di sasso una platea di funzionari con un discorsomelodrammatico nel quale ha ripetuto, commosso fino alla lacrime, che pur digiovare alla patria avrebbe venduto anche se stesso. Chi comprebbe oggi unPinochet egiziano? Pochi tra i 40 milioni di musulmani sotto i 25 anni. Ilgiornalismo renziano, tutto. E i giovani del Pd, nessun dubbio, nessun disagio,nessun valore?

Un altro pezzetto di verità che sembra emergere nel complesso mosaico di eventi e personaggi che hanno concorso alla tragedia della tortura e morte di Giulio Regeni. Una sola certezza, fin dall'inizio: fu un assassinio di Stato.

La Repubblica, 12 marzo 2016
Il Cairo. «Posso dirvi quello che so. Per il bene della verità e di Giulio, che considero un figlio». Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights, è la donna che stava aiutando Giulio Regeni nelle sue ricerche sui sindacati. È stata tra le ultime a vederlo. Soprattutto, è testimone di alcune circostanze chiave che aiutano a comprendere perché, da un certo momento in poi, Giulio diventò oggetto delle attenzioni della Polizia e dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, il Servizio segreto civile alle dipendenze del Ministero dell’Interno.

Quando ha incontrato Giulio per l’ultima volta?
«Il 19 gennaio, per parlare dell’ipotesi di un salario minimo in Egitto. Ci vedemmo qui all’Egyptian Center for Economic and social rights, dove sono responsabile dei dossier in materia di lavoro».

Lei è stata interrogata dalle autorità egiziane?
«Il 16 febbraio scorso. Sono stata sentita prima dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale e, successivamente, ma sempre nella stessa giornata dal pubblico ministero di Giza».

Cosa le hanno chiesto?
«Volevano sapere quando e come avessi conosciuto Giulio, che tipo di contributo avessi dato alle sue ricerche e, approssimativamente, quante volte lo avessi incontrato tra la fine di agosto del 2015 e il gennaio scorso. Anche se non so cosa stessero davvero cercando con le loro domande ».

Cioè?
«Gli uomini del Servizio (l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, ndr) sembrava stessero sbrigando la pratica per dovere, facendo attenzione a non dare anche solo la sensazione che fossero loro i responsabili della morte di Giulio. Il loro approccio era quello routinario di una normale indagine, non abbastanza seria come è al contrario il crimine di cui stiamo parlando. Per altro, una cosa mi colpì».

Cosa?
«Furono stranamente cortesi e gentili. A cominciare dal modo con cui mi convocarono per testimoniare. Mi telefonarono senza ricorrere alla notifica ufficiale».

La stampa egiziana ha ripetutamente ipotizzato che il movente dell’omicidio potrebbe essere rintracciato nelle incomprensioni sorte tra Giulio e il sindacato degli ambulanti su un progetto di ricerca di 10 mila sterline inglesi che alla fine Giulio decise di accantonare. In particolare, si è fatto riferimento a un conflitto tra Giulio e Mohamed Abdallah, capo di quel sindacato. Un uomo dal curioso passato di giornalista per tabloid scandalistici. Lei che informazioni ha?

«Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto. Mi spiego meglio. Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo. Ma in un gioco ben più grande che ha a che vedere con lo scontro di potere in Egitto».

A quanto pare, Abdallah riteneva di dover ricevere parte delle 10 mila sterline con cui veniva finanziata la ricerca che Giulio aveva proposto e quando Giulio comunicò la sua intenzione di abbandonare il progetto Abdallah si risentì. È così?
«In realtà le cose stanno in modo diverso. Abdallah pensava che Giulio avesse deciso di rinunciare alla ricerca e quindi al finanziamento perché Giulio aveva a un certo punto smesso di parlarne con lui. In realtà, Giulio non aveva alcuna intenzione di lasciar cadere il progetto e rinunciare al suo finanziamento. Semplicemente, sapeva che la legge egiziana vieta donazioni dirette ai sindacati e dunque stava pensando a un modo alternativo per fare andare in porto il progetto. Aiutare gli ambulanti era un obiettivo di Giulio. Sfortunatamente, non abbiamo avuto abbastanza tempo per parlarne quando tornò in Egitto dalle vacanze di Natale».

Torniamo ad Abdallah e al suo sindacato. È vero che gli ambulanti sono normalmente utilizzati da Polizia e Servizi come informatori?
«È vero. Perché per stare in strada devono sottostare al controllo della Polizia. Per altro gli ambulanti furono utilizzati dal Regime durante la rivoluzione di piazza Tahrir per attaccare i manifestanti».

Proviamo a dirla così: è possibile ipotizzare che Abdallah, capo di un sindacato infiltrato da informatori, possa aver “venduto” Giulio agli apparati?
«Diciamo che io posso rispondere così. Sicuramente il capo del sindacato degli ambulanti potrebbe essere un “agente” della Polizia».

Nei giorni precedenti la sua scomparsa, Giulio le ha mai manifestato paura per qualcuno o qualcosa?
«Mai. Mi disse che Abdallah sosteneva di avere problemi finanziari ma non al punto da averne paura».

Quanti testimoni in questa storia tacciono per paura?
«Penso che i responsabili di questa vicenda siano negli apparati di sicurezza dello Stato e che se anche questo venisse alla fine ammesso, in ogni caso non si riuscirà a dargli un nome. Primo perché potrebbe trattarsi di qualche grosso papavero. Secondo, perché questo equivarrebbe ad ammettere che l’Egitto ha un governo criminale e questo non sarebbe tollerabile da Al Sisi, che vuole dare l’impressione di essere nel pieno controllo del sistema ».

a insopportabile è che il governo italiano renda l'Italia complice. La Repubblica, 8 marzo 2016

In cinque settimane nessuno ha neppure provato a cercare la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Al contrario, il depistaggio sul movente, i mandanti e gli esecutori, è cominciato appena il cadavere è stato ritrovato. Due diverse testimonianze indicano infatti che nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del corpo, la mattina del 3 febbraio, la polizia egiziana si mise al lavoro per confondere le acque. Le persone più vicine a Giulio furono segretamente interrogate nella stazione di polizia di Dokki, dove gli furono chieste con insistenza notizie sulla vita privata di Giulio, sulle sue inclinazioni sessuali. E tutto questo mentre il nostro ambasciatore, Maurizio Massari, veniva tenuto volutamente all’oscuro della morte del ricercatore (lo avrebbe appreso “ufficiosamente” soltanto la sera del 3 da una fonte confidenziale egiziana). Di più. La polizia del Cairo conosceva Giulio Regeni. E lo cercò nella sua abitazione di Dokki senza trovarlo, nel dicembre scorso. Una circostanza ufficialmente smentita nei verbali di interrogatorio dei condomini del palazzo ma confermata a

L’INTERROGATORIO NOTTURNO
L’otto febbraio, sull’aereo che lo riporta in Italia, viene “esfiltrato” il suo amico al Cairo. È un ragazzo italiano che ora vuole interrogare la procura di Giza. Lo chiameremo F. ( Repubblica conosce ma non svela l’identità per garantirne la sicurezza) e ha avuto modo di ricostruire, nella testimonianza resa ai nostri investigatori, dettagli cruciali per comprendere cosa è accaduto prima dello scomparsa di Giulio e dopo il ritrovamento del suo cadavere.

F. viene convocato la sera del 3 febbraio nella stazione di polizia di Dokki, a qualche centinaio di metri da dove Giulio viveva. F. non sa ancora che il corpo del suo amico è stato ritrovato poche ore prima su un cavalcavia del quartiere 6 ottobre. Ma la polizia egiziana ha urgenza di sentirlo. Lui e tutte le persone a Giulio più vicine. Tra loro anche il professor Gennaro Gervasio.

«Seppi quella sera della morte di Giulio — dice F. ai nostri investigatori in una lunga testimonianza — Me lo comunicarono nella sala d’attesa del commissariato. Mi avevano convocato “per farmi alcune domande”. Mi interrogarono in sei, forse sette. Non c’erano magistrati. Cominciarono a chiedermi di Giulio, dei suoi studi, delle sue relazioni al di fuori della ragazza con cui stava, se facesse uso di sostanze stupefacenti ».

Perché interrogare immediatamente tutti gli amici più vicini a Giulio senza darne avviso al nostro ambasciatore, Maurizio Massari, che il 26 gennaio ne aveva denunciato la scomparsa? Perché non comunicargli ufficialmente che il corpo era già in un obitorio della città, che la polizia già faceva domande, e lasciare che il nostro ambasciatore venisse allertato solo in modo “ufficioso” da una fonte del ministero degli Esteri egiziano? Forse per impedire quello che poi sarebbe accaduto? Che l’ambasciatore vedesse in quali condizioni era il cadavere prima dell’autopsia?

LA RAGAZZA CON IL TELEFONINO
La sensazione è che già in quelle prime ore gli egiziani si muovano per occultare ogni traccia che accrediti il movente politico dell’omicidio. F. è il custode del “segreto” di Giulio. È stato infatti il testimone oculare di quanto accaduto l’11 dicembre in un’assemblea al Cairo alla quale partecipa con Giulio. «Eravamo insieme in una sala con un centinaio di persone — dice — L’assemblea era stata convocata da una Ong che si occupa di diritti dei lavoratori per riunire il fronte dei sindacati indipendenti: in discussione c’era la legge sul pubblico im- piego e c’era da affrontare il nodo delle libertà sindacali. Non si trattava di una riunione particolarmente a rischio. Anzi. La notizia era circolata anche sulla stampa nei giorni precedenti, ed erano presenti anche diversi giornalisti. Giulio cercava materiale per la sua ricerca. Furono registrati tutti gli interventi e al termine fu lui a fare interviste singole. Una cosa però ci inquietò». Prosegue F.: «Giulio si accorse che durante la riunione era stato fotografato da una ragazza egiziana, con un telefonino. Pochi scatti. Strano. Ne parlammo a lungo. Una delle possibilità è che fossero presenti informatori delle forze di sicurezza».

LA VISITA IN CASA
Del resto, come riferiscono due diverse fonti che in quel mese di dicembre ebbero modo di raccogliere le confidenze di un inquilino molto informato del palazzo, la polizia egiziana cercò Giulio nella sua abitazione senza fortuna. In un caso minacciando una perquisizione. Un particolare che nessuno dei testimoni egiziani formalmente sentiti ha voluto confermare. Ma che non sorprende affatto F. «Il giorno della sua scomparsa era il 25 gennaio, anniversario di piazza Tahrir. Bastava uscire di casa per incappare in un controllo. Nelle settimane precedenti c’era stato un clima di tensione e paranoia fortissimo, non solo nei confronti degli attivisti. C’erano stati controlli a tappeto negli appartamenti abitati da stranieri. Temo possa esserci stato un cortocircuito. Nel clima di paranoia e xenofobia è possibile che alcuni corpi, reparti, gruppi, abbiano scambiato Giulio, il suo lavoro, chissà per cosa. Il clima generale è quello. A volte basta essere stranieri e parlare arabo per destare sospetti. Nella retorica ufficiale, spesso, si attribuiscono a spie straniere complotti per sovvertire l’ordine e la stabilità del paese». E invece. «Invece Giulio era semplicemente uno scienziato. Che aveva scelto un metodo di ricerca che si fa sul campo. Era convinto che il lavoro accademico potesse servire per cambiare le cose».

L’ARTICOLO TRADOTTO
L’interrogatorio notturno dei testimoni il 3, la ragazza con il telefonino, le visite in casa della polizia. Ma c’è anche un quarto indizio che accredita il movente politico. Dopo la morte di Giulio e la pubblicazione, il 6 febbraio, con la firma di Regeni sul Manifesto dell’articolo che raccontava l’assemblea dell’11, la polizia egiziana si mette nuovamente in allarme. E torna a fare domande che con la ricerca dei responsabili non hanno nulla a che fare. Ma hanno molto a che vedere con le idee di Giulio. Racconta F.: «Giulio non aveva mai collaborato né era entrato in contatto diretto con il Manifesto. Quell’articolo lo abbiamo scritto insieme e l’avevo proposto io al giornale con la garanzia dello pseudonimo. Ho saputo che la polizia egiziana ha chiesto ad altri amici comuni di Giulio, dopo la pubblicazione del 6 febbraio, notizie sulla presunta collaborazione di Giulio con il quotidiano».

LE CONTRADDIZIONI DEI PERITI
Nella fretta di vendere agli italiani una morte dal movente che non sta in piedi, gli egiziani lavorano a mano libera anche con l’autopsia. Rispetto a quanto accerterà l’esame effettuato in Italia dal professor Vittorio Fineschi, i medici del Cairo non refertano molte delle lesioni inflitte al ragazzo (a cominciare da una decina di fratture), indicano come avvenute in un’unica soluzione le sevizie e come causa della morte un colpo al cranio che avrebbe provocato un edema cerebrale letale. Non una di queste conclusioni collima con il referto italiano. La causa della morte, per Roma, è infatti nella rottura della prima vertebra cervicale compatibile con una spaventosa torsione del collo. Al contrario, l’edema (che pure l’autopsia di Fineschi ha individuato) non è causa della morte. Ma, significativamente, sarebbe compatibile con la prima inverosimile versione propinata dalle autorità egiziane: l’incidente stradale.

Neglig segno di ossequio a un "alleato" per le guerre attuali e future, assassino e torturatore di un ragazzo innocente e inermo.

Ilmanifesto, 4 marzo 2016
Le tante, troppe versioni contrastanti che vengono dall’Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni gettano un’ombra anche sull’operato dei servizi segreti italiani. Perciò il Copasir ha deciso all’unanimità di convocare per il 14 marzo il capo dell’Aise, Alberto Manenti, su richiesta del deputato di Sel, Ciccio Ferrara, membro dell’organismo parlamentare di controllo sull’intelligence. «Quello che ci è stato raccontato finora, non ci convince più», riferisce Ferrara al manifesto.

L’ultima volta che i responsabili dei servizi esterni sono stati auditi dal Copasir risale ad una decina di giorni fa. «Al di là del giudizio politico, il balletto di versioni provenienti dal Cairo in questi ultimi giorni solleva troppi dubbi — argomenta Ferrara — la nostra intelligence ha lavorato in contatto con quella egiziana fin dal momento della scomparsa di Giulio Regeni, e poi anche dopo il 3 febbraio, quando è stato rinvenuto il cadavere. Ci è stato sempre riferito che, malgrado il massimo degli sforzi, nulla di certo era emerso dalle indagini. Ora però le autorità egiziane diffondono dettagli, e non sempre sono solo ricostruzioni giornalistiche. A questo punto è necessario che i responsabili dei nostri servizi riferiscano quali elementi certi sono stati appurati».

La scarsa collaborazione dell’intelligence e delle altre autorità egiziane continua però ad essere additata come un ostacolo insormontabile. Tanto che Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) che ha il compito di vigilare sull’attività dell’Aise e dell’Aisi, ha dichiarato ieri al Tg1: «Quello che sta accadendo non denota una collaborazione piena, o perlomeno soddisfacente; stiamo facendo il possibile perché questa collaborazione sia completa, sollecita e ci consenta di arrivare alla verità su questo drammatico caso». Infatti, i documenti arrivati agli inquirenti italiani tramite il canale diplomatico, senza alcuno scambio tra le procure, che attualmente sono in fase di traduzione, sembrerebbero assolutamente insufficienti ad aggiungere novità al quadro investigativo: si tratta dei tabulati delle telefonate fatte da Giulio Regeni nei tre giorni precedenti la sua scomparsa: il 23, 24 e 25 gennaio, e poco altro.

Intanto, il Parlamento europeo si prepara a votare, giovedì prossimo, una risoluzione di urgenza sull’omicidio Regeni e sulle centinaia di casi simili di sparizioni e torture in Egitto, al termine di un dibattito che si terrà in seduta plenaria. L’accordo tra i partiti è stato raggiunto in sede di capigruppo, su richiesta dell’eurodeputato Pd Antonio Panzeri, speaker di riferimento in commissione Diritti umani per il gruppo Socialisti e Democratici. Ciascun gruppo porterà martedì prossimo a Strasburgo una propria proposta di risoluzione per poi elaborare il testo unico da mettere ai voti. Panzeri, membro della commissione Esteri, aveva già scritto, una settimana dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni, un’interrogazione a Mrs. Pesc, Federica Mogherini, per sollecitare l’Ue ad affiancare l’Italia nella richiesta di collaborazione massima alle autorità egiziane per il raggiungimento della verità. Ancora nessuna risposta.

«Giulio Regeni. La presidenza egiziana diffonde la sua versione dei fatti sull'omicidio del dottorando friulano. Il governo del Cairo: 'Terrorismo per danneggiare i rapporti

esteri". E trasmette tramite ambasciata parte dei documenti chiesti dai pm italiani. Quelli inutili». Il manifesto, con postilla

Dunque non era un incidente stradale, non era un gioco omosessuale finito male né il linciaggio di un depravato, non era un atto di criminalità comune, non era un omicidio passionale, né un regolamento di conti tra spacciatori e drogati, l’eliminazione di una spia, il risultato di una faida interna ai sindacati o ai movimenti di sinistra, non era il tradimento di un dirigente della Oxford Analytica e neppure un sabotaggio messo in atto dai Fratelli musulmani. La «verità» sull’omicidio di Giulio Regeni viene ora direttamente dal presidente dell’Egitto: Al-Sisi in persona o chi per lui. Secondo l’ultima tesi, che potrebbe essere la quadratura del cerchio perfetta anche per il governo italiano e gli alleati europei, ad uccidere il giovane dottorando friulano sarebbe stato lo Stato Islamico.

La notizia è stata diffusa ieri attraverso l’Ansa da una «fonte di alto rango della presidenza egiziana». Un atto di terrorismo teso a danneggiare le relazioni esterne egiziane al pari — afferma la fonte «altamente qualificata» e ripete lo stesso premier egiziano Sherif Ismail in un’intervista alla tv pubblica del Paese — dell’abbattimento dell’aereo russo caduto sul Sinai nell’ottobre 2015.

«Il terrorismo in Egitto non è finito e cerca di danneggiare i rapporti tra l’Egitto stesso e altri Paesi, come è stato nel caso del cittadino italiano Giulio Regeni — dichiara all’Ansa l’esponente anonimo della presidenza del Cairo — Attraverso quest’atto coloro che vogliono colpire l’Egitto e la regione e coloro che sono legati a gruppi terroristici hanno addossato sul ministero dell’Interno egiziano la responsabilità dell’uccisione di Regeni».

L’ufficio di presidenza, precisa l’Agenzia nazionale di stampa associata, ha rilasciato queste dichiarazioni per «chiarire» cosa intendesse Al-Sisi quando il 20 febbraio scorso, in un discorso a Sharm El Sheikh, disse: «Chi ha abbattuto l’aereo russo che voleva? Voleva danneggiare solo il turismo? No, voleva danneggiare le nostre relazioni con la Russia e l’Italia». Il presidente egiziano «conferma», precisa la fonte, che «il terrorismo cerca di danneggiare i rapporti egiziani con gli altri Paesi prendendo di mira le comunità straniere come avvenuto nel caso dell’aereo russo o facendo circolare voci che nuocciono alle relazioni dell’Egitto con altri paesi, come nel caso dell’omicidio di Regeni». In ogni caso, conclude la presidenza egiziana, «i loro tentativi sono votati al fallimento, dato che i rapporti italo-egiziani sono radicati» e «il governo egiziano ha aperto un’inchiesta globale ed esaustiva su questo caso per scovare i criminali».

Inchiesta aperta dalla procura di Giza e rimasta top secret per gli inquirenti italiani inviati al Cairo dal pm di Roma, Sergio Colaiocco, che coordina le indagini italiane sull’omicidio. Ieri pomeriggio però, mentre arrivava la versione del presidente Al-Sisi, il ministero degli Esteri egiziano ha trasmesso all’ambasciata italiana al Cairo una parte dei documenti richiesti da settimane, «in particolare informazioni relative a interrogatori di testimoni da parte delle autorità egiziane, al traffico telefonico del cellulare di Giulio Regeni e a una parziale sintesi degli elementi emersi dall’autopsia» eseguita al Cairo il 4 febbraio scorso. Sarebbero tutti reperti cartacei, in lingua araba, nessun filmato, nessuna registrazione, nessuna foto, nemmeno a corredo dell’esame autoptico: atti parziali senza un quadro di insieme che, secondo le prime indiscrezioni, non sarebbero in grado di imprimere sviluppi alle indagini.

Dunque, nessuno scambio di informazioni investigative diretto tra procure, ma solo da governo a governo. Per la Farnesina che ha diramato la notizia, è «un primo passo utile» anche se i documenti inviati sono solo una parte di quelli richiesti e perciò, spiega il ministero degli Esteri in una nota, «la collaborazione investigativa deve «essere sollecitamente completata nell’interesse dell’accertamento della verità». Naturalmente, gli atti «sono stati immediatamente messi a disposizione del team investigativo italiano che opera al Cairo».

Contemporaneamente, il direttore del Dipartimento di Medicina legale del Cairo, Hisham Abdel Hamid, che per primo ha eseguito l’autopsia sul cadavere di Giulio, ha smentito di essere mai stato ascoltato dalla procura di Giza sul caso Regeni (come aveva preannunciato il giorno prima il ministro di Giustizia egiziano). E ha bollato come «totalmente inventata e assolutamente priva di fondamento» la notizia dei risultati autoptici che parlerebbero di «tortura avvenuta ad intervalli di 10–14 ore». Una diffusa dalla Reuters e dal giornalista investigativo Ahmed Ragab che ha confermato tutto al manifesto.

D’altronde, già lunedì il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, da New York, si era mostrato fiducioso e aveva spiegato ai giornalisti che confidava di ricevere presto dal Cairo «elementi di indagine seri in tempi rapidi», avvertendo gli “amici” egiziani che il governo italiano avrebbe verificato «il rispetto delle promesse». E così ieri il regime di Al-Sisi si è dato da fare, ma malamente. Gentiloni, intervenendo di nuovo ieri sul caso dal Council of Foreign Relations di New York, si è limitato a ripetere che «chiede» e «spera» in una maggiore «cooperazione, al momento molto limitata».

Postilla
E con questo Stato guidato da torturatori assassini noi ci apprestiamo ad andare alla guerra contro i mostri che abbiamo suscitato noi, e che con le nostre guerre diffuse contribuiamo giorno per giorno ad accrescere.


«Regeni sarebbe rimasto per una settimana nelle mani dei suoi sequestratori. Il movente del delitto è legato alla sua attività di ricercatore. L’appello dei genitori: “Verità per nostro figlio non sia soltanto uno slogan”».

La Repubblica, 27 febbraio 2016

Poche carte. E molte, tragiche, conferme. L’inchiesta italiana sulla morte di Giulio Regeni continua a fare pochi passi in avanti, per colpa della scarsissima collaborazione delle autorità egiziane: nonostante gli annunci e i comunicati ufficiali, zero o quasi zero, è stato trasmesso in Italia o ai poliziotti e i carabinieri di Sco e Ros che da tre settimane sono al Cairo. Quelle poche novità che però arrivano non fanno altro che confermare l’impostazione iniziale dell’indagine, della quale Repubblica

in questi giorni ha dato conto: Regeni è stato ucciso da professionisti della tortura. Il movente dell’omicidio è da ricercarsi nel lavoro da ricercatore di Giulio: qualcuno dei suoi report, esemplari per metodo e contenuti, potrebbero essere finiti sui tavoli di qualche apparato di sicurezza. Certo è che Regeni non collaborava con i servizi – oltre alle smentite ufficiali della nostra intelligence nulla è stato trovato nel suo computer, al di fuori delle comunicazioni con i docenti e con i tutor – e che, visti gli esiti dell’autopsia che verranno consegnati ufficialmente la prossima settimana, probabilmente è stato scambiato per una spia.

Le torture sono evidenti: fratture dai piedi alla scapola, segni di tagli ovunque. La mano non è quella di sprovveduti. Particolare, questo, che fa escludere categoricamente agli italiani la pista dell’omicidio comune o – per usare le parole del ministro degli Interni egiziano – «il movente criminale o il desiderio di una vendetta personale». Giulio è stato torturato, ucciso non prima del 30 gennaio, e quindi dopo almeno cinque giorni dalla sua scomparsa. Giorni nei quali il ragazzo è stato torchiato senza però che i suoi aguzzini ottenessero quello che volevano. Non poteva essere altrimenti: Giulio non aveva alcun segreto da custodire, se non il suo studio, la sua dedizione, le sue ricerche, le sue idee.
Centrale resta comunque la riunione di dicembre, quando Regeni aveva confidato ad alcuni amici di essere restato turbato perché si era accorto di essere stato fotografato. Un passo in avanti in questo senso può arrivare dagli accertamenti tecnici che la Procura ha in corso e che farà nelle prossime settimane. Gli investigatori hanno chiesto a Twitter e Facebook le chiavi per entrare nel profilo di Giulio: tutti i suoi amici hanno consegnato spontaneamente i loro dispositivi elettronici e quindi la Procura già conosce molte di quelle conversazioni.
Ma, sperano, che nella cronologia delle ricerche o magari in qualche file conservato sui Cloud possa esserci una chiave per questa storia. La richiesta arriva proprio nei giorni delle polemiche sul delitto di San Bernardino ma gli italiani sono fiduciosi sulla base di alcune esperienze del recente passato, quando in caso di omicidio i provider hanno offerto la loro collaborazione. «Ringraziamo tutti coloro che stanno manifestando la loro vicinanza a noi in questi giorni – dicono Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio – Verità per Giulio non è soltanto uno slogan ma un’imprescindibile istanza di giustizia per tutti i cittadini».
Svelare le menzogne e i depistaggi, appoggiare senza riserve i ragazzi di piazza Tahir, recidere i legami di affari e di guerre inutili e devastanti che ci asservisce ai torturatori assassini. Articoli di Luciana Castellina, Giuseppe Acconcia, Jean-Pierre Filiu.

Il manifesto, 25 febbraio 2016

IN PIAZZA PER GIULIO
di Luciana Castellina

Terminati i riti funebri e versate le lacrime di stato, la vita - per chi ce l’ha ancora - riprende il corso normale. Come gli affari, perché business is business.

Tanto, a un mese dalla scomparsa di Giulio Regeni e a 22 giorni dal ritrovamento del suo corpo torturato possiamo stare tranquilli, veniamo avvertiti: le autorità egiziane e italiane stanno collaborando alla ricerca della verità sull’assassinio. Le medesime autorità che ci stanno aiutando hanno peraltro - è l’ultima delle fantasiose scoperte del governo del Cairo - tirato fuori una nuova tesi: Giulio sarebbe stato ammazzato per una vendetta personale.

Una vendetta di chi? Non c’è il coraggio di dirlo apertamente ma si torna ad alludere, esattamente come tentato fin all’inizio, a rapporti personali non meglio precisati, niente a che vedere con l’attività di ricerca di Giulio. Meno che mai la politica e quanto di orribile accade oggi in Egitto.

Se non ci fosse stato quell’articolo, scritto con un altro collaboratore, sulla situazione sindacale in Egitto, quel testo con cui Giulio era entrato in contatto con noi, così come le coraggiose testimonianze dei suoi amici e colleghi che al Cairo studiano, chi ha ritirato fuori una simile fantasiosa tesi, vale a dire un altro depistaggio, pretenderebbe persino di esser creduto.

È possibile accettare tutto questo? No, non è possibile. Ma come sempre in questi casi si sente pesante la nostra impotenza contro il cinismo di questo mondo.

Oggi alle 14 a Roma, Antigone e Amnesty chiamano ad un sit in davanti all’Ambasciata d’Egitto. Saremo il più possibile. Anche se sentiamo tutti la sproporzione fra la nostra forza, la rabbia e il dolore che proviamo.

Raccogliendo l’invito della famiglia di Giulio, moltiplicheremo gli atti intesi a non far dimenticare, attaccare striscioni, lasciare scritte, vale a dire moltiplicare per 1000 i sit-in come quello di oggi, ma soprattutto nel nostro lavoro quotidiano. Non è molto, ma è indispensabile: per Giulio, per la nostra coscienza, per la dignità del nostro paese ma anche dell’umanità: che non può accettare, non può abituarsi ad accettare che uno degli umani oggi, come sempre più numerosi in questi bruttissimi anni, possa subire, senza che si reagisca, la sorte di Giulio.

Impegniamoci anche se a volte avvertiamo la sproporzione fra quanto dovrebbe esser fatto e non si fa a livello istituzionale: per via degli affari, e perché nella dissennata spedizione che si prepara in Libia non possiamo litigare con l’Egitto, e anzi è bene che continuiamo a dare armi anche a paesi come l’Arabia Saudita che in fondo sarebbe un’alleata.

Non è combattendo l’Isis in questo modo che riusciremo a vincerlo.

Potranno riuscirci soltanto i ragazzi che a piazza Tahrir si sono mobilitati contro i regimi inaccettabili del loro paese, islamici o laici. A condizione che li sosteniamo «senza condizioni», rinunciando anche a qualche affare. Se li aiutiamo come si era impegnato a fare Giulio in prima persona con la ricerca e la conoscenza.

REGENI
L'ULTIMO DEPISTAGGIO
di Giuseppe Acconcia

Egitto. Il governo: «Vendetta personale». La famiglia: «Reagiremo ad ogni verità di comodo». Gentiloni: «Subito accesso agli atti» Altri due stranieri desaparecidos. Fermato attivista

Il ministero dell’Interno egiziano ci riprova. Sarebbe una «vendetta personale» a spiegare le circostanze della morte e tortura di Giulio Regeni. «Non ci accontenteremo di verità di comodo e reagiremo ad ogni tentativo di depistaggio», è la giusta reazione della famiglia di Giulio.

A questo punto, gli inquirenti egiziani starebbero indagando tra i contatti del dottorando friulano. È proprio nella cerchia dei suoi amici che potrebbe trovarsi la risposta sulle responsabilità nella morte del giovane ma non per vendetta. È plausibile invece che il suo arresto possa essere spiegato come uno scambio di persona considerando quanto Giulio fosse vicino, ma estraneo, ad ambienti dell’attivismo politico di sinistra al Cairo.

La pista della vendetta personale, dopo i depistaggi su incidente stradale, delitto sessuale, coinvolgimento della Fratellanza musulmana, sembra un nuovo asso nella manica lanciato dagli egiziani che dal canto loro nulla stanno facendo per fornire prove significative al team Ros, Sco e Interpol, da tre settimane al Cairo. Neppure i tabulati telefonici sono stati consegnati nelle mani degli inquirenti italiani, quindi ad un mese dalla scomparsa di Giulio non è possibile dire con certezza neppure dove sia stato prelevato, se sotto casa sua (a Doqqi) o nei pressi di piazza Tahrir.

Su questo punto finalmente è insorto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che ha chiesto che gli inquirenti italiani abbiano «accesso a tutti i documenti sonori e filmati, ai referti medici e a tutti gli atti del processo nelle mani della procura di Giza».

È già passato un mese dalla scomparsa di Giulio Regeni del 25 gennaio scorso. Per ben sei giorni nessuno ha saputo che il giovane e brillante ricercatore friulano fosse sparito nel nulla. E da lì sono iniziati i ritardi di un caso tanto atroce quanto simbolico da aver imposto ogni tipo di depistaggio e intimidazione, fino al momento del ritrovamento del cadavere il 3 febbraio scorso.

Uccidendo e torturando Giulio Regeni è stato violato il taboo dell’inviolabilità del corpo degli stranieri in Egitto. E questo cambierà per sempre il rapporto che molti cittadini europei avranno con il regime militare di al-Sisi nei prossimi anni.

Non era forse necessariamente questo l’obiettivo dei poliziotti egiziani che hanno arrestato, ucciso e torturato Giulio. Ma di sicuro hanno colto nel segno. Ormai anche gli stranieri devono temere la Sicurezza di Stato come fanno gli egiziani.

È di pochi giorni fa la notizia di due giovani fratelli di nazionalità turca, Mucahit e Cihat Kirtoklu, di cui si sono perse le tracce al Cairo. In questo caso la loro scomparsa è stata immediatamente resa nota ai media. E questo potrebbe essere essenziale per evitare che i due finiscano nelle mani degli stessi carnefici di Giulio.

Ieri il giovane dottorando friulano è stato ricordando all’Università americana del Cairo (Auc) con letture di poesie di Ungaretti e Quasimodo.

Oggi alle 14 si svolgerà in via Salaria a Roma, alle porte dell’ambasciata egiziana in Italia, una piccola commemorazione silenziosa di Giulio, organizzata dall’Associazione Antigone. Anche la sorella di Giulio, Irene, ha voluto far sentire la sua voce chiedendo che vengano esposti gli striscioni gialli che chiedono «Verità per Giulio» come annunciato nella campagna lanciata da Amnesty International.

Si tenta in qualche modo di dare così un segnale alle autorità egiziane che i riflettori sulla vicenda in Italia non si sono spenti anche all’indomani della condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo nel caso Abu Omar.

Dopo il ritrovamento del cadavere in un fosso della periferia della capitale egiziana, molti hanno avanzato sospetti di tentativi di complotto.

In realtà, secondo molti attivisti al Cairo, la prassi di liberarsi dei cadaveri torturati da parte della polizia egiziana è diventata una consuetudine. «In passato i corpi dei prigionieri venivano seppelliti negli stessi edifici della Sicurezza di Stato, ora vengono lasciati sul ciglio della strada», ci riferiscono ambienti della sinistra egiziana.

La repressione del dissenso al Cairo non si ferma. Nonostante le promesse di al-Sisi che aveva assicurato di voler intervenire per arginare gli attacchi indiscriminati della polizia alla gente comune, continuano gli episodi di repressione e arresti sommari.

Ieri l’attivista per la difesa dei diritti umani, Hossam Bahgat, è stato fermato all’aeroporto del Cairo e gli è stato impedito di lasciare il paese. Bahgat era diretto in Giordania per partecipare a un incontro delle Nazioni unite quando è stato fermato. Era in precedenza stato arrestato per le sue dichiarazioni critiche verso il regime.

Anche il giudice, Amir Awad, è stato arrestato dopo aver presentato un appello firmato da 31 giudici contro il prepensionamento di quattro toghe, accusate di essere vicine alla Fratellanza musulmana.

IL SUPPLIZIO DI GIULIO REGENI
AFFARE DI STATO PER L’EUROPA
di Jean-Pierre Filiu

Diplomazia. L’Italia mal ricompensata della comprensione di cui aveva dato pubblicamente prova dopo il colpo di stato di al-Sisi del 2013

L’inchiesta sulla tortura a morte di Giulio Regeni è arenata, come potevamo purtroppo aspettarci. Il ricercatore italiano di 28 anni è scomparso nel centro del Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, quando i quartieri della capitale erano controllati palmo a palmo dalle forze di sicurezza, messe in allerta massima per il quinto anniversario delle rivolte anti-Mubarak. È ora certo che Regeni sia stato lungamente e meticolosamente torturato, prima che le sue spoglie fossero gettate in un fosso nella periferia del Cairo, dove il corpo è stato ritrovato il 3 febbraio.
Non c’è niente di peggio della solitudine di una vittima abbandonata ai suoi carnefici, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Il New York Times ha ricostruito delle testimonianze sull’arresto di Giulio Regeni da parte dei servizi egiziani e sulla sua detenzione nelle loro mani. Magdy Abdel Ghaffar, il ministro dell’Interno, ha indetto una conferenza stampa straordinaria per smentire categoricamente tutte queste accuse. È vero che lui stesso ha fatto tutta la sua carriera nella sinistra Sicurezza nazionale, precedentemente chiamata Sicurezza di Stato, verso la quale si orientano tutti i sospetti.

Più di quattro mila universitari di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera aperta al presidente Abdel Fattah al-Sisi perché si faccia luce su questo dramma. Il portavoce del ministero degli Esteri egiziano ha subito reagito esprimendo il suo «rifiuto totale per le affermazioni contenute in questa lettera sugli arresti sommari, le torture e le sparizioni in Egitto». Ha aggiunto che queste affermazioni «deformano completamente la realtà sul campo e rappresentano delle generalizzazioni basate sul sentito dire e su manipolazioni di chi vuole riprendere piede in Egitto dopo essere stato cacciato dal popolo». Questa espressione era rivolta ai Fratelli musulmani, da cui proveniva il presidente Mohammed Morsi, rovesciato nel luglio 2013 dal generale al-Sisi.

Ho potuto misurare, durante un mio recente soggiorno al Cairo, quanto le teorie del complotto, già molto popolari in Egitto, abbiano preso, durante la presidenza al-Sisi, una dimensione aggressiva e anti-occidentale di una virulenza senza precedenti.

I Fratelli musulmani sono assimilati ai jihadisti di Daesh e stigmatizzati per lo stesso «terrorismo». Gli uni e gli altri parteciperebbero ad una vasta campagna internazionale di destabilizzazione dell’Egitto da parte di Servizi stranieri di informazione. In un clima così deleterio, non stupisce che una stampa agli ordini del regime abbia ripreso delle illazioni nauseabonde sui supposti legami tra Regeni con questo o quell’altro ufficio anglo-sassone (prima di ammettere la morte sotto tortura, le autorità avevano tentato in vano di accreditare la versione di un incidente automobilistico, poi di un crimine sessuale).

L’inchiesta sulla morte di Regeni è stata affidata a un ufficiale egiziano… condannato nel 2003 per tortura su un detenuto. L’impunità assoluta di cui gioiscono i servizi di «sicurezza» in Egitto si è tradotta in questi ultimi giorni in proscioglimenti scandalosi: è stata cancellata in appello, il 14 febbraio 2016, la condanna pronunciata contro i poliziotti che avevano ucciso con dei colpi di pistola una manifestante pacifica, Shaimaa el-Sabbagh, nel gennaio 2015, nel quarto anniversario dalle proteste anti-Mubarak. Il 17 febbraio, studenti e insegnanti dell’Università americana del Cairo (denominata con la sua sigla inglese Auc) hanno manifestato in memoria di Giulio Regeni ricordando come «la bolla dell’Auc non ci protegge».

L’Italia viene davvero mal ricompensata della comprensione di cui aveva dato pubblicamente prova dopo il colpo di Stato di al-Sisi del 2013. Il premier Matteo Renzi, accogliendo al-Sisi nel suo primo viaggio in Europa, nel novembre 2014, aveva celebrato il «partenariato strategico» tra Roma e il Cairo. Il supplizio di Giulio Regeni non dovrebbe preoccupare solo l’Italia, ma è una sfida per l’intera Europa, il cui silenzio è stato assordante dopo la rivelazione del dramma.

Quanto ai «realisti», che difendono la cooperazione più stretta possibile con i servizi egiziani nella lotta al terrorismo, e sono indulgenti verso gli «eccessi» di una tale lotta, guadagnerebbero molto se meditassero sulle lezioni del caso Regeni. La verità è che mezzo milione di militari egiziani confermano dopo anni di essere incapaci di ridurre una insurrezione jihadista nel Sinai che conta su poco più di mille combattenti. La realtà è che i servizi detti di «sicurezza» sono responsabili in Egitto di un’insicurezza generalizzata per l’impunità che è loro garantita. No, non dispiaccia ai «realisti», ma assolvere il regime di al-Sisi per i crimini perpetrati nel suo nome o nella sua ombra rivela una delle cecità più pericolose. Non possiamo che sostenere coloro i quali, come Thibaut Poirot su Le Monde, chiedono invece all’Europa di mobilitarsi perché venga fatta luce sulla verità nel caso della morte di Giulio Regeni. Da parte mia, dopo il minuto di silenzio che ha aperto la mia recente conferenza al Cairo, dedico ogni mio intervento pubblico, a Parigi, Montpellier, Le Hauvre o Saint-Malo, alla memoria del ricercatore suppliziato. Giustizia per Giulio.


L'autore è professore di Storia del Medio Oriente, Università Sciences-po Paris
«Egitto. L’Italia allenta la pressione, il boia no. Solo ieri 116 condannati, tra cui un bimbo di quattro anni (!). Agli arresti lo scrittore Ahmed Naji».

Il manifesto, 23 febbraio 2016 (m.p.r.)

Tra i tavoli dei bar del Cairo, mentre fino a qualche giorno fa tutti gli avventori citavano Giulio e la necessità di fare chiarezza, ora il clima è cambiato. «L’Italia non fa la voce grossa», si sente ripetere.

In verità, due sono i motivi per cui il pressing del governo Renzi sul presidente al-Sisi non sembra affatto significativo. L’Italia è pronta a sostenere l’Egitto in caso di guerra in Libia. Questo è ormai uno dei punti più delicati della politica estera italiana dopo la formazione di un governo di unità nazionale che non accenna a decollare e i raid Usa su Sabrata. In secondo luogo, gli accordi economici per lo sfruttamento dei giacimenti di gas Eni, a largo di Port Said, sono tra le priorità in politica economica. Ieri il ministero del Petrolio egiziano ha dato il via libera definitivo ad Eni per lo sviluppo di Zohr XI, la storica scoperta dello scorso settembre che cambierà gli equilibri economici nel Mediterraneo orientale. Pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni era prevista proprio la firma dei contratti attuativi per procedere con i lavori, che dovrebbero chiudersi entro il 2017, tra Eni e autorità egiziane.

Tutto questo rende la verità nel caso Regeni più difficile da esigere e nelle mani delle autorità egiziane che hanno tutto l’interesse a depistare e insabbiare il caso. Nei giorni scorsi, gli egiziani erano tornati a protestare proprio sulla scia dell’indignazione per la morte del giovane dottorando italiano. Dopo le richieste di fare chiarezza sulla vicenda, avanzate la scorsa domenica dal premier Renzi, il ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, ha fatto riferimento all’intesa con l’Italia e alla necessità di «arrestare i responsabili». Ma sembra che le autorità egiziane non vogliano collaborare davvero con il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), che si trova ormai da quasi tre settimane al Cairo. Gli inquirenti resteranno ancora, come richiesto anche dalla famiglia del giovane friulano in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi.

L’Egitto è tornato ad alzare la voce per gli abusi compiuti dalla polizia. Decine di familiari di prigionieri politici e desaparecidos si sono radunati alle porte del Sindacato dei giornalisti per chiedere «processi giusti». Alcuni dei manifestanti tenevano tra le mani le foto dei loro familiari, detenuti nella prigione di al-Aqrab, quasi tutti processati da tribunali militari e condannati a morte. Non solo, i dirigenti del Centro per la riabilitazione delle vittime di Violenza e Tortura (Nadeem) hanno annunciato che resisteranno al provvedimento di chiusura della clinica, disposta direttamente dal governo.

Secondo Amnesty International sono 41mila i prigionieri politici in Egitto, circa 1500 i casi di sparizioni denunciate e migliaia le condanne a morte. Solo ieri il Tribunale del Cairo ha condannato a morte 116 persone per gli scontri del 3 gennaio 2014 tra sostenitori dei Fratelli musulmani e polizia che causarono 13 vittime. Tra i condannati a morte figurerebbe anche un bambino di quattro anni che all’epoca dei fatti ne aveva due. Questo dimostra ancora una volta che i giudici procedono a condanne sommarie senza neppure studiare i casi dei condannati o leggere i nomi degli imputati in aula.

In una lettera dal carcere, uno dei leader del movimento 6 aprile, Ahmed Maher, ha criticato la repressione che ha impedito migliaia di egiziani di tornare a protestare contro il regime militare lo scorso 25 gennaio. Nel giorno in cui Giulio Regeni è sparito, quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non ci sono state significative manifestazioni di piazza.

E dopo le proteste dei giornalisti e gli arresti di comici e fumettisti, ieri lo scrittore Ahmed Naji è stato arrestato dopo aver subìto una condanna a due anni di prigione per linguaggio osceno. Le accuse si riferiscono al suo ultimo romanzo Istikhdam al-Hayah (Usando la vita) del 2014. Naji ha respinto le accuse. Secondo lo scrittore, autore di Rogers (2007), i giudici continuano a riferirsi al testo come a un articolo mentre si tratta di uno dei capitoli del suo libro. Anche il caporedattore del quotidiano Akhbar al-Adab, Tarek al-Taher, che lo ha pubblicato, dovrà pagare una multa di 1500 euro. Il sindacato dei giornalisti ha definito la sentenza un attacco all’«immaginazione degli scrittori».

L'appello dei parlamentari europei, la cronaca di Giuseppe Acconcia sulle proteste spontanee contro i metodi della polizia egiziana, l'intervista di Viviana Mazza a David Runciman.

Il Fatto Quotidiano, il manifesto, Corriere della Sera, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il Fatto Quotidiano
“CASO REGENI
LA MOGHERINI INTERVENGA”

l'appello di Barbara Spinelli, Marie-Christine Vergiat e altri 43 parlamentari europei

Il 2 febbraio 2016 il corpo di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge scomparso al Cairo il 25 gennaio, è stato ritrovato in un fosso lungo una strada dei sobborghi del Cairo, con segni di orribili torture e di una morte violenta. Non è stato un semplice incidente, come affermato da un influente membro del Parlamento europeo nel corso di una visita ufficiale al Cairo. Regeni stava svolgendo una ricerca sullo sviluppo dei sindacati indipendenti nell’Egitto del dopo-Mubarak e del dopo-Morsi.

Questo ci rammenta che il governo militare egiziano non sta contrastando solo la minaccia terrorista ma, in parallelo, una vasta opposizione sociale, largamente negletta dai media e dai governi europei. Giulio Regeni non era un giornalista né un attivista. Era uno studioso entrato in contatto con persone e associazioni della società civile che erano oggetto della sua tesi di dottorato e della feroce repressione degli apparati di sicurezza nazionale. Dopo la sua morte, più di 4.600 accademici di tutto il mondo hanno firmato una lettera aperta chiedendo un’inchiesta sulla sua morte violenta e sul numero crescente di scomparse forzate in Egitto.
Solo nel 2015, la Commissione Egiziana per i Diritti e la Libertà (ECRF) ha denunciato la scomparsa di 1.700 cittadini. Il caso Regeni si aggiunge alla lista di sparizioni che si sono verificate in Egitto dopo l’elezione a Presidente di Abdel Fattah al-Sisi. Siamo consapevoli che l’inchiesta sulla morte di Regeni non è ancora conclusa, e che l’indipendenza delle indagini non è garantita, ma crediamo che quanto è accaduto a lui e a migliaia di vittime egiziane come lui non possa essere trattato alla stregua di un “incidente”.
Deve condurre a un ripensamento dell’appoggio fornito dall’Unione Europea al governo egiziano, assicurando che la questione dei diritti umani sia affrontata nella maniera più esplicita e in considerazione della loro sempre più palese violazione nel Paese, certificata da numerose Ong, da Human Rights Watch e da Amnesty International. Sottolineiamo la nostra preoccupazione per il ruolo che gli interessi economici e geostrategici degli Stati europei potrebbero assumere. Tale ruolo non deve portare a un abbassamento della nostra vigilanza sui diritti umani, sul pluralismo democratico, sulla libertà di parola, sul sindacalismo indipendente. È l’opposto che deve accadere.
Chiediamo a Federica Mogherini, come Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri, di agire con forza per ottenere un’indagine indipendente sull’assassinio di Regeni. I responsabili del suo brutale omicidio devono rispondere della loro azione, e la richiesta di verità e giustizia deve essere soddisfatta.


Il manifesto
REGENI, CRESCONO I SOSPETTI SULLA SICUREZZA DI STATO

di Giuseppe Acconcia

Egitto. Montano al Cairo le proteste contro la polizia. Due morti a Darb el-Ahmar e Assiut

Il nome di Giulio Regeni è sulla bocca di tutti al Cairo. Tra i tavoli dei bar di Sayeda Zeinab e nei caffè di Abdin, il centro antico della capitale egiziana, le responsabilità della polizia egiziana e più nello specifico della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla) sono evidenti. I segni sul corpo di Giulio parlano chiaro e rimandano alle pratiche dei torturatori per antonomasia che ogni giorno sconvolgono le vite di centinaia di giovani egiziani.

I primi a non poter più sopportare le pratiche arbitrarie degli scagnozzi del regime sono proprio gli egiziani. Se le proteste del 2011 sono iniziate per criticare i crimini dei poliziotti, per ricordare la morte di un giovane ad Alessandria, Khaled Said, ucciso proprio dalla polizia locale, le cose sono solo peggiorate negli ultimi anni. Tra il 25 e il 28 gennaio 2011 la polizia era quasi sparita dalle strade del Cairo. Finché non è stata chiara l’ondata controrivoluzionaria che ha rinvigorito il ministero dell’Interno. Proprio con l’accordo tra militari e polizia è stato possibile realizzare il golpe militare del 3 luglio 2013. Da quel giorno è iniziata la vendetta della polizia e dei magistrati contro i Fratelli musulmani: centinaia di condanne a morte, arresti sommari, omicidi di massa.

Ma la polizia nel regime militare di al-Sisi può fare davvero il bello e il cattivo tempo. Giovedì sera due uomini tra cui un poliziotto sono saliti su un taxi Suzuki nel quartiere di Darb el-Ahmar, nel centro antico del Cairo. Una volta raggiunta la loro destinazione si sono rifiutati di pagare il tassista: una pratica comune per i poliziotti che vivono di piccole tangenti, minacce e corruzione. Ne è nato un alterco e il tassista è stato ucciso. Le ricostruzioni si fanno sommarie ma sembra che il poliziotto sia stato aggredito dalla folla.

È subito iniziata una protesta spontanea nel quartiere contro la polizia. Un caso simile si è verificato lo scorso giovedì ad Assiut, città dell’Alto Egitto. Un altro dei quartieri cairoti dove gli scontri tra cittadini e polizia sono all’ordine del giorno è Matareya. La zona ha una forte maggioranza di Fratelli musulmani. Lì le pratiche della polizia sono sempre più dure e le torture contro gli islamisti moderati quotidiane. Proprio i medici degli ospedali di Matareya hanno protestato per la continua falsificazione dei report dei torturati, imposta con minacce dalla polizia locale.

Stavolta, con Giulio Regeni, la fabbricazione di prove false potrebbe non bastare per le autorità egiziane. Sebbene la stampa filo-governativa stia accreditando la pista dell’omicidio deciso dalla Fratellanza musulmana, nessuno crede a questa ricostruzione. Gli islamisti moderati hanno subìto la più dura repressione della loro storia. I loro leader sono in prigione, incluso l’ex presidente Morsi, con accuse vaghe e inconsistenti. Il partito, Libertà e giustizia, la confraternita e anche la Coalizione per la legittimità, nata per difendere l’ex presidente eletto, sono state dichiarate fuori legge dal 2014 in poi. Accusare quindi il primo partito di opposizione della morte del giovane dottorando italiano è davvero l’ultimo dei depistaggi per non risalire alle vere responsabilità.

Vari apparati potrebbero essere coinvolti nell’arresto, tortura e morte di Giulio. Prima di tutto il Mabahes (la polizia investigativa). È una polizia di primo livello impegnata a prelevare i sospettati di reati politici. Tra gli esponenti del Mabahes figura proprio Khaled Shalaby, detto «Erkab» (che in arabo vuol dire «sali in macchina»). Shalaby è un torturatore, condannato in primo grado dal tribunale di Alessandria, e a guida delle indagini nel caso Regeni. Dal Mabahes, Giulio Regeni potrebbe essere passato di mano in mano fino ad arrivare all’Amn el-Dawla dove sarebbe stato torturato per giorni. Non è ancora chiaro quanti giorni siano passati dal momento dell’arresto alla morte. Qui sono intervenuti anche tanti ritardi sia nella diffusione della notizia sia nell’attivazione delle autorità competenti da parte egiziana.

È possibile che nell’arresto di Giulio sia intervenuta anche l’Amn el-Markazi (Sicurezza centrale). Tuttavia, questo gruppo paramilitare è controllato dall’esercito e di solito non opera nella zona di Doqqi. Se però Giulio Regeni è stato arrestato nei pressi della metro Mohamed Naguib anche Amn el-Markazi potrebbe essere coinvolta nel prelevamento del giovane, mentre non sono impegnati in arresti le forze della polizia militare (shorta al-askareya) che di solito intervengono solo in caso di grandi manifestazioni ed erano molto impegnate in piazza Tahrir. Le lunghe torture sono spesso perpetrate anche dai baltagy (criminali) alle dipendenze degli uomini del ministero dell’Interno. Si tratta di malavitosi difficili da controllare e che spesso agiscono impunemente e dispongono di grandi somme di denaro che poi reinvestono in piccoli business e negozi nelle aree dove vivono.

Infine, sono state diffuse le immagini della decapitazione di due uomini in borghese da parte di Beit al-Mekdisi, gruppo attivo nel Sinai. I due sono presentati come delle spie dell’Intelligence militare. I jihadisti del Sinai rivendicano la loro affiliazione allo Stato islamico (Isis) e si sono resi responsabili di decine di arresti sommari, decapitazioni e attentati. Sono centinaia i soldati e i poliziotti uccisi nella regione dove vige ormai da mesi lo stato di emergenza.

Corriere della Sera
L’INTERVISTA

«REGENI NON FACEVA RICERCA POLITICA. STIAMO RIVEDENDO I CRITERI DI RISCHIO»
intervista di Viviana Mazza a David Runciman
Runciman, direttore del suo dipartimento a Cambridge: troppe speculazioni

Professor David Runciman, qual è il suo ruolo rispetto agli studi di Giulio Regeni a Cambridge?
«Io sono il capo del dipartimento di Politica e Studi internazionali e questo include il centro per gli Studi dello sviluppo dove lavorava Giulio. Ho la supervisione di tutti gli studenti che lavorano all’estero, sappiamo delle ricerche che conducono e ci assicuriamo che si tratti di lavoro accademico convenzionale, ho avuto questo ruolo con Giulio, ed eravamo consapevoli che stava lavorando anche con l’American University in Cairo».

Ha cominciato a settembre e la fine del lavoro sul campo era marzo. Doveva scrivere durante questo periodo?
«No, il punto del lavoro sul campo è di fare ricerca, lavoro d’archivio, interviste; e ci si aspetta che poi si finisca a Cambridge, non c’erano report che stava scrivendo per noi mentre era là».

Maha Abdelrahman era la sua unica supervisor a Cambridge?
«Maha era la sua supervisor e lo seguiva come seguiamo tutti gli studenti».

Gli investigatori dicono che sarebbe stato spinto a intensificare le sue ricerche in modo più partecipativo.
«Sono speculazioni senza base, e distraggono dalla questione centrale. Vogliamo sapere la verità su chi l’ha ucciso. Era un ricercatore accademico innocente ed è stato brutalmente assassinato».

Lei parla di ricerca mainstream ma altri ricercatori che trattano questi temi hanno avuto problemi con le autorità al Cairo. Non c’è una responsabilità dei docenti quando un ricercatore è mandato in un luogo potenzialmente rischioso?
«Riconosciamo di avere una responsabilità per tutti gli studenti. Giulio lavorava su un tema mainstream, cioè non un tema politico, si trattava di analisi su economia e sviluppo. Quello che gli è successo è completamente inspiegabile».

Una email di Giulio mostra che voleva fare domanda per un fondo di diecimila sterline della Antipode Foundation, un progetto tra attivismo e ricerca.
«Le ricerche che sappiamo stava conducendo non erano in un territorio opaco tra attivismo e ricerca, si trattava di ricerca accademica. Non ho visto quest’email e non commenterò».

La supervisor è stata sentita dalla Procura di Roma.
«Maha era al funerale di Giulio, è stata portata via dalla polizia e interrogata dal procuratore in circostanze che noi consideriamo estremamente insensibili, non le sono state date sufficienti spiegazioni e non parla italiano. Era in Italia per piangere Giulio, quello che è stato detto ai media italiani dopo quel colloquio non ha basi, sono state rivelate cose che si dichiara che avrebbe detto, ma lei non ha detto. Non era in grado di capire cosa veniva detto sul suo conto».

Il dipartimento ha un modulo di valutazione del rischio, un risk assessment form, quando gli studenti vanno all’estero?
«Sì, per Giulio l’ho firmato io. Abbiamo seguito i consigli del Foreign Office. Il Cairo era un posto del tutto sicuro secondo il British Foreign Office. Il fatto che qualcosa di terribile sia accaduto non invalida il fatto che quando è partito, era in linea con i criteri dei rischi».

Il risk assessment è cambiato per mandare altri studenti al Cairo?
«Lo stiamo rivedendo, anche se la valutazione del Foreign Office non è cambiata».

Cambridge avrebbe approvato il fatto che Giulio voleva scrivere per il manifesto?
«Il nostro lavoro era di approvare il suo lavoro accademico».

«Egitto. Resa dei conti per il team investigativo italiano, ostruito dal regime. Sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime».

Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)

Oggi è la giornata decisiva per le indagini sulla tortura e morte del dottorando italiano, Giulio Regeni. Il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), volati al Cairo subito dopo il ritrovamento del cadavere lo scorso 3 febbraio, aspetta ancora che le autorità egiziane consegnino tabulati telefonici, tutti i numeri agganciati dall’ultima cella dal cellulare di Giulio e i filmati delle telecamere a circuito chiuso nella zona di Doqqi. Sarebbe utile chiedere anche i video intorno alla metro Mohamed Naguib, non lontano da piazza Tahrir e dove Giulio era atteso, poiché ancora non è sicuro dove Giulio sia stato prelevato.

Se ancora una volta la collaborazione egiziana sarà solo a parole o si limiterà a fornire false prove, come è avvenuto con il supertestimone che ha parlato di due agenti in borghese che avrebbero prelevato il giovane sotto casa, contraddetto dalle deposizioni dei coinquilini di Giulio, è possibile che il team italiano ritorni a Roma o esprima apertamente il suo disappunto.

Fin qui le autorità egiziane hanno voluto insabbiare il caso. Non solo, sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime. Il ministro della Salute ha disposto per il prossimo lunedì la chiusura del Centro per la riabilitazione delle Vittime delle violenze (El Nadeem). La questione delle torture è davvero centrale per smascherare le malefatte del regime di al-Sisi e i metodi arbitrari della polizia egiziana contro cui giovani e migranti erano scesi in piazza nel 2011.

Per questo, nello show televisivo di Ontv, Youssef al-Hussein si è presentato con una maglietta con la scritta una «Nazione senza torture». L’iniziativa è in solidarietà con Mahmoud Mohammed, un giovane imprigionato per oltre due anni perché indossava quella stessa maglietta. Mahmoud potrebbe essere accusato di terrorismo e finire nelle mani sanguinarie della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla). La rilevanza dell’impunità degli atti di tortura è tornata evidente proprio nel caso Regeni.

Il capo della polizia investigativa che sta indagando sul caso, Khaled Shalaby, era stato condannato in primo grado per tortura. Vari ufficiali in prigione per aver praticato torture sono stati prosciolti tra di loro il luogotenente, Yassin Salah Eddin, l’ufficiale responsabile di aver sparato all’attivista socialista, Shaimaa el-Sabbagh. La Corte di Alessandria ha poi prosciolto, l’ufficiale, Hossam El-Shennawy, detenuto con l’accusa di aver torturato a morte, Sayed Bilal nel gennaio del 2011.

Questo muro contro muro delle autorità egiziane che in nessun modo sembrano interessate ad arginare lo stato di polizia in cui vive il paese arriva mentre l’allerta sicurezza, innalzata sin dal 25 gennaio, quando Giulio Regeni è scomparso in occasione del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non si è affatto placata in Egitto.

La seconda conferenza economica di Sharm el-Sheikh, prevista per maggio, è in via di cancellazione. La stessa cosa era accaduta la scorsa settimana con il World Economic Forum (Wef). In questa fase, il Cairo è in contatto con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per stabilire le condizioni per il nuovo prestito. Non solo sarebbero dovuti essere siglati contratti miliardari con l’italiana Eni in merito alla gestione del prospetto esplorativo Zohr IX, il maxi giacimento di gas che cambierà gli assetti economici nel Mediterraneo orientale.

Ma sono tutti gli egiziani a sembrare davvero poco soddisfatti della presidenza al-Sisi dopo la bassissima partecipazione elettorale alle ultime elezioni presidenziali e parlamentari. Non sono solo i medici a protestare per le violenze che sono costretti a subire da parte della polizia per falsificare i loro report sulle torture. Si sono uniti a loro anche gli studenti universitari. Le elezioni studentesche sono state annullate dalle autorità egiziane.

Secondo molti studenti della coalizione Voce dell’Egitto, i risultati del voto annullato non avrebbero garantito le intenzioni del governo di mettere le mani sugli atenei. Dopo il golpe militare, le università sono state veri centri di opposizione. I movimenti studenteschi più intransigenti si sono concentrati negli atenei di Ayn Shamps e al-Azhar, università tradizionalmente vicine ai Fratelli musulmani.

Secondo gli attivisti universitari, le autorità non permettono agli studenti detenuti di sostenere gli esami. Alcuni membri delle associazioni legate al gruppo Egitto Forte nelle università hanno anche accusato le amministrazioni accademiche di impedire ai membri dei gruppi giovanili della Fratellanza musulmana e di 6 aprile di prendere parte alle elezioni studentesche.

Infine, anche i ricercatori egiziani, dopo i dipendenti pubblici, sono scesi in piazza per protestare contro disoccupazione e precarietà per lavoratori qualificati.

«». Il manifesto


È venuto il momento che il manifesto, dopo avere indagato anch’esso sulla tragica morte di Giulio Regeni e di fronte a tante, troppe illazioni, per rispetto di Giulio e della sua famiglia e per rispetto anche dei nostri lettori provi a chiarire equivoci, sbagli, ma anche a confermare convinzioni profonde su questo atroce delitto che non esitiamo a definire di Stato. Perché intorno alle circostanze della morte dolorosa di Giulio Regeni, mentre emergono notizie e verità sconcertanti sulla sua uccisione, rischiano di piovere prese di posizione in aperta contraddizione.
Qualcuno ci accusa di non aver pubblicato subito l’articolo inviatoci co-firmato con uno pseudonimo; altri di essere stati «sciacalli» per averlo pubblicato dopo; qualcun altro di non avere chiarito se era o no un collaboratore; infine di non pagare i collaboratori.

1) Per prima cosa vogliamo subito dire che, dopo attenta valutazione, abbiamo finalmente accertato che Giulio Regeni aveva proposto al un solo articolo insieme a un altro collaboratore e con lo pseudonimo. Abbiamo equivocato che fossero suoi anche due contributi precedenti perché di eguale contenuto (i sindacati) e con pseudonimo. Cosa che sottolineava ai nostri occhi la cautela se non proprio la preoccupazione di Giulio Regeni. Di questo equivoco ci scusiamo sia con i lettori che con la famiglia e con l’avvocata Alessandra Ballerini.

2) L’articolo al quale Regeni aveva collaborato era in attesa di pubblicazione, non era stato ancora pubblicato perché accade così nelle redazioni. Un contributo sul sindacato egiziano andava contestualizzato, soprattutto in vista dell’anniversario del 25 gennaio di Piazza Tahrir. Non riuscivamo a metterlo nel modo adeguato e allora Giulio e l’altro collaboratore lo proposero a Nena News dove è stato pubblicato.
Ma, ecco il punto, l’atteggiamento di Giulio che insieme a un altro collaboratore aveva proposto l’articolo non è di chi si mostra irritato per la non pubblicazione, ma positivo, anzi ancora motivato e propositivo. Ci scrivono infatti il 12 gennaio: «Un po’ a malincuore abbiamo deciso di proporre il pezzo ad altre testate online altrimenti invecchierebbe troppo. Restiamo comunque molto volentieri a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto. Per noi è un piacere poter pubblicare sul . Grazie della vostra disponibilità, a presto».

3) Da questo punto di vista, chiariamo la questione del «collaboratore». Giulio Regeni era entrato in contatto con il manifesto, non era un collaboratore come tradizionalmente s’intende. Diverso è il caso di sfruttare il lavoro gratuito, come recita una delle accuse circolate in Rete. Su questo il manifesto può ricordare le tante pagine dedicate all’analisi di come il lavoro gratuito è usato contro gli altri lavoratori (ad esempio qui).
Ma ci sono tanti freelance che scrivono per il manifesto. Per noi sono compagni di viaggio. Li paghiamo poco e spesso in ritardo. Ma li paghiamo. Collaborare con noi vuol dire sensibilità comune sui contenuti, approfondimento di temi condivisi, e poi anche un articolo.
Non a caso Giulio Regeni era entrato in rapporti con noi — a questo teniamo in modo particolare -, visto il nostro lavoro d’indagine e denuncia sulle crisi del Medio Oriente e in particolare sull’Egitto.
Si dimentica infatti con grande facilità che siamo stati quasi l’unico giornale a denunciare da subito i crimini del golpe militare dell’estate 2013 del generale Al-Sisi raccontando quel massacro e tutte le malefatte sanguinose che ne sono seguite, da allora fino ad oggi. E la solitudine era terribile l’anno seguente quando denunciammo il presidente del consiglio Matteo Renzi che per primo sdoganava con una visita al Cairo il golpista proclamando che era «l’uomo nuovo emergente in Medio Oriente» e poi ricevendolo e incontrandolo anche a Roma.

4) Perché nelle ore difficili e concitate il giorno dopo l’annuncio del ritrovamento del suo corpo martoriato abbiamo allora deciso di pubblicare l’articolo che Giulio Regeni ci aveva proposto e che non eravamo riusciti a pubblicare?
Dovrebbe essere evidente, l’abbiamo già scritto ma vale la pena ripetere: esattamente perché la tragedia che si era appalesata diceva che quel testo non rappresentava più un semplice buon articolo ma era diventato un documento fondamentale, «il» documento, per capire perché davvero fosse stato sequestrato, torturato e ucciso così barbaramente.
Non ne avevamo diritto? No, avevamo il di farlo.
Abbiamo rifiutato di stare zitti, un giornale non può farlo, tantomeno poteva farlo il manifesto. Solo a dieci giorni dalla scomparsa di Giulio Regeni e a due dalla sua morte comprovata, abbiamo deciso di pubblicare l’articolo-documento.
È elemento di verità inoltre ricordare che i timori e i guai che hanno riguardato l’ambiente degli amici di Giulio sono cominciati non con la pubblicazione dell’articolo, ma per l’assassinio di Giulio Regeni.

5) Un’ultima doverosa considerazione. Crediamo di non avere sbagliato a pubblicarlo perché così facendo difendevamo le ragioni di Giulio Regeni. E poi, se non avessimo deciso di pubblicarlo non saremmo forse ancora alle prese con una verità comodissima, quella del crimine malavitoso o a sfondo sessuale? E’ così evidente che le autorità del regime egiziano continuano a far finta di nulla, a trincerarsi dietro «le indagini» e intanto probabilmente preparano proprio quella verità di comodo che il nostro governo a parole dichiara di volere evitare.
Abbiamo pubblicato l’articolo di Giulio (tacendo naturalmente il nome dell’altro collaboratore) perché fossero chiari i motivi politici che avevano indotto a ucciderlo e confutare così il tentativo di attribuire la sua morte a un volgare crimine malavitoso o a sfondo sessuale, tutte piste vergognose su cui le autorità insistono, dando spazio all’oggettività di una indagine che ha invece profondi contenuti politici.
Riprendiamo alcuni articoli dal quotidiano che ha seguito con maggiore attenzione la tragedia che è avvenuta al Cairo, e che prosegua ancora, Articoli di Norma Rangeri, Giuseppe Acconcia, Mona Seil.

Il manifesto, 6 febbraio 2016



EGITTO,
IN MOTO LA MACCHINA DELL'OBLIO
di Giuseppe Acconcia

Egitto. Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti «terroristici o politici» ma «si tratterebbe di un atto criminale». Oggi alle 13 la salma arriverà a Roma

Vogliamo la piena verità sulla scomparsa di Giulio Regeni. Le autorità egiziane hanno già messo in moto la macchina dell’oblio sulla tragica vicenda del dottorando italiano, trovato morto al Cairo nel quartiere di 6 ottobre mercoledì scorso. Sono bastate le prime ricostruzioni del Capo dipartimento per le indagini generali del governatorato di Giza, Khaled Shalaby, per giustificare le ricostruzioni che hanno legittimato la pista dell’incidente stradale.

Le rivelazioni che erano emerse da una prima indagine sul corpo del dottorando friulano, effettuate dal procuratore Ahmad Nagi nell’obitorio Zeinum di Sayeda Zeinab, nel centro del Cairo, avevano fatto emergere particolari inquietanti. La stampa locale ha fatto riferimento ad un «corpo bruciato» a cui si erano aggiunte le atroci rivelazioni su segni di tortura e maltrattamenti. Questo quadro fa pensare senza dubbio ad un coinvolgimento della polizia nel fermo, scomparsa e uccisione di Giulio.

Un team di investigatori italiani seguirà le indagine al Cairo per stabilire la verità sul caso. Gli investigatori hanno fatto sapere che sarà effettuato un esame tossicologico sul corpo del giovane.

Il pm Sergio Colaiocco aveva ipotizzato il reato di omicidio volontario e avviato una rogatoria internazionale per avere dalle autorità egiziane copia degli atti compiuti dal momento del ritrovamento della salma.

Ma qui si impongono domande necessarie che sarà importante demandare all’equipe di medici che effettueranno l’autopsia italiana una volta che la salma sarà in Italia oggi alle 13. Per esempio, quando è stato ucciso Giulio? Subito dopo la scomparsa o qualche giorno dopo? Già questo potrebbe dare un’indicazione più precisa sulle cause della morte.

A quel punto bisognerebbe capire se i tagli sul corpo sono i segni di una detenzione prolungata. E quindi come è morto Giulio? Alcune ricostruzioni hanno parlato di un violento colpo alla testa.

Anche queste sono prove compatibili con le molestie che centinaia di persone comuni subiscono quotidianamente nelle carceri egiziane.

E poi ovviamente la domanda più importante è chi ha ucciso Giulio e perché lo ha fatto? Non ci sono legami certi tra la ricerca sul sindacalismo indipendente e le cause della scomparsa.

Eppure poche ore dopo la diffusione della notizia della sua sparizione, il quotidiano filo-governativo al-Ahram aveva già diffuso un identikit del giovane e degli ambienti che frequentava.

Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti «terroristici o politici» ma «si tratterebbe di un atto criminale».

Anche la pista della rapina finita male o dell’atto di criminalità comune sembrano un’offesa grave per la memoria di Giulio. La data del 25 gennaio è già di per sé un elemento chiaro che rende evidente la pista dell’arresto. Il dispiegamento di forze dell’ordine e la tensione era alle stelle a causa delle possibili manifestazioni.

E poi Giulio, solo perché straniero, era già passibile di fermi della polizia. Lo spiega bene su Twitter l’attivista Mona Seif, moglie di Alaa Abdel Fattah, socialista in prigione per le sue campagne contro i processi militari civili e il suo impegno anti-regime, più volte intervistato dal manifesto. «Se siete stranieri per favore non venite in Egitto. Almeno non adesso. Finché non saremo capaci di darvi un minimo di sicurezza e un trattamento adeguato da parte della popolazione e delle autorità», ha scritto Mona (v. a pagina 3 il testo integrale dell’appello). L’attivista fa riferimento proprio al clima di xenofobia instillato negli egiziani e che sarebbe alla base degli interventi sommari della polizia.

Un primo piccolo funerale egiziano si è svolto al Cairo prima della partenza della salma. È possibile che si tenga una veglia funebre a Roma nelle prossime ore.

Anche i social network si sono mobilitati per una dimostrazione di solidarietà nei confronti di Giulio Regeni chiedendo a compagni e amici di portare dei fiori ai cancelli dell’ambasciata egiziana a Roma in segno di solidarietà con il giovane. Il noto fumettista Carlos Latuff ha voluto ricordare Giulio rappresentandolo abbandonato in una pozza di sangue, assieme ad altri corpi esanimi, in un veicolo della polizia egiziana: «Un’altra vittima del regime di terrore di al-Sisi».


IL DOLORE E GLI AVVOLTOI
di Norma Rangeri

Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni.

Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione.

Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. [q avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte [qui in calce uno degli ' avvoltoi' cui si riferisce Rangeri-ndr]. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.

Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».

Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.


IL 'GIORNALE' GIOCA ALLE SPIE

Giulio Regeni «era un agente dei servizi segreti». Al Giornale è bastato aggiungere la parola «mistero» ed ecco un pezzo pronto per l’edizione online di ieri mattina, merce ideale da dare in pasto ai calunniatori del web.
Merce avariata, pescata dai bassifondi della rete (dal blog del «giornalista investigativo» Marco Gregoretti) secondo la quale Giulio «era un agente dell’Aise», cioè l’ex Sismi, che si occupa di terrorismo internazionale. Selezionato dall’intelligence «qualche anno fa» (Regeni al momento in cui è stato ucciso al Cairo aveva 28 anni) per le sue «buone conoscenze informatiche» e «master vari». Secondo Gregoretti e secondo il Giornale «si trovava in Egitto con la scusa della tesi di laurea» – si trattava in realtà della tesi di laurea per l’università di Cambridge.
E chissà che ad emozionare questi giornalisti investigativi non sia stata proprio l’università di Cambridge. Avranno visto anche loro qualche film sui «magnifici cinque» di Cambridge, gli agenti segreti inglesi che proprio in quel famoso college si erano incontrati e che facevano il doppio gioco per l’Unione sovietica, il più noto dei quali era Kim Philby. Tant’è che secondo il Giornale e la sua fonte era proprio «la collaborazione giornalistica» di Regeni «con il manifesto» a «funzionare da perfetta copertura». Peccato che Giulio aveva mandato i suoi pezzi al nostro giornale chiedendoci di pubblicarli con uno pseudonimo, cosa che abbiamo fatto: una ben strana copertura – il dettaglio dev’essere sfuggito a questi giornalisti investigativi. Che investigando investigando avrebbero scoperto altri spioni al manifesto: «È successo nel passato». Giornalisti spioni? Certo che è successo, e nella redazione di Sallusti dovrebbero conoscerne qualcuno.

E così ieri mattina, qualche ora dopo lo «scoop» del sito del Giornale, ecco la smentita «con stupore e costernazione» che arriva da fonti dell’intelligence italiana. Secondo le quali si tratta di «inqualificabili falsità e strumentalizzazioni». Sono fonti anonime, ovviamente. E del resto il giochino di questi giornalisti investigativi era fin troppo prevedibile: i servizi segreti avrebbero smentito in ogni caso. Ma al sito del Giornale poco dopo non è rimasto che prendere atto. Sparito il «mistero» accanto alla notizia è comparso un aggettivo: «Presunta»


L’APPELLO DI MONA SEIF:
«STRANIERI NON VENITE IN EGITTO»
di Mona Seif
Mona Seif, 29 anni, è tra le più famose attiviste per i diritti umani dell’Egitto post Mubarak. Il fratello Alaa Abd El-Fattah è stato più volte incarcerato come leader del movimento di piazza Tahrir e ha subìto l’ultima condanna a 5 anni di carcere nel 2015. Mona ha seguito lo sviluppo tragico del caso di Giulio Regeni e ieri è tornata su Facebook per rivolgere un appello agli stranieri che vogliono venire Egitto. È un duro atto di accusa del clima di violenza, diffidenze, intimidazione, che si vive in Egitto. Ecco l’appello:

«Questo è un messaggio sincero: Se siete uno straniero PER FAVORE non venire in Egitto. Almeno non adesso. Non venire finché non saremo capaci di darti un minimo di sicurezza e un trattamento adeguato da parte della popolazione e delle autorità. Non venire finché i media continuano a istigare le persone, spingendole a dubitare di qualsiasi straniero incontrato per strade come se fosse una spia potenziale che cerca di distruggere il loro Paese, non venire finché qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare senza motivo chiunque cammini per strada, e non finché questo stato di paura/dubbio spinge ognuno a prendere le questioni nelle proprie mani.

«Non venire finché la polizia si trova ad orchestrare molti dei rapimenti, e quando non è direttamente implicata è totalmente inutile nell’opera di prevenzione dei crimini, nel proteggervi, e persino nel rivelare quanto è accaduto dopo che è accaduto.

«Per favore state lontani da questo paese che è piagato dalla morte e dall’orrore in ogni suo angolo, finché non riusciremo in qualche modo a riconquistare uno spazio comune sicuro per tutti, per quelli che vivono qui e per coloro che vengono da fuori.

«Se insistete nel venire a studiare o anche solo a visitare o esplorare l’Egitto adesso, siate pienamente consapevoli dei veri rischi che si corrono anche solo camminando per strada, anche solo esistendo.

«Mi dispiace molto per la famiglia e gli amici di Giulio Regeni.

«Noi ci siamo così abituati alle notizie quotidiane di torture, rapimenti e morti che le abbiamo quasi accettate come parte integrante delle nostre identità, un prezzo inevitabile per il nostro essere cittadini. Ma non riesco a immaginare cosa si possa provare nel perdere una persona amata per questo orrore, e in un paese così lontano da casa. Mi dispiace molto che il calore e l’entusiasmo che Giulio aveva per l’Egitto siano stati ripagati con tanto dolore e tanta crudeltà».

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