.il manifesto, 15 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se il nostro presidente del Consiglio fosse uno statista potrebbe sparigliare le carte, con una mossa che toglierebbe il sonno a non pochi governi. Il ritiro unilaterale dei nostri soldati, circa 4.500, dai vari teatri di guerra e il disimpegno economico del nostro stato in spese belliche: oltre 29 miliardi di euro nell’anno 2015, circa 80 milioni al giorno, secondo i dati dell’agenzia indipendente Stockolm International Peace Research.
Tutto il contrario di quel che sta accadendo con lo schieramento dei paesi Nato ai confini della Russia, e con un contingente di nostri militari che andrà in Lettonia. Uno sperpero di denaro pubblico con cui potremmo organizzare una dignitosa accoglienza dei migranti.
Non solo, e sarebbe già moltissimo. Ma potremmo fare di questo fiume di denaro la leva demografica e sociale per la riorganizzazione del nostro territorio, dando un nuovo slancio alla vita economica e sociale dell’intero paese. Lo sforzo che oggi l’Italia sostiene per fare guerre camuffate dovrebbe essere interamente rivolto all’interno, a fronteggiare la più grande sfida che il paese ha davanti a sé nel suo immediato futuro. Dovrebbe apparire chiaro, infatti, che le chiusure sempre più ottuse e feroci degli stati del Nord Europa ai disperati che fuggono da guerra e miseria, trasformeranno l’Italia da paese di transito in meta finale e permanente.
Il passo che un vero statista dovrebbe compiere è uscire dalla Nato. Oggi esistono buone ragioni per disfare la struttura dell’Alleanza atlantica. Essa non aveva più ragioni di esistere dopo il tracollo del Patto di Varsavia. Eppure sotto il dominio americano essa ha continuato la sua opera, provocando danni immensi e incalcolabili all’umanità intera.
Rammentiamo qui brevemente, tralasciando le guerre balcaniche, che sotto lo scudo statunitense, almeno una parte di paesi Nato ha invaso l’Afghanistan, intrapreso la rovinosa guerra in Iraq ( dalle cui macerie è sorta l’Isis, il più sanguinario fenomeno di terrorismo internazionale dei nostri tempi), ha invaso e devastato la Libia. Ma anche in Europa, la politica americana della Nato è fonte di tensioni crescenti e di conflitti armati (Ucraina e i confini del Baltico). Rinfocolando i risentimenti antirussi di molti paesi dell’Est, ha fatto rinascere antichi nazionalismi e spinto la Russia verso un irrigidimento sempre più autoritario, favorendo platealmente il potere personale di Putin.
Chi possiede intelligenza delle cose del mondo deve riconoscere che gli Usa hanno necessità di ricreare la figura di un grande Nemico esterno, venuto a mancare dopo il crollo dell’Urss. Ne hanno bisogno per ragioni di politica interna, per mantenere il consenso tra il popolo americano, sempre più deluso e lacerato. E per conservare il loro blocco di alleanze internazionali.
Ma anche per ragioni economiche: la costosissima macchina industriale-militare degli Usa ha bisogno di utilizzare, con guerre locali, ma anche di vendere i suoi prodotti. E i paesi Nato costituiscono la sua migliore (anche se non unica) clientela. Il caso degli acquisti dei caccia F35 da parte dell’Italia – paese che per norma costituzionale ripudia la guerra – è la spia più clamorosa della disposizione e della pratica servile dei nostri governanti verso questo potere opaco e dispendioso che sfugge a ogni controllo democratico.
L’uscita dalla Nato potrebbe favorire il processo di unificazione dell’Europa. Dopo la Brexit sarebbe più agevole la costituzione di una difesa europea comune, una difesa leggera, assai meno dispendiosa di quella affidata ai singoli stati, non soggetta agli interessi commerciali Usa. L’Italia, insieme alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia potrebbe mettersi alla testa di questa coraggiosa svolta politica, in grado di trascinare anche la Francia, se il senso del bene comune tornasse a brillare tra i socialisti di quel paese. Noi ne abbiamo necessità vitale.
Il modo in cui evolverà il continente africano deciderà molte cose dell’avvenire del nostro Paese. Occorre una grande politica verso i paesi del Mediterraneo e non la si può realizzare con i dogmi fallimentari dell’ordoliberalismo tedesco. Mentre su questo blocco di paesi si potrebbe progettare un euro.2, una moneta euromediterranea, che segni una via d’uscita dal più grave errore fondativo dell’Unione europea.
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2016 (p.d.)
Altra spina nel fianco è la presenza di un focolaio islamico proprio nel Nord Kivu, al confine con Rwanda e Uganda. Negli ultimi due anni la società civile di Butembo Beni ha denunciato la “selvaggia uccisione” di almeno 1116 persone, il rapimento e la scomparsa di 1470 civili, 35.000 famiglie sfollate, centinaia di abitazioni, scuole, centri di salute e interi villaggi incendiati, saccheggiati o occupati. Una strategia del terrore attribuita alle Adf-Nalu, sopranno minata Muslim Defense International (Mdi), ribellione nata negli anni 90 contro il presidente ugandese Yoweri Museveni e stabilita nell’est congolese.
Nei campi di addestramento transitano giovani congolesi e stranieri, che poi tornano a combattere e commettere attentati nei paesi di origine. “Ragazzi sottratti alla strada con la promessa di un’alternativa alla povertà. Molti di loro sono orfani. Altri sono stati affidati ai fondamentalisti dalle famiglie convinte che i propri figli avrebbero ricevuto un’istruzione in Europa, Medio Oriente o Canada” ha riferito l’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). Per il vescovo di Butembo-Beni, monsignor Melchisedech Sikuli Paluko, è in atto “un genocidio teso a cacciare la popolazione per avere il controllo del territorio, sfruttarne le risorse, creare campi di addestramento e indottrinamento (…) per installare centri di integralismo islamico sul modello di Boko Haram in Nigeria”. Il vescovo ha puntato il dito contro la missione Onu, assicurando che “tra i caschi blu ci sono stati musulmani fondamentalisti del Pakistan e del Nepal che hanno fondato scuole coraniche e costruito moschee” nei pressi delle basi.
“A Mutwanga i giovani scompaiono e ritornano dopo 6 mesi, diventati imam. Si sono convertiti in cambio della promessa di ricevere 100 dollari al mese per il resto della loro vita, una somma cospicua in ambito rurale. A Butembo le ragazze sono costrette a portare il velo”, racconta Cyril Musila, professore all’Università di Kinshasa e ricercatore all’Istituto francese delle relazioni internazionali (Ifri). Una corrente islamica che va “contro la cultura locale, in particolare contro l’etnia Nande (…) il jihadismo all’opera in quel territorio è uno strumento di sterminio a colorazione religiosa, con la complicità di altri gruppi armati, soldati regolari e esponenti di governo”, conclude lo studioso congolese.
Ma al centro della cronaca delle ultime settimane c’è il rischio sempre più concreto che il capo di stato uscente Joseph Kabila, in carica dal 2001, possa aggrapparsi al potere oltre la scadenza del mandato il 19 dicembre.Di sicuro le elezioni in agenda per fine anno non si faranno. Mancano i soldi e il censimento non è terminato. Queste le spiegazioni ufficiali. Il 19 e il 20 settembre a Kinshasa una protesta dell’opposizione è stata brutalmente repressa: 32 morti, secondo il bilancio governativo. Tra 50 e 100 vittime, migliaia di feriti e arresti quotidiani per ong e oppositori. Un Kabila nell’occhio del ciclone è stato ricevuto da Papa Francesco tre settimane fa.
A porre sotto i riflettori le sorti del gigante africano in bilico sono migliaia di congolesi della diaspora con la Congo Week: da domenica al 23 ottobre una settimana per “rompere il silenzio sulla crisi dimenticata”.
In Italia l’iniziativa coinvolgerà associazioni e scuole in cinque province, con un convegno nazionale a Bologna e una marcia a staffetta per la pace a Beni, tra Reggio Emilia e Bruxelles. Intanto a Kinshasa “vige un clima di terrore e la tensione è alle stelle. Abbiamo paura e non sappiamo cosa accadrà al Paese da qui al 19 dicembre, ma soprattutto dopo quella data”, avverte una fonte locale anonima per motivi di sicurezza.
omune-info, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Non è piacevole guardare l’orrore, è più difficile ancora capirci qualcosa. Cosa vogliamo per la Siria? E cosa possiamo fare? Primo, non semplificare, dicono in questo articolo molto prezioso (che preghiamo vivamente i lettori di Comune di leggere fino in fondo) Santiago Alba Rico e Carlos Varea. «Il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria è un problema mondiale» hanno scritto, a ragione, gli artisti e gli intellettuali siriani…Ecco, potremmo cominciare ad ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, le dittature locali e il terrorismo jihadista.
Lo sa bene Assad e lo sanno tutti i responsabili del fiume di sangue che scorre: la violenza è utilissima, funziona, impedisce di ricordare e non permette che la società civile si organizzi. Perché la società e la guerra sono incompatibili. E anche la resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Ci sono persone “normali” che in Siria lottano per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa. Ci sono e sono ancora migliaia.
E’ bastata una breve tregua, a febbraio, perché uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade – le rovine – risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica. Non è assolutamente vero che non ci siano interlocutori che potremmo appoggiare apertamente. Prima che vengano uccisi tutti.
Ogni volta che scriviamo sulla Siria è per aggiungere morti e rovine ad una lista infinita. I bombardamenti indiscriminati su Aleppo delle ultime settimane e la situazione stessa della città, assediata e affamata dal regime e dai suoi alleati, difesa da milizie ribelli diverse e talvolta contrapposte tra loro, danno la misura esatta della tragedia che la Siria sta vivendo e della complessità crescente che la guerra alimenta. A ogni morto aumentano le tensioni incrociate, si aggrava la responsabilità di tutti gli attori, si allontana la pace e con lei, naturalmente, la giustizia e la democrazia. Come diceva un manifesto firmato a metà settembre da 150 artisti e scrittori siriani, «il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria oggi è un problema mondiale».
Si tratta indubbiamente di una questione complessa. E quando, dall’Europa, si affronta una questione complessa, è necessario porsi due domande. La prima è: cosa vogliamo. La seconda è: cosa possiamo fare.
Sicuramente in una situazione complessa non potremo mai ottenere tutto quello che vogliamo, ma è bene sapere cos’è. Cosa vogliamo per la Siria? Le stesse cose che vogliamo per qualsiasi altro Paese del mondo, le stesse cose per le quali lottiamo nei nostri Paesi: sovranità economica, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani, democrazia piena, un futuro per i nostri figli e figlie.
Cosa possiamo fare? Prima di tutto, se riconosciamo che si tratta di una situazione complessa, possiamo fare una cosa: non semplificarla. Ciò implica riconoscere che gli ostacoli che si frappongono tra noi e quello che vogliamo – sovranità, giustizia, diritti umani, democrazia – sono molti e intricati, e non si lasciano imbrigliare in un racconto lineare. Cinque anni e mezzo fa, quando ebbe inizio la rivoluzione siriana, le cose erano più semplici. L’ostacolo era principalmente uno: il regime dinastico degli Assad, contro il quale buona parte del popolo siriano si sollevò pacificamente.
Cinque anni e mezzo dopo, con la Siria trasformata in un poligono di tiro di decine di milizie e più di sessanta paesi, quel regime – insieme ai suoi alleati – continua ad essere il responsabile della maggior parte delle vittime civili (fino al 95%), della maggior parte delle violazioni di diritti umani (almeno 6.786 detenuti morti sotto tortura), della maggior parte dei rifugiati esterni e interni (rispettivamente 5 e 12 milioni), di 287 sui 346 attacchi compiuti contro strutture sanitarie e di 667 sui 705 morti tra il personale sanitario, nonchè dell’assedio che affama villaggi e città con centinaia di migliaia di abitanti, sempre secondo fonti pienamente affidabili.
Nemmeno lo Stato colombiano è arrivato mai a tanto contro il suo popolo; forse solo Franco, durante e subito dopo la guerra civile spagnola. Ma questo per la Siria non è solo il passato: continua ad essere il suo presente, e la più elementare decenza dovrebbe impedirci di dimenticarlo.
Ma cinque anni e mezzo dopo ci sono ancora altri ostacoli. Se parliamo del regime, è indubbio che questo sarebbe stato sconfitto già da tempo se non ci fossero stati gli interventi della Russia, dell’Iran e di Hezbollah che occupano letteralmente il Paese e determinano sia il corso della guerra, con le loro bombe e le loro truppe, sia la politica di Bachir Assad. Non è molto diverso quello che accadde in Iraq, quando gli occupanti statunitensi permisero che alcuni tra questi stessi attori distruggessero il tessuto sociale resistente, puntellando così il regime nato dall’invasione. Sono gli stessi che mantengono in piedi la dittatura in virtù di interessi diversi che a volte si traducono anche in piccoli conflitti sotterranei.
La Russia, il cui Parlamento ha da poco approvato la presenza permanente di basi russe in Siria, mantiene il polso fermo con gli USA e con l’Unione Europea ai quali fa scontare l’aggressiva e sbagliata politica anti-russa in Europa, con lo sguardo puntato più che altro sull’Ucraina. Ma la Russia è un alleato fondamentale di Israele e ha impedito che l’Iran installasse una base logistica vicino alle alture del Golan occupato, mentre l’Iran, che ha negoziato con gli USA la questione nucleare, è considerato da Israele -e considera Israele- come un nemico irriducibile. La Russia, in ogni caso, è direttamente responsabile della morte di migliaia di civili in tutta la Siria e in particolare ad Aleppo, città contro la quale ha scatenato nelle ultime settimane un’offensiva aerea indiscriminata.
Un altro ostacolo rilevante è ovviamente lo Stato Islamico, oggi in ritirata, utilizzato come un jolly da tutti quelli che ufficialmente dicono di combatterlo: a partire dal regime siriano al quale interessava radicalizzare il conflitto militare e che ha attaccato molto poco il gruppo di Al-Baghdadi, per arrivare alla Turchia, alleata dell’UE e degli USA, molto compiacente verso i jihadisti, dei quali si è servita nella sua guerra contro i curdi.
Accanto allo Stato Islamico, atroce padrone di se stesso, ci sono altri gruppi islamisti dipendenti da potenze regionali che ostacolano un progetto di sovranità e democrazia e che complicano ancora di più la situazione. Il più conosciuto di tutti, e il più forte, è Jabhat Fath Al-Sham, già Jabhat-al-Nusra, fino a qualche mese fa diramazione siriana di Al Qaeda. Le milizie di Abu Mohamed al-Jolani hanno fagocitato altri gruppi e rafforzato la propria influenza grazie ai finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, soprattutto dall’Arabia Saudita ed anche perchè, a differenza dell’autistico Stato Islamico nel suo territorio parallelo, combattono senza sosta contro il regime e contro gli eserciti occupanti.
Infine, ad ostacolare la pace e la democrazia, c’è Israele, molto compiaciuta dell’agonia siriana, che gestisce il caos a distanza e intanto consolida l’occupazione della Palestina e asfissia silenziosamente i palestinesi; c’è la Turchia, la cui priorità è quella di combattere i curdi, appoggiati dagli USA (un’altra contraddizione spesso ignorata) e che, dopo il contro-golpe di Erdogan, in caduta libera verso la dittatura, si avvicina alla Russia, all’Iran e perfino al regime di Assad; c’è l’Unione Europea, inutile e narcisista, preoccupata solo degli attentati sul suo territorio e dell’arrivo dei rifugiati, due problemi che essa stessa aggrava con le sue politiche antiterroriste; e naturalmente ci sono gli Stati Uniti, padri di tutte le miserie, che nel 2003 invasero l’Iraq per “ragioni umanitarie” aprendo la porta ai cavalieri dell’Apocalisse e che, come già fatto con Israele e Palestina, abbandonano ora i siriani nelle mani di Bachir Assad nonché, indirettamente, del jihadismo finanziato dai loro alleati: gli interessi di Washington non passavano, e non passano, dalla democratizzazione della Siria.
Quando gli USA sono alla fine intervenuti, lo hanno fatto per trasformare la Siria in un falso campo di battaglia della “guerra globale contro il terrorismo”, rilegittimando il ruolo di Assad e sganciando bombe che, come già dimostrato in passato, oltre ad uccidere persone innocenti, fungono da lievito per la violenza che dicono di voler combattere. Bisogna ripetere ancora una volta che l’espansione dello Stato Islamico, sia in Iraq che in Siria, è la conseguenza e non la causa della precedente demolizione dello stato sociale che invasori, regimi e agenti regionali hanno portato a termine coscienziosamente per consolidare il proprio dominio ed evitare un cambiamento in senso democratico nella regione.
Giustificare il mantenimento dei regimi di Damasco e di Baghdad, illegittimi, criminali e corrotti, con l’espansione dello Stato Islamico (idea sulla quale convergono gli USA e alcuni settori della sinistra europea) è una paurosa dimostrazione di cinismo o di ignoranza: è falsa, così come è pericolosa la dicotomia tra il regime di Bachir Assad e lo Stato Islamico. Ed è certo che gli USA, che hanno finanziato ed addestrato in Giordania le milizie che combattono contro Assad, hanno finanziato ed addestrato anche le milizie sciite irachene che lo sostengono.
Cosa possiamo fare di fronte a un problema complesso, che sta costando migliaia di vite umane? Prima di tutto, non semplificare. Le righe che precedono costituiscono, ci sembra, un piccolo campionario delle complessità che bisogna affrontare e che non possono ridursi a una cifra gestibile con un abracadabra geopolitico del XX secolo. Se vogliamo per la Siria le stesse cose che vogliamo per noi – giustizia, sovranità, diritti umani, democrazia, un futuro per i nostri figli e figlie – è necessario comprendere, a partire da questi dati, che la soluzione passa dalla rottura del ciclo “intervento/ dittature locali/ jihadismo terrorista”, come si è cercato di fare durante le rivolte del 2011 e che questo esclude, realisticamente, qualunque ruolo della dinastia Assad dal futuro della Siria.
Come ripete instancabilmente la nostra ammirevole Leila Nachawatii: “più Assad, più Stato Islamico” e quindi, aggiungiamo noi, più interventi esterni. Nè l’etica nè la politica, e tanto meno una commistione delle due, può concedere – per principio o per pragmatismo geostrategico – un solo centimetro del timone a un criminale di guerra che la maggioranza del popolo non accetta più come governante e con il quale non è disposta a negoziare.
Gli USA devono tenere ferma l’Arabia Saudita (e Israele), ma sono la Russia e l’Iran gli unici che possono sbloccare la situazione tirando fuori Assad dal palazzo di Damasco. In questo senso, è molto triste che una parte della sinistra europea continui ad allinearsi con l’estrema destra a favore del regime siriano e della Russia di Putin, e che si esprima in questo senso perfino al Parlamento Europeo. Come abbiamo già evidenziato altrove, se non bastasse l’attuale azione genocida contro il suo popolo, c’è il passato di questa dinastia, il suo ruolo di gendarme regionale, la sua complicità con Israele e il suo appoggio agli USA durante la prima e la seconda guerra del Golfo, a rendere ancora più sciocco l’atteggiamento di questa sinistra che si può attribuire ormai solo ad un riflesso pavloviano ereditato dall’eclissata Guerra Fredda.
E allora, cosa possiamo fare? Non semplificare e tirare delle conclusioni. Ma possiamo fare anche di più. Possiamo ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, però giocandosi la vita; quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, dittature locali e terrorismo jihadista. Lo sa molto bene Bachir Assad, come lo hanno sempre saputo molto bene gli Stati Uniti: la violenza è utilissima, la violenza funziona, la violenza rinnova tutte le pulsioni e impedisce di ricordare i motivi della lotta e impedisce anche che, a partire da quel ricordo, la società civile si organizzi. La società e la guerra sono incompatibili.
La resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Forse non ci sono dei siriani normali che lottano in Siria per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa? Ci sono e sono ancora migliaia. E’ bastata una breve tregua a febbraio perchè uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Altrettanto è successo durante la più recente e precaria tregua, dopo l’accordo -già rotto- tra Russia e USA: basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade -le rovine- risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica.
Il ricercatore Félix Legrand, in un lavoro molto meticoloso, analizza la strategia di Jabhat Al-Nusra nei diversi territori e mostra un rapporto direttamente proporzionale tra le tregue e l’indebolimento della sua legittimazione sociale. La conclusione di Legrand è che a Jabhat-al-Nusra, così come al regime ed ai suoi alleati russi, non interessano le tregue: la dittatura e i jihadisti possono respirare solo in battaglia. Entrambi sanno che appena cessano di cadere bombe su una città, la società civile superstite riprende terreno con le sue richieste di pace e democrazia contro, al tempo stesso, il regime di Assad, gli interventi multinazionali ed i jihadisti.
Non è vero, non è assolutamente vero che non ci sia un interlocutore sociale, politico e militare siriano che potremmo appoggiare apertamente: non lo vediamo forse tutti i giorni? Non vogliamo vederlo tutti giorni, sotto l’atroce violenza che il popolo siriano subisce da cinque anni e mezzo? Chi ha ancora qualche dubbio in proposito, che non ne abbia sul fatto che il silenzio o la complicità reale di alcuni settori della sinistra europea stanno contribuendo a far sì che questo interlocutore si dissolva, impotente, tra le ondate di rifugiati e le montagne di cadaveri.
Possiamo quindi capire, trarre conclusioni e solidarizzare con i siriani che soffrono e, in particolare, con quelli che soffrono perchè ambiscono alle stesse cose cui ambiamo noi: sì, proprio le nostre stesse cose. E’ vergognoso che la destra governante europea, che soffia sul fuoco, si sia impadronita del discorso sulla Siria, in termini oscenamente “umanitari”, mentre una parte della sinistra non solo glielo consegna, ma “reprime” le mobilitazioni contro la guerra e criminalizza quelli che si rifiutano di fare distinzioni tra le bombe della Russia e quelle degli USA, quando entrambe uccidono bambini e impediscono la democratizzazione e l’autodeterminazione nell’area.
Mentre l’Arabia Saudita appoggiava le milizie più retrograde e assassine, la sinistra spagnola, in buona compagnia dei fascisti francesi, polacchi o italiani, sosteneva Bachir Assad e visitava il suo palazzo. Nel frattempo la sinistra siriana (pensiamo a Yassin Al Haj Saleh o a Salameh Keileh, ancora vivi) perdeva logicamente la battaglia sul fronte interno; e la minoranza superstite, decimata dall’esilio e dalla morte, insieme al popolo siriano maciullato, continua a lottare contro tutti i nemici del mondo, compresi quei sinistrorsi europei che tanto hanno gridato, giustamente, contro l’invasione dell’Iraq e ora tacciono davanti ai crimini della Russia.
l manifesto, 13 ottobre 2016
«Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente e i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’ sui loro cacciabombardieri perché è osceno”: così parla nel finale di Apocalipse Now il maggiore dei Berretti verdi Kurz (Marlon Brando). La frase sintetizza bene l’attuale ipocrisia occidentale. Oscena dovrebbe essere la guerra, ma indignano solo le parole, quelle del magnate isolazionista Donald Trump, sessista e razzista, il peggio dell’America e forse proprio per questo candidato repubblicano alle presidenziali Usa. Che decidono il destino-declino americano, ridotto a scontro su infedeltà coniugali contrapposte, che chiamano in causa anche le responsabilità di Hillary Clinton, private e pubbliche.
Non ha indignato infatti che i due si siano rincorsi a chi dava più ragione a Netanyahu su come opprimere meglio i palestinesi. The Donald promettendo che con lui presidente «Gerusalemme sarà capitale indivisa dello Stato d’Israele». Un’altra bomba in Medio Oriente, come la dichiarazione di Clinton di «non intromissione tra le parti», mentre il governo israeliano estende le colonie, l’Anp perde ogni autorità e la situazione nei Territori occupati degenera.
Né è osceno che Trump riapra la partita nel cortile di casa, dal muro anti-migranti con il Messico alla sospensione degli accordi con Cuba, del resto mai definiti.
Né ripugna l’allegro teatrino sulla Siria, con schieramento atlantico al completo ad accusare solo la Russia di crimini di guerra per Aleppo. Ha cominciato Obama, poi sul finire di un mandato inutile Ban Ki-moon, subito Gentiloni si è accodato, poi è arrivato Hollande e ieri il ministro degli esteri britannico Johnson, quello della Brexit. Ma voi accettereste che un serial killer salga con autorevolezza sul banco dell’accusa per denunciare un altro serial killer? Perché ci dimentichiamo degli ospedali afghani, yemeniti e siriani colpiti dai raid americani negli ultimi mesi?
Sono crimini di guerra anche quelli, ma gli Usa si scusano, e basta. Certo, i raid aerei russi sono criminali, vanno denunciati, perché si aprano corridoi umanitari per i civili, perché fanno strage di inermi. Urge un cessate il fuoco, implorato in queste ore dal papa che nel settembre 2013 impedì con la preghiera del mondo un altro intervento americano. Mentre scriviamo intanto si annuncia la ripresa del dialogo per sabato. Perché l’obiettivo, almeno quello dichiarato non era forse quello di sconfiggere lo Stato islamico che tiene in ostaggio - dell’espressione scudi umani si è fatto spreco, ma ora non la dice nessuno - gli abitanti della bella e martoriata Aleppo?
E’ così vero che lo stesso inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha invitato Al Nusra (Al Qaeda) ad uscire da quell’assedio offrendosi di scortarne altrove i miliziani qaedisti.Insomma, è osceno che nella fase attuale e in procinto delle presidenziali Usa, sia sparito dall’agenda l’Isis. Probabilmente perché emergerebbero le responsabilità occidentali e dell’Amministrazione Usa che ha ereditato le devastazioni politiche delle guerre precedenti, di Bush e di Bill Clinton, in Iraq e in Afghanistan, innestando nuove avventure militari in Libia e poi in Siria.
Per entrambe Obama era riottoso ma venne tirato dentro proprio dall’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton (non solo con le mail). Adesso Obama la sponsorizza nei comizi, preoccupato del «mondezzaio Trump», ma solo a marzo denunciava lo «spettacolo di merda» dato dagli Stati uniti con il fallimento della guerra del 2011 che spodestò nel sangue Gheddafi.
Fatto da non dimenticare la Russia è arrivata un anno fa nella crisi siriana a togliere le castagne dal fuoco proprio agli Usa, impantanati in un altro fallimento, con l’assenza di legami con l’opposizione armata che volevano sostenere, l’ammissione di avere, più o meno consapevolmente, sostenuto il jihadismo armato, in più con la delega sostanziale della crisi all’alleata Turchia del Sultano Erdogan. Che intanto riprendeva la strategia ottomana, sostenendo il jihadismo con armi e traffici di petrolio e rioccupando parti dell’Iraq e della Siria. Tornò sulla scena Putin, dopo l’abbattimento dellaereo civile russo, quasi d’accordo con Obama, cominciando a coordinare le azioni militari sia con gli Usa e con la Francia, che bombardava dopo gli attacchi terroristi sul suolo francese.
Ora la Russia sembra al bando, Il Corriere della Sera ieri apriva in modo poco veritiero con «Il clima di guerra in Russia, incitata dal Cremlino a prepararsi allo scontro con l’Occidente», torna a forza la semi-guerra fredda, un vintage destinato solo a peggiorare. Putin torna, come in Ucraina, a vestire i panni del nemico ritrovato.
Ripetiamolo: i suoi bombardamenti sono criminali, com’è crimine di guerra colpire un ospedale. Ma quanti ospedali hanno bombardato gli Stati uniti in quest’ultimo periodo facendo stragi di civili? L’osceno della guerra naturalmente è di parte. Mentre si nasconde che a far fallire la tregua – difficile se non impossibile, basata sul riconoscimento sul campo di chi era estremista e chi no – stabilita solennemente il 10 settembre da Serghei Lavrov e John Kerry, è stato il bombardamento americano, «per errore», del 17 settembre scorso di una caserma di Assad a Deir Er Zour, assediata dai jihadisti, provocando la morte di 90 soldati siriani. Da lì è apparso chiaro che la battaglia di Aleppo (con quella di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia che da agosto non cade) è entrata nella campagna elettorale americana.
Chi vince ad Aleppo ha vinto la guerra, impossibile quindi subire la sconfitta e lasciare l’eredità di uno smacco. La battaglia dunque deve oscenamente continuare, pur sapendo che non ci sarà tavolo negoziale, perché l’opposizione «democratica» non esiste e coordina il suo ruolo militare con i jihadisti e con Al Nusra (ha cambiato nome ma è sempre affiliata ad al Qaeda). E nessuno riesce ad immaginare di negoziare la pace con il peggiore jihadismo armato. Ma lasciare alla Russia la patente di essere rimasta l’unica a combattere davvero l’Isis può essere ancora più miope e pericoloso. Del resto di questo approfitta Putin, che recupera economicamente il Sultano Erdogan e mina l’alleanza militare occidentale con l’Egitto.
Di questo smacco Usa approfitta il ripugnante Trump per «tornar a fare grande l’America». Un caos osceno. Quello della guerra.
L'infamia di una guerra che da decenni priva d'ogni diritto un popolo incolpevole, vittima di un governo immemore della tragedia che ha provocato il suo approdo in una terra d'altri. La Repubblica, 13 ottobre 2016
il manifesto, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)
Quando viene convocata una marcia Perugia-Assisi raramente resisto al richiamo della foresta. Quest’anno, con la guerra dappertutto, più che mai. E perciò, nonostante la stampella, ci sono andata: per il convegno promosso dai sindacati, dall’Arci e qualche altra associazione il sabato, e, almeno per la partenza, al solito magnifico Frontone, del corteo coordinato da Flavio Lotti, la domenica mattina.
Io credo che le scadenze in qualche modo rituali non siano superflue, aiutano la memoria e questa serve. (Le donne, per esempio, hanno imparato a fare buon uso del vecchio 8 marzo).
Ho detto richiamo della foresta perché, come i più vecchiotti fra i lettori de il manifesto si ricorderanno, fummo in passato parte decisiva di quel movimento pacifista.
Un movimento che si sviluppò in Europa negli anni ’80 per protestare contro le nuove installazioni nucleari sui nostri territori e per reclamare «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali».
Fu allora che riscoprimmo questa marcia ideata molto tempo prima da Capitini e la reinverammo assieme ai tantissimi del nord e del sud del nostro continente con i quali avevamo via via stretto legami profondi. E che assunsero le due città umbre come luogo simbolico e unificante di pellegrinaggio. Poi venne l’Iraq, e fummo 250.000.
Cosa è cambiato da allora?
Anche domenica i partecipanti sono stati tanti. A sfilare le scolaresche di più di 100 scuole che hanno risposto all’appello della Tavola della pace, molti gli immigrati recenti che hanno voluto unirsi al corteo. Numerosi anche i gonfaloni dei comuni. Presenti le associazioni promotrici, ovviamente.
Ma è un fatto, evidente nella marcia e ormai chiaro da anni nella dimensione quotidiana: il corpo militante delle organizzazioni sociali, dei partiti e dei movimenti che pure esistono sembrano non mobilitarsi più di tanto per la pace. È da tempo, oramai, che la lotta per la pace non morde come dovrebbe. La debolezza non è solo organizzativa, ma anche politica.
Anche qui a Perugia nelle parole d’ordine, negli striscioni, nei discorsi importanti che sono stati tenuti alla partenza, soprattutto dai prelati (per la prima volta ha preso la parola anche un cardinale), è prevalso, mi pare, soprattutto un discorso morale. Necessario e anzi prezioso. E però è risultata incerta l’indicazione di una proposta politica, del come rimuovere le cause delle emergenze con cui ci dobbiamo confrontare, così come una denuncia precisa delle responsabilità, antiche e recenti, di quello che accade.
Sottolineo questa debolezza non per sminuire il significato di questa Marcia, ma solo per ricordare che il nuovo pacifismo nato negli anni ’80 aveva invocato anch’esso il ripudio della guerra, ma aveva anche avuto l’ambizione di suggerire un’altra idea dell’Europa (fuori dai blocchi, dicevamo), un’altra politica estera, un modo diverso di affrontare i problemi internazionali, non più ricorrendo al medioevale metodo delle armi, ma alla comprensione delle ragioni dell’altro. I patti – dicevamo – si debbono fare con il nemico, non con l’amico. Per questo non possono essere patti militari. Purtroppo in questi anni è accaduto il contrario: la Nato si è ingigantita e ha preteso di rappresentare l’Europa.
A Perugia è stato detto forte l’essenziale: la condanna della tuttora massiccia esportazione da parte dell’Italia e dell’Europa di armi verso i paesi dove si aprono conflitti che grazie ad esse crescono paurosamente di livello; il No all’invio di eserciti e di bombardieri, ancorché chiamati «umanitari». Se l’Isis si è scatenato è dovuto anche a questo massiccio invio.
So bene che oggi è sempre più difficile individuare amici e nemici nel groviglio che si è determinato – basti pensare alla Siria (paese che non a caso non è stato mai evocato se non per parlare dei migranti che da lì provengono).
E però proprio in questo momento, in cui si riaffaccia il rischio di una spedizione militare in Libia, è urgente ripetere a voce alta che sebbene Gheddafi fosse un dittatore l’intervento militare occidentale in quel paese ha prodotto il peggio e guai a ripeterlo, quale che sia la scusa. E che sarebbe doverosa da parte di chi ha portato ai disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq una autocritica pubblica, anche in parlamento.
La debolezza del nostro discorso (e dunque la scarsa mobilitazione che ne consegue) sta comunque nel fatto che è difficile oggi una risposta politica all’interrogativo: come aiutare i popoli vittime di guerre, di dittature, di fame?
È proprio questa che è emersa sopratutto nell’assai interessante convegno del sabato, durante il quale – oltreché per descrivere la loro condizione – hanno preso la parola anche per chiederci di aiutarli i rappresentanti dei sindacati indipendenti dell’Algeria, della Tunisia (il premio Nobel per la pace del 2015, Hassine Abassi), dell’Egitto e della Libia (quella di Bengasi), prima donna capo di un sindacato, una bella grinta e si capisce, visto il pezzo di paese da cui proviene e le condizioni incredibili in cui lì deve operare un/a sindacalista.
Chiara la risposta di quanto occorre fare sul piano economico: cambiare drasticamente le politiche economiche del nord che hanno distrutto le economie del sud.
E allora occorre però contestare il liberismo stesso, che ha ispirato tutti i Trattati Mediterranei (dall’Accordo di Barcellona in poi), fondati sulla liberalizzazione degli scambi che, quando i partner sono enormemente disuguali, accresce la disuguaglianza anziché ridurla.
L’Europa avrebbe dovuto invece avere il coraggio, e la lungimiranza, di proporre un compromesso fra nord e sud, analogo a quello che nel dopoguerra si stabilì fra movimento operaio e capitalismo e che, pur con tante ombre, ha però garantito diritti per gli uni e stabilità per l’altro. Fu, questa, la proposta avanzata almeno trent’anni fa da Samir Amin e da Giorgio Ruffolo; e cadde nel vuoto.
Meno evidente è cosa si possa fare su altri piani : aiuto alla società civile, per contribuire alla crescita di partecipazione politica, anche per rendere chiaro che un parlamento di per sé non garantisce democrazia? Sì, certo. Ma proprio per questo non bastano assistenza e carità, serve politica. Proprio quella che oggi sembra latitante.
Cosicché le generose iniziative che, a partire dai Forum sociali del Maghreb, si sono continuate ad assumere non sono riuscite a suscitare la collaborazione che avrebbero dovuto ottenere. Insomma: la pace è un bene primario, ma se oggi l’indifferenza cresce, è perché, anche su questo, c’è un vuoto di iniziativa politica. E perciò di impegno.
È, anche questo, un aspetto della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Anche a casa nostra.
Il manifesto, 30 settembre 2016 (p.d.)
Non si trovano acqua, medici e medicine, i gesti della vita quotidiana. I bambini conoscono solo la lotta giornaliera per la sopravvivenza. Con la fastosità di Aleppo è evaporata anche l’infanzia. Rami Adham prova da qualche anno a metterci una pezza: siriano finlandese, è noto come il «contrabbandiere di giocattoli»: palloni da calcio, barbie, peluche, 70 kg di giochi alla volta che nelle sue 28 visite in Siria ha portato con sé.
Alla Bbc Rami dice di voler «preservare gli eroi che rappresentano il futuro della Siria». C’è da chiedersi quale sia il futuro per un paese di cui metà della popolazione, 11 milioni di persone, è rifugiata all’estero o sfollata all’interno, che piange quasi mezzo milione di morti e legami sociali in frantumi. Aleppo ne è l’esempio, divisa a metà tra governo e opposizioni.
L’ultima settimana ha visto una terribile escalation: Damasco avanza via terra, decisa a «spazzar via i terroristi»; le opposizioni non arretrano per non lasciare spazio al compromesso politico. I numeri delle Ong sono terrificanti: 100 bambini uccisi e 223 feriti secondo l’Unicef da venerdì, quasi 500 civili morti da lunedì 19 settembre, solo 35 medici presenti nei quartieri est. Altri due ospedali sono stati colpiti ieri da missili, centrate anche due panetterie, tra le poche ancora aperte e con lo scarso cibo a disposizione che ha raggiunto prezzi stellari.
Di certezze ce ne sono poche ad Aleppo. Una di queste è che il conflitto non finirà a breve: secondo fonti delle opposizioni e ufficiali Usa, Washington avrebbe autorizzato le petromonarchie del Golfo a rifornire i “ribelli” di missili anti-aereo Manpad, preoccupando molti osservatori: l’equipaggiamento, come quello inviato prima, finirà nelle mani delle opposizioni militarmente più efficaci, l’ex al-Nusra e la galassia salafita che la sostiene pur sedendosi al tavolo di Ginevra e che da agosto ha ammassato ad Aleppo migliaia di miliziani per la cosiddetta battaglia finale.
Eppure sulla città si aggira ancora il fantasma della tregua che genera solo false speranze. Ieri Casa Bianca e Cremlino hanno riproposto, ognuno a modo suo, la stantia promessa del dialogo mescolata a intimidazioni reciproche. Il segretario di Stato Usa Kerry ha minacciato di chiudere se Mosca non interrompe subito i raid, ma fonti dell’amministrazione parlano già di reazioni militari suggerite ad un recalcitante Obama.
La Russia risponde: le dichiarazioni Usa sulla Siria – ha detto il vice ministro degli Esteri Ryabkov – sostengono il terrorismo. Ha poi rigettato la proposta di 7 giorni di tregua, «inaccettabile» perché volto a far riorganizzare le opposizioni e rilanciato: 48 ore per far arrivare degli aiuti, quelli che durante il cessate il fuoco dal 12 al 18 settembre non sono stati consegnati.
Il gap tra Washington e Mosca, impegnate in un braccio di ferro che travalica le frontiere siriane, si amplia irrigidendo le posizioni dei due fronti: quello pro-Assad, guidato dalla Russia e sostenuto da Iran e Hezbollah; e quello del composito fronte di opposizione, gestito dal Golfo e ufficialmente solo in parte dagli Stati Uniti.
Qui sta la base fragile della strategia Usa: mentre Putin è sponsor di un solo soggetto, Assad, figura che incarna gli interessi russi, Obama deve giostrarsi tra innumerevoli attori. Se dietro le quinte gli Usa riforniscono di armi i “ribelli”, consapevoli che una buona parte finisce ai qaedisti, in pubblico è impossibile sostenere apertamente questa porzione delle opposizioni. Eppure sanno che si tratta della più radicata e meglio armata, la sola che può dare filo da torcere all’esercito governativo.
Che Obama, e con lui la società americana, siano riusciti definitivamente o solo temporaneamente in questa impresa è una delle poste in gioco, se non “la” posta in gioco, della corsa alla Casa Bianca che si concluderà il 7 novembre. In attesa del responso, mai come quest’anno è opportuno guardare all’anniversario dell’11 settembre da questa sponda dell’oceano, con occhi europei.
Dall’attentato a Charlie Hebdo in poi, passando per il Bataclan e per la lunga scia del terrore che ha insanguinato l’estate del vecchio continente, i roboanti e ricorrenti titoli su “l’11 settembre europeo” dicono solo metà della verità: l’Europa sta sperimentando adesso quel ventaglio di problemi e di angosce che quindici anni fa ha fatto irruzione sulla scena mondiale, ma da cui il vecchio continente ha creduto a lungo di essere immune delegandone il vissuto e la soluzione agli Stati Uniti. È questa la ragione per cui tutto il dibattito europeo sul terrorismo appare viziato, passatemi il gioco di parole, da uno stupore stupefacente, e da una ripetizione irritante.
Lo stupore stupefacente viene da lontano. Qualcuno forse ricorderà la diatriba sull’occidente diviso fra Marte (gli Stati Uniti) e Venere (l’Europa) che impegnò dopo l’11 settembre intellettuali e opinionisti sulle due sponde dell’Atlantico. Una diatriba fatua, non solo sul versante di chi da posizioni guerrafondaie difendeva le virtù di Marte contro la mollezza di Venere, ma anche sul versante opposto di chi difendeva la cautela di Venere contro l’irruenza di Marte sottintendendo, non senza una certa spocchia, un giudizio autoevidente sulla superiorità del modello europeo – pace e stato di diritto, integrazione universalistica e stato sociale – rispetto a quello americano – imperialismo e interventismo, eccezionalismo e sospensione facile delle garanzie, multiculturalismo ghettizzante.
Quella spocchia era molto malriposta, come i fatti si sono incaricati di dimostrare nel quindicennio successivo. Durante il quale sono stati semmai gli Stati Uniti a indicare, con l’elezione del primo presidente afroamericano, meticcio e riluttante a indossare i panni del gendarme del mondo, una via d’uscita dalla risposta identitaria e nazionalista, securitaria e guerrafondaia di George W. Bush all’11 settembre.
Già stupefacente quindici anni fa (e già smentita, peraltro, dalle stragi di Madrid e di Londra del 2004 e 2005), l’illusione europea di poter restare al riparo dall’attacco del terrorismo internazionale suona dunque oggi come il segnale di un enorme e colpevole ritardo accumulato per quindici lunghi e decisivi anni. Non solo sul piano politico e geopolitico, ma anche, e forse ancora più colpevolmente, sul piano culturale. E qui vengo alla ripetizione irritante.
L’11 settembre non fu solo un evento sconvolgente per l’ordine mondiale. Fu anche, come si disse allora, un enorme evento filosofico. Mostrò la senescenza delle categorie consolidate del pensiero politico di fronte a una globalizzazione che sconvolgeva le stesse coordinate spaziali e temporali costitutive della modernità, e tutte le categorie – sovranità, identità, logica simmetrica amico-nemico – costitutive dell’ordine politico moderno.
Le quasi tremila vittime, di oltre 60 diverse nazionalità, dicevano che l’attacco non era all’America ma alle promesse cosmopolitiche della globalizzazione. La sceneggiatura hollywoodiana dei due aerei che tagliavano le Torri gemelle diceva che tutto, dalla tecnologia all’immaginario dell’attentato, non veniva da un altro mondo ma da un esterno interno all’occidente: Jacques Derrida parlò allora di un attacco autoimmunitario, molto prima che fossero i documenti dei terroristi reclutati dal gruppo Stato islamico fra gli immigrati europei di seconda generazione a certificare che l’islamizzazione del radicalismo, come la chiama oggi Oliver Roy, è un fenomeno che si alimenta nelle periferie delle nostre metropoli. Ancora, l’irruzione sulla scena dell’attentatore suicida, disposto a uccidersi per uccidere, diceva che nessuna guerra di tipo tradizionale può averla vinta sull’asimmetria di uno scontro privo di quella regola istintiva e primaria di deterrenza che consiste nel non dare la morte per salvaguardare la propria vita.
Di fronte a tutto questo ci fu chi come Oriana Fallaci reagì agitando la rabbia e l’orgoglio, un binomio tuttora coccolato dai nostri media mainstream a sostegno della xenofobia e dell’islamofobia montante. Ma ci fu anche chi come Judith Butler ne trasse materia, al contrario, per una ontologia politica della vulnerabilità e dell’interdipendenza, e per una pratica della convivenza basata sull’elaborazione del lutto. Ci fu chi, come James Hillman, lesse nella ferita che si era aperta nell’inconscio americano la sorgente di una inedita consapevolezza del limite della prima potenza mondiale. O chi, come Spike Lee, immaginò nella Venticinquesima ora di un tempo fuor di sesto la possibilità per il sogno americano di rimediare i propri errori.
«È un’avventura», spiega il proprietario Yasser Adnan, 28 anni, «ma qui la vita è tutta un’avventura». Yasser ha concepito il locale come una sorta di memoriale per suo padre, un famoso libraio ucciso nella sua libreria in via Al Mutanabi in un attentato nel 2007. La sua foto è appesa davanti all’ingresso del locale.
Quest’avventura non è la prima del suo genere. Fin dagli anni trenta del novecento, i caffè nei pressi delle moschee e degli altri centri di appartenenza settaria sono stati il luogo di ritrovo della classe media istruita. Era in quei locali che la gente ha cominciato ad ascoltare le notizie dal mondo grazie a quelli che leggevano i giornali ad alta voce.
I muri del caffè di Adnan sono coperti di libri, i libri di suo padre. Il locale è stato disegnato per offrire ai giovani un posto tranquillo per leggere, e offrendo il wi-fi gratuito Adnan cerca di attirare i ragazzi. Nel retro c’è uno schermo dove ogni tanto vengono proiettati dei film.
Dopo il suo reading, il poeta Hamid Qasim ha elogiato l’idea di aprire un centro culturale in questo quartiere affollato,« in un momento in cui la storia culturale del nostro paese è minacciata dal terrorismo e da un governo reazionario». Il regista Muhannad Hayali ha ricordato «l’importanza di un locale come questo a Karrada. Questo quartiere era frequentato da gente che veniva da ogni parte dell’Iraq, di ogni religione e gruppo etnico. La cultura potrà offrire loro un’identità comune?».
(Traduzione di Gabriele Crescente)
Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2016 (p.d.)
Quando è successo l'ultima volta?
Si preannuncia pericoloso?
Quale sarà il tuo itinerario?
Spiegaci cosa significa essere un toy smuggler, un 'trafficante di giocattoli'.
Come parte la missione?
Per la prossima missione quanti ne porterai?
Quando hai iniziato questa attività particolare?
C'è la storia di un bimbo che ti ha colpito in particolare?
Oltre ai giocattoli, porti anche altri aiuti?
Durante i tuoi viaggi in Siria, sei costretto ad assistere a scene inenarrabili, a incontrare gente che soffre; come si superano questi choc?
Cosa pensi della situazione attuale in Siria, ad Aleppo?
La Repubblica, 30 agosto 2016 (c.m.c.)
L’intervento turco in Siria rende inevitabile una resa dei conti o quanto meno una chiarificazione diplomatica “energica” fra Ankara e Washington. Le truppe inviate da Recep Tayyp Erdogan sono entrate profondamente dentro i confini siriani, e avanzano verso Sud affiancando i ribelli anti-Damasco. Ma la zona dove lo sforzo militare è maggiore, con carri armati, artiglieria e cacciabombardieri, è in realtà controllata dalle Forze democratiche siriane (Sdf), una coalizione che comprende le milizie curde dell’Ypg e che era stata sostenuta dagli Stati Uniti contro gli integralisti del sedicente Stato islamico.
Quindi le vittime dei bombardamenti turchi — una quarantina, secondo le Ong siriane della zona — non sono uomini di Abubkar al-Baghdadi, ma militanti curdi. E il governo turco lo riconosce senza difficoltà, tanto che il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu accusa l’Ypg di voler realizzare una «pulizia etnica» nella zona e ammonisce i combattenti curdi perché si ritirino al di là dell’Eufrate.
Washington ha invitato l’alleato Nato a fermare l’offensiva, perché - ha detto Brett Mc-Gurk, inviato speciale della Casa Bianca per la lotta allo Stato Islamico - «questi scontri sono del tutto inaccettabili e fonti di seria preoccupazione ». A poco servirà anche il richiamo di ieri di Ashton Carter, segretario alla Difesa, perché l’azione militare turca si concentri sullo Stato islamico e non sulle forze Sdf. Ma lo stato delle relazioni fra Turchia e Stati Uniti non rende l’obiettivo particolarmente facile in questo momento. Anzi, è difficile non vedere nell’offensiva sul territorio siriano una sfumatura di provocazione da parte di Erdogan nei confronti dell’alleato americano, che non ha mostrato grande solidarietà nei giorni del tentato golpe e per il momento non sembra disponibile a estradare il presunto organizzatore, Fethullah Gülen.
Senza più troppi scrupoli verso l’atteggiamento dell’America, Erdogan sembra deciso a farla finita anche con i sogni dei curdi. L’attacco in profondità dovrebbe servire a ripulire la regione dai miliziani dell’Is, ma allo stesso tempo a evitare che siano proprio i curdi a riempire il vuoto nella zona accanto al confine turco. La prospettiva della nascita di uno Stato curdo è vista come inaccettabile dal governo di Ankara. La Turchia considera intoccabili i propri confini e dunque non accetta il rischio di una loro ridiscussione da parte della minoranza curda, che potrebbe essere tentata di “aderire” al nuovo Stato.
I fedelissimi di Erdogan hanno messo le mani avanti per evitare ogni ambiguità: «Nessuno ci deve dire quali terroristi possiamo combattere e quali no», ha detto il ministro degli Affari europei Omer Celik. E il premier Numan Kurtulmus ha sottolineato che le truppe turche non resteranno in Siria, «perché la Turchia non è un Paese di occupazione ».
Washington deve però evitare a tutti i costi una rottura grave con Ankara, tanto più adesso che Erdogan ha riaperto i canali di comunicazione con la Russia e con l’Iran. Così Barack Obama ha deciso di mettere sul piatto la sua credibilità personale in un incontro diretto con l’uomo forte di Ankara a margine della riunione del G20 alla fine della prossima settimana. Che questo basti a raffreddare l’irritazione del presidente turco, resta da vedere.
Si chiama “Scudo dell’Eufrate“ed è l’operazione militare lanciata oggi dalla Turchia nel nord della Siria: l’obiettivo è cacciare l’Isis dalla cittadina di confine di Jarablus e frenare l’avanzata dei curdi siriani del Ypg.
Immediata la replica di Saleh Moslem, il leader dei curdi siriani del Pyd, che su twitter scrive: “La Turchia è nel pantano siriano. Sarà sconfitta come Daesh”. Dello stesso tenore le parole di Redur Xelil, portavoce delle milizie curde Forze di difesa popolari (Ypg), che definisce l’intervento militare turco in Siria come “una palese aggressione negli affari interni siriani”. Xelil ha spiegato che la richiesta turca di ritiro a est dell’Eufrate delle milizie deve essere esaminata dalle Forze democratiche siriane, coalizione a guida statunitense contro l’Isis in cui il gruppo curdo è una parte importante. Per Ankara, però, sia il Pyd che le milizie del Ypg sono alleate del Pkk, considerate “gruppo terroristico“.
.». Il manifesto, 23 agosto 2016 (c.m.c.)
Siamo entrati nella terza guerra mondiale, a bassa intensità, così le parole di Francesco sul mondo in fiamme. Ci sono guerre dappertutto: in Africa, in Siria, in Iraq, in Afghanistan. Siamo in guerra con la Natura e con i suoi ecosistemi di supporto alla vita. Ci sono guerre nelle città e dove la guerra non è stata proclamata, come in Europa, ci sono le aggressioni del capitale finanziario che distrugge ancora più spietatamente popoli e paesi (Grecia docet). E c’è ancora l’ideologia liberista che ha scatenato una competizione darwiniana di ognuno contro tutti: guerre dei ricchi contro i poveri, guerre di poveri contro migranti.
In questo contesto planetario l’unica manifestazione universale di pace – alcuni affermano – è rappresentata dalle Olimpiadi. Sopprimerle sarebbe abdicare totalmente a ogni tentativo di sana competizione planetaria, di universalismo dei popoli. Ma è vero? È un’affermazione che oggi si può condividere? Crediamo di no.
Alcuni episodi avvenuti nelle recenti olimpiadi di Rio, hanno segnato qualche tentativo di dissacrare almeno quel falso tabù del corpo perfetto. Mi riferisco alle tre atlete italiane che hanno conquistato l’argento al tiro con l’arco, alla portiera Teresa Almeida della squadra di pallamano dell’Angola. Finalmente anche corpi “imperfetti” hanno avuto cittadinanza in questa fiera di esibizione muscolare.
Ma è ben poca cosa a confronto con le operazioni di maquillage urbano (per dirla con un eufemismo) che hanno reso ancora più sofferenti gli abitanti dei quartieri di Rio smantellati per fare spazio ai fasti e alle opere faraoniche della celebrazione. La città se ne è avvantaggiata? Città è un termine astratto: bisognerebbe chiederlo a tutti i suoi abitanti e scopriremmo che chi stava male, chi soffriva, adesso sta ancora più male e soffre di più. Qualcuno ne ha certamente tratto qualche vantaggio: i soliti noti per i quali ogni evento costituisce occasione di ulteriore profitto. Per il resto, sulle prime pagine dei giornali troviamo solo la nascita di nuovi eroi o, al contrario, la caduta di consacrati dei pagati a suon di milioni e diventati icone nazionali.
Sono le olimpiadi un antidoto alla terza guerra mondiale a bassa intensità? Non crediamo.
Anche esse hanno subito la Grande Trasformazione che sconvolge il mondo: c’è ancora forse qualcosa in esse che richiama lo spirito di Pierre di Coubertin, delle olimpiadi antiche? O non sono esse, con tutto il loro micidiale apparato retorico, un evento mediatico dietro il quale si nascondono enormi interessi affaristici che ne condizionano lo spirito e forse anche gli esiti? Si dirà: è il Mercato bellezza!
Ma non erano proprio le olimpiadi quelle dove il Mercato non avrebbe dovuto trovare posto perché la sana competizione tra atleti si basa solo sulle loro singole capacità agonistiche e fisiche? Difficile pensarlo quando si vedono atleti dotati dei più sofisticati congegni tecnologici di supporto. Basta pensare al tiro con la carabina; un’arma, quella attuale, difficilmente riconoscibile ai non esperti, sembra quasi un fucile uscito dal film di Guerre stellari. Insomma le olimpiadi sono diventate la celebrazione retorica per non pensare ad altro dove “altro” è la terza guerra mondiale a bassa intensità.
Per questo noi chiediamo una moratoria mondiale delle olimpiadi: che riprendano a celebrarsi solo quando il mondo darà segnali concreti di voler superare le disuguaglianze, le guerre, le sofferenze, le ingiustizie ambientali, la piaga della povertà, che attualmente lo sconvolgono. Di un mondo diverso abbiamo bisogno, non di vivere una giornata all’insegna di un’ebbrezza mistica per tornare, subito dopo ad assistere, impotenti, alla distruzione del pianeta.
Il manifesto, 19 agosto 2016 (m.p.r.)
Omran Daqneesh ha cinque anni. È stato tirato fuori vivo da un palazzo colpito da un raid aereo. Non piange, non grida. Prova solo a pulirsi il sangue sulla sedia arancione dell’ambulanza su cui il paramedico l’ha lasciato. Omran è il silenzio disilluso di Aleppo, come Alan Kurdi era il fragore della fuga dalla guerra.
Aleppo non può andare oltre. La popolazione - 1,2 milioni ad ovest, nei quartieri sotto il governo, e 300mila ad est, sotto le opposizioni - è allo stremo. Gli scontri incessanti rendono impossibile la consegna degli aiuti.
E l’Onu alza le mani: l’inviato Staffan de Mistura ha sospeso ieri la task force a sostegno dei civili. Ad Aleppo non si entra, il programma era già ufficiosamente bloccato. Tanto vale chiuderlo, un atto più politico che pratico: De Mistura chiede «un gesto di umanità ad entrambe le parti» e una cessazione delle ostilità di almeno 48 ore.
Parole che seguono all’abbandono dell’incontro a Ginevra della task force dopo solo 8 minuti: nemmeno un convoglio è entrato, questioni di cui parlare ne restavano poche. «Quello che sentiamo dalla Siria – ha detto irritato – sono solo scontri, bombe, offensive, controffensive, missili, napalm, cecchini, bombe barile, kamikaze. In un un mese non un solo convoglio è stato in grado di raggiungere le zone assediate».
Mosca, che chiaramente gestisce i giochi, risponde: il Ministero della Difesa russo si è detto pronto ad implementare la tregua di 48 ore la prossima settimana, a condizione che gli aiuti passino sia nei quartieri del governo che in quelli delle opposizioni.
La colpa dello stallo è duplice: la Russia colpisce senza sosta, avendo in mano le sorti della battaglia; le opposizioni proseguono nella controffensiva anti-assedio. Di negoziare non se ne parla, non conviene a nessuno. Prima si vuole capire dove la «battaglia finale» condurrà e per Aleppo sarà tardi.
La scadenza di fine agosto paventata dall’Onu per la riapertura del dialogo a Ginevra è vicinissima: ieri fonti Usa hanno prospettato un incontro il 26 agosto tra il segretario di Stato Kerry e il ministro russo Lavrov. Ma a parlare è la guerra. I fronti si riposizionano con attori vecchi e nuovi che fanno capolino, convinti che Aleppo determinerà il futuro della Siria: la Cina si fa avanti per sostenere ufficialmente Assad, l’Iran dà le basi alla Russia, la Turchia sta con il piede in due staffe aprendo alla cooperazione con Teheran e Mosca ma senza stralciare gli obblighi Nato.
E gli Stati Uniti vanno nel pallone. Il silenzio di Washington (e quello della Ue, del tutto assente) è assordante: dopo aver quasi bombardato la Siria nel 2013, oggi Obama si defila e non reagisce alle chiare provocazioni della Russia che da giorni parla di dialogo in corso con la Casa Bianca su un possibile coordinamento militare.
Dopo cinque anni di guerra, con le opposizioni moderate all’angolo e quelle jihadiste in prima linea, con l’Isis padrone di ampie porzioni di territorio, la soluzione non è militare. Dalle violenze incrociate non si uscirà. La soluzione è politica: la guerra civile va interrotta individuando i nemici comuni e un processo di transizione che veda partecipi le diverse anime del paese. Utopia, visti gli interessi contrastanti e l’intreccio difficilmente districabile tra opposizioni islamiste e moderate.
E il governo deve capire che non riavrà indietro la Siria che aveva plasmato, aprendo prima di tutto le sue prigioni. Ieri Amnesty ha pubblicato un rapporto sulle carceri governative. Con le testimonianze di 65 sopravvissuti ha ricostruito una delle prigioni più temute, Saydnaya a Damasco: un complesso di tre braccia all’interno del quale in migliaia subiscono orribili torture e pestaggi. Costretti al silenzio in celle affollate, dove l’arrivo del cibo è accompagnato dalle botte, Saydanya - spiega Amnesty - è esempio del modello detentivo siriano.
Nelle prigioni di Stato, aggiunge, sarebbero morti 17.723 detenuti da marzo 2011 a dicembre 2015: più di 300 al mese, 10 al giorno. L’organizzazione afferma di non poter indicare con esattezza il numero di prigionieri e di decessi, provocati da torture, inedia e scarsità di cure mediche. Restano per questo dubbi sull’effettivo bilancio, che potrebbe apparire sovrastimato.
La Repubblica, 17 agosto 2016
Presidente Maurer, nello Yemen i caccia sauditi bombardano la popolazione civile come fanno quelli russi e del regime di Damasco ad Aleppo e Idlib. Ma la neutralità del Cicr non confligge con il dovere di denunciare un crimine?
Nel mondo si contano 56 milioni di persone che scappano da guerre o miseria. Come si è giunti a questo record agghiacciante?
«Basti pensare che in nessuno dei maggiori conflitti nei quali è coinvolta la Croce rossa si percepisce una dinamica positiva. In nessuno di essi c’è un cessate il fuoco duraturo né s’intravede uno spiraglio di pace. E quindi, dal Medio Oriente al Corno d’Africa, dal Sahel alla regione del Lago Ciad all’Afghanistan assistiamo a enormi spostamenti di folle di civili in fuga. Nel mondo d’oggi chi sta bene sta sempre meglio, chi sta male sta sempre peggio».
Come giudica l’accordo con la Turchia e l’atteggiamento dell’Europa di fronte alla crisi dei migranti?
«Sono molto preoccupato. I miei dubbi sul nostro comportamento riguardano sia l’accordo turco-europeo sia alcune politiche unilaterali adottate da Paesi dell’Unione. Due i problemi: anzitutto la brutta figura che facciamo con il resto del mondo, che accusa noi europei di non essere abbastanza generosi; c’è poi l’enorme scarto tra quanto scritto nell’accordo e la sua attuazione sul terreno, con migliaia di persone rimaste prigioniere tra la Turchia e l’Europa senza nessuna assistenza legale ».
Ha ragione papa Francesco quando parla dell’universalizzazione dell’indifferenza?«C’è una forte discrepanza tra gli interessi della comunità internazionale, le problematiche dei Paesi in guerra e le risorse necessarie a ripararle. Purtroppo, là dove c’è bisogno, queste non ci sono mai, perché manca l’attenzione delle grandi potenze economiche. All’inizio del millennio, c’eravamo tutti illusi che una volta risolto il flagello della povertà avremmo costruito un mondo migliore. Quindici anni dopo, la gente è più ricca ma nel pianeta ci sono anche più violenza e più distruzione. Oggi, non sono i poveri all’origine delle guerre ma piuttosto le profonde ingiustizie della società, e l’incapacità dei leader a sanarle. La gravità e la vastità dei conflitti in corso contribuiscono a creare la peggiore situazione dalla fine della Seconda guerra mondiale».
Articolo21 online, 16 agosto 2016 (c.m.c.)
L’ospedale di Abs, nel governatorato di Hajjah in Yemen nord-occidentale, è stato colpito ieri da un attacco aereo che ha ucciso almeno 11 persone e ne ha ferite almeno 19. L’esplosione ha ucciso sul colpo nove persone, tra cui un membro dello staff di MSF, e altri due pazienti sono morti mentre venivano trasferiti all’ospedale di Al Jamhouri.
L’ospedale di Abs, supportato da MSF dal luglio 2015, è stato parzialmente distrutto e tutti i pazienti e il personale sopravvissuti sono stati evacuati. Le coordinate GPS dell’ospedale erano state condivise più volte con tutte le parti in conflitto tra cui la coalizione a guida saudita, e la sua localizzazione era ben nota. «È il quarto attacco contro una struttura MSF in Yemen in meno di 12 mesi. Ancora una volta, abbiamo visto le tragiche conseguenze del bombardamento di un ospedale.
Ancora una volta un ospedale in funzione, pieno di pazienti e di staff MSF nazionale e internazionale, è stato bombardato in una guerra che non mostra alcun rispetto per le strutture mediche e i pazienti. Un bombardamento aereo ha colpito il compound dell’ospedale, togliendo la vita a 11 persone» ha detto Teresa Sancristóval, responsabile dell’unità di emergenza in Yemen. «“Nonostante la recente risoluzione delle Nazioni Unite che chiede di porre fine agli attacchi contro le strutture mediche e nonostante le dichiarazioni di alto livello perché sia rispettato il Diritto Internazionale Umanitario, non sembra venga fatto nulla perché le parti coinvolte nel conflitto in Yemen rispettino il personale medico e i pazienti. Senza azioni, questi gesti pubblici restano privi di significato per le vittime di oggi. Sia che si tratti di intenzionalità che di negligenza, tutto questo è inaccettabile.»
«Le persone in Yemen continuano a essere uccise e ferite mentre cercano di essere curate. La violenza in Yemen sta avendo un peso sproporzionato sui civili. Proviamo enorme rabbia perché ancora una volta dobbiamo mandare le condoglianze alle famiglie del nostro collega e di 10 pazienti, che dovevano essere al sicuro all’interno di un ospedale».
MSF chiede a tutte le parti del conflitto, e soprattutto alla coalizione a guida saudita responsabile del bombardamento, di garantire che attacchi simili non accadano più.
Da luglio 2015 l’ospedale di Abs, principale centro sanitario in funzione nell’area occidentale del governatorato di Hajjah, ha curato 4.611 pazienti. Aveva un pronto soccorso con 14 posti letto, un reparto di maternità e uno di chirurgia. Nelle ultime settimane l’ospedale aveva visto un aumento di pazienti feriti, soprattutto vittime dei recenti combattimenti e della campagna di attacchi aerei nell’area. Al momento del bombardamento, c’erano 23 pazienti in chirurgia, 25 nel reparto di maternità – tra cui 13 neonati – e 12 in pediatria.
L’ospedale aveva ricoverato in giornata diversi feriti di guerra. Il numero di pazienti che si trovavano nel pronto soccorso potrebbe variare dopo ulteriori verifiche in corso.
In Yemen MSF lavora in 11 ospedali e centri sanitari e fornisce supporto ad altri 18 ospedali o centri sanitari in otto governatorati (Aden, Al-Dhale’, Taiz, Saada, Amran, Hajjah, Ibb e Sana’a). Nel paese lavorano più di 2.000 operatori di MSF, tra cui 90 internazionali.
«». Contribuiamo ad ammazzare, ma intanto il PIL cresce. Altraeconomia , 16 agosto 2016 (c.m.c)
Fino a qualche mese fa Domusnovas -piccolo centro sardo di 6.300 abitanti in provincia di Carbonia-Iglesias- era conosciuto solo da qualche turista per le sue bellissime grotte carsiche. La presenza delle grotte di San Giovanni è ben segnalata già nei cartelli della statale 130, che collega Cagliari al paese, e arriva fino a Iglesias. Dallo scorso ottobre, però, Domusnovas è diventata nota per un’altra presenza: quella della fabbrica di armi della società Rwm Spa.
Nessun cartello sulla 130 la segnala nonostante anch’essa si trovi a pochi chilometri dal centro. Per trovarla è necessario chiedere a qualche passante, che appena sente il nome della fabbrica cambia espressione, salvo poi indicare la via dellocalità Matt’è Conti. Attraversando le campagne sulcitane si raggiunge un parcheggio antistante il caseggiato; se non fosse per le sbarre su tutte le finestre che si affacciano sul piazzale -e il filo spinato sopra ai muri- sembrerebbe uno stabilimento qualsiasi.
E invece dai cancelli della Rwm Spa sono partiti razzi, siluri e bombe verso varie destinazioni, tra le quali figura anche l’Arabia Saudita, come si legge nella Relazione sulle operazioni autorizzate di controllo materiale di armamento 2015 del governo. La fabbrica ha iniziato a comparire sulle cronache quando il deputato Muro Pili, il 29 ottobre 2015, ha pubblicato video e fotografie che davano conto del carico di missili in partenza dallo scalo civile di Elmas, denunciando il mancato adempimento delle norme di sicurezza che regolano il trasporto delle armi. Il carico era pronto all’imbarco poco lontano dalla pista di decollo degli aerei di linea.
Amnesty International, la Rete Disarmo e l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia (OPAL) hanno chiesto conto al governo, mentre alcuni deputati e senatori appartenenti a vari schieramenti hanno presentato interrogazioni, soprattutto per quanto riguarda l’invio del materiale bellico a Paesi in guerra, in palese violazione della legge 185/90. A tentare di fugare i dubbi sulla sicurezza dell’esportazione è intervenuto l’Ente nazionale aviazione civile, cui ha fatto seguito -a proposito della legalità dell’operazione- la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Secondo il governo, la Germania sarebbe stata la responsabile ultima della decisione, vista l’appartenenza di Rwm Italia a un gruppo tedesco.
Tesi che è stata però smentita dalle risposte ufficiali di Berlino. “È chiaro che si tratta di una questione tutta italiana -ha spiegato a Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo, Jan van Aken, deputato della Linke al Parlamento tedesco-, perché Rwm già produceva queste bombe prima dell’acquisizione da parte di Rheinmetall. E una richiesta formale di autorizzazione alla Germania deve essere fatta solo se c’è trasferimento di know-how. Nonostante ciò, dopo aver letto le notizie che rimbalzavano anche qui dalla Sardegna, abbiamo voluto una conferma ufficiale.
E la risposta è stata chiara”. Spiega Vignarca: «Il governo Merkel ha infatti risposto all’interpellanza di Van Anken dichiarando che ‘nessuna competente autorizzazione’ era stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas» (è possibile leggere qui i documenti del governo tedesco, che Altreconomia pubblica in esclusiva).
Le esportazioni, in ogni caso, sono andate avanti. Ancora nel marzo 2016, OPAL ha dato conto di nuove partenze di bombe da Cagliari verso l’Arabia Saudita per 5 milioni di euro.
Qui a Domusnovas, però, la questione più rilevante è quella occupazionale. La Rwm Spa con sede legale a Ghedi (BS) ha un capitale sociale di 2 milioni di euro interamente detenuto dalla Rheinmetall waffe munition Gmbh (Rheinmetall Defence), occupa in Sardegna 74 addetti, e nel 2015 ha fatturato 54,5 milioni di euro. Lo stabilimento sorge negli stessi spazi dove nel 1933 nacque la Società Esplosivi Industriali Spa (SEI) per fare fronte alle richieste dell’industria mineraria, allora settore trainante del Sulcis. Ora non produce più esplosivi per miniere e il gruppo cui fa riferimento, Rheinmetall Defence, è un colosso da 25mila dipendenti e un fatturato consolidato che nel 2015 ha superato i 5 miliardi di euro.
L’attenzione mediatica da queste parti non è affatto gradita. Le persone che accettano di parlare pretendono i microfoni spenti. I dipendenti, poi, potrebbero incorrere nelle sanzioni del “codice etico” aziendale, che all’articolo 22 prevede il licenziamento per la diffusione di informazioni riservate. Chi spera di trovare lavoro nella fabbrica, invece, preferisce evitare i giornalisti. Qui tutti contano un parente o un conoscente impiegato alla Rwm e la preoccupazione è che anche questa fabbrica possa chiudere o decidere di delocalizzare la produzione.
Dal punto di vista occupazionale questo è un territorio già molto provato dalla dismissione delle miniere e dalle vertenze Carbosulcis, Alcoa, Euroallumina e Portovesme Srl per le quali ancora si sta cercando una soluzione alternativa al licenziamento. La chiusura dell’ennesimo stabilimento sarebbe un’altro duro colpo all’economia della zona. Gli ultimi dati Istat dicono che qui la disoccupazione è al 17% con quella giovanile che supera il 60%, e se nel 2014 il Pil procapite del Sud Italia era di 16.761 euro -circa la metà rispetto a quello del Nord- nel Sulcis è di soli 8.800 euro.
I giovani rappresentano il 30% della popolazione e questa, insieme a quella di Oristano, è la zona che ha perso più abitanti nell’ultimo anno, per lo più giovani e qualificati, alla ricerca di qualche opportunità, soprattutto all’estero. Anche perché alla riconversione non crede più nessuno. Alcuni qui a Domusnovas si dichiarano sì contro le guerre, ma sono anche convinti che se chiudessero la Rwm le armi continuerebbero ad essere prodotte da qualche altra parte, mentre certamente loro perderebbero il lavoro.
La questione più controversa però rimane quella etica. Da ottobre scorso ad oggi ci sono state tre manifestazioni davanti alla fabbrica, sempre per chiederne la chiusura e lo smantellamento. All’ultima, nel maggio scorso, hanno partecipato un centinaio di persone. Il comitato “No bombe” parla di ricatto occupazionale: «Sappiamo perfettamente che le multinazionali fanno i migliori investimenti nei Paesi con più difficoltà economiche, non per ultimo in Sardegna, dove il lavoro non è mai stato un’opportunità bensì un ricatto. La possibilità di perdere alcuni posti di lavoro in un territorio devastato economicamente e socialmente crea ansia, lo possiamo capire, ma non per questo accettare». Quello stesso giorno, gruppi antimilitaristi tedeschi hanno manifestato a Berlino durante l’assemblea generale degli azionisti della Rheinmetall Defence.
Franco Uda è il coordinatore della Tavola della Pace Sarda, una rete di 30 associazioni. È convinto che sviluppare un conflitto tra lavoratori sia inutile. Insieme alla Rete italiana per il Disarmo la Tavola inviato a 10 Procure di tutta Italia, comprese Cagliari e Brescia, un esposto contro il governo italiano per la violazione della legge 185/90 che è quella che regola l’export di armi.
«Nel passato questa norme veniva aggirata attraverso le triangolazioni -ricorda Uda-, per cui l’Italia vendeva armi all’Egitto e l’Egitto poi le vendeva all’Arabia Saudita che era in guerra contro lo Yemen. Mentre ora, anche questo elemento di pudore viene completamente saltato. Oggi l’Italia vende direttamente all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen». Per Salvatore Drago, dell’Unione sindacale di base, l’unica soluzione è dare alternative -come la riconversione della fabbrica-, anche se è convinto che spetti ai lavoratori assumersi delle responsabilità.
ilmanifesto, 14 agosto 2016
Com’è fatta la libertà? Una sigaretta, un pezzo di stoffa nero dato alle fiamme, forbici per accorciarsi la barba. A Manbij è la riconquista dei frammenti di vita quotidiana, sotto l’Isis peccati da punire. Emozionano le immagini arrivate ieri dalla città nel nord della Siria: gli abbracci tra le donne costrette in lunghi vestiti neri e le combattenti kurde delle Ypg, le risate degli uomini che si tagliano la barba in strada, le corse dei bambini con le loro mamme, una partita di pallone improvvisata.
Manbij è libera e lo sono anche i duemila civili che gli islamisti in ritirata avevano rapito per farne scudi umani venerdì sera. Nella notte le Forze Democratiche Siriane (Sdf) li hanno ricondotti a Manbij. Un’altra vittoria enorme per le Sdf e il bagaglio che portano con sé, già nel loro nome: gruppi di etnie diverse, arabi, turkmeni, assiri, circassi, e i kurdi di Rojava a guidare le operazioni.
Ma prima di tutto siriani: Manbij da sola rappresenta la ricchezza confessionale ed etnica che in Medio Oriente è stata normalità per secoli. Basta scorrere la lunga lista dei suoi appellativi: Manbij in arabo, Mabuk in kurdo, Mumbuj in circasso, Mabbuh in siriaco. Circa 100mila abitanti, per una storia antica molto più di due millenni e soffocata per due anni e mezzo dallo Stato Islamico che l’ha occupata il 23 gennaio 2014, dopo aver cacciato le opposizioni al governo Assad.
Ieri Manbij è tornata alla sua vita. Ai festeggiamenti della gente si è unita la comunità internazionale che ha lodato i combattenti. Un coro unanime che si spezza 80 km a sud ovest, ad Aleppo. La “capitale del nord” è l’opposto di Manbij: se qui l’unità dei siriani ha permesso la cacciata del nemico comune, lì la guerra civile e la sua galassia di interessi esterni divide e strema la popolazione.
A leggere le notizie da Aleppo ci si perde: i media locali e internazionali riportano frammenti di notizie, utili a foraggiare questa o quella narrativa. E così la stampa iraniana, russa e quella di Stato siriana celebrano i presunti avanzamenti delle truppe governative; quelle mainstream occidentali e i gruppi anti-Assad parlano di strenua resistenza.
I primi elencano i civili uccisi dai missili delle opposizioni (per lo più islamiste, vista la debolezza dell’Esercito Libero che ormai va a rimorchio di qaedisti e salafiti), i secondi quelli nei raid russi.
Sono cento i morti e 700 i feriti imputabili ai “ribelli” dall’inizio di agosto, dicono da Damasco, soprattutto nella zona sud dove si concentrano gli scontri dopo l’occupazione della base di Ramousa da parte delle formazioni islamiste. Che ribattono: il governo ne ha fatti altrettanti in una sola notte in tutto il paese.
Di certo ad Aleppo si muore di fame e di assenza di assistenza medica. Da entrambe le parti, quelle est sotto i “ribelli” e quelle ovest sotto il governo. Di ospedali funzionanti non ce ne sono quasi più: venerdì un raid russo ha colpito un’altra clinica, 18 morti. Quelli ancora aperti, soprattutto nella parte occidentale, sono quasi privi di medicinali e strapieni di feriti, tra soldati e civili colpiti dai missili dei “ribelli”.
La responsabilità è bipartisan, l’inferno è duplice e si sovrappone. Ognuno ha il suo obiettivo, ben consapevole che Aleppo deciderà buona parte della guerra civile. Le opposizioni vogliono impedire una vittoria chiara del governo, continuare a controllare i quartieri già occupati per minare il potere contrattuale di Assad ad un eventuale tavolo del dialogo.
Damasco, da parte sua, sa di non poter eliminare ogni singola sacca di “ribelli”. E allora le accerchia, le chiude in enclavi, che siano città, villaggi o quartieri, circondate da territorio controllato dal governo e prive della continuità fisica necessaria a rifornirsi, militarmente, e a rappresentare un’alternativa, politicamente.
E se la Russia resta in prima linea, gli Stati Uniti si nascondono. Perché ad Aleppo è difficile “schierarsi”: il fronte delle opposizioni, compattato dal mito della battaglia finale, è monopolizzato da un gruppo terrorista (l’ex al-Nusra, oggi Jabhat Fatah al-Sham) che guida però milizie stranamente legittime agli occhi dell’Occidente.
Washington è alle strette, consapevole del pericolo che opposizioni che fanno della negazione dei diritti delle minoranze la stella polare rappresenterebbero per la Siria nel caso amplino il controllo sul territorio.
Viene meno la possibilità di una reale cooperazione tra Usa e Russia, paventata nelle scorse settimane, per colpire i nemici comuni, Isis e Jabhat Fatah al-Sham. Ma con i “ribelli” moderati (finanziati generosamente per anni tramite Golfo, Giordania e Turchia) oggi meri gregari dei qaedisti, la soluzione militare si allontana insieme a quella politica.
«. Il Fatto Quotidiano online, blog di Riccardo Noury , 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Secondo dati raccolti dall’Ong israeliana B’Tselem e corroborati dall’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari, dall’inizio del 2016 le autorità militari israeliane hanno demolito almeno 180 abitazioni di palestinesi. Un numero record nell’arco di sette mesi, che ha superato anche quello del 2013 con 175 demolizioni eseguite, nello stesso periodo di tempo.
L’aumento delle demolizioni ordinate dall’Amministrazione civile (l’autorità militare israeliana di governo in Cisgiordania) è spaventoso: non considerando quelle eseguite come sanzione a seguito di attentati e attacchi armati, negli ultimi 10 anni il totale era stato di poco superiore a 1100 demolizioni.
Secondo B’Tselem, le 1113 demolizioni dell’ultimo decennio hanno lasciato senza tetto almeno 5199 palestinesi, quasi la metà dei quali minorenni. Tutte hanno avuto luogo nell’area C, che è sotto il pieno controllo, amministrativo e di sicurezza, dell’autorità militare israeliana.Israele giustifica le demolizioni definendole provvedimenti amministrativi nei confronti di strutture abusive. Tuttavia, nell’area C è pressoché impossibile ottenere il permesso di costruzione: tra il 2010 e il 2014 l’Amministrazione civile ha approvato solo l’1,5 per cento delle richieste. Che si tratti di prassi discriminatorie contro i palestinesi lo ha recentemente ammesso anche l’esercito israeliano.
Dal 1988, Israele ha emesso complessivamente 14.000 ordini di demolizione riguardanti circa 17.000 abitazioni e altre strutture civili palestinesi: 3000 sono stati eseguiti. Gli altri 11.000, la maggior parte dei quali riguarda sempre l’area C, è in via d’esecuzione o è oggetto di ricorsi. I difensori dell’occupazione sostengono che il problema sia di poco conto, interessando “soltanto” 300.000 palestinesi.
L’obiettivo non dichiarato di questa ondata di demolizioni potrebbe averlo reso candidamente noto Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, in un’intervista rilasciata al “Jerusalem Post” all’inizio dell’anno: “Il massimo di ebrei sul massimo di terra, con la massima sicurezza e il minimo di palestinesi”.Ossia , di demolizione in demolizione, l’annessione di fatto dell’area C e il proseguimento degli insediamenti israeliani.
Il Fatto Quotidiano online, blog di Fabio Marcelli, 7 agosto 2016 (c.m.c.)
Con un rapporto pubblicato recentemente, due organismi attivi sul campo della raccolta d’informazione in ordine a corruzione e traffici internazionali, il Birn (Balkan Investigative Reporting Network) e l’Occrp (Organized Crime and Corruption Reporting Project) hanno denunciato un traffico d’armi del valore di ben 1,2 miliardi di euro verso il Medio Oriente e il Nordafrica.
Si tratta di armi e munizioni provenienti da Paesi dell’Est europeo quasi tutti membri della Nato (Croazia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Bulgaria, Romania Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e dirette verso Paesi medio- orientali (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia).
Ma destinatari finali del traffico sono gruppi armati operanti in Siria, Libia ed Yemen, tra i quali il famigerato Isis ed altre formazioni fondamentaliste.Il rapporto in questione fornisce informazioni dettagliate sui vettori del traffico (compresa la Marina militare statunitense) e la sua entità e composizione (tanto per fare un esempio 10.000 kalashnikov e 300 tanks forniti all’Arabia Saudita).
Altra circostanza degna di nota è che il traffico in questione si sia sviluppato soprattutto a partire dal 2012, in coincidenza con gli eventi noti come “primavera araba”. Il ruolo di distribuzione degli armamenti e delle munizioni in loco è svolto da centri noti come Military Operations Center (MOC) e formati da personale militare e dei servizi di Turchia, Paesi del Golfo, Giordania e Stati Uniti. Secondo Robert Stephen Ford, ambasciatore statunitense in Siria dal 2011 al 2014, anche la CIA è direttamente coinvolta, ma la decisione finale su chi possa ricevere armamenti è riservata ai Paesi direttamente impegnati nel rifornire i gruppi armati. Lo Special Operations Command (SOCOM) del Dipartimento di Difesa statunitense ha operato a sua volta ingenti trasferimenti di armi e munizioni ai gruppi impegnati nella guerra civile siriana.
Vale la pena di sottolineare come i due organismi autori del rapporto menzionato siano delle reti investigative di giornalisti indipendenti. Sarebbe del resto stato illusorio aspettarsi che i governi, che sono i principali colpevoli di questo traffico totalmente illegale, fornissero al riguardo alcun elemento.
L’opinione pubblica è lasciata nel buio più totale e chiedere ad enti che istituzionalmente dovrebbero vegliare alla sicurezza nazionale e internazionale di muoversi per bloccarlo sarebbe come chiedere alla Rai di Campo Dall’Orto di svolgere un’informazione completa e obiettiva sul referendum costituzionale
Dobbiamo apprezzare la sincerità del ministro serbo Vucic quando afferma di “adorare” le esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita. Nella consapevolezza tuttavia che la presenza di personaggi del genere al vertice degli Stati avvicina notevolmente l’estinzione del genere umano e produce violazioni dei diritti e sofferenze inaudite.Dobbiamo peraltro riflettere sul meccanismo che è stato posto in atto e che rischia di ricevere ulteriore slancio dall’escalation dei bombardamenti occidentali in Libia ai quali, sia pure in veste come sempre subalterna, è associato anche il nostro Paese.
Il meccanismo in questione consiste nella sostanza in questo, con una mano si riforniscono i vari gruppi più o meno terroristici operanti nei Paesi menzionati, di armamenti di ogni genere e con l’altra li si bombarda quando conviene farlo o perché diventano troppo pericolosi. Lo si vede attualmente in Libia, laddove i bombardamenti sono direttamente funzionali al sostegno di un governo non troppo dotato di sostegno popolare come quello di Al Sarraj, nel contesto anche di dinamiche di conflittualità interna tra potenze imperialiste tutte fortemente interessate ai giacimenti libici (la Francia, principale responsabile dell’attuale situzione di caos nel Paese, sostiene Haftar contro Al Sarraj).
Certamente formazioni come Isis vanno estirpate anche con il ricorso alla forza armata ma non ha certo senso a tale scopo armarli fino ai denti come hanno fatto e continuano a fare i Paesi menzionati. Ci vuole inoltre un progetto politico che sembra totalmente assente in Libia, mentre in Siria comincia a delinearsi quello della riorganizzazione del Paese su base federale esemplificato dal governo della Rojava. Andrebbe potenziato il ruolo del Consiglio di Sicurezza che ha emanato al riguardo la risoluzione 2259, superando le tendenze alla ripresa all’unilateralismo esemplificate dalla decisione statunitense.
La nostra mediocre classe politica, rappresentata da personaggi chiaramente non all’altezza della situazione come Renzi, Gentiloni, Pinotti e Mogherini, continua a barcamenarsi. Per tutto un periodo ha giustamente rifiutato (almeno a parole) un impegno diretto nel sanguinoso pasticcio libico, ma senza riuscire ad elaborare alcuna posizione degna di questo nome, tanto è vero che oggi accorre scodinzolando all’irresistibile richiamo dei padroni di sempre.
L’Italia, in omaggio al suo ruolo di potenza mediterranea, dovrebbe invece restarne fuori e cominciare a smontare il meccanismo mortifero e diabolico di cui si è parlato. Quantomeno seguendo l’esempio dell’Olanda che ha decretato la fine delle esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita, a costo di privare i propri funzionari dei preziosi Rolex elargiti dal governo di quest’ultima. Ma non c’è spazio per decisioni di questo tipo all’interno dell’asfittico orizzonte di politica estera praticato dal nostro governo che si proietta verso una nuova avventura bellica dagli sviluppi ed esiti indefiniti aggirando ogni controllo parlamentare e popolare.
Il manifesto, 5 agosto 2016
In questo quadro il coinvolgimento italiano è inevitabile se non viene espressa una volontà esplicitamente contraria. Le ragioni sono di natura militare e politica. Un’azione così prolungata nel tempo richiede l’utilizzo delle basi di Aviano e di Sigonella.
Particolarmente di quest’ultima, distante solo una ventina di minuti di volo dall’obiettivo. D’altro canto la Sicilia è sempre stata considerata oltreoceano una «portaerei americana» nel Mediterraneo, espressione mutuata da una quasi identica di Mussolini riferita a tutt’altro contesto.
A parte la parentesi dello scontro Craxi-Reagan di una trentina di anni fa, ha continuato ad esserlo fino ai giorni nostri. D’altro canto se l’Italia vuole realmente candidarsi alla guida della missione Liam per la “stabilizzazione” del paese libico, qualche contributo lo deve dare. In altre parole se gli scarponi non sono sul terreno, le basi aeree italiane sono già in guerra.
Ma chi lo ha deciso e chi lo avrebbe dovuto decidere? E’ ridicolo che siano solo le commissioni Esteri e Difesa riunite delle due camere ad essere “informate”, mentre l’Aula si deve accontentare di un question time della ministra Pinotti. Non si tratta di riferire ma di trovare la sede della decisione.
Si dirà che non è la prima volta che si verifica l’esautoramento del Parlamento da una delle decisioni più esiziali per un paese, l’entrata in guerra comunque mascherata - il termine intervento umanitario è immancabilmente ricomparso nelle dichiarazioni di Gentiloni. Ma non è una buona ragione per perseverare.
Quindi non solo è giusto e necessario che si chieda l’immediata convocazione delle camere per discutere il ruolo dell’Italia nella vicenda libica, ma che si torni a riflettere sulle conseguenze che la “deforma” della Costituzione può avere in questo campo.
Infatti tra i 47 articoli revisionati dalla legge Renzi-Boschi vi è anche l’articolo 78 che concerne la dichiarazione dello stato di guerra. Per la precisione l’attuale testo, ancora vigente fino (e speriamo anche dopo) al pronunciamento referendario recita «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre quello deformato dice: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».
Come è noto attorno a questo articolo si è sviluppato negli anni un larghissimo dibattito, dai tempi della Costituente fino a quello degli anni migliori del movimento pacifista. Riassumerlo qui sarebbe un’ambizione smodata e insensata.
Ma è certo che tale formulazione era stata pensata dai costituenti come una deroga solo temporanea ed eccezionale, come strumento ultimo di difesa e non di offesa, al principio di ripudio della guerra sancito dall’Articolo 11 facente parte dei principi fondamentali della Carta. Il potere di attivare lo stato di guerra spettante al Parlamento si configura quindi come atto politico per eccellenza, presuppone e coinvolge principi etici, un’accurata valutazione del quadro politico e militare internazionale, una discussione grave e approfondita circa la necessità del l’instaurazione del regime giuridico di eccezionalità.
Discussione tanto più impegnativa e imprescindibile se si tiene conto delle modalità extraistituzionali, a livello internazionale e interno, con cui le decisioni belliche vengono assunte e i relativi mascheramenti linguistici con cui vengono giustificate. Per questa ragione più d’uno ha pensato che prevedere una maggioranza superiore per l’elezione, almeno in prima battuta, del Presidente della Repubblica a quella della dichiarazione dello stato di guerra fosse una assurdità. E vi sono state iniziative di parlamentari, anche trasversali, ma inascoltate, che hanno cercato di porre rimedio chiedendo che la dichiarazione dello stato di guerra potesse avvenire solo sulla base di un voto dei due terzi dei componenti le camere.
Il testo della “deforma” costituzionale peggiora in modo evidente questo quadro. Non solo e non tanto perché è solo una Camera che viene chiamata a pronunciarsi. Infatti il Senato continua ad esistere ed entra in decisioni chiave, come le leggi di revisione costituzionale, ma non su questa che è la più importante di tutte. Ma perché la nuova norma costituzionale, applicata in un contesto nel quale è entrato in vigore l’Italicum, fa sì che la maggioranza assoluta richiesta sia già data all’atto stesso della nascita della camera – grazie al premio di maggioranza dato a una minoranza – e che appartenga a un solo partito.
In questo modo la dichiarazione di guerra è affare esclusivo del partito di maggioranza relativa e, visti gli attuali chiari di luna, di un uomo solo, cioè il suo segretario. Potente regressione della democrazia e della civiltà giuridica, che possiamo e dobbiamo fermare con un forte No nel prossimo autunno.
Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2016 (p.d.)
“Non siamo in guerra? Bugie per coprire attacchi preparati da tempo”. Tra una sessione e l’altra di un Campo di Lavoro a Castelvolturno, dedicata proprio alla convivenza tra italiani e africani (“qui oramai sono la metà della popolazione”), padre Alex Zanotelli rinnova i suoi strali verso i “negazionismi ” sulle operazioni in Libia.
Li lanciò già sei mesi fa.
Fuori dalle percezioni, che guerra sarebbe?
In un suo appello, lanciato a inizio anno assieme allo storico Angelo Del Boca, lei ha ipotizzato un “solo caso in cui l'Italia può intervenire”, indicando la strada di una “missione di pace” su richiesta delle autorità locali. Tale missione potrebbe per lei prevedere l'accompagnamento di forze militari?
Nel suo no alla guerra c'è anche l'argomento che “i libici ci odiano”. Ma è proprio così?
In questi anni si è discusso anche di operazioni militari orientate a fermare l'immigrazione.
Il manifesto, 3 agosto 2016 (p.d.)
«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del governo di unità nazionale, a sostegno delle forze fedeli al governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo è il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto. Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
Il manifesto, 31 luglio 2016
Secondo fonti militari turche almeno 35 persone appartenenti al Pkk sarebbero state uccise da un raid aereo, dopo un tentativo di attacco ad una base nella provincia sudorientale di Hakkari, al confine con l’Iraq. Poche ore dopo, altri ribelli curdi hanno tentato di assaltare una base militare nella stessa zona. Negli scontri che ne sono conseguiti, sarebbero rimasti feriti almeno 25 soldati.
Tornano dunque gli scontri nel Kurdistan dopo gli eventi che hanno portato al tentato golpe e alla risposta da parte di Erdogan. La Turchia, paese Nato, di comune accordo con gli Usa, ha messo da tempo il Pkk tra le «organizzazioni terroristiche» e benché un anno fa sia stato raggiungo un cessate il fuoco, da tempo nelle regioni sud orientali del paese si è tornati a sparare. Il clima nel paese resta di massima tensione. Ieri un tribunale di Istanbul ha convalidato l’arresto di 17 dei 21 giornalisti turchi fermati dopo che lunedì era stato diramato un mandato di cattura per 42 reporter sospettati di far parte di quello che diventata la giustificazione di tutto da parte di Erdogan, ovvero di appartenere in qualche modo alla «rete» di Fethullah Gulen, accusato da Ankara del fallito golpe.
Le immagini dei reporter in manette, in marcia sotto gli occhi vigili dei poliziotti hanno fatto il giro del mondo. Gli altri 21 per cui è stato chiesto il fermo risultano ancora ricercati. Tra gli arrestati, con l’accusa di «far parte dell’organizzazione terroristica» di Gulen, c’è anche la reporter ed ex deputata Nazli Ilicak, 72 anni. È stato invece rilasciato l’ex responsabile dei contenuti digitali di Hurriyet, Bulent Mumay. E proprio Nazli Ilicak, veterana del mondo giornalistico nazionale e già «firma» riconosciuta e prestigiosa di quotidiani ed emittenti televisive, avrebbe dichiarato di non avere alcun rapporto con i seguaci di Fethullah Gulen; una presa di distanza che non le ha evitato il carcere.
A proposito di arresti: ieri Ankara ha deciso il rilascio di 758 delle 989 reclute militari arrestate in relazione al tentativo di golpe. E per capire che aria tiri nel paese bastino le parole del vice premier – Numan Kurtulmus – secondo il quale, membri dell’organizzazione di Gulen si anniderebbero anche all’interno dell’Akp il partito del presidente.
Un segnale della paranoia e della volontà di fare piazza pulita una volta per tutte da parte del «Sultano atlantico»: sull’eventualità che alcuni gulenisti possano essersi infiltrati nel partito, il vice primo ministro – che a sua volta fa parte dell’Akp – ha dichiarato in un’intervista al quotidiano Hurriyet che «è possibile perché per molti anni ci sono state persone che appartenevano a questa organizzazione e che erano nell’establishment dell’Akp».
«Purtroppo – ha aggiunto – sono stati tollerati. Hanno avuto anche dei ministri». Kurtulmus ha infine annunciato che i gulenisti saranno rimossi dall’Akp come lo sono stati dalle alte sfere dello stato, dalla magistratura all’esercito. Su questo argomento non si è espresso Erdogan, che ieri si è dedicato invece alle critiche che arrivano dal mondo occidentale. L’Unione europea e gli Usa – ha detto il presidente – non devono dare consigli alla Turchia, bensì «occuparsi degli affari loro».
Erdogan ha così commentato con i giornalisti ad Ankara i timori espressi dall’Occidente per le epurazioni che hanno seguito il fallito golpe militare del 15 luglio.
Ieri il ministro dell’interno turco, Efkan Ala, ha annunciato che sono state arrestate 18.044 persone dal fallito colpo di Stato e che per 9.677 di loro è stata confermata la misura del carcere. «Alcune persone ci danno consigli. Dicono che sono preoccupate. Fatevi gli affari vostri! Guardate le vostre azioni», ha affermato Erdogan, citato dai media locali. «Non una singola persona ci ha fatto le condoglianze e poi dicono che Erdogan è così arrabbiato». Il presidente ha inoltre annunciato di aver ritirato le denunce contro «chi mi ha insultato».