Il manifesto, 30 luglio 2016 (p.d.)
Il 10 e l’11 giugno di due anni fa i media di tutto il mondo mostrarono immagini di una dolorosa drammaticità: centinaia di migliaia di persone sotto il sole cocente scappavano da Mosul, seconda città irachena, occupata in 24 ore dallo Stato Islamico.
Mentre le prime bandiere nere preannunciavano anni di barbarie, si fuggiva come si poteva: file interminabili di auto dirette nel Kurdistan iracheno; famiglie a piedi con addosso solo i vestiti e qualche borsa con gli effetti personali più cari; anziani e bambini sulla schiena di un asino. Alla fine se ne contarono mezzo milione, mezzo milione di sfollati interni nell’arco di due giorni.
Ne seguirono tanti altri, oggi Mosul non è più la ricca città che era nel 2014. Ha perso il suo mercato e la sua industria e buona parte delle sue confessioni: di cristiani non ce n’è quasi più l’ombra. Ora a due anni di distanza torna a risuonare lo stesso inquietante allarme: un milione di iracheni lascerà Mosul con l’intensificarsi dello scontro tra esercito governativo e islamisti.
I dati li dà la Croce Rossa, in vista dell’annunciata battaglia finale. «Fino ad un milione di persone potrebbero essere costrette a lasciare le proprie case nelle prossime settimane», si legge nel comunicato. E la situazione è già al collasso: sono oltre 3 milioni gli sfollati interni, altri 10 quelli che nelle zone d’origine necessitano di assistenza.
A leggere un simile numero la prima domanda che viene da porsi è dove tutte queste persone dovrebbero andare. Dove dovrebbero cercare rifugio? Le porte sono sbarrate. Baghdad da mesi non fa più entrare sunniti di Anbar e Ninawa per il timore che tra loro si nascondano islamisti, ma anche per evitare uno stravolgimento della settaria bilancia demografica.
Il Kurdistan iracheno ha scelto la stessa comoda via: dallo scorso anno, dopo aver accolto oltre due milioni di persone tra sfollati iracheni e profughi siriani, passare i confini controllati dai peshmerga è diventata un’impresa. Alla base sta l’iqama, ci spiegavano a novembre sfollati da Qaraqosh e Sinjar nei campi profughi della capitale kurda: «L’iqama è un permesso di residenza rilasciato dalle autorità di Erbil – diceva al manifesto Mohamed, palestinese di origine, rifugiato per la seconda volta – sulla base della garanzia presentata da uno sponsor kurdo. Solo con l’iqama puoi lavorare, muoverti liberamente, accedere ai servizi. In genere la ottengono altri kurdi e i cristiani, grazie alla chiesa locale. Per un sunnita come me è quasi impossibile».
Mohamed era riuscito a infilarsi dentro prima della politica delle porte aperte a metà: ora le sole chiavi che le fanno scattare sono etniche e confessionali. A dimostrazione che l’Isis ha annaffiato il terreno giusto per spezzettare l’Iraq. Mosul ne è lo specchio: mentre le organizzazioni umanitarie si preparano all’ennesimo flusso di disperati, nelle stanze dei bottoni di Baghdad e Erbil si organizza la controffensiva.
Nessuno vuole mancare l’appuntamento con una città che definirà l’Iraq che sarà. Il governo centrale opera su due fronti: l’inclusione delle milizie sciite e l’esclusione dei peshmerga. Nei giorni scorsi il premier al-Abadi ha ordinato l’ingresso delle milizie sciite (accusate di abusi contro le comunità sunnite liberate) nell’esercito regolare, sotto la propria diretta autorità. Un modo per tenerle a bada – e controllare meglio anche le influenze iraniane – e allo stesso tempo gestire in modo più efficace la battaglia finale. Resta da vedere quanto certe milizie, come le potenti Badr, stiano a sentire gli ordini del premier.
Sul versante kurdo, il governo centrale ha cancellato all’ultimo minuto un meeting previsto per il 22 luglio con rappresentanti di Erbil per discutere la controffensiva. Una marginalizzazione che, si dice a Baghdad, è figlia dell’incontro che il presidente kurdo Barzani ha avuto con gli Stati Uniti il 12, nel quale ha strappato 415 milioni di dollari in aiuti militari a Washington in vista proprio di Mosul. Giravolte di alleanze e antagonismi: al ministro degli Esteri iracheno Obeidi («Non faremo avvicinare i peshmerga a Mosul») risponde Erbil con un secco «Non lasceremo le aree liberate a Ninawa».
Dinamiche simili si registrano nella vicina Siria, dove a prevalere non è l’unità interna contro il nemico Isis ma le avverse ambizioni politiche. Così, ieri, mentre lo Stato Islamico giustiziava 24 persone nel villaggio settentrionale di Buyir, strappato ai kurdi di Rojava, nella provincia di Idlib raid aerei (forse russi o governativi) colpivano l’ennesimo ospedale: la denuncia arriva da Save the Children, organizzazione responsabile della clinica di maternità bombardata nel villaggio di Kafer Takhareem.
Un bilancio chiaro ancora non c’è, di certo sarebbero due i morti e tre i feriti. La clinica era l’unica di questo tipo nell’arco di 100 chilometri e garantiva assistenza a 1.300 persone al mese, tra donne e neonati.
Una settimana fa erano state cinque le cliniche danneggiate da un bombardamento di Damasco: una era stata colpita direttamente, le altre avevano subito danni da raid nelle zone vicine. Tra le vittime un neonato. Si muore anche di coalizione: giovedì notte raid Usa hanno ucciso, secondo fonti locali, 28 civili nella cittadina di al-Ghandour, vicino Manbij.
Riferimenti
Interessanti informazioni sul modo in cui i promotori delle guerre d'oggi, a partire da quelle in atto in Palestina, considerino le morti dei civili non un "effetto collaterale" ma l'obiettivo dell'azione bellica sono offwrte dall'associazione Forensic Architecture. Vedi anche, in eddyburg, l'articolo dell'architetto israeliano Eyal Weizman, Se l'architettura ritorna sulla scena del crimine
Paolo Rodari intervista Jean-Louis Tauran, arciverscovo francese, ministro di papa Bergoglio per i rapporti con le altre religioni. «Serve soprattutto un'educazione che aiuti a comprendere che chi è differente da noi non è un nemico». La Repubblica, 27 luglio 2016
«Ieri è stato fatto un passo in più dentro l’abisso. Perché attaccare un luogo di culto e un suo ministro che sta celebrando messa, che altro non è che un ministro di pace, è una vigliaccheria che fa sprofondare nel nulla».
Jean-Louis Tauran, cardinale francese, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e uomo di fiducia di Francesco nei rapporti con l’Islam, è sgomento per l’escalation di violenza che sta colpendo l’Europa e la sua Francia, ma insieme è deciso nel condannare una follia «che porta alla distruzione».
Eminenza, come definirebbe coloro che ieri hanno attaccato la chiesa di Saint-Etienne- du-Rouvray?
«In generale coloro che commettono attentanti si autodefiniscono soldati, ma mi domando: che tipo di soldati sono? Non c’è risposta. Contro di loro occorre soltanto che noi credenti, tutti i credenti, torniamo a comportarci secondo quanto le religioni davvero insegnano. E la base di ogni insegnamento non è altro che l’amore, la convivenza fra diversi, la fratellanza».
Si può dire che l’Is fa parte dell’Islam?
«L’Islam insegna altro, ma qui non credo c’entri la religione. Non è giusto davanti a questi attentati parlare di religione. Si tratta di persone traviate che poco hanno a che fare con l’Islam stesso e con qualsiasi religione. Siamo davanti al nulla e portare tutto sul piano religioso non ha alcun senso».
Qual è la risposta adeguata a tutto ciò secondo lei?
«La risposta è sempre e comunque il dialogo, l’incontro. Per interrompere la catena infinita della ritorsione e della vendetta l’unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato. In sostanza, a mio avviso, dialogare significa andare all’incontro con l’altro disarmati, con una concezione non aggressiva della propria verità, e tuttavia non disorientati che è l’atteggiamento di chi pensa che la pace si costruisce azzerando ogni verità».
Non c’è altra strada?
«Assolutamente no. Siamocondannati al dialogo».
Il dialogo può portare anche al martirio?
«Purtroppo sì. La Chiesa ha sempre subìto il martirio. È una possibilità reale, seppure resti una possibilità ben triste».
Non ritiene che l’Islam debba prendere le distanze da questi attentati?
«Credo che lo farà. Occorre aspettare perché sarà interessante vedere cosa sarà detto. Comunque, tornando a quanto dicevamo prima, credo che oltre al dialogo vi sia anche un’altra strada».
Quale?
«Lo ripeto sempre e non mi stancherò mai di farlo: l’educazione. Occorre un’educazione che parta dalla giovane età. È il primo e inevitabile strumento per contrastare qualsiasi tipo di estremismo e di follia omicida. Se alle origini dell’esistenza, nella giovane età, educhiamo all’amore tutto sarà diverso. È un lavoro lungo e dispendioso, ovviamente, eppure assolutamente necessario».
L’educazione deve portare a convivere con chi la pensa diversamente da noi?
«Certamente. L’educazione serve a comprendere che chi è differente da noi non è un nemico. E questa consapevolezza deve valere per tutti. Il rischio di non comprendere questa semplice verità, infatti, appartiene a tutti».
Fra Benedetto XVI e Francesco nota divergenze sul modo di rapportarsi con l’Islam?
«Sono uguali nel loro intendere i rapporti interreligiosi. Vedo assoluta convergenza fra i due. Ed è doveroso ricordarlo proprio oggi».
«La paura generata da questa situazione di insicurezza si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. Occorre sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura».
Corriere della Sera, 26 luglio 2016 (c.m.c.)
Quella a cui stiamo assistendo - in modo così prossimo e sconvolgente, nelle ultime settimane - è un’epoca segnata «dalla paura e dall’incertezza. E non bisogna illudersi: i demoni che ci perseguitano non evaporeranno». Anche perché - spiega il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei grandi pensatori della sfuggente modernità in cui viviamo - la loro origine ha a che fare con gli stessi elementi costitutivi della nostra società e delle nostre vite.
Professor Bauman, di fronte alla catena di attacchi di questi giorni, l’Europa si trova a fare i conti con un abisso di paura e di insicurezza. Quali risposte possono colmarlo?
«Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale.
«La paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. E quella paura cerca un obiettivo su cui concentrarsi. Un obiettivo concreto, visibile e a portata di mano».
Un obiettivo che molti individuano nel flusso di profughi e migranti. «Molti di loro provengono da una situazione in cui erano fieri della propria posizione nella società, del loro lavoro, della loro educazione. Eppure ora sono rifugiati, hanno perso tutto. Al momento del loro arrivo entrano in contatto con la parte più precaria delle nostre società, che vede in loro la realizzazione dei loro incubi più profondi».
Di fronte a questa sfida, si moltiplicano i richiami da parte di alcune forze politiche alla costruzione di nuovi muri. Si tratta di una risposta sensata?
«Credo che si debba studiare, memorizzare e applicare l’analisi che papa Francesco, nel suo discorso di ringraziamento per il premio Charlemagne, ha dedicato ai pericoli mortali della “comparsa di nuovi muri in Europa”. Muri innalzati - in modo paradossale, e in malafede - con l’intenzione e la speranza di mettersi al riparo dal trambusto di un mondo pieno di rischi, trappole e minacce.
«Il Pontefice nota, con preoccupazione profonda, che se i padri fondatori dell’Europa, “messaggeri di pace e profeti del futuro”, ci hanno ispirato nel “creare ponti, e abbattere muri”, la famiglia di nazioni che hanno promosso sembra ultimamente “sempre meno a proprio agio nella casa comune. Il desiderio nuovo, ed esaltante, di creare unità sembra svanire; noi, eredi di quel sogno, siamo tentati di soffermarci solo sui nostri interessi egoistici, e di creare barriere”».
Nei suoi studi, lei ha indicato come valori fondativi delle nostre società la libertà e la sicurezza: dopo un’epoca in cui, per far crescere la prima, abbiamo progressivamente rinunciato alla seconda, ora il pendolo sta invertendo il suo corso. Quali riflessi politici ne derivano?
«Di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di “uomini forti”, che promettono — in modo irresponsabile, ingannevole, roboante — di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. “Lasciate fare a me, fidatevi di me”, dicono, “e io risolverò le cose”. In cambio, chiedono un’obbedienza incondizionata».
Sembra quello che sta proponendo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, le cui posizioni su sicurezza e immigrazione sono state di recente indicate dal presidente ungherese Viktor Orban come modelli anche per l’Europa...
«Quella a cui stiamo assistendo è una tendenza preoccupante: istanze di tipo sociale, come appunto l’integrazione e l’accoglienza, vengono indicate come problemi da affidare a organi di polizia e sicurezza. Significa che lo stato di salute dello spirito fondativo dell’Unione Europea non è in buona salute, perché la caratteristica decisiva dell’ispirazione alla base dell’Ue era la visione di un’Europa in cui le misure militari e di sicurezza sarebbero divenute — gradualmente, ma costantemente — superflue».
L’Islam è indicato da alcune forze politiche — ad esempio, la tedesca Pegida — come una fede intrinsecamente violenta, incompatibile con i valori occidentali. Che ne pensa?
«Bisogna assolutamente evitare l’errore, pericoloso, di trarre conclusioni di lungo periodo dalle fissazioni di alcuni. Certo: come ha detto il grandissimo sociologo tedesco Ulrich Beck, al fondo della nostra attuale confusione sta il fatto che stiamo già vivendo una situazione “cosmopolita” — che ci vedrà destinati a coabitare in modo permanente con culture, modi di vita e fedi diverse — senza avere compiutamente sviluppato le capacità di capirne le logiche e i requisiti: senza avere, cioè, una “consapevolezza cosmopolita”. Ed è vero che colmare la distanza tra la realtà in cui viviamo e la nostre capacità di comprenderla non è un obiettivo che si raggiunge rapidamente. Lo choc è solo all’inizio».
Siamo destinati quindi a vivere in società nelle quali il sentimento dominante sarà quello della paura?
«Si tratta di una prospettiva fosca e sconvolgente, ma attenzione: quello di società dominate dalla paura non è affatto un destino predeterminato, né inevitabile. Le promesse dei demagoghi fanno presa, ma hanno anche, per fortuna, vita breve. Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati, diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza.
«I demoni che ci perseguitano — la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto — non evaporeranno, né scompariranno. A quel punto potremmo risvegliarci, e sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arringatori e arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura, portandoci fuori strada. Il timore è che, prima che questi anticorpi vengano sviluppati, saranno in molti a vedere sprecate le proprie vite».
Lei ha sostenuto che le possibilità di ospitalità non sono senza limiti, ma nemmeno la capacità umana di sopportare sofferenza e rifiuto lo è. Dialogo, integrazione ed empatia richiedono però tempi lunghi...
«Le rispondo citando ancora una volta papa Francesco: “sogno un’Europa in cui essere un migrante non sia un crimine, che promuove e protegge i diritti di tutti senza dimenticare i doveri nei confronti di tutti. Che cosa ti è accaduto, Europa, luogo principe di diritti umani, democrazia, libertà, terra madre di uomini e donne che hanno messo a rischio, e perso, la propria vita per la dignità dei propri fratelli?”.
Queste domande sono rivolte a tutti noi; a noi che, in quanto esseri umani, siamo plasmati dalla storia che contribuiamo a plasmare, consapevolmente o no. Sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle».
«Siamo un paese di immigrazione e la Cdu per troppo tempo lo ha negato. L’ideologia del Califfato offre un’illusione consolatoria a chi si sente spaesato»
La Repubblica, 26 luglio 2016 (c.m.c.)
La Germania è sotto shock. Negli ultimi anni non avevamo mai sperimentato una serie di attentati di una tale violenza. Eravamo nel mirino dello Stato islamico come gli altri Paesi occidentali, ma in confronto a Francia e Belgio eravamo stati risparmiati, grazie a una partecipazione molto cauta alla guerra contro l’Is.
Ora questo “privilegio” è storia passata. Tutti i tedeschi hanno ormai la percezione che ogni giorno qualcuno potrebbe uccidere anche qui. Dopo l’attentato di venerdì scorso a Monaco di Baviera pure opera di uno squilibrato - la polizia ha ricevuto oltre 4mila segnalazioni e ha dovuto rispondere a ognuna di esse. La città, dalla stazione centrale ai mezzi pubblici, era paralizzata. I cittadini erano in preda al panico. Erano tutti convinti che ci fosse un attentatore vicino a loro. Tutto ciò rende la misura di quanto sia facile per il terrorismo immobilizzare una città grande come Monaco.
Ora si cerca di capire cosa sia successo, di scavare nei dettagli. Gli attentati di Wuerzburg, Monaco, Reutlingen e ora Ansbach sono tutti abbastanza diversi, è vero, ma ci si deve chiedere che senso abbia distinguere tra un attentato ispirato dallo Stato islamico e un altro causato da una individuale condizione patologica.
Ovviamente lo Stato islamico è pronto ad appropriarsi del gesto di qualsiasi folle killer. Solo un’ideologia violenta e tremenda come quella che oggi offre lo Stato islamico può portare un giovane piccolo criminale, come erano alcuni dei recenti attentatori, a diventare killer di massa. Non importa che siano donne, vecchi o bambini. Infatti, quest’ideologia islamofascista ha creato un modello, quasi uno standard, che ispira gli attentatori di provenienza musulmana.
L’ideologia dello Stato islamico offre l’illusione di partecipare a un gran momento storico, alla ricostruzione del Califfato che punisce gli infedeli. Ciò non vuol dire che gli attentatori siano militanti attivi dell’Is, ma che l’Is alimenta un clima di violenza dove gli atti di esecuzione di massa diventano normali.
Anche i media hanno un ruolo importante nel causare quest’effetto valanga di attentati a catena. Una volta chiesi a un attentatore del “movimento berlinese del 2 giugno” (il gruppo terrorista anarchico nato negli Anni Sessanta in memoria dello studente Benno Ohnesorg, ucciso da un agente di polizia durante le proteste a Berlino Ovest contro l’arrivo dello Scià di Persia), quale sarebbe stato lo strumento più efficace contro il terrorismo. Mi rispose senza un momento di esitazione: vietare di scriverne sui giornali.
Certo, in un Paese democratico, non possiamo seguire questa raccomandazione, ma in un certo senso aveva ragione. Perché tutti questi folli responsabili di attentati hanno una cosa in comune: vogliono diventare famosi, vogliono avere una grande scena sul palcoscenico del mondo. Non possiamo ignorare – per “correttezza politica“ – che gli attentatori di Wuerzburg, Monaco, Reutlingen e Ansbach erano tutti migranti provenienti da Paesi musulmani.
Ed è un fatto che non può che cambiare inevitabilmente la percezione dei migranti musulmani. Il ventisettenne siriano che ieri sera si è fatto esplodere nel centro di Ansbach aveva presentato richiesta di asilo in Germania. Gli era stata respinta un anno fa. Le autorità gli avevano comunque consentito di rimanere in Germania a causa della guerra in Siria. In Germania vi sono 140mila casi simili, cioé, richiedenti asilo la cui domanda è stata rifiutata.
E ora molti si chiederanno perché vivono ancora qui, perché il governo non li ha ancora espulsi. E il partito di estrema destra Afd (Alternativa per la Germania, in tedesco Alternative für Deutschland) cavalcherà questi eventi.
Bisogna però evitare che la risposta agli attentati sia un clima di diffidenza nei confronti dei migranti. I responsabili di uccisioni sono solo una minima percentuale dei rifugiati arrivati con la recente ondata d’immigrazione. Un parte degli attentatori erano persone cresciute qui, ma che non hanno trovato lavoro o non sono riuscite a integrarsi. Il loro retroterra musulmano culturale è in conflitto con la cultura occidentale da decenni. E in un momento di crisi esistenziale si chiedono: ma a chi appartengo, a questo mondo occidentale corrotto o alla grande comunità dell’Islam, da cui provengo? È allora che trovano rifugio nell’ideologia del Califfato.
L’unico modo di rispondere al terrorismo è l’integrazione. La Germania è un Paese di migranti, ma la Cdu, il partito della democrazia cristiana, lo ha negato per troppo tempo. L’ex cancelliere Helmut Kohl nel 2002 disse distintamente: «Non siamo un Paese di immigrati ». Non è vero, lo siamo da quarant’anni, ma il governo ha attuato politiche in materia in ritardo. Le scuole, ad esempio, hanno iniziato a offrire corsi di lingua tedesca a immigrati solo da un paio d’anni. Troppo tardi. Una cosa è certa. Se non promuoveremo l’integrazione di questi giovani uomini senza orientamento, avremo molti più attentati.
Nella storia della Turchia negli anni di Erdoĝan la spiegazione del carattere di un regime che non è stato mai democratico, che ha sempre dominato al di sopra della legge e adopera i finti colpi di stato per rafforzarsi, complici gli Usa e soci.
Puntorosso online, luglio 2016
Siamo in quelle abituali circostanze giornalistiche che vedono una grande attenzione a fatti che certamente la meritano, e che però sono pronte a spegnersi non appena i poteri politici fondamentali dell’Occidente, in particolare quello statunitense, abbiano definito il loro atteggiamento politico, che può tranquillamente essere una censura di fatto con qualche grumo di manipolazione accompagnata dalla solita finzione del dibattito tra specialisti la maggior parte dei quali non sa un tubo. Si parlò a suo tempo del colpo di stato del giugno 2015 del presidente turco Erdoĝan, ma rapidamente la notizia svanì, data la speranza statunitense di impegnarne il governo nella guerra a Daesh, organizzazione che, assieme ad al-Qaeda, Erdoĝan continuava a supportare con ogni mezzo. Si parlò più a lungo a suo tempo della lotta straordinaria dei curdi siriani di Kobanê, per poi trattarli ogni tanto e molto cautamente, dovendosi celare che l’artiglieria turca ogni giorno li bombardava. Siamo quindi in attesa della versione autentica statunitense e quindi occidentale dei fatti recenti in Turchia, dal tentativo fallito di un colpo militare alla micidiale reazione di Erdoĝan.
Per adesso abbiamo solo la versione di quest’ultimo: è tutta colpa di Gülen, è a lui che io, Erdoĝan, reagisco. Una versione, va da sé, da prendere con assoluto beneficio d’inventario.
Evito di richiamare quanto ci viene trasmesso dai media in questi giorni, tutti ne hanno seguito i resoconti, un colpo di stato fa notizia e soprattutto la fa la reazione di Erdoĝan. Cominciamo chiedendoci: c’entra o no Gülen nel colpo militare? E chi è Gülen?
Gülen è stato il fondamentale sostenitore e finanziatore, intanto, dell’ascesa politica di Erdoĝan e della sua prima vittoria elettorale (2002). Senza i quattrini di Gülen e senza le moschee, gli imam, le scuole coraniche, le imprese industriali e commerciali, le radio, le case editrici, le televisioni, le riviste, i quotidiani legati al miliardario Gülen, Erdoĝan non sarebbe nessuno. I quattrini di Gülen furono decisivi nel dare compattezza a una formazione recentissima, eterogenea e scombinata come l’AKP (il partito di Erdoĝan), e probabilmente a ungere qualche ruota sul versante di forze armate che mai avevano tollerato in passato una presenza significativa di forze islamiste nella politica turca (e che infatti nel 1997, essendo state vinte le elezioni, l’anno precedente, da una formazione islamista guidata da tale Erbakan, avevano intimato le dimissioni del suo governo e il rifacimento delle elezioni, pena un colpo di stato). Nel 1999 Gülen emigrerà negli Stati Uniti, per il timore di un colpo di stato anti-islamista delle forze armate, che però non avverrà, data l’estrema cautela operativa in quel periodo di Erdoĝan.
Sarà nel 2011 che questi realizzerà la sua prima mossa d’azzardo: riuscendo a imporre alla magistratura, organicamente kemalista estremista, che venissero processati quegli ex capi militari che avevano costituito una struttura militare occulta, Ergenekon, una sorta di Gladio turca. Poche saranno e miti le condanne: ma la botta alle forze armate andò a segno. Occorre sapere che esse erano, e a tutt’oggi sono, benché indebolite e attraversate da fratture e scontri, un partito kemalista estremista armato che definisce al suo interno la composizione dei comandi, gli avvicendamenti ai loro ruoli, la stessa spesa militare dello stato: e che il processo Ergenekon indebolì molto il prestigio, in precedenza altissimo, delle forze armate nella popolazione turca, e che consentì a Erdoĝan di imporre loro la consegna di responsabilità significative a figure militari di proprio gradimento). Erdoĝan più o meno in quegli anni riuscirà anche a mettere le mani sul MİT (l’intelligence turca), ponendo alla sua testa un proprio uomo. Inoltre a mettere le mani su buona parte delle forze di polizia, che in Turchia dispongono anche di mezzi di guerra, dagli elicotteri ai carri armati.
Perché allora la rottura tra Erdoĝan e Gülen, di cui si ha esplicitazione nel 2013? Gülen risultava sostanzialmente scomparso dalla realtà politica turca: perché allora prenderlo a bersaglio?. I motivi sembrano ormai chiari. Gülen è una figura di islamico moderato e liberale, è per il dialogo inter-religioso e inter-etnico, aborre il potere militare (di cui è stato direttamente vittima), il ritorno al califfato, in generale il ricorso alla violenza nella lotta politica e sociale; esprime quindi una posizione che è il contrario esatto di ciò che Erdoĝan ha teso a essere a partire dal giugno del 2015 (poi vediamo). Gli strumenti di cui Gülen è proprietario o che finanzia costituiscono un formidabile apparato prima di tutto culturale che è di fatto di ostacolo a Erdoĝan: figura formata dai Fratelli Mussulmani e orientata alla ricostituzione del califfato e addirittura all’espansione territoriale della Turchia sul versante siriano e soprattutto nella parte settentrionale dell’Iraq. Si consideri che sembrano essere 20 milioni i turchi influenzati dagli strumenti di Gülen e dai loro operatori, molte migliaia di persone. Occorre infine tener conto di come Erdoĝan sia palesemente un megalomane, cioè una personalità orientata alla centralizzazione assoluta sulla sua persona (e sulla sua famiglia) di ogni potere, e sia palesemente un paranoico, cioè una personalità orientata alla distruzione fisica di ogni ostacolo, reale o immaginario.
Gülen c’entra con il colpo militare fallito? Ci credo poco. Gülen non ha mai avuto niente a che fare con il potere militare o con settori militari, li ha sempre considerati ostili ed è sempre stato omogeneamente ricambiato. Egli è negli Stati Uniti dal 1999, figuriamoci se non ci sono da allora una quantità di agenzie di intelligence statunitensi (solo statunitensi?) a sorvegliarlo minuto per minuto e con tutti i mezzi. Né è mai stata convenienza (checché si dica) della presidenza Obama di lasciar fare a Gülen contro Erdoĝan, data l’estrema complicatezza della situazione medio-orientale. Ma poi, soprattutto, non riesco a vedere una frazione, per quanto minoritaria, come si è visto, ma non insignificante delle forze armate che prende ordini da Gülen. Può darsi che si sia trattato di una frazione preoccupata per la distruzione in corso da parte di Erdoĝan di quel pochissimo che residuava in Turchia di democrazia, di libertà di stampa, di autonomia della magistratura. Può darsi. Ma le forze armate turche sono state storicamente kemaliste, cioè violentemente laiche e violentemente nazionaliste: e trovo davvero strano che all’improvviso salti fuori una frazione culturalmente islamista e al tempo stesso ostile all’islamico diventato anche nazionalista Erdoĝan. In ogni caso, prima o poi si vedrà.
Quel che invece mi sembra abbastanza realistico è che Erdoĝan fosse al corrente, in termini non necessariamente precisissimi ma neanche debolissimi, della preparazione di un colpo di stato da parte di una frazione militare. Gli strumenti per venirne a conoscenza li aveva: il MİT, qualche pezzo di forze armate, parte della polizia. Non credo che sia stato casuale che Erdoĝan sia salito all’improvviso a Marmaris (bellissima località turistica sull’Egeo) su un aereo, né che siano state casuali la prontezza della reazione della polizia e la mobilitazione della militanza fanatica dell’AKP.
Mi pare infine che Erdoĝan disponesse da tempo di ampie liste di proscrizione da attivare appena avesse ritenuto possibile fare il risultato di un globale repulisti. Ma anche a questo proposito prima o poi si vedrà.
Il repulisti non tocca, come si vede abbastanza bene, solo i seguaci veri o inventati di Gülen. Palesemente (qui si può andare un po’ più sul sicuro) il repulisti sta investendo settori decisivi del potere kemalista, cioè alleati storicamente decisivi delle forze armate (o, meglio, della loro parte a tuttora prevalente). Si tratta soprattutto della magistratura, inoltre di una parte della polizia. Il repulisti inoltre sta investendo sia i settori kemalisti che quelli democratici dell’intellighenzia, dalle università al giornalismo ai quadri dei servizi e del pubblico impiego. Ciò significa che è sotto tiro una parte consistente della popolazione urbana, in particolare di quella di Istanbul e di Ankara, e dell’intellighenzia sociale; e, di fatto, che è sotto tiro anche il pavidissimo principale partito di opposizione, cioè il partito kemalista storico CHP.
Inoltre è apertamente sotto tiro il partito curdo e di sinistra HDP, ai cui deputati già da qualche settimana prima del colpo di stato fallito era stata tolta l’immunità parlamentare, e che da allora corrono il più che probabile rischio di essere processati e di essere condannati a lunghissime pene detentive, assieme a migliaia di attivisti. Migliaia e migliaia di figure di militari, intellettuali, insegnanti, docenti, quadri, funzionari di polizia, imprenditori rischiano la stessa cosa. Nei mesi scorsi Erdoĝan aveva inoltre approntato anche la strumentazione giuridica necessaria a colpire pesantemente e nel mucchio: molte migliaia di quadri e di sindaci curdi e inoltre centinaia di giornalisti democratici sono già da più o meno tempo in carcere in attesa di essere processati per “terrorismo”, avendo auspicato la ripresa delle trattative di pace tra stato turco e PKK, e per “offesa all’identità turca” o per “vilipendio” alle autorità dello stato o alle forze armate, avendo criticato questo o quell’aspetto della politica di Erdoĝan. Reati quindi da decenni di galera. Tra poco, magari, suscettibili della pena capitale. Siamo perciò giunti al terzo colpo di stato: quindi il secondo, in poco più di un anno, di Erdoĝan. Il quarto saranno nuove elezioni e un referendum, in condizioni di totale assenza di condizioni democratiche, anzi in condizioni di terrore e di estrema repressione, anche militare, ai danni di ogni forma di dissenso, che incoroneranno Erdoĝan, finalmente, presidente, pardon, califfo della Turchia?
Giova notare, infine, come i quadri delle forze armate che non hanno preso parte al colpo di stato fallito (cioè la stragrande maggioranza dei quadri militari) non risulti sfiorata dalla repressione scatenata da Erdoĝan. Sorgono alcune domande. Intanto, perché non hanno preso parte al colpo di stato? Per debolezza? Per la non condivisione degli obiettivi dei protagonisti del colpo di stato? Semplicemente, per via delle beghe che separano gruppi militari a prescindere anche dall’affinità delle posizioni? Ciò che in ogni caso sembrerebbe chiaro è che in Turchia permane la situazione, esistente sin dal momento della prima vittoria elettorale di Erdoĝan, di una sorta di dualismo di potere: appunto quello di governo e quello militare. Potrebbe esserci stata un’intesa tra i due poteri nel senso di far fuori i quadri militari che avrebbero scatenato il tentativo di colpo di stato? Forse. In ogni caso quel che è certo è che i due poteri si odiano, che nessuno dei due accetta l’esistenza dell’altro, tanto più in quanto armato. Ovviamente questo è il momento in cui Erdogan tenderà a rafforzarsi il più possibile, e con tutti i mezzi a disposizione.
Qualche considerazione veloce sulle reazioni della nostra assurda casa occidentale. Continuano a sbalordirmi, anche se non capisco perché, l’insipienza, le illusioni e le corbellerie micidiali, nelle quali perdono la vita ogni giorno in Medio Oriente centinaia quando non migliaia di persone, sia dal lato dei governi che dei grandi apparati mediatici. I governi, oltre a deplorare il tentativo militare di colpo di stato perché “antidemocratico”, raccomandano a Erdoĝan “moderazione”, rispetto dello “stato di diritto” e delle tutele di arrestati e imputati, rispetto dei trattati che, nel quadro del Consiglio d’Europa, di cui la Turchia fa parte, impediscono il ricorso alla pena capitale, e via corbellando. Scusate, a parte qualche pallida e breve parentesi, quando mai in Turchia sono esistiti la democrazia e lo “stato di diritto”? Erdoĝan non fece nel giugno del 2015 il risultato elettorale che gli serviva a fare della Turchia uno stato presidenziale: ruppe le trattative con il PKK, assunse poteri che non gli competevano (cominciò a operare come se la Turchia fosse una repubblica persidenziale: operò quindi un colpo di stato), mobilitò le forze armate (a larga maggioranza felicissime di ciò) contro la popolazione curda, recuperando così consenso nella parte più deprivata e fascista della popolazione turca, usò Daesh in due terribili attentati, a Suruç, città curdo-turca prossima a Kobanê, luglio 2015, e ad Ankara, nel corso della campagna elettorale del novembre successivo (quest’attentato impedì all’HDP di proseguire la propria campagna elettorale). Scusate, si è trattato davvero di un’elezione democratica? Da allora a oggi (a proposito di “moderazione”, uso “non eccessivo della forza”, ecc.) sono stati rasi al suolo nel Curdistan turco il centro storico di Diyarbakır e 14 città, il complesso delle città curde è stato assediato e colpito da coprifuoco 24 ore su 24 (anzi alcune città sono tuttora sotto assedio), migliaia di persone sono state assassinate dai cecchini, dal fuoco e dalle cannonate di elicotteri, carri armati, artiglieria, senza che dai governi occidentali venissero che belati e, soprattutto, occhi girati dall’altra parte. 300 mila curdi turchi hanno perso la casa e tutte le loro cose, e sono in fuga o collocati in tendopoli circondate da soldati e agenti di polizia.
La preoccupazione vera dei governi occidentali non riguarda la condizione delle popolazioni curde o delle 50 mila e oltre persone (una cifra destinata ad aumentare) colpite dalla repressione in corso. La preoccupazione è che Erdoĝan, nella sua follia, diventi totalmente ingestibile, flirti troppo con la Russia, entri con truppe in Siria, inoltre non sia più possibile coprirlo agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali. Come si farà a evitare che la povera gente in fuga dalla tragedia del Medio Oriente non venga più ospitata da Erdoĝan nelle tendopoli della Turchia, in balia di poliziotti assassini e di reclutatori di ragazzine da prostituire, e ce la si ritrovi in Europa, a far aumentare i voti di fascisti e semifascisti, a far perdere le elezioni a Hollande, Merkel, ecc.?
«Il rischio più pernicioso che corriamo è l’adesione inconsapevole a un pensiero di massa che legge la realtà in modo altrettanto folle e irresponsabile di quello degli attentatori». Il manifesto
, 24 luglio 2016 (c.m.c.)
Le notizie su attacchi omicidi-suicidi rimbalzano da una parte del pianeta all’altra. L’assuefazione collabora silenziosamente dentro di noi con una rassegnazione angosciosa, creando uno stato psichico stuporoso, terreno fertile per le interpretazioni schematiche e sbrigative.
Il rischio più pernicioso che corriamo è l’adesione inconsapevole (la più acritica e forte) a un pensiero di massa che legge la realtà in modo altrettanto folle e irresponsabile di quello degli attentatori.
Si fa presto a dire che l’imperversante violenza nichilista favorisca le «emozioni di pancia». Le emozioni sono vere, autentiche, quanto più sono viscerali. Hanno la loro radice nel corpo, nel punto in cui il vissuto corporeo diventa vissuto psichico, affettivo. Assumono leggibilità e configurazione comunicabile mescolandosi con il pensiero.
Legate al pensiero onirico (dove i confini tra noi e l’altro sono più aperti), assumono una forma più elaborata e precisa (che le rende più complesse e significative) se hanno il tempo necessario per essere sedimentate e connesse a un pensiero condiviso. Se tutto va per il verso giusto le nostre emozioni diventano il luogo in cui la nostra particolarità incontra la fraternità universale.
Fino a che punto siamo consapevoli della necessità politica di riappropriarsi come cittadini del nostro spazio onirico (l’immaginazione che incontra l’inconsueto) e del nostro tempo (quello necessario per la sedimentazione, la sperimentazione dei nostri vissuti e per il godimento che rispetta il suo oggetto)?
Il vivere in una dimensione di perenne urgenza (che trasforma l’inefficienza dell’amministrazione degli interessi collettivi in un efficace macchina di potere) porta la gestione delle nostre emozioni verso due direzioni ugualmente disastrose. Nella prima direzione le emozioni si dissociano dal pensiero, diventando un ammasso indistinto, un accumulo di tensione che può essere solo scaricato.
Nella direzione opposta il pensiero si dissocia dalle emozioni e, perdendo il suo fondamento nei sensi, nel sogno-immaginazione e nel gesto, misura la realtà con schemi astratti in cui il disimpegno sposa l’arbitrio e diventa dogma costrittivo.
Ci devasta il fenomeno impressionante della moltiplicazione incontrollabile di distruttori folli. Tuttavia sono solo schegge impazzite di un processo di identificazione di massa (che la comunicazione digitale accelera fortemente) con un processo di liberazione dalle nostre impasse emotive che trova il suo strumento più efficace in un agire violento (psichico o fisico).
La violenza scarica bruscamente le emozioni e al tempo stesso si sbarazza della sensibilità che le genera. Nulla è più contagioso di questa evacuazione dell’imbarazzo a vivere, in cui si sta riducendo la nostra esistenza, che trova nel pensiero automatico il suo più grande alleato.
Tra coloro che uccidono, pedine impersonali della forma più insensata della forza distruttiva, e coloro che reagiscono invocando il rigetto altrettanto violento dello «xenos», si è stabilita una completa simmetria.
«». Corriere della Sera, 23 luglio 2016 (c.m.c.)
Donald Trump l’ha dichiarato da tempo: «L’Islam ci odia». Dietro le gravi violenze ci sarebbe l’Islam. Hollande, dopo la strage di Nizza, ha intensificato i bombardamenti sul territorio siro-iracheno di Daesh. Il messaggio è chiaro: il terrorismo è parte della guerra del «califfato» contro di noi.
Le sue rivendicazioni e la sua propaganda lo confermerebbero. Alla fine, dietro a tutto questo, si staglierebbe il mondo islamico con ambiguità e contraddizioni. Si ritorna così a un modello interpretativo di successo — un archetipo —: lo scontro tra Occidente e Islam. Ha avuto tanti sostenitori tra intellettuali e politici occidentali; fu all’origine della guerra all’Iraq nel 2003 e del crollo del sistema mediorientale.
Non dispiaceva a Osama bin Laden e ad al Qaeda, perché — nell’opposizione — riconosceva loro la leadership contro l’Occidente. Non spiace nemmeno oggi al «califfato». Si crea così un’atmosfera bellicosa che favorisce il proselitismo islamico. Per gli occidentali si disegna invece uno scenario chiaro (in qualche modo rassicurante). Sappiamo da dove vengono le minacce, perché abbiamo un nemico: l’Islam, rappresentato complessivamente come ostile o ambiguo, da combattere o da obbligare a una chiarificazione. Solo così si fermano le sue quinte colonne tra di noi, figlie di un sistema politico-religioso globale.
Un simile modello interpretativo fa il gioco dell’avversario e gli offre la grande legittimazione di nemico dell’Occidente, quasi avesse una sola testa. Da noi, favorisce i populismi, per cui solo una politica pugnace di muri e scontri ci difende. Motiva uno sguardo sospettoso e diffidente verso la quasi generalità dei musulmani.
Il modello è una semplificazione. Il sociologo francese, Raphaël Liogier, ha recentemente dichiarato a Le Monde : «Bisogna rifiutare di partecipare allo scenario del “noi” contro “loro” desiderato da Daesh, e fornire una narrazione forte e positiva». Eppure parlare di “noi” e “loro” appare tristemente rassicurante nello stabilire frontiere.
La realtà è diversa. Ci sono due problematiche distinte, anche se connesse. C’è il totalitarismo di Daesh con insediamenti territoriali, ramificazioni e la sua propaganda, che si sviluppa in un mondo islamico carico di contraddizioni e divisioni (e con tanti morti musulmani per il terrorismo). D’altra parte, si profilano in Europa i radicali, i folli, gli antisistema, pronti a fare tanto male, che vivono tra di noi. Colpendo Daesh si fa una guerra in Medio Oriente. Non c’è però guerra tra Islam e Occidente, bensì terrorismo folle nei nostri Paesi. È qualcosa di diverso, che richiede strumenti adeguati per isolare i folli e difendersi.
Si deve tener conto della fragilità delle nostre società, con aree periferiche fuori controllo, sconnesse dalla vita sociale e comunitaria. Oltre al lavoro d’intelligence e polizia, ci sono vasti spazi sociali da «riconquistare» a un senso condiviso di destino nazionale e da strappare a derive nichilistiche. Si pensi alla banlieu francese, a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove nascono i terroristi, o a tante periferie «umane» a rischio anche in Italia. Va tenuto conto — il Corriere l’ha mostrato — che il nichilismo di gente antisistema si radicalizza attraverso internet e i social, costituendo ghetti mentali pericolosi. Sostenendo questo, non si sposta la sfida dal politico al sociale, ma si indica il terreno dove si addensano i pericoli.
Il rapporto di Europol sul terrorismo per il 2015 afferma che non c’è prova che i rifugiati siano un veicolo di terroristi: una tematica sbandierata dai populisti. Registra invece l’esistenza di circa 5.000 foreign fighter europei. Soprattutto osserva come il 35% dei «lupi solitari» (tra il 2010 e il 2015) abbia sofferto di disturbi mentali. Si spiegano anche così le rapide o solitarie conversioni alla violenza, ma anche le azioni folli di esibizione del terrore senza logica politica.
Il problema è nelle nostre società, specie tra i giovani e chi ha un’ascendenza musulmana, dove l’islamismo agisce come spiegazione onnicomprensiva e ideologia dell’odio. È inutile vedere tutto provocato da oltremare. Il nichilismo serpeggia tra di noi. Lo si nota tra gli ultrà o negli attentati alle chiese a Fermo. È un «ospite inquietante», scriveva Umberto Galimberti. C’è un mondo da bonificare. Le società europee sono depauperate di reti aggregative e comunitarie: i corpi intermedi tradizionali — partiti, movimenti sociali o altro — sono in crisi. Senza sentimenti, passioni condivise, valori, come creare coesione sociale? Qui il problema dell’integrazione e del controllo sociale.
In Italia è una grave lacuna che si rinvii la cittadinanza ai figli d’immigrati, lo ius culturae di cui si parla da tanto: cresce una generazione a metà, né italiani né stranieri, «diversi» dai giovani italiani. Per i «marginali» i legami sono spesso religiosi, specie con l’Islam. Non si tratta solo di formare imam con spirito italiano, come previsto dal ministero dell’Interno. C’è da integrare i musulmani con le altre comunità, favorendo convivialità e dialogo. Sono cadute esperienze, promosse in passato come, all’epoca del ministero dell’Integrazione, la conferenza dei leader delle varie religioni.
Si tratta di creare, in un tempo così emozionale, sentimenti di condivisione antagonisti all’odio tipico dei ghetti mentali e sociali. La politica sociale è decisiva contro la radicalizzazione. Ma è pure decisiva la passione sociale e politica, così fragile in società europee caratterizzate da legami allentati e da un generale ripiegamento individuale.
Individui soli e strutture non integrano: ci vogliono comunità di vita e di sentimenti accanto a sogni per il futuro. Quanto accade non chiede soltanto più muscoli, ma un salto d’intelligenza e di ethos sociale da parte di tutti.
«Questa nuova forma della violenza non si inserisce in nessuna strategia militare ci riguarda profondamente, ovvero riguarda il senso stesso della vita, è il nuovo abisso dentro il quale siamo costretti a guardare».
La Repubblica, 22 luglio 2016 con postilla
Gli ultimi atti terroristici ci obbligano a guardare in un nuovo abisso. Siamo franchi: la crudeltà dell’assassino del Tir o del ragazzo diciassettenne con l’ascia poco hanno a che fare con l’identificazione fanatica alla Causa che ispira l’adesione al radicalismo islamico.
L’abisso dentro il quale dobbiamo guardare è quello della violenza come manifestazione dell’odio puro verso la vita che indubbiamente il terrorismo islamico ha contribuito decisamente a diffondere. Si tratta di una violenza che non conosce più argini etici e che, di conseguenza, è al servizio della morte.
Sono soprattutto i giovani, i giovanissimi che si armano per colpire non i loro nemici ma altri esseri umani senza differenza di razza, sesso, età, ceto sociale, religione. Perché? La giovinezza non dovrebbe essere il tempo dell’apertura della vita, del suo fiorire? Non sarebbe più predisposta della vita adulta alla contaminazione, al contatto, al confronto, al rispetto della libertà?
Sappiamo che la giovinezza è il tempo della vita più esposto alla crisi: non è l’infanzia protetta dalla figura del genitore; non è ancora la vita adulta segnata e rafforzata dalle spine dell’esperienza. La giovinezza è il tempo dove lo scarto tra il pensiero e l’azione rischia di farsi troppo esile, dove l’onnipotenza del pensiero può giungere a negare l’esistenza stessa della realtà.
Gettarsi a valanga contro una massa di esseri umani in festa non è uccidere nel nome di Dio, ma uccidere nel nome della propria illusione di onnipotenza. L’odio per la vita in questo caso si manifesta come la forma più estrema del culto disperato del proprio Io. Il contrario della violenza animata dall’ideologia che vorrebbe invece cancellare l’Io.
Ho sempre pensato che i sintomi della concezione cinica e narcisistica dell’esistenza che domina l’Occidente siano il rovescio speculare di quelli del fondamentalismo islamico come se si trattasse di due facce della stessa medaglia. Da una parte il crollo dei valori, dall’altra la loro furiosa restaurazione; da una parte il libertinismo della perversione, dall’altra il cemento armato della paranoia; da una parte una libertà senza ideali, dall’altra l’Ideale come bussola infallibile; da una parte il pragmatismo disincantato dall’altra il fanatismo più folle; da un parte l’esibizionismo senza veli dei corpi, dall’altra la repressione più austera.
I più recenti episodi di terrorismo mi obbligano a ripensare questa opposizione: la violenza feroce di soggetti isolati non può essere fatta rientrare nello schema del fanatismo paranoico della Causa che si rivolta contro la concezione immorale e pagana della vita dell’Occidente. Il passaggio all’atto dei giovani del Tir e dell’ascia non credo siano ispirati da nessuna vocazione martirizzante, né tantomeno da una volontà, seppur delirante, di redenzione. Né credo possano essere considerati il risultato di una cospirazione politico-militare come invece è avvenuto chiaramente a Parigi lo scorso novembre.
Sembrano piuttosto scaturire dai fantasmi più oscuri della mente psicotica. Le scene stesse degli attentati assomigliano sempre più a vere e proprie allucinazioni. Ma cos’è un’allucinazione? Per Freud è un modo estremo per evitare la frustrazione imposta dalla realtà negandola furiosamente. Allucinare significa spazzare via d’un sol colpo una realtà che risulta insopportabile e priva di senso. La violenza dell’allucinazione evita il cammino necessariamente lungo della lotta e del lavoro per trasformare la realtà. Semplicemente, come in un sogno ad occhi aperti, la cancella.
In questo senso questa nuova forma della violenza non si inserisce in nessuna strategia militare. È il nuovo abisso dentro il quale siamo costretti a guardare: sono giovani, probabilmente psicotici, che agiscono allucinatoriamente trascinando nel loro delirio vittime innocenti. Non si tratta di una violenza ideologica ma erratica, una violenza che sfugge al governo di ogni esercito compreso quello del terrore. Essa non agisce più in nome dell’Ideale, ma è senza meta, senza legge, senza senso. Non risponde a processi di indottrinamento (radicalizzazione islamista “rapida” o “auto-radicalizzazione”) ma sembra indicare un rovesciamento perturbante di prospettiva: la sua volontà di morte non ha nessuna altra meta se non se stessa. Non è Dio l’interlocutore di questi atti — nemmeno il Dio folle che semina odio e incita alla morte degli infedeli — perché sono atti senza interlocutore.
L’operazione tentata dall’Is consiste nel reclamarli a sé in un travestimento ideologico di tipo illusionistico. Al contrario questa violenza è davvero senza meta, senza legge, senza senso che può trovare nell’esistenza dell’Is non la sua Causa, ma una sorta di giustificazione e di incentivazione. È violenza allucinata che trasforma la vita in morte, violenza puramente nichilistica se il nichilismo è quell’esperienza, non solo individuale ma collettiva, del venire meno di tutti valori, dunque del valore della vita stessa.
In questo senso questa violenza ci riguarda profondamente, ovvero riguarda il senso stesso della vita. Lo schema, di natura ancora paranoica, del gesto terrorista dove è l’Ideale a nutrire la mano di chi spara contro il nemico — , deve essere corretto: l’ideologia non è la Causa ma solo una giustificazione a posteriori dello scatenamento della violenza come puro odio verso l’insensatezza della vita. Il fatto che i suoi protagonisti siano giovani o giovanissimi mette ancora una volta al centro il grande problema del rapporto tra le generazioni e quello dell’eredità.
Non si diventa assassini perché Dio lo vuole, ma perché la vita, questa vita, la nostra vita, la vita che lasciamo ai nostri figli, è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente.
postilla
Non sarebbe male se un intellettuale, in particolare se psicanalista qual è Massimo Recalcati, si domandasse perché, come, per quali cause (e per opera di quali attori) la vita degli autori di delitti cui lo scrittore si riferisce sia diventata una vita che «è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente». Noi abbiamo tentato di domandarcelo su eddyburg, "non per giustificare ma per comprendere"; ci hanno aiutato anche i Medici senza frontiere in un articolo di Murad Yovanovitch che abbiamo ripreso da ilmanifesto, e ci sembrerebbe utile che lo facesse chi ha il privilegio di parlare per un pubblico ampio, come è quello del giornale dal quale abbiamo ripreso l'articolo.
AIl manifesto, 21 luglio 2016
IL VIRUS TURCO CI RIGUARDA
di Giuseppe Giulietti
«Libertà di stampa. I giornalisti non possono restare muti»
«La Turchia è diventata la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa…», parole scritte dal giornalista Can Dundar che rischia l’ergastolo per aver scritto sugli ambigui rapporti tra Erdogan e l’Isis. La sua drammatica riflessione risale a qualche settimana fa, quando ancora non si era consumata la tragica farsa del golpe o autogolpe che sia. Il «nuovo» colpo di Stato è fallito, immediatamente ha ripreso forza il «vecchio», quello già in atto sotto la guida di Erdogan, un presidente «eletto democraticamente», come continuano a ripetere, con inconsapevole ironia, i governanti dell’Unione europea.
Nel giro di poche ore sono stati fermati, rimossi, arrestati migliaia di magistrati, intellettuali, professori, studenti, giornalisti, accusati di aver promosso e sostenuto il colpo di Stato e di aver trescato con Gulem, l’ex sodale di Erdogan, ritenuto il mandante e la mente dell’ambiguo e goffo tentativo di golpe. Le immagini e i disperati appelli che ancora filtrano dalla Turchia ci ricordano gli stadi cileni, la «Macelleria messicana» di genovese memoria, l’umiliazione della dignità della persona, la soppressione dei più elementari diritti civili, politici, sociali.
In queste ultime ore alla già lunga lista di giornalisti denunciati ed arrestati, si sono aggiunti i nomi di altri 34 cronisti ai quali è stato ritirato il tesserino professionale e di decine di siti e di emittenti oscurati o chiusi.
L’Europa invita Erdogan a non introdurre la pena di morte «altrimenti sarà fuori dalla legalità comunitaria», come se la rottura non si fosse già materializzata, come se il colpo di Stato non si fosse già consumato, come se il bavaglio non fosse calato sulla già precaria democrazia turca. Cos’altro bisogna attendere: la chiusura del Parlamento?
Lo scioglimento del partito curdo? La definitiva cancellazione della residua autonomia dei poteri di controllo? Queste solo alcune delle ragioni che dovrebbero indurre ciascuno di noi a reagire, a contrastare una deriva che minaccia di coinvolgere L’Europa, a partire da quelle realtà, dalla Polonia all’Ungheria, che già presentano segni di involuzione autoritaria.
Chi ha marciato a Parigi, e non solo, per contrastare gli assassini che avevano colpito la redazione di Charlie Hebdo, non può oggi restare muto ed immobile. Per questo la Federazione della Stampa, attraverso il segretario Raffaele Lorusso, ha deciso di chiedere alle organizzazioni internazionali dei giornalisti, di valutare la possibilità di inviare subito una delegazione in Turchia, ma anche di promuovere ogni iniziativa utile a scuotere le coscienze e a sollecitare un’azione immediata ed efficace da parte delle istituzioni europee che non possono assistere inerti alla “macelleria turca”.
Se non lo faranno spetterà alle forze politiche, sociali, religiose, ancora sensibili al tema dei diritti e della libertà, farlo comunque, sfidando omissioni, diserzioni, opportunismi di vario segno e natura.
Nel frattempo, e il ne è un positivo esempio, spetterà a ciascun giornalista il compito di dare voce e visibilità ai cronisti “oscurati”, riportando i loro appelli, dando ospitalità alle opinioni censurate, realizzando siti e trasmissioni rivolte alla pubblica opinione turca, promuovendo una campagna di sostegno operativo che vada oltre le testimonianze di solidarietà.
Chi, da sempre, ha scelto di contrastare censure, bavagli, soppressione dei diritti e delle garanzie, non può fingere di non sapere che il virus turco ci riguarda. Non può esserci uno scambio tra il rispetto delle libertà fondamentali e la promessa di Erdogan di fare il guardiano alle frontiere per conto dell’Europa.L’infezione va fermata ora e subito, prima che la Turchia diventi, per parafrasare Can Dundar: «La più grande prigione a cielo aperto del mondo».
LA TOMBA DELL'OPPOSIZIONE TURCA
di Mariano Giustino
«Turchia. Riunito ieri il Consiglio di Sicurezza: Erdogan annuncia tre mesi di stato di emergenza mentre il governo pensa alla creazione di un tribunale speciale per i presunti responsabili del tentato golpe e di un carcere ad hoc dove farli sparire. Purghe in corso: accademici e giornalisti nel mirino. Manifestazioni pro-governative a Istanbul e Ankara»
Stato di emergenza per tre mesi: è l’annuncio fatto ieri sera dal presidente turco Erdogan a seguito della riunione del Consiglio di Sicurezza. Alla luce delle epurazioni in corso, il timore che una simile azione faccia definitivamente collassare lo Stato di diritto è forte. Lo è anche se Erdogan minimazza dicendo che ciò non si tradurrà in una limitazione delle libertà civili. Eppure nello stesso annuncio, da capo delle forze armate, ha promesso ulteriori purghe contro l’esercito.
Poco prima, nel pomeriggio, parlava il sindaco di Istanbul: sarà costruita la «Tomba dei traditori – ha annunciato ieri – Sarà creato uno vasto spazio apposito per seppellire i golpisti. I loro cadaveri non saranno accettati nei nostri cimiteri», ha dichiarato Kadir Topbas.
Per la quarta notte di seguito sono proseguite le manifestazioni dei sostenitori del presidente Erdogan nelle maggiori città della Turchia, in particolare ad Ankara, Istanbul e Izmir. A Istanbul, in piazza Taksim, nel cuore europeo e laico della megalopoli turca, è stato allestito un palco e un grande striscione copriva la facciata dell’edificio del Centro culturale Atatürk: «Fetö, figlio di satana, impiccheremo te e i tuoi cani». Fetö è l’acronimo di Organizzazione Terroristica dei seguaci di Fethullah, termine che Erdogan ha coniato per bollare la comunità di Gülen.
Si sta consumando un’immane tragedia in Turchia per tutti gli oppositori di Erdogan: è salito a circa 60mila il numero di coloro che sono sotto inchiesta perché ritenuti responsabili del fallito golpe di venerdì 15 luglio. Il vice capo della polizia, Mutlu Ç., del quartiere Güdül di Ankara, si è suicidato dopo aver appreso di essere stato sospeso. Lo stesso gesto ha compiuto il sottoprefetto della provincia di Manisa, mentre tre generali della Marina sono fuggiti dalla base navale di Izmit, la più grande del paese. Il presidente turco Erdogan sta in queste ore regolando i conti con il suo acerrimo nemico e ex alleato Gülen dal 2007 al 2011 e con tutti i suoi critici e oppositori.
I 1.577 rettori di tutte le università del paese pubbliche e private sono stati costretti dal Consiglio superiore dell’Istruzione (Yök) a rassegnare le dimissioni e saranno presto sostituiti da accademici vicini al partito di governo. Altro provvedimento adottato è la sospensione fino a nuovo avviso delle assegnazioni presso università estere degli accademici turchi. Inoltre è disposto il rientro di tutti gli accademici che insegnano all’estero, qualora non vi fosse un grave stato di necessità che ne giustificasse la permanenza fuori dalla Turchia.
Lo Yök ha anche chiesto ai rettori di tutte le università di informare le autorità competenti circa la presenza tra il personale accademico e amministrativo di esponenti della comunità di Gülen. Nel frattempo il Ministero dell’Istruzione dell’Azerbaigian ha annunciato di aver chiuso a Baku l’Università di Qafqaz, il primo istituto accademico fondato da Gülen all’estero, 1993.
Il cerchio si stringe, e colpisce la stampa. Il vice primo ministro Numan Kurtulmus aveva ieri annunciato che erano stati aperti 9.322 provvedimenti giudiziari a carico di giornalisti. Un reporter russo, della televisione Ren Tv è stato arrestato ieri mattina e successivamente rimpatriato in Russia. Il giornalista era arrivato all’aeroporto Atatürk per seguire gli sviluppi del tentato golpe in Turchia. La polizia ha bloccato la distribuzione del settimanale satirico LeMan che riportava in copertina una vignetta sul tentato golpe. La polizia è intervenuta poco dopo che la rivista satirica era stata stampata.
Ad essere colpiti dalla scure di Erdogan sono soprattutto le persone sospettate di avere legami con il movimento Hizmet, nei settori in cui è più forte e cioè nella sfera militare, nella magistratura e nel sistema dell’istruzione.
Il golpe era stato pensato e pianificato da tempo. La decisione di compierlo quel giorno, il 15 luglio, era maturata perché stava per essere anticipata la riunione del Consiglio supremo militare, che generalmente si riunisce il primo di agosto e che aveva all’ordine del giorno la decisione di allontanare gli ufficiali vicini al movimento di Gülen. E quindi si è deciso di realizzare il piano in quella data. Erano già pronte dunque le liste di coloro che dovevano essere rimossi dalle massime istituzioni statali e c’era all’interno dell’esercito una grande tensione tra i gülenisti.
Per Ankara, è Gülen l’ispiratore del golpe. È stato accusato di essere a capo di una presunta organizzazione terroristica, costituente un vero e proprio «Stato parallelo». Un’organizzazione che avrebbe finalità eversive costituita da un gruppo di burocrati e militari infiltratisi all’interno dell’apparato statale, giudiziario e dell’esercito. Il golpe dunque sarebbe maturato all’interno di alcune gerarchie militari che si sentivano minacciate dalla operazione di pulizia già in atto all’interno delle forze armate da parte del partito di governo.
Il presidente turco continua a fare appelli alla piazza, affinché manifesti contro i golpisti. Anche ieri sera si sono tenute manifestazioni in tutte le principali città del paese. Ad Istanbul si è anche tenuta la manifestazione degli accademici che hanno avuto parole di condanna per il golpe, in difesa delle istituzioni repubblicane. Ad Ankara vi ha partecipato il presidente Erdogan che ha annunciato durante il comizio le importanti misure deliberate a seguito del fallito golpe dal governo nella riunione di gabinetto appena conclusasi.
Tra le misure previste vi sarebbe quella dell’istituzione di un tribunale speciale per processare i golpisti e la costruzione di un carcere speciale per i membri della giunta che hanno posto in essere il tentativo fallito di colpo di stato. La priorità per il governo turco è di ripulire tutto l’apparato statale dai membri e simpatizzanti del movimento Gülen ed Erdogan ne vuole approfittare per schiacciare ogni sacca di opposizione nel paese al suo progetto di uomo solo al comando.
SUBITO RAID CONTRO IL PKK
di Chiara Cruciati
»Kurdistan. L’aviazione turca bombarda a un anno dalla strage di Suruc. Il 20 luglio 2015 un kamikaze dell’Isis uccise 33 giovani turchi: quel massacro inaugurò la campagna anti-kurda. Ankara compatta l’esercito nella lotta ai kurdi. E lo tiene a bada: l’unico al comando è il Sultano«
Icacciabombardieri turchi, che da un anno infestano i cieli del nord dell’Iraq alla caccia di postazioni del Pkk, erano rimasti a terra nei giorni successivi al tentato colpo di Stato. Ieri hanno ripreso il lavoro: almeno 20 combattenti kurdi sono stati uccisi in raid dell’aviazione di Ankara contro le montagne irachene di Qandil.
La guerra alle aspirazioni democratiche e autonomiste kurde non conosce tregua: non a caso nelle ore concitate del golpe la popolazione kurda era la più disorientata, indecisa se sperare in una caduta del presidente Erdogan, suo vampiro, o nel fallimento del golpe militare, simile a quelli che nei decenni passati si sono tradotti in una radicalizzazione della lotta ai kurdi.
Nell’ultimo anno è stato il Kurdistan turco a vivere a stretto contatto con l’esercito e le sue unità speciali che hanno devastato le città, ucciso centinaia di civili e costretto alla fuga 355mila persone (dati Human Rights Watch). Quella campagna non è terminata come non lo è quella aerea contro le postazioni del Partito Kurdo dei Lavoratori che nel nord dell’Iraq aveva fatto ritirare i suoi uomini dopo l’avvio del processo di pace con Ankara voluto dal leader Ocalan, tre anni fa.
I raid di ieri servono a questo: a ricordare che lo schiacciasassi turco è sempre in moto e non mollerà la presa sul Kurdistan, nonostante le epurazioni in corso nelle forze armate (tra loro anche il capo dell’aviazione, il generale Ozturk). Un messaggio ai kurdi, sì, ma anche allo stesso esercito, a confortarlo e allo stesso tempo a tenerlo a bada: le mire nazionaliste interne sono più vigili che mai e Erdogan ha il pieno controllo dei militari.
Al di là dell’ininterrotta violazione della sovranità di Baghdad – talmente poco interessante per la comunità internazionale che anche il governo iracheno ormai non protesta più – a rimbombare insieme ai fischi delle bombe turche è la sinistra ironia della tempistica. Ieri non era un giorno qualsiasi: ieri era il 20 luglio, un anno esatto dalla strage compiuta dallo Stato Islamico a Suruç, estremo sud turco, ad un passo dal confine con la Siria, a due da Kobane.
Quel giorno in città si teneva un raduno della Federazione delle Associazioni dei giovani socialisti, 330 ragazzi riuniti nel centro culturale Ammara. Si stavano preparando a partire per Kobane, liberata da pochi mesi dalle Ypg di Rojava, per portare giocattoli e medicinali.
Delle tante immagini di quel giorno sono due che ancora riemergono per la loro forza: la foto di gruppo scattata da quei ragazzi poche ore prima della strage e i loro corpi a brandelli pietosamente coperti con bandiere rosse (gli inquirenti impiegarono giorni per rimettere insieme i pezzi dei cadaveri). Ne morirono 33, dopo che un kamikaze si fece esplodere in mezzo a loro.
Ma il massacro non si è fermato a Suruç: con la scusa plastica e immunizzante della lotta al terrorismo islamista, il governo turco lanciò pochi giorni dopo la sua personale operazione anti-Isis. Che non ha colpito – quasi mai – il “califfato”, ma ha avuto come primario target il Pkk nel nord dell’Iraq, le Ypg di Rojava nel nord della Siria e il Bakur, sud est turco.
Un’equazione cristallina: a meno di due mesi dalle elezioni del 7 giugno 2015, quando il partito pro-kurdo e di sinistra Hdp ottenne un inatteso e prorompente 13%, con l’Akp che boccheggiava, a Suruç si è aperta la stagioni delle stragi targate Isis che ha seminato morte a Istanbul e Ankara più e più volte.
Con la paura e la destabilizzazione il sagace Erdogan ha così traghettato il popolo turco verso le desiderate elezioni anticipate di novembre dove l’ancora di salvezza, per molti, è stata sommariamente individuata nell’uomo forte. Lo stesso che negli anni precedenti ha abbondantemente seminato il fertile terreno dei gruppi islamisti nella vicina Siria.
In un simile contesto l’eventuale riapertura del processo di pace con il Pkk è un’opzione nemmeno presa in considerazione da un presidente che necessita di indebolire il paese per controllarlo meglio. I raid di ieri, dopo un golpe di una parte di quell’esercito che ha sempre schiacciato il popolo kurdo, non sono altro che la naturale continuazione di una simile politica che oggi si accompagna a purghe di Stato ed epurazioni di massa.
Parole di saggezza del filosofo franco-bulgaro Tzvetan Todorov in un oceano di paure, «L’Islam aspira più di altre religioni a diventare l’ideologia fondamentale di uno Stato. Ma il multiculturalismo non è fallito: se una cultura non cambia, muore».
La Repubblica, 17 luglio 2016
«ORA bisogna tornare a una vita normale, ma senza distruggere le nostre libertà. Dobbiamo evitare di diventare anche noi dei “barbari”, di diventare torturatori come quelli che ci odiano». Tzvetan Todorov è bulgaro ma vive in Francia da decenni. Uno dei suoi saggi più famosi è La paura dei barbari, in cui il celebre filosofo teorizza il rischio della deriva violenta dell’Europa: a causa del clima di paura e tensione perenni, il rapporto con l’altro, e soprattutto con l’Islam, può diventare sempre più difficile. Mentre Nizza e la Francia, dopo la strage del 14 luglio, cercano una inedita normalità, per alcuni troppo brusca, per Todorov l’importante è non abituarsi al terrore. E nemmeno a una società ultrasorvegliata.
Perché, professor Todorov ?
«Perché ho paura che l’Europa possa diventare come Israele, con misure di sicurezza così restrittive i cui benefici secondo me sono minori rispetto alle conseguenze negative. Dare troppo potere all’intelligence e alla sorveglianza, senza limiti e senza punire gli abusi, è il primo passo verso uno stato totalitario».
Fatto sta che siamo al decimo attacco jihadista contro la Francia nell’ultimo anno e mezzo. Perché il suo Paese è così odiato dagli estremisti islamici?
«La parola “odio” non è esatta. Qui non sono in gioco i sentimenti, ma le ragioni. E, principalmente, sono due le cause degli attacchi: una presenza militare francese più marcata nei paesi musulmani, e una minoranza islamica molto ampia nel Paese».
A questo proposito, qualche giorno fa l’imam di Nimes si è dimesso perché secondo lui la comunità islamica, anche moderata, non si distanzierebbe nettamente dagli estremisti. Lei che ne pensa? L’Islam moderato dovrebbe fare di più?
«Più che le moschee o l’ambiente familiare, io credo che il vero problema sia la propaganda online, che permette una radicalizzazione rapida come quella accaduta al killer di Nizza. Che infatti non era un musulmano molto praticante, non frequentava la moschea, beveva. Era uno squilibrato. E gli squilibrati sono prede facili. Questa è la nuova frontiera del terrore, e c’entra poco con la comunità islamica» Però la pista del radicalismo islamico è stata confermata anche da Valls.
Secondo lei, c’è un problema che riguarda direttamente anche l’Islam?
«Se una religione, qualsiasi essa sia, diventa l’ideologia fondamentale di uno Stato, i valori democratici sono minacciati. Certo, oggigiorno, bisogna ammettere che l’Islam aspira a questo ruolo più di altre religioni».
Secondo il capo dell’intelligence interna, Patrick Calvar, la Francia potrebbe presto ritrovarsi sull’orlo di una “guerra civile” che coinvolgerebbe soprattutto i musulmani. Lei che ne pensa?
«Non mi sembra una previsione molto realista. Ma è chiaro che ci sono estremisti da ambo le parti che aspirano a questo scenario. E chissà chi la spunterà».
Il multiculturalismo è ancora un sistema sociale realistico?
«Certo, è lo stato naturale di tutte le culture. La xenofobia, le pulsioni sull’identità tradizionale non sono destinate a durare. Una cultura che non cambia è una cultura morta».
«Colloquio con Seyla Benhabib. Sono realistiche le preoccupazioni che il fallito golpe diventi un pretesto per giustificare un altro giro di vite illiberale nella già poco liberale democrazia turca».
La Repubblica, 18 luglio 2016 (m.p.r.)
I turchi che vivono nei paesi occidentali seguono con giustificata ansia le vicende del loro paese. Seyla Benhabib si dice profondamente scossa dagli eventi che si succedono veloci e gravidi di implicazioni. Ebrea, nata e cresciuta in Turchia, Benhabib è una delle più note e apprezzate teoriche politiche, allieva di Jürgen Habermas e docente prima ad Harvard e ora a Yale e a Columbia, animatrice del progetto Reset Dialogue on Civilizations che organizza ogni anno una settimana di seminari di studio alla Bilgi University di Istanbul. La conversazione che abbiamo avuto in queste ore è una testimonianza del sentimento di incertezza e di ambiguità che lontano dal Bosforo si avverte, soprattutto nella comunità turca.
Come sono state recepite le immagini, le notizie che si sono accavallate confuse in queste ore tragiche a partire dal tentativo di golpe, poi fallito, di venerdì notte? E’ difficile per chi vive in Occidente ed è cresciuto con i valori della democrazia e del pluralismo, della libertà religiosa e della tolleranza, far quadrare il cerchio quando deve commentare le vicende drammatiche che sta attraversando questo grande paese, giunto a definire la sua identità nazionale dopo la fine rovinosa dell’Impero Ottomano multietnico, grazie a un leader militare rivoluzionario, Mustafa Kemal Atatürk (letteralmente “padre dei turchi”) che ha, in uno stile hobbesiano, costruito lo Stato mediante l’assoggettamento della religione e del clero islamici.
Come ricorda Benhabib, su questa ferrea unità la Turchia ha nei decenni avviato la modernizzazione della società, conquistato una posizione internazionale di rilievo (alleato chiave della Nato), per cominciare infine un lungo e travagliato percorso di avvicinamento e collaborazione con l’Unione europea. Contenere la democrazia e contenere il potere religioso sono andati insieme per decenni, motivando anche i cinque colpi di stato che dal 1960 si sono succeduti, fino a questo recentissimo.
«Un colpo di mano antidemocratico ha tentato di rovesciare un Presidente non democratico! », ecco il paradosso messo in luce da Benhabib. «Erdogan è stato eletto democraticamente ed è oggi il leader di un regime illiberale e antiliberale da manuale: capo di una democrazia maggioritarista che ha violentemente chiuso la bocca alla minoranza curda, che ha violato e limitato le libertà civili dei turchi; che ha attaccato i media indipendenti e in diversi casi soppresso la loro voce e quella dei social network, che ha perseguitato insegnanti e gravemente manomesso la libertà di insegnamento». E’ questo il paradosso di una democrazia senza liberalismo o esplicitamente antiliberale.
La tensione che Benhabib mette in evidenza è questa: «Mentre non può venire alcuna soluzione democratica dai carri armati nelle piazze o dagli spari contro i ministeri e i resistenti, è tuttavia naïf celebrare il regime di Erdogan come un regime democratico che ha eroicamente resistito contro i militari». Un governo democraticamente eletto può avere nel corso del suo lungo mandato - questo è il caso del governo turco un’evoluzione che con la democrazia costituzionale ha poco da spartire. E’ in effetti la dimensione dei diritti quella sacrificata, ed è una democrazia illiberale quella che si è in questi anni consolidata in Turchia.
Benhabib tocca così il tema centrale e spinosissimo del rapporto tra la religione e lo Stato, la questione del processo di islamizzazione delle istituzioni che questo fallito colpo di stato ha messo in evidenza e che, forse, potrebbe contribuire a rafforzare, usato come pretesto per mettere a segno epurazioni punitive ben oltre le responsabilità accertate di chi ha cospirato con i golpisti. «Le immagini delle folle che ho sentito cantare “Allah è grande” mentre si opponevano ai carri armati la scorsa notte mi hanno fatto pensare alle masse di Mohamed Morsi in Egitto contro cui l’esercito attuò il colpo di Stato nel luglio 2013, anche se i dimostranti turchi cantavano l’inno nazionale.
L’esercito turco non è islamizzato - ci sono probabilmente degli infiltrati ultranazionalisti al suo interno e, certamente, alcuni seguaci Gulenisti - ma c’è già chi sospetta che questo abortito colpo militare fosse stato pianificato dai colonnelli di rango intermedio, mentre è indubbio che gli alti comandi siano leali al regime - questo spiega del resto il fallimento del tentativo di golpe».
Secondo la Cnn i golpisti nell’esercito ora arrestati sarebbero migliaia, e così i giudici rimossi dal loro incarico: sono notizie che non devono stupire, conclude Benhabib, poiché si è trattato di un tentativo anche sanguinoso di sovvertire un governo legittimo. Ma la situazione resta drammatica.
La speranza che le giuste reazioni si trasformino in un’opportunità volta a rafforzare la democrazia turca sembra tenue, mentre sono realistiche le preoccupazioni che il fallito golpe, dopo le polarizzazioni innescate ad arte per ampliare il raggio delle repressioni e colpire gli oppositori civili (e legittimi) al governo di Erdogan, diventi un pretesto per giustificare un altro giro di vite illiberale nella già poco liberale democrazia turca.
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“Le folle che ho sentito inneggiare ad Allah mi hanno fatto pensare ai fedeli di Morsi in Egitto, contro cui l’esercito intervenne nel luglio del 2013” Il colpo di Stato fallito, pretesto per epurazioni punitive, potrebbe rafforzare il processo di islamizzazione delle istituzioni in corso nel Paese
«Se giustamente non possiamo più accettare che le nostre comunità siano colpite così, allora smettiamo di distruggere le altre comunità ormai senza più pace. A Baghdad, dove dilaga il conflitto tra sciiti e sunniti, c’è una strage di Bologna al giorno. Eppure era una "missione compiuta" già nel 2003 per il presidente Usa George W. Bush».
Il manifesto, 16 luglio 2016
Sembra un videogioco, invece è la scia reale di sangue che non si ferma. Ancora è colpita la Francia, ma le vittime non sono solo francesi. Donne e uomini in fuga in una sera d’estate sul sereno lungomare di Nizza, la Promenade des Anglais (quella del famoso quadro di Matisse). Una strage di civili, almeno, 84 i morti, tanti bambini tra le centinaia di feriti molti gravi. Ad opera di un giovane presunto integralista islamico di 31 anni, Mohamed Lahouaiej Bouhlel. L’uomo, francese d’origine tunisina, sposato in via di divorzio e con tre figli, era solo, senza complici, con una pistola automatica ma con tante armi giocattolo al seguito, l’unico strumento micidiale di morte vera che aveva era un Tir, guidato a tutta velocità per seminare morte e terrore; era stato in carcere, luogo delegato alla formazione ideologica, conosciuto dalla polizia era in libertà vigilata perché condannato per violenze. Possiamo definire questo spostato sociale un attentatore? Purtroppo sì: è questa endemicità, «normalità», permeabilità e mimesi la nuova caratteristica di chi compie, dall’interno, attentati anche senza una specifica matrice islamista. E anche stavolta, non è difficile immaginare, non mancherà la rivendicazione dell’Isis.
Ora il rischio è che, come sempre, si rincorrano chiacchiere e menzogne. Che fare? In che cosa dobbiamo investire? Come militarizzare la sicurezza – Hollande indebolito ancora una volta per i buchi nel controllo della zona nonostante lo stato d’emergenza, mobiliterà migliaia di riservisti. E chi c’è dietro? Fioccano i paragoni. Alcuni, impropri, con le autobombe; altri, più insidiosi, con le macchine lanciate da giovani palestinesi contro civili israeliani. Certo gesti condannabili e sanguinosi, ma lì c’è una violenta occupazione militare, e i cacciabombardieri israeliani e i tank Markhava sono parecchio più devastanti di un Tir.
Qual è il punto? L’Occidente, i Paesi europei e gli Stati uniti devono, al contrario di quello che hanno fatto finora, disinvestire nella guerra se vogliono dare sicurezza e non solo il miraggio della «percezione di sicurezza» con i presidi militari nelle città europee. E insieme aprire una nuova fase di integrazione con le realtà musulmani esistenti e finalmente con la nuova dimensione dell’immigrazione. Almeno come inveramento necessario di quella rivendicazione di «libertà, eguaglianza, fraternità» che ogni 14 luglio ritualmente viene ricordata, come giovedì sera a Nizza. Accade invece che confermiamo le divisioni, la frattura tra mondi, chiedendo fedeltà ai cittadini europei di fede musulmana. Dando così ragione alla predicazione del jihadismo salafita che vive di rotture e ostilità. Perché – al contrario della civiltà – è la guerra che abbiamo esportato che è all’origine di questa scia di sangue. E la Francia è stata protagonista negli ultimi anni di tutte le imprese belliche: geopolitiche in Libia e in Siria, neocoloniali in Africa.
Urge dunque una svolta nella politica estera occidentale che, volta a volta, ha usato una realtà mediorientale contro l’altra per raggiungere l’obiettivo del controllo strategico della regione, sia prima che dopo la Guerra fredda. Senza soluzione di continuità. Una piccola prova? Tra le motivazioni della strage, se di motivazioni si può parlare, viene ricordata la perdita di territorio e le sconfitte che lo Stato islamico sta subendo in Siria, Iraq e Libia. Ma per uno stato virtuale come il Califfato, la cui sostanza è predicatoria (di odio e barbarie, basta vedere il trattamento riservato alle donne) le sconfitte sono un appello ulteriore alla solidarietà jihadista, perché non più foreign fighters ma si attivino azioni «interne al nemico». Ma i colpi subìti possono essere cogenti: in questi giorni è stato ucciso da un raid aereo americano Omar al Sishani (il Ceceno), il capo militare Isis in Iraq e numero due del Califfo Al Baghdadi. Bene, questo assassino, conferma l’intelligence americana, ha ricevuto il suo addestramento proprio dagli Stati uniti che nel 2008 lo hanno usato in Georgia nella guerra attivata dalla Nato e dallo scellerato premier Shahakasvili contro la Russia.
Non possiamo pensare di avere sicurezza se esportiamo l’insicurezza della guerra, se distruggiamo Stati decisivi per l’equilibrio di interi continenti, come abbiamo fatto con Iraq, Siria e Libia. E se sosteniamo lo jihadismo per destabilizzare altri paesi come per la Siria. Alleandoci con chi ha foraggiato anche per nostro conto i jihadisti, come Turchia e Arabia saudita; con Israele che cancella la questione palestinese; con l’Egitto di Al Sisi, al potere con un golpe sanguinoso, che vive grazie ad una pratica sistematica di violenze e sparizioni.
Ora basta. Se giustamente non possiamo più accettare che le nostre comunità siano colpite così, allora smettiamo di distruggere le altre comunità ormai senza più pace. A Baghdad – dove dilaga il conflitto tra sciiti e sunniti – c’è una strage di Bologna al giorno. Eppure era una «missione compiuta» già nel 2003 per il presidente Usa George W. Bush. All’epoca c’era con lui, tra gli altri, anche Tony Blair, condannato oggi a parole dalla pur blanda ma vera commissione Chilcot: almeno in Gran Bretagna alla fine giudicano chi fa le guerre. L’attentato di Nizza dopo il Bataclan, Bruxelles e San Bernardino negli Usa dicono che dobbiamo uscire dal videogioco al massacro.
».
Comune-info, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
L’evoluzione della guerra nell’ultimo secolo, in rapporto alla popolazione, ci offre degli indizi sul tipo di società in cui viviamo. Fino alla Prima Guerra Mondiale i combattimenti avvenivano tra eserciti nazionali, sulle barricate, dove si verificavano le grandi carneficine che infiammavano la coscienza operaia.
Colpivano la popolazione in forma indiretta, con la morte in massa di figli e fratelli. Quando lo facevano in forma diretta, erano, il più delle volte, «effetti collaterali» del conflitto o, talvolta, ammonimenti per indebolire il morale di chi combatteva al fronte.
Con la Seconda Guerra Mondiale, le cose cambiano radicalmente. Dai bombardamenti di Amburgo e Dresda fino alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, passando per il bombardamento giapponese a Chongqing fino ai campi di concentramento tedeschi, l’obiettivo è diventato la popolazione. Come segnala Giorgio Agamben, c’è un prima e un dopo questa guerra e i campi di concentramento, poiché il campo così come il «bombardamento strategico» si sono trasformati in paradigmi della politica e della guerra moderne.
Non si tratta della comparsa dell’aviazione come forma principale del combattimento. Al contrario: l’aviazione diventa decisiva perché l’obiettivo diventa la popolazione. Il Vietnam è un altro punto di svolta. È la prima volta che i morti statunitensi si contano a migliaia, con un impatto molto maggiore rispetto alle guerre precedenti. A partire da lì, la guerra aerea raddoppia la sua importanza per non entrare nel corpo a corpo con l’inevitabile risultato di vittime proprie.
L’accumulazione per spoliazione (industria mineraria a cielo aperto, monocolture come la soia e mega-progetti) ha una logica simile a quella della guerra attuale, non solamente per l’uso degli erbicidi testati nella guerra contro il popolo vietnamita, ma anche per la stessa logica militare: liberare il campo dalla popolazione per appropriarsi dei beni comuni. Per espropriare/rubare, è necessario togliere di mezzo quella gente così fastidiosa; è il ragionamento del capitale, una logica che vale sia per la guerra che per l’agricoltura e per l’attività mineraria.
Per questo, è importante riferirsi all’attuale modello come “quarta guerra mondiale”, come fanno gli zapatisti, perché il sistema si comporta in quel modo, compresa, naturalmente, la medicina allopatica, che si ispira ai principi della guerra. Gli argomenti del EZLN collimano con quelli di Agamben, quando dice che il dominio della vita attraverso la violenza è la modalità di governo dominante nella politica attuale, in particolare nelle regioni povere del sud globale.
La brutale repressione dei maestri, avvenuta a Oaxaca, mostra l’esistenza di un totalitarismo mascherato da democrazia, che, secondo Agamben, si caratterizza per «l’instaurazione, mediante lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione non risultano integrabili nel sistema politico» (Lo stato d’eccezione, Bollati). Lo stesso autore ci ricorda che dai campi di concentramento non c’è un ritorno possibile alla politica classica, quella che era incentrata sulle rivendicazioni verso lo Stato e l’interazione con le istituzioni.
Come chiamare una forma di accumulazione ancorata sulla distruzione e la morte di una parte dell’umanità? Nella logica del capitale, l’accumulazione non è un fenomeno meramente economico: da lì l’importanza dell’analisi zapatista che pone l’accento sul concetto di guerra. Voglio dire che il tipo di accumulazione che il capitale necessita nel periodo attuale, non può che essere preceduto e accompagnato strutturalmente dalla guerra contro i popoli. Guerra e accumulazione sono sinonimi, al punto tale che subordinano lo Stato-nazione a questa logica.
Il tipo di Stato adatto per questo tipo di accumulazione/guerra è il punto debole di chi analizza l’«accumulazione per esproprio» o il «post-estrattivismo». In queste analisi, al di là del valore che hanno, trovo diversi problemi che vanno discussi al fine di rafforzare le resistenze.
Il primo è che non si tratta di modelli economici, solamente. Il capitalismo non è un’economia, è un sistema che include un’economia capitalista. Nella sua fase attuale, il modello estrattivo o di accumulazione per furto non si riduce a un’economia, bensì a un sistema che funziona (dalle istituzioni fino alla cultura) come una guerra contro i popoli, come una forma di di sterminio o di accumulazione attraverso lo sterminio.
Il Messico è lo specchio in cui i popoli dell’America Latina e del mondo si possono guardare. Gli oltre centomila morti e le decine di migliaia di desaparecidos non sono una deviazione del sistema, ma il nucleo del sistema. Tutti gli elementi che fanno parte di questo sistema, dalla giustizia e dall’apparato elettorale fino alla medicina e la musica (per fare appena qualche esempio), sono funzionali allo sterminio. La “nostra” musica e la “nostra” giustizia (così come tutti gli aspetti della vita) sono parte della resistenza al sistema. Sono divise o separate da esso. Non fanno parte di un tutto sistemico, ma sono già parte dell’ “altro mondo”.
La seconda questione è che le istituzioni statali sono state formattate da e per la guerra contro i popoli. Per questo non ha alcun senso dedicare tempo ed energie fissandoci su di esse, fatta eccezione per chi crede (per ingenuità o interesse meschino) di poterle governare a favore de los de abajo. Questo è forse il principale dibattito strategico che abbiamo di fronte in questa ora cupa.
Insomma, creare e predersi cura dei nostri spazi e proteggerci da chi sta in alto, senza lasciarci sedurre dai suoi scenari, diventa la questione vitale dei nostri movimenti. Ricordiamo che, per Agamben, i detenuti del campo sono persone che «chiunque può ammazzare senza commettere omicidio». Questa visione del mondo attuale spiega i fatti di Ayotzinapa e Nochixtlán meglio dei discorsi sulla democrazia e la cittadinanza, che si appellano alla giustizia del sistema.
Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2016 (p.d.)
Il 12 maggio, dopo quattro anni di assedio, il governo di Damasco ha infine autorizzato l’Onu a distribuire aiuti umanitari a Daraya. Medicine. All’ultimo dei check point, però, è iniziata una lunga discussione sul latte in polvere. Come classificarlo? Si compra in farmacia, sì, ma in fondo è cibo. Il convoglio, dopo ore di trattative, è tornato indietro. Sono arrivati invece gli elicotteri: sui siriani in fila si sono abbattuti 28 barili esplosivi. Dopo alcuni giorni, comunque, il convoglio è passato. Negli scatoloni, i siriani hanno trovato zanzariere. Zanzariere contro la malaria. Che in Siria non c'è mai stata. Ma l’Onu non demorde. Anche se sono anni, ormai, che non conta più i morti in Siria, perché contarli, dice, è troppo complicato, il rappresentante dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un incontro con il governo a Damasco, ha recentemente ribadito tutta la propria preoccupazione per i siriani: fumano troppo, ha detto. Bisogna intervenire subito.
Sono aneddoti che chi segue la guerra di Siria conosce bene. E che più che aneddoti, in realtà, potrebbero essere capi d'accusa in un processo per crimini di guerra. E infatti sono stati ora riuniti in un report firmato praticamente dall’intera società civile siriana: quella società civile che secondo l’Onu non esiste. Il report, non a caso, si intitola Taking sides (schierarsi). Perché se la società civile non esiste, è il ragionamento dell’Onu, se l’alternativa è la sharia, allora è meglio Assad. In Siria il 99% delle aree sono sotto assedio dell'esercito, non dei ribelli. Eppure ad aprile, il mese in cui si è avuta la maggiore pressione internazionale su Assad, il 71,5% degli aiuti umanitari è finito in aree sotto il suo controllo. E il problema non è solo che in Siria si muore di fame, letteralmente, che oltre un milione di persone in questo momento, non abbiano che erbe e radici e acqua piovana: il problema è che gli aiuti umanitari sono stati trasformati in uno strumento di guerra.
La strategia di Assad, il cui esercito è responsabile del 94,7% delle vittime civili, è stata chiara già dai giorni delle prime manifestazioni: emergere come il solo possibile garante della stabilità. Il solo capace di governare a fronte delle macerie delle aree sotto il controllo dei ribelli, bombardate a tappeto, il solo capace di assicurare ai siriani una parvenza di normalità, servizi e beni essenziali. Cibo e medicine.
Non è niente di nuovo: nelle facoltà di Scienze politiche, l’influenza degli aiuti umanitari sulle dinamiche di una guerra è un tipico argomento da tesi di laurea. Ma finora l'Onu non ha condotto alcuna valutazione dell'impatto dei 3 miliardi di dollari spesi in aiuti.
Non ha mai neppure condotto una valutazione della loro destinazione: non sa dove siano finiti. Nel corso del 2015, solo l’1% dei siriani sotto assedio ha ricevuto aiuti umanitari. L’Onu sostiene che è una questione di sicurezza, che fa il possibile: certe aree non vengono raggiunte perché è troppo pericoloso arrivarci. Come Douma, una delle città in cui si sono registrati più morti per fame. Che però viene regolarmente attraversata dai convogli diretti a Kafr Batna.
Nonostante ormai 3 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza autorizzino le agenzie Onu a operare indipendentemente dal governo di Damasco e anche a entrare nelle aree sotto il controllo dei ribelli dai paesi confinanti non è cambiato niente. Le agenzie Onu continuano a chiedere permessi per ogni convoglio a 3 diversi ministeri, e soprattutto, continuano a subappaltare la distribuzione degli aiuti alla Mezzaluna Rossa, il cui presidente è un fedelissimo di Assad. L’Onu ha scelto il compromesso, accusa il report: e non ha ottenuto nulla. Nel 2015, il 75% dei permessi è stato negato e l’Onu, di suo, ha cercato di chiedere meno permessi possibili: 113, a fronte di 4,6 milioni di siriani giudicati in condizioni critiche. Naturalmente, alcuni si sono opposti a tutto ciò: come i 35 funzionari di cui non si hanno più notizie, e sulle cui sorti nessuno ha indagato.
Tutte cose che non filtrano dai documenti Onu. Le statistiche ufficiali si basano sul numero di siriani raggiunti, non sulla percentuale di esigenze soddisfatte. Chi a Daraya è stato raggiunto da una zanzariera, dopo 4 anni d’assedio, nei conteggi risulta essere stato assistito e salvato. In realtà, se è vero che l’Onu ha bisogno di cooperare con lo Stato sul cui territorio opera, se è vero che ha bisogno di Assad, è anche vero che Assad ha bisogno dell'Onu: ha bisogno dei suoi aiuti. L’economia ha perso 254 miliardi di dollari, l'80% dei siriani vive sotto la soglia di povertà.
L’Onu ha forza contrattuale ma invece di usare gli aiuti per negoziare gli assedi, usa gli assedi per negoziare gli aiuti. In teoria, non c’è niente da negoziare: l'assedio è un crimine di guerra, i combattenti hanno l'obbligo di non interferire con le attività umanitarie e di soccorso. Ma l’Onu ha trasformato l'assedio in merce di scambio. In base a un accordo mediato a dicembre, Madaya e Zabadani, a sud, assediate dal regime, ricevono aiuti insieme a Foah e Kefraya, a nord, assediate invece dai ribelli. Davanti alle difficoltà logistiche, l’Onu sta studiando i lanci di aiuti. Che in genere, però, funzionano solo nei film.
L’aereo più usato, l'Ilyushin II-76, costa 34 mila dollari a volo, più l'assicurazione, in caso di zona di guerra, e trasporta circa 30 tonnellate, un carico sufficiente a sfamare 2400 persone per un mese. Ma è necessario avere propri uomini a terra, altrimenti chi prende gli aiuti? Chi corre più veloce? E il problema è esattamente che a terra, in Siria, non c'è nessuno. O meglio: ci sono decine di milizie. Per evitare missili e mitragliatrici, i piloti dovrebbero tenersi sui25mila piedi.Più o meno come stare in cima all'Everest e provare a centrare un campo da calcio in una città densamente popolata: guidando a 270 all'ora. Dei 21 scatoloni del World Food Program paracadutati su Deir Ez-Zor, 7 sono finiti nella terra di nessuno, 4 si sono danneggiati e 10 si sono persi. I caccia di Assad che bombardavano la città, intanto, usavano l'aeroporto. Finora l’Onu non ha risposto alle accuse, né rilasciato dichiarazioni.
L’unico commento di questi giorni si è registrato su Trip Advisor, dove uno dei suoi funzionari si è complimentato con il Four Season, l'hotel di Damasco in cui abitano diplomatici e giornalisti. I primi morti per fame si sono avuti a 6 chilometri di distanza. Il commento dice: ottimo servizio, ottimo cibo.
«Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia», Articoli di Bernardo Valli ed Enrico Franceschini,
La Repubblica, 7 luglio 2016
IL RAPPORTO CONTRO BLAIR
“LA GUERRA A SADDAM NON ERA NECESSARIA”
di Enrico Franceschini
Pubblicata l’inchiesta sull’intervento britannico. I familiari delle vittime: “Un criminale da perseguire”
«Una lezione su come non andare in guerra». È la conclusione del rapporto Chilcot sull’invasione dell’Iraq: un atto di accusa senza precedenti contro l’allora primo ministro Tony Blair. «La guerra non era necessaria», afferma sir John Chilcot, il presidente della commissione d’inchiesta, riassumendo un’indagine di 13 volumi, durata 7 anni e costata 10 milioni di sterline. «Non c’era un’imminente minaccia da parte di Saddam Hussein», l’intervento militare «non era l’ultima opzione» perché c’era ancora spazio per azioni diplomatiche, l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq (poi si scoprì che non ce n’erano) fu presentata come una certezza «in maniera ingiustificabile», non è chiaro perché il Procuratore Generale cambiò idea all’ultimo momento giudicando la guerra legale, ed i preparativi, l’occupazione, l’intelligence furono altamente inadeguati.
Il rapporto non dimostra bugie o imbrogli da parte di Blair, ma è un grave colpo alla sua reputazione politica. La frase «starò con voi in qualunque caso», trovata in una email al presidente americano Bush, «dovrebbe diventare il suo epitaffio », commenta il Guardian.
Fuori dal palazzo di Westminster dove viene diffuso il rapporto, dimostranti chiedono che l’ex-premier venga messo sotto processo; e i familiari dei soldati uccisi si «riservano il diritto» di portarlo in tribunale. «È lui il terrorista peggiore di tutti», dice la madre di uno dei 200 soldati inglesi morti in Iraq. «Mi scuso a nome del mio partito per la disastrosa decisione di entrare in guerra », dichiara alla camera dei Comuni il leader laburista Jeremy Corbyn. Ma il primo ministro dimissionario Cameron osserva che dal rapporto non emerge la volontà di Blair di ingannare il paese. Cameron ha annunciato che la prossima settimana il Parlamento dedicherà due giorni a discutere il rapporto Chilcot, le sue conseguenze, e le sue lezioni.
“HO FATTO LA COSA GIUSTA”
di Enrico Franceschini
Ha gli occhi lucidi e a tratti gli trema la voce. Eppure, in una sala del palazzo dell’Ammiragliato, di fronte alla piazza che porta il nome della battaglia di Trafalgar, Tony Blair si difende come un imputato convinto di essere innocente e di avere ragione. «Accetto la mia responsabilità per gli errori descritti dal rapporto Chilcot, ma prenderei di nuovo la decisione di invadere l’Iraq », dice l’ex-premier laburista a un gruppo di giornalisti. «Se impariamo le lezioni giuste, la prossima generazione vedrà l’alba della pace nel luogo dove tutto è cominciato e dove tutto deve finire: il Medio Oriente».
Signor Blair, riuscirebbe a guardare negli occhi i familiari di un soldato britannico ucciso in Iraq e giurare di non avere ingannato il paese per entrare in guerra?
«Riuscirei a dirlo ai familiari dei soldati e a chiunque altro: non ho ingannato il mio paese, ho preso questa decisione in buona fede e sono ancora convinto che fosse la decisione giusta».
Quando ha scritto a Bush che sarebbe stato con l’America “in qualunque caso”, era un assegno in bianco per l’intervento militare?
«Non lo vedo come un assegno in bianco, tanto più che poi ho persuaso il presidente a ottenere una risoluzione dell’Onu prima dell’intervento».
Cosa intendeva con le parole “in qualunque caso”?
«Qualunque difficoltà politica fosse emersa, ma l’intervento si doveva fare nel modo giusto».
Accetta il fatto che le famiglie dei soldati uccisi in Iraq vorrebbero vederla punita?
«Sta a loro decidere cosa fare».
Come risponde all’accusa del rapporto secondo cui la guerra ha aumentato il rischio di terrorismo per Londra?
«Saremmo stati attaccati comunque. I terroristi attaccano la Francia, il Belgio. Le radici di questo terrorismo sono molto più profonde della guerra in Iraq».
Perché non avete protetto i vostri soldati con mezzi e armi più adeguati?
«Non abbiamo mai detto di no a nessuna richiesta».
Il leader laburista Corbyn l’ha accusata di avere ingannato il parlamento.
«Non ho ingannato il parlamento ».
Allora di quali accuse contenute nel rapporto si sente responsabile?
«Avremmo dovuto pianificare meglio il dopo guerra. Avrei potuto condividere certi documenti, come il parere sulla legalità della guerra, con tutto il governo. E avrei potuto interagire in modo diverso con gli Stati Uniti».
Il rapporto la accusa di avere sovra estimato la sua capacità di influire su Bush.
«L’ho convinto a tentare la strada della risoluzione dell’Onu, contro il parere del vicepresidente americano e dei suoi ministri ».
Ma perché ci teneva tanto all’alleanza con Bush, un leader di cui pochi si fidavano?
«Perché dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ho ritenuto che fossimo davanti a una nuova minaccia e che per affrontarla non si potesse lasciare sola l’America».
Molti iracheni rimpiangono il tempo di Saddam, cosa direbbe loro?
«Direi che l’Iraq oggi ha una chance e sotto Saddam non ce l’aveva. Fate il confronto con la Siria: due paesi vicini, in preda alla guerra, ma a Bagdad c’è un governo eletto democraticamente che si batte contro il terrorismo, a Damasco c’è un dittatore che collabora con i terroristi».
Si sente più sollevato o più angosciato davanti al rapporto?
«L’angoscia per la mia decisione controversa resterà dentro di me finché vivo, ma spero che questo rapporto metta la parola fine alle teorie di cospirazioni, menzogne ed inganni. La gente può criticarmi, ma dovrebbe riconoscere che ho agito in buona fede per quello che ritenevo fosse l’interesse del paese».
COSÌ LA MISSIONE IN IRAQ
HA SCONVOLTO IL MEDIO ORIENTE
E RAFFORZATO IL TERRORISMO
di Bernardo Valli
CI SONO voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto.
Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per “crimine di guerra” a carico dell’inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l’autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra.
Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per «l’aggressione militare basata su un falso pretesto». E ha parlato di «violazione della legge internazionale», da parte di un primo ministro laburista, quel era all’epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l’inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l’obbediente Tony Blair fosse il “barboncino”.
Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell’Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l’invasione di allora. La situazione era pronta per un’esplosione. È vero. La guerra nell’Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l’Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l’Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli ottanta, tra l’Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l’Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell’Islam adesso in aperto confronto.
Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c’era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall’iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c’erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L’uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto.
La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l’altro, quando era in guerra con l’Iran, un alleato obiettivo.
L’irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L’ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c’erano gli americani, sia a Bassora dove c’erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza.
L’esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un’amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L’impatto dell’intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l’Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L’intervento americano con l’appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia.
«Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra».
La Repubblica, 5 luglio 2016 (m.p.r.)
Sorridono con la mitraglietta in mano, la kefiah bianca e rossa in testa. Belle facce da studenti. Gli avranno pure detto di sorridere per la foto. Tuttavia è innegabile che c’è qualcosa di spontaneo, d’allegro, di scanzonato in quei sorrisi. Parlano della loro giovinezza. Sono i terroristi di Dacca. Ecco, il sorriso. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia al quartier generale dei Marines americani a Beirut, si ricorda perfettamente che il 23 ottobre 1983 l’autista alla guida del camion carico di esplosivo, che uccise 241 suoi commilitoni, lo guardava fisso negli occhi e sorrideva. Un sorriso indelebile, che sarebbe poi diventato famoso con il nome di farah al-ibtissam, ovvero “il sorriso della gioia” di tutti i seguenti attentatori, degli uomini-bomba, fino a questi giovanotti della capitale del Bangladesh. La domanda che ci facciamo è: perché? Per quale ragione dei ragazzi colti, studiosi, benestanti, gioventù dorata di un paese poverissimo, che vive in bilico sul delta del Gange, vanno a morire così, con quella violenza rituale sulle loro vittime innocenti.
In un suo libro, L’uomo in rivolta, Albert Camus ha fornito una spiegazione plausibile per capire le ragioni di quel gesto: solo il suicidio permette di superare l’interdetto a uccidere uomini e donne innocenti. Il morire, scrive, giustifica l’uccidere. Utilizzando un paradosso, in cui Camus è maestro, sostiene che la volontà di morire degli attentatori dimostra da sola la credenza nella giustezza della propria causa. Gli attacchi suicidi come questo ennesimo di Dacca si giustificano da sé. Il sacrificio è ragione sufficiente per la missione suicida, e anche la spietatezza che comporta verso il “nemico”, sia esso un soldato combattente, oppure l’avventore di un bar o il cliente di un ristorante. In un libro istruttivo, La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), Francesco Marone spiega come la purezza sia il primo tassello di questa visione che a noi appare paranoica, fuori dalla realtà. In realtà non lo è: appartiene a un altro ordine mentale, quello della follia. Morire suicidi, afferma Camus, è la conferma della propria purezza.
Questa parola, “purezza”, non si usa più in Occidente. Siamo tutti “impuri”, perché ci siamo mescolati, perché non pratichiamo più, come nei primi secoli del cristianesimo, una religione assoluta, esclusiva, in conflitto con l’Impero entro cui è sorta. Chi si può dire “puro”? Eppure questa è la prima parola chiave se si vuole capire cosa c’è nella testa di questi ragazzi di Dacca. Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra. Così è stato per i giovani attentatori del Bataclan, e per quelli dell’aeroporto di Bruxelles e del metrò. Marone sottolinea come non esista un solo profilo psicologico plausibile degli attentatori suicidi. Altri studiosi ritengono invece che qualcosa in comune tra loro ci sia.
Studiando i candidati al martirio della seconda Intifada, quelli che sono stati fermati prima, o che hanno fallito, A. Meari conclude che si tratta di personalità fragili, dipendenti, ragazzi che soffrono di sensi di inferiorità, d’inadeguatezza, che chiedono conforto ad autorità morali, giovanotti instabili, con tratti depressivi e sindromi post-traumatiche da stress. Seguendo questa descrizione lo scrittore americano John Updike ha narrato in Terrorista (Guanda) la storia di un ragazzo di origine egiziano. Abbandonato dal padre da piccolo, figlio di una donna americana, viene plagiato da un predicatore islamico, che lo spinge a guidare un camion carico di tritolo per un attentato scongiurato all’ultimo dall’amante della madre. Un caso di emarginazione e di frustrazione, ma come mostrano le biografie degli attentatori di Dacca la maggior parte di loro proviene da classi medio-alte, ha studiato. Se l’emarginazione economica e sociale fosse la principale fonte del terrorismo suicida nel mondo, questo sarebbe pieno di suicidi, ha scritto con cinico realismo un economista. L’esempio di Osama Bin Laden, membro di una ricchissima famiglia saudita, è paradigmatico.
Per dare una risposta alla domanda perché lo fanno Michael Ingatieff ha sostenuto che si tratta della “sindrome di Erostato”: il giovane greco che diede fuoco al tempio di Artemide a Efeso per eternare il proprio nome. Lo studioso canadese mette in luce una questione importante: l’atto suicida contiene una promessa: “trasformare una nullità umana in un angelo vendicatore”. Non è cosa da poco in un mondo come il nostro abitato da miliardi di persone senza nome né fama né prospettiva alcuna di perpetuare il ricordo di sé oltre la propria esistenza. La religione fondamentalista assicura anche questo, coltiva l’Erostato che c’è in ciascuno. Questa sindrome contiene tra le altre cose un aspetto narcisistico che viene in luce in ogni atto suicida, in particolare in quello di giovani e adolescenti, quelli che sono in conflitto con il proprio ambiente famigliare, ad esempio paterno. Rohan, uno dei membri del comando di Dacca, ha un padre che è un membro di rilievo del partito governativo, un islamico moderato. Forse non è sufficiente, ma certo deve avere avuto un suo ruolo nel trasformare lo studente del college Scholastica in un feroce tagliagole.
Il fondamentalismo islamico oggi è la più pericolosa ideologia religiosa presente nel mondo e coltiva la cultura del sacrificio, dove la promessa del Paradiso appare una componente significativa di una miscela sconosciuta a noi occidentali secolarizzati, laicizzati, distanti da ogni idea di sacrificare la propria vita per un ideale. Cosa che fino a due secoli fa aveva invece corso anche da noi. Senza tornare alle origini del cristianesimo, alle vicende ereticali, ai conflitti religiosi che per tre secoli hanno insanguinato l’Europa cristiana, basta pensare al fideismo politico dell’inizio del Novecento, agli ideali socialisti e comunisti, dove l’individuo era nulla e il progetto collettivo tutto. Il sacrificio come strumento d’azione, metodo e forma della lotta. La religione, nella sua forma islamica, torna di colpo protagonista del nostro presente.
Per capire come funzioni tutto questo, bisogna rivolgersi alle pagine di un autore che ha conosciuto questa violenza sulla propria pelle. Prima ancora di essere messo al bando dalla fatwa degli ayatollah iraniani, Salman Rushdie ha raccontato in I versi satanici la storia di una santa islamica, una ragazza bellissima di nome Ayesha, che si trasforma in una mistica e una visionaria. Presa dal suo furore religioso, Ayesha trascina con sé la gente di un piccolo villaggio indiano: li convince che potranno raggiungere la Mecca attraversando il Mar Arabico che si aprirà davanti a loro come davanti a Mosè. Un solo uomo, il maggiorente ricco del villaggio, uomo laico, s’oppone. Alla fine Ayesha e gli uomini e le donne che la seguono entrano nel mare e scompaiono alla vista. L’uomo cerca di salvare la moglie e si tuffa. Sviene. In ospedale è sentito dalla polizia. Accanto a lui un altro sopravissuto, un uomo che ha creduto in Ayesha. Entrambi sono convinti che le acque si sono aperte e la ragazza ha camminato lì in mezzo all’asciutto, e la gente con lei. I poliziotti spazientiti li minacciano di far loro vedere i cadaveri gonfi. Il fedele risponde: «Potete farmi vedere quello che volete ma io ho visto quello che ho visto. La mia vergogna - aggiunge - è che io non sono stato degno di accompagnarli nel viaggio: le porte del Paradiso si sono chiuse davanti a me». Ecco cosa c’è dietro a quel sorriso. Difficile smontare la convinzione dei visionari. Che fare? Opporre follia alla follia? Il problema che ora si pone non è piccolo e neppure indolore per il laico e razionale Occidente.
Per comprendere che cosa c'è dietro la strage dei 20 ostaggi trucidati. Articoli di Emanuele Giordana, Simone Pieranni, Matteo Miavaldi,
Il manifesto, 3 luglio 2016
ATTACCO A DHAKA,
UCCISI 20 OSTAGGI
di Matteo Miavaldi
Sconfessata la linea che aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche. Drammatico epilogo dell’attacco nel quartiere diplomatico. La premier Hasina condanna l’attentato e indice due giorni di lutto nazionale
Dopo una notte di trattative fallimentari – ammesso siano mai iniziate veramente – il Bangladesh e il resto del mondo si sono svegliati con un bilancio durissimo dell’attacco alla Holey Artisan Bakery di Gulshan, quartiere diplomatico della capitale bangladeshi Dhaka.
Le vittime civili confermate sono venti: Faraz Ayaz Hossain, Abinta Kabir, Ishrat Akhond, bangladeshi; Tarishi Jain, indiana; Adele Puglisi, Marco Tonda, Claudia Maria d’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Rivoli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti, italiani; sette cittadini giapponesi, di cui mentre scriviamo ancora non conosciamo i nomi.
Con altri 13 superstiti (di cui tre stranieri, un giapponese e due cingalesi, fuggiti o rilasciati dai sequestratori, nella serata di venerdì si trovavano tutti nel noto locale «per occidentali», a poche centinaia di metri dalle ambasciate straniere che, in gran parte, occupano la zona di Gulshan, una sorta di ghetto al contrario dove upper class bangladeshi e stranieri vivono teoricamente protetti in un’«isola felice» all’interno della megalopoli di Dhaka. Secondo le ricostruzioni dei testimoni oculari, un gruppo di sette uomini armati ha attaccato il locale sparando in aria e lanciando granate al grido di «Allah akbar» («Dio è grande»), prima di chiudersi all’interno tenendo in ostaggio un totale di 33 persone.
Per tutta la notte l’esercito e la polizia bangladeshi hanno tentato una trattativa coi terroristi per la liberazione degli ostaggi, finché intorno alle sette di mattina le teste di cuoio hanno sfondato, uccidendo sei terroristi e arrestandone uno.
Durante la conferenza stampa indetta nella mattinata di ieri, il generale Nayeem ha dichiarato che, con ogni probabilità, le venti vittime del commando erano state uccise già nella nottata di venerdì e portavano segni da arma da taglio. Diversi testimoni tra chi è scappato dagli aguzzini hanno raccontato che il commando chiedeva ai sequestrati di «recitare il Corano»: chi ne era in grado veniva risparmiato, gli altri venivano «torturati». Un modus operandi che segna uno scarto inquietante rispetto alla sequela di attentati di matrice islamica che insanguinano il Bangladesh da oltre cinque anni, prendendo di mira professori universitari, blogger laici, fedeli hindu, cristiani, attivisti Lgbtq e, più recentemente, cooperanti internazionali come l’italiano Cesare Tavella e il giapponese Kunio Hoshi, vittime di attacchi lampo da parte di piccoli gruppi armati di machete, pronti a darsi alla fuga immediata in motocicletta.
La premier bangladeshi Sheikh Hasina ha condannato l’attentato, chiedendosi «che tipo di musulmani siano questi, che uccidono nel mese del Ramadan», mese di pace e di preghiera nella tradizione musulmana. Hasina, indicendo due giorni di lutto nazionale, ha esortato le varie forze politiche a unirsi contro la minaccia del terrorismo nel paese, sconfessando una linea che fino ad ora aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche, utilizzate come strumento per destabilizzare il governo.
Ad assedio ancora in corso, sui media internazionali, è partito il balletto delle rivendicazioni, nel tentativo di inserire l’attentato all’interno di una minaccia estremista netta e riconoscibile. Operazione che però, in Bangladesh, è di difficile esecuzione. Come solito, per quanto riguarda il Bangladesh, l’agenzia di intelligence privata statunitense Site ha divulgato una rivendicazione arrivata da Isis attraverso la propria agenzia di stampa Amaq. Ma nelle medesime ore, hanno notato i media bangladeshi, una serie di account Twitter vicini alla cellula terroristica Aqis (Al Qaeda in the Indian Subcontinent) esaltavano in diretta i fatti tragici di Dhaka.
Oggi è ancora difficile definire precisamente se il commando sia riconducibile a una cellula locale di al-Qaeda o di Isis o, ancora, se abbia agito in modo indipendente per poi lasciarsi cooptare, a livello mediatico, dalle una delle due sigle internazionali. Resta il fatto che un attacco condotto con tale perizia contro la facoltosa comunità expat di Dhaka segna un unicum nella storia del Bangladesh, mostrando in tutta la sua tragicità l’incapacità del governo in carica a Dhaka di opporsi efficacemente al terrorismo islamico locale.
Negando la presenza di Isis o al-Qaeda nel paese, le autorità la scorsa settimana avevano condotto una serie di raid in tutto il territorio, arrestando migliaia di presunti «terroristi» o simpatizzanti. Se doveva essere una dimostrazione di forza per incutere a sua volta terrore nelle «schegge impazzite» bangladeshi, l’epilogo del più grave attentato in territorio bangladeshi della storia recente dovrà obbligare l’amministrazione Hasina a un cambio di strategia netto.
LA PECULIARITÀ ASIATICA
di Simone Pieranni
Strage a Dhaka. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di radicalismo ha successo a causa della disintegrazione delle unità statali, delle identità culturali e per le devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le continue e reiterate lotte politiche interne hanno creato un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali di fare proseliti con sempre maggior successo
L’8 giugno scorso sul manifesto abbiamo pubblicato 8 pagine di uno speciale che aveva come tema proprio «l’Isis in Asia». Grazie alle nostre «antenne» in quelle aree del mondo sapevamo che alcuni paesi erano fortemente a rischio, mentre altri sembravano immuni per caratteristiche culturali e storiche. Altri ancora, come capitato nuovamente al Giappone (almeno sette i morti giapponesi nella strage di Dhaka), hanno «scoperto» il terrorismo islamista a causa delle vittime in attacchi fuori dal proprio paese.
Il Bangladesh è certo uno di quei paesi nel quale – nonostante le autorità lo abbiano sempre negato – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Purtroppo quanto accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non è una vera sorpresa. Le autorità locali hanno sempre minimizzato, eppure solo due settimane fa hanno proceduto all’arresto di 11mila persone sospettate di essere vicine a gruppi terroristici. Va però specificato un punto di partenza rilevante. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di «radicalismo» ha successo per la disintegrazione delle unità statali e delle identità culturali a causa delle devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh non è direttamente la guerra ma la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le reiterate lotte politiche interne a creare un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali ammantate di islamismo di fare proseliti con sempre maggior successo.
E il governo del paese, anziché favorire le attività dei sindacati e delle organizzazioni che lottano per i diritti civili, o di quei singoli o gruppi che si muoverebbero in quella direzione, nega il rischio e anzi colpisce con pugno duro le proteste che nascono da povertà e devastazione sociale, utilizzando i recenti attentati individuali per attaccare le opposizioni. In questo contesto sorgono diversi gruppi che si rifanno più o meno a Daesh o al Qaeda che nel Bangladesh si giocano una fetta importante del «mercato jihadista». Si tratta ad esempio di Jamaat ul Mujahidden Bangladesh o Ansarullah Bangla Team (considerato più vicino ai qaedisti). In Bangladesh il radicalismo vive dunque una situazione particolare, differente da altri contesti, perché nasce in ambito diverso.
Per questo è complicato leggere quanto accade: il terrorismo in Asia è differente da quello di altre zone del mondo e appiattire tutto in un unico blocco di analisi, senza distinguere origini e cause, non aiuta l’esatta comprensione del fenomeno. Un’ultima considerazione: definire, come ha fatto ieri Obama, «inevitabili conseguenze» le centinaia di morti «collaterali» dei raid effettuati con i suoi droni, aiuta davvero poco la condanna e il contrasto di questi efferati crimini.
BANGLADESH,
IL PAESE DELL’INGIUSTIZIA
di Emanuele Giordana
Strage di Dhaka. Salari minimi, scarsa capacità sindacale, pugno duro contro i diritti
Scrivi Bangladesh e dici povertà, ingiustizia, sovrappopolazione (150 milioni su un territorio grande la metà dell’Italia), alluvioni e inondazioni marine devastanti.
Dici Bangladesh e racconti una storia di risentimento sedimentato che diventa spesso violenza politica. Dici Bangladesh e pensi che la politica di quel paese è iperpolarizzata da quasi trent’anni e modellata su due partiti e, soprattutto, da due leader ormai ottuagenarie ma saldamente al potere. A turno: Sheikh Hasina dell’Awami League, un partito laico e nazionalista, e Khaleda Zia del Bangladesh Nationalist Party, organizzazione nazionalista e conservatrice.
Dici Bangladesh e vedi nella forza delle organizzazioni islamiste, a cominciare dalla Jamaat-e-Islami – formazione con status parlamentare – la capacità di raccogliere un consenso che nasce dalla frustrazione legata a un cambiamento che non si avvera e dove l’islam rappresenta una promessa di purezza e riscatto in una nazione che ha a lungo detenuto la palma del Paese più corrotto al mondo. C’è tutto quel che ci vuole per preparare il terreno e il brodo di coltura dove far crescere la trasformazione del risentimento in odio e violenza. Dove è facile insomma reclutare e, per un pugno di rupie, armare mani assassine. La strage del bar è un salto di qualità ma purtroppo non stupisce. La violenza politica è stata una costante in questo paese e negli ultimi anni, benché il governo di Hasina si ostini a negarlo, il brand di Daesh ha fatto parlare di sé molte volte con assassini mirati individuali e addirittura una lista di proscrizione di blogger, attivisti, intellettuali e insegnanti laici da far fuori.
Raccontata così però sarebbe una storia a metà, di quelle che si liquidano in fretta perché il paese è povero, sovrappopolato e per di più ingiusto e musulmano: abbastanza per derubricare il caso a vicenda di ordinaria povertà. Ma il Bangladesh è anche il luogo delle responsabilità nascoste che ancora una volta rimandano le radici dell’ingiustizia sociale a scelte prima coloniali e poi industriali.
Quel paese inizia la sua Storia «indipendente» nel 1947 quando la follia britannica, sostenuta da quella della Muslim League del subcontinente indiano, divide il nascente Pakistan in due Stati che distano tra loro…10 ore di volo. Il Pakistan orientale, abitato da bengalesi musulmani, con l’aiuto dell’India, si stacca dal Pakistan nel 1971 con una guerra sanguinosa le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate (sono stati giustiziati di recente molti capi della resistenza pro pachistana accusati di crimini contro l’umanità).
Il paese ha una solo vera ricchezza, la iuta, il cotone e una rinomata tradizione manufatturiera, che fanno di questo paese un enorme cantiere tessile. Ed è in Bangladesh che in tempi recenti sbarcano le multinazionali del tessile che hanno scelto la delocalizzazione in paesi che lavorano in conto terzi: salari minimi, materia prima di buona qualità a prezzi bassi, scarsa capacità sindacale, governi col pugno duro quando si rivendica un diritto.
Ci sono un nome, un luogo e una data che raccontano bene questa storia: Rana Plaza a Dacca, il 24 aprile del 2013. Un edificio commerciale di otto piani, figlio di abusi speculativi locali, crolla a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio è gravissimo e le operazioni di soccorso richiedono quasi un mese e si concludono il 13 maggio con un bilancio di oltre mille vittime e oltre duemila feriti, molti dei quali ormai menomati e inabili al lavoro.
Quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile e anche il più letale cedimento strutturale accidentale della Storia contemporanea, scoperchia anche le responsabilità di marchi europei, americani, italiani. Scoperchia il tema della sicurezza, dei diritti, dei risarcimenti che non arrivano. Farà aumentare il salario base ma lascerà anche intere famiglie sul lastrico. Eccolo un altro humus pieno di risentimento.
Nel Rana Plaza avevano i loro laboratori fabbrichette locali che lavoravano per grandi marchi internazionali. Loro a fare il lavoro sporco, gli altri a esibire t-shirt a basso prezzo con la griffe. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione (in Italia la Ong «Abiti puliti»), se non si fosse mosso l’Ufficio internazionale del lavoro dell’Onu, la storia si sarebbe dimenticata in fretta. E, in queste ore, pochi la mettono in relazione alla strage di due giorni fa nella capitale. Eppure.
Eppure il Bangladesh è anche questo: la tragedia del Rana Plaza fa firmare a circa 160 compagnie il Fire and Building Safety, un primo passo per mettere in sicurezza strutture e forza lavoro che, nel tessile, conta circa 4 milioni di operai e operaie. Ma, dalle colonne del britannico Guardian, Tansy Hoskins, autrice del saggio Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, avverte che nonostante vi sia un elevato numero di sindacati del settore, sono pochi i lavoratori che vi aderiscono, il che li lascia vulnerabili agli abusi in fabbriche poco sicure.
Anche un sindacato importante come la National Garment Workers’ Federation deve affrontare grandi ostacoli perché per registrare un’organizzazione al Dipartimento del lavoro si deve nel contempo avere come soci un terzo della forza lavoro: insomma se vuoi registrati come attivo in una fabbrica con 10mila lavoratori ne devi avere come soci almeno 3mila… ma in Bangladesh se ti iscrivi rischi – dopo le minacce – il licenziamento. E una volta per strada, da vittima del mercato, è facile diventare il soldatino di qualche Califfo in cerca di nuovi sodali.
«Come 150 anni or sono i giovani del Sud distrussero le proprie vite per fermare l’orrore di una nazione che voleva accettare l’inaccettabile, gli schiavi, le bestie da lavoro, come cittadini».
La Repubblica, 13 giugno 2016 (m.p.r.)
Per ritrovare una strage come il massacro di Orlando per quantità di vite falciate e per la natura scientifica dell’azione omicida, si devono saltare 150 anni e tornare ai “killing fields” della Guerra di Secessione o al massacro dei 168 innocenti nel palazzo del governo a Oklahoma City nel 1995. Il filo spaventoso che lega questi eventi tanto lontani e apparentemente diversi è in realtà lo stesso: è l’odio che diventa rifiuto, che diventa guerra contro coloro che sono, per religione, interessi, valori, cultura, razza, ideologia, faccia, “diversi”.
Se guardiamo da vicino gli attacchi del terrorismo che chiamiamo islamico, dopo l’orrore ineffabile dell’11 settembre 2001, le azioni successive - in Usa come altrove - hanno tutte come protagonisti non “alieni” piovuti da una lontana galassia, un tempo chiama al-Qaeda, poi Stato Islamico (Is) o Daesh. Sono il maggiore della Us Army Nidal Hasan che uccise tredici commilitoni nella base di Fort Hood, i fratelli Tsarnaev che bombardarono la americanissima Maratona di Boston, i coniugi Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik che insanguinarono San Bernardino e ieri Omar Mateen, che ha svuotato un arsenale contro gli ospiti del Pulse di Orlando, una delle più celebri “Cage aux Folles”, di locali preferiti dalla comunità Lgbt.
Tutti questi macellai, si noti, hanno fra loro due cose in comune: sono tutti cittadini americani a pieno titolo, non “illegali”, “clandestini”, “profughi”, nati cresciuti e marinati nel calderone della cultura americana. E gli obiettivi sono tutti luoghi altamente simbolici di come sta evolvendo questa cultura, fra strappi, resistenze e rancori: l’Esercito, i Centri Pubblici e Laici di assistenza, le feste della tradizione patriottica come a Boston, la sempre più diffusa accettazione e dunque normalizzazione della sessualità e dell’amore in tutte le sue manifestazioni.
È dunque una guerra civile, quella che una generazione di nuovi americani con nomi non più anglo, vuole condurre contro il Male che essi, fondamentalisti fanatici o ideologici, dal wahabismo al fascismo, vedono crescere e impadronirsi di un’America pagana e materialista che li manda in bestia, come 150 anni or sono i giovani del Sud distrussero le proprie vite per fermare l’orrore di una nazione che voleva accettare l’inaccettabile, gli schiavi, le bestie da lavoro, come cittadini. E ora vorrebbe riconoscere pari dignità a omosessuali, trans, lesbiche, demolitori di famiglie e di timor di Dio.
Per questo, la guerra al terrorismo interno, che si nasconde e insieme si manifesta sotto bandiere lontane e per questo s’illude di darsi una dignità storica e mistica, sarà lunga e difficilissima da combattere, perché non è una guerra di cannoni e droni fra noi e loro, ma di valori, come fu la Guerra di Secessione del 1860, nella quale si combatté in perfetta buona fede per difendere la libertà immaginaria, la più difficile a cui rinunciare e soprattutto la propria identità di gruppo o di clan.
I criminali di Columbine o di Aurora nel Colorado e la falciatura di gay e lesbiche nel “Pulse” di Orlando nel nome del Profeta - la stessa città dove ieri l’altro fu spenta l’innocua vocetta di una piccola stella del pop da talent show - sono azioni di retroguardia, cruente e pericolosissime, ma di retroguardia, condotte con il volto girato verso un passato che non può mai più tornare, ma che i cultori neonazi dell’America Bianca e i nuovi americani missionari della purificazione morale a colpi di Corano calibro nove continueranno a combattere. È la nuova Mein Kampf 2.0.
Trovano ora per la prima volta anche nei grandi imbonitori della politica ufficiale voci che li incoraggiano a condurre la nuova guerra civile e massacrare, per ora simbolicamente, i nemici, quali che essi siano, di volta in volta. Per rifare l’America Grande per gli obitori e i muri e le Glock calibro 9 per tutti, come vuole Donald Trump.
«Che ruolo ha nelle zone di guerra una disciplina nata per costruire? Come si possono individuare ingiustizie e violazioni dei diritti studiando gli edifici? La riflessione di un esperto israeliano
». La Repubblica, 30 maggio 2016 (c.m.c.)
Forensic Architecture è il nome di un’agenzia di ricerche che ho inaugurato nel 2010 con un gruppo di colleghi architetti, registi, giornalisti investigativi, scienziati e avvocati. Portiamo avanti indagini indipendenti facendoci largo tra i segreti e le ammissioni negate della violenza di Stato nel contesto di un conflitto armato. Agiamo su commissione dei pubblici ministeri internazionali e lavoriamo con gruppi per i diritti umani in diversi posti del mondo: sulla guerra segreta dei droni in Pakistan, Afghanistan, Yemen, Somalia, Siria e Gaza; sulle tracce del genocidio nella ex Jugoslavia e in Guatemala; seguiamo le barche disperse nel Mar Mediterraneo e produciamo prove in relazione alla distruzione ambientale in Brasile e in Indonesia.
Come architetto israeliano, tuttavia, il mio lavoro nel campo dell’architettura forense si è sviluppato nel lungo periodo di attivismo in Palestina. Molti dicono che la Palestina sia un laboratorio dei meccanismi di controllo e che gli israeliani esportino queste tecniche in tutto il mondo. Ma è stato anche un laboratorio di resistenza e di attivismo. Inoltre, il conflitto palestinese ha sempre avuto una specificità architettonica che coinvolge sia la costruzione che la distruzione. Essa si articola, da una parte, nella progettazione di insediamenti ebraici che lacerano, avvolgono e isolano le comunità palestinesi privandole degli spazi aperti, dei paesaggi e delle risorse idriche.
Gli architetti e i progettisti sono sempre stati coinvolti in questa violenza, in questa violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. È sul tavolo da disegno che i loro crimini sono stati commessi con i semplici gesti dell’architettura: tracciando delle linee sulla carta. La violenza concepita nel disegno è stata poi trasferita sul terreno.
E, dall’altra parte, la violenza militare israeliana oggi ha luogo quasi esclusivamente nelle aree urbane, e dunque comporta la distruzione di case, di quartieri e di infrastrutture. Quando una città — Gaza, Rafah o Ramallah in Palestina, ma anche Miranshah in Pakistan o Aleppo in Siria — diventa bersaglio della violenza militare, i civili muoiono negli edifici. La maggior parte delle vittime delle guerre di oggi muore nella propria casa. Questi edifici non sono solo il luogo della violenza, ma il mezzo con cui la violenza colpisce: le persone muoiono colpite dai frammenti delle loro case.
Quando la polvere si posa, queste rovine diventano indizi e prove, il mezzo più importante per ricostruire ciò che è avvenuto e per articolare rivendicazioni politiche e legali contro l’aggressore. Mentre la violenza architettonica insita nella pianificazione e nella costruzione degli insediamenti è lenta, l’analisi architettonica può anche essere utilizzata con ritmi più veloci e in scala più piccola.
L’architettura è fondamentale per capire le varie forme in cui esplode la violenza urbana: invasioni, incursioni notturne, sparatorie e uccisioni di manifestanti disarmati, omicidi mirati, attentati e bombardamenti contro quartieri abitati da civili. L’architettura è anche un buon mezzo per rispondere a un cambiamento nel modo in cui i conflitti diventano visibili.
Negli ambienti urbani di oggi compaiono moltissime telecamere, soprattutto di privati cittadini, che registrano ogni evento da diverse prospettive. In effetti, le prove più rilevanti oggi sono prodotte dai civili, soprattutto sotto forma di immagini e video. Prendere questo tipo di immagini nel contesto del conflitto palestinese è pericoloso. I giornalisti palestinesi e i cittadini giornalisti che scattano fotografie di soldati israeliani vengono regolarmente arrestati, picchiati, minacciati e subiscono la confisca delle loro attrezzature.
L’architettura può offrire un metodo per comporre e assemblare i diversi elementi multimediali che si raccolgono. Ci riferiamo alla ricostruzione di un rapporto dinamico spazio-tempo tra queste immagini come al complesso dell’immagine architettonica. La maggior parte dei video che vengono trasmessi o diventano virali su internet contengono, in un singolo fotogramma, tanto l’immagine dell’aggressore che quella della vittima.
Ma per ogni immagine che include chi colpisce e chi viene colpito, chi spara e chi viene ferito, ce ne sono molte altre dove compare solo uno o l’altro, o abbiamo solo l’audio, o quello che è accaduto prima e dopo il fatto. La loro relazione con altre immagini e l’avvenimento principale non è evidente. È più difficile vedere e capire i fatti che scivolano tra le immagini, e queste immagini, che contengono informazioni parziali, sono spesso scartate come inutili.
A volte possiamo trovare, sincronizzare e riassemblare delle immagini per ricostruire visivamente e vir- tualmente degli eventi nello spazio. Vedere in questo contesto richiede una costruzione e una composizione — come l’architettura. Fare delle indagini su specifici avvenimenti in una storia di colonizzazione, di dominio, di separazione e di violenza lunga decenni e tuttora in atto — come il conflitto palestinese — può sembrare inutile: ogni giorno porta nuove esplosioni di violenza e crea nuovi cumuli di macerie. Inoltre, raramente c’è un meccanismo efficace a cui rivolgersi per avere giustizia e definire le responsabilità. Indagare su degli episodi richiede di poter lavorare con calma e in modo sistematico, con tempi lenti che consentano di esaminare i minimi dettagli.
Come pratica politica, l’architettura forense sembra offrire l’ottimismo di un anatomo-patologo. Potrebbe sembrare un motivo di disperazione, questa grande impasse politica in cui ci troviamo, o perfino un’allegoria dello stato della sinistra oggi. Ma una patologia degli eventi non vuole solo documentare il modo preciso e la misura delle atrocità. Essa vuole anche mettere in evidenza i tentativi politici e sociali di negarle. E la negazione non è semplicemente un rifiuto di fare i conti con i crimini del passato. La negazione è anche la condizione per poter continuare a usare la violenza in futuro. Se uno non ha fatto nulla di male, può tranquillamente continuare a farlo.
Le persone che rischiano la propria vita per prendere delle immagini e pubblicarle fuori dallo spazio in cui sono represse e incarcerate — come se fossero dei messaggi in una bottiglia, senza sapere se, da chi e quando i loro messaggi saranno visti — meritano in modo particolare la nostra massima attenzione. Dobbiamo leggere questi messaggi il più attentamente possibile, benché il loro contenuto sia difficile da guardare, anzi, proprio per questo, e quando ricostruiamo certi avvenimenti dobbiamo anche ricostruire il mondo a cui appartengono.
Gli orrori dell'Occidente, esportatore di libertà, fraternità, eguaglianza, e modello su cui plasmare le civiltà altrui. E arruolatore di bambini in eserciti privati assunti dai governi per combattere in M.O.. Leggete per comprendere. Indro online, aprile 2016
Impala. Nonostante tutte le precauzioni prese dallo Stato Maggiore e dal Governo britannico l’arruolamento di ex bambini soldato della Sierra Leone come mercenari per guerre segrete in Iraq e Medio Oriente è diventato uno scandalo di proporzioni internazionali, reso pubblico dal quotidiano The Sierra Leone Telegraph ‘e ripreso dal quotidiano inglese ‘The Guardian‘. La società di sicurezza privata AEGIS Defences Services per dieci anni (2005 – 2015) ha reclutato ex bambini soldato della Sierra Leone trasformandoli in mercenari inviati in Iraq per combattere nel contesto dell’invasione anglo-americana che abbatté il regime di Saddam Hussein. Il Direttore della AEGIS è Sir Nicholas Soames, un parlamentare della destra Tory Party e nipote del Primo Ministro Winston Churchill. Gli ex bambini soldati africani hanno combattuto nel contesto di contratti di ‘assistenza militare‘ tra la AEGIS e il Pentagono per svariati milioni di dollari.
Gli ex bambini-soldato venivano addestrati dal contingente militare britannico presente in Sierra Leone per mantenere la pace nel Paese e proteggere la popolazione. Dopo l’addestramento venivano inviati in Iraq per completare i ranghi di mercenari inglesi, americani e nepalesi arruolati dalla AEGIS tra le fasce più deboli della popolazione dei tre rispettivi Paesi. La compagnia paramilitare britannica applicava una discriminazione razziale sulla paga dei mercenari africani pari a 16 dollari al giorno, i loro camerati nepalesi, infatti, venivano pagati 25 dollari e i mercenari occidentali 100 dollari. Nonostante questa palese discriminazione sul trattamento economico per una delle professioni più pericolose al mondo, 2.500 ex bambini soldato sierraleonesi hanno firmato il contratto con la AEGIS causa la totale mancanza di prospettive professionali nel loro Paese.
Tra coloro che avrebbero favorire il reclutamento e tollerato le attività della AEGIS spicca il nome del Presidente sierraleonese Ernest Bai Koroma, accusato di aver escluso la maggioranza della popolazione dai benefici della ricostruzione post bellica e ripresa economica. La compagnia di sicurezza internazionale AEGIS è stata fondata nel 2002 da Tim Spicer, un ex ufficiale delle Guardie Scozzesi al centro di uno scandalo scoppiato nel 1998 riguardante vendite illegali di armi inglesi in Sierra Leone, attuato dalla ditta Sandline di cui Spicer era direttore. Nonostante l’embargo internazionale imposto al Paese africano, Spicer vendette al Governo e ai ribelli 100 tonnellate di armi e munizioni. Evitò la prigione grazie all’amicizia con il nipote di Churchill, che nel 2003 divenne socio della AEGIS, assumendo il ruolo di direttore. Il reclutamento della AEGIS in Sierra Leone è stato facilitato dall’Esercito britannico, dal Governo di Freetown e da personale militare della Missione di Pace ONU in Sierra Leone (UNAMSIL), che aveva il compito di demobilizzare i 10.000 bambini soldati reclutati durante la guerra civile.
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Small Boys Unit |
Secondo indagini di giornalisti della Sierra Leone l’arruolamento degli ex bambini soldati effettuato dalla AEGIS è stato particolarmente selettivo e avente l’obiettivo di reclutare i ‘migliori’ ex bambini-soldato. La maggioranza dei mercenari sierraleonesi ha un passato di guerriglieri militanti nel Revolutionary United Front (RUF) la guerriglia che fece scoppiare la guerra civile nel 1991, terminata nel 2002. Il RUF rapiva minori tra i 07 e i 15 anni costringendo i maschi a diventare soldati, e le femmine, prostitute.
Sommariamente addestrati venivano inquadrati in unità di combattimento note come Small Boy Unit. Il vero addestramento militare avveniva ‘on the job’ facendo pratica sul fronte. Inizialmente gli Small Boys venivano impiegati in operazioni di terrorismo contro i civili nei villaggi e cittadine conquistate dal RUF. Dopo essersi accertati della ferocia e della capacità di uccidere a sangue freddo decine di civili inermi, i comandanti del RUF impiegavano le unità minorili in veri e propri combattimenti contro l’Esercito regolare e i mercenari sudafricani.
I comandanti del RUF distribuivano ai minori alcool e droghe allucinogene durante l’addestramento e i combattimenti. Usavano, inoltre, una brutale disciplina fatta di esaltazioni dei minori, punizioni corporali e privazioni di cibo per trasformare i bambini in macchine da guerra capaci di eseguire automaticamente ordini di sterminio, stupri collettivi, mutilazioni e altri crimini di guerra. Negli addestramenti si insegnava come mutilare le persone utilizzando civili fatti prigionieri in precedenti razzie compiute dal RUF. Anche l’Esercito regolare ha fatto uso di bambini-soldato, anche se in proporzioni minori e limitando l’arruolamento al sedicesimo anno di età. Si calcola che 10.000 bambini hanno preso parte alle operazioni belliche sui opposti fronti durante il conflitto della Sierra Leone. Il Tribunale Speciale per la Sierra Leone ha inserito il reclutamento dei minori nei capi d’accusa rivolti ai leader del RUF, processati per crimini contro l’umanità inserendo nelle procedure giudiziarie il concetto di responsabilità personale come previsto dallo e dalla Convenzione dei Diritti dei Minori
L'Italia di Renzi e la Francia di Hollande unite nell'appoggio al massacratore di Giulio Regeni e chiunque minacci di svelare il carattere repressivo del loro sanguinario compare d'affari egiziano. Chi da questi affaci ci erde lo sappiamo: Mazzeo ci ricorda chi ci guadagna. Contropiano.org, 9 aprile .2016
“Non siamo disposti adaccettare verità distorte e di comodo e se non ci sarà un cambio di marcia daparte degli inquirenti e delle autorità dell’Egitto, il governo potrà ricorrerea misure immediate e proporzionate”. Il 5 aprile 2016, intervenendo al Senatosul caso di Giulio Regeni, barbaramente torturato e ucciso al Cairo il 25 gennaio,il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha promesso il massimo sforzo per farluce sui mandanti e gli esecutori dell’omicidio del nostro giovaneconnazionale. Dopo il rifiuto degli inquirenti egiziani di consegnare i tabulatidi una decine di utenze telefoniche, il premier Renzi ha richiamato in Italia l’ambasciatoreal Cairo, Maurizio Massari. Per tanti analisti, il governo – stavolta – sembravoler fare sul serio.
Peccato però che ad oggi non esista atto concreto cherimetta in discussione la consolidata partnership politico-militare-industrialetra Italia ed Egitto o quantomeno congeli i trasferimenti di sistemi d’armapesanti e leggeri alle forze armate e di polizia del sanguinario regime diAl-Sisi. Al contrario, nelle stesse ore in cui il ministro Gentiloni faceva lasua minacciosa sortita in Parlamento, un’azienda leader nel settoreaerospaziale controllata in parte dalla holding Finmeccanica, Thales Alenia Space,annunciava la firma di un contatto di 600 milioni di euro per la fornitura di unsistema di telecomunicazione militare satellitare al governo egiziano.
L’accordo è stato raggiunto nel corso della recente visita al Cairo delpresidente Francois Hollande, sicuramente uno dei più accreditati sostenitoriinternazionali dei dittatori d’Egitto. Oltre al satellite co-prodotto da Italiae Francia, Hollande si è impegnato a fornire ai militari egizianicacciabombardieri e unità navali. In particolare, i cantieri francesi DCNSconsegneranno nel 2017 una corvetta tipo “Gowind 2500” a cui seguiranno altretre unità dello stesso tipo prodotte nei cantieri egiziani di Alessandria trail 2018 e il 2019.
La commessa ha un valore superiore al miliardo di euro, acui si aggiungeranno altri 3-400 milioni per la fornitura dei sistemi da combattimentoche in buona parte saranno prodotti da imprese controllate interamente oparzialmente dal colosso Finmeccanica. Le quattro corvette “Gowind” sarannoarmate infatti con cannoni 76/62 Super Rapido di Oto Melara (società diFinmeccanica S.p.A. con stabilimenti a Brescia e La Spezia), missili antinaveMM 40 Block 3 Exocet e VL MICA di produzione MBDA (Matra BAEDynamics Alenia),il maggior consorzio europeo nel settore missilistico, controllato per il 75%da Aibus e BAE System e per il restante 25% da Finmeccanica. Alla marinamilitare egiziana è giunta pure una fregata multiruolo tipo FREMM realizzatanei cantieri navali del gruppo DCNS. Anche in questo caso molti dei sistemi dicombattimento parleranno italiano. La nuova fregata sarà armata con i cannonida 76 millimetri Super Rapido di Oto Melara, con i missili antiaerei superficie/ariaAster 15 di Eurosam (un consorzio europeo formato da MBDA e Thales), con quellida crociera Scalp Naval e antinave Exocet MM40 (di produzione MBDA) e con isiluri anti-sommergibili MU90 (prodotti dal consorzio Eurotorp, costituitodalle società Thales e DCNS e dalla Wass di Livorno del gruppo Finmeccanica).
Proprio grazie alle commesse missilistiche per la fregata FREMM all’Egitto eper i cacciabombardieri Rafale che la Francia fornirà al regime del Qatar, ilconsorzio MBDA - Matra BAE Dynamics Alenia ha registrato nel 2015 un fatturatorecord di 5,2 miliardi di euro. Nel 2013, un’altra importante azienda delgruppo Finmeccanica, AgustaWestland, si assicurò un contratto di 17,3 milionidi dollari per la manutenzione e l’assistenza al parco elicotteri delle forzearmate egiziane. A fine 2012, sempre AgustaWestland consegnò all’Egitto dueelicotteri AW139 in configurazione ricerca e soccorso (SAR) e trasporto truppe,armamenti e materiali. Il contratto, per un valore di 37,8 milioni di dollari,fu sottoscritto con U.S. Army Aviation and Missile Command (AMCOM), il comandoaereo e missilistico dell’esercito Usa che trasferì poi alle autorità egizianei due mezzi italiani attraverso il programma Foreign Military Sales (FMS). AdAgustaWestland furono pure assegnate le attività addestrative dei piloti e delpersonale di terra e la fornitura delle attrezzature e dei ricambi necessariper la messa in servizio degli elicotteri. Nel dicembre 2010, anche l’aziendaDRS Technologies, con sede e stabilimenti negli Stati Uniti d’America mainteramente controllata da Finmeccanica, firmò con l’esercito Usa un contrattodi 65,7 milioni di dollari per consegnare alle forze armate egiziane veicoli,sistemi di sorveglianza e altre apparecchiature elettroniche.
“L’Italia èl’unico paese dell’Unione europea che, dalla presa del potere del generaleal-Sisi, ha inviato armi utilizzabili per la repressione interna nonostante la sospensionedelle licenze di esportazione verso l’Egitto decretata nell’agosto del 2013 dalConsiglio dell’Unione europea”, denunciano laRete italiana per il disarmo el’Osservatorio permanente armi leggere (Opal) di Brescia. “Nel 2014 l’Italia hafornito alle forze di polizia egiziane 30.000 pistole, prodotte nel bresciano enel 2015 di 3.661 fucili, per la maggior parte prodotti da un’azienda inprovincia di Urbino. Nel 2012 il valore delle esportazioni di armi italianeall’Egitto ha raggiunto i 28 milioni di euro e ha riguardato fucili d’assalto elanciagranate della Beretta, munizioni della Fiocchi, blindati della Iveco diTorino e apparecchiature specializzate per l’addestramento militare”.
Sempresecondo i ricercatori della Rete per il disarmo e di Opal, nel 2011 il governoitaliano autorizzò l’esportazione alle forze armate egiziane di 14.730 colpi completiper carri armati a cui si aggiunsero l’anno successivo 692 colpi con spolettapiù altri 673, tutti prodotti da Simmel Difesa di Colleferro, Roma. Sempre nel2011, fu autorizzata l’esportazione di 355 componenti per la centrale di tiroSkyguardper missili Sparrow/Aspide a cui sono seguiti, nel 2012, altre 1.000 componentiper la stessa centrale di tiro prodotta dalla Rheinmetall Italia Spa di Roma.Quello stesso anno il governo italiano autorizzò pure l’esportazione di 55 veicoliblindati Lizard prodotti dalla società Iveco, attrezzature del cannone navale 76/62Super Rapido di Oto Melara e apparecchiature elettroniche e software di SelexElsag (oggi Selex ES), altra azienda del gruppo Finmeccanica. http://antoniomazzeoblog.blogspot.it
Riflessione sulla difficoltà di fare seriamente politica quando l'irrazionalità e la somma dei fanatismi si sono impossessati del campo e una sinistra unita non c'è. Il manifesto, 27 marzo 2016
Più passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle donne e agli uomini le cui vite sono state cancellate come fossero cose, sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o appena filtrati al suo interno, che ne avranno – ne hanno già! – la vita sconvolta. E con loro i 20 milioni di musulmani che abitano le città d’Europa, a cui con voci sempre più sguaiate si chiede di negare status di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite di coloro nel nome del cui dio dice di combattere).
Dovrebbero essere loro, migranti vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza strategica) c’illuminasse. Quelli più interessati, in nome della tutela del proprio «stile di vita», a disseccare questa radice velenosa dell’odio da cui hanno tutto da perdere.
Così come, simmetricamente, dovrebbe essere chiaro che i migliori alleati dei nostri nemici, quelli che ne moltiplicano le potenzialità di reclutamento e ne consolidano l’illusoria identità non sono tanto, o comunque non sono solo, i «loro» imam radicali, i predicatori di banlieu facilmente controllabili anche dal più scalcinato servizio d’intelligence, ma i «nostri» seminatori d’odio. Quelli della guerra santa simmetrica e reciproca. Sono loro a precostituire nell’immaginario collettivo le condizioni per la crescita esponenziale di Daesh come materializzazione della guerra. A costituirne le basi psicologiche per l’arruolamento.
Se è vero che la «guerra» in corso è, soprattutto e in primo luogo, una guerra di «narrative» (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in rapporto alla forza d’attrazione di un «racconto».
E se il «racconto» del nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra preventiva con i seguaci dell’unico e vero dio – retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica -, allora ogni parola di guerra pronunciata dal nostro campo, tanto più se non sostenuta da azioni conseguenti ed efficaci (e come potrebbero esserlo oggi?), è manna dal cielo per quell’identità ostile. Ne fornisce la materia prima di cui strutturarsi e consolidarsi.
Non per nulla Daesh usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo stesso potrebbe fare con quelli di Matteo Salvini. E di Marine LePen. O dei variopinti demagoghi populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla retorica degli «stivali sul terreno» rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate di un Hollande in stile guerriero nonostante se stesso.
Sono loro oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo dirlo con chiarezza.
Sono loro i ghost writer della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno – nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale – i materiali linguistici per la trama di una storia infinita e sempre uguale, che batte sempre sullo stesso tasto: la distruzione dell’Altro. E che prima o poi quel vaso di Pandora che ha riempito di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di «vertigine».
Torna in mente un vecchio saggio di Roger Caillois, scritto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, intitolato appunto Vertiges, dove s’intendeva con quel termine l’irresistibile attrazione per cui «l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione stessa del proprio annientamento» che «lo priva del potere di dire di no». È lo stesso istinto autodistruttivo per cui l’insetto è attratto dalla fiamma che lo ridurrà in cenere, l’uccello dallo sguardo del serpente che lo divorerà. E l’uomo dalla fascinazione del vuoto… La forza cieca della sorte per il giocatore coattivo. L’inaccessibile impassibilità della femme fatale per l’innamorato senza speranza, nel campo dei comportamenti individuali. Per le società, invece, la Guerra.
Il punto zero dell’esistenza in cui ciò che si considera inevitabile trova infine compimento nel trionfo del nulla. In ogni caso il denominatore comune della vertigine è innanzitutto la distruzione dell’autonomia: una «fatale paralisi» di fronte alla sollecitazione dell’abisso. E l’antidoto – risorsa rara – è una volontà capace di restare «padrona di sé», conservando «l’indipendenza, l’energia e l’iniziativa». Cioè quello che dovrebbe essere la Politica (il condizionale è d’obbligo), quando fosse capace di rimanere fedele al proprio profilo più nobile: la vocazione a perseguire il «bene comune», per arduo che ciò sia.
Per questo noi de l’Altra Europa con Tsipras abbiamo messo al centro della nostra recente assemblea nazionale a Milano la riflessione su cosa voglia dire «fare politica in tempi difficili». Che non sono i tempi in cui l’avversario contro cui lottiamo è infinitamente più forte di noi, a questo siamo in fondo abituati da sempre. Ma quelli in cui il quadro politico e sociale – persino culturale, e potremmo dire ‘antropologico’ – in cui ci muoviamo si decompone e si sfarina. Quando i fronti lungo i quali si definiscono gli amici e i nemici mutano rapidamente, si spezzano e ricompongono, e la nostra stessa comunità rischia di decomporsi e sfarinarsi, i rapporti di fiducia di logorarsi e spezzarsi, e si stenta a vedere gli alleati e i compagni di strada. Quando si finisce per non riconoscersi più… l’un l’altro!
Sono i tempi in cui si passa da una situazione che Gramsci avrebbe chiamato di «guerra di posizione» – in cui si confrontano blocchi ancora strutturati (neoliberismo contro resistenza sociale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia – a una di «guerra manovrata» o «di movimento» in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità di pensiero.
In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni ’40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno dell’odio tra i popoli, ricordava come, un tempo, Atene avesse saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, «rompere solennemente con quella tradizione che metteva le nazioni le une contro le altre» perché nessuno potesse accusarla di preferire «gli interessi di Atene al diritto altrui» («Nella lotta contro Filippo avrebbe avuto le mani pulite»). E avesse così proposto «ai forti, agli audaci, agli austeri di unirsi su tutta la terra per instaurare il loro governo sulla moltitudine dei soddisfatti e dei mediocri».
Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di quella rinascita. Un solo vuoto: l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente.
Se i governi di «quell’Europa senz’anima che tanto ha fatto per spianare la strada ai terroristi» fornendo loro carburante ideologico e carburante finanziario cambiasse strada la guerra potrebbe essere vinta, magari contro gli interessi di chi la guerra la vuole per rafforzare il proprio potere interno. Il Fatto quotidiano, 24 marzo 2016
Amaramente paradossale risulta la circostanza che l’ultimo bersaglio dell’Isis sia costituito da Bruxelles, capitale di quell’Europa senz’anima che tanto ha fatto per spianare la strada ai terroristi, fornendo loro carburante ideologico con le sue guerre d’aggressione ma anche carburante finanziario. Da questo secondo punto di vista risulta ancora più amaramente paradossale la circostanza che i terroristi abbiano compiuto questa nuova strage proprio all’indomani dell’accordo raggiunto con uno Stato, la Turchia, in cui sono stati recentemente arrestati due importanti giornalisti proprio per aver messo sotto accusa legami e sostegni fra il regime di Erdogan e i tagliagole.
Quanti dei tre miliardi che l’Europa tremebonda si accinge a regalare al Sultano nella speranza, del tutto infondata, che la salvi dal “flagello” dei profughi da essa stessa provocati, finiranno nelle tasche dei terroristi? Quante delle armi e degli esplosivi che le avide industrie degli armamenti europei riversano negli arsenali delle tirannie del Golfo non vengono poi destinati ai terroristi? Peraltro, come acutamente sostenuto da David Graeber sul Guardian, la Turchia si applica sistematicamente da tempo a smantellare, mediante da ultimo il ricorso anche a gas venefici, le sole forze realmente intenzionate e capaci di combattere il terrorismo sul terreno, come hanno ampiamente dimostrato a Kobane ed altrove, e cioè le combattive milizie popolari kurde del PKK, del’YPG e dell’YPJ.
E l’Europa assiste senza battere ciglio, anzi appoggia il Sultano in ogni sua mossa. Questa Europa non è solo codarda, ma anche autolesionista. O meglio, si può a questo punto anche dubitare che sia interesse e volontà di governi sempre più screditati proteggere le vite dei propri cittadini. Si può ipotizzare che qualcuno abbia pensato che, in fondo, il clima di panico instaurato dalle organizzazioni terroristiche possa essere utilizzato per far digerire all’opinione pubblica qualsiasi misura antipopolare.
Da che mondo è mondo lo stato di guerra mette a tacere ogni opposizione e sempre più si parla, anche se a sproposito, di guerra. Fatto sta che gli attentati di Bruxelles e prima ancora quelli di Parigi, hanno dimostrato la totale assenza di una politica della sicurezza da parte di agenzie pure strapagate ma piene a quanto pare di incompetenti e cialtroni. Eppure non mancano, in Italia e altrove, professionalità di alto livello nel settore. Ma è probabile che i mediocri governanti del continente in crisi preferiscano affidarsi a loro pari, anziché dare fiducia e spazio alle persone capaci e intelligenti.
È sotto gli occhi di tutti quello che Alberto Negri, sul Sole24 Ore, definisce il fallimento dell’intelligence europea. Non si può non essere d’accordo con lui quando afferma che la guerra al terrorismo lanciata da Bush junior ha moltiplicato i gruppi terroristici e che “la ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord.
Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero”. Aggiungerei che questa guerra intelligente va fatta con le armi dell’informazione e dell’acquisizione del consenso, ma per vincerla nulla di meglio che inondare di denaro, armi e sostegno politico, i padrini dell’Isis, mentre assistono silenziosi e complici al massacro di chi contro l’Isis si è battuto e continua a battersi con onore e con successo. Occorre quindi rivedere a fondo la politica estera e quella interna dell’Unione. Va attuato, e sarebbe ora, un effettivo coordinamento delle agenzie di sicurezza che, oltre che inefficaci e poco disposte a collaborare fra di loro, si mostrano in alcuni casi scarsamente trasparenti.
Il coordinamento delle iniziative sulla sicurezza, peraltro, accogliendo l’auspicio di Putin, va realizzato anche in sede internazionale. Va inoltre realizzato un capillare controllo del territorio in collaborazione con le organizzazioni sociali, anche e soprattutto quelle delle immigrati, il che richiede un approccio nuovo al tema delicato e cruciale dell’integrazione, respingendo ogni tentazione di indulgere alla “guerra fra le civiltà”, che costituisce il regalo più ambito per i terroristi. Per dirla con Tommaso Di Francesco sul manifesto: “Si ferma lo Stato islamico solo togliendogli da sotto i piedi il terreno fertile della guerra e dell’odio”. dobbiamo trasformare l’Europa e sottrarla all’attuale cricca
«L’Europa dovrebbe decidere che cosa proporre ai musulmani, se ostilità etnica o collaborazione politica per costruire insieme un percorso di libertà. Tutto questo appare oggi toppo complicato, troppo impegnativo. Più facile gridare ‘siamo in guerra’ e incrociare le dita, sapendo bene che la prospettiva più ovvia è l’attesa della prossima strage».
Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2016 (m.p.r.)
«Siamo in guerra», come sosteneva ieri mattina Manuel Valls dando il primo colpo al tamtam delle dichiarazioni forti che rimbomberanno stamane nelle prime pagine? Le apparenze non smentiscono il primo ministro francese. Le scene stralunate dei massacri di Bruxelles ricordano troppo le città siriane bombardate. E i terroristi hanno confermato un’efficacia militare così devastante da sbriciolare un'illusione durata appena tre giorni: la cattura e il pentimento di Salah Abdeslam, ricercato per gli attentati di Parigi del novembre scorso, non ha impedito all’Isis di colpire l’Europa nel suo cuore politico, a due passi dai palazzi dell’Unione, insomma in uno dei luoghi più sorvegliati del continente.
Eppure mai come in questi momenti sarebbe necessario un linguaggio limpido: e quel «siamo in guerra» non gli appartiene. La formula piace molto, anche per la capacità di evocare l’attacco asimmetrico che ci muove un quasi-Stato, il Califfato, costringendo una capitale europea a tapparsi in casa. Ma è opaca, ambigua. Non è chiaro dove conduca. Essendo la guerra l’unica condizione nella quale una democrazia liberale può limitare lo stato di diritto, quel «siamo in guerra» potrebbe alludere alla necessità di leggi d’emergenza, la strada già imboccata dal governo francese. Ma è perlomeno dubbio che questa soluzione aiuti, anzi può risultare perfino controproducente se si traduce in condotte autoritarie della polizia.
Oppure «siamo in guerra» vuole incitarci ad attaccare l’Isis nei suoi territori, la Libia, il Siria. La soluzione militare. Che ha una sua legittimità (chi la nega vada a negoziare la mitica soluzione politica con il Califfo, e se riporta indietro la testa ci dica com’è andata). Ma al momento sconta la mancanza di una strategia, senza la quale andremmo diritti incontro ad una sconfitta. Quel che è peggio il «siamo in guerra» lascia nel vago chi sia esattamente il nemico. L’Isis, certo.
Però in Italia importanti giornali scrivono normalmente che non vi è reale differenza tra Isis e islam moderato, che insomma se gratti il musulmano, qualsiasi musulmano, trovi il terrorista. Altri media non arrivano a tanto ma sposano una tesi, il conflitto tra civiltà (chiodo fisso di Valls), che inevitabilmente oppone un ‘noi’ ad un ‘loro’ onnicomprensivo, trincea nella quale ogni islam risulta adiacente all’Isis. Altri ancora pretendono che ciascun islamico abiuri pubblicamente l’Isis, richiesta di per sé insultante. Il risultato di queste animosità variamente vestite è di rafforzare in alcuni musulmani la convinzione che l’Italia e l’Europa ‘cristiana’ non potranno mai essere la loro patria.
E qui siamo alla questione cruciale affiorata negli ultimi mesi: la neutralità di segmenti della popolazione musulmana in Europa. I jihadisti dell’Isis sono pochissimi, rispetto ai 17 milioni di musulmani che vivono dentro i confini dell’Unione europea. Ma hanno potuto nascondersi in quartieri a maggioranza araba di Bruxelles o di Parigi perché nessuno li ha denunciati. Renzi ieri ha chiamato questo atteggiamento ‘omertà’, altri potrebbero chiamarlo estraneità, e forse entrambe le definizioni sono pertinenti.
C’è una estraneità reattiva che potrebbe essere vinta e convinta con politiche inclusive; ma c’è anche un’omertà ideologica, prodotta dalla predicazione islamica che incita alla separatezza e ad evitare il contagio culturale con gli infedeli. Il paradosso è che i maggiori finanziatori e sponsor di questo islam omertoso e anti-occidentale sono Paesi che normalmente definiamo ‘filo-occidentali’, a cominciare dalle petro-monarchie del Golfo, nostri ottimi partner commerciali.
FOorse quel lessico è datato. Forse all’Europa sarebbe necessario un linguaggio più nitido, per riflettere su se stessa e sul rapporto irrisolto con le società musulmane. Il massacro di Bruxelles e l’affannoso ‘che fare?’ che trascina incitano ad andare in una direzione nuova. È evidente che l’Unione potrà venire a capo dell’Isis soltanto se comincerà a costruire una politica estera grossomodo comune, un passo necessario sia per unificare i servizi di intelligence sia per dotarsi di una strategia con cui affrontare il Califfato. Ma in questo caso l’Europa dovrebbe riuscire a pensare se stessa - identità e prospettive - e di conseguenza decidere che cosa proporre ai musulmani, se ostilità etnica o collaborazione politica per costruire insieme un percorso di libertà. Tutto questo appare oggi toppo complicato, troppo ambizioso, troppo impegnativo. Più facile gridare ‘siamo in guerra’ e incrociare le dita, sapendo bene che la prospettiva più ovvia è l’attesa della prossima strage.