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Il rischio è che alla paura che annebbia la ragione si continui a rispondere con atti e politiche che accrescano il gigantesco giacimento di rabbia da cui nasce il terrorismo. È necessario invertire la rotta nei rapporti tra l'Europa e il resto del mondo. Il manifesto, 23 marzo 2016

Il cordoglio e la pietà per le vittime degli attentati di Bruxelles dovrebbero renderci più umani e non più feroci nell’affrontare il vero conflitto con cui dobbiamo misurarci se vogliamo prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista: quel conflitto verso i profughi che rende l’Europa così fragile e debole. L’urgenza di difenderci non deve farci dimenticare che il terrorismo non si combatte con la guerra, che é ciò che lo ha prima covato e poi nutrito nel corso degli ultimi anni.

Né con lo Stato di polizia, che non fa che promuoverlo, e meno che mai con la “caccia allo straniero”; bensì combattendo le discriminazioni e il disprezzo di cui si alimenta il rancore che di cui si alimenta il terrorismo. Per questo non c’è niente che metta in forse la convivenza in Europa quanto il cinismo e la ferocia con cui i suoi governi trattano i profughi che si presentano alle sue porte per sottrarsi al terrore che rende impraticabili tutti quei paesi – e non solo la Siria – da cui cercano di fuggire.

Quello che si è aperto, soprattutto nell’area che abbraccia Europa, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, è uno scontro intorno al riconoscimento di un diritto ovvio, perché “naturale” nel senso più banale del termine, ma ostico e difficile da accettare.

L’asilo, la protezione internazionale accordata ai profughi e normata dalla convenzione di Ginevra, era stato concepito finora, più che come un diritto, come una concessione delle democrazie liberali a chi fuggiva per sottrarsi a una dittatura e poi, per estensione, a una guerra civile. Ma oggi quelli con cui l’Europa e gli Stati che per ragioni geografiche o storiche gravitano intorno al Mediterraneo si confrontano sono esodi di massa in cui i fattori guerra e dittatura si mescolano inestricabilmente con quelli ambientali e climatici. Tanto che all’origine di molti dei conflitti armati in corso – compreso quello in Siria – non è difficile riconoscere un deterioramento ambientale provocato dallo sfruttamento incontrollato di risorse locali, ma, sempre più spesso, dai cambiamenti climatici in atto. Questo rende priva di fondamento la distinzione tra profughi di guerra, da accogliere, e migranti economici, da rimpatriare.

In un modo o nell’altro, sono ormai tutti profughi ambientali – una figura non contemplata dalle convenzioni sulla protezione internazionale – ma la cui presenza sarà centrale nel contesto sociale e politico dei decenni a venire.

Quello scontro tra chi rivendica un diritto “naturale” alla vita e chi glielo vuole negare si ripercuote, all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in un conflitto sempre più acceso e centrale – tanto da far passare in second’ordine tutti gli altri, o da subordinarne ad esso le manifestazioni – tra chi si schiera a favore dell’accoglienza e chi si mobilita per sostenere i respingimenti. Ai due poli di questi schieramenti, che stanno facendo piazza pulita della configurazione tradizionale dei partiti e delle forze politiche, troviamo da un lato una folta schiera di volontari, delle più varie estrazioni sociali e anche politiche o religiose, che si adoperano in mille modi per assistere e accogliere i profughi. Dall’altro degli squadristi impegnati in assalti ai siti dove i rifugiati vengono spesso solo “immagazzinati”.

Ma intorno a questi squadristi si sta creando un cordone di condivisione e di aggregazioni politiche di stampo nazionalista (o “sovranista”) e, in buona misura, razzista, in netta avanzata ovunque. Mentre la simpatia che suscita l’azione dei volontari stenta – per usare un eufemismo – a farsi strada sia in termini di appoggio politico che come “comune sentire”. Anche perché le soluzioni prospettate dalla destra sono semplici, spicce e non affrontano le loro inevitabili conseguenze: una stretta, non solo politica, ma anche economica e sociale, sui diritti di tutti, una guerra che trasforma in nemici tutti coloro che oggi cercano e non trovano salvezza in Europa, una serie infinita di stragi in terra e in mare che finirà per configurarsi come un vero sterminio; mentre la scelta di accogliere, al di là delle emozioni immediate che suscita la vista di tanta miseria, è complicata, richiede programmi, ragionamenti, svolte e impegni radicali.

Da tempo i governi europei si sono in gran parte lanciati all’inseguimento delle forze di destra. Una rincorsa vana, perché quegli argomenti li sanno usare meglio le forze apertamente razziste. Ma soprattutto perché sono incapaci di fare i conti con la dimensione effettiva del problema e delle misure necessarie per farvi fronte: rinuncia all’austerity, alla contrazione di spesa pubblica e welfare, a quella precarizzazione del lavoro che ha creato milioni di disoccupati, e un impegno effettivo nella conversione ecologica, unico modo, peraltro, per creare milioni di nuovi posti di lavoro utili a tutti. Quella incapacità li sospinge così verso politiche sempre più feroci e antipopolari, come gli hot spot, il filo spinato, la guerra in Libia o l’indecente accordo con la Turchia, insensato e suicida quanto cinico e spietato. Che però ha fatto contenti tutti i governanti, che possono così aspettare qualche mese, fino a una nuova resa dei conti, per ammettere che non sanno che cosa fare; compreso Renzi, che si è improvvisamente fatto paladino di un’Europa più “umana”, ma che ha chiesto subito l’estensione di quell’accordo alle altre situazioni su cui verranno deviate le prossime ondate di profughi.

Sostenitori e nemici dell’accoglienza, si ritrovano, tanto tra le forze di sinistra e di centro quanto nel mondo cristiano e soprattutto in quello cattolico, che si questo tema rischia una frattura storica e persino tra molte persone di destra (tra cui c’è ancora qualche emulo di Perlasca). È una contrapposizione che lavora alla dissoluzione degli schieramenti e dei rituali politici tradizionali, ma anche a un riposizionamento di classi e forze sociali, verso le quali c’è bisogno di un approccio politico nuovo, prammatico, non rituale né “ideologico” senza il quale la vittoria delle destre e del razzismo è scontata.

Oggi non è più possibile “fare politica”, lavorare alla ricostituzione di un fronte sociale che faccia valere gli interessi delle classi e dei cittadini sfruttati e oppressi, senza individuare nelle varie forme di volontariato, nelle loro pratiche, nelle loro necessità, nelle loro iniziative e, soprattutto, nei legami che riescono a creare con la nazione dei profughi un riferimento irrinunciabile per ogni possibile ricomposizione delle forze che vogliono un’altra Europa perché vogliono un’altra società.
Chi produce armi per le guerre è complice di chi le guerre le promuove, le scatena e le conduce; è complice quindi degli stermini di massa provocati dalle armi più distruttive. L'Italia e una parte consistente della sua industria appartengono a questa genìa. Sempre più, sembra.

Antonio Mazzeo Blog, 21 marzo 2015

Le aziende del gruppo Finmeccanica fanno grandi affari con le armi di distruzione di massa delle forze armate Usa. A fine 2015, la controllata DRS Technologies, con sede ad Arlington (Virginia), azienda leader nella fornitura di sistemi di sorveglianza, reti satellitari e telecomunicazione, ha sottoscritto un contratto con US Navy per un valore massimo di 384 milioni di dollari per produrre equipaggiamenti elettronici di ultima generazione da destinare a varie classi di sottomarini, nucleari e non. “Grazie all’aggiudicazione di questa commessa, DRS Technologies diventa prime contractor della Marina militare americana, ampliando così il ruolo dell’azienda come principale fornitrice di sistemi di combattimento per sottomarini”, spiegano i manager di Finmeccanica.

Una parte importante del contratto riguarderà l’ammodernamento dei sistemi di propulsione della classe di sottomarini lanciamissili balistici “Ohio”, uno dei sistemi d’arma chiave nelle dottrine di guerra nucleare del Pentagono. Azionati da un reattore del tipo S8G (di ottava generazione), realizzato da General Electric, quattordici unità della classe “Ohio” sono armati ognuno con 24 missili intercontinentali Trident II D5 con una gittata di 12.000 km, in grado di trasportare fino a 12 testate nucleari del tipo W88, con una potenza distruttiva di 475 chilotoni. Complessivamente ogni sottomarino imbarca 192 testate atomiche, un vero e proprio arsenale di morte per attacchi multipli su obiettivi sparsi in tutto il pianeta. Altri quattro sommergibili della stessa classe (l’Ohio, il Michigan, il Florida e il Georgia) sono predisposti invece al lancio dei missili da crociera BGM-109 Tomahawk, in grado di trasportare a 2.500 km di distanza sia testate nucleari che convenzionali. Tutti gli “Ohio” sono armati infine con una dozzina di siluri Mark 48, capaci di percorrere sino a 40 Km di distanza a una velocità superiore ai 55 nodi. Questi siluri trasportano testate dotate di uranio impoverito e rame liquido, la cui combustione può perforare anche navi o sottomarini a doppio scafo.

Il 30 settembre 2014, la controllata la DRS Laurel Technologies con sede a Johnstown (Pennsylvania), si era aggiudicata un contratto del valore di 171,2 milioni di dollari per fornire computer, display, hardware, ecc., per sviluppare le reti informatiche dei sottomarini Usa delle classi “Los Angeles”, “Seawolf”, “Virginia” e “Ohio”. Il contratto firmato con l’U.S. Naval Undersea Warfare Center Division di Keyport, Washington, includeva pure la fornitura di sonar, processori e sistemi elettronici di controllo armi di ultima generazione “TIH” per i sottomarini d’attacco della classe “Collins” della marina di guerra dell’Australia, nell’ambito di un accordo di cooperazione con il Pentagono. A fine 2011 sempre DRS Laurel Technologies aveva ottenuto una commessa del valore di 691 milioni di dollari dalla Lockheed Martin Corp. Mission Systems and Training di Manassas (Virginia) per fornire i sistemi sonar e di combattimento TIH ai sottomarini nucleari di US Navy.

Intanto il Pentagono ha predisposto un ambizioso programma a medio termine per lo sviluppo di una nuova classe di sottomarini lanciamissili balistici che sostituisca gli “Ohio” a partire dal 2029. Con un costo stimato di 95,8 miliardi di dollari, l’Ohio Replacement Program ha già un nome in codice “Hence SSBN-X”. La nuova classe di sommergibili dovrà trasportare 16 tubi di lancio ciascuno, in contrapposizione agli attuali 24, e sarà predisposto per il lancio di ordigni nucleari e convenzionali. DRS Technologies sarà una delle aziende che collaborerà allo sviluppo del programma di ammodernamento dei nuovi dispositivi strategici Usa. Il 23 dicembre 2011, i manager di Finmeccanica hanno reso pubblico che Consolidated Controls Inc. (CCI), una società del gruppo Drs Technologies, si era aggiudicata un contratto da General Dynamics Electric Boat per progettare, realizzare e testare un sistema di controllo elettromeccanico destinato ai sottomarini atomici che sostituiranno la classe “Ohio”.

Finmeccanica acquistò DRS Technologies nel 2008 spendendo 5,2 miliardi di dollari. In verità le commesse militari poi ottenute non hanno compensato i massicci investimenti della holding italiana negli Stati uniti d’America; così lo scorso anno è stato avviato un piano di dismissione di alcuni settori produttivi, principalmente nel campo dell’avionica, della logistica e delle telecomunicazioni. Per il gruppo con sede ad Arlington, il 2015 si è comunque concluso con una crescita del fatturato del 15,1% rispetto all’anno precedente (da 1,59 a 1,83 miliardi di dollari), mentre gli ordini hanno registrato un +21,1%. Oltre alla fornitura di attrezzature elettroniche per i sottomarini strategici, DRS Techonologies ha siglato un accordo del valore di 55 milioni di dollari per ammodernare i sistemi di comunicazione vocale integrati degli incrociatori e dei cacciatorpediniere AEGIS di US Navy. Lo scorso anno DRS ha pure fornito potenti visori notturni e sofisticati sistemi informatici all’esercito statunitense, mentre in Canada si è aggiudicata una commessa di 100 milioni di dollari per la produzione di antenne e sistemi di sorveglianza per equipaggiare i carri armati LAV 6.0, prodotti da General Dynamics e acquistati dall’esercito canadese. Nonostante i buoni affari di guerra - in linea con quanto accade internazionalmente al complesso militare industriale - DRS Technologies ha visto ridurre drasticamente i propri addetti: da 10.000 a 5.500 unità in meno di dieci anni. Soldi tanti, occupazione poca.

Intervista di Marco Ansaldo a Hakan Gunday. Sugli attentati «Siamo sotto shock, la gente non vuole neanche più sapere chi ci colpisce». Sull'accordo sui profughi:«ancora una volta una tragedia è diventata un affare. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico».

La Repubblica, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

«Stiamo sperimentando un caos totale. Negli ultimi 5 mesi abbiamo avuto 3 attentati ad Ankara e 37 morti solo nella bomba della scorsa settimana. Non abbiamo ancora avuto il tempo di capire ed eccoci qui a ragionare su questo nuovo atto terroristico. Uno shock assoluto». In Turchia c’è uno scrittore con cui riflettere su argomenti distinti come il terrorismo e i migranti, ed è Hakan Gunday. Lo scorso mese, nel tour in Italia per presentare il suo ultimo romanzo Ancòra (Marcos y Marcos), ha parlato a lungo della questione rifugiati, al centro del libro. E ora pure dell’accordo fra Europa e Turchia raggiunto venerdì a Bruxelles.

Uno shock assoluto?
«Sì, perché non sai più da dove arrivano gli attacchi. O meglio, non vuoi nemmeno più saperlo: se dall’Is, dal Pkk, dal Tak, o qualsiasi altra sigla. Pensi solo ai morti e ai feriti. È proprio questo il loro obiettivo: paralizzarci».
Lei oggi ha volato da Ankara a Istanbul, poli degli attacchi delle ultime ore. Quale atmosfera si respira nelle due città?
«La consapevolezza che nella nostra vita siamo diventati dei bersagli. Perché quello che sta accadendo è irrazionale. E non riesci nemmeno a pensare o agire».

Con quale prospettiva?
«Quella di poter capire che cosa succederà nei prossimi mesi: questa che viviamo è un’onda di terrore? E si fermerà? Oppure andrà avanti? Ci sentiamo totalmente vulnerabili. Dopo si potranno fare tutte le analisi. Ma ora c’è gente morta, ferita».

E cosa pensa dell’accordo sui profughi?
«Che ancora una volta una tragedia è diventata un affare, un mercanteggiamento. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico. Il fattore umano non sembra più contare».
Ma non è stato comunque meglio trovare un accordo?
«Questo patto mi ricorda l’intesa raggiunta fra Turchia e Germania Federale sugli emigranti nel 1961. Allora l’Europa aveva bisogno di lavoratori, oggi invece vuole limitarli».

E che cosa la infastidisce?
«Che la Turchia tratti su temi come l’ingresso nella Ue o la concessione dei visti, ma sulla pelle di chi? Di persone che cercano rifugio, legalmente o no. E quando hai le vite degli uomini nelle tue mani, allora fai il mercante. È tutto un grande teatro».

Un dramma, oppure una tragedia?
«Una tragedia, perché non si pensa alle persone singole, caso per caso, ma a loro solo come massa».
«Incontro tra Francia e Italia a Venezia. I due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi».

Il manifesto, 9 marzo 2016 (m.p.r.)

Da ieri la guerra in Libia è più vicina. Molto più vicina. All’uscita del vertice italo-francese di Venezia, svoltosi «nel nome di Valeria Solesin», la vittima italiana del Bataclan, i due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi. In Libia il governo unitario stenta a nascere, e il premier italiano avverte: «La formazione di un governo in Libia è una priorità, innanzitutto per il popolo della Libia. Ma i libici per primi devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito».

Quello di Renzi è un monito minaccioso ed è anche un’inversione di rotta rispetto alla linea sin qui tenuta, ribadita del resto anche ieri da un Giorgio Napolitano che continua a parlare come se fosse il presidente della Repubblica: «Nessuna azione militare senza un governo legittimo che invochi l’intervento». Sino a ieri era una condizione necessaria. Ora è solo auspicata, e chiarendo ai libici, ma in realtà anche agli italiani, che il tempo a disposizione per evitare l’arrivo delle truppe è limitato. Toni che fanno il paio con quelli del presidente francese che, dopo aver espresso solidarietà per le due vittime italiane, va giù senza perifrasi: «Vorremmo fare di tutto in Libia per la creazione di un governo. Ma la lotta contro Daesh deve essere portata avanti».

Un’inversione di marcia tanto netta dovrebbe significare che la trattativa in corso da giorni tra i due Paesi europei più coinvolti nella crisi libica ha fatto nel vertice veneziano sostanziosi passi avanti. Il principale punto critico è la composizione della spedizione, che nelle ipotesi sin qui trapelate ricadrebbe esageratamente, per Renzi, sulle spalle del suo Paese, ma è probabile che in ballo ci siano anche gli assetti della Libia dopo la guerra, o più precisamente una spartizione delle aree di influenza e dell’accesso alle fonti energetiche, che è da sempre motivo di frizione profonda tra Roma e Parigi.

I venti di guerra non spirano solo a Venezia. L’inviato dell’Onu Kobler dichiara forte e chiaro che «si deve agire subito: il tempo è un fattore determinante e Daesh si sta allargando». Kobler pensa a un’offensiva, «guidata dai libici», ma «con l’assistenza della comunità internazionale». Gli americani, dal canto di loro, premono sull’acceleratore con i raid che, informa Renzi «sono già una realtà e ne eravamo stati informati». Volenti o nolenti, quelle dell’inviato delle Nazioni unite e quelle di Washington finiscono di fatto per essere entrambe pressioni sul governo che da giorni è sotto tiro con l’obiettivo di spingerlo ad agire, quello di Roma. In questo clima di fatto prebellico, stamattina alle 11 il ministro degli Esteri Gentiloni sarà a palazzo Madama, per riferire sullo stato della crisi libica, l’eventuale coinvolgimento militare italiano e sulla vicenda tragica dell’uccisione di due ostaggi quasi contemporanea alla liberazione degli altri due. Pare impossibile, ma dopo giorni di articoli sulla stampa di mezzo mondo, di polemiche nazionali e internazionali, di dichiarazioni a raffica, preferibilmente dal video, sarà la prima volta che il governo si degna di affrontare la vicenda nella sede propria, cioè in Parlamento.

Ieri sera, il minstro teneva le dita strettamente intrecciate, nella speranza di non doversi presentare al Senato senza ancora le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano in Italia. «Dovrebbero rientrare in nottata», spiegavano fonti della Farnesina, aggiungendo però che purtroppo «mancano conferme ufficiali». Poi uno sprazzo di ottimismo: il rientro prima dell’alba pare certo, è già prevista l’autopsia al Gemelli. Ma è proprio Renzi a gelare di nuovo le attese: «Quando arriveranno le salme vi sarà data comunicazione ufficiale». Impossibile capire quale sia l’impedimento che ha sin qui impedito alle famiglie di riavere almeno i corpi dei loro congiunti. «Solo problemi logistici», assicurava al Corriere della Sera il ministro degli Esteri del governo di Tripoli Abuzaakouk: una di quelle formule fatte apposta per vincere il premio della reticenza.

Sul piano della ricostruzione degli eventi, Gentiloni sarà quasi certamente altrettanto reticente. Le versioni ufficiali sono, se non proprio bugiarde, almeno molto parziali. Molto più credibile e completa la ricostruzione uscita sull’Huffpost di ieri. Indica una vicenda che presenta un’infinità di punti in comune con la liberazione di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari, 11 anni fa. Anche in questo caso, infatti, la tragedia sarebbe arrivata a un passo dal lieto fine, quando l’accordo era sul punto di realizzarsi e il riscatto pronto. Perché, a quel punto, i rapitori abbiano deciso di dividere in due gruppi gli ostaggi per portarli fuori da Sabrata e soprattutto perché, nonostante secondo il governo di Sabrata fossero state tutte avvertite, le milizie abbiano aperto il fuoco sul convoglio uccidendo i due ostaggi italiani resta avvolto nel mistero. Proprio come quelle raffiche di mitragliatrice che, nonostante gli avvertimenti, colpirono nel 2005 la macchina sulla quale viaggiavano Giuliana Sgrena e il suo liberatore.

Italia in guerra? Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. Ma stavolta si è infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume.

Il manifesto, 6 marzo 2016

Ě difficile credere che l’ambasciatore Usa Philips abbia parlato a vanvera, quando ha detto di aspettarsi 5000 uomini dall’Italia per l’intervento in Libia. Non sorprende perciò che Matteo Renzi, di solito oratore inarrestabile e sfiancante, taccia da giorni sulla questione, preferendo occuparsi dei sindacati della reggia di Caserta. Ma allora, che vuol fare Palazzo Chigi? Andare in Libia o no?

Tutto dipende, naturalmente, dal significato di “andare in Libia”. Per chiarire la questione dobbiamo tornare al decreto del 15 novembre 2015, con cui si ponevano i corpi speciali delle forze armate sotto il comando dell’Aise (servizi di sicurezza esterna), cioè di Renzi. Un decreto passato incredibilmente con 395 voti a favore, 5 contrari e 26 astenuti (tra cui Sel e M5S, che sarebbero gli “oppositori” di Renzi). Un decreto formalmente legale, come vuole il Quirinale, ma che sottrae al parlamento, con il suo consenso supino e preventivo, il controllo delle operazioni militari. Una carta in bianco al governo, insomma, per qualsiasi guerra presente o futura.

Successivamente, la parte attuativa del decreto è stata secretata in modo così maldestro, che tutti ne sono venuti a conoscenza. Di fatto, il solo D’Alema (che di guerra s’intende, avendone fatta una extraparlamentare nel 1999) ha parlato a suo tempo contro il decreto, sapendo come agiscono i nostri servizi, tra intrighi e inefficienza. La nebbia che circonda la morte dei due ostaggi di Sabrata e il ritorno degli altri due sembra proprio dargli ragione.

Ě chiaro ormai che Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. D’altronde, non è lo stesso “pacifista” che fa rifinanziare le missioni italiane all’estero e manda 500 uomini in Iraq a proteggere un’azienda italiana? Si direbbe però che questa volta si sia infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume. Un conto è promettere ossessivamente un destino roseo a un paese prostrato dalla povertà e giocare sui decimali del Pil. Altra questione, ben più seria, è promettere agli Usa di intervenire e poi non mantenere le promesse, perché i sondaggi gli dicono che la stragrande maggioranza del paese non vuole nessuna guerra, e chiunque, da Berlusconi a Prodi, gli intima di non pensarci nemmeno. Gli americani, si sa, non si accontentano delle chiacchiere quando c’è da andare al sodo.

La verità è che la guerra in Libia c’è già e che americani, inglesi e francesi, senza avvertire nessuno, si stanno dando da fare da mesi tra il confine tunisino e quello egiziano. Appoggiando in sostanza il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto ma odiato dal governo di Tripoli, che in sostanza è dei Fratelli musulmani. In queste condizioni, pensare che in Libia possa nascere un governo di unità nazionale, come vorrebbero le anime belle dell’Onu, e che l’Italia possa guidare la coalizione anti-Isis è una pia illusione, anzi fa francamente ridere.

L’Italia non guiderà nessuna coalizione diplomatico-militare, perché Usa, Francia e Inghilterra si fanno i fatti propri, oggi come nel 2011, e l’Italia ha ben poco peso nella faccenda, a onta degli squilli di tromba degli editorialisti con l’elmetto. D’altra parte, Renzi ha ben pochi alleati in Europa, non si può mettere contro Hollande e quindi dovrà ingoiare il rospo e accettare, al di là delle sparate propagandistiche, un ruolo subordinato, esattamente come Berlusconi nel 2011. Così, quello che farà l’Italia sarà mandare qualche decina di uomini a difendere i suoi interessi energetici, incrociando le dita e sperando che nessuno si faccia ammazzare. D’altronde il famoso decreto garantisce la necessaria riservatezza sulla faccenda.

Ma la guerra c’è, in un contesto in cui centinaia di bande e milizie, che fanno capo oggi a Tripoli e domani all’Isis, o viceversa, si sparano addosso senza tregua. E quindi le conseguenze si faranno sentire eccome, anche se l’Italia si nasconderà dietro il paravento della legalità internazionale o invierà un po’ di soldati alla volta. Sperando che l’Isis non se ne accorga. E sperando anche che con il tempo nessuno si ricordi più di Giulio Regeni, visto che l’Egitto è un nostro caro alleato.

Ormai, non è retorica dire che tutto il Sahara è in fiamme, dall’Algeria all’Egitto, grazie al genio politico di Sarkozy e Cameron, di Bush e di Blair (i comandanti dell’Isis in Libia vengono dall’Iraq). In questa situazione, l’abilità politica che funziona con Verdini e Alfano, o per tenere a bada la sinistra Pd, serve a ben poco. Giorno dopo giorno, scivoliamo in una guerra senza strategia e che gli altri hanno deciso per noi.

L’unica consolazione, ma è ben poca cosa, è che questa volta, diversamente dal 2011, nessun sessantottino pentito vuole la guerra in nome dei diritti umani.

In occasione del vertice Renzi-Hollande appuntamento a Venezia dei rappresentanti delle persone d'ogni genere, età, colore, regione e condizione mobilitate in una moltitudine di gruppi contro le iniziative dei governi di destra e di "centrosinistra" che lavorano per i padroni della finanza e degli affari.

Il manifesto, 6 marzo 2016

Venezia«Par tera e par mar»: è l’altro san Marco a lanciare il grido di battaglia, insieme al popolo della Val Susa. Martedì pomeriggio il summit italo-francese numero 33 fra Matteo Renzi e il presidente François Hollande a palazzo Ducale sarà anche un omaggio “pacifista” a Valeria Solesin, vittima degli attentati del 13 novembre a Parigi. Ma servirà soprattutto per mettere a punto l’agenda dei due governi, in particolare la missione in Libia e il rilancio dell’alta velocità ferroviaria.

Così a Venezia si sono già dati appuntamento movimenti, comitati e associazioni che difendono il territorio dal furore delle Grandi Opere. Il concentramento è previsto alle 10 nel piazzale della stazione ferroviaria di santa Lucia, da dove muoverà la manifestazione con una nutrita delegazione NoTav.

In contemporanea, la contestazione si muoverà anche in laguna con il corteo di barche già sperimentato in occasione delle mobilitazioni contro le Grandi Navi che attraversano il cuore della città e della laguna.

«L’8 marzo nella bella Venezia Matteo Renzi e François Hollande, con il loro codazzo di ministri cercheranno una vetrina per esporre al mondo i loro disastri. Una grande opera inutile, un patto finanziario con le banche per strangolare i cittadini, una nuova frontiera per lasciare morire di guerra le persone, una nuova guerra e ancora molto altro di peggio. Aspettando la nefasta scaletta di appuntamenti anche noi ci prepareremo», si legge nell’appello lanciato dalla Val Susa e raccolto in tutta Italia: i comitati contro le trivellazioni in Adriatico di Marche, Abruzzo e Molise; «Stop Biocidio» di Napoli; i No Tav anche dal Terzo Valico, Trentino, Brescia, Verona e Vicenza. E i collettivi universitari nel «giardino liberato» di Ca’ Bembo hanno dato inizio ai preparativi, mentre sempre per martedì è annunciato lo sciopero del Coordinamento studenti medi in occasione del corteo.

Intanto ieri pomeriggio a Padova, nonostante la pioggia battente, sono tornati in piazza i lavoratori migranti con Adl Cobas e i centri sociali del Nord Est. Hanno manifestato all’insegna dell’antirazzismo nella città governata dal sindaco leghista Massimo Bitonci, ma anche «contro la guerra, i bombardamenti e un sistema che produce milioni di profughi» e in difesa delle lotte sociali per la casa.

Di nuovo protagonisti, in questa occasione, i facchini del Prix a Grisignano di Zocco (Vicenza), le lavoratrici marocchine della Nek di Monselice, bengalesi e africani della logistica, magrebini delle coop dove si “sperimenta” il Jobs Act.

«È tutto l’establishment politico e finanziario occidentale che ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti». Il manifesto, 5 marzo 2016

A passi felpati e a occhi bendati l’Italia si avvia alla guerra. Per certi versi, a contare i caduti sul terreno, c’è già dentro. E la fortunata soluzione per i due altri lavoratori che hanno avuto il coraggio di liberarsi e sono vivi, comunque fa capire che a Sabratha di un «assaggio di guerra» si è trattato, vale a dire del caos e della ambiguità nel quale rischieremmo di precipitare se solo l’Italia intervenisse in armi in Libia. Ma purtroppo, come in altri momenti oscuri della storia, ci si avvia a una nuova avventura coloniale che ha tutte le caratteristiche per annunciarsi disastrosa, e lo si fa nelle condizioni peggiori.

Con poche idee (forse nessuna). In un quadro di collaborazione sgangherato (mentre a Roma si chiede la «guida delle operazioni», americani inglesi e francesi già operano per conto loro). Con i peggiori alleati che ci si possa immaginare: Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, i foraggiatori di quell’Isis che si dice di andare a combattere. E come riferimento l’orrendo generale Haftar in quella Cirenaica in cui, nella prima metà del secolo scorso, noi italiani – con generali che si chiamavano Badoglio e Graziani – abbiamo perpetrato una vera e propria pulizia etnica, deportandone la popolazione e facendo oltre centomila morti in operazioni di repressione e quarantamila nei lager messi su lungo quella costa da cui oggi partono i barconi.

Così a sud. Mentre a nord, sulle spiagge di Calais, il socialista Hollande attacca a colpi di ruspa la città dolente dei profughi di altre guerre, in combutta col conservatore Cameron il quale annuncia che, di quella moltitudine di fuggiaschi, non ne accetterà più di 5000 all’anno ma in compenso donerà 20 milioni di euro al governo francese, per compensarne la complicità.

E a est nuovi fascismi crescono, a murare la Grecia di Alexis Tsipras, unico paese capace di una cosmopolitica umanitaria, già prosciugato dalle vessazioni economiche di un’Europa a sua volta murata nel proprio egoismo e ora condannato a divenire un enorme campo profughi a cielo aperto.
L’immagine che ne emerge è quella di una classe dirigente disastrosa. Spaventosamente al di sotto delle sfide che è chiamata ad affrontare. Uomini, in prevalenza, ma anche donne – poche, ma potenti – dai volti ingessati, di circostanza. (Si pensi alle foto di gruppo dei summit europei), che si riempiono la bocca promettendo Ordine, Sicurezza, Responsabilità, Rispetto delle Regole, e sono in realtà i Signori del Caos. Incapaci di immaginare le condizioni elementari della convivenza civile e di un sistema di relazioni tra persone, gruppi sociali, popolazioni razionalmente e umanamente sostenibile.

Non è solo Matteo Renzi – che pure quanto a faciloneria e demagogia non scherza – con il suo giglio magico, incerto tra la grande catastrofe dell’intervento armato aperto e la piccola catastrofe dell’azione coperta, anche agli occhi del Parlamento, ma comunque incapace di pensare un’alternativa alla guerra. È tutto l’ politico e finanziario occidentale che ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti.
È quanto Luciano Gallino, nel suo ultimo libro-testamento, ha descritto parlando della sconfitta del «pensiero critico» e del «trionfo della stupidità» su scala globale (gara nella quale l’Oscar spetterebbe probabilmente di diritto ai vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, che come ha scritto Piero Bevilacqua «si ritirano dai valori della propria storia»).

Pesa dunque, in uno dei momenti più difficili e pericolosi del passaggio di secolo, il vuoto lasciato aperto dalle vecchie sinistre, tutte, quale più quale meno, in dissoluzione, mentre le nuove crescono a macchia di leopardo, impetuose in alcuni Paesi – non per nulla bersaglio di oligarchie politiche e finanziarie europee e globali -, fragili e stentate in altri (il nostro in primis).

Su questo scenario, e questi compiti, dovrebbe concentrarsi l’impegno delle nostre frastagliate e disperse forze, fuori da tatticismi, competizioni intraspecifiche, piccole rivalità, grandi vuoti mentali.

Prima che siano la guerra e i disumani populismi a dettare le regole del gioco.

«La guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati».

Il manifesto

La guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi — Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria — ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati.

Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.

I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton, ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi.

Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista.

Dalle «nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa.

Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato.

Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto». In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo.

Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno.

L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? — resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale.

Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano.

Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce.

«Ora, si parla addirittura di una tripartizione della Libia, sotto il controllo italiano, inglese e francese. Siamo al colonialismo di un secolo fa. Il dilettantismo ed il colonialismo di ritorno del nostro governo ci sta portando verso questo triste epilogo».

il manifesto, 25 febbraio 2016

La notizia, è noto, l’ha data il Wall Street Journal: da Sigonella droni americani per bombardare la Libia. I parlamentari e l’opinione pubblica lo vengono a sapere da un giornale americano e non dal nostro governo, la cui opacità –su questa e altre vicende- è nota da tempo. Dicono che è un accordo di un mese fa. Chissà. Come fino ad ora è stato omessa la notizia, niente di più normale che sia stata omesso o falsificato l’inizio di questa operazione congiunta.

E tale è. Non stiamo facendo un favore logistico agli americani, ma stiamo partecipando con gli americani ad un’azione di guerra. Era già successo nel 2011 sempre in Libia (furono allora utilizzate 7 basi), ma soprattutto nel 1999 per la guerra in Kosovo: dalle nostre basi partirono i caccia della Nato che bombardarono la Serbia e il Kosovo. Con ipocrisia politica il nostro governo (dalla Pinotti a Gentiloni) dice che sarà data autorizzazione caso per caso (ma è sempre stato così, e normalmente si tratta di una semplice notifica, come per i caccia americani che partivano da Aviano per bombardare il Kosovo) e che l’azione dei droni avrà carattere “difensivo”. E perché no, magari anche “umanitario”.

Siamo al ridicolo. E a ricordarlo non sono solo i pacifisti, ma anche chi di interventi militari e di guerre se ne intende.

Infatti l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica Leonardo Tricarico ricorda ieri su Il Mattino” che dire che si tratti di missioni difensive è scontato, una foglia di fico aggiungiamo noi: “Si tratta di una posizione ricorrente nel governo italiano… ci potrebbe essere un mascheramento di missioni offensive dietro missioni difensive”, afferma l’ex capo di stato maggiore. E sempre Tricarico dice che le affermazioni della Pinotti e di Gentiloni sul fatto che non siamo in guerra potrebbero essere “una semplice rassicurazione generica”. E scontata. In guerra ci stiamo entrando. E come ricorda ieri Antonio Mazzeo su Il manifesto, poiché gli americani fanno decollare da Sigonella “i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike” è abbastanza inverosimile che si tratti di azioni “difensive”.

Il tutto in un contesto in cui la diplomazia internazionale in Libia brancola nel buio: non riesce a far accettare dai leader e capetti locali un accordo per la ricomposizione dell’esecutivo libico e proprio ieri il governo di Tobruk ha rinviato di una settimana il voto sul governo di unità nazionale. Gli appelli dell’Onu sono caduti nel vuoto e l’accordo è diventato una farsa. La vicenda della Libia dimostra tutta l’improntitudine dei governi italiani e della comunità internazionale che –con le loro folli iniziative- hanno alimentato la disgregazione del paese, la diffusione delle bande terroristiche, i disperati flussi migratori e una grave tensione nel mediterraneo, che sembra assolutamente ingovernabile.

E come succede di solito, quando la politica arranca (e quando interessi geopolitici ed economici –americani, francesi, italiani, ecc.- prendono il sopravvento) arriva la guerra. Che diventa — per parafrasare un vecchio adagio — la continuazione del fallimento della politica con altri mezzi. Un fallimento che però maschera interessi nazionali e strategici e che porterà nuove distruzioni, altre vittime innocenti, un più vasto sconquasso geopolitico e maggiore instabilità nel Mediterraneo.

Ora, si parla addirittura di una tripartizione della Libia, sotto il controllo italiano, inglese e francese. Siamo al colonialismo di un secolo fa. Il dilettantismo ed il colonialismo di ritorno del nostro governo (e la complicità con un vacuo e sanguinoso interventismo militare, che magari serve a giustificare qualche F35 in più) ci sta portando verso questo triste epilogo. Invece di fare interviste e dichiarazioni alle agenzie, Pinotti e Gentiloni vengano a riferire in Parlamento.

». Anche questa vota la notizia viene dalla stampa internazionali.

Il manifesto, 24 febbraio 2016

Droni killer a Sigonella per bombardare le postazioni Isis in Nord Africa. La notizia, ancora una volta, arriva dall’altra parte dell’oceano. The Wall Street Journal, citando una fonte ufficiale delle forze armate Usa, ha rivelato che da circa un mese il governo italiano ha autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla stazione aereonavale di Sigonella in Sicilia per effettuare «operazioni militari contro lo Stato islamico in Libia e attraverso il Nord Africa».

Sempre secondo il quotidiano, il via libera da parte del governo Renzi sarebbe giunto «dopo più di un anno di negoziati» e con una alcune limitazioni alle regole d’ingaggio. «Il permesso sarà dato dal governo italiano ogni volta caso per caso e i droni potranno decollare da Sigonella per proteggere il personale militare in pericolo durante le operazioni anti-Isis in Libia e in altre parti del Nord Africa», scrive il Wsj.

L’amministrazione Obama avrebbe tuttavia richiesto l’autorizzazione a operare dalla Sicilia anche per missioni offensive, dato «che sino al mese scorso i droni Usa schierati a Sigonella erano solo per scopi di sorveglianza».

Le autorità italiane hanno confermato le rivelazioni Usa ma la versione soft-difensiva sui velivoli senza pilota è assai poco credibile; inoltre è tutt’altro che vero che i droni-killer operino da Sigonella solo da un mese a questa parte. I sistemi di volo automatizzati in mano alle forze armate Usa sono i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike, in grado d’individuare, inseguire ed eliminare gli obiettivi «nemici» grazie ai due missili aria-terra a guida laser AGM-114 «Helfire».

Questi droni sono stati impiegati negli ultimi dieci anni per più di 500 attacchi in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e Libia con oltre 4.200 vittime. L’ultimo strike con i droni-killler è stato effettuato la settimana scorsa contro un presunto «campo d’addestramento» delle milizie filo-Isis a Sabratha, in Tripolitania, vicino al confine con la Tunisia.

Secondo Washington, il raid avrebbe causato la morte di una trentina di jihadisti tra cui il tunisino Noureddine Chouchane, ritenuto uno dei responsabili degli attentati effettuati lo scorso anno al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Il campo di Sabratha (ad una ventina di chilometri dal terminal gas di Melitha gestito dall’Eni) è stato colpito da missili aria-terra lanciati da alcuni bombardieri Usa decollati dalla Gran Bretagna e da Predator o Reaper presumibilmente di stanza proprio a Sigonella, come riferito da alcuni organi di stampa internazionali.

I Predator Usa erano stati impiegati da Sigonella per le operazioni di guerra in Libia nella primavera-estate 2011. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra sulle unità alleate impegnate nell’operazione «Unified Protector», aveva documentato come a partire della metà dell’aprile 2011 due squadroni dell’Us Air Force con droni-killer erano stati trasferiti nella base siciliana. I primi raid furono effettuati il 23 aprile contro una batteria di missili libici nei pressi del porto di Misurata; un secondo raid fu sferrato invece a Tripoli il giorno seguente contro un sistema anti-aereo «SA-8».

Da allora l’uso della base di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni Usa non ha conosciuto interruzioni e le operazioni sono state estese a tutta l’Africa sub-sahariana, alla Somalia, allo Yemen e più recentemente anche alla Siria.

Nel maggio 2013, l’Osservatorio di Politica Internazionale, un progetto di collaborazione tra il CeSI (Centro Studi Internazionali), il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Ministero degli Affari Esteri, pubblicò uno studio sui velivoli senza pilota statunitensi a Sigonella in cui si documentò la presenza di «non meno di sei Predator Usa da ricognizione e attacco». «I droni temporaneamente basati a Sigonella hanno fondamentalmente lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi determinati dispositivi qualora si presentassero delle situazioni di crisi nell’area nordafricana e del Sahel», scriveva l’Osservatorio.

«Ai tumulti della Primavera Araba che hanno portato alla caduta dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia ha fatto seguito un deterioramento della situazione di sicurezza culminato nel sanguinoso attacco al consolato di Bengasi e nella recente crisi in Mali, dove la Francia ha lanciato l’Operazione Serval. In considerazione di tale situazione, la Difesa Italiana ha concesso un’autorizzazione temporanea allo schieramento di ulteriori assetti americani a Sigonella».

Anche allora si tentò comunque di edulcorare la pillola dei droni-killer con il Parlamento e l’opinione pubblica. «Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme», aggiungeva il rapporto. «Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati nelle comunicazioni 135/11/4a Sez. del 15 settembre 2012 e 135/10063 del 17 gennaio 2013».

Nello specifico, si potevano autorizzare solo le sortite di volo volte all’«evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi» e quelle di «supporto» al governo del Mali «secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Le forze armate Usa sarebbero state tenute ad informare le autorità italiane prima dell’effettuazione di qualsiasi attività. Mistero fitto però sul modo in cui si potrà mai impedire a Washington di utilizzare Sigonella per operazioni contrarie alla Costituzione o agli interessi strategici nazionali.

«Libia, sfuma il piano Onu pronto l’intervento l’Italia prepara la missione servono 5mila soldati» già, 300 kmq di deserto a soldato. Uno stuzzichino, tanto per cominciare. La Repubblica, 24 febbraio 2016

NELLA STESSA giornata in cui Italia e Stati Uniti si confrontano sullo spionaggio del governo di Silvio Berlusconi, ponendo la questione di principio sul rispetto della sovranità nazionale, i due paesi cercano insieme una difficile intesa sul modo di affrontare la più grave minaccia terrorista mai sorta nel Mediterraneo: il radicamento del Califfato in Libia.

Il tempo per la diplomazia si sta rapidamente consumando. Anche ieri il parlamento di Tobruk ha rinviato il voto sull’esecutivo unitario nato dalla mediazione delle Nazioni Unite e ormai nelle capitali occidentali si spegne la fiducia nel successo dell’iniziativa benedetta dall’Onu. Così Washington, Roma, Parigi e Londra stanno lavorando freneticamente a una soluzione alternativa, un piano B con un solo punto certo: l’espansione del feudo jihadista in Libia va fermata, anche a costo di rassegnarsi a una divisione sostanziale del paese. Brett McGurk, l’uomo a cui Barack Obama ha affidato la lotta contro lo Stato Islamico, è tornato a sottolineare la preoccupazione della Casa Bianca. Gli americani non sono disposti ad assistere alla crescita delle brigate libiche con la bandiera nera, che «tentano di attrarre quanti più combattenti stranieri» dal Maghreb e dall’Africa centrale. Per niente intimoriti dal bombardamento statunitense della scorsa settimana, i miliziani islamici hanno attaccato di nuovo le installazioni petrolifere distruggendo due grandi depositi di greggio a Sida. L’obiettivo di queste incursioni è chiaro: azzerare l’unica risorsa che finanzia le istituzioni libiche rivali e le formazioni locali che si oppongono al Daesh. La premessa per costruire il caos totale e imporre il dominio del Califfato.

Così gli alleati europei si stanno allineando alla nuova posizione della Casa Bianca: «Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta». Una dichiarazione che in pratica permette di attaccare qualunque base dell’Is. E alla quale per la prima volta sembra avvicinarsi anche Matteo Renzi, che ieri ha detto «se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell’Is, l’Italia farà la sua parte insieme con gli alleati ».

Dal punto di vista militare, la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli.

Ma l’Italia al momento resta ancorata alla sua posizione iniziale: non è disposta a partecipare ad azioni su larga scala senza una cornice legale, ossia la richiesta di un governo riconosciuto a livello internazionale. E senza i nostri aeroporti, non è possibile una campagna aerea su vasta scala. La scorsa settimana, gli F-15 statunitensi che hanno raso al suolo il comando di Sabratha sono decollati dalla Gran Bretagna: una missione che richiede almeno sei rifornimenti in volo di carburante per arrivare sull’obiettivo e tornare indietro. Per questo il Pentagono ha dovuto accettare il diritto di veto della Difesa italiana pur di utilizzare la pista di Sigonella per i pattugliamenti dei droni armati durante i raid delle forze speciali. I blitz di Navy Seal e Delta Force richiedono una sorta di scorta volante, pronta a proteggere la ritirata, che può partire solo dalla Sicilia. In questo modo, però, il nostro governo avrà la certezza di essere informato di ogni attacco condotto dagli incursori statunitensi e potrà pronunciarsi sui bersagli da colpi- re o meno. L’unica garanzia per evitare di venire spiazzati dall’iniziativa di altre nazioni, come accadde nel 2011 con l’operazione franco-britannica contro Gheddafi.

Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno”. Ed ecco materializzarsi il “piano B”: l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar — che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu — per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati.

Nella storica capitale verrebbero concentrati gli sforzi per debellare lo Stato islamico. Mobilitando le altre milizie più combattive, come lo schieramento di Misurata. E schierando in Tripolitania un contingente occidentale che contribuisca a difendere le infrastrutture chiave per la sicurezza e la ripresa economica: porti, aeroporti, oleodotti, terminal petroliferi. Una missione rischiosa, che verrebbe affidata all’Italia: il piano elaborato da oltre un anno che prevede «fino a cinquemila soldati». Se ne è parlato tante volte, ma adesso la macchina militare e diplomatica sta accelerando. Perché lo Stato islamico avanza ogni giorno: ieri sera ci sono stati combattimenti proprio alle porte di Tripoli.

LIBIA, L'ITALIA DICE SÌ ALL'AMERICA,
“DRONI AMATI USA DA SIGONELLA”

di Giampaolo Cadalanu

L’Italia ha concesso le piste di Sigonella ai droni armati americani diretti in Libia, nel nord Africa e in genere contro Daesh, il sedicente Stato Islamico: è un nuovo passo del crescente impegno militare sulle sponde del Mediterraneo, in attesa del possibile intervento di terra. Si tratta con ogni evidenza dei Predator B, ribattezzati non a caso “Reaper”, mietitori, che il Pentagono già utilizza ampiamente per “esecuzioni mirate” in Pakistan, Yemen e Somalia. Non sono invece dotati di armamento i droni da ricognizione Global Hawk, che gli Usa schierano a Sigonella già dal 2011.
Alla Difesa sottolineano che non si tratta di un “via libera” indiscriminato: dalla base siciliana i velivoli a pilotaggio remoto partono esclusivamente per compiti di protezione degli “operatori impiegati nella lotta al terrorismo”, e solo dopo una autorizzazione del governo che viene concessa volta per volta. In altre parole, al governo italiano viene di fatto concesso un potere di “veto” sui bersagli oggetto dei raid e quindi sulle operazioni con le forze speciali, che potranno essere seguite anche dai droni italiani da ricognizione. È una situazione molto diversa rispetto al 2011, quando le “minacce” dell’aeronautica francese contro le installazioni dell’Eni spinsero l’Italia a superare le esitazioni per partecipare alle operazioni contro Gheddafi. Le missioni dei Reaper serviranno a sostenere le operazioni più o meno clandestine delle forze speciali americane, britanniche, francesi e italiane. Nei fatti è la prima conferma concreta della presenza delle avanguardie militari occidentali sul territorio libico.
La notizia è comparsa ieri sul sito del Wall Street Journal, che cita come fonte funzionari del Pentagono e precisa che la decisione è stata presa già il mese scorso, “silenziosamente”. Quest’ultimo termine, “quietly”, compare persino nel titolo del giornale americano, il quale sottolinea che gli Usa incontrano serie difficoltà nel convincere gli alleati a impegnarsi nella lotta a Daesh. Secondo il Wsj, il governo americano sta facendo pressioni perché Roma autorizzi l’uso delle sue basi per operazioni come l’attacco di venerdì scorso su Sabratha, che aveva per obiettivo Noureddine Chouchane, il leader jihadista considerato responsabile dell’assalto al museo del Bardo, a Tunisi, il 18 marzo scorso. Ma il governo italiano non sembra disponibile a questo passo. Anonimi “funzionari italiani” citati dal quotidiano sottolineano in privato che una decisione come questa riaccenderebbe l’opposizione interna, specialmente in caso di perdite fra i civili.
Dopo mesi di incertezze, l’amministrazione Obama sta aumentando il suo impegno in Libia, pur nella certezza che il centro della battaglia contro Daesh, il sedicente Stato Islamico, resta fra Siria e Iraq. Il Pentagono vorrebbe anche una base in nord Africa, perché Sigonella non è considerata l’ideale: è molto vicina al teatro delle operazioni, ma le condizioni del tempo spesso impediscono il decollo dei droni. Un’altra base sarebbe necessaria soprattutto per le operazioni di sorveglianza, ma finora le nazioni del nord Africa hanno risposto negativamente. L’uso di basi lontane, a partire da quella di Gibuti, già impegnata per le operazioni in Somalia e Yemen, comporta voli più lunghi, minore autonomia e dunque inferiori capacità di controllo, visto che i droni da sorveglianza devono essere riforniti e controllati regolarmente.
Lo scarso entusiasmo dei Paesi africani di fronte alle richieste della Casa Bianca non permette grande ottimismo nemmeno sul prossimo intervento in Libia, prima con l’allargamento dell’operazione navale europea Eunavfor Med nelle acque territoriali libiche, poi con la presenza diretta sul terreno di truppe occidentali. Questa fase dovrebbe essere legata alla richiesta di un governo libico riconosciuto: oggi il Parlamento di Tobruk dovrebbe votare sul gabinetto formato da Fayez al Serraj, ma l’accordo politico ancora non c’è, e difficilmente verrà raggiunto a breve termine. In più, nei mesi scorsi Tobruk non è apparsa accondiscendente con l’Occidente: ha contestato presunte violazioni italiane delle acque territoriali libiche, e nei giorni scorsi Serraj ha condannato - almeno ufficialmente anche il raid Usa su Sabratha. Se l’invito libico tarderà ad arrivare, mentre Daesh continua a rafforzarsi in Libia, l’unica via percorribile per far partire l’intervento sarebbe cercare all’Onu un accordo non facile per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Ma non è escluso che i velivoli possano essere impegnati anche in altri teatri di operazione

LO STIVALE È UNA POSTAZIONE STRATEGICA
di Giuseppe Cucchi

Le basi americane in Italia, il cui comando rimane sempre in mani italiane , sono concesse per scopi concordati in sede Nato. Ogni volta che gli Usa desiderano utilizzarle per motivi non previsti dall’Alleanza Atlantica, sono obbligati a chiedere un’autorizzazione italiana, che deve essere esplicita e può essere rifiutata in presenza di forti motivi ostativi. Caso limite fu quello del 1986 proprio a Sigonella, dove l’intervento italiano dovette assumere forme particolarmente decise per reprimere una violazione statunitense della sovranità italiana considerata pericolosa per la nostra sicurezza. Il nostro territorio è una base indispensabile per chi voglia operare in Nord Africa , Medio Oriente o Balcani.

Se ne era già reso conto Mussolini, che definì l’Italia «Una grande portaerei ancorata nel Mediterraneo». In tempi successivi la dislocazione geografica ci ha dato una “rendita di posizione“, che ci costringeva ad accogliere truppe straniere sul nostro territorio consentendoci nel contempo di risparmiare sulle spese di difesa. Anche dopo la caduta del Muro di Berlino la nostra dislocazione geografica continua a essere un atout prezioso per una Nato che si confronta con due archi di instabilità , l’uno ad est e l’altro a sud. Ed è nelle nostre regioni adriatiche che le forze aeronavali dell’Alleanza si schierarono per fronteggiare i dieci anni di caos jugoslavo. Basi aeree e porti dell’Italia meridionale furono indispensabili per la campagna contro Gheddafi. Ruolo che sembrano destinati a riassumere ora , nella prospettiva della possibile apertura di una nuova fase della crisi libica.

L'intervista di Emanuele Giordana e Alessandro Rocca allo storico Angelo Del Boca alla vigilia della presentazione di un documento di analisi della Tavola della pace. Il manifesto, 20 febbraio 2016

Questa video intervista è stata registrata alla vigilia del seminario nazionale “Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” - che si tiene sabato 20 febbraio al Centro di accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano (Udine) - in cui verrà presentato un documento di analisi sui rischi di un conflitto in Libia frutto della riflessione di un gruppo di lavoro. Nel video, lo storico Angelo Del Boca mette in guardia sul rischio di una “guerra a terra” per cui “non basterebbero 300mila soldati”.

La guerra aerea per altro - dice Del Boca - si racconta da sola ogni giorno per le vittime innocenti che comporta. Lo storico si augura che prevalga la cautela rispetto a quella che, nel caso di intervento unilaterale, si configurerebbe “come un’aggressione”. Quanto all’Italia, Roma dovrebbe astenersi dal conflitto e semmai sostenere la costruzione di un esercito e polizia nazionali: se ci dev’essere una guerra in Libia, “quella va fatta dai libici non da noi”. Senza contare il fatto che comporterebbe un “costo enorme di vite umane”.

Quanto al quadro politico, è difficile - sostiene lo storico che ha all’attivo 58 libri - che “anche in caso di un accordo tra Tobruk e Tripoli sul piano disegnato dall’Occidente” le cose restino in equilibrio. Nessuno infatti, come aveva fatto Gheddafi (“errore gravissimo abbatterlo”), riesce ora a “tenere unito un Paese con 140 tribù” che il regime tenne assieme per 42 anni. Del Boca ritiene infine che vada recuperato il ruolo del figlio di Gheddafi.

Al seminario di sabato 20 febbraio interverranno tra gli altri: il missionario comboniano p. Kizito Sesana, il generale Fabio Mini; lo storico Angelo Del Boca, i giornalisti Eric Salerno, Roberto Savio, Emanuele Giordana, Raffaele Crocco, Francesco Cavalli, don Pierluigi Di Piazza, Fondatore del Centro Ernesto Balducci di Zugliano; Flavio Lotti, Coordinatore Tavola della pace, Aluisi Tosolini, Coordinatore della Rete Nazionale delle Scuole di Pace; Loredana Panariti, Assessore all’Istruzione della Regione Friuli Venezia Giulia; Pietro Biasiol, Direttore Ufficio Scolastico Regionale FVG, Federico Pirone, Presidente del Coordinamento FVG Enti Locali per la pace e i diritti umani.

Qui il video dell'Intervista ad Angelo Del Boca

Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)

Si chiamerebbe Salih Neccar e sarebbe un membro delle Ypg ("Unità di protezione popolare' curda). Così, con poche parole, le autorità turche si sono regalate la giustificazione per la strategia anti-kurda nella regione: ieri mattina la Turchia diceva di aver identificato il responsabile materiale della strage di mercoledì sera. Già a poche ore dall’attentato di Ankara l’esercito dava la risposta più scontata: è stato il Pkk. Ieri mattina le accuse si sono arricchite di nuovi dettagli: in coordinamento con il Partito dei Lavoratori Kurdi hanno operato membri delle Ypg siriane, le unità di difesa popolari del Pyd di Rojava. In casa turca uno più uno fa sempre due, ma le regole dell’equazione le dettano le priorità di Stato. Un’architettura che si confà alla perfezione con le ultime mosse turche: il presidente Erdogan, regista di un sistema autoritario che supera i confini nazionali, si fa inquirente, giudice e boia.

Nonostante manchino rivendicazioni dell’attacco e nonostante le Ypg siriane abbiano subito smentito un proprio coinvolgimento condannando gli attacchi ai civili, Ankara ha già deciso. Non mancano osservatori che muovono dubbi sulla veridicità dell’attentato, rievocando episodi simili e puntando i riflettori sulla strategia della tensione imposta dal partito di governo Akp. Di prove non ce ne sono né in un senso né nell’altro. Ma le conseguenze potrebbe rivelarsi tragiche, soprattutto se gli Stati uniti - finora alleati delle Ypg - decideranno di avallare la teoria turca. Le danze si sono aperte ieri mattina: il premier Davutoglu si è detto certo dell’identità dell’attentatore, Salih Neccar, nato ad Amuda in Siria 24 anni fa e membro delle Ypg. «Un collegamento diretto tra l’attentato e le Ypg è stato individuato», ha detto il primo ministro.
Secondo quanto riportato dal presidente Erdogan, 14 persone sono state arrestate perché sospettate di aver preso parte all’attacco. Un attacco studiato e ben pianificato, difficilmente realizzabile da un solo uomo. Per questo Ankara si gioca la carta del Pkk, che - tuona Erdogan - ha fornito supporto logistico. A facilitare il lavoro è l’esplosione che ieri ha investito un convoglio militare turco a Diyarbakir, nel distretto di Sur, martoriato dalla campagna militare di Ankara e sotto coprifuoco ininterrotto da oltre due mesi. Sei soldati sono rimasti uccisi da un ordigno rudimentale. Anche in questo caso manca la firma: nessuna rivendicazione, ma tutti guardano al Pkk che negli ultimi mesi ha ripreso la lotta armata contro l’esercito turco. «È fuori discussione mostrare tolleranza verso un’organizzazione che ha come target il nostro popolo nella nostra capitale», le parole di Davutoglu.
La tolleranza zero è una linea guida che il Pkk conosce bene: subito dopo l’esplosione dell’autobomba ad Ankara, i caccia turchi hanno bombardato pesantemente il nord dell’Iraq, uccidendo almeno 70 combattenti. Nuova ondata di raid anche nel nord della Siria. Da lì, da Rojava, a parlare è Saleh Muslim, co-segretario del Pyd, che ha negato qualsiasi responsabilità, aggiungendo che il Partito dell’Unione Democratica non considera la Turchia un nemico. Ma a poco serve: la macchina turca è già in moto e lavora sul piano internazionale, quello che più interessa ad un paese alla caccia di legittimazione per la campagna in corso in Siria. «Quanto successo condurrà i nostri amici nella comunità internazionale a capire quanto stretta sia la connessione tra il Pyd e il Pkk», ha ribadito Erdogan riferendosi alla Casa bianca. Davutoglu ha aggiunto che condividerà con i paesi alleati le prove del coinvolgimento turco, in particolare con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu.
La preda è succosa e non si limita ai kurdi di Rojava: Ankara punta a Damasco. Ieri Davutoglu non ha mancato di accusare il governo siriano di aver partorito l’attacco, definendo le Ypg «uno strumento in mano al regime». E una volta arrivati a Damasco, Mosca è più vicina: «Mando un avvertimento alla Russia - ha detto il premier Davutoglu - Se gli attacchi terroristici continueranno, ne sarà responsabile come le Ypg». La strategia turca è lapalissiana e le accuse ai kurdi sono un pezzo del puzzle: cuore della battaglia resta il nord della Siria e il corridoio di territori che da Azaz arriva ad Aleppo. L’altro pezzo del puzzle è il passaggio al valico di Bab al-Salama, ieri, di almeno 500 miliziani delle opposizioni, sia moderate che islamiste, dal territorio turco alla provincia di Aleppo. Sono diretti ad Azaz, ormai vicina alla caduta in mano kurda. Non sarebbero che un primo contingente: pronti a partire ce ne sarebbero in tutto 2mila, armati con artiglieria pesante e scortati di notte dalle forze turche, dice alla Reuters Abu Issa, comandante di uno dei gruppi anti-Assad. I rifugiati non passano, i miliziani sì.
Una testimonianza che conalida le molte verità che sono già emerse, quelle che non emergeranno mai e i vizi di quella del «potere pseudo-democratico» di cui inostri governanti "democratici" sono complici.

La Repubblica, 15 febbraio 2016

Di certo c’è solo che è morto. Quel che il giornalista Tommaso Besozzi scrisse a proposito della fine del bandito Giuliano, sbugiardando la versione ufficiale, si può scrivere oggi per Giulio Regeni. Possiamo purtroppo aggiungere altre due certezze. La seconda è che le responsabilità vanno cercate negli stessi apparati di polizia che indagano o fingono di indagare o sviano le indagini sull’accaduto. La terza è che questa verità, pur sotto gli occhi, non sarà mai su carta, nero su bianco, conclamata e capace di conseguenze agli opportuni livelli, dai garage dove avvengono le torture alle terrazze da cui si vede il Nilo. Fa male quanto le altre considerazioni ammettere che in questi casi si diffonde una sorta di fatalismo di Stato, una ragion deviante che accompagna le traiettorie di un’inchiesta, curva dopo curva, verso il vicolo cieco, un muro di mattoni su cui sta scritto a spray: dimenticare conviene. È già accaduto altre volte, accadrà ancora, anche questo sappiamo.

Lo schema è sempre lo stesso. Esiste un potere che si fonda su procedure pseudo-democratiche e per questo si guadagna il riconoscimento da parte della comunità internazionale, dopo che i rapporti degli ispettori Ocse sulle tornate elettorali sono stati cestinati. Il fondamento di questo rispetto non si basa su una affinità di valori e intenti, ma su una varietà di opportunismi economici e politici. Sono spesso in ballo accordi finanziari di grande rilievo. E disturbare il manovratore mettendone in dubbio la legittimità o la legalità significherebbe riaprire le porte al caos, alla sua sostituzione con figure più pericolose per il controllo della situazione in aree a rischio. La si definisce strategia del male minore. Ora, andate a spiegare quanto minore sia questo male alla vedova di Alexander Litvinenko e fatele accettare l’idea che non esistono prove in grado di collegare l’avvelenamento al polonio di suo marito allo zar russo che l’aveva preso di mira. Andate dai genitori di Giulio Regeni a spiegare quanto minore sia il male di rimettere a un faraone e alla sua corte il peccato di aver massacrato il loro figlio.

È sempre lo stesso schema: l’abbiamo già visto e lo vedremo ancora. Quel potere pseudo-democratico, con cui però si viene a patti, nazionalizza le televisioni, sottomette i giornali e controlla i corrispondenti stranieri. Che in Egitto funzioni così l’ho sperimentato di persona lavorandoci per un anno ai “dorati” tempi di Mubarak. I colleghi locali mi spiegarono le regole di sopravvivenza. Per superficialità ne violai una: «Mai scrivere Mubarak, la censura è un computer, inserisce la funzione cerca parola, tu non usare il nome e sei a posto». Lo feci e immediatamente ne pagai le conseguenze.
Definisco “dorati” quei tempi perché invece di farmi sparire mi diedero 24 ore per lasciare il Paese. Poi l’intervento di un diplomatico e della direzione di questo giornale mi valse una proroga di sei mesi. Fui convocato dall’addetto alla stampa straniera in un ufficio vuoto, il genere più temibile. Sulla scrivania, una sola carpetta. Conteneva i fax dall’Italia con tutti i miei articoli dall’Egitto tradotti in arabo. Ogni “spiacevolezza” era stata sottolineata. Teatralmente il funzionario le rilesse una dopo l’altra stracciando le pagine. Lasciò intatta solo quella su Mubarak e la rimise nella carpetta. Aggiunse: «La prossima volta non ci rivedremo». Giulio Regeni non ha avuto una seconda occasione. Chiunque creda che quel che scriveva non fosse letto da occhi attenti o che lo pseudonimo valesse a proteggerlo, sogna e non si è ancora svegliato.
Ci sono molte buone ragioni per cui cedere al fatalismo e ammettere che, sì: dimenticare conviene. Ce n’è una per non farlo: noi siamo vivi e Giulio è morto. Glielo dobbiamo perché siamo ancora qui, con gli occhi che vedono, la testa che ragiona e il cuore che batte. Siamo qui a fare 2+2, mica ci vuole un algoritmo per certe conclusioni. Siamo qui, ognuno con i suoi mezzi: chi un cartello con cui protestare, chi un computer acceso, chi una scrivania vuota con sopra il telefono collegato ai numeri giusti. Rassegnarsi all’ineluttabilità della menzogna è diventarne complici morali. In un mondo libero chi si piega per convenienza è morto molto, ma molto prima di Giulio Regeni.

ITiscali online, 13 febbraio 2016

Come può accadere che un ricercatore universitario venga preso per un soggetto tanto pericoloso da meritare l’avvio di sistematiche attività di controllo sulla sua persona: schedature fotografiche, intercettazioni delle comunicazioni telefoniche, controlli sulla sua abitazione? E’ la domanda a cui il pubblico ministero Sergio Colaiocco tenta di trovare risposta ascoltando come persone informate sui fatti i colleghi e gli amici di Giulio Regeni e anche i docenti universitari britannici che coordinavano la ricerca in cui il ragazzo era impegnato dallo scorso settembre al Cairo. Il Pm ha allestito una provvisoria “sede staccata” della procura della Repubblica di Roma in uno degli uffici della stazione dei carabinieri di Cervignano, a pochi chilometri da Fiumicello, il paese natale di Giulio dove venerdì, in occasione dei funerali, si sono ritrovati colleghi e amici provenienti dall’Egitto, dalla Gran Bretagna, dall’Austria e dai luoghi dove il giovane ricercatore ha operato negli ultimi anni. Tra loro anche la professoressa dell’università di Cambridge Maha Abdel Rahman, la supervisor di Regeni nella sua tesi di dottorato sui sindacati egiziani.

Ucciso dai servizi segreti egiziani - Il tema della tesi coincide con quello dell’articolo che, secondo l’ipotesi investigativa in corso di verifica, avrebbe attirato l’attenzione degli apparati di sicurezza, trasformando il giovane e brillante ricercatore poliglotta in un soggetto pericoloso a cui riservare lo stesso trattamento che, secondo le denunce delle organizzazioni umanitarie, viene riservato sistematicamente agli oppositori del regime di al Sisi. Perché non c’è alcun dubbio che – per le modalità e il contesto – il sequestro-omicidio sia stato messo in atto con le bestiali tecniche tipiche del Mukhabarat, il Servizio segreto egiziano. Tutto ruota attorno all’incontro dei sindacati indipendenti che si tenne al Cairo l’11 dicembre. Fu in quell’occasione che l’attività di ricerca e l’impegno civile di Regeni si sovrapposero. Assistere a quell’incontro era infatti un modo per acquisire elementi per la tesi. Ma gli diede anche spunti per scrivere, assieme a un collega, il famoso articolo apparso sotto pseudonimo il 14 gennaio sul sito specializzato Nena News e, col vero nome, il 5 febbraio sul Manifesto. Pubblicazione, come si ricorderà, alla quale la famiglia si oppose inviando al quotidiano, attraverso il suo legale, Alessandra Ballerini, una formale diffida. Che fu ignorata. [vedi postilla in calce]

Quell’unico articolo inviato dal Cairo - Rispetto alla genesi di questo articolo, il ritrovarsi a Fiumicello di tanti colleghi e amici ha portato nuovi elementi all’inchiesta. E’ entrata nel fascicolo del pm una mail inviata da Regeni il 14 dicembre, cioè tre giorni dopo l’assemblea dei sindacati indipendenti: “C’è stato un importante incontro sindacale qualche giorno fa e io e un altro dottorando italiano abbiamo deciso di scrivere un articoletto a riguardo. E’ una cosa semplice, e siccome lui ha già scritto per il manifesto pensavamo che potesse interessare. Di fatto l’articolo interessa, però il tipo in questione non vuole né due nomi, né uno pseudonimo (che per noi sarebbe abbastanza essenziale date le circostanze)”.

Firmare con uno pseudonimo non gli è bastato - Il messaggio è rilevante perché circoscrive ulteriormente a quell’11 dicembre il momento in cui cominciò l’esposizione di Regeni e l’attenzione dei suoi confronti da parte degli apparati di sicurezza. Infatti dalla mail si deduce (e la circostanza ci è stata confermata da più persone che erano in contatto con lui) che prima di allora Regeni non aveva scritto alcun altro articolo dal Cairo. E mai aveva collaborato col manifesto. E che era ben consapevole di essere stato presente a un incontro sì pubblico (fu in effetti annunciato anche da alcuni quotidiani) che però era considerato particolarmente pericoloso dal regime. Una conferma gli arrivò durante il suo svolgimento quando una giovane donna egiziana gli si piazzò davanti e scattò una fotografia. Giulio reagì con disappunto. Si preoccupò. Ne parlò con gli amici. E anche per questo avanzò la richiesta – non accolta, stando alla mail – di firmare con uno pseudonimo. Cosa che avvenne – sul sito Nena News – il 14 gennaio. L’articolo fu pubblicato la firma “Antonio Drius”. Una scelta fatta dallo stesso Regeni che mise assieme un nome che gli era molto caro – quello di Gramsci – con un antico cognome di famiglia.

Il cambiamento del metodo della ricerca - Era giunto al Cairo il 5 settembre. E aveva avviato la sua ricerca raccogliendo materiale di documentazione e svolgendo interviste. Dopo alcuni mesi, il metodo cambia. Tanto che Giulio verso ottobre dice a un amico che in un certo senso il ‘vero lavoro’comincia in quel momento. In cosa consiste questo cambiamento? La sua presenza all’incontro dell’11 dicembre fa pensare che avesse cominciato a lavorare alla sua tesi secondo il metodo PAR (Participatory action research) l’”osservazione partecipante”: un approccio diverso da quelli tradizionali perché il ricercatore non si pone in modo freddo e distaccato davanti all’oggetto del suo studio, ma ne diventa egli stesso parte attiva. E’ un metodo scientifico riconosciuto. Ma certamente ignoto agli aguzzini del Mukhabarat per i quali la presenza di due ricercatori occidentali a un incontro dell’opposizione sindacale evoca scenari totalmente diversi. Se poi a questo si aggiunge un articolo che fa propria quella visione e richiama i valori della Primavera araba il sospetto, nella logica paranoica dei servizi di sicurezza di un paese governato dai militari, può diventare una certezza.

Un incontro col leader del sindacato degli ambulanti - Ma quando fu deciso questo cambio di metodo, Giulio ne parlò con i suoi supervisori? E in tal caso fu adeguatamente valutato dai docenti di Cambridge il fatto che il giovane ricercatore si stava esponendo a dei pericoli che, quando partì per l’Egitto, non erano stati messi in conto? Sono le domande alle quali si tenta di dare una risposta ascoltando la professoressa Maha Abdel Rahman. Anche per capire se, oltre all’assemblea dell’11 dicembre, il giovane ricercatore avesse riferito altri momenti di contatto diretto con gli ambienti che erano oggetto della sua ricerca e quali. Uno viene segnalato dal Corriere della Sera oggi in edicola. Giulio Regeni avrebbe avuto un incontro col leader del sindacato degli ambulanti e avrebbe anche comunicato l’idea di presentare una domanda alla “Antipode Foundation”, una fondazione che finanzia progetti per “promuovere analisi radicali su questioni geografiche e spingere per lo sviluppo di una società nuova e migliore”. Si tratta di progetti che mettono assieme Organizzazioni non governative e università internazionali. Due dei più terribili tra i mostri che si aggirano negli incubi della dittatura di Abd Fattah al Sisi.

Postilla
Bellu riprende la tesi secondo la quale lapubblicazione sul manifesto dell’articolo firmato da Giulio Regeni sarebbe lacausa dello svelamento di Giulio, quindi della sua morte. Il dubbio è insensato. Il corpo senza vita diGiuio fu ritrovato il 3 febbraio, e l’articolo pubblicato il 5 febbraio.
Bellu riprende la tesi secondo la quale la pubblicazione sul manifesto dell'articolo firmato da Giulio Regeni sarebbe la causa dello svelmaento di Giulio, quindi della sua morte. Questo sospetto è insensato. L'articolo fu pubblicato il 5 gennaio, Giulio fu catturato il 25 gennaio e ritrovato, assassinato, il 3 febbraio
Bellu riprende la tesi secondo la quale la pubblicazione sul manifesto dell'articolo firmato da Giulio Regeni sarebbe la causa dello svelmaento di Giulio, quindi della sua morte. Questo sospetto è insensato. L'articolo fu pubblicato il 5 gennaio, Giulio fu catturato il 25 gennaio e ritrovato, assassinato, il 3 febbraio
Bellu riprende la tesi secondo la quale la pubblicazione sul manifesto dell'articolo firmato da Giulio Regeni sarebbe la causa dello svelmaento di Giulio, quindi della sua morte. Questo sospetto è insensato. L'articolo fu pubblicato il 5 gennaio, Giulio fu catturato il 25 gennaio e ritrovato, assassinato, il 3 febbraio

«La guerra di Siria ha raggiunto dimensioni epocali: gli sfollati sono il 45% della popolazione. La questione è che «l’Occidente impigliato nelle sue clamorose contraddizioni non sa ancora cosa fare». Alberto Negri Bernardo Valli, Il Sole 24 Ore la Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il Sole 24 Ore
IL MONDO RIUNITO AL CAPEZZALE SIRIANO
di Alberto Negri

Prima di ogni giudizio politico e di qualunque cronaca diplomatica sul complicato tentativo di un cessate il fuoco viene il dramma di una tragedia mediterranea senza confronti: sulla mappa del Medio Oriente un'intera nazione sta scomparendo. La guerra di Siria ha raggiunto dimensioni epocali, il maggiore disastro umanitario sulle sponde del Mediterraneo dai tempi della seconda guerra mondiale: in cinque anni secondo il Syrian centre for policy reserach (Scpr) i morti sarebbero 470mila contro i 250mila indicati dall’Onu, un dato che non sarebbe stato aggiornato nell’ultimo anno e mezzo. Gli sfollati sono il 45% della popolazione: 6,6 milioni sono quelli interni, oltre 4 coloro che hanno lasciato il Paese.

È la morte di una nazione. L’80% dell’economia è stata inghiottita dalla guerra: questo significa che la ricostruzione durerà anni e i rifugiati non sapranno dove tornare. L’85% dei siriani vive sotto la soglia di povertà e nell’ultimo anno i prezzi di qualunque genere di prima necessità è salito del 50 per cento. A questo si aggiunge un danno incalcolabile: la distruzione del patrimonio culturale, l’unica vera ricchezza che può consentire a un popolo di avere un’eredità del passato che possa far intravedere anche un futuro.
La battaglia di Aleppo è diventata una sorta di Stalingrado del Medio Oriente: 50mila i civili in fuga, 300mila sono sotto assedio senza viveri ed elettricità, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite. Come città simbolo occupata dai ribelli, Aleppo è diventata un passaggio chiave della guerra. Lo sforzo di Bashar Assad e dei russi per riprenderla si è intensificato insieme ai bombardamenti: l’obiettivo strategico è quello di tracciare una linea Nord-Sud, da Aleppo fino a Damasco che consenta di liberare la principale direttrice della Siria. C’è da dubitare che possano rinunciarci facilmente.
Eppure ieri a Monaco di Baviera il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov si sono incontrati a margine dei lavori del Gruppo internazionale di sostegno alla Siria: prima dell’incontro Lavrov ha annunciato una proposta per un cessate il fuoco. Alla riunione, che precede l’annuale Conferenza sulla sicurezza, partecipavano anche le potenze regionali coinvolte con lo scopo di riportare il regime e l’opposizione siriana al tavolo dei negoziati dell’Onu dopo la sospensione dei colloqui di Ginevra.
Quante sono le chance di successo? Non molte anche se il clima internazionale è diventato così incandescente che il conflitto rischia di andare oltre a una sorta di “guerra mondiale a pezzi”, secondo la definizione di Papa Bergoglio. Il presidente turco Tayyp Erdogan ha detto che Ankara «sta perdendo la pazienza»: la Turchia sta subendo la pressione dei profughi ai confini ma soprattutto si è accorta che le garanzie europee e Nato non basteranno a fermare la caduta di Aleppo. Per lui, i sauditi e le monarchie del Golfo che avevano puntato tutto sulla fine di Assad e l’appoggio ai jihadisti si tratta di una sconfitta secca. E questo proprio mentre l’Iran, che celebrava ieri il 37° anniversario della repubblica islamica, si è liberato dalle sanzioni e come alleato di Damasco ha l’opportunità di estendere la sua sfera di influenza regionale. A loro volta i curdi siriani vedono una storica occasione di autodeterminazione: non a caso si sono schierati ufficialmente con i russi e Assad.
La partita sta diventando un duello rusticano sulla pelle dei siriani: i sauditi, già impantanati in Yemen, annunciano che invieranno truppe in Siria quando la coalizione a guida americana deciderà un’operazione di terra. Un’offensiva araba potrebbe innescare una «nuova guerra mondiale», avverte il premier russo Dimitri Medvedev. Ma la coalizione deve fare la guerra al Califfato o ai russi? Nessuno sa rispondere perché l’Occidente impigliato nelle sue clamorose contraddizioni non sa ancora cosa fare.


La Repubblica
RUSSIA E AMERICA, IL DILEMMA SIRIANO
di Bernardo Valli

Nulla è definitivo nell’affollata guerra siriana, come non lo è attorno a un tavolo di giocatori incalliti. Dove, a tratti, i prepotenti, i virtuosi del bluff, hanno la meglio, nell’attesa che si concluda la partita. Quella in corso nella valle del Tigri e dell’Eufrate non è certo finita. La Russia di Putin è tuttavia al momento in grande vantaggio. È una svolta nel conflitto. Scesa in campo non ultima, ma soltanto di recente con un grande dispiegamento di forze, essa umilia in questa fase la coalizione guidata dalla super potenza americana, esitante e quindi nella scomoda posizione di chi subisce. E rischia un fallimento politico, militare e morale.

Nulla è definitivo in Medio Oriente. Meglio ripeterlo. I suoi confini sono incerti; le correnti religiose si confondono con i nazionalismi o gli scontri etnici; e le potenze regionali sono pedine che cambiano colore su una scacchiera mobile. Là sono i Balcani del nostro secolo. Gravidi di morti, di profughi e di nuovi imprevedibili conflitti.
Al momento l’aviazione russa, insieme a quella siriana, colpisce ad Aleppo e in altre città i ribelli moderati, aiutati col contagocce dagli americani. L’obiettivo è la riconquista della seconda città siriana da cinque anni assediata dagli oppositori. I governativi, in gran parte alawiti, correligionari di Assad e imparentati con gli sciiti, difendono la cittadella, la meravigliosa parte alta, antica, voluta dal Saladino.
Patrimonio dell’Unesco. Simultaneamente, gli aerei della coalizione guidata dagli americani colpiscono gli uomini dello Stato Islamico e di Al Qaeda. Li bombardano in modo sporadico. Ma risparmiano le truppe di Assad. Le quali a loro volta non si occupano con zelo dello Stato Islamico e di Nusra (edizione locale di Al Qaeda). Spesso fingono che non esistano. Sono utili perché aggrediscono gli altri oppositori. Intralciano la loro azione, anche se sono alleati come oppositori di Assad.
Il calato interesse americano per una regione un tempo essenziale negli equilibri internazionali non ci sorprende. Gli Stati Uniti non dipendono più dall’energia mediorientale e i loro rapporti con l’Arabia saudita, tradizionale e indiscussa alleata, sono più difficili. I nuovi principi di Ryad sono più suscettibili. In particolare da quando Barack Obama ha contribuito a riportare in società l’Iran sciita, grande avversario dei sunniti sauditi. Impigliata nella tenzone tra le due principali correnti dell’Islam, l’America di Obama si limita allo stretto necessario. E lascia campo libero ai russi. Condanna Bashar al Assad ma non esegue le punizioni minacciate. Rifiuta rapporti con il rais sanguinario e inattendibile, ma diffida dei ribelli frantumati in numerose fazioni. E se sono moderati non li ritiene in grado di contenere il fanatismo religioso dello Stato islamico e di Nusra.
Si pone un dilemma. Di fronte al dilemma: meglio un rais inaffidabile o dei fanatici sanguinari? Il rais di fatto la spunta. Ha la meglio. Anche se il presidente degli Stati Uniti non si pronuncia con chiarezza. Non può esporsi a una scelta che non lascia scampo alla dignità. Essendo gli uni e gli altri, terroristi e governativi, impresentabili. Di fatto però Assad è il favorito, perché ritenuto il meno peggio. Alla fine di due mandati, durante i quali ha cercato di ridurre i soldati americani dispersi nel mondo, Obama non vuole lasciare in eredità un’altra spedizione yankee. Da qui un’inevitabile ambiguità.
Per Vladimir Putin il problema si pone altrimenti. Non ha sorpreso l’irruzione della decaduta superpotenza russa in un’area a noi vicina. L’attenzione di Mosca per la Siria confinante con il Caucaso popolato di musulmani risale a tempi lontani. Così come il suo desiderio di inoltrarsi nei mari caldi, nel Mediterraneo, non è nuovo e quindi non lo è il suo interesse per i porti di attracco, di Tartus e di Latakia, sulla costa siriana. Il ritorno della Russia in Medio Oriente ci riporta a mezzo secolo fa. All’alleanza con l’Egitto nasseriano in aperto conflitto con Israele.
Tuttavia la storia non si ripete con esattezza. Presenta soltanto somiglianze. La Russia non si pone il problema della scelta, ignominiosa o no. Bashar al Assad è un alleato di sempre. Poco importa se era dato per spacciato e considerato infrequentabile, fino a pochi mesi fa, per la repressione e soprattutto per l’uso di ingredienti chimici. E perché ritenuto responsabile, perlomeno alle origini, del conflitto che dura da cinque anni, e che ha fatto quasi trecentomila morti.
Assad è una pedina importante. Lo è anche per l’Iran. Il quale usufruisce dell’offensiva russa concentrata sulla città di Aleppo. Impegnata da tempo direttamente sul terreno la teocrazia degli ayatollah, appena assolta dal processo sul nucleare e alleata del regime alawita di Bashar al Assad, intravede adesso una possibile realizzazione del sognato asse sciita che va da Teheran a Beirut, passando per Bagdad e Damasco. Anche se ben lontano dall’essere una realtà, non è più un miraggio.
Ma per il fronte avverso, quello sunnita, è già una minaccia. L’Arabia Saudita e la Turchia seguono in questi giorni gli avvenimenti in Siria come un affronto insopportabile. E considerano il cauto, incerto comportamento americano di fronte all’offensiva russo - iraniana, in appoggio al loro nemico di Damasco, come un’imperdonabile inerzia. Alla quale potrebbero porre rimedio fornendo, ad esempio, ai ribelli moderati anti-Assad i missili antiaerei, suolo - aria, capaci di neutralizzare le forze aeree russe e siriane. Come accadde in Afghanistan, dove la resistenza dotata dagli americani dei famosi stinger affrettò il ritiro dei sovietici, privati della decisa supremazia aerea.
Gli americani non hanno mai voluto dotare i ribelli moderati di quegli strumenti, lasciandoli vulnerabili di fronte agli attacchi degli elicotteri e dei caccia governativi, e adesso di quelli russi. Una forte reazione saudita e turca all’offensiva russo-iraniana cambierebbe la natura del conflitto. In Medio Oriente i russi sono dei giocatori abili. Mentre i negoziati passano da un fallimento all’altro, Putin propone adesso, come una concessione, un cessate il fuoco ai primi di marzo. Quando le sue truppe e i suoi aerei avranno portato a termine l’offensiva di Aleppo. Sempre che degli interventi turchi e sauditi, o un ripensamento americano, non la prolunghino.

Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Mentre sul confine tra Siria e Turchia si ammassano giorno e notte migliaia di civili siriani in fuga da Aleppo - martellata dai bombardamenti aerei russi e dai mortai dell’esercito lealista di Bashar Al Assad -, ovvero vecchi, donne e bambini terrorizzati di finire nelle mani dei soldati del regime, le terrificanti foto scattate negli anni all’interno delle prigioni dal siriano Caesar, ex fotografo della polizia militare del sanguinario presidente Assad, non potranno essere viste dagli italiani perché sia il Senato sia la Camera le ritengono troppo crude.

L’autore delle immagini che mostrano le torture quotidiane ai danni degli oppositori politici incarcerati, prima di disertare era riuscito a trafugare i file e quindi a portarli in Europa dove oggi vive sotto stretta protezione. Una selezione di queste “normali” mostruosità sono state oggetto di alcune mostre allestite nei mesi scorsi in alcune delle più importanti sedi istituzionali europee e statunitensi: al palazzo dell’Onu di New York, al Parlamento della Gran Bretagna, al Parlamento europeo, visitate soprattutto da scolaresche. Ma i nostri studenti invece ne rimarrebbero troppo scossi anche secondo la presidente della Camera, Laura Boldrini (ex portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) che inizialmente «non aveva problemi al riguardo», come ha scritto ieri il Corriere della Sera. Che nello stesso articolo allude al fatto che la presidente abbia cambiato idea sconsigliata dai funzionari della Camera che presiede.
Sempre il Corriere riportava l’aspra e amareggiata critica di Emma Bonino che, in veste di membro della delegazione dell’European Council e di fondatrice dell’Ong Non c’è pace senza giustizia, aveva promosso l’esposizione delle fotografie di Caesar, che ricordano quelle scattate all’interno della tristemente nota prigione-scuola di Pol Pot in Cambogia. Dalla città turca di Gaziantep al confine con la Siria, la Bonino ha denunciato: «Sono mesi che cerchiamo di portare anche a Roma queste testimonianze visive e inequivocabili delle torture sistematiche perpetrate dal regime di Assad contro i detenuti, ma la Camera e il Senato le hanno bocciate. Forse per ragioni di opportunità politica, forse perché troppo crude».
Secondo l’esponente dei Radicali se non le si mostrano si commette l’errore di edulcorare i fatti, allevando generazioni di giovani che non conoscono la realtà e la sua durezza. Anche il museo dell’Olocausto di Washington e molte università europee hanno ospitato gli scatti di Caesar. «Quando si è trattato di decidere se esporle a Bruxelles (sette mesi fa, ndr) il presidente del parlamento europeo Martin Schulz non era d’accordo», ricorda al Fatto il portavoce di Laura Boldrini, che conferma che la mostra non si terrà, pur escludendo che la presidente abbia seguito i consigli dei funzionari della Camera: non siamo, insomma, ad un replay del caso delle statue velate in occasione della visita di Rouhani che portò allo scontro tra Palazzo Chigi e il suo cerimoniale.
Resta il fatto che la mostra a Bruxelles si è tenuta, caldeggiata anche dagli europarlamentari dei Cinque Stelle. Anche se negli stessi giorni di luglio in Italia i deputati pentastellati proponevano di riaprire l’ambasciata siriana del regime a Roma. Le immagini sconvolgenti delle torture, che ricordano quelle che ha dovuto subire Giulio Regeni, a giudicare dai riscontri dei medici legali e dagli investigatori italiani, sono state verificate e ritenute vere dalle più autorevoli organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch che le ha pubblicate sul proprio sito web.
È scoraggiante che occorra la tortura e la morte di un giovane intellettuale del Primo mondo per far comprendere ai suoi colleghi di quanto sangue grondino gli scettri dei tiranni al potere grazie al sostegno dei "nostri" governi. Intervista di Francesca Caferri a Olivier Roy.

La Repubblica, 12 febbraio 2016

Olivier Roy, docente dello European University Institute di Fiesole, è uno dei massimi esperti mondiali di Islam. E fra i primi firmatari dell’appello sottoscritto da oltre 4500 accademici di tutto il mondo e indirizzato al presidente egiziano Al Sisi per chiedere giustizia per Giulio Regeni e per tutte le vittime di sparizioni forzate in Egitto.

Professor Roy, perché ha firmato l’appello?
«Perché questa morte mi è sembrata subito sospetta e il comportamento delle autorità egiziane molto ambiguo. Hanno dato spiegazioni diverse e confuse quando è stato chiaro sin dall’inizio che Giulio Regeni era stato sequestrato dalla polizia o da qualche forza governativa. Il suo non è il primo caso di ricercatore finito nelle mani della polizia in Egitto: finora gli stranieri erano stati interrogati, maltrattati e poi espulsi ma nessuno si era fatto male. Era un modo per mettere pressione su di noi. I colleghi egiziani avevano avuto una sorte peggiore: parecchi erano finiti in prigione ed erano stati torturati. Ora però c’è un morto, non possiamo più restare in silenzio».

Crede che questo appello possa davvero servire?
«Il governo egiziano non può ignorarlo: è la prima volta che c’è una mobilitazione simile nel mondo accademico. Non parliamo solo di quello che è accaduto adesso ma della pressione fortissima che si è sviluppata negli ultimi anni contro gli accademici. È venuto il momento di reagire. Credo che la lettera possa servire perché questo governo vuole apparire agli occhi del mondo come un fattore di stabilizzazione nella regione e una barriera contro il radicalismo islamico. Ma così la sua strategia non funziona».

Perché?
«Perché le politiche che portano avanti non fanno che accrescere l’instabilità e la radicalizzazione, come vediamo bene anche nel Sinai».

Che si aspetta dall’Egitto?
«Chiediamo al governo di dire la verità: avrebbe dovuto immediatamente aprire un’inchiesta su quello che è successo invece di spargere pettegolezzi sulle presunte frequentazioni omosessuali di Regeni».

Che conseguenze avrà questa vicenda nel mondo accademico?
«Molte persone sono spaventate. Molte istituzioni diranno ai loro professori e ai loro studenti di non andare in Egitto: e in questo modo il governo avrà ottenuto quello che voleva, che è azzittire la ricerca. Noi non vogliamo che questo accada».

Che contributo portano persone come Giulio Regeni alla ricerca accademica?
«Un contributo fondamentale. Sono quelle che si immergono nella realtà che li circonda. Sono piene di passione e di voglia di fare. Portano conoscenze fondamentali su cui poi noi professori ci basiamo. Ci fidiamo di loro perché vanno a fondo: io e molti miei colleghi non abbiamo più il tempo e il modo di andare al Cairo e passare un mese nelle periferie per capire cosa pensa la gente. Giulio Regeni e quelli come lui avevano questa possibilità. Il lavoro vero è il loro, non il nostro. Senza persone così non ci sarebbe ricerca vera, ma solo paludati convegni ».

«Non serviva il caso Regeni per capire che l’Egitto è il regno di tortura e desaparecidos». Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)

Noi siamo le vergini dai candidi manti/sfondate didietro ma sane davan ti/Nell’arte sovrana di fare i pompini battiamo le troie di tutti i casini”. Le ‘vergini dai candidi manti’sono in questo caso i governi, i politici, i politologi, i geopolitici, gli intellettuali, i giornali, gli opinionisti, i commentatori, i giornalisti del mondo cosiddetto democratico che si accorgono solo oggi, colpiti da improvvisa folgorazione, chi è il generale Abd al-Fattah al-Sisi e solo perché in Egitto è stato torturato e ucciso un giovane occidentale, sorte toccata ad almeno 1.500 oppositori, quasi tutti Fratelli musulmani, nei 3 anni di regime del rais del Cairo.

Sono gli eterni scopritori dell’acqua calda, quelli che pensano sempre che il mondo sia nato con loro. Naturalmente gli ‘scopritori dell’acqua calda’ sono troppo imbarazzati per non doverla in qualche modo intiepidire. Così mentre si ergono, petto in fuori, a inflessibili difensori dei ‘diritti umani’ e democratici si lasciano andare a disinvolte amnesie, dimenticanze, verità scritte a metà. Intanto non ci voleva un particolare acume democratico per definire il colpo di Stato di Al Sisi un colpo di Stato. Visto che era stato rovesciato con la violenza il presidente eletto, Mohamed Morsi, nelle prime consultazioni libere di quel Paese dopo decenni di dittatura. Io lo scrissi a ridosso dei fatti nel novembre del 2013 (Egitto, l’assurdo processo a Morsi, Il Fatto 9 novembre 2013). Ma su questo dettaglio si preferì sorvolare.
Ancora oggi c’è chi parla di “seconda dittatura dopo quella di Mubarak” sottintendendovi quindi anche il governo legittimo di Morsi. Cosa aveva fatto costui per meritarsi di essere rovesciato da un golpe militare perpetrato, paradosso dei paradossi, da quello che era stato il braccio armato del dittatore Mubarak spazzato via dalle rivolte popolari di piazza Tahrir dell’inverno 2011? Aveva messo in galera gli oppositori, li aveva torturati, li aveva uccisi, aveva organizzato la repressione, instaurato la censura, proibito le manifestazioni (cioè tutte le cose che farà Al Sisi una volta insediatosi al potere) imposto la sharia? Niente di tutto questo. L’accusa al governo Morsi, in carica solo da un anno e mezzo, era di essere ‘inefficiente’ (se un’accusa del genere bastasse per legittimare un colpo di Stato, in Italia dovremmo farne uno all’anno). Ma a parte il fatto che era difficile pensare che in poco più di un anno il nuovo governo democratico potesse riparare i guasti di decenni di dittatura, è ovvio che chi in quegli stessi decenni era stato all’opposizione avesse bisogno di farsi un po’ di esperienza di governo.
Anche questo, pudicamente, si sottace insieme a un altro fatto determinante. Come mai i Fratelli musulmani avevano vinto le elezioni del 24 giugno 2012? Perchè per trent'anni erano stati i soli, veri, oppositori del regime di Mubarak, pagando prezzi altissimi, con carcerazioni, torture, assassinii, de - saparecidos o aparecidoscadaveri come quello di Giulio Regeni (mentre i cosiddetti ‘laici’, che tanto piacciono all’Occidente, se ne stavano al coperto). Per questo gli egiziani li avevano premiati. Anche perché si sapeva che i Fratelli erano dei musulmani moderati e non dei fanatici integralisti (parecchi di loro lo diverranno dopo andando a ingrossare le file dell’Isis).
Si è ripetuto in Egitto quanto avvenne in Algeria nel 1991 quando nelle prime elezioni libere, dopo trent’anni di una dittatura militare sanguinaria, il Fis (Fronte islamico di salvezza) sostanzialmente moderato, le vinse a grande maggioranza. Allora i generali algerini, con l’appoggio dell’intero Occidente, le annullarono con la motivazione che il Fis avrebbe instaurato una dittatura. In nome di una dittatura del tutto ipotetica si ribadiva quella precedente. E fu l’inizio di una guerra civile durata vent’anni.
Insomma la lezione degli occidentali, predicatori di democrazia, è questa: la democrazia vale quando le elezioni le vinciamo noi o i nostri amici, altrimenti non vale. Ciò che stava accadendo nell’Egitto del molto rispettabile e rispettato generale Al Sisi l’ho scritto in un articolo per Il Fatto del 31 gennaio 2015, dall’eloquente titolo: Al Sisi, il criminale che piace all’Occidente. Ora che anche i pettoruti democratici ‘last minute’ lo hanno scoperto non starò a ripetere quei dati, mi limiterò ad aggiornarli. I 6.000 prigionieri politici di allora sono arrivati nel frattempo 60 mila. Ma sono destinati a diventare ben di più visto che Al Sisi sta facendo costruire sedici carceri speciali. Trovo infine oltremodo provinciale gettare la croce addosso a Renzi per certe sue imprudenti dichiarazioni ed esibizioni, che avevano, se non altro, l’obbiettivo di tutelare alcuni nostri interessi nazionali. Certo la politica estera non si fa con lo stile di Renzi o di Berlusconi, ma con quello di Andreotti che, legami con la mafia o meno (ma in Italia li hanno avuti tutti) è stato l’ultimo nostro uomo di Stato.
Il fatto è che l’intero Occidente, e non solo l’irrilevante Renzi, ha appoggiato e continua ad appoggiare il criminale Al Sisi. Che del resto è stato messo dove ora sta dagli americani che hanno fomentato una molecolare protesta di piazza contro i Fratelli Musulmani, per rovesciarli, e che da decenni, dai tempi di Sadat (l’ultimo capo di Stato egiziano a essere onesto e perbene, insignito del Premio Nobel per la Pace insieme al terrorista Begin che nulla aveva fatto per meritarselo) foraggiano e armano l’esercito egiziano di cui Al Sisi era a capo ai tempi di Mubarak.
Al Sisi serve all’Occidente, come oggi gli servono i pasdaran dell’Iran, che per più di trent’anni, senza alcuna ragione plausibile, è stato inserito nel famoso ‘Asse del Male’, e i peshmerga curdi che, tramite Saddam Hussein - quando ci serviva - e la Turchia abbiamo contribuito a massacrare per altrettanti decenni, per contrastare il fenomeno Isis che noi stessi abbiamo creato. Di fronte a queste ripugnanti ipocrisie della ‘cultura superiore’, che si perpetuano da due secoli da quando risuonarono le sacre parole della Rivoluzione francese, liberté, legalité, fraternité, dando inizio nell’Ottocento al colonialismo sistematico, militare, politico, economico, uno comincia a chiedersi, come Grillo ma per tutt’altri motivi: io da che parte sto?
«Scopriamo che cos’è il regime di Al Sisi solo in seguito a questo massacro, avendone ignorato tutti gli altri finora e avendo finora consentito al governo italiano di trattarlo senza contestazione alcuna come un alleato necessario e prezioso».

Internazionale.it, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)

Ossa rotte, forse una trentina. Unghie strappate, ai piedi e alle mani. Bruciature di sigarette sparse sulla pelle. Orecchie mozzate. Un colpo finale alla noce del collo. Quanti giorni e quanto sadismo ci vogliono per ridurre così il corpo e l’anima di un essere umano? Nove, secondo alcune ricostruzioni, cinque secondo altre. È il tempo che Giulio Regeni ha impiegato per morire. Quanti giorni e quanto cinismo ci vogliono perché il caso Regeni sia soppiantato dal cattivo andamento delle borse e dalle primarie di Milano nelle aperture dei giornali e dei telegiornali? Ne bastano quattro. È il tempo che Giulio Regeni sta impiegando per morire una seconda volta, come una fra le tante casualties della guerra globale in corso archiviate senza nemmeno la consolazione di una verità plausibile.

Poche ore sono bastate invece a noi per farci un’idea di quella verità, e per realizzare altresì che non coinciderà mai con la versione ufficiale dei fatti, quella che risulterà dalla somma algebrica e real-politicamente accettabile tra la volontà di sapere del governo italiano e la volontà di mentire di quello egiziano. Giulio Regeni è stato torturato, seviziato e ucciso dagli apparati di un regime efferato: poco importa se dalla polizia, dai servizi o da forze speciali. I depistaggi tentati di giorno in giorno da quel regime e dai suoi apparati - si è trattato di un incidente; si è trattato di un crimine di terzi ignoti; cercate tra gli amici con cui andava per feste di compleanno - non fanno che confermarne l’efferatezza. E gli eventuali cedimenti del governo italiano di fronte alla ragion di stato, ovvero alle ragioni economiche che fanno di Al Sisi un interlocutore da trattare coi guanti gialli, non farebbero che renderlo complice, va detto senza mezzi termini, di quella efferatezza.

Adesso non bastano tutte le lacrime che abbiamo per piangere su quel corpo straziato. E del resto esso ci domanda di non velarli di pianto ma di tenerli bene aperti, con tutta la rabbia e l’odio che i genitori di Giulio allontanano da sé, ma noi abbiamo invece il dovere morale di non spegnere, su almeno tre abissi che questa orribile vicenda spalanca.

Primo, l’abisso dell’ignoranza. Siamo nel pieno di una guerra globale di cui non conosciamo nemmeno le pedine a noi più prossime. Scopriamo che cos’è il regime di Al Sisi solo in seguito a questo massacro, avendone ignorato tutti gli altri finora e avendo finora consentito al governo italiano di trattarlo senza contestazione alcuna come un alleato necessario e prezioso. Nella più completa insipienza della complessità dello scenario mediorientale, ci accontentiamo della logica secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, una logica che in quella come in altre parti del mondo non ha mai prodotto nulla di buono, senza neanche chiederci se i nostri presunti amici siano, al fondo, assai simili ai nostri nemici. Ci si può fidare del terrorismo di stato di Al Sisi per combattere lo stato terrorista dell’Is? Si può continuare a pensare che le dittature possano fare da argine al fondamentalismo? Se in Italia esistesse un’opposizione, sarebbero buone domande da porre con una certa fermezza al governo.

Secondo, e correlato, abisso: il cinismo dell’informazione, che dell’ignoranza di cui sopra è largamente responsabile. Ma non solo di quella. Mi chiedevo prima quanto tempo ci ha messo il caso Regeni a “scendere” dalle aperture ai tagli bassi di prima pagina. Ma vale anche la domanda contraria, quanto tempo ci abbia messo a “salire” dalla notizia di dieci righe all’apertura: nove, lunghissimi giorni, i giorni della “sparizione” di Giulio. Nove giorni senza quella pressione dell’opinione pubblica che forse, com’è stato giustamente scritto, avrebbe potuto contribuire non poco a salvargli la vita. Senza dire di quelli che sui giornali insinuano che “il ragazzo se l’è cercata”, o di quelli preoccupati, perfino in questa circostanza, di preservare il governo dagli “antitaliani” che osano avanzare una critica o una domanda. È pensabile almeno una mossa di riscatto? Un segno di lutto, un’insistenza sul fatto, fino a quando la verità, evidente anche ai ciechi, non sarà anche ufficialmente assodata e riconosciuta, con tutte le conseguenze politiche ed economiche del caso?

Terzo abisso, il precipizio dell’umano. La disumanizzazione, si sa, è il costo di qualunque guerra, il prezzo della violenza illimitata che ogni guerra scatena. Ma questo non ci esime dall’analizzare le modalità specifiche in cui si produce in questa guerra, che sempre più assume i caratteri di una guerra civile globale. Dove tutte le vittime sono vittime civili casuali, e lo status di casualties si estende fino a diventare regolarità. E dunque non è affatto un caso che a rimetterci la vita siano giovani studiosi e attivisti come Giulio Regeni o, fatte le dovute differenze, Valeria Solesin. Ha ragione chi in queste ore giudica insopportabile la retorica dei “giovani italiani all’estero” da cui è avvolta la loro morte. Non solo perché sono precisamente i giovani lavoratori della conoscenza a cui l’Italia del precariato intellettuale perenne non dà alcuna prospettiva di lavoro e di vita. Ma anche perché sono giovani globali, che lavorano sulle e nelle contraddizioni del mondo globale e perciò stesso sono i più esposti alle loro esplosioni. Sono, in altri termini, gli anticorpi dell’ignoranza e del cinismo in cui nella provincia italiana restiamo pigramente avvolti, e immeritatamente autoassolti dalle tragedie di un presente che ci assedia senza svegliarci. Dobbiamo loro qualcosa di più di un lutto momentaneo: quantomeno, che questo lutto resti aperto fino a un sia pur parziale, sia pur vano risarcimento.

Proseguono i tentativi di insabbiare la verità che ormai è chiara a tutti, o di utilizzare la vicenda per ricattare (vedi Obama).La cronaca del depistaggio di Giuseppe Acconcia e Fabio Scuto, le interviste a Malek Adly e Wael Abbas, il manifesto la Repubblica, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto

DEPISTAGGIO DI AL-SISI

di Giuseppe Acconcia

Il Cairo. Le autorità egiziane iniziano ad insabbiare l’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. I media locali fabbricano la pista omosessuale dopo le rivelazioni sulle atroci condizioni del cadavere

Al Cairo l’atroce arresto, tortura e morte di Giulio Regeni è già insabbiato. Il ministro dell’Interno, Magdi Abdel Ghaffar, ha negato che esista una pista che confermi le responsabilità della polizia. Eppure tutte le notizie che trapelano dall’autopsia italiana, dalle unghie dei piedi e delle mani strappate, alle falangi fratturate una ad una e l’orecchio mozzato fanno pensare ai metodi inconfessabili della famigerata Sicurezza di Stato egiziana (Amn el-Dawla), temuta da tutti gli egiziani e che da oggi è diventato l’incubo anche degli stranieri. Il colpo di grazia sarebbe stato inferto con l’improvvisa rotazione della testa oltre il punto di resistenza mentre la morte sarebbe sopraggiunta dopo ore di agonia.

Dagli ambienti di avvocati e difensori dei diritti umani in Egitto emerge che Giulio si trovava nel momento sbagliato e nel posto sbagliato quel terribile 25 gennaio, quinto anniversario dalle proteste, quando è scomparso. Probabilmente non lontano da piazza Tahrir e in una riunione a porte chiuse o all’aperto insieme ad almeno quaranta persone. È possibile che in quel momento sia stato fermato insieme agli altri e che in quanto straniero abbia destato sospetti. A quel punto è partito in Egitto il passaggio da un posto all’altro di detenzione fino al luogo degli interrogatori e delle torture. Gli ambienti dei sindacati indipendenti, frequentati da Giulio per motivi di ricerca, sono da tempo infiltrati dai servizi segreti militari e civili.

Questo tentativo di impossessarsi del dissenso da parte dei militari è successo in tante circostanze e modi diversi negli ultimi cinque anni. Un esempio lampante è il movimento Tamarrod (ribelli) che è stato forgiato dai militari per costringere l’ex presidente, Mohammed Morsi, alle dimissioni e che ha giustificato agli occhi dell’opinione pubblica il golpe militare del 2013. Le cellule del gruppo, nato come una raccolta firme, erano costituite proprio da giovani pagati dai militari. Da allora ogni forma di dissenso è stata impedita. Soprattutto all’interno delle fabbriche e tra i sindacati indipendenti. Prima di tutto i sindacati filo-governativi hanno visto spegnersi la loro spinta per i diritti dei lavoratori e in seguito le infiltrazioni di Intelligence hanno riguardato anche gli altri gruppi registrati o informali che sono sotto la lente di ingrandimento del regime.

È possibile che Giulio sia stato tradito da uno dei suoi contatti e che fosse attenzionato. Questo ha prolungato l’arresto trasformandolo in tortura e morte lenta che sarebbe sopravvenuta giorni dopo l’arresto. Perché non è stato lanciato subito l’allarme sulla scomparsa di Giulio? In un’intervista al manifesto l’attivista, Mona Seif, ha spiegato che è una prassi consueta aspettare prima di dare notizia pubblica della scomparsa di un congiunto.

Questa attesa tuttavia potrebbe essergli stata fatale. Nel momento in cui il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, si è attivato, cioè il 31 gennaio, per chiedere spiegazioni al suo omologo egiziano, poco dopo il cadavere di Giulio è stato fatto ritrovare in un fosso in condizioni atroci. Qui si è aperta la ridda di voci e depistaggi. Dall’incidente stradale all’atto di criminalità comune sono le spiegazioni che prima di ogni altre sono state date in pasto ai media per spiegare la morte di Giulio.

L’ultimo tentativo delle autorità egiziane è quello di avvalorare la tesi dell’omicidio a sfondo omosessuale. Secondo questa ricostruzione fasulla il corpo di Giulio sarebbe stato trovato nelle terribili condizioni di cui sopra per il giro di persone che frequentava. Addirittura i due arrestati poche ore dopo l’omicidio sarebbero proprio due persone omosessuali, in seguito rilasciate. Giulio Regeni potrebbe aver ricevuto l’attenzione dei Servizi anche per la sua affiliazione con l’Università americana del Cairo (Auc). Sono tanti i ricercatori europei che fanno riferimento all’istituzione accademica Usa in Egitto.

Tanto è vero che dopo la diffusione della notizia della morte di Giulio Regeni, dall’Auc è arrivata la richiesta a tutti i ricercatori, studenti e dottorandi che avrebbero dovuto recarsi in Egitto di fare marcia indietro e di non andare nel paese per ragioni di sicurezza.

Che oltre al ritrovamento del cadavere al-Sisi non voglia andare lo conferma il fatto che fin qui il team investigativo italiano non ha avuto vita facile in Egitto. Il pm che guida l’inchiesta, Sergio Colaiocco, ha dovuto inviare una rogatoria internazionale per poter aver accesso ai dati emersi dalla prima autopsia. Gli inquirenti italiani al Cairo hanno potuto solo visionare i tabulati telefonici e stabilire che la scomparsa di Giulio è avvenuta mezz’ora dopo aver lasciato casa, poco rispetto alle attese.

La Repubblica
L’EGITTO: “LA POLIZIA NON È COINVOLTA”

di Fabio Scuto
Il ministro degli Interni Ghaffar respinge le accuse sulla morte del ricercatore: “Mai arrestato quel giovane” Muro contro muro con l’Italia. E Obama rassicura Mattarella: gli Usa pronti a collaborare per trovare la verità

Il Cairo.«No. Le posso confermare ancora una volta che Giulio Regeni la notte del 25 gennaio non stato né arrestato né fermato dalla polizia egiziana». Trasuda sdegno il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar per la domanda di Repubblica sulla morte del giovane ricercatore italiano. La sua polizia, dice Ghaffar che comanda circa un milione di agenti divisi in vari dipartimenti, si batte contro il terrorismo e respinge «le ipotesi fantasiose dei giornalisti contro gli apparati di sicurezza. E non accettiamo neanche che si facciano allusioni ». Nessuno, come sostiene il ministro Ghaffar, vuole giungere a conclusione affrettate ma la percezione che sia muro contro muro con l’Italia è lampante.

Le certezze sugli atti inumani e brutali subiti da Giulio, avute dopo l’autopsia a Roma, non scalfiscono di un millimetro la versione che l’Egitto è intenzionato a propinare all’Italia. Ghaffar insiste sull’ipotesi criminale e difende a oltranza i suoi uomini. Ma è soprattutto una frase che colpisce come un pugno: «Stiamo trattando il caso con il massimo impegno, come se fosse uno di noi». Come spiegano i gruppi per la difesa dei diritti umani, oggi in Egitto si scompare con facilità in prigioni sconosciute nel cuore del deserto. Qualcuno riesce a tornare. Altri, esattamente come Giulio, vengono ritrovati in un fosso, con evidenti segni di tortura. Quindici casi solo l’anno scorso. Ma nelle parole del ministro «l’apparato della sicurezza non è stato mai accusato di commettere questi atti». Affermazioni che hanno a più che vedere con la propaganda e col bisogno di allontanare i “soliti sospetti” che con l’impegno «a fornire con trasparenza e collaborazione tutte le informazioni agli investigatori italiani» in Egitto. Ghaffar ribadisce la sua convinzione che traccia la linea del governo egiziano: «È un atto criminale».
Le notizie che filtrano sui giornali, specie in quelli controllati dal governo, sono versioni di cartone destinate a confondere le acque. Giulio è arrivato alla festa, frequentava strani giri, amicizie pericolose nell’Egitto odierno. Un quadro completamente diverso da quello fornito da amici e conoscenti del giovane italiano nella capitale egiziana. Il clima politico cairota è ancora più soffocante dello smog che soffoca la città. Lo straniero rientra nella categoria più pericolosa per l’attuale regime, quasi sempre è assimilabile alla spia. Per questo diversi Atenei - oltre a quello americano, c’è quello britannico e tedesco - subiscono sempre maggiori attenzioni dai molti apparati della sicurezza. Ieri la Middle East Studies Association, principale associazione di studiosi e ricercatori interessati al Medio Oriente nata negli Usa nel 1966, ha diramato un’allerta di sicurezza per tutti gli accademici presenti in Egitto e per chi abbia in progetto di andarci.
La morte di Giulio Regeni è stata al centro dell’incontro di ieri tra Barack Obama e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Obama ha ribadito che gli Stati Uniti sono pronti a collaborare per la ricerca della verità. E il caso potrebbe anche essere al centro dei colloqui nei prossimi giorni tra il segretario di Stato John Kerry e rappresentanti del governo del Cairo.

Il manifesto
L’ATTIVISTA DEI DIRITTI UMANI EGIZIANO:
«VOGLIONO IMPAURIRE GLI STRANIERI»
intervista di Giuseppe Acconcia a Malek Adly

Abbiamo discusso con l’avvocato per la difesa dei diritti umani, Malek Adly. L’attivista del Centro per lo Sviluppo economico e sociale (Ecesr) dell’ex candidato comunista alle presidenziali, Khaled Ali, con sede al Cairo, ha dovuto per lunghi periodi lasciare il paese per il suo impegno politico. Malek si occupa di casi molto delicati che riguardano le retate che colpiscono attivisti islamisti e di sinistra, recentemente si è occupato anche di arresti di massa in ambienti omosessuali al Cairo e non solo.

Quale crede sia la pista più credibile per la morte di Giulio Regeni?

Dalla sparizione forzata alla sfortuna fino a qualche comunicazione o relazione di amicizia non piaciuta al regime: tutto è possibile in questa fase. Alcuni cittadini americani sono stati arrestati solo perché sedevano in un caffé. Ormai questa è l’attitudine che esiste in Egitto.

Perché accreditano la pista dell’omicidio a sfondo sessuale?
Perché vogliono che la vittime abbia una cattiva reputazione. Per questo dicono che fosse gay. In questo modo nessuno umanizzerà Giulio Regeni, nessuno vorrà sostenere lui o la sua famiglia. Allora tutti diranno che era bugiardo, gay perché gli egiziani non sono familiari con i diritti degli omosessuali. Pochi penseranno che anche se lo fosse stato questo non avrebbe giustificato di certo un omicidio.

C’è poi la pista dei sindacati indipendenti che lui seguiva da vicino per la sua ricerca dottorale per l’Università di Cambridge?

Tutto è possibile. È possibile che fosse in comunicazione con attivisti politici o difensori dei diritti umani in Egitto. E questo di sicuro non fa piacere al regime militare egiziano. Potrebbe essere un segnale per tutti gli stranieri. Chi è in Egitto e ha comunicazioni con chi si occupa di questioni politiche può essere torturato o ucciso.

È possibile che i gruppi che frequentava Giulio fossero infiltrati dai Servizi di Intelligence militare o civile?
Certo, è plausibile. Non lo sapremo mai in maniera puntuale. Non sapremo mai i nomi e i cognomi di chi ha tradito Giulio. E forse neppure di chi ha ordinato di ucciderlo materialmente. Né sapremo mai quale apparato lo ha fermato. Forse la Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla) o la Sicurezza Centrale. Viviamo in Egitto in una situazione folle. Le agenzie di sicurezza commettono crimini contro egiziani e contro stranieri. È successo contro una vittima di nazionalità francese poche settimane fa. È stato ucciso brutalmente in cella nella stazione di polizia di Qasr el-Nil nel centro del Cairo. La stessa cosa è successa in altre circostanze all’insegnate canadese, Andrew Pochter, ucciso a sangue freddo ad Alessandria d’Egitto nel 2013.

In qualche modo sta accreditando la tesi che la polizia volesse colpire uno straniero?
Sì, questo è un messaggio chiaro a tutti gli stranieri che vogliono venire in Egitto per motivi di ricerca o di inchiesta. Il messaggio è: dovete rivedere la vostra decisione perché il paese non è sicuro. Questo spingerà molti accademici e giornalisti ad evitare di venire qui a lavorare con la stessa serenità che hanno sempre avuto.

Crede che nel mirino dell’esercito egiziano ci siano in particolare le ong e gli attivisti di sinistra dopo la lunga stagione di repressione degli islamisti?

L’esercito può trovare un accordo con gli islamisti moderati ma non con la sinistra che è contro la dittatura militare e ha altre idee in materia di politiche socio-economiche. E poi il nostro scopo non è arrivare al potere. Solo per questo siamo dei nemici giurati del regime di al-Sisi.

Pensa che Abdel Fattah al-Sisi abbia intenzione in questo contesto di frenare le azioni sommarie della polizia egiziana?

Il presidente egiziano purtroppo è paranoico. Non lo farà mai.

Il manifesto
IL BLOGGER EGIZIANO ABBAS:
«NON É UN COMPLOTTO CONTRO IL REGIME»
intervista di Giuseppe Acconcia a Wael Abbas

Abbiamo raggiunto al telefono al Cairo il blogger egiziano, Wael Abbas. Ci ha raccontato i momenti salienti delle rivolte del 2011. Gli abbiamo chiesto di ricostruire per il manifesto, le circostanze dell’arresto, detenzione e tortura di Giulio Regeni.

Cosa è successo al ricercatore italiano?
Sembra che sia stato arrestato, interrogato e ucciso. Lo hanno fatto sparire, torturato e fatto ritrovare morto. Questo trattamento è tra i metodi che solo la polizia egiziana può aver perpetrato.

Può essere che Giulio sia stato arrestato in quanto straniero?
Il 25 gennaio scorso la polizia era dappertutto. L’Egitto è diventato un paese xenofobo. I media sono xenofobi. Tutti i sostenitori delle sinistre sono spie. Tutti gli stranieri sono spie che vogliono preparare un’invasione materiale o immaginaria del paese. Per il grande dispiegamento di forze di quel giorno, è impossibile si sia trattato di un atto di piccola criminalità. Se lo avessero rapito, non sarebbe potuto avvenire quel giorno. E poi abitava al centro del Cairo: una zona sicura.

Perché hanno atteso così tanto per rendere nota la notizia?
Le persone che vivevano con lui avrebbero dovuto rendere pubblica la sua scomparsa la notte stessa. Secondo la legge egiziana se qualcuno sparisce, bisogna denunciare la scomparsa dopo 24 ore. La polizia poi è ovvio che dica che non è stato arrestato e che nessuno sa dove sia il cadavere. E la polizia non dà nessun aiuto per il ritrovamento dello scomparso. Se una persona poi è accusata di un reato politico automaticamente perde la sua umanità. Il ministro degli Interni ha detto ci sono 90 milioni di persone in Egitto non è un problema che centinaia spariscano, questo ha detto un pubblico ufficiale.

È possibile che Giulio sia stato fermato per il tema della sua ricerca accademica?
In Egitto odiano studiosi e giornalisti che si occupano di questo. Impediscono loro di entrare o li deportano. Ma è la prima volta che uno straniero viene ucciso in modo così atroce. Spero che non si ripeta. Questo succedeva nelle dittature militare argentina e cilena.

Perché è stata avanzata la pista sugli ambienti omosex?
Le condizioni del cadavere non rendevano credibile le piste dell’incidente stradale e della rapina. A quel punto era necessaria un’altra pista. Stanno dicendo che Giulio aveva partner omosessuali e per questo lo hanno ucciso. Hanno poi arrestato due omosessuali accusandoli di averlo ucciso.

E poi Giulio potrebbe essere stato fermato anche solo perché straniero?

Queste piste sono credibili. Che la sicurezza abbia nel mirino gli stranieri è chiaro. Lo confermano i casi dei turisti messicani e l’insabbiamento delle indagini sull’aereo russo Metrojet. Ci sono state sentenze di condanna di stranieri. È stato arrestato di recente al Cairo il figlio di un ministro americano. Il governo Usa ha dovuto pagare miliardi per farlo uscire di prigione, come ha confermato Hillary Clinton.

Crede sia in atto uno scontro tra polizia e militari. In altre parole sia in atto un complotto?
È evidente che al-Sisi non sia al corrente di ogni arresto. Dieci mila persone sono state arrestate ultimamente. Sa che arrestano e uccidono egiziani e stranieri. Chiunque lo abbia fatto quindi ha agito nei suoi interessi e non contro.

È in corso una repressione capillare della sinistra?
Socialisti e comunisti sono un problema. Al-Sisi adotta un progetto neo-liberista. Vuole privatizzare l’elettricità e l’acqua. Non gli importa dei salari dei lavoratori. Ha una visione di destra. Per questo la sinistra è ora il nemico.

Eppure al-Sisi ormai ha ottenuto tutto dalla presidenza al parlamento, perché non rilassa le sue politiche repressive?
I dittatori non si rilassano mai. Vanno avanti fino all’autodistruzione. Si sente minacciato ed è in pericolo ogni momento. La gente intorno a lui lo fa sentire così perché proteggendolo continuano a guadagnarci. E non vogliono in nessun modo che le cose cambino.

Il problema non è solo quello di cedere una parte piu o meno grande della sovranità ma della strategia politica che si accetta: emblematico ciò che avvenne, e continua ad avvenire, nella Libia .

Il manifesto, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)

Partecipando (come ormai d’obbligo) all’incontro dei ministri della difesa Ue il 5 febbraio ad Amsterdam, il segretario della Nato Jens Stoltenberg ha lodato «il piano degli Stati uniti di accrescere sostanzialmente la loro presenza militare in Europa, quadruplicando i finanziamenti a tale scopo».

Gli Usa possono così «mantenere più truppe nella parte orientale dell’Alleanza, preposizionarvi armamenti pesanti, effettuarvi più esercitazioni e costruirvi più infrastrutture». In tal modo, secondo Stoltenberg, «si rafforza la cooperazione Ue-Nato». Ben altro lo scopo. Subito dopo la fine della guerra fredda, nel 1992, Washington sottolineava la «fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza», ossia il comando Usa. Missione compiuta: 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno oggi parte della Nato sempre sotto comando Usa, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Facendo leva sui governi dell’Est, legati più agli Usa che alla Ue, Washington ha riaperto il fronte orientale con una nuova guerra fredda, spezzando i crescenti legami economici Russia-Ue pericolosi per gli interessi statunitensi. In tutta l’Europa orientale sventola, sul pennone più alto, la bandiera a stelle e strisce assieme a quella della Nato. In Polonia, la nuova premier Beata Szydlo ha ammainato dalla sue conferenze stampa la bandiera della Ue, spesso bruciata nelle piazze da «patrioti» che sostengono il governo nel rifiuto di ospitare i rifugiati (frutto delle guerre Usa/Nato), definiti «invasori non-bianchi».

In attesa del Summit Nato, che si terrà a Varsavia in luglio, la Polonia crea una brigata congiunta di 4mila uomini con Lituania e Ucraina (di fatto già nella Nato), addestrata dagli Usa. In Estonia il governo annuncia «un’area Schengen militare», che permette alle forze Usa/Nato di entrare liberamente nel paese.

Sul fronte meridionale, collegato a quello orientale, gli Stati uniti stanno per lanciare dall’Europa una nuova guerra in Libia per occupare, con la motivazione di liberarle dall’Isis, le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti. Una mossa per riguadagnare terreno, dopo che in Siria l’intervento russo a sostegno delle forze governative ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire questo Stato usando, come in Libia nel 2011, gruppi islamici armati e addestrati dalla Cia, finanziati dall’Arabia Saudita, sostenuti dalla Turchia e altri.

L’operazione in Libia «a guida italiana» - che, avverte il Pentagono, richiede «boots on the ground», ossia forze terrestri - è stata concordata dagli Stati uniti non con l’Unione europea, inesistente su questo piano come soggetto unitario, ma singolarmente con le potenze europee dominanti, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania. Potenze che, in concorrenza tra loro e con gli Usa, si uniscono quando entrano in gioco gli interessi fondamentali.

Emblematico quanto emerso dalle mail di Hillary Clinton, nel 2011 segretaria di Stato: Usa e Francia attaccarono la Libia anzitutto per bloccare «il piano di Gheddafi di usare le enormi riserve libiche di oro e argento per creare una moneta africana in alternativa al franco Cfa», valuta imposta dalla Francia a sue 14 ex colonie. Il piano libico (dimostravamo sul manifesto nell’aprile 2011) mirava oltre, a liberare l’Africa dal dominio del Fmi e della Banca mondiale. Perciò fu demolita la Libia, dove le stesse potenze si preparano ora a sbarcare per riportare «la pace».

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