Il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute. A livello globale il livello sale dello 0,4%. Boom di Russia e Cina, in crescita anche Stati Uniti
Paesi in forte espansione economica e paesi in grave crisi, democrazie e regimi autoritari, superpotenze industriali-postindustriali, paesi emergenti, paesi poveri. Il mondo è composto da tante realtà diverse, ma quasi tutte con un dato in comune: la tendenza prevalente all´aumento delle spese militari, che negli ultimi cinque anni per la prima volta sono giunte al massimo livello dalla fine della guerra fredda. In particolare, le spese militari nel mondo in totale sono aumentate dello 0,4 per cento in termini reali a 1686 miliardi di dollari.
Ma ben piú importante, in alcuni casi vertiginoso, è l´aumento dei bilanci per le forze armate negli Stati Uniti, in Cina, in Russia in India. Crescono le spese militari anche in Europa, Italia compresa anzi prima in percentuale tra i membri europei dell´Alleanza atlantica nonostante la spending review e l´alto debito sovrano, mentre tendono a calare in quasi tutti i Petrostati a causa dei bassi prezzi del greggio. Ecco la precisa diagnosi dell´ultimo rapporto annuale del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), forse la fonte piú attendibile in materia a livello mondiale.
Vediamo la situazione, caso per caso. In Europa occidentale l´aumento complessivo è stato del 2,6 per cento, a conferma della tendenza iniziata l´anno precedente. Significativo il fatto che secondo il SIPRI è l´Italia il paese in cui è stato registrato l´aumento più notevole con un piú 11 per cento tra il 2015 e il 2016. I dati sul nostro paese sono sostanzialmente confermati dalla Nato. Secondo cui la spesa militare italiana è aumentata l´anno scorso del 10,63 per cento.
Nell´Europa centrale le spese per la difesa sono cresciute complessivamente del 2,4 per cento. Piú marcatamente in paesi Nato come Polonia o Baltici, dove, rileva il SIPRI, è aumentata la percezione-allarme per la minaccia posta dalla politica aggressiva della Russia di Putin. Trend nuovo e forte anche nel pacifico Grande Nord: la Svezia ha appena deciso di ristabilire la leva obbligatoria per donne e uomini e di aumentare il bilancio della Difesa del 15 per cento, viste le continue, pericolose provocazioni aeree, navali, sottomarine, di cyberwar e fake news da parte del Cremlino.
Passiamo alle superpotenze. Gli Stati Uniti, dopo diversi anni di riduzione o contenimento, hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell´1,7 per cento rispetto all´anno precedente. Ben superiore in percentuale è la crescita delle spese militari della Russia di Putin (69,2 miliardi di dollari, ma occorre tenere conto che il costo del lavoro anche nell´industria militare in Russia è infinitamente inferiore a quello negli Usa o in Europa) che registra una crescita del 5,9 per cento, e della Cina (analogo discorso come per la Russia sul basso costo del lavoro su cui “fare la tara”) con 215 miliardi e un aumento del 5,4 per cento. Putin ha rapidamente trasformato le sue forze armate dotandole di armamenti ultratecnologici dell´ultima generazione e di capacità operative dimostrate in modo devastante ad esempio con l´intervento in Siria. La Cina, che ha appena mostrato al mondo la sua prima portaerei fatta in casa, e dispone di migliaia di moderni jet da combattimento compresi tre modelli di cacciabombardieri stealth cioè invisibili ai radar nonché di una marina militare a crescenti capacità oceaniche di proiezione lontana della forza, ha a lungo termine capacità industriali e tecnologiche superiori a quelle russe, e si pone nel futuro come principale rivale degli Usa. Vola anche la spesa militare indiana, che aumenta dell´8,5 per cento, quinto paese nel mondo per investimenti nel settore militare) sia per l´arsenale nucleare coi primi missili intercontinentali, sia per modernissime armi convenzionali. Come il prossimo acquisto di circa 120 caccia invisibili Sukhoi PAK T-50, di produzione russa ma il cui sviluppo è reso possibile dalla collaborazione di team di ingegneri aeronautici indiani.
In Medio Oriente si registra una crescita solo in alcuni paesi come Iran e Kuwait, mentre in Arabia Saudita e Iraq la diminuzione è netta: in Arabia saudita il calo è addirittura del 30 per cento. Anche altri paesi petroliferi non mediorientali, ad esempio il Venezuela (meno 56 per cento) che recentemente si era lanciato in una pazzesca corsa al riarmo acquistando cacciabombardieri bisonici e tank russi, hanno dovuto contrarre le spese, per il calo del prezzo del greggio e per fattori di grave crisi economica interna. Quello che in decenni passati i migliori economisti critici americani battezzarono “il complesso militare-industriale”
il manifesto, 20 aprile 2017
«Per la prima volta nella storia dell’umanità viviamo una situazione pericolosissima che rischia la stessa sopravvivenza della specie umana. Parlo della capacita mostruosa odierna di uccidere da parte degli Stati Uniti. Grazie al progetto iniziato anche con l’amministrazione Obama ed ora finito nelle mani di Trump, per l’ammodernamento tecnologico nucleare che ha raggiunto livelli radicalmente superiori all’arsenale nucleare russo quale deterrente. I margini si sono assottigliati al punto che non si può escludere una catastrofe nucleare».
È in questi termini drammatici che si apre l’intervista a Noam Chomsky concessa a il manifesto dopo l’attacco militare, unilaterale, in Siria con 59 missili Tomawak; il raid in Afghanistan con lo sganciamento della «madre di tutte le superbombe», la Daisy supercutter tecnologicamente perfezionata dal Pentagono che la impiegò già nel 1991 in Iraq; a seguito della minaccia di ritorsioni militari per la tensione con la Corea del Nord; e mentre Trump annuncia la «revisione per verificare se Tehran si è attenuta ai contenuti», anche se «prudente, perché consapevole dei rischi» dell’accordo sul nucleare civile con l’Iran firmato da Obama.
Qual è la strategia e la motivazione dei nuovi attacchi militari in Siria e in Afghanistan?«Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan sono state preparat a tavolino da questa nuova amministrazione incurante del crimine commesso che viola tutte le norme del diritto internazionale. Per uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa "America First".
«Con l’intento di perseguire indisturbati nel progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa, per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere. Di fatto la reazione immediata di Trump è stata quella di rassicurare l’opinione pubblica americana che un nuovo sceriffo è finalmente arrivato. Con questo messaggiio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono, nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama; siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso.
«Paradossalmente qui negli Stati uniti l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’ "America First".
«L’attacco militare americano in Siria è stato interpretato in Europa ed in tutto il mondo occidentale come un messaggio contro Assad per avere impiegato armi di distruzioni di massa. Non dando però alcuna importanza ai dubbi, francamente credibili, di esperti di armi chimiche e dei russi che hanno chiesto subito una inchiesta internazionale indipendente degli organismi sulle armi chimiche delle Nazioni unite. L’obiettivo di Trump, Bannon e dei loro portavoce è quella di accentrare l’attenzione con costanti immagini televisive e twitter dei social media, dell’opinione pubblica su di loro e non sulle reali tematiche promesse pr l’America First. Passo dopo passo, dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa. È questa l’organizzazione di potere piu pericolosa nella storia del mondo. Che , per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capacere anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità.»
Quali i rischi immediati prevede in questa situazione di strategia bellica che, per affermare la propria immagine promessa, va verso la catastrofe di una guerra nucleare?
«L’ Atomic Bulletin of Scienctists nela marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia.»
Che cosa dobbiamo aspettarci allora?
«Questi dati devono farci capire i rischi per la sicurezza mondiale, dati i margini assottigliati e “al limite massimo” per una catastrofe nucleare provocata da “mutual destruction”. Perché si è messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike” nucleare nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente.
«Ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa.Il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump. Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terroristismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare.
«I missili in Siria e la superbomba in Afghanistan sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica per questo paese sin dai tempi della Guerra Fredda.»
il manifesto, 19 aprile 2017
Sono state immediate le contromisure adottate dalle autorità carcerarie nei confronti del segretario generale di Fatah, Marwan Barghouti, e degli altri detenuti palestinesi, circa 1500, che da lunedì fanno lo sciopero della fame nelle carceri israeliane per ottenere migliori condizioni di vita. I palestinesi denunciano il trasferimento dei prigionieri in sezioni diverse, la sospensione delle visite dei familiari e altri provvedimenti punitivi. Barghouti lunedì era stato trasferito, insieme ad altri due prigionieri, Karim Junis e Mahmoud Abu Srour, dal carcere di Hadarim a quello di Jalama dove è stato messo in isolamento. Israele respinge l’apertura di una trattativa. Parlando ieri ai microfoni di Galei Tzahal, la radio delle forze armate, il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan ha detto che l’isolamento di Barghouti «si è reso necessario perché (il leader di Fatah) incitava alla rivolta e guidava lo sciopero».
Erdan definendo la protesta «uno sciopero politico ed ingiustificato», ha aggiunto che Israele ha allestito nei pressi del centro di detenzione di Ketziot, nel Neghev, un ospedale da campo dove saranno curati quanti fra gli scioperanti dovessero aver bisogno di cure mediche nei prossimi giorni. E non ha escluso che i detenuti possano essere alimentati contro la loro volontà. Dietro l’idea dell’ospedale da campo ci sarebbe proprio la possibilità dell’alimentazione forzata, vietata dal diritto internazionale. Nei nosocomi civili i medici israeliani non intendono nutrire con la forza i detenuti palestinesi malgrado il recente parere favorevole della Corte suprema. L’uso di un ospedale da campo perciò sembra offrire una scappatoia. Tuttavia Israele sa che obbligare i prigionieri ad alimentarsi finirebbe per gettare altra benzina sul fuoco della protesta delle famiglie dei detenuti e di molte migliaia di palestinesi che si stanno mobilitando in appoggio allo sciopero della fame che riceve sostegni anche in altri Paesi, arabi ed europei.
Marwan Barghouti presto affronterà una corte disciplinare per la sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York Times in cui ha spiegato i motivi dello sciopero e rivolto pesanti accuse a Israele. Le polemiche infuriano e le proteste dello Stato ebraico hanno spaccato la redazione del Nyt dove non poche voci si sono levate contro la decisione di pubblicare la lettera di Barghouti, senza precisare le ragioni per le quali è stato condannato a cinque ergastoli. Ieri è intervenuto anche il premier israeliano Netanyahu. «Indicare Barghouti come leader politico equivale a definire Bashar Assad un pediatra», ha commentato con sarcasmo il primo ministro che poi ha descritto «terroristi e assassini» i personaggi come il dirigente di Fatah.
Marwan Barghuti, promotore dello sciopero della fame che da ieri osservano circa 1500 detenuti palestinesi, è stato trasferito dal carcere di Hadarim e chiuso in isolamento in un altro penitenziario. Ufficialmente la sanzione fa seguito alla pubblicazione «non autorizzata» di un suo articolo sul New York Times che ha provocato forte irritazione nel governo israeliano. Barghouti ha scritto che gli arresti di massa condotti da Israele per decenni non sono riusciti ad indebolire i palestinesi. «Questo sciopero – ha scritto – dimostra una volta di più che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta per la libertà e la dignità…i prigionieri palestinesi stanno soffrendo torture, trattamenti degradanti e inumani e negligenza medica, alcuni sono stati uccisi in custodia». Immediata la replica del ministero degli esteri israeliano secondo il quale, i palestinesi in carcere «non sono prigionieri politici ma terroristi condannati ed assassini». Il ministro dell’intelligence Israel Katz ha scritto su twitter «Mentre i parenti degli (israeliani) uccisi ricordano e soffrono, c’è una sola soluzione: pena di morte per i terroristi». Per Israele anche Barghouti è un terrorista, condannato a cinque ergastoli per aver organizzato attentati contro civili. Accusa che al processo il dirigente di Fatah ha respinto. Per i palestinesi invece Barghouti è il nuovo Mandela.
L’inizio dello sciopero della fame, nel “Giorno del prigioniero”, al quale stanno prendendo parte detenuti di varie fazioni politiche e non solo quelli di Fatah – Hamas ha espresso sostegno al digiuno ad oltranza ma finora non ha ordinato ai suoi membri reclusi di parteciparvi – è stato segnato da manifestazioni di protesta in varie città della Cisgiordania, in particolare a Ramallah e a Betlemme. I soldati israeliani hanno arrestato cinque dimostranti palestinesi e ferito almeno 15.
Riferimenti
Qui, nella traduzione italiana, il testo integrale dell'ampio articolo del New York Times la cui pubblicazione ha provocato l'ulteriore irrigidimento delle inumane sanzioni applicate dal governo Netanyahu ai patrioti palestinesi.
Repubblica,l'Unità, il Fattoquotidiano. 17 aprile 2017
«I "Sì" alle riforme costituzionali che assegnano tutti i poteri al presidente ottengono il 51,3% contro il 48,7 dei "No". Vantaggio esile ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. Che si avvia a diventare una autocrazia di stile mediorientale. Il presidente: "Decisione storica che tutti devono rispettare". E sulla reintroduzione della pena di morte possibile una nuova consultazione»
ISTANBUL - Una vittoria sul filo di lana, per Recep Tayyip Erdogan. I "Sì" alle riforme costituzionali che in Turchia gli assegneranno tutti i poteri hanno ottenuto il 51,3 per cento dei consensi, contro il 48,7 dei "No". Un vantaggio risibile, ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. L'opposizione sostiene tuttavia che molti voti non sono validi, e anzi parla apertamente di brogli, perché un alto numero di certificati elettorali non presenterebbero il timbro ufficiale.
"La Turchia ha preso una decisione storica di cambiamento e trasformazione" che "tutti devono rispettare, compresi i Paesi che sono nostri alleati", ha detto Erdogan, nel suo primo discorso dopo la vittoria. "La Turchia ha preso la sua decisione con quasi 25 milioni di cittadini che hanno votato sì, con quasi 1,3 milioni di scarto. È facile difendere lo status quo, ma molto più difficile cambiare", ha detto Erdogan, ringraziando i leader dei partiti che hanno sostenuto il 'Sì' al referendum. "Voglio ringraziare ogni nostro cittadino che è andato a votare. È la vittoria di tutta la nazione, compresi i nostri concittadini che vivono all'estero. Questi risultati avvieranno un nuovo processo per il nostro Paese", ha concluso il presidente turco.
In ogni caso, non appena le autorità vidimeranno la correttezza dello svolgimento sul referendum, nuovi scenari si apriranno da ora in poi per la Turchia. E cioè quelli di un Paese molto più vicino a una autocrazia di stile mediorientale, che alla realtà pensata dal fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal, detto Ataturk, il padre dei turchi, di una nazione laica e candidata all'ingresso nell'Unione Europea.
Perché anche questo aspetto è destinato, fin da subito, a cambiare. Il "Sultano", come lo definiscono con sprezzo gli avversari, ha già detto di essere pronto a chiamare un nuovo referendum, e questa volta sulla permanenza di Ankara come Paese candidato alla Ue. Poi di essere pronto a un altro, scioccante voto referendario: quello sulla reintroduzione della pena di morte in Turchia, misura eliminata nel 2004 proprio in virtù di un auspicato ingresso del Paese della Mezzaluna in Europa. E arringando la folla, Erdogan ha promesso la questione sarà discussa con gli altri leader politici e che potrebbe essere oggetto di un nuovo referendum.
Con un comunicato la Commissione europea fa sapere che "in considerazione del risultato del referendum e le implicazioni di vasta portata delle modifiche costituzionali, anche noi chiediamo alle autorità turche di ricercare il più ampio consenso possibile a livello nazionale nella loro attuazione".
LEGGI Cosa prevede la riforma costituzionale di Erdogan
I primi risultati usciti alle 4 del pomeriggio, non appena le urne si sono chiuse, davano una vittoria schiacciante per i "Sì": addirittura il 65 per cento contro il 35 assegnato al fronte del "No" riconducibile all'opposizione rappresentata principalmente dal partito repubblicano, di ispirazione socialdemocratica, che si contrappone ai conservatori di origine religiosa fondati dal Capo dello Stato Erdogan.
Poi, via via, il consenso per i fautori delle modifiche costituzionali è andato assottigliandosi, arrivando a un risicato 51,3 dei voti. Tanto bastava tuttavia per far gridare Erdogan, e il suo premier Binali Yildirim, alla vittoria.
A quel punto era l'opposizione a definire il risultato come irregolare. E il vice-leader del principale partito di opposizione, Bulent Tezcan, commentava la decisione repentina del Consiglio elettorale supremo di autorizzare per la prima volta il conteggio delle schede senza timbro ufficiale nel referendum costituzionale sul presidenzialismo, a meno che non venga provato un loro impiego fraudolento, come illegittima. "Il Consiglio elettorale supremo ha cambiato le regole del voto - denunciava Tezcan - questo significa permettere brogli creando un serio problema di legittimità".
In ogni caso Erdogan avrà ora mano libera su tutto il campo. Non solo il suo partito ha la maggioranza in Parlamento, ottenuta alle elezioni del novembre 2015 con il 49,9 per cento dei voti. Ma adesso potrà assumere in sé i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo, senza più controlli da parte dell'Assemblea di Ankara, di fatto depotenziata nonostante l'aumento proposto dei deputati da 550 a 600. Il quarto potere, con più di 150 giornalisti in carcere per aver espresso le loro opinioni e tacciati di "sostegno al terrorismo", è già impaurito e silenziato.
Erdogan, dal 2019, potrà essere rieletto per due termini consecutivi di 5 anni ciascuno, con una prelazione per ulteriori cinque anni. Scatto che lo porterebbe, in teoria, a rimanere in carica fino al 2029, e poi addirittura al 2034. Un potere a vita, in pratica, visto che l'uomo forte della Turchia è alla guida del Paese dal 2002, prima come premier e poi come presidente della Repubblica. Come capo dello Stato rimarrebbe infatti la sola figura di riferimento, poiché l'incarico di premier verrebbe abolito. Ci saranno solo due vice presidenti, e i ministri verranno nominati direttamente dal presidente, ma in maniera esterna al Parlamento, a cui i titolari dei dicasteri non presterebbero responsabilità. Un potere illimitato, e a questo punto difficilmente arginabile. Se mai lo sia stato, fino ad ora.
«Dare un segnale: stop al negoziato per l’adesione alla Ue»
La Pasqua ci consegna una Turchia che scivola fuori dai confini della democrazia “tradizionale”, come abbiamo avuto la fortuna di conoscerla da questa parte del mondo.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto il proprio obiettivo: la vittoria degli evet (sì in turco) al referendum sulla nuova costituzione ha confermato il voto del parlamento e consegnato al presidente poteri quasi assoluti. Il referendum si è svolto in condizioni di grande tensione, dato il perdurare dello “stato d’emergenza” dichiarato il 15 luglio 2016 (quando si verificò il fallito colpo di Stato) e da allora mai cessato, anzi.
La Turchia si trasforma così da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Il presidente sarà anche capo del governo perché la riforma, tra le altre cose, elimina la figura del primo ministro; nominerà e revocherà a suo piacimento i ministri; potrà con decreti presidenziali intervenire su molte materie senza passare dal parlamento; potrà nominare direttamente i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, i rettori delle università, i dirigenti della pubblica amministrazione, buona parte dei giudici.
Basterebbe questo per rendere allarmante la situazione, ma c’è dell’altro.
Dal giorno del fallito (finto?) colpo di stato l’attuale presidente Erdogan e il governo turco hanno arrestato 43mila persone, sequestrato 800 società, chiuso giornali ed emittenti televisive, mandato in carcere 150 giornalisti (per 16 è stato chiesto l’ergastolo), allontanato dal lavoro 140mila dipendenti pubblici (tra cui funzionari, dirigenti, giudici, poliziotti). Con una complessa rete di relazioni, poi, il presidente turco controlla anche le principiali aziende del paese. Una riforma in senso presidenziale proposta da una guida politica che ha fatto tutto questo, non può che spaventare.
Per l’Europa e “l’Occidente” si pongono molti interrogativi sull’atteggiamento da tenere con la Turchia, che non solo è membro della NATO (dal 1952), non solo è un “cuscinetto” tra noi e il caos mediorientale, ma è anche uno stato che per lungo tempo Europa e Stati Uniti hanno corteggiato illudendola addirittura di poter diventare l’avamposto dell’occidente in Medio Oriente.
Erdogan, salvo colpi di scena, rimarrà in carica fino al 2029: lo farà grazie al fatto che sì, rimane il limite dei due mandati, ma l’approvazione di una nuova costituzione azzera il “conteggio” e dalle presidenziali del 2019 il presidente in carica potrà ricandidarsi e farlo successivamente anche nel 2024.
Non si potrà rimanere indifferenti di fronte alle prevaricazioni portate avanti dal suo regime, ma purtroppo Erdogan sarà un difficile e obbligato interlocutore per tutti. A maggior ragione l’Europa non può pensare di rispondere con un ritorno ritorno agli Stati-nazione come vorrebbero i vari Grillo, Salvini, Le Pen, Orban, May.
Serve più Europa, serve un’Europa più compatta, capace di progredire nel processo di integrazione portando con sè tutti i paesi membri; ma impedendo a chi non ci vuol stare di bloccare tutti gli altri.
C’è una cosa che si potrebbe fare subito e che darebbe un “segnale” importante: l’interruzione del negoziato (per me poco sensato) avviato nel 2005 per l’adesione della Turchia all’Unione europea e da tempo arenato. Sarebbe un atto di difesa dei valori democratici e liberali che assegnerebbe autorevolezza a chi lo promuovesse.
Il Fatto Quotidiano online
REFERENDUM TURCHIA, ERDOGAN VINCE MA IL PAESE È SPACCATO: IL SUPER PRESIDENZIALISMO PASSA CON IL 51%
di FQ
«Dopo settimane di infuocata campagna elettorale Ankara vara la riforma costituzionale voluta dal presidente, ma il voto referendario non è esattamente un plebiscito: i No alla Sultanizzazione, infatti, sfiorano quota 49%, con un affluenza all'84%. Decisivo il voto nelle campagne mentre nelle grandi città vince il fronte anti Erdogan. L'opposizione accusa: "Voto illegittimo: conteggiate anche schede senza timbro ufficiale". Ora Erdogan può restare fino al 2034»
l presidente può esultare ma quella che esce dalle urne è una Turchia praticamente spaccata in due: da una parte ci sono i sostenitori fedeli a Recep Tayyip Erdogan, dall’altra quelli che invece non vogliono la Sultanizzazione del Paese. E dunque non vogliono nemmeno un Sultano. A vincere il referendum costituzionale sono i primi, ma sul successo si allungano subito le proteste da parte dell’opposizione che parla esplicitamente di “brogli” elettorali e annuncia la richiesta di riconteggio delle schede.
Dopo settimane di infuocata campagna elettorale, in ogni caso, Ankara svolta verso il super presidenzialismo voluto da Erdogan, anche se il voto referendario non è esattamente un plebiscito in favore del presidente. Secondo i dati diffusi dall’agenzia Anadolu, infatti, i Sì alla riforma costituzionale sono “appena” il 51,33% dei voti, contro i No che alla fine di una lunga rincorsa si fermano a quota 48,67 %. Da segnalare che il fronte contrario alla riforma vince sia ad Ankara che ad Instabul – cioè nella capitale e nella città in cui Erdogan è stato sindaco per anni. Decisivo, invece, per la vittoria del Sì il voto nelle province più periferice e nelle campagne.
Alla fine a dividere le due facce del Paese poco più di un milione di preferenze: 24 milioni e 819 mila turchi hanno votato per la riforma approvato dal parlamento il 21 gennaio scorso, mentre sono 23 milioni e 526 mila i voti espressi contro il super presidenzialismo, quando lo scrutinio è ormai arrivato al 99% delle schede. Numeri da non sottovalutare dato che l’affluenza è stata molto alta, quasi all’84%: su oltre 55 milioni di elettori, quasi 49 milioni sono andati a votare.
Le urne sono state chiuse alle 16, ora italiana, lo spoglio è cominciato subito dopo e aveva dato subito in largo vantaggio il fronte pro Erdogan con il Sì che era dato superiore al 60%. Una percentuale che si è abbassata via via che le scrutinio andava avanti. Alla vigilia, d’altra parte, si registrava qualche incertezza sull’esito del voto con i No che erano addirittura dati in vantaggio. Negli ultimi giorni, però, la tendenza si è rovesciata a favore del Sì, dopo una partenza in sordina. E alla fine dunque, il voto decisivo di un milione e trecentomila turchi fa vincere la grande scommessa ad Erdogan, il presidente uscito vincitore dal tentativo di colpo di Stato del luglio scorso: adesso potrebbe restare al potere fino al 2034.
Il clima post scrutinio, però, appare tutt’altro che rilassato. Subito dopo la diffusione dei primi dati sullo scrutinio, infatti, il Chp – principale partito di opposizione – ha messo in dubbio la legittimità del voto. Il motivo? La dichiarazione apparsa sul sito della Consiglio elettorale supremo turco (Ysk) qualche ora prima della chiusura delle urne segnalava che sarebbero state conteggiate anche le schede non timbrate dai funzionari, a meno che non si potesse provare che le stesse schede fossero contraffatte. La decisione, precisano dalla commissione, è giunta dopo che diversi votanti hanno segnalato che erano state consegnate loro schede senza timbro. In passato, queste venivano considerate nulle. “L’Alta commissione elettorale ha sbagliato, consentendo la frode nel referendum”, ha detto Bulent Tezcan, vice presidente Chp, ai giornalisti presenti nel quartier generale del partito ad Ankara. “Il Consiglio elettorale supremo – ha continuato Tezcan – ha cambiato le regole del voto. Questo significa permettere brogli“, creando “un serio problema di legittimità“. Il Chp ha dunque annunciato che chiederà di ricontare il 37% delle schede scrutinate. Che l’esito ufficiale sia Sì o No, contesteremo 2/3 delle schede. I nostri dati indicano una manipolazione nell’intervallo del 3-4%”, scrive invece su twitter l’account ufficiale del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), la formazione turca che unisce le forze di sinistra e filo-curde.
Parole dure quelle di Tezcan, alle quali replica in qualche modo il primo ministro della Turchia, Binali Yildirim. “La nazione ha fatto la sua scelta. Questa è una nuova pagina nella storia della nostra democrazia, il risultato verrà usato per garantire la pace e la stabilità della Turchia”, ha detto il premier nella prima dichiarazione ufficiale dopo il voto. “Non ci fermeremo – ha aggiunto – andremo avanti dal punto in cui eravamo arrivati”.
Nel frattempo piazza Taksim, uno dei luoghi più frequentati della zona europea di Istanbul e palcoscenico di duri scontri tra manifestanti e polizia nel 2013, è stata chiusa al traffico per ragioni di sicurezza. Nelle altre zone della città, invece, i sostenitori di Erdogan, festeggiano.
Sbilanciamoci.info, newsletter 7 aprile 2017, con postilla
Il nostro paese spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno). E oltre a spendere molto, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente
Secondo i dati contenuti nel primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato dall’Osservatorio MIL€X, presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 15 febbraio, l’Italia spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui oltre 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in armamenti.
Una spesa militare in costante aumento (+21% nelle ultime tre legislature), che rappresenta l’1,4% del PIL nazionale: esattamente la media NATO (USA esclusi), ma ancora troppo poco per l’Alleanza Atlantica, che chiede di arrivare al 2% in base a una decisione (mai sottoposta al vaglio del Parlamento) che incoraggia a spendere di più, invece che a spendere meglio, secondo una logica distorta che arriva al paradosso quando la NATO si congratula con la Grecia per la sua spesa militare al 2,6% del PIL, ignorando la bancarotta dello Stato ellenico. Oltre alla “virtuosa” Grecia, in buona compagnia del Portogallo (1,9% del PIL), gli Stati europei che spendono in difesa più dell’Italia sono le potenze nucleari francese e inglese (intorno al 2% del PIL) e le nazioni dell’ex Patto di Varsavia con la paranoia della minaccia russa come Polonia (2,2%) ed Estonia 2%. Altre grandi nazioni europee come Germania, Olanda e Spagna spendono molto meno di noi (intorno all’1,2% del PIL).
Oltre a spendere molto in difesa, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente.
Il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati, più anziani ufficiali e sottufficiali da scrivania, che graduati e truppa giovane operativa.
Quasi il 30% del totale viene invece speso per l’acquisto di armamenti tradizionali: missili, bombe, cacciabombardieri, navi da guerra e mezzi corazzati. Una spesa in forte crescita (+85% dal 2006) finanziata in gran parte dal Ministero dello Sviluppo Economico, che dovrebbe essere ribattezzato “Ministero dello Sviluppo Militare” poiché destina regolarmente al comparto difesa (Leonardo/Finmeccanica, Fincantieri, Fiat-Iveco, ecc.) la quasi totalità del budget a sostegno dell’imprenditoria (l’86% quest’anno, pari a 3,4 miliardi)
penalizzando le piccole e medie imprese e lo sviluppo industriale civile del Paese.
Un meccanismo di aiuti di Stato all’industria bellica nazionale, portato avanti da una potente lobby che condiziona il Parlamento, forzandolo ad autorizzare l’acquisto di armamenti costosissimi e logisticamente insostenibili (perché poi mancano i soldi per la manutenzione e perfino per il carburante), armamenti di tipo e quantità dettate da esigenze industriali e commerciali delle aziende, invece che da concrete necessità di sicurezza nazionale. Qualche esempio.
I quasi mille nuovi corazzati da combattimento Freccia e Centauro2 che sta comprando l’Esercito — spendendo molto più di quanto avrebbe speso scegliendo quelli prodotti da consorzi europei (i Freccia sono stati preferiti agli equivalenti ma molto più economici Boxer tedesco-olandesi). Una quantità di mezzi sproporzionata rispetto alle necessità operative (in Afghanistan, ad esempio, di questi mezzi ne sono stati usati solo 17) e spropositata per le capacità di manutenzione (per cui la maggior parte di questi mezzi finisce ad arrugginire nei depositi o cannibalizzata per i pezzi di ricambio).
Oppure le nuove navi da guerra ordinate dalla Marina — spacciate al Parlamento per navi “dual-use” per il soccorso umanitario: una seconda portaerei (ricordiamo che la prima, la Cavour, non viene quasi mai usata perché non ci son soldi per il gasolio) e altre 7 fregate lanciamissili che porteranno la flotta italiana a supere la potenza navale francese e ad eguagliare quella inglese (entrambe, lo ricordiamo, potenze nucleari).
Per non parlare degli ormai famosi F-35, che l’Italia — contrariamente ad altri Paesi NATO europei come la Germania — continua a comprare nonostante le critiche degli esperti, che li giudicano aerei inutili per le esigenze di difesa nazionali e dannosi per l’industria italiana.
A fronte di tutte queste spese da potenza militare d’altri tempi, l’Italia è completamente impreparata a difendersi dalle minacce concrete del presente e del futuro: terrorismo e cyberwar. Per prevenire attacchi terroristici serve intelligence sul territorio e on-line, non carri armati, cacciabombardieri e portaerei. Per difendersi da attacchi informatici — che oggi mettono in imbarazzo un ministero, ma domani potrebbero mettere in ginocchio il Paese — servono investimenti massicci nella cyber-difesa che invece non ci sono (150 milioni nel 2016, nulla nel 2017) e strutture militari dedicate (il cyber-comando italiano è ancora sulla carta).
E’ a dir poco paradossale continuare a spendere miliardi in armamenti tradizionali e poco e niente per prevenire e fronteggiare attacchi informatici che potrebbero mettere fuori uso tutte queste armi con un semplice virus.
postilla
Altre domande: Perché quel che resta dalla sinistra e della democrazia non renziana ha abbandonato le campagne di massa per la pace, e l'unico che ne proclama l'esigenza è papa Francesco? Perché si svendono i patrimoni pubblici e si lasciano degradare quelli culturali? Perché si negano risorse all'accoglienza dei dannati dallo sviluppo che riescono ad approdare sui nostri lidi? Perché si negano risorse per rendere le città più vivibili e amichevoli per tutti e i territori più garantiti nella loro integrità fisica e identità culturale?
Che non vogliano ridurre le spese per gli armamenti i mercanti di morte e i prezzolati governanti lo si comprende, ma gli abitanti del Belpaese sono diventati tutti "popolo bue"?
a Repubblica online, 26 marzo 2016
La dinamica dell'accaduto non è chiara: secondo alcune fonti le bombe avrebbero colpito un camion carico di esplosivo che poi avrebbe provocato il crollo del palazzo. Altre sostengono che l'obiettivo del raid era l'edificio stesso, dove ci sarebbe stata una postazione dell'Isis.
L'offensiva per riprendere Mosul ovest è iniziata a febbraio. La parte orientale della città è ormai sotto il controllo del governo e dell'esercito iracheno, ma il centro storico e la zona occidentale ancora sono oggetto di combattimenti furibondi. E' in uno di questi combattimenti che l'intervento dell'aviazione americana e alleata avrebbe compiuto la strage. Bachar al-Kiki, capo della provincia di Ninive, ieri ha parlato di "decine di corpi ancora sepolti sotto le macerie" di alcune palazzine distrutte dalle bombe. Il governatore provinciale Nawfal Hammadi ha accusato la coalizione a guida Usa di avere condotto raid sul quartiere di al-Jadida uccidendo "più di 130 civili". Lo stesso governatore Hammadi in una dichiarazione all'Agence France Presse ha attribuito parte della responsabilità ai jihadisti dell'Isis: "Cercano di bloccare con tutti i mezzi l'avanzata dell'esercito iracheno su Mosul, rastrellano i civili e li usano come scudi umani".
Due testimoni locali scampati alla strage, sempre all'Afp hanno descritto la distruzione di un immobile con 170 abitanti. L'Onu ha espresso "profonda inquietudine" e la coordinatrice umanitaria per l'Iraq, Lise Grande, si è detta "sconvolta da queste terribili perdite umane". Proprio nel timore di nuove stragi, l'esercito iracheno ieri sera ha annunciato la momentanea sospensione dell'offensiva. A più di un mese dal lancio dell'attacco a Mosul ovest, oltre duecentomila abitanti sono fuggiti dalla zona dei combattimenti, ma ancora seicentomila abitano nei quartieri della città sotto il controllo dell'Isis.
il manifesto, 24 marzo 2017
«Siria, 500 marine e milizie curde schierate verso Raqqa, raid aereo Usa fa strage di sfollati», così titolavamo una nostra pagina ieri. Ecco il punto. Se si rimuove e cancella la guerra in corso, gli strumenti di analisi per comprendere gli attentati jihadisti come quello sanguinoso di Londra, è un grave danno non solo alla verità ma anche all’intelligenza.
La scia di sangue, che è tornata fin nella recinzione del parlamento britannico e a un anno esatto dagli attacchi a Bruxelles, dura infatti da troppo tempo. È una seminagione che parte dall’11 settembre 2001 a New York, arriva in Europa, prima in Spagna, poi a Londra e di seguito a Parigi, prima Charlie Hebdo poi, con una vera azione di guerra imparagonabile al ponte di Westminster, al Bataclan.
Dietro, impossibile non vedere, la diaspora di Al Qaeda troppo presto data per liquidata dopo l’uccisione di Osama bin Laden e invece riattivata in tutto il Medio Oriente con nuovi gruppi affiliati; e altrettanto incredibile tacere la lunga stagione della guerra occidentale nella vasta aerea mediorientale, dall’Afghanistan, dove dura da 16 anni e che nel solo 2016 ha prodotto 11.400 vittime civili, all’Iraq che era «missione compiuta» nel 2003; alla Libia e alla Siria dove la coalizione ibrida di Paesi europei, Usa, Turchia e petromonarchie del Golfo tentava lo stesso colpo riuscito a Tripoli con Gheddafi.
Se si rimuove questa ombra feroce che pesa sulla democrazia occidentale, vale a dire l’adesione e la promozione di conflitti bellici almeno negli ultimi venti anni, ecco che il terrorismo jihadista diventa indecifrabile. E invece i suoi codici sono ben leggibili ai nostri occhi.
Eppure ci si richiama alla necessità del modello israeliano, dimenticando che anche per l’Onu Israele occupa militarmente i territori palestinesi.
Così si ricorre a topos narrativi, il lupo solitario, l’emulazione su web, la propaganda islamista, il terrorista della porta accanto.
E si richiama la figura dei foreign fighters, che non sono poche decine ma migliaia e migliaia, da 15 a 20mila denunciò Obama stesso. Tutti partiti in tour da Europa e Stati uniti, mentre le rispettive intelligence guardavano da un’altra parte. E tutti bene accolti dall’atlantica Turchia che, in stretti legami economici e militari con i jihadisti, poi li ha smistati sui campi di battaglia. Ora ci ritornano pericolosamente in casa. Proprio mentre si annunciano le battaglie «decisive» delle due o tre guerre mondial-mediorientali ancora di là da finire.
Si combatte in Siria anche per far fallire la tregua decisa dall’Onu e i negoziati di Astana.
Sul campo si fronteggiano almeno sette eserciti, degli Usa – ora schierati piedi a terra -, della Russia, della Turchia, di quel che resta della Siria di Assad, le milizie sciite hezbollah e iraniane e la miriade di jihadisti, qaedisti e dell’Isis.
Ma la scia non finirà, nemmeno se cadesse Raqqa e neanche se cade Mosul, dove la frantumazione è pressappoco eguale anche perché ogni giorno in Iraq è strage di civili proprio per reazione alla perdita di posizioni del jihadismo sunnita.
Tre sono gli Stati distrutti dai nostri conflitti, Iraq, Libia e Siria: il cuore del Medio Oriente non esiste più.
Si dirà che ormai la scia di sangue del terrorismo di ritorno è diventata endemica. Ma questa endemia deriva dalle alleanze strategiche dell’Occidente legate mani e piedi alle petromonarchie del Golfo e alla nuova Turchia del Sultano Erdogan, nonostante tutto. Deriva cioè dalle guerre che abbiamo promosso.
Testimoni soli e veridici i milioni di disperati in fuga dai conflitti, dal terrorismo e dalla miseria. Una umanità alternativa che, solo se si azzarda a venire da noi, la ricacciamo con i muri e le fosse comuni a mare, per rinchiuderla poi «democraticamente» in campi di concentramento.
«
Annunciata indirettamente dal Segretario di stato Usa, Rex Tillerson, che ha esortato i Paesi alleati, durante l’incontro ieri con il premier iracheno Heider al Habadi, «a fare di più» contro l’Isis, l’operazione dietro le linee nemiche compiuta da 500 combattenti curdi appoggiati delle forze speciali Usa, ha colto di sorpresa i miliziani dello Stato islamico. Il blitz, con l’impiego di aerei Osprey capaci di atterrare in spazi ristretti come un elicottero, è avvenuto a Tabqa, una cittadina della provincia di Raqqa, la “capitale” dell’Isis in Siria. I curdi hanno strappato all’Isis il controllo di quattro villaggi e interrotto la strada che porta verso Aleppo, a ovest. Tuttavia Raqqa si trova a decine di chilometri a est del luogo dove sono intervenuti curdi e americani. L’obiettivo dell’operazione perciò è solo quello di mettere le mani su quell’area, in preparazione dell’assalto finale a Raqqa. L’operazione congiunta segna un nuovo passo verso un maggiore coinvolgimento militare in Siria della nuova Amministrazione Usa che, come ha ribadito ieri Tillerson, considera la guerra all’Isis la «priorità assoluta». A Mosul intanto gli uomini del Califfato resistono alla pressione dell’esercito iracheno e la liberazione della città appare ancora lontana.
Non lontano da quell’area, nella cittadina di Mansoura, decine di sfollati siriani sono stati uccisi da un bombardamento aereo della scuola dove erano ospitati. I morti sarebbero una quarantina e l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, vicino all’opposizione, sostiene che è stato compiuto dalla Coalizione a guida americana. Silenzio da parte di Washington, responsabile appena qualche giorno fa di un altro attacco aereo contro presunti «leader di al Qaeda» che invece ha centrato in pieno una moschea facendo dozzine di vittime. Nella scuola di Mansoura avevano trovato alloggio temporaneo una cinquantina di famiglie fuggite dai combattimenti nella provincia di Raqqa e da quelle di Homs e Aleppo.
Nel frattempo è definitivamente crollata la tregua proclamata alla fine dello scorso anno e la Siria precipita in una nuova, ma non inattesa, escalation militare innescata da jihadisti e qaedisti, descritti come “ribelli” o “insorti” dai media occidentali. In qualche capitale del Golfo qualcuno ha deciso di silurare i negoziati avviati da russi e turchi ad Astana e dalle Nazioni Unite a Ginevra, considerati «favorevoli» al presidente siriano Bashar Assad. I miliziani della Hay’at Tahrir al Sham, la coalizione composta da al Qaeda e dai suoi numerosi alleati, proseguono l’offensiva alla periferia orientale di Damasco e a Hama. Qui i qaedisti e altri gruppi islamisti hanno raggiunto il villaggio di Khatab, 10 chilometri a nord ovest della Hama. A Damasco Hay’at Tahrir al Sham, che domenica aveva lanciato una prima offensiva respinta dai governativi, martedì è ritornata all’attacco e ha occupato una zona industriale della capitale. Per ora i qaedisti guidati da Abu Muhammad al Julani, luogotenente di Ayman Zawahri, il successore di Osama Bin Laden, resistono agli attacchi aerei e al fuoco dell’artiglieria governativa. E a loro volta, dal sobborgo di Jobar, lanciano razzi e colpi di mortaio verso la capitale. In linea d’area sono ad appena tre-quattro chilometri dal quartier generale di Assad e domenica erano riusciti a colpire anche un edificio dell’ambasciata russa. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro case per sfuggire ai combattimenti.
Alla vigilia di una nuova sessione di colloqui tra governo ed opposizione l’inviato speciale dell’Onu per la Siria Staffan De Mistura ha descritto questi sviluppi come “allarmanti”. Un po’ poco visto di fronte al negoziato che si sta sbriciolando. Tra i gruppi alleati di al Qaeda nell’assalto della capitale infatti ci sono anche Ahrar al Sham e Jaysh al Islam considerati “moderati” dall’Occidente e Mohammed Alloush, leader di Jaysh al-Islam – fazione finanziata e armata dall’Arabia saudita – è il capo negoziatore a Ginevra. E se nei mesi scorsi, dopo la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano, i “ribelli” si erano spaccati in due gruppi – i presunti “moderati” favorevoli a discutere una soluzione politica e i qaedisti considerati “terroristi” anche dagli Stati Uniti e non solo da Mosca – adesso la frattura si è ricomposta. E la direzione dell’orchestra jihadista “ribelle” appare saldamente nelle mani di al Qaeda contraria a qualsiasi ipotesi di compromesso con «l’apostata» Assad. Invece secondo l’editorialista Hussein Abdel Aziz, del quotidiano saudita al Hayat, l’offensiva di Hay’at Tahrir al Sham non sarebbe volta a far naufragare il negoziato bensì avrebbe solo lo scopo di rafforzare l’opposizione ai colloqui a Ginevra ed Astana.
il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Il fischio delle bombe, il senso di insicurezza, lo sfollamento e la perdita di fiducia negli adulti segnano il futuro del paese: «Questi bambini, questi corpi, sono in costante conflitto o fuga, il livello accumulato di stress tossico avrà indubbiamente conseguenze sul lungo termine», spiega la psicologa Marcia Brophy, che ha condotto le interviste. Uno stress tossico che accomuna tutti i siriani, dentro e fuori il paese. Dal 2011 sette milioni di persone, di cui la metà minori, hanno abbandonato la Siria in cerca di un rifugio nei paesi confinanti: la Giordania ne ospita il numero maggiore. Secondo le agenzie internazionali (tra cui Unicef e Ocha), tra i rifugiati siriani di qualsiasi età sussiste un alto tasso di disordini emozionali (54%), tra i più comuni depressione e ansia. In tutti i paesi ospitanti e in Siria, sono numerosi i casi di epilessia. Il 79% dei minori fa i conti con almeno un lutto in famiglia; il 60% è stato testimone di atti di violenza estrema.
Ai traumi da guerra va aggiunto il «trauma migratorio». Il non aver potuto preparare normalmente il proprio progetto migratorio è un notevole fattore di rischio: gli effetti sulla salute dipenderanno dalle capacità di adattamento del singolo e il superamento del trauma da caratteristiche individuali e l’ambiente circostante. La Giordania, come la Turchia, non ha una legislazione ad hoc sulla salute mentale. Ci sono dei piani programmati con il supporto delle ong internazionali, che stabiliscono però in maniera confusa le azioni da intraprendere. Secondo dati dell’International Medical Corps, ci sono 3 psichiatri, 0.1 medici di base, 12 infermieri, 0.5 psicologi, 0.75 assistenti sociali ogni 300 mila persone. Per quanto riguarda la sfera educativa, la Giordania permette ai minori siriani l’ingresso nelle scuole pubbliche, mentre in Turchia per poter frequentare la scuola un bambino siriano deve parlare la lingua turca. In nessun paese confinante è concesso ai professori siriani di insegnare: non hanno il permesso di lavoro. Le difficoltà economiche spingono molte famiglie siriane a far lavorare nel mercato nero anche i minori, spesso costretti a ritirarsi dalla scuola per aiutare la famiglia ad arrivare alla fine del mese.
Oltre l'80% dei rifugiati siriani in Giordania non vive nei campi profughi ufficiali, ma risiede nelle comunità locali. Nonostante l’atteggiamento ospitale e solidale di una buona parte dei giordani, sono in aumento casi di discriminazione verso i rifugiati: negli ultimi anni una netta stratificazione sociale sta generando cambiamenti radicali nella società. Ad Amman la trasformazione è tangibile ed evidente. Nelle periferie risiedono le famiglie di classe medio-bassa, strette nella morsa della difficoltà economica, a causa di salari troppo esigui per stare al passo dello stile vita diffusosi di recente. Il lavoro nero con l’arrivo dei rifugiati siriani è aumentato a livello esponenziale e il salario medio ha subito un andamento inverso.
Sono moltissimi i minori che lavorano, spesso in condizioni che compromettono ulteriormente il loro benessere psicofisico. La sanità è diventata un lusso che non tutti riescono a permettersi: una gastroscopia può arrivare a costare 500 euro, lo stipendio di un lavoratore medio. Più della metà dei rifugiati siriani in Giordania soffre di malattie croniche e necessita cure, ma l’accesso ai servizi pubblici è sempre più ristretto.
il manifesto, 28 febbraio 2017
Netanyahu parla sempre più spesso di uno Stato palestinese “minus”, senza sovranità reale. Il via libera di Donald Trump a soluzioni “alternative” ai Due Stati ha galvanizzato il premier israeliano, spingendolo a fare una retromarcia parziale rispetto al riconoscimento che fece nel 2009 del diritto dei palestinesi all’indipendenza. In questo modo non deve rimangiarsi – come gli chiede la destra religiosa, “Casa ebraica” – quanto affermò otto anni fa e allo stesso tempo può teorizzare uno Stato-non Stato arabo tra Israele e la Valle del Giordano, ottenendo qualche iniziale ma importante consenso sulla scena internazionale. Netanyahu perciò torna alla sua teoria, resa esplicita in un editoriale apparso una ventina di anni fa sulla stampa americana – una sorta di orazione funebre degli Accordi di Oslo che lui stesso aveva contribuito ad affossare durante i suoi primi tre anni da premier (1996-99) -, sull’impossibilità per alcuni popoli di conquistare la piena autodeterminazione se ciò mette in pericolo la sicurezza di un altro popolo. Unico cruccio per il premier, almeno a dar credito a quanto riferiva ieri sera il giornale Haaretz, l’assenza, per il momento, di un accordo con Trump sulle colonie.
Le indiscrezioni della radio israeliana sul contenuto del colloquio tra Netanyahu e la ministra australiana Bishop sono giunte mentre a Ginevra il presidente palestinese Abu Mazen si rivolgeva ai rappresentanti dei Paesi nel Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani per denunciare quello che ha descritto come il tentativo di Israele di imporre un sistema di apartheid. Ha quindi lanciato un appello per la difesa del principio dei Due Stati e a stabilire un regime di protezione internazionale che garantisca la fine della «violazione dei diritti fondamentali» del popolo palestinese. Dopo aver denunciato il terrorismo, Abu Mazen ha ribadito la «piena disponibilità a lavorare in un spirito positivo», anche con l’AmministrazioneTrump. Disponibilità destinata a cadere nel vuoto secondo le previsioni degli analisti palestinesi e di quei settori del partito Fatah e dell’Autorità nazionale palestinese che non condividono la linea “soft” scelta da Abu Mazen nei confronti della nuova Amministrazione Usa che si mostra apertamente schierata dalla parte di Tel Aviv e disinteressata ad un accordo israelo-palestinese fondato sulle legalità internazionale.
Spirano di nuovo i venti di guerra lungo le linee tra Israele e Gaza. Ieri al lancio di un razzo da parte di un gruppo salafita verso Israele – dove è caduto senza fare danni – le forze armate dello Stato ebraico hanno reagito colpendo nell’arco di due ore cinque presunti obiettivi di Hamas e del Jihad Islami a Gaza. Almeno quattro i feriti palestinesi. In serata Hamas e Israele si sono accusati reciprocamente di essere responsabili della escalation. A Gaza c’è un nuovo leader di Hamas. Si tratta di Yahya Sinwar, un esponente dell’ala militare, Ezzedin al-Qassam. Con ogni probabilità Israele ieri ha cercato di sottoporlo a un primo banco di prova per valutarne le reazioni. La risposta del movimento islamico però non è stata diversa da quella assunta in passato in circostanze simili: condanna degli attacchi israeliana senza però rispondere militarmente. Da parte sua il ministro israeliano della difesa, Avigdor Lieberman ha spiegato che Israele non ha intenzione di avviare campagne militari a Gaza. Ma – ha aggiunto – «non saremo nemmeno disposti ad accettare lanci sporadici di razzi».
la Repubblica, 22 febbraio 2017
Le forme di crudeltà insensata sono del tutto comuni nella vita nei territori occupati, ma da nessuna parte sono più frequenti che a Hebron. al checkpoint e ha trovato la ragazza rannicchiata e tremante. Si è inginocchiato accanto a lei e le ha parlato, dicendole che se avesse cercato di pugnalare un soldato sarebbe morta di sicuro. Lei ha risposto «non mi interessa, tanto per me non c’è speranza ». Amro le ha allora fatto presente che la sua morte non avrebbe aiutato la Palestina e che la sua comunità aveva bisogno di lei. Le ha parlato dei molti modi con i quali ci si può opporre a un’occupazione senza far ricorso alla violenza. «Non mi ha creduto » ricorda Amro, «ma ho iniziato a farle un esempio dietro l’altro ». Alla fine lei gli ha consegnato il coltello e lui l’ha affidata alla polizia palestinese. Da allora Amro ha ricevuto altre chiamate di aiuto per sventare atti violenti. Tra gli altri casi, c’è stato anche quello di una giovane donna che gli ha scritto su Facebook dicendo di volersi armare di coltello e andare incontro al martirio per il bene della causa palestinese. Anche in questo caso, Amro è riuscito a farle cambiare idea perorando la causa della non violenza: ha subito contattato gli amici della giovane, che sono riusciti a fermarla.
Questo dunque è l’uomo che ora rischia di scontare una lunga condanna in un carcere militare israeliano per reati che comprendono un battibecco da scuola infantile con parole che non ha mai pronunciato e un’aggressione della quale dice che non avrebbe potuto macchiarsi. L’accusa deve ancora rispondere alla mozione presentata dal suo avvocato di far cadere quattordici delle diciotto imputazioni a suo carico, sulla base di un “abuso di giustizia” e del fatto che esse sono state criticate da più parti.
-Murale di Banky sul Muro a Behit Sahour |
Agli occhi del mondo l’impegno di Amro per la non violenza lo ha reso un portavoce di particolare rilievo e visibilità per il suo popolo. L’anno scorso ha ricevuto le visite di alcuni membri del Congresso americano e, pur essendo imminente la data originaria fissata per il suo processo, è andato in Belgio dove ha conosciuto il presidente del Parlamento europeo e ha preso la parola davanti all’assemblea dei parlamentari.
Esistono palestinesi che uccidono, che indossano giubbotti imbottiti di esplosivo per farsi saltare in aria, usano autobombe, aggrediscono a coltellate soldati e civili israeliani.
Issa Amro non appartiene a questa categoria: al contrario, il suo impegno nei confronti del movimento che considera la resistenza non violenta l’unica strada percorribile per indurre un cambiamento duraturo, è la migliore speranza di pace per palestinesi e israeliani.Se Israele perseguita e persegue penalmente organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese non resterà nessun modello al quale fare riferimento per capire come dissipare frustrazione e disperazione. Gli unici rimasti saranno come Mohammad Tarayreh, che il 30 giugno 2016 si è intrufolato nell’insediamento di Kiryat Arba alla periferia di Hebron, ha fatto irruzione nella camera da letto di Hallel Yaffa Ariel, una tredicenne israeliana, e l’ha pugnalata a morte. A furia di incatenare il pugno alzato della resistenza, lasceranno libera soltanto la mano che impugna il coltello.
© 2017, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti
Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2017 (p.d.)
Franco Cardini, storico medievalista e voce critica sulle ipocrisie e le semplificazioni dell'Occidente iper capitalista, alla paura ha dedicato un libro: La paura e l'arroganza (in chiara opposizione alle tesi di Oriana Fallaci nel suo La rabbia e l’orgoglio) che ospita scritti di autori come Noam Chomsky, Massimo Fini, Alain de Benoist e l'Ayatollah Seyed Ali Khamenei. Secondo Cardini la paura collettiva, elemento che si ritrova in ogni epoca e civiltà, ha dei picchi nei periodi di decadenza e ignoranza diffusa, anche perché è un sentimento che si autoalimenta. Per contrastarla, serve senso critico, cultura, consapevolezza.
Professor Franco Cardini, stiamo attraversando un periodo fertile per le psicosi collettive?
Panzerdivision. E l'ingiustizia in Terrasanta continua, contro la Palestina. il manifesto, 24 dicembre 2016
È finita a stracci in faccia. Netanyahu, ingrato, dimenticando il recente via libera della Casa Bianca a un piano di aiuti militari a Israele per 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in anticipo sul voto di ieri sera, usando un funzionario governativo aveva accusato Obama e il segretario di stato John Kerry di aver messo in atto una «spregevole mossa contro Israele alle Nazioni Unite». Il presidente americano uscente, aveva aggiunto il funzionario, ha coordinato le mosse all’Onu con i palestinesi per riaffermare lo status di città occupata di Gerusalemme e della sua zona araba: «L’amministrazione Usa ha segretamente confezionato con i palestinesi, alle spalle di Israele, una risoluzione estrema che avrebbe dato il vento in poppa al terrorismo e al boicottaggio e che avrebbe fatto del Muro del Pianto territorio palestinese occupato». Obama, ha aggiunto, «avrebbe dovuto subito dichiarare la sua volontà di mettere il veto su questa risoluzione, invece l’ha sostenuta. Questo è un abbandono che rompe decenni di politica americana a protezione di Israele all’Onu e mina le prospettive di lavorare con la prossima Amministrazione nel far avanzare la pace».
CITTÀ DEL VATICANO «È brutto, è brutto...». L’arcivescovo Nunzio Galantino è appena uscito da una riunione, sera tardi, ancora non sapeva. Berlino, il mercatino di Natale, il camion che piomba sulla folla come a Nizza, i morti. «Questi atti, con la loro disumanità, vogliono paralizzarci la vita. A questo mira chi compie questa violenza bestiale». Il segretario generale della Cei resta in silenzio per un attimo, sospira. «Per questo dobbiamo continuare a vivere, è evidente».
Eccellenza, l’Italia e l’Europa sono piene di mercatini di Natale. Già prima del Giubileo la Chiesa invitò a non cedere alla paura. Che si può dire, ora?
«Chi fa queste cose si propone proprio di paralizzarci. A Natale, ovvio, l’impatto è ancora più brutto. Si capisce la paura, lo scoraggiamento, la rassegnazione. Ma non è un segno di incoscienza dire: non possiamo fare il loro gioco e dare a queste persone il potere di annientare qualsiasi voglia di vivere, di andare avanti, di cambiare. Eppure non basta affermare tutto questo».
In che senso?
«Dire che non bisogna farsi vincere dalla violenza e dalla paura può essere una frase stupida e vuota, se non è seguita dall’impegno di ciascuno a prendersi le proprie responsabilità. Ad essere tutti più uniti, più tolleranti. E guardarsi dalla violenza, anche nell’uso del linguaggio».
C'è una violenza diffusa?
«Io non voglio mettere tutto insieme. Però la volgarità e l’aggressività del linguaggio alimentano un clima che incattivisce le persone e allontana gli sforzi di convivenza pacifica. Esiste anche un terrorismo del linguaggio, si uccide anche con la calunnia. Guardi nei media, in tv, la politica. Per non parlare dei social network: la parola di un imbecille vale come quella di un Nobel, come diceva Eco, e spesso la parola di un violento o di un guerrafondaio ha molto più sostegno».
Torneranno le polemiche sullo scontro di civiltà...
«Ogni violenza è ingiustificabile e inaccettabile, tanto più per motivi religiosi. Ma lo scontro di civiltà è ciò che si propongono i violenti. Se anche ci fosse questo, e io non lo credo, al fondo c’è soltanto egoismo e sopraffazione. Guadagna chi ha interessi di potere o denaro, chi commercia in armi. Alla fine, nelle guerre, va a morire la povera gente. I signori si arricchiscono».
C’è stato anche l’assassinio ad Ankara dell’ambasciatore russo...
«Bisognerà capire cosa c’è dietro, non si uccide un ambasciatore così, per caso. Anche questo innescherà un meccanismo di ritorsioni...».
Che si può fare?
«Tante cose belle che si fanno in questi giorni sono trattate alla stregua di addobbi natalizi: passata la festa, li si ripone negli scatoloni. Lo sforzo per la pace deve andare avanti».
Corriere dellasera, 14 dicembre 2016
PARIGI «Ad Aleppo stiamo assistendo alla riedizione degli orrori di Srebrenica in Bosnia e di Grozny in Cecenia, con una differenza. Questa volta i massacri sono raccontati minuto per minuto, su Twitter, dalle stesse vittime. La distrazione dei nostri governi e delle nostre opinioni pubbliche è il segno della débâcle dell’Occidente, dell’umanesimo, dell’Europa». Raphaël Glucksmann ha organizzato ieri, con Amnesty International, Médecins du Monde e altre organizzazioni umanitarie, una manifestazione a Parigi in solidarietà con le vittime di Putin e di Bashar Assad in Siria.
Nei primi anni dell’era Internet si diceva «Auschwitz non sarà più possibile perché la verità emergerà subito». In effetti grazie alla rete sappiamo di un massacro in corso, eppure non riusciamo a fermarlo.«Il merito di Internet e dei social network è quello almeno di toglierci la scusa, non potremo dire “non sapevamo” perché sappiamo tutto e mentre accade. Questo ci responsabilizza e rende l’inazione delle democrazie occidentali ancora più colpevole e difficile da difendere».
È un momento di svolta per l’Occidente?
«Purtroppo sì, mi pare un fiasco umanitario che marcherà le coscienze e la Storia. L’Occidente e l’Europa non hanno voce in capitolo. I nostri migliori dirigenti sono ridotti al ruolo di commentatori: giudicano il crimine invece di provare a impedirlo. L’amministrazione Usa parla di peggiore catastrofe del XXI secolo, ma non è in grado di fare nulla. Nel nuovo mondo Putin e Erdogan decideranno tutto senza di noi, senza badare a diritti umani e leggi internazionali».
Non entra in gioco anche una certa confusione dell’opinione pubblica? Quando si parla di Siria si tende a pensare al luogo dove lo Stato islamico tiene le sue basi. In Francia il nuovo favorito all’Eliseo, François Fillon, ha detto in tv che ci sono due campi in Siria: i terroristi e gli altri, e lui sta con gli altri.
«Ma quel che lui descrive non è la realtà. Gli attentati in Francia hanno fatto vacillare le nostre coscienze, e ormai in nome della lotta al terrorismo tutto è autorizzato. La prima vittima è la verità. Ma ad Aleppo non c’è l’Isis. I terroristi dello Stato islamico sono stati cacciati via da Aleppo. Radendo al suolo una città dove non ci sono terroristi, Putin e Assad fanno del terrorismo di Stato. La nostra guerra contro lo Stato islamico è giusta e va condotta fino in fondo. Ma che c’entrano le donne, i bambini e gli uomini di Aleppo?».
Che cosa potrebbero fare i cittadini europei?
«Ognuno si sente impotente e pensa che fare campagne sui social network o scendere in piazza sia ben poca cosa. È una goccia, ma tante gocce potrebbero creare un movimento di opinione capace di condizionare i politici, per esempio i candidati alle presidenziali francesi».
Molti chiedono la fine delle sanzioni contro la Russia.
«Bisognerebbe fare il contrario e inasprirle, semmai. Nessuno vuole una Terza guerra mondiale, ma tra scatenare una guerra contro la Russia e il non fare nulla c’è molto in mezzo, e si chiama politica. L’Europa dovrebbe, ora o mai più, trovare una posizione politica forte e unitaria se non vuole ridursi a fare da cagnolino di Putin e Trump. Per esempio pensando a boicottare i Mondiali di calcio 2018 in Russia, che altrimenti saranno una gigantesca macchina di propaganda al servizio del presidente russo che assieme al suo alleato siriano Bashar Assad sta compiendo il massacro di Aleppo».
Un'analisi delle forze e i poterri in gioco in M.O.Gli errori di ieri, che hanno prodotto le guerre di oggi, sono ripetuti dai padroni del mondo, preparando così le guerre di domani. È il capitalismo, baby. I
l Sole 24Ore, 3 novembre 2016
Chi riempirà il vuoto lasciato dal Califfato? La parola spartizione, sia pure declinata in maniera assai diversa e contrastante tra sunniti, sciiti filo-iraniani, curdi e turchi, aleggia nella polvere della battaglia di Mosul. Le forze dell'esercito iracheno si stanno impossessando di quartieri orientali ma sono ancora fluidi i confini tra le aree di influenza delle milizie sciite, di quelle curde e dell'esercito di Ankara. Tutti comunque vogliono piantare la loro bandiera, qui come in Siria, definendo se possibile frontiere reali, e anche un po' immaginarie in aree con centinaia di migliaia di profughi, che invece della pace potrebbero essere i presupposti per nuove guerre.
Un giorno lo Stato Islamico potrebbe dissolversi ma non le ragioni presenti e le cause profonde che hanno reso possibile la sua nascita. Il video di maggiore successo dell'Isis in tutto il Medio Oriente fu quello in cui un bulldozer abbatteva un cartello ai confini tra Siria e Iraq con la scritta “Fine di Sykes-Picot”, l'intesa anglo-francese firmata il 16 maggio 1916 per spartire l'impero ottomano. Fu quella una dura lezione della storia nata dall'imperialismo occidentale.
La tentazione, e forse la necessità, di disegnare cento anni dopo nuove frontiere è ancora fortissima e non è difficile capirne i motivi: almeno quattro stati della regione – Siria, Iraq, Yemen e Libia – sono in fase di disgregazione con eventi così devastanti ed epocali che sembrano costituire un vendetta postuma contro quell'accordo tra un diplomatico britannico, orientalista di lungo corso, e un francese.
L'articolo di Robin Wright, ex corrispondente da Beirut, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente esplodevano le congetture su un nuovo piano dell'Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca diceva qualcuno. E qualche tempo fa la parola spartizione è stata pronunciata anche dal segretario di Stato americano John Kerry: «Se non si riuscirà a tenere unita la Siria, bisognerà ricorrere a un Piano B», ha affermato in un'audizione al Senato.
Ma intanto nel settembre 2015 in Siria è scesa in campo direttamente la Russia che ha cambiato di nuovo le carte sulla mappa mediorientale. Dopo lo scontro con la Turchia, quello stesso Putin che ieri ha dichiarato una tregua umanitaria ad Aleppo, si è messo d'accordo con Erdogan per lasciargli via libera nella repressione di curdi siriani del Rojava, alleati degli Usa contro l'Isis, e approva probabilmente anche la penetrazione militare di Ankara in Iraq e intorno a Mosul: in cambio i russi potrebbero riportare la vittoria di Aleppo a spese dei ribelli e consolidare la loro presenza strategica sulla costa siriana. L'ex ambasciatore americano James Dobbins è stato esplicito: «Bisogna lavorare con Mosca a una soluzione per la Siria sul modello della Germania nel 1945». Ma riprodurre lo schema rigido della Guerra Fredda in Medio Oriente appare oggi assai complicato: la balcanizzazione sembra l'ipotesi più probabile perché del resto è già in atto.
La storia dell'Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l'ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.Ci fu un tempo in cui l'idea del Califfato diventò una soluzione politica anche per l'Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell'Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l'espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli Stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Hussein, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l'Iraq, la Siria e la Giordania.
Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi sono stati funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo Califfato. È evidente che niente può giustificare i massacri dell'Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant'anni dal clan degli alauiti di Assad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddam Hussein è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell'amministrazione. Sia la Siria che l'Iraq oggi sono degli ex Stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell'unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale con la variante del federalismo, che da queste parti è sinonimo di spartizione, non di condivisione.
Una sorta di “fiction” geopolitica per non mutare le frontiere ma la sostanza delle cose.Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione della regione. Ma niente può sostituire l'unica ricetta possibile per sistemare il grande Medio Oriente: diluire lentamente la ferocia settaria negli interessi economici comuni e fare in modo che la gente torni a vivere insieme, ricostruendo con pazienza un modello di tolleranza che è l'unica via, almeno tra qualche decennio, per garantire una pace duratura.
il manifesto, 1° novembre 2016
«Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare»: così scriveva il premier Renzi in uno storico messaggio twitter. Sei mesi dopo, alle Nazioni Unite, Renzi ha votato Sì alle armi nucleari. Accodandosi agli Usa, il governo italiano si è schierato contro la Risoluzione, approvata a grande maggioranza nel primo comitato dell’Assemblea generale, che chiede la convocazione nel 2017 di una conferenza delle Nazioni Unite al fine di «negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione». Il governo italiano si è così rimangiato quanto promesso alla Conferenza di Vienna, due anni fa, ai movimenti antinucleari «esigenti», assicurandoli sulla sua volontà di operare per il disarmo nucleare svolgendo un «ruolo di mediazione con pazienza e diplomazia».
Cade così nel vuoto l’appello «Esigiamo il disarmo nucleare totale», in cui si chiede al governo «la prosecuzione coerente dell’impegno e della lotta per la messa al bando delle armi nucleari», in un percorso «umanitario e giuridico verso il disarmo nucleare», nel quale l’Italia potrebbe svolgere «un ruolo più che attivo, possibilmente trainante». Cadono di conseguenza nel vuoto anche le mozioni parlamentari dello stesso tenore. Gli appelli generici al disarmo nucleare sono facilmente strumentalizzabili: basti pensare che il presidente Usa, artefice di un riarmo nucleare da 1000 miliardi di dollari, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace per «la sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari». Il modo concreto attraverso cui in Italia possiamo contribuire all’obiettivo del disarmo nucleare, enunciato nella Risoluzione delle Nazioni Unite, è quello di liberare il nostro paese dalle armi nucleari statunitensi. A tal fine occorre non appellarsi al governo, ma esigere che esso rispetti il Trattato di non-proliferazione (Tnp), firmato e ratificato dall’Italia, che all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente».
Si deve esigere che l’Italia cessi di violare il Tnp e chieda agli Stati uniti di rimuovere subito tutte le loro armi nucleari dal nostro territorio e di non installarvi le nuove bombe B61-12, punta di lancia della escalation nucleare Usa/Nato contro la Russia, né altre armi nucleari. Si deve esigere che piloti italiani non vengano più addestrati all’uso di armi nucleari sotto comando Usa. È questo l’obiettivo della campagna lanciata dal Comitato No Guerra No Nato e altri soggetti (per documentarsi digitare su Google «Change Nato»). La campagna ha ottenuto un primo importante risultato: il 26 ottobre, al Consiglio Regionale della Toscana, è stata approvata a maggiornza una mozione del gruppo Sì Toscana a Sinistra che «impegna la Giunta a richiedere al Governo di rispettare il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari e far sì che gli Stati uniti rimuovano immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinuncino a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari». Attraverso queste e altre iniziative si può creare un vasto fronte che, con una forte mobilitazione, imponga al governo il rispetto del Trattato di non-proliferazione. Sei mesi fa chiedevamo dalle pagine del manifesto se ci fosse qualcuno in Parlamento disposto a esigere, in base al Tnp, l’immediata rimozione dall’Italia delle armi nucleari statunitensi. Siamo ancora in attesa di risposta.
Ieri non abbiamo trovato altri articoli su queata devastante iniziativa politica del governo Renzi. Il servilismo agli USA è davvero straordinario, fa impallidire il ricordo di quello della Dc di De Gasperi, ben più dignitoso. Urgono iniziative popolari per la pace e l'uscita dalla NATO. il manifesto, 30 ottobre 2016
Allucinante Matteo Renzi. Allucinante Paolo Gentiloni. Ieri notte era all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’Onu un voto davvero importante: una risoluzione perché dal 2017 partano i negoziati per un Trattato internazionale che vieti le armi nucleari.
La risoluzione è stata approvata da 123 Paesi, 16 Stati si sono astenuti ma 37 Paesi hanno votato contro, tra cui l’Italia. In compagnia di quasi tutte le nazioni nucleari del mondo e tanti alleati degli Stati uniti che, come l’Italia, hanno sul proprio territorio ogive nucleari. Si badi, non armi atomiche vintage della “passata” Guerra fredda, ma rinnovati sistemi d’arma per le quali il Nobel della Pace Obama ha speso diversi miliardi di dollari: si chiamano bombe B61-12 e potranno essere montate sugli F35 che – a proposito di “costi della politica” – ci costano più di 15 miliardi di euro. I primi due F35 arriveranno nella base di Amendola l’8 novembre prossimo, il giorno delle presidenziali americane, e senza know how di attivazione: quello lo controllano dagli Usa.
Qui, nel ridente Belpaese, ce ne sono ben 70 di bombe atomiche, 20 a Ghedi e 50 ad Aviano.
Sono lontani i tempi in cui il Parlamento europeo chiedeva espressamente agli Stati uniti di sbaraccare dal territorio europeo l’armamentario disseminato di circa 300 armi nucleari. Adesso se nazioni come Austria, Brasile, Irlanda, Messico, Sudafrica e Nigeria (primi firmatari della risoluzione votata all’Onu) propongono di avviare un trattato vincolante per mettere al bando le armi atomiche, l’Italia si sente in dovere di votare contro. E purtroppo non è una barzelletta del tragi-comico Benigni, eccellenza italiana al mega ricevimento alla Casa bianca.
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2016 (p.d.)
Mardin combatte – kalashnikov, kefiah e scarpe da corsa – nello Ypg, Yekineyen Parastina Gel, le Unità di protezione del popolo, milizie volontarie e braccio armato del Pyd, il Partito dell’Unione Democratica del Kurdistan.
A nervi saldi e cuore caldo, in perenne fuga da un’enclave militare all’altra, il guerrigliero che sa correre come una lepre sotto le nubi nere della notte anatolica si fa chiamare così in onore della sua città natale. Torrette di controllo dei soldati di Erdogan, cavallo di frisia, si scappa da un lato all’altro solo col buio. Durante la corsa dietro di te lasci la Turchia, davanti a te si spalanca il Rojava, nome della terra curda dell’ovest che si estende a nord est della Siria. Il debutto della loro utopia politica rimane in corso, un mondo in evoluzione mentre in quello arabo continua la rivoluzione. In Siria sono scoppiate due guerre in una sola per la nazione più numerosa del mondo che non ha mai avuto uno Stato ma da sempre ha una lotta, un popolo che non ha mai avuto confini ufficiali eppure li difende con la vita per hèviya azadiyè, speranza di libertà.
Mardin combatte per quel triangolo di terra rovesciato che è il Kurdistan che non ha frontiere riconosciute, se non quelle segnate dal sangue dei suoi martiri. È la terra che non c’è sia per chi scappa dalle bombe sia per chi resta a tirarle, dove rimangono tutti i pronti alla morte per la walateme, la nostra terra, i figli di quello che chiamano Apo. È Abdullah Ocalan l’uomo che ha disegnato per la prima volta il perimetro di questa chimera socialista e vive solo da quasi vent’anni, detenuto unico dell’isola prigione di Imrali nel mar di Marmara. Più di cinquantamila morti curdi fa, tutti ammazzati dall’esercito turco, se Apo nel 1978 non avesse fondato il Pkk, se nel 1984 il Pkk non avesse imbracciato armi e montagne, oggi Mardin, le soldatesse con la treccia che dormono in divisa e al mattino, prima lavarsi la faccia nel fiume, se ne infilano un’altra identica, insieme allo Ypg, non esisterebbero.
Per i civili se non è inferno siriano, è purgatorio iracheno.
Nel campo profughi di Domiz, a Dohuk, l’asta affonda in metri di fango, sotto pioggia battente, mentre sulla bandiera sventola il rosso, verde e bianco, il tricolore del sangue, della terra e dell’uguaglianza, con al centro il sole a ventuno raggi. Dall’inizio della guerra sono migliaia i curdi, insieme alle minoranze di yazidi ed assiri in arrivo da ogni provincia siriana, che si sono rifugiati nella regione tenuta in pugno da Mas’ud Barzani dal 2005, nel campo gestito dall’Unhcr. Le tende sono case, sono cliniche, sono negozi e sono scuole improvvisate di una tendopoli profuga che è ormai una città dentro l’altra, a una paio di chilometri dalla Capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, solo 80 chilometri dalla roccaforte jihadista adesso sotto assedio.
Il popolo che ha insegnato all’Europa che vuol dire resistere a Kobane, ora ricorda che vuol dire avanzare a Mosul. Dei 30mila soldati delle unità musulmane che marciano verso il fortino nelle mani del Califfato dal 2014 in queste ore, sono 4mila i curdi peshmerga tre le milizie sciite, le tribù combattenti sunnite, soldati iraniani ed esercito iracheno.
I Kurdistan ormai sono più di quattro, alcuni fanno sponda in Europa dopo l’esodo mediterraneo, quando alla diaspora fuggita dalle guerre di ieri verso Germania e Scandinavia, si è aggiunta quella di oggi: del milione di siriani scappati attraverso la Turchia nel 2015, sono centinaia di migliaia i non censiti che parlano kurmangi e sorani, dialetti della lingua kurdì. Inshallah Allemagne. Merkel Miracle.Open the borders, maifreen.
A Idomeni, ognuno era “my friend” quando, tenda dopo tenda, si accendevano i falò, si bruciava gomma, legno, scarpe, calava la notte e si alzava la puzza acida di plastica bruciata e piscio. Dall’altro lato, nella Las Vegas macedone, nel deserto di Gevgelija, brillava la luce rossa dei casinò che illuminava il corridoio chiuso del passaggio vietato. Sognare la Germania in Grecia, come facevano i curdi bloccati dalla polizia, era un paradosso per gli ellenici affondati dall’Europa. Mohamed parlava francese, inglese, armeno, turco, arabo, kurmangi e persiano. Per 23 anni era stato un contabile ad Aleppo: “Ora questa è la mia nuova vita. Una ciotola di riso per terra”. Hussein aveva una maglia dei Pink Floyd, un’estensione all’orecchio e le forbici in mano. Era il barbiere della Rojava migrante sui binari di Idomeni. Stava tagliando i capelli a Rudyn: “Io ho un vero nome curdo, un nome socialista. Noi non torniamo indietro, per gli shabab curdi, siriani o iracheni, la morte è sempre turca”. Da campeggio, da circo, militari, da beduini, di plastica, di tappeti: quelle tende ad Idomeni a più di un curdo ricordavano quelle fatte di foglie e rami, nascoste tra i massi, della guerriglia sulle montagne. Chi era arrivato per primo al binario chiuso d’Europa aveva occupato un posto nel treno immobile e tirava su le coperte nella cuccetta viaggiatori ogni sera. Chi ci riusciva, dormiva. E chi dormiva forse sognava che quel vagone arrugginito, fermo da mesi, cominciasse improvvisamente a muoversi per tornare indietro verso la terra che non esiste o ripartire verso nord.
. omune-info, 16 ottobre 2016 (c.m.c.)
E’ italiana la fabbricazione della bomba che ha causato anche l’ultima strage di massa a Sana’a nello Yemen, almeno 150 morti e 530 feriti, colpiti durante una cerimonia funebre? E’ molto probabile e la cosa, francamente, non dovrebbe più stupire. Il perché lo spiega, ancora una volta in modo indiscutibile, questo articolo di Giorgio Beretta. La ministra Pinotti, ancora una volta oltre il senso del pudore, si premura di precisare: «La ditta Rwm Italia ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente». Anche il fatto che il massacro yemenita colpisca di proposito e soprattutto la popolazione civile inerme dovrebbe ormai essere cosa nota.
Quel che tendiamo spesso a dimenticare, semmai, sono i numeri del business, annegati come sono in una palude oceanica di cifre insanguinate. Stavolta ne isoliamo solo due: nel bienno 2014-15 il ministero degli esteri italiano ha autorizzato l’esportazione verso l’Arabia Saudita di un arsenale militare per un valore complessivo di quasi 420 milioni di euro. Il catalogo è nell’articolo. Nello stesso periodo, alle forze armate saudite sono stati consegnati sistemi e materiali militari per oltre 478 milioni di euro. Per una volta, forse, sarà meglio non aggiungere altro.
Potrebbero essere di fabbricazione italiana le bombe che sabato scorso hanno colpito l’edificio a Sana’a in Yemen dove era in corso una cerimonia funebre causando 155 morti e più di 530 feriti. Il corrispondente della tv britannica ITV, Neil Connery, che è entrato nell’edifico poco dopo il bombardamento, ha infatti pubblicato via twitter la foto di una componente di una bomba che, secondo un ufficiale yemenita, sarebbe del tipo Mark 82 (MK 82). Altre immagini pubblicate via twitter sono più precise: riportano la targhetta staccatasi da una bomba con la scritta: «For use on MK82, FIN guided bomb». Segue un numero seriale: 96214ASSY837760-4. L’ordigno sarebbe stato prodotto su licenza dell’azienda statunitense Raytheon per essere usato su una bomba MK82. Ma non è chiara l’azienda produttrice e il paese esportatore. Che potrebbe essere anche l’Italia.
Bombe del tipo MK82, infatti, sono prodotte nella fabbrica di Domusnovas in Sardegna dalla Rwm Italia, azienda tedesca del colosso Rheinmetall, che ha la sua sede legale a Ghedi, in provincia di Brescia. E sono state esportate dall’Italia, con l’autorizzazione da parte dell’Unità per le autorizzazioni di materiali d’armamento (Uama). La conferma, seppur in modo indiretto, l’ha data mercoledì scorso (il 12 ottobre) la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, rispondendo a una interrogazione del deputato Luca Frusone (M5S): «La ditta Rwm Italia – ha detto la ministra Pinotti – ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente».
All’azienda Rwm Italia nel biennio 2012-13 sono state infatti rilasciate da parte dell’Uama autorizzazioni all’esportazione per bombe aeree di tipo MK82 e MK83 destinate all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 86 milioni di euro. Impossibile invece sapere quante e quali bombe siano state esportate dall’Italia all’Arabia Saudita nell’ultimo biennio: le voluminose relazioni inviate al parlamento dal governo Renzi riportano infatti solo il valore complessivo delle autorizzazioni all’esportazione verso i singoli paesi e le generiche tipologie di armamento (munizioni, veicoli terrestri, navi, aeromobili, ecc.).
Nel biennio 2014-15 il ministero degli Esteri ha autorizzato l’esportazione verso l’Arabia Saudita di un vero arsenale militare per un valore complessivo di quasi 420 milioni di euro. Tra questi figurano «armi automatiche» che possono essere utilizzate per la repressione interna, «munizioni», «bombe, siluri, razzi e missili», «apparecchiature per la direzione del tiro», «esplosivi», «aeromobili» tra cui componenti per gli Eurifighter «Al Salam», i Tornado «Al Yamamah» e gli elicotteri EH-101, «apparecchiature elettroniche» e «apparecchiatire specializzate per l’addestramenti militare».
Nel medesimo biennio sono stati consegnati alle reali forze armate saudite sistemi e materiali militari per oltre 478 milioni di euro. Anche le dettagliate tabelle compilate dal ministero degli Esteri allegate alla relazione governativa che riportano tutte le singole autorizzazioni rilasciate alle aziende produttrici mancano di un dato fondamentale: il paese destinatario. Si può cioè sapere, ad esempio, che nel 2015 alla Rwm Italia sono state rilasciate 24 autorizzazioni per un valore complessivo di oltre 28 milioni di euro, ma non si possono sapere i paesi destinatari.
E si può sapere che, sempre nel 2015, alla RWM Italia è stata concessa la licenza ad esportare 250 bombe inerti MK82 da 500 libbre insieme ad altre 150 bombe inerti MK 84 per un valore complessivo di oltre 3 milioni di euro, ma la tabella ministeriale non riporta il paese acquirente, rendendo così impossibile il controllo parlamentare e dei centri di ricerca. Informazioni che erano invece riportate fin dai tempi delle prime relazioni inviate al parlamento dai governi Andreotti. E che, incrociando le tabelle dei vari ministeri, si potevano evincere fino ai governi Berlusconi. Ha un bel dire la ministra Pinotti che la relazione governativa al parlamento consentirebbe «l’attività di verifica e di controllo così come spetta al parlamento»: se non sa cosa di preciso si esporta verso un paese, come fa il Parlamento a controllare?
Un dato però è certo: nel biennio 2014-5 il governo Renzi ha autorizzato esportazioni verso l’Arabia Saudita per un valore complessivo di quasi 419 milioni di euro: un chiaro “salto di qualità” se si pensa che una decina di anni fa le autorizzazioni per armamenti destinati alle forze militari saudite non superavano i dieci milioni di euro. Ma c’è un altro fatto certo. Nei mesi tra ottobre e dicembre dello scorso anno dall’aeroporto civile di Elmas a Cagliari sono partiti almeno quattro aerei Boeing 747 cargo della compagnia azera Silk Way carichi di bombe prodotte nella fabbrica Rwm Italia di Domusnovas in Sardegna: i cargo sono atterrati alla base della Royal Saudi Air Force di Taif in Arabia Saudita.
È proprio su queste spedizioni e su tutti i sistemi militari che l’Italia sta inviando in Arabia Saudita che lo scorso gennaio la Rete italiana per il disarmo ha presentato un esposto in varie Procure. Esposto sul quale in Viceprocuratore di Brescia, Fabio Salamone, ha aperto un’inchiesta “verso ignoti” per presunte violazioni della legge sulle esportazioni di materiali miliari. La Legge n. 185 del 9 luglio 1990 sancisce che l’esportazione «di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e che «tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
La Legge vieta specificamente l’esportazione di materiali di armamento «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere», nonché «verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione».
Dal marzo del 2015, infatti, l’Arabia Saudita si è posta a capo di una coalizione che, senza alcun mandato internazionale, è intervenuta militarmente nel conflitto in corso in Yemen. La risoluzione n. 2216 approvata il 14 aprile del 2015 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu non legittima, né condanna, l’intervento della coalizione a guida saudita: solo «prende atto» della richiesta del presidente dello Yemen agli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo di «intervenire con tutti i mezzi necessari, compreso quello militare, per proteggere lo Yemen e la sua popolazione dall’aggressione degli Houti». Cosa sia successo da quel momento è sotto gli occhi di tutti: ad oggi sono almeno 4.125 i civili uccisi e oltre 7.200 i feriti. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha ripetutamente condannato i raid aerei sauditi che hanno colpito centri abitati, scuole, mercati e strutture ospedaliere, come quelle di Medici senza Frontiere: un terzo dei loro raid ha fatto centro proprio su obiettivi civili. «Effetti collaterali», hanno commentato i sauditi.
Lo scorso agosto, l’Alto commissario per i diritti umani, il principe Zeid bin Ra’ad Al Hussein ha chiesto di avviare un’inchiesta indipendente e imparziale sulle violazioni del diritto umanitario perpetrare da tutte le parti attive nel conflitto in Yemen. La richiesta era sostenuta dai paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, ma poi è stata ritirata dall’Ue senza alcuna motivazione. A seguito delle pressioni saudite la proposta è stata accantonata e pertanto si continuerà con l’inchiesta da parte delle autorità yemenite.
A fronte della catastrofe umanitaria che sta subendo la popolazione yemenita, già lo scorso febbraio il Parlamento europeo ha votato ad ampia maggioranza una risoluzione con cui ha chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, di «avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Unione europea e di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», alla luce delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Risoluzione che la ministra Pinotti non ha menzionato nel suo intervento in Parlamento. Forse anche perché finora è rimasta inattuata. Sono continuate invece le esportazioni di armamenti dei paesi europei e gli affari militari con le monarchie del Golfo. Per combattere l’Isis, viene detto; che però approfittando del conflitto ha guadagnato terreno anche in Yemen.
«»La Repubblica
La notizia è clamorosa: sulla base di una direttiva del presidente Obama la Cia avrebbe iniziato a programmare un attacco cibernetico alla Russia come rappresaglia per le intrusioni nelle comunicazioni interne del Partito democratico, diffuse successivamente da Wikileaks.
È ormai da tempo che si parla dell’impiego della cibernetica come strumento di un confronto militare, e non è un mistero che gli stati maggiori dei principali Paesi includano la cibernetica nelle loro pianificazioni strategiche. Ufficialmente (non per niente quelli che un tempo si chiamavano “ministeri della guerra” sono stati ribattezzati “ministeri della difesa”) per preparare adeguate difese contro un attacco nemico che potrebbe paralizzare le comunicazioni non solo militari ma anche i servizi pubblici e in particolare l’erogazione di energia, con effetti paralizzanti sull’intero Paese. Ma è ovvio che assieme alla difesa si prepara anche l’attacco.
Oltre agli scenari della “guerra cibernetica” abbiamo anche l’uso della cibernetica nel campo dell’intelligence, dove strumenti iper-sofisticati permettono di penetrare i sistemi dell’avversario per ricavarne informazioni non solo militari, ma anche economiche e politiche. Uno dei dipartimenti della Cia si chiama “Center for Cyber Intelligence”, e si fa molta fatica a credere che i livelli operativi raggiunti in questo campo dagli americani siano secondi a quelli di qualsiasi altro Paese, a partire dalla Russia.
La polemica di questi ultimi giorni, tuttavia, non si riferisce né alla guerra cibernetica né alle operazioni d’intelligence. Che militari e spie operino al massimo livello tecnologico non è certo né un mistero né viene comunemente ritenuto scandaloso. Oggi si parla di qualcosa di molto diverso, della interferenza da parte della Russia nello stesso processo politico americano in un momento particolarmente delicato, quello delle elezioni presidenziali. Gli americani, e personalmente Obama, sono convinti che chi ha intercettato lo scambio di mail fra Hillary Clinton e i responsabili del Partito democratico non siano soggetti privati, ma lo Stato russo.
I russi (ovviamente) negano, ma il tema è diventato politicamente surriscaldato soprattutto in relazione alla bizzarra affinità fra Putin e Trump. Trump non ama certo la Russia, ma sembra essere autenticamente attratto dallo stile autoritario e macho di Vladimir Putin in contrasto con quella che lui palesemente considera la “mancanza di attributi” che caratterizza Obama e in genere i Democratici, che adesso addirittura pretenderebbero di fare eleggere una donna (una donna!) alla presidenza degli Stati Uniti.
E Putin? Come è noto, il presidente russo appoggia, e in parte finanzia, populisti di destra come Marine Le Pen, sia nell’intento di evitare un totale isolamento internazionale sia perché, essendo lui stesso sul piano ideologico un populista reazionario, questo non gli risulta difficile. Se, come sembra, sull’hacking contro Hillary Clinton ci sono davvero le sue impronte digitali, questo si può spiegare in modo analogo, ma anche sulla base di qualcosa che si relaziona in modo specifico ai rapporti fra Russia e America.
Non avendo mai accettato di non essere più considerato un avversario/ interlocutore paritario con gli Stati Uniti, Putin cerca in ogni modo (dalla politica medio-orientale al flirt con personaggi della destra europea e americana) di dimostrare che la Russia può fare tutto quello che fa l’America: non solo intervenire militarmente ovunque ma anche cercare di influire sulle situazioni interne degli altri Paesi.
L’hacking di Stato minacciato da Obama contro la Russia non riveste una dimensione bellica, e nemmeno si tratta di ordinaria intelligence. L’hacking della Cia sarebbe infatti diretto, si apprende ufficiosamente, a raccogliere — in chiave di ritorsione — elementi capaci di mettere in imbarazzo il governo russo, e personalmente Putin.
Si situa quindi sul terreno della politica. Politica sporca, politica provocatoria, politica pericolosa: sarebbe opportuno che, visto che nessuno può considerarsi al riparo da questo tipo di intrusioni, si pensasse seriamente a passare dalla rappresaglia a misure di “disarmo bilaterale” anche su questo terreno. L’hacking non può essere “disinventato”, ma si dovrebbero accettare, in chiave di reciprocità, alcuni limiti.
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