il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2018.
«Il silenzio dei governi sull’avanzata della Turchia rivela l’imbarazzo: nessuno vuole disturbare troppo Erdogan, temendo che un Paese membro della Nato finisca tra le braccia di Putin. E degli eroici curdi anti-Isis non importa più a nessuno»
Da Parigi a Venezia, da Brema a Creta, nel silenzio imbarazzato dei governi (tranne quello francese), si moltiplicano i presidî di solidarietà verso la città curda di Afrin, nel nordovest della Siria, che salvo colpi di coda della guerriglia, pare aver capitolato ieri mattina dopo settimane di attacchi e bombardamenti delle truppe turche, determinate ad assumere il controllo di tutta la fascia di confine. I morti (molti civili e bambini) sono centinaia, nel weekend è stato colpito l’ospedale, l’acqua e i medicinali non arrivavano da giorni, gli sfollati nell’ordine dei 150mila; si paventa il rischio di pulizia etnica, per alterare la maggioranza curda della regione.
Nell’accordo russo-turco-iraniano di Astana (marzo 2017) era previsto che la Turchia installasse 12 posti di osservazione nella regione di Idlib, l’unica ancora saldamente nelle mani dei ribelli anti-Assad, l’ex fronte Al-Nusra, ora Hayat Tahrir al-Sham, insomma jihadisti sunniti. Ma è l’enclave di Afrin, a Nord di Idlib lungo la frontiera, a detenere per i Turchi il più alto valore strategico: rappresenta dal 2012 l’avamposto occidentale della regione sotto controllo curdo che si estende da Kobane a Raqqa fino ai confini dell’Iraq: tutte zone a suo tempo difese o riconquistate con grandi sforzi dai combattenti dell’esercito curdo (YPG) contro l’Isis. La Turchia ha interesse a demolire questa continuità territoriale per scongiurare la creazione di uno stato curdo e per avere voce in capitolo se mai partiranno i colloqui per una nuova Siria: per questo, dal 20 gennaio scorso viola militarmente i confini del Paese confinante, e sfida gli Stati Uniti che da anni appoggiano i Curdi nel nord della Siria. Se i turchi, non paghi di Afrin, volessero ora avanzare verso est fino a Manbij (dove stavano già per entrare un anno fa, fermati dalla diplomazia), potrebbero cozzare contro duemila marines; ma forse in realtà i marines – se questa è stata davvero la garanzia strappata da Erdogan all’ormai ex segretario di Stato Rex Tillerson il 20 febbraio ad Ankara – saranno spostati a est oltre l’Eufrate. A Manbij, l’antica Bambyke, mille volte punto di frontiera e di frizione tra Romani e Parti, tra Bizantini e Sasanidi, tra Crociati e Arabi, l’Occidente pare votato alla sconfitta.
La Russia, storico alleato di Assad, ha interesse a indebolire i ribelli contro il regime (alleati di Erdogan), ma non a proteggere i curdi: potrebbe aver deciso di lasciare Afrin ai Turchi in cambio di un loro disimpegno nella più vitale regione di Idlib. Assad medesimo, che ha la testa alla sanguinosa macelleria di Ghouta, ha spedito ad Afrin ben poche truppe, dando la causa per persa.
Perché l’operazione turca contro Afrin, nota col nome paradossale di “Ramoscello d’ulivo”, è importante? Perché al tappeto stanno finendo per ora: la causa curda, ovvero non solo centinaia di combattenti e civili vittime dell’attacco di Erdogan contro i villaggi e le postazioni di quella che egli ritiene una fazione terroristica, ma anche la pratica quasi utopica del governo partecipato, federale ed egualitario del limitrofo Rojava curdo (da noi pare si sia persa la memoria di quando l’Occidente tutto tifava per Kobane e le sue donne combattenti contro l’Isis); quel che rimaneva della libertà di espressione in Turchia (lo stato di guerra ha autorizzato il fermo di decine di manifestanti, giornalisti e blogger); i rapporti Turchia-Usa, due Paesi della Nato che dal 2013 – tra la svolta autoritaria di Gezi Park e i sospetti di collusione con l’Isis – si sono ripetutamente scontrati; i minimi standard umanitari (molte fonti denunciano l’uso di gas tossici e bombardamenti su convogli umanitari o di sfollati); la minima stabilità nella regione (vittima dell’ambiguità dei Russi, che supportano Assad ma hanno stretto un’alleanza con il suo arcinemico Erdogan; e vittima soprattutto della mancanza di strategia degli Americani, che saltabeccano da una crisi all’altra senza essere in grado di assumere un ruolo attivo, nel terrore di lasciare un alleato Nato come la Turchia nelle braccia di Putin).
Al tappeto finisce anche il passato di questo fazzoletto di terra: ieri ad Afrin è stata abbattuta dai Turchi la statua di Kawa il fabbro, che nel 612 a.C., secondo la leggenda, liberò i Medi, che i Curdi riconoscono come progenitori, assassinando il sanguinario re assiro Dehak. Nel 2016 i bombardamenti russi contro i ribelli anti-Assad avevano semidistrutto la chiesa di San Simeone lo Stilita (V secolo d.C., a 15 km da Afrin), dove si conservava la colonna su cui il venerato asceta passò 30 anni di meditazione e di preghiera. E nel gennaio 2018, proprio alla periferia di Afrin le bombe turche hanno inflitto danni ferali (oltre il 60%) all’antico tempio neo-ittita di Ain Dara, ricco di sfingi e leoni di basalto, e probabilmente dedicato alla dea Ishtar: si pensa siano della dea le 4 enormi e misteriose impronte di piedi umani scavate nel pavimento in pietra del portico, in direzione della soglia di una cella ormai del tutto demolita. Nell’interminabile mattatoio siriano sembra che nemmeno gli dèi abbiano più un posto dove andare.
Avvenire,
La regione è l'estremo baluardo dell'opposizione al regime, è l'ultimo fronte ancora aperto, oltre ad Afrin, da dove sono fuggite 30mila persone
Sette anni dopo l’inizio della tragica guerra civile (
qui il bilancio), tutta la Siria – in un completo ribaltamento storico – si fronteggia nella Ghouta orientale. L’antica oasi a est della capitale, sotto assedio delle forze governative dal 2013 ed estremo baluardo dell’opposizione al regime, è l’ultimo fronte ancora aperto ad eccezione da quello turco-curdo di Afrine della
indomabile provincia di Idlib, divenuto rifugio di tutte le diverse opposizioni ad Assad.
Oggi dalla Ghouta orientale sono fuggiti almeno 20mila i civili. L’esodo è avvenuto attraverso un corridoio umanitario dalla città di Hamuriya, al centro della Ghouta. È il più grande spostamento di persone da quando il 18 febbraio scorso le truppe governative hanno lanciato il loro assalto finale all’enclave ribelle provocando circa 1.200 morti.
Nell’«oasi» di Damasco si scontrano per procura tutte le potenze regionali, Turchia compresa. I servizi di intelligence di Ankara, ha infatti dichiarato un portavoce del presidente turco Erdogan, sono al lavoro per rimuovere dalla Ghouta i miliziani jihadisti di al-Nusra e di altre formazioni, stimati tra «300 e 1.000 unità».
Se la Turchia rivendica una presenza nella battaglia nella zona ribelle a est di Damasco, oggi il portavoce di Erdogan ha pure dichiarato che «più del 70%» della regione di Afrin è stata «messa in sicurezza» con l’operazione “Ramoscello d’ulivo” delle Forze Armate turche e dei ribelli siriani alleati. Ankara auspica che «molto presto» il centro della città di Afrin – capoluogo dell’omonima enclave curdo-siriana – sia «liberato» dalla presenza dei «terroristi»: così il governo turco definisce le milizie curde dell’Ypg.
Nelle ultime 24 ore, riferisce sempre l’Osservatorio siriano, sono oltre 30mila i civili sono scappati dalla città di Afrin per sfuggire ai bombardamenti sulla città. L’operazione di Ankara ha sinora «neutralizzato» (uciso, ferito o arrestato) 3.524 «terroristi». Ma Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che l’operazione attualmente condotta ad Afrin sarà poi estesa ad altre città chiave controllate dai curdi procedendo verso la frontiera con l’Iraq.
Corriere della sera online,
A proposito di fake news: il tema più cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra è stato quello della sicurezza, sempre abbinato a quello dell’immigrazione. Dichiarazioni come: «L’Italia è in piena emergenza sicurezza!», oppure: «C’è da aver paura, anche nelle nostre case!», non sono mai state supportate da un dato, ma buona parte degli italiani ci ha creduto. I numeri del 2017, che il Corriere presenta in anteprima, dimostrano esattamente il contrario: rispetto al 2016 gli omicidi sono diminuiti dell’11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%.
Se questi dati, forniti dal Ministero dell’Interno e non ancora consolidati, fossero stati disponibili un mese fa, avrebbero modificato il filo narrativo della propaganda? Forse no, perché quando si mette in moto una psicosi collettiva, nulla riesce più a fermarla. Eppure tutti i partiti sanno che in Italia, la tendenza alla diminuzione dei reati con maggiore allarme sociale si è innescata ben quattro anni fa, ma hanno preferito ignorarla. I numeri sono significativi: al netto del calo della popolazione (0,34%), dal 2014 al 2017 gli omicidi sono scesi del 25,3%, i furti del 20,4% e le rapine del 23,4%. Quindi negli ultimi anni l’Italia è diventata via via più sicura, nonostante l’aumento del numero di immigrati.
Più sicure le strade, meno sicure le mura di casa
Tornando ai numeri, si scopre che a essere meno sicure non sono le strade, ma le mura di casa: delle 355 vittime di omicidi commessi nel 2017, 140 sono donne. A ucciderle è sempre un familiare e, nel 75% dei casi, il partner o l’ex. Il dato purtroppo è stabile negli anni: 155 le vittime nel 2014, 143 nel 2015, 150 nel 2016. Lo dice l’ultimo rapporto sul femminicidio pubblicato dall’Eures, l’Istituto di Ricerche economiche e sociali. Analizzando il rapporto del Viminale, relativo agli anni 2014/2016, nelle Regioni dove c’è stato un aumento di omicidi, la percentuale è quasi completamente assorbita proprio dai delitti commessi in famiglia. Il dato del Trentino per esempio è impressionante: +200%. Se si guardano i numeri, però, si scopre che si è passati da 1 omicidio nel 2014 a 3 del 2016, e i 2 morti in più non sono imputabili a un fatto di ordinaria criminalità (e quindi ad una mancanza di sicurezza), ma ad un padre impazzito che ha ucciso la moglie e il figlio. Lo stesso discorso vale per l’Abruzzo (+50%), per il Veneto (+62%), Friuli Venezia Giulia (+600%): una crescita pressoché attribuibile ai femminicidi.
Italia campionessa europea dei furti
Secondo Eurostat, nei principali Paesi europei, esclusi gli atti di terrorismo, si nota invece una tendenza all’aumento dei reati. Sia nel caso dei furti sia in quello degli omicidi volontari. La società più violenta è quella tedesca con 9,22 omicidi per milione di abitanti nel 2016, mentre l’Italia è imbattibile nei furti, con un indice di 20.163 furti per milione di abitanti. Un indice che tuttavia nel nostro Paese è in costante calo, mentre in Francia, Germania e Spagna è in aumento.
L’aumento delle licenze di porto d’armi
Insomma, le dichiarazioni allarmanti, spesso innescate da un fatto di cronaca, riprese da giornali e tv, alla fine hanno insinuato nella testa di molti italiani la percezione di vivere in un Paese poco sicuro. E come si difendono? Armandosi? La fotografia del Viminale è chiara: un aumento del 41.63% delle richieste di licenze di porto d’armi a uso sportivo negli ultimi 4 anni. Solo nel 2017 le licenze in più, rispetto al 2016, sono state 80.416. Forse non proprio tutti appassionati di tiro al piattello o di tiro a segno, mentre è sicuro che questo tipo di licenza è la più facile da ottenere. In calo del 12,01% invece la licenza per difesa personale, dove la procedura è più complessa e viene concessa solo in casi gravi e comprovati ( di solito a chi esercita professioni a rischio rapina); mentre i numeri relativi alla caccia sono stabili negli anni.
Meglio una porta blindata di un’arma in casa
Non ci sono dati significativi connessi alla reale utilità di girare armati, e all’analisi dei delitti, perché non esiste un monitoraggio nazionale. L’unico andamento collegato e parallelo è quello relativo agli omicidi commessi tra le mura di casa, a causa della presenza di un’arma. Secondo l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia, nel 2017 ci sono stati 36 casi di omicidio, 19 tentati omicidi, 37 minacce di morte e 37 incidenti legati ad armi legalmente detenute. In conclusione: la sicurezza è un tema sul quale sarebbe bene non barare per scopi politici. Meglio placare la paura dei furti con una porta blindata e l’installazione di sistemi di allarme. Anche questo è un mercato in crescita: dal 2015 il fatturato sta aumentando di 200 milioni di euro l’anno, mentre la diciannovesima edizione della fiera sui sistemi di sicurezza che si tiene ogni anno a Milano, si è chiusa lo scorso novembre con un incremento del 35% dei visitatori e del 40% degli espositori.
Articolo tratto da Corriere della sera, qui raggiungibile con arricchimenti grafici e digitali in originale
comune.info-net
Il 16 febbraio il governo di Michel Temer ha consegnato la sicurezza di Río de Janeiro alle forze armate. Tutto sarà gestito dai militari, dai corpi di polizia fino ai pompieri e alle carceri. Il pretesto, come sempre, sono la violenza e il narcotraffico; che pure esistono e sono enormemente pericolosi per la popolazione.
Río de Janeiro è una delle città più violente del mondo. Nel 2017 sono stati contati 6.731 morti e 16 scontri a fuoco ogni giorno, ognuno con un saldo minimo di due persone uccise, quasi sempre neri. Tra le cinquanta città più violente del mondo, 19 sono brasiliane e 43 latinoamericane. Di pari passo, il Brasile è tra i dieci paesi con maggiori disuguaglianze nel mondo, alcuni di essi sono anche tra i più violenti, come Haiti, Colombia, Honduras, Panama e Messico (fonte Banca Mondiale, ndt).
Nel caso di Río de Janeiro, l’azione dei militari ha una caratteristica speciale: si focalizza nelle favelas, è diretta, dunque, contro la popolazione povera, nera e giovane. Nelle 750 favelas cittadine, vive un milione e mezzo dei sei milioni di abitanti di Río. I militari si posizionano alle uscite e fotografano ogni persona, gli chiedono i documenti e ne verificano l’identità. Non s’era mai fatto un controllo del genere in maniera tanto massiccia e specifica.
Non è la prima volta che i militari si fanno carico dell’ordine pubblico in Brasile. L’anno scorso a Río i militari sono intervenuti 11 volte, nel contesto delle missioni Garanzia della Legge e dell’Ordine (GLO), una legislazione che è stata applicata nei grandi eventi, come le visite del Papa e il Mondiale di Calcio. Dal 2008, in 14 occasioni hanno assunto funzioni di polizia. Adesso, però, si tratta di un’occupazione militare che comprende tutto lo Stato.
Molti analisti hanno sostenuto con vigore che l’intervento è destinato al fallimento, visto che i precedenti, sebbene realizzati in tempo, non sono serviti a molto. Un altro esempio sarebbe l’insuccesso delle Unità di Polizia della Pacificazione (UPP), che a suo tempo erano state vantate come la grande soluzione del problema dell’insicurezza, giacché si installavano nelle stesse favelas, come una specie di polizia del vicinato.
Gli analisti ricordano, intanto, che la guerra contro le droghe in Messico è uno strepitoso fallimento, che per ora si è chiuso con un saldo di oltre 200 mila morti e 30 mila desaparecidos, mentre il narcotraffico, ben lontano dall’esser stato sconfitto, è ancora più forte.
È necessario segnalare, tuttavia, che queste letture sono parziali, perché in realtà questi interventi conseguono un grande successo per raggiungere gli obiettivi non confessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. È questa la ragione che muove a militarizzare interi paesi in America Latina, senza toccare la disuguaglianza, che è la causa di fondo della violenza.
Quattro ragioni avallano l’impressione che siamo di fronte a interventi di straordinario successo, in Brasile, ma anche in Centroamerica, Messico e Colombia, solo per citare i casi più evidenti.
La prima è che la militarizzazione della sicurezza riesce a blindare lo Stato come garante degli interessi dell’uno per cento più ricco della popolazione, delle grandi multinazionali, degli apparati armati dello Stato e dei governi. C’è da chiedersi perché sia necessario, in questo periodo della storia, blindare quei settori. La risposta è che i due terzi della popolazione sono esposti alle intemperie, senza diritti sociali, grazie all’accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale.
Il sistema non concede nulla alle maggioranze nere (che sono il 51 per cento della popolazione in Brasile), indigene e meticce. Solo povertà e pessimi servizi sanitari, educativi e dei trasporti. Non offre loro un lavoro dignitoso né remunerazioni adeguate, le spinge alla sottoccupazione e alla cosiddetta “informalità”. A lungo termine, una popolazione che non riceve nulla o quasi nulla dal sistema, viene chiamata a ribellarsi. Per questo militarizzano, un compito che stanno compiendo con successo, per ora.
La seconda ragione è che la militarizzazione a scala macro si completa con un controllo sempre più raffinato, che fa ricorso alle nuove tecnologie per vigilare da vicino e da dentro le comunità che considera pericolose. Non può essere un caso che in tutti i paesi sono i più poveri, cioè coloro che possono destabilizzare il sistema, quelli che vengono controllati nel modo più implacabile.
Un solo un esempio. Quando sono state “donate” le làmine metalliche per le case in Chiapas, le istituzioni statali si sono preoccupate di dipingerle perché dall’alto si potessero identificare le famiglie non zapatiste. Le politiche sociali che elogiano i progressisti fanno parte di quelle forme di controllo che, nei fatti, funzionano come metodi di contro-sovversione.
La terza questione è che il doppio controllo, macro e micro, generale e particolare, sta attanagliando le società in tutto il mondo. In Europa ci sono multe o carcere per quelli che escono dal copione assegnato. In America Latina ci sono morte e desaparición per chi si ribella o, semplicemente, denuncia e si mobilita. Non si reprimono più solo quelli che si sollevano in armi, com’è stato negli anni 60 e 70 del secolo scorso, ma tutta la popolazione.
Questa mutazione delle forme di controllo, isolando e sottomettendo i potenziali ribelli, o disobbedienti, è una delle trasformazioni più notevoli che il sistema sta applicando in questo periodo di caos. Un periodo che, nel lungo periodo, potrebbe anche farla finita con il capitalismo e il dominio dell’uno per cento sul resto della popolazione.
La quarta questione sono delle domande. Che vuol dire governare quando siamo di fronte a forme di controllo che accettano solo di votar ogni quattro, cinque o sei anni? A che serve mettere tutto l’impegno politico nelle urne se fanno frodi e consolidano il loro potere con i militari nelle strade, come succede in Honduras? Non dico che non si debba votare. Mi domando: per ottenere cosa?.
Si tratta di continuare a riflettere sulle nostre strategie. Lo Stato è un’idra mostruosa al servizio dell’uno per cento. Tutto questo non cambierà neppure se prendessimo il timone del comando, perché al vertice della piramide continueranno a restare gli stessi, con tutto il potere necessario a mandarci via quando lo riterranno conveniente.
Ripreso da comune.info-net, che l'ha tradotto la Jornada. Titolo originale: Brasil tras los pasos de México Traduzione per comune.info-net: Marco Calabria.
NENA news,
«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».
Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante.
Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.
«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non come nativi».
«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».
Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.
Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento: costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.
Israele è assunto come modello securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.
La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.
Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?
In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.
Quanto si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership?
Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli scandali corruzio
il manifesto 24 febbraio 2018. Articoli di Anna Maria Merlo e Carlo Lania. Obbiettivo dell'UE: un rafforzamento dell’Europa fortezza, a scapito sempre più dell’Europa sociale. La verità la dice Junker: lo "sviluppo" è affidato alle spese per la guerra
ALLA RICERCA DI UN BUDGET
PER L’EUROPA FORTEZZA
di Anna Maria Merlo
«Consiglio europeo informale. Lettera di Macron e Merkel a Putin sulla Siria. Discussione sul bilancio Ue del dopo-Brexit. Dissidenze sullo Spitzenkandidat»
Con una lettera comune a Vladimir Putin, per ottenere che la Russia non faccia ricorso al veto e blocchi ancora la risoluzione Onu su una tregua umanitaria di 30 giorni nella Ghouta, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno chiesto ai partner europei di sostenere una posizione unitaria dell’Unione sul dramma in corso in Siria.
Il vertice informale che ha riunito ieri 27 capi di stato e di governo della Ue (senza Theresa May) doveva gettare le basi per il prossimo budget dell’Unione (2021-2027) e definire la modalità dell’elezione del prossimo presidente della Commissione, che succederà a Jean-Claude Juncker dopo le elezioni europee del maggio 2019. Sul bilancio, ci sono due questioni cruciali: come far fronte ai 12 miliardi di euro l’anno che verranno a mancare a causa della Brexit e dove destinare i fondi. Su questo secondo punto, purtroppo si profila un rafforzamento dell’Europa fortezza, a scapito sempre più dell’Europa sociale. La “linea” è stata data dal presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, che ha ambizioni italiane: ha difeso un «budget politico», concentrato su sicurezza, immigrazione, famiglia e, in ultimo, occupazione.
Il budget europeo pesa solo il 2% della spesa pubblica dei paesi Ue, nel 2017 è stato di 158 miliardi di euro. Olanda, Danimarca, Svezia, Austria non vogliono sentir parlare di un aumento dei contributi nazionali per sopperire al buco creato dalla Brexit. L’Italia con la Polonia e l’Irlanda è su posizioni opposte. Francia e Germania parlano di aprire un capitolo sui «beni pubblici europei», che potrebbe portare a un aumento dei «fondi propri» della Ue (si parla di una tassa sulla plastica o sul reddito generato dal mercato di Co2). La Commissione auspica un aumento del budget del 10%, l’Europarlamento del 20%. Per redistribuire i finanziamenti, c’è sul tavolo una nuova revisione della Pac (politica agricola) e anche l’eventualità di imporre delle «condizionalità» all’erogazione dei Fondi di coesione (rispetto dello stato di diritto, delle politiche approvate…, misure che potrebbero colpire, per esempio, paesi come la Polonia o l’Ungheria, grandi beneficiari che poi non rispettano gli impegni comuni).
L’offensiva di Macron per arrivare a liste transnazionali alle elezioni europee per il momento è fallita, respinta da un voto del Parlamento europeo all’inizio di febbraio (dopo che Strasburgo aveva approvato questa idea nel 2015), a causa di un voltafaccia del gruppo Ppe. Macron, che ha sconvolto il paesaggio politico francese, vorrebbe fare la stessa cosa in Europa. Non si sa ancora dove siederanno i futuri deputati En Marche, per questo Macron vuole evitare che venga ripetuto il meccanismo dello Spitzenkandidat, adottato nel 2014 per l’elezione di Juncker: l’automatismo tra il capo di un gruppo politico e la nomina alla testa della Commissione per il partito vincente (il Ppe, in maggioranza, impose il suo candidato Juncker alla Commissione). Non solo Macron, ma una decina di paesi sono contrari allo Spitzenkandidat, che toglie potere al Consiglio, mentre l’Europarlamento approva con entusiasmo questo sistema. Sui 73 seggi lasciati vacanti dai britannici resta la proposta dell’Europarlamento di redistribuirne 27 a 14 paesi membri per un riequilibrio demografico (anche l’Italia ci guadagna), lasciando i restanti 46 per i prossimi allargamenti.
Rimandata a più tardi la questione della fusione delle cariche di presidente della Commissione e presidente del Consiglio (oggi Juncker e Tusk), che richiede una pericolosa revisione dei Trattati, un vero a proprio vaso di Pandora che è meglio non aprire in questo periodo.
DALL’UE PIÙ DI 400 MILIONI AL SAHEL
PER LA NUOVA FORZA ANTI-TERRORISMO
di Carlo Lania
Il Sahel è ormai destinato a diventare sempre più il cortile di casa dell’Unione europea. Lo si è capito ieri a Bruxelles dove si è tenuta la Conferenza internazionale sulla sicurezza e lo sviluppo del Sahel con i leader europei e i capi di stato di Mauritania, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mali. L’Europa ha deciso di stanziare ulteriori 50 milioni di euro - dopo i 50 già investiti a giugno 2017 - da destinare al G5, la neonata forza multinazionale formata dai cinque Paesi della regione. Un contributo che sommato a finanziamenti già stanziati da donatori internazionali (tra i quali Arabia saudita ed Emirati Arabi con complessivi 130 milioni, Stati uniti con 60, Francia con 8 e Paesi Bassi con 5) porta a un totale di 414 milioni di euro il fondo su cui può contare la forza militare, destinata principalmente a operazioni di contrasto al terrorismo jihadista. Cifra che dovrebbe soddisfare il presidente nigerino, e presidente di turno del G5 Sahel, Mahamadou Issoufou, che aveva stimato in 423 milioni di euro i soldi necessari per il primo anno di attività della forza multinazionale e in 115 milioni il fabbisogno per gli anni successivi. Con l’ulteriore richiesta all’Europa di rendere stabile l’aiuto economico. «Non sappiamo quanto durerà questa lotta al terrorismo. Per questo occorre pensare a come rendere perenne questo finanziamento», ha spiegato ieri Issoufou.
Era stato il presidente francese Emmanuel Macron, alla vigilia dell’incontro di ieri, a chiedere all’Europa un ulteriore sforzo economico per sostenere il G5 Sahel. La Francia ha da tempo 4.000 soldati impegnati nella regione con la missione Barkhane, sempre più spesso nel mirino di attentati. L’ultimo, appena tre giorni fa, ha visto morire in Mali due militari e un terzo rimanere ferito per l’esplosione di una bomba artigianale. Attentato che ha rafforzato i programmi del presidente francese che vorrebbe riportare gradualmente a casa i suoi soldati per lasciare il campo ai soli africani.
«Il nostro obiettivo è di avere la forza congiunta operativa già a marzo, quindi la prossima settimana», ha detto ieri l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini. Obiettivo che può tornare utile anche in vista delle imminenti elezioni italiane, come ha sottolineato il premier Paolo Gentiloni convinto che interventi come quelli che l’Europa sta facendo in Africa possano servire anche per fermare il populismo dilagante.
Nel Sahel saranno presenti presto anche i soldati italiani, Entro giugno è infatti previsto l’arrivo in Niger dei primi 270 militari con base all’aeroporto di Niamej. Una presenza che va ad aggiungersi a quelle di Francia, Stati uniti e Germania che già si trovano sul posto, ma che non prevede – almeno per ora – scontri con le formazioni terroristiche attive nella regione, bensì solo attività di addestramento delle forze di sicurezza nigerine nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Il Sahel resta comunque una regione alla quale l’Europa guarda con particolare attenzione, come ha fatto capire sempre ieri il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ricordando come un quinto della popolazione della regione sia a rischio fame e cinque milioni di persone siano costrette a lasciare le proprie case a causa dei conflitti in corso. Senza contare che i tre quarti della popolazione dell’area ha meno di 35 anni. «Per questo sicurezza e sviluppo devono marciare insieme», ha detto Juncker. Un binomio sul quale l’Europa sembra però concentrata per ora soprattutto sulla prima parte.
Nigrizia,
«Presentato a Roma il rapporto annuale di Amnesty International. In Nord Africa maglie nere per Egitto e Libia, nella regione subsahariana situazione al limite in Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Nigeria. “Ma in Africa - spiega il presidente Antonio Marchesi - di fronte a una classe politica che in molti casi segue un’agenda sbagliata, c’è una società civile che si mobilita”»
C’è tanta Africa nel Rapporto 2017-2018 presentato da Amnesty International il 21 febbraio a Roma nell’Istituto della Enciclopedia Italiana. Il dossier analizza le sistematiche violazioni dei diritti umani in 159 paesi, ponendo quest’anno particolare attenzione su un fenomeno in particolare. Si tratta dell’odio sempre più diffuso nei confronti di minoranze e diversità, un sentimento su cui soffiano molti governanti nel tentativo di manipolare a loro favore le opinione pubbliche, servendosi anche di fake news. È una tendenza che interessa anche l’Italia e, nella fattispecie, le forze politiche di centro-destra come dimostra un’indagine realizzata da Amnesty International in cui è stata monitorata la frequenza di toni e slogan contro migranti, musulmani, rom ed LGBTI durante questa campagna elettorale.
Se l’Occidente registra degli evidenti passi indietro sul piano politico e culturale, l’Africa continua a fare i conti con i suoi annosi problemi: regimi dittatoriali che non lasciano alcuno spazio alla libertà di stampa ed espressione, paesi in guerra, presenza capillare di gruppi jihadisti, flussi migratori incontrollati, traffici di uomini, droga e armi, torture e privazioni dei basilari diritti umani.
Nord Africa: maglie nere per Egitto e Libia
Tra i paesi del Nord Africa, l’Egitto si conferma quello attraversato da più contraddizioni. Il suo presidente, Abdel Fattah Al Sisi, è considerato un alleato solido dai leader europei così come da Russia e paesi del Golfo. Eppure, da quando l’ex generale è salito al potere con un colpo di Stato nel luglio del 2013, la situazione dei diritti umani in Egitto è gradualmente peggiorata. Secondo il rapporto di Amnesty International, il Paese si conferma infatti come il “carcere” più grande per i giornalisti insieme a Turchia e Cina. Nel 2017 i giornalisti condannati a pene carcerarie sono stati 15, mentre 400 siti web sono stati oscurati per aver diffuso “informazioni false” stando a quello che dicono le autorità egiziane. Negli ultimi dodici mesi si è inoltre stretta la morsa attorno agli attivisti per la tutela dei diritti umani, alle ong, ai sindacalisti, agli LGBTI e a chiunque si sia esposto per ottenere la verità sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni.
Riferendosi alla Libia, Amnesty International parla invece di “totale assenza di legalità” e punta l’indice contro chi, come il nostro paese, sta puntando su errate strategie di contenimento dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo. “Fino a 20mila rifugiati e migranti - si legge nel rapporto - erano arbitrariamente trattenuti a tempo indeterminato in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento e totale mancanza d’igiene, esposti al rischio di tortura, lavoro forzato e uccisioni illegali, per mano delle autorità e delle milizie che gestivano queste strutture. Nel fornire assistenza alla guardia costiera libica e alle strutture di detenzione, gli Stati dell’UE, e in particolare l’Italia, si sono resi complici degli abusi”.
È convinto di questa posizione il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi. “L’Italia - spiega - dice che si deve puntare prima alla stabilizzazione in Libia, ma finora o risultati ottenuti sono stati pochissimi. Non è stato riconosciuto un ruolo significativo all’UNHCR, la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra, non è venuto meno l’automatismo della detenzione degli irregolari. Tutto questo approccio basato sull’institution building ha dei costi umani inaccettabili. Ci sono persone che rischiano ogni giorno torture, subiscono estorsioni e violenze inaudite. L’unica soluzione è aumentare in modo molto significativo l’accoglienza di circa 40mila persone molto vulnerabili che hanno urgente bisogno di assistenza ed esercitare una pressione diversa sulle autorità libiche”.
Africa subsahariana
Passando all’Africa subsahariana la situazione non cambia e, anzi, in diversi casi peggiora. “Da Lomé a Freetown, da Khartoum a Kampala, da Kinshasa a Luanda - prosegue il rapporto di Amnesty International - si sono verificati arresti di massa contro manifestanti non violenti, così come percosse, uso eccessivo della forza e, in alcuni casi, uccisioni. L’immobilità politica e i fallimenti degli organismi regionali e internazionali nell’affrontare gli annosi conflitti e le loro cause hanno rischiato di diventare la normalità e di causare ulteriori violazioni, nell’impunità”.
Nella regione sono oltre 20 i paesi in cui le autorità hanno negato alle persone il diritto di protestare pacificamente. Lo hanno fatto nei migliori dei casi imponendo divieti illegali, oppure con l’uso eccessivo della forza, con vessazioni e arresti arbitrari. È accaduto soprattutto in Angola, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan, Togo, nelle regioni anglofone del Camerun, in Kenya, Sierra Leone e Uganda.
Alcuni governi hanno adottato nuove leggi con l’obiettivo di limitare le attività dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e dei loro oppositori. I casi più evidenti sono stati quelli dell’Angola, della Costa d’Avorio e della Nigeria. Sempre in Angola, così come in Kenya, Rwanda e Burundi, le ultime tornate elettorali sono servite ai governanti per regolamenti di conti interni.
Vittime di discriminazioni e abusi sono poi donne e ragazze, albini (specie in Malawi e Mozambico) ed LGBTI (Senegal, Ghana, Malawi e Nigeria). Non sono esenti da colpe nemmeno le società straniere che operano nel cuore dell’Africa. Vale per le compagnie occidentali così come per quelle turche o cinesi che non si fanno scrupoli a offrire solo un dollaro al giorno a chi rischia la vita nelle miniere di cobalto, nei cantieri dove si realizzano grandi infrastrutture, nei giacimenti di petrolio e gas.
Jihadisti e conflitti armati
A incidere enormemente sull’instabilità perenne di buona parte dell’Africa subsahariana sono la presenza ramificata di gruppi jihadisti - in primis i nigeriani di Boko Haram e i somali di al-Shabaab - e i conflitti armati in corso. Il caso più critico ad oggi è quello del Sud Sudan. Amnesty International segnala che nella regione dell’Alto Nilo “decine di migliaia di civili sono stati sfollati con la violenza, mentre le forze governative bruciavano, bombardavano e saccheggiavano sistematicamente le loro abitazioni e proseguivano i continui episodi di violenza sessuale”. In Sudan resta elevata l’emergenza umanitaria negli Stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud.
In Repubblica Centrafricana gruppi armati imperversano sino alle porte della capitale Bangui e nel Paese si segnalano anche casi di sfruttamento e di abusi sessuali da parte delle truppe di peacekeeping dell’ONU. Si contano migliaia di morti e oltre un milione di sfollati interni nella Repubblica democratica del Congo. Di questi ultimi, 35.000 si sono riversati nel vicino Angola. Gli eserciti di Camerun e Nigeria, nel rispondere alla minaccia di Boko Haram, si stanno macchiando di violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale: esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, arresti arbitrari, detenzioni in incommunicado, torture. In Niger, paese in cui l’Italia si appresta ad avviare una discussa missione militare e dove è in vigore lo stato d’emergenza nelle aree occidentali al confine con il Mali e nella regione di Diffa, è iniziato il processo di oltre 700 persone sospettate di essere affiliate al gruppo jihadista nigeriano.
Sfollati interni
Nel complesso questi elementi di instabilità hanno portato a un netto aumento di sfollati interni. È il caso della Somalia (in totale 2,1 milioni di sfollati interni), della Nigeria (almeno 1,7 milioni di persone che hanno lasciato le proprie case negli Stati nordorientali di Borno, Yobe e Adamawa, dove è più forte la presenza di Boko Haram), del Ciad (più di 408.000 rifugiati provenienti da Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Nigeria e Sudan), e dell’Eritrea (dove sono in migliaia a tentare di fuggire per non subire l’oppressione del governo o per evitare la leva obbligatoria a tempo indeterminato). Anche in questa triste classifica, il primato spetta però al Sud Sudan: dall’inizio del conflitto nel dicembre del 2013 gli sfollati sono stati più di 3,9 milioni di persone (un terzo della popolazione) con picchi nel 2017 nella regione meridionale dell’Equatoria (340.000 persone).
Speranze per il futuro
Non tutto in Africa è però offuscato da violenze. Qualcosa, seppur lentamente, si sta muovendo nella giusta direzione. Il Gambia, ad esempio, ha revocato la decisione di ritirarsi dalla giurisdizione dell’International Criminal Court, ha liberato diversi prigionieri politici e promesso l’abolizione della pena di morte. L’Alta corte del Kenya ha fermato la chiusura di Dadaab, il più grande campo profughi del mondo. In Nigeria sono stati impediti sgomberi forzati ad Abuja. In Angola la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità della legislazione che si proponeva di ostacolare il lavoro delle organizzazioni della società civile. L’Unione Africana ha avviato un ambizioso programma per “far tacere le armi” entro il 2020.
“In Africa - conclude Antonio Marchesi - di fronte a una classe politica che in molti casi segue un’agenda sbagliata, c’è una società civile che si mobilita. C’è speranza soprattutto per il futuro del Sudafrica. Con l’allontanamento del presidente Zuma, il paese può ambire a tornare ad assumere leadership africana come aveva già fatto, e bene, negli anni Novanta”. Nell’insieme, sono piccoli passi in avanti che fanno ben sperare nell’anno del 30esimo anniversario della creazione della Commissione africana sui diritti umani e dei popoli.
Questo articolo è ripreso da "Nigrizia", dove è raggiungibile qui
Avvenire
Il dramma In base al provvedimento voluto dal governo, 38mila africani presenti nel Paese dovranno scegliere tra il ricollocamento in uno Stato terzo o il campo di detenzione di Holot, nel Negev. Scegliere tra la deportazione e la galera. È questo il dilemma di 38.000 africani, per lo più eritrei (27.494) e sudanesi (7.869), sul suolo israeliano. Domenica è scaduto il termine per i primi 200 migranti che verranno presto espulsi sulla base della nuova legge voluta dal governo di Benjamin Netanyahu.
A riaccendere le speranze c’è però una sentenza, emessa il 15 febbraio, di un giudice della Corte d’appello israeliana, secondo cui va accolta la richiesta d’asilo da parte degli eritrei che fuggono dal servizio militare. Si moltiplicano intanto le manifestazioni di protesta. Quelle dei migranti, che da settimane organizzano sit-in ad Herzliya (nord di Tel Aviv) davanti all’ambasciata del Ruanda, uno dei due Paesi individuati dal governo come destinazione per il ricollocamento degli espulsi (l’altro è l’Uganda). Ma anche quelle della società civile, che si sta mobilitando per dire «no».
Girano petizioni contro una legge che, secondo i sottoscrittori, tradisce l’anima di Israele e degli ebrei, che furono profughi perseguitati. A firmarle, intellettuali, scrittori, artisti, medici, rabbini, sopravvissuti della Shoah e gente comune. Sui social, è partita la campagna «anch’io sono contro l’espulsione dei rifugiati», e alcuni Vip hanno postato la loro foto con il cartello di adesione. Donne e minori al momento restano sospesi dal provvedimento.
Gli uomini non sposati invece hanno tempo fino al primo aprile per scegliere se tornare in Africa in aereo, oppure rimanere ingabbiati a Holot, il centro di detenzione nel deserto del Negev. Il pugno duro contro chi è entrato illegalmente nello Stato ebraico dal 2007 al 2012, attraversando il Sinai, lo ha deciso l’attuale governo, facendo fede al suo programma elettorale. Rifugiati e richiedenti asilo eritrei e sudanesi «verranno costretti ad accettare il ricollocamento nei Paesi africani o verranno arrestati», aveva detto Netanyahu prima di far passare la controversa legge. Una decisione che ha incontrato il biasimo della sinistra israeliana, delle Chiese cristiane, ma anche di alcuni sionisti e diversi rabbini, che la trovano incompatibile con la religione ebraica.
«Netanyahu pensa che le espulsioni siano una soluzione per accontentare i cittadini israeliani che risiedono della parte sud di Tel Aviv, dove vive la maggior parte dei migranti », spiega ad Avvenire Mossi Raz,parlamentare del partito di sinistra Meretz. Per facilitare le deportazioni (che il premier ha suggerito di chiamare d’ora in poi «rimozioni »), il governo ha stanziato una cifra di 2.900 euro da dare al migrante al momento della partenza. Ma secondo l’Alto commissario dei rifugiati dell’Onu (Acnur), è illegale rimpatriare i cittadini in Paesi di origine dove non vengono rispettati i diritti umani. È il caso dell’Eritrea e del Sudan, dove vigono regimi non democratici.
Quindi, per uscire dall’imbarazzo, il governo israeliano ha stipulato accordi non ufficiali con Ruanda e Uganda, Paesi che dal 2007 accettano gli eritrei e i sudanesi deportati da Israele. «Io sono andato in Ruanda – racconta Raz –: il governo di Kigali si è rifiutato di incontrarmi e di riconoscere l’accordo con Netanyahu».
Ma a Kigali Raz ha incontrato i migranti rimpatriati negli anni scorsi. «Sono degli invisibili – spiega –, non hanno diritti perché arrivano in questi Paesi senza lo status di rifugiato». Dal 2013 il ministero della Popolazione e dell’immigrazione israeliano ha visionato solo 6.500 delle 15.000 domande d’asilo presentate. Di queste ne sono state approvate soltanto 11. «È un numero ridicolo», commenta Amir Segal portavoce di Cimi (Center for international migration and integration), associazione israeliana che si occupa di difendere i diritti dei lavoratori stranieri. «Non c’è un problema di mancanza di lavoro – spiega – bensì di razzismo». In un recente comizio, la ministra della Giustizia, Ayelet Shaked, del partito di destra Casa ebraica, ha detto: «Se non fosse stato per la barriera al confine con l’Egitto, oggi assisteremmo a una lenta ma inesorabile conquista da parte degli africani». Il riferimento è alla rete metallica costruita sul Sinai, nel 2012, voluta da Netanyahu.
Da allora non si sono più verificati sconfinamenti illegali. «La vera ragione però – rivela Segal – non sta nella barriera, ma nella detenzione dei migranti che ha imposto l’Egitto». In Israele la domanda di lavoro supera l’offerta. Lo Stato ebraico preferisce però prendere lavoratori da India, Filippine e altri Paesi asiatici, che vengono impiegati nell’agricoltura, cura degli anziani, edilizia e settore alberghiero. Agli africani che entrano illegalmente, invece vuole lanciare un messaggio molto chiaro: non siete ben accetti. «Costruisci uno Stato che possa soddisfare anche gli stranieri che ci vivono », ricordano gli intellettuali israeliani. Parafrasando il padre del sionismo, Theodore Herzl.
Avvenireprogetto del tipo "aiutiamoli a casa loro",che nasconde sotto la maschera dell'aiuto benefico il ghigno consueto dello sfruttamento
La Francia denuncia la pseudo cooperazione e se ne va. Il gran rifiuto, come lo avrebbe definito Dante, è avvenuto l’8 febbraio con un’insolita e persino sorprendente scelta a fianco dei piccoli contadini africani che le multinazionali dell’agrobusiness forse non perdoneranno mai a Emmanuel Macron. Il programma da cui Parigi ha deciso di ritirarsi si chiama"Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e nutrizionale" (in sigla Nasan), un’iniziativa decisa nel corso del G8 che si tenne nel 2012 a Camp David.
Al pari del titolo, dal forte richiamo biblico, anche le finalità hanno un vago sapore messianico: in 10 anni liberare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di africani attraverso una collaborazione fra Governi africani, Governi dei Paesi ricchi e imprese private. Ma a una verifica di metà periodo, si scopre che il progetto è servito a creare dei paradisi fiscali agricoli, come li ha definiti l’organizzazione francese Action contre la Faim : occasioni di guadagno per le grandi imprese dell’agroindustria, non di liberazione dei piccoli contadini le cui condizioni sono addirittura peggiorate. In effetti il progetto nasce dalla vecchia convinzione che per risolvere fame e povertà basta aumentare la produzione. Per cui l’unica cosa da fare è facilitare gli investimenti da parte di chi i soldi ce li ha, ossia le grandi imprese nazionali e transnazionali.
Da qui la Nuova Alleanza che ai Governi locali africani chiede di mettere a disposizione terre e un contesto legislativo favorevole alle imprese, ai Governi del Nord di mettere qualche soldo per la costruzione di qualche infrastruttura a titolo di cooperazione, alle imprese private di metterci gli investimenti e guadagnarci. Le imprese che hanno aderito al progetto sono un centinaio, per investimenti complessivi dichiarati attorno ai 5 miliardi di dollari, in sei Paesi: Ghana, Etiopia, Tanzania, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Mozambico.
Il progetto non prevede la trasparenza fra i propri princìpi, ma dalle informazioni trapelate si apprende che due multinazionali coprono da sole due quinti dell’importo: Syngenta, azienda di sementi, filiale svizzera della cinese ChemChina, con 500 milioni di investimenti e Yara, multinazionale di fertilizzanti che batte bandiera norvegese, con 1,5 miliardi di investimenti. Neanche Cargill, multinazionale agro-commerciale americana, se la cava affatto male con 525 milioni di investimenti, per poi trovare più giù in graduatoria altre famose multinazionali come Mars, Monsanto, Louis Dreyfus.
Dal che si capisce che il risultato finale della Nuova Alleanza sarà un rafforzamento dei prodotti agricoli destinati all’esportazione (cacao, caffè, olio di palma) e un ulteriore spinta ai contadini africani affinché si gettino definitivamente fra le braccia dell’agricoltura industriale basata sulle sementi selezionate, fertilizzanti e pesticidi. Insomma tutto il contrario dell’idea di sovranità alimentare che ha come obiettivo la produzione per i bisogni locali e come strategia produttiva l’autoproduzione delle sementi e l’agricoltura biologica, due modi per rispettare la natura ed impedire che i contadini finiscano nella trappola dei debiti.
Già nel 2016 il Parlamento di Strasburgo aveva chiesto alla Ue di togliere il proprio sostegno al Nasan. In particolare richiamava «il pericolo di replicare in Africa lo stesso modello di "rivoluzione verde" attuata in Asia negli anni 60, senza tenere conto dei suoi impatti sociali e ambientali». Il governo francese, che partecipava alla Nuova Alleanza come partner del Burkina Faso, non ha dato una motivazione ufficiale del suo ritiro dal Nasan, ma un funzionario governativo ha dichiarato a Le Monde che «l’approccio del progetto è troppo ideologico ed esiste un vero rischio di accaparramento di terre a detrimento dei piccoli contadini».
I quali confermano: «A noi che produciamo per il mercato locale, la Nuova Alleanza non elargisce nessun vantaggio fiscale, mentre alle imprese che producono per l’esportazione garantisce terre e ogni altro genere di facilitazione. Dov’è l’interesse per la sicurezza alimentare del nostro Paese? I piccoli contadini hanno mostrato di saper produrre, pur ricorrendo ai metodi tradizionali; assicurano il 40% del consumo interno di riso. Ciò nonostante il Nasan si prefigge di modernizzare 30mila ettari di terreni e di assegnarne 5mila ai villaggi. Il che significa far passare da un’agricoltura di tipo pluviale a un’agricoltura basata sull’irrigazione artificiale.
Ma la pioggia la dà la natura gratuitamente, l’acqua del sottosuolo, invece, sarà disponibile solo per chi ha soldi perché richiede macchinari ed energia. In conclusione i contadini più deboli si impoveriranno ulteriormente e la nostra sicurezza alimentare sarà sempre più a rischio». Preoccupazioni fatte proprie dal Governo francese considerato che l’uscita dal Nasan è stata giustificata dal fatto che «la Francia preferisce dare il proprio sostegno all’agricoltura familiare attraverso un’intensificazione dell’agro-ecologia». Parole su cui meditare, specie oggi che si parla tanto di"aiutarli a casa loro".
cittànuova.it
Siamo nel 1992 quando Norberto Bobbio, filosofo e giurista, scriveva in un “messaggio” per lungo tempo inedito: «In tutti questi anni si sono succedute sempre nuove Carte dei diritti, ma la maggior parte di questi diritti sono rimasti, letteralmente, sulla carta. A cominciare dal diritto alla pace che è strettamente legato ai due diritti fondamentali dell’uomo, il diritto alla vita e il diritto alla libertà». Così, a distanza di anni, sembra riecheggiare allora come oggi, nella sua perenne attualità, quanto scritto dai Padri costituenti nella nostra Carta costituzionale all’art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
È la ferma volontà di esprimere, anche nei confronti del mondo internazionale, la condanna e la rinuncia alla guerra, in forza di quella dichiarazione contenuta tra i Principi fondamentali della nostra Costituzione.
Guardando già allora a un futuro d’unità fra le Nazioni, anche oltre i confini dell’Europa, non si taceva dai Padri costituenti l’obiettivo di «aprire tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli».
Le leggi non mancano
Sono le tante vittime di guerre taciute o dimenticate, ma alle quali il Comitato Riconversione RWM ha inteso dar voce in nome della pace e dell’umana dignità, nonostante il parere contrario di Confindustria e delle principali sigle sindacali a difesa e sostegno della piena legittimità e del diritto all’attività produttiva della fabbrica di armi in attesa di ulteriore espansione.
A livello internazionale l’Italia, fra l’altro, ha ratificato il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Arms Trade Treaty – ATT), adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 2 aprile 2013 ed entrato in vigore il 24.12.2014. Ricordiamo che, in particolare l’art. 7, comma 7 prevede che lo Stato Parte esportatore, anche dopo la concessione dell’autorizzazione, possa venire a conoscenza di nuove informazioni rilevanti; in tal caso, lo stesso Stato sarà «incoraggiato a riesaminare» l’autorizzazione accordata.
Basta, dunque, per legittimare il commercio e l’esportazione di armamenti dall’Italia l’iniziale autorizzazione, pur prevista dalla legge 185 del ’90, se è vero che il nostro ordinamento affida proprio alle istituzioni la verifica circa il permanere delle condizioni iniziali?
Quell’autorizzazione non costituisce evidentemente un mero atto formale, ma chiede una verifica sostanziale, affinché l’attività prima consentita non incorra successivamente nei divieti espressamente previsti, che attendono il rispetto da parte di tutti, istituzioni comprese.
Le Risoluzioni europee
Non manca neanche la voce della stessa Unione Europea. Con la Risoluzione del 25 febbraio 2016sulla situazione umanitaria nello Yemen (2016/2515(RSP)) il Parlamento europeo ha chiesto espressamente «l’embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», sia per le gravi segnalazioni di violazione del diritto umanitario, sia per la conseguente considerazione «del fatto che il continuo rilascio di licenze di vendita di armi all’Arabia Saudita violerebbe […] la posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008». Analogamente, la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 15 giugno 2017(2017/2727(RSP)).
Ma ha a che fare tutto ciò con il lavoro, diritto/dovere previsto dalla Costituzione tra i principi fondamentali? Lo è anche quel lavoro produttivo di armi, oggi rivendicato e difeso a favore di una terra certo povera, ma non di bellezze naturali, come l’Iglesiente?
Eppure oggi sempre più spesso accade di sperimentare una drammatica alternativa: tra lavoro e salute (v. caso Ilva di Taranto), o lavoro e rispetto di principi/diritti altrettanto fondanti della convivenza, quali quelli enunciati nell’art. 11 Costituzione.
Gli illegalismi legali e le radici del diritto
Dobbiamo allora essere consapevoli che per operare la riconversione di una attività produttiva occorre ancor prima togliere terreno alle armi, posto che la prima cornice di ogni attività lavorativa è la garanzia di legalità. Quest’ultima deve farsi sostanziale fino ad affermarsi come cultura della legalità per cittadini e istituzioni, e superare il rischio di ricadere in quelli che sono stati definiti “illegalismi legali”.
Ma anche la legalità, nell’ effetto ultimo di ordinare le relazioni sociali, comporta che il suo contenuto non si limiti al “non nuocere”, “non offendere”, “rispettare le norme”, ma arrivi a “guardare al bene dell’altro come al proprio”.
Se i profitti si possono sommare perché non hanno volto e non esprimono identità né storia, nell’obiettivo del bene comune non si può sacrificare il bene di qualcuno, magari distante e sconosciuto, per migliorare quello di qualcun altro, perché quel qualcuno è pur sempre una persona umana.
Una scelta che chiede il coraggio di fermarsi, perché, è il messaggio di Norberto Bobbio, «dobbiamo essere sempre più convinti che il rispetto dei diritti dell’uomo e la conservazione della pace cominciano da ciascuno di noi, singoli uomini e singole donne inermi di tutto il mondo, all’interno di ciascuno di noi, dei nostri pensieri, e delle azioni, anche se piccole, che riusciamo a far seguire con coerenza ai nostri pensieri».
È questo forse il coraggio degli ultimi e il richiamo ai potenti.
Avvenire,
«Sarebbero solo tre i sopravvissuti, fa sapere l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dell'ennesima tragedia del mare che si è consumata venerdì notte davanti alle coste della Libia»
Sarebbero almeno 90 i migranti morti nella notte tra giovedì e venerdì al largo delle coste della Libia. A dare la notizia dell'ennesimo naufragio, l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni. La barca su cui i migranti stavano viaggiando, in legno, si è ribaltata. Solo tre i sopravvissuti. A bordo, riferisce l'agenzia delle Nazioni unite, ci sarebbero stati soprattutto cittadini pachistani.
Dieci corpi senza vita, conferma la portavoce dell'agenzia, Olivia Headon, sono stati ritrovati sulla spiaggia. Si tratta di due libici e otto cittadini pachistani. Dei tre sopravvissuti, due hanno nuotato fino a raggiungere la spiaggia, dove sono stati trovati stremati e sotto-choc. il terzo è stato salvato da un peschereccio che si trovava nell'area del naufragio.
"Secondo i dati in nostro possesso - aggiunge Olivia Headon - solo 29 libici sono stati salvati o intercettati in mare nel corso del 2017. Ma stimiamo che la cifra reale sia molto più alta". Sempre nello stesso anno, sono stati in tutto 3.138 i pachistani che hanno raggiunto le coste dell'Italia, confermandosi come 13esima nazionalità nella lista generale, per cittadinanza, dei migranti salvati e sbarcati. Quest'anno però, la geografia degli arrivi sta cambiando. Il Pakistan rappresenta infatti già la terza nazionalità per numero di arrivi. Dal primo gennaio, sono infatti già 240 i cittadini pachistani sbarcati in Italia. Nello stesso periodo, di un anno fa, erano solo 9.
Con quest'ultima tragedia del mare, l'agenzia delle nazioni unite aggiorna anche il contatore degli arrivi, in questo primo mese dell'anno. Sono complessivamente 6.624 i migranti e rifugiati entrati in Europa via mare fino al 28 gennaio. L'Italia rappresenta circa il 64% del totale degli arrivi, seguita da Spagna (19%) e Grecia (16%).
"Ogni vita persa in mare è una vita di troppo persa" ha detto una portavoce della Commissione europea, Catherine Ray, commentando il naufragio al largo della Libia. "Abbiamo visto i diversi rapporti e il comunicato dell'Organizzazione Internazionale delle migrazioni", ha aggiunto la portavoce. "Ogni vita persa in mare è una vita di troppo persa. È per questa ragione che continuiamo le nostre azioni lungo tutta la rotta del Mediterraneo centrale per fare delle operazioni di salvataggio e ricerca in mare e lottare i trafficanti e le reti che mettono questa gente in pericolo", ha detto Ray. "Continueremo le nostre azioni laddove le nostre imbarcazioni possono operare", ha concluso la portavoce.
Non sono i trafficanti i principali responsabili dello sterminio. Essi sono solo l'ultimo anello della catena criminale i cui primi anelli sono costituiti dal susseguirsi dei colonialismi che hanno consentito al Primo mondo di costruire il proprio benessere a spese degli altri, condannati agli inferni da cui tentano di fuggire
milex.org
Il Rapporto MIL€X 2018 - presentato oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) insignita del Premio Nobel per la Pace 2017 - mostra un’ulteriore incremento della spesa militare italiana: 25 miliardi di euro nel 2018 (1,4% del PIL), un aumento del 4% rispetto al 2017 che rafforza la tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015) e che riprende la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006) precedente la crisi del 2008.
Cresce nel 2018 il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, +3,4% in un anno, +8,2% dal 2015) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, +5% in un anno, +30% nell’ultima legislatura, +115% nelle ultime tre legislature) per i quali nel 2018 verranno spesi 5,7 miliardi (+7% nell’ultimo anno e +88% nelle ultime tre legislature). Tra i programmi di riarmo nazionale in corso (tutti elencati nel Rapporto MIL€X) i più ingenti sono le nuove navi da guerra della Marina (tra cui la nuova portaerei Thaon di Revel), i nuovi carri armati ed elicotteri da attacco dell’Esercito, e i nuovi aerei da guerra Typhoon e F-35.
Agli F-35 il Rapporto MIL€X dedica un approfondimento che analizza costi effettivi (50 miliardi con i costi operativi), reali ricadute industriali ed occupazionali, difetti strutturali (che rischiano di mettere fuori servizio gli F-35 finora acquistati dall’Italia per 150 milioni l’uno) e funzione strategica di questo sistema d’arma prettamente offensivo e intrinsecamente contrario all’articolo 11 della Costituzione Italiana e al Trattato di non Proliferazione Nucleare.
Un altro approfondimento del Rapporto riguarda proprio i costi della “servitù nucleare” legata alle spese di stoccaggio e sorveglianza delle testate atomiche tattiche americane B-61 nelle basi italiane (23 milioni solo per l’aggiornamento delle apparecchiature di sorveglianza esterna e dei caveau contenti le venti B-61 all’interno degli undici hangar nucleari della base bresciana) e alle spese di stazionamento del personale militare USAaddetto e di mantenimento in prontezza di aerei e piloti italiani dedicati al “nuclear strike” (lo stesso acquisto del bombardiere nucleare F-35 da parte italiana, secondo il Pentagono, rappresenta “un fondamentale contributo al missione nucleare” americana).
Il commento di Daniel Högsta: “Questi dati dimostrano come la presenza di armi nucleari abbia impatto negativo per i paesi che le ospitano non solo dal punto di vista politico, ma anche della spesa pubblica. L’opinione pubblica dovrebbe rendersene conto! Sono invece già positivi gli impatti del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato all’ONU a luglio 2017: diversi enti finanziari internazionali hanno iniziato a disinvestire dalla produzione di armi nucleari. Anche gli Stati dovrebbero fare lo stesso”.
Tra gli ulteriori focus del Rapporto MIL€X 2018: le spese italiane di supporto alle 59 basi USA in Italia (520 milioni l’anno) e di contribuzione ai bilanci NATO (192 milioni l’anno), i costi nascosti (Mission Need Urgent Requirements) delle “infinite” missioni militari all’estero (con approfondimenti sui costi di 16 anni di presenza in Afghanistan e 14 anni in Iraq), il costo della base militare italiana a Gibuti intitolata all’eroe di guerra fascista Comandante Diavolo (43 milioni l’anno), il “tesoretto” armato da 13 miliardi nascosto nel Fondo Investimenti voluto dal Governo Renzi (destinato anche ai nuovi droni armati della Piaggio Aerospace*), lo “scivolo d’oro” dimenticato per gli alti ufficiali (condannato dalla Corte dei Conti) e l’onerosa situazione dei 200 cappellani militari ancora a carico dello Stato (15 milioni l’anno tra stipendi e pensioni).
NB per un mero errore materiale in una prima stesura di questo articolo (fino alle 17.30 di giovedì 1 febbraio) si faceva riferimento alla “Piaggio” come azienda produttrice di droni, mentre è invece “Piaggio Aerospace” ad essere coinvolta in tale produzione e a ricevere finanziamenti pubblici a riguardo (come correttamente evidenziato nel testo del Rapporto Mil€x 2018). Ce ne scusiamo con gli interessati.
Gerusalemme, 1 febbraio 2018, Nena News – Critiche internazionali e condanne dei centri per i diritti umani non fermano il governo Netanyahu deciso ad espellere entro la fine di marzo circa 35mila eritrei e sudanesi richiedenti asilo, entrati negli anni passati in Israele. All’inizio di marzo dovrebbero entrare in azione, così riferiscono i media locali, 70 “ispettori speciali dell’immigrazione”, civili pagati dall’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione con 30mila shekel (circa 8mila euro) per due mesi di lavoro e incaricati di individuare gli stranieri illegali e chi li aiuta. In sostanza dovranno dare la caccia agli africani clandestini a Tel Aviv e in altre città e provare a scoprire se qualche cittadino israeliano li aiuta o offre loro un’occupazione.
Altri 40 ispettori, sempre secondo la stampa, saranno assunti con l’incarico di accertare la «sincerità» degli africani. «Stiamo cercando di saperne su questa assurda offerta di lavoro ma le autorità non si sbottonano. Tanti provvedimenti sono decisi in segreto ed emergono solo quando li vediamo applicati sul terreno», ci diceva ieri T. A., un’attivista dei diritti dei richiedenti asilo.
L’assunzione degli ispettori/cacciatori di africani illegali in Israele arriva poche settimane dopo l’annuncio della politica scelta dal governo Netanyahu per costringere eritrei e sudanesi a lasciare il Paese. Gli africani hanno la possibilità di partire volontariamente e di far ritorno nel loro Paese d’origine oppure di andare in Ruanda (e, pare, anche in Uganda) con in tasca 3500 dollari, in caso contrario saranno arrestati e incarcerati a tempo indeterminato.Gran parte degli “alieni”, così sono chiamati in Israele, sono scappati da Paesi in guerra e per sottrarsi ad abusi, torture e violenze. Invece per i dirigenti politici israeliani, con in testa il primo ministro, sono solo degli “infiltrati” alla ricerca di opportunità economiche e costituiscono una minaccia per il tessuto sociale e l’identità ebraica di Israele. Dal 2009 solo 10 eritrei e un sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dalle autorità israeliane. Ad altri 200 sudanesi del Darfur è stato riconosciuto lo status umanitario.
A nulla è valso l’appello lanciato a gennaio dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) affinché Israele ponga fine alle sue politiche di ricollocamento forzato di eritrei e sudanesi. L’agenzia dell’Onu aveva anche denunciato che almeno 80 persone “ricollocate” in Africa hanno poi tentato di raggiungere la Libia subendo lungo il tragitto abusi, torture ed estorsioni e hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Coloro che erano partiti da Israele, ha riferito ancora l’Unhcr, una volta giunti a destinazione hanno trovato una situazione ben diversa da quella che si aspettavano, con un’assistenza che raramente è andata oltre un posto dove dormire per la prima notte. Alcuni hanno riferito che diverse persone che viaggiavano con loro sono morte nel tragitto verso la Libia, dove in molti sono stati vittima di estorsioni, detenzione, abusi e violenze.
Ong, associazioni e attivisti israeliani stanno tentando di scuotere l’opinione pubblica largamente schierata con la politica del governo. Ma a ben poco è servito l’appello contro le espulsioni degli scrittori Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua, di esponenti religiosi e di un gruppo di sopravvissuti alla Shoah che si sono detti pronti a nascondere i profughi nelle proprie case, pur di sottrarli alla polizia e al provvedimento di espulsione. Nei giorni scorsi a margine del vertice economico a Davos, Netanyahu ha incontrato il presidente del Ruanda Paul Kagame che ha detto di avere una politica di porte aperte per chi desidera rientrare in Africa ma non ha confermato di aver sottoscritto un accordo con Israele. Per gli attivisti israeliani invece l’intesa segreta tra Ruanda e Israele esiste e per questo hanno intensificato le pressioni su Kagame affinchè cessi di ricevere nel suo Paese gli eritrei e sudanesi espulsi. Pressioni che non hanno gli effetti desiderati, a maggior ragione ora che il leader ruandese si fa forte dello status internazionale che ha conseguito dopo la nomina a presidente dell’Unione Africana.
Articolo ripreso da NENAnews". Qui è raggiungibile la pagina originaria
tiscali.it
Guerre che non finiscono mai e che forse mai vinceremo. E’ questa l’impressione che si ha guardando agli attentati in Afghanistan e in Libia, oppure all’operazione Ramoscello d’Ulivo della Turchia contro i curdi siriani. Eppure la novità della globalizzazione è proprio questa: vincere le guerre non serve. Sulle nevi di Davos, al Forum economico mondiale dove sta per arrivare The Donald, lo sanno bene ma fanno finta di parlare di altro. Per coprire veri o presunti fallimenti basta fare la dichiarazione opportuna: James Mattis, il capo del Pentagono, è stato chiaro, la guerra al terrorismo non è più una priorità, i veri nemici sono Russia e Cina. Basta cambiare obiettivo, come si cambia un vestito, e tornare al classico della guerra fredda, o riscaldata.
L’Iraq nel caos dopo il 2003
Il sospetto che vincere la guerra non fosse più un obiettivo ci aveva già colti a Baghdad nel 2003, quando il Paese sprofondò in un marasma dal quale non è più uscito. L’Iraq era stato in guerra otto anni con l’Iran (1980-88), Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait nel ’90 e poi era stato sconfitto nel ’91 da una coalizione a guida americana. Dodici anni di sanzioni poi il dittatore è caduto ed è cominciato un decennio di terrorismo. Infine, nel 2014, è arrivato anche il Califfato. Ma dopo la sconfitta dell’Isis, a Baghdad gli attentati continuano. Questo non impedirà di dare il via in Kuwait a un’affollata conferenza sulla ricostruzione dell’Iraq: business is business, soprattutto quando è alimentato dal petrolio.
In questi anni non si è mai visto niente di più ipocrita e di meno umanitario delle guerre “umanitarie”, di guerre per “esportare la democrazia” e “salvare popoli” che sono stati poi abbandonati a un destino che neppure loro hanno potuto decidere.
Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso degli Usa
Chi oggi ragionevolmente può prevedere la pacificazione dell’Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso mai intrapreso dagli Stati Uniti? Dopo avere proclamato che avrebbe ridotto la presenza militare a Kabul, anche il presidente americano Donald Trump ha deciso di aumentare le truppe Usa, da 8mila a oltre 14 mila uomini. Ma è una guerra che si può vincere? Sembra di no perché nel 2007-2008 c’erano tra truppe americane e Nato oltre 150mila uomini e oggi almeno un terzo del territorio afghano è controllato dai talebani o dai gruppi jihadisti. “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”, disse il premier britannico Anthony Eden negli anni Trenta. Ma soprattutto mai fare la guerra in Afghanistan senza avere degli alleati tra i vicini dell’Afghanistan. Gli Usa si oppongono all’Iran, considerato un regime da cambiare e Trump ha anche litigato con il Pakistan congelando gli aiuti americani. Il vero motivo dell’acredine di Washington è che i pakistani sono alleati di Pechino e ospitano 13mila soldati cinesi. Il Pakistan considera l’Afghanistan parte della sua profondità strategica, difficilmente sarà pacificato senza la sua collaborazione.
Dopo Gheddafi la Libia è divisa in due
Un altro esempio di guerre che con finiscono mai è la Libia. Nel 2011 i francesi gli inglesi e gli americani bombardarono il Colonnello Gheddafi. Erano già caduti il tunisino Ben Alì e l’egiziano Mubarak, questo era il loro tentativo di dirigere da fuori le primavere arabe prendendo il controllo delle risorse energetiche e della geopolitica della regione. Già allora si capiva che la rivolta di Bengasi avrebbe spaccato il Paese, una creatura coloniale italiana: Tripolitania da una parte, Cirenaica dall’altra. Mentre i confini della Libia sprofondavano di mille chilometri, aprendo la via a un enorme flusso di profughi e alla destabilizzazione jihadista di Al Qaida e poi dell’Isis. Dopo la disgregazione dell’Iraq ne cominciava un’altra. Come se questo non bastasse la Francia, l’Egitto e la Russia hanno sostenuto in questi anni il generale Khalifa Haftar con l’idea di mettere un uomo forte a capo del Paese. Ma neppure Haftar, dopo avere annunciato qualche la liberazione “definitiva” di Bengasi da salafiti e jihadisti, controlla completamente la Cirenaica.
La Siria è la guerra più devastante di tutte
Non è più tempo di dittatori “forti” alla Saddam, che poi magari sfuggono al controllo, ma di autocrati a mezzo servizio che possono essere manovrati. Assad è un esempio. Dopo aver pensato di abbatterlo, si è capito che è meglio lasciarlo al suo posto, dimezzato, a fare il “lavoro sporco”. La Siria è la guerra più devastante di tutte. La peggiore perché studiata a tavolino per sfruttare la rivolta popolare non soltanto per cambiare un regime ma l’intero assetto geopolitico del Medio Oriente. Un’operazione fallita in Iraq nel 2003 per l’alleanza tra il governo sciita di Baghdad e l’Iran.
E’ stato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, con il pieno appoggio di Francia e Gran Bretagna, a dare il via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada del Jihad” e far affluire migliaia di combattenti in Siria. Nasceva una sorta di Afghanistan a un passo dall’Europa. Il 6 luglio del 2011 l’ambasciatore Usa Ford passeggiava con i ribelli di Hama, era il segnale che il conflitto poteva cominciare con il sostegno logistico della Turchia e quello finanziario dell’Arabia Saudita e del Qatar. Assad si sera rifiutato di rompere l’alleanza con l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di americani, sauditi e israeliani, un ostacolo alle mire egemoniche di Erdogan sugli arabi. L’intervento della Russia nel 2015 ha cambiato il destino della guerra e la Turchia ha dovuto piegarsi a Mosca e Teheran.
La Turchia contro i curdi siriani
Ora Erdogan prova a incenerire i curdi siriani, ritenuti alleati del Pkk che da quasi 40 anni conduce la guerriglia nel Kurdistan turco. Questa volta si ha l’impressione che gli Usa lasceranno ai turchi la possibilità di creare una “fascia di sicurezza” dentro al territorio siriano. Dopo avere usato i curdi contro l’Isis, gli americani metteranno le loro basi nel Nord della Siria.
Lo ha confermato il segretario di Stato Rex Tillerson. Pur essendosi allontanata dall’Alleanza, la Turchia resta un Paese della Nato, con basi e missili puntati contro Mosca e Teheran, e giustificherà la permanenza in Siria degli americani che stanno facendo un cinico doppio gioco tra i curdi e i turchi. In cambio della fascia di sicurezza turca, la Russia e il governo di Damasco avranno mano libera per recuperare il controllo di Idlib. Israele è soddisfatto perché con queste presenze militari straniere (comprese quelle delle milizie filo-sciite e di quelle sunnite) si legittima ancora di più l’occupazione israeliana del Golan in corso dal 1967. Al vertice asiatico di novembre a Da Nang (casualmente in Vietnam) Stati Uniti e Russia avevano pubblicato un comunicato congiunto a favore “ della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria”. Il che tradotto significava: “Siamo noi a fare le fette di torta per tutti in Siria”. Ovviamente non si tratta di soluzioni stabili ma in Medio Oriente a volte ciò che è precario rischia di diventare definitivo perché nessuno restituisce quello che si è preso.
I costi delle guerre
Le guerre che non finiscono mai costano. Quindi l’Occidente e la Russia dovranno vendere armi ai loro alleati e clienti per recuperare i bilanci della Difesa. Più difficile spiegare all’opinione pubblica che queste guerre hanno portato il terrorismo in Europa e centinaia di migliaia di profughi che continueranno ad affluire dalle aeree di conflitto, scendendo a patti con autocrati come Erdogan perché non riapra il rubinetto dei rifugiati. Anche qui però la politica aiuta: basta dire come il generale Mattis che il terrorismo non è più il principale obiettivo ma quello di contenere Mosca e Pechino.
Credere davvero a queste acrobazie però non è facile. Lo dice anche chi ci governa. Il viceministro degli Esteri Mario Giro, in un libro appena uscito, “La Globalizzazione difficile (edito da Mondadori Università), scrive testualmente: “Il fatto di non riuscire a chiudere le guerre, a risolverle, non rappresenta più uno scandalo dell’impotenza umana e della rassegnazione politica ma viene considerato un dato normale, prevedibile quasi biologico”. In questo contesto la pace, aggiunge, sembra davvero una cosa da ingenui. Non serve vincere le guerre ma farle, soprattutto un pò lontano da casa.
Internazionale e R.it, g
Internazionale 18 gennaio 2018
AHED TEMIMI E IL FALLIMENTO
DELLA SOLUZIONE ADUE STATI
di Bernard Guetta, France Inter
È una sorta di cambio generazionale. Il 14 gennaio l’intero apparato dirigente palestinese ha constatato la totale impasse di quello che non possiamo più chiamare processo di pace e ha minacciato di sospendere il riconoscimento di Israele fino a quando lo stato ebraico non riconoscerà uno stato palestinese all’interno delle frontiere del 1967.
Mahmoud Abbas, presidente dell’autorità palestinese, ha definito “lo schiaffo del secolo” la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, che la Casa Bianca considera ormai come la capitale di Israele e non più come una città da dividere, un giorno, in due capitali di due stati diversi. In questa riunione di uomini anziani, ormai consapevoli di aver fatto il loro tempo senza ottenere risultati, si percepiva una rabbia fredda.
La determinazione di Ahed
Poi però, nella giornata del 17 gennaio, è arrivata la decisione di un tribunale militare israeliano di
rifiutare la libertà condizionata a una palestinese di 16 anni, Ahed Tamimi, che sarà processata alla fine del mese per aver partecipato a “scontri violenti”. Questa adolescente è diventata un’icona palestinese e una celebrità mondiale da quando ha schiaffeggiato un soldato che voleva impedirle di partecipare alla manifestazione settimanale del suo villaggio contro l’occupazione israeliana.
Nel 2012, quando Ahed aveva 12 anni, era già diventata famosa agitando il pugno verso un altro soldato minacciando di “rompergli la testa”. Un anno fa aveva morso un altro militare per impedirgli di interrogare suo fratello. Ora è arrivato lo schiaffo, filmato dalla madre e diventato virale sui social media.
Nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace Definita da Haaretz, quotidiano di riferimento israeliano, la “Giovanna d’Arco palestinese”, Ahed rappresenta per la giustizia militare un problema irrisolvibile, perché la sua liberazione le avrebbe permesso di presentarsi come un’eroina al processo mentre la sua detenzione la rende una martire, una ragazzina vittima dei soprusi di un’esercito potente.
I giudici militari hanno scelto di confermare la detenzione di Ahed considerandola il rischio minore. In ogni caso è evidente che questa adolescente, nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace e nemmeno alla soluzione dei due stati, decisa a battersi solo per il riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità.
Il fallimento del negoziato ha insegnato a questa generazione che oggi essa non vive nella virtualità della Palestina, ma nella realtà di uno stato di Israele che comprende la Cisgiordania, uno stato unico a cui chiedere diritti civili, più difficili da rifiutare rispetto a un insieme di frontiere, uno stato e una capitale.
PER AHED TAMIMI, L'ADOLESCENTE
CHE HA SCHIAFFEGGIATO UN SOLDATO
«È la quarta volta che la sua detenzione viene prolungata. Era diventata famosa con un video virale in cui colpiva un soldato. L’avvocato: violati i diritti dell’infanzia»
(AsiaNews/Agenzie) – La corte militare israeliana di Ofer - 140 km circa a nord di Gerusalemme - ha prolungato per la quarta volta la detenzione di Ahed Tamimi, adolescente palestinese di 16 anni protagonista di un video virale in cui schiaffeggia un soldato israeliano, si apprende da AsiaNews. All’udienza di ieri, oltre alla famiglia della ragazza erano presenti personalità diplomatiche straniere e attivisti per i diritti umani. Il suo caso verrà esaminato di nuovo domani dopo “ulteriori indagini”.
Il video risale al 15 dicembre. Saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una protesta, Tamimi si era scagliata contro i soldati israeliani entrati nel suo villaggio vicino Ramallah, che non hanno reagito. La giovane è stata poi arrestata nella notte del 19 dicembre. Gaby Lasky, avvocato della giovane militante, accusa le autorità israeliane di violare la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, secondo cui il carcere per un minore deve essere “un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”.
Su di lei pendono anche altri reati. Su Tamimi pendono una decina di capi d’accusa anche per fatti passati, fra incitamento, assalto e lancio di pietre, per le quali le autorità non l'avevano mai perseguita. Il procuratore militare chiamerà 18 testimoni, per lo più soldati. Il processo potrebbe durare diversi mesi. Le corti militari israeliane negano ai minori palestinesi il rilascio su cauzione nel 70% dei casi. Un rapporto Unicef del 2013 riporta che quasi tutti i bambini e ragazzi si dichiarano colpevoli per ridurre la detenzione preliminare.
AVAAZ
SCHEDA INFORMATIVA
gennaio 2018
Minori detenuti da Israele Quanti minori sono stati arrestati? Negli ultimi 50 anni, circa 45mila minori palestinesi sono stati detenuti dalle forze armate (fonte: MCW). Dal 2000, si stima che 12mila minori palestinesi siano stati arrestati dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e detenuti nel sistema carcerario militare di Israele. Molti di loro non hanno più di 12 anni. In altri casi, le forze armate hanno arrestato minori di appena 6 o 7 anni. Ogni anno, Israele manda a processo tra i 500 e i 700 minori palestinesi nei tribunali militari, mentre altre centinaia sono arrestati e successivamente rilasciati senza processo.
Ogni mese sono detenuti da Israele in media tra i 200 e i 300 minori. Fonti: No Way to Treat a Child, Military Court Watch, Save the Children, Addameer
Come vengono trattati i minori arrestati? Dalle interviste ai minori che sono stati detenuti, dal materiale video e dalle testimonianze degli avvocati emerge che le forze di sicurezza israeliane usano forza e violenza non necessarie durante l’arresto e la detenzione dei minori, che sono a volte picchiati e spesso tenuti in condizioni non sicure e pericolose. Fonte: HRW.
Arresti violenti: Molti minori sono arrestati in piena notte, svegliati nelle loro case da irruzioni di soldati pesantemente armati. Molti sono svegliati dai soldati che picchiano sulla porta d’ingresso, lanciano granate stordenti e ordinano urlando alla famiglia di uscire dalla casa. Bambini e ragazzi raccontano di essere terrorizzati dalle irruzioni dei soldati, che spesso distruggono mobili e finestre, lanciano accuse e minacce verbali e costringono i familiari a uscire di casa svestiti mentre i minori imputati sono portati via con la forza. Vengono date spiegazioni vaghe come “viene con noi, ve lo riporteremo dopo” o viene detto semplicemente che il minore è “ricercato”. Solo in pochi casi viene comunicato dove, perché o per quanto tempo il minore sarà detenuto. Fonte: UNICEF
[Il soldato che ha fatto irruzione in casa nostra] ha detto a mio padre: “Consegnacelo o gli spariamo” Y.H., detenuto all’età di 17 anni
Fonte: Save the Children
Altri minori sono stati arrestati mentre giocavano o appena usciti da scuola, davanti a tutti i loro amici. A volte vengono presi a calci, picchiati o soffocati durante l'operazione. Le manette di plastica sono regolarmente strette al punto da provocare lesioni e ferite ai polsi. Quasi tutti sono bendati e legati durante il trasferimento, e la maggior parte riporta di aver subito violenza fisica durante l’arresto (fonte: DCI).
Human Rights Watch, ad esempio, riporta nei dettagli la storia di Rashid S., 11 anni, che ha detto che la polizia di frontiera israeliana gli ha lanciato contro una granata stordente (un esplosivo non letale che produce un bagliore accecante e un rumore assordante, e provoca la perdita dell’equilibrio) e l’abbia quasi strangolato durante l’arresto.
Interrogatori traumatici e illegittimi: Le forze di sicurezza israeliane sottopongono regolarmente i minori a interrogatori violenti che durano intere settimane, senza la presenza dei genitori. Usano intimidazioni, minacce e violenze fisiche, con il chiaro intento di costringere il minore a confessare. I minori sono tenuti legati durante l’interrogatorio, spesso alla sedia su cui sono seduti. Questa pratica può continuare per ore, causando dolore a mani, schiena, gambe e sfinimento. I minori sono stati minacciati di morte, isolamento e violenze fisiche e sessuali, contro di loro o i loro familiari.
Negli interrogatori vengono spesso accusati di una lunga lista di crimini. La maggior parte confessa, cedendo alla pressione, alla fine dell’interrogatorio. Vengono quindi stampati dei moduli e bambini e ragazzi devono firmarli, nonostante spesso non ne comprendano il contenuto. Nella maggior parte dei casi, i moduli sono in ebraico, lingua che la stragrande maggioranza dei minori palestinesi non comprende. Inoltre sono anche trasportati al di fuori dei territori occupati, in prigioni in Israele, in violazione dell’Articolo 76 della Convenzione di Ginevra, rendendo più difficili le visite dei genitori. Fonte: UNICEF
Isolamento: Alcuni minori sono tenuti in isolamento, sia prima dell’udienza che dopo la sentenza, per un periodo che varia da due giorni a un mese. L’isolamento è uno strumento ulteriore per mettere il minore sotto pressione e costringerlo a cedere e a confessare crimini che spesso non ha commesso. I minori si sentono costretti a farlo per evitare di essere lasciati soli in isolamento. Alcuni riportano di come arrivano a dubitare di ciò che hanno fatto o non hanno fatto davvero, e riportano traumi psicologici come conseguenza. Fonte: UNICEF
«Sigonella, Niscemi, Napoli, Amendola, Ghedi, Aviano, Domusnovas, Centocelle. La militarizzazione del territorio, la crescita della produzione di armi e il “baratro atomico” ricordano a tutti che siamo in guerra»
Sono indignato davanti a quest’Italia che si militarizza sempre più. Lo vedo proprio a partire dal Sud, il territorio economicamente più disastrato d’Europa, eppure sempre più militarizzato. Nel 2015 è stata inaugurata a Lago Patria (parte della città metropolitana di Napoli) una delle più importanti basi Nato d’Europa , che il 5 settembre scorso è stata trasformata nell’Hub contro il terrorismo (centro di spionaggio per il Mediterraneo e l’Africa). Sempre a Napoli, la nota caserma della Nunziatella è stata venduta dal Comune di Napoli per diventare la Scuola Europea di guerra, così vuole la ministra della Difesa Roberta Pinotti. Ad Amendola (Foggia) è arrivato lo scorso anno il primo cacciabombardiere F-35 armabile con le nuove bombe atomiche B 61-12. In Sicilia, invece, la base militare di Sigonella (Catania) diventerà nel 2018 la capitale mondiale dei droni. E sempre in Sicilia, a Niscemi (Trapani) è stato installato il quarto polo mondiale delle comunicazioni militari, il cosiddetto Muos. Mentre il Sud sprofonda a livello economico, cresce la militarizzazione del territorio. Non è per caso che così tanti giovani del Sud trovino poi rifugio nell’Esercito italiano per poter lavorare.
Ma anche a livello nazionale vedo un’analoga tendenza: sempre più spese in armi e sempre meno per l’istruzione, sanità e welfare. Basta vedere il Fondo di investimenti del governo italiano per i prossimi anni per rendersene conto. Su 46 miliardi previsti, ben 10 miliardi sono destinati al ministero della difesa : 5.3 miliardi per modernizzare le nostre armi e 2.6 per costruire il Pentagono italiano ossia un’unica struttura per i vertici di tutte le nostre forze armate , con sede aCentocelle (Roma).
L’Italia investe sempre più in campo militare a livello nazionale, europeo e internazionale. L’Italia, non dimentichiamolo, continua a spendere una barca di soldi per gli F-35, si tratta di 14 miliardi di euro! Questo, nonostante la Corte dei Conti abbia fatto notare che ogni aereo ci costerà almeno 130 milioni di euro contro i 69 milioni previsti nel 2007. Quest’anno il governo italiano spenderà complessivamente 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno. Per il 2018 si prevede un miliardo in più.
Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza oggi all’ottavo posto mondiale. Lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015! Grazie alla vendita di 28 Eurofighter al Kuwait per otto miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, ottima piazzista d’armi. E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, in barba alla legge 185 che ce lo proibisce. Continuiamo a vendere bombe, prodotte dall’azienda RMW Italia a Domusnovas(Sardegna), all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu (tutto questo nonostante le quattro mozioni del Parlamento europeo). L’Italia ha venduto armi anche al Qatar e agli Emirati Arabi con cui quei paesi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa (noi che ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo!). Siamo diventati talmente competitivi in questo settore che abbiamo vinto una commessa per costruire quattro corvette e due pattugliatori per un valore di 40 miliardi per il Kuwait.
Non meno preoccupante è la nostra produzione di armi leggere: restiamo al secondo posto dopo gli Usa! Per la cronaca sono queste le armi che uccidono di più. E di questo commercio, naturalmente, si sa pochissimo.
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Quest’economia di guerra sospinge il governo italiano ad appoggiare la militarizzazione della Ue. È stato inaugurato a Bruxelles il Centro di pianificazione e comando per tutte le missioni di addestramento, vero e proprio quartier generale unico. Inoltre la Commissione Europea ha lanciato un Fondo per la Difesa che a regime svilupperà 5,5 miliardi di investimento l’anno per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore militare. Questo fondo, lanciato il 22 giugno, rappresenta una massiccia iniezione di denaro pubblico nell’industria bellica europea. Sta per nascere anche la” PESCO-Cooperazione strutturata permanente” della Ue nel settore militare (la Shengen della Difesa). “Rafforzare l’Europa della Difesa – ha detto Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Ue, per gli Affari esteri- rafforza anche la Nato”.
La Nato, di cui la Ue è prigioniera, è diventata un mostro che spende mille miliardi di dollari in armi all’anno. Trump chiede ora ai 28 paesi membri della Nato di destinare il 2 per cento del Pil alla Difesa. L’Italia destina oggi 1,2 per cento del Pil per la Difesa. Gentiloni e Pinotti hanno già detto di Sì al diktat di Trump. Così l’Italia arriverà a spendere100 milioni al giorno in armi. La Nato trionfa, mentre è in forse il futuro della Ue. Infatti è la Nato che ha forzato la Ue a creare la nuova frontiera all’Est contro il nuovo nemico, la Russia, con un imponente dispiegamento di forze militari in Ucraina, Polonia, Romania, Bulgaria, in Estonia, Lettonia e con la partecipazione anche dell’Italia. La Nato ha anche stanziato 17 miliardi di dollari per lo “Scudo anti-missili.” E gli Usa hanno l’intenzione di installare in Europa missili nucleari simili ai Pershing 2 e ai Cruise (come quelli di Comiso). La Russia ovviamente risponde con un altrettanto potente arsenale balistico.
Fa parte di questo piano anche l’ammodernamento delle oltre duecento bombe atomiche B-61, piazzate in Europa e sostituite con le nuove B 61-12. Il ministero della Difesa ha pubblicato in questi giorni sulla Gazzetta Ufficiale il bando di costruzione a Ghedi (Brescia) di nuove infrastrutture che ospiteranno una trentina di F-35 capaci di portare cadauno due bombe atomiche B61-12. Quindi solo a Ghedi potremo avere sessantina di B61-12 , il triplo delle attuali! Sarà così anche adAviano? Se fosse così rischiamo di avere in Italia una forza atomica pari a 300 bombe atomiche di Hiroshima. Nel silenzio più totale!
Mai come oggi, ci dicono gli esperti, siamo vicini al “baratro atomico”. Ecco perché è stato provvidenziale il Trattato dell’Onu, votato il 7 luglio, che mette al bando le armi nucleari. Eppure l’Italia non l’ha votato e non ha intenzione di votarlo. È una vergogna nazionale. Occorre essere grati a papa Francesco che ha convocato un incontro, lo scorso novembre, in Vaticano sul nucleare, proprio in questo grave momento in cui il rischio di una guerra nucleare è alto e per il suo invito a mettere al bando le armi nucleari.
Quello resta incomprensibile è l’incapacità del movimento della pace a mettersi insieme e scendere in piazza a gridare contro un’Italia e un’Unione Europea che si stanno armando sempre di più, davanti a guerre senza numero, davanti a un mondo che rischia l’olocausto nucleare. Eppure in Italia c’è una straordinaria ricchezza di gruppi, comitati, associazioni, reti che operano per la pace. Ma purtroppo ognuno fa la sua strada.
E come mai tanto silenzio da parte dei vescovi italiani? E che dire della parrocchie, delle comunità cristiane che si apprestano a celebrare la nascita del “Principe della Pace?”. “Siamo vicini al Natale – ammonisce papa Francesco – ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi… tutto truccato: il mondo continua a fare guerra!”
Oggi più che mai c’è bisogno di un movimento popolare che contesti radicalmente questa economia di guerra.
Roma, 11 dicembre 2017, Nena News – Non calano le tensioni intorno a Gerusalemme. Ieri i Territori Occupati sono stati teatro di nuove manifestazioni e scontri: almeno 157 i feriti tra Gerusalemme, Gaza e Cisgiordania, secondo la Mezzaluna Rossa. Due giovani palestinesi sono stati colpiti dal fuoco israeliano a Betlemme, sparato dalle torrette militari che costellano il muro di separazione.
Secondo testimoni, i due sono stati soccorsi da alcuni civili mentre cercavano di scappare verso il vicino campo profughi di al-Azza. Sono ricoverati in ospedale. Poco prima a Gerusalemme un palestinese di 24 anni ha accoltellato una guardia privata israeliana alla stazione degli autobus della città: il giovane è stato arrestato, la guardia è in ospedale.
Lontano dalle piazze continuano i bracci di ferro tra i protagonisti dell’attuale crisi. La Casa Bianca ha accusato il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, di abbandonare il negoziato di pace con Israele dopo l’annuncio di non voler incontrare il vice presidente Usa Mike Pence, che sarà in visita nella regione a fine mese. Abu Mazen aveva congelato l’incontro fino a quando gli Stati Uniti non avessero ritirato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. L’ufficio del vice presidente ha invece confermato l’incontro con il premier israeliano Netanyahu e il presidente egiziano al-Sisi, da più parti indicato come il nuovo mediatore della pace. Una conferma che si scontra invece con il rifiuto del grande imam di al-Azhar che ha già fatto sapere di non voler vedere Pence.
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(Foto: Ma’an News) |
Diversa la posizione europea espressa ieri vis-à-vis dal presidente francese Macron a Netanyahu, in visita a Parigi. All’Eliseo Macron non ha risparmiato dure critiche all’alleato: in due ore di colloquio, Parigi ha chiesto a Tel Aviv “il congelamento della colonizzazione”, ma soprattutto ha espresso “disapprovazione” per la decisione di Trump definendola “contraria al diritto internazionale e pericolosa per la pace”. Netanyahu, consapevole dell’opposizione di quella parte della comunità internazionale che ancora vede nella soluzione a due Stati l’unica via d’uscita al conflitto, pur all’angolo ha ripetuto lo stesso mantra: “Se Parigi è la capitale della Francia, Gerusalemme è la capitale di Israele”. Un discorso che viola alla radice quanto previsto dal diritto internazionale e da quella risoluzione, la partizione della Palestina storica da parte dell’Onu nel 1947, che Israele ha sempre utilizzato per legittimarsi.
Lo ha ribadito, con più debolezza, stamattina anche l’Alto rappresentante della Ue per gli Affari Esteri, Federica Mogherini: a Bruxelles durante la visita di Netanyahu – che da parte sua ha chiesto agli europei di seguire l’esempio statunitense – ha ripetuto la necessità di riaprire il dialogo coinvolgendo i paesi della regione mediorientale e poi, senza nominare la repressione delle proteste palestinesi, si è detta preoccupata per la sicurezza di Israele e per l’aumento dell’estremismo come frutto delle attuali tensioni intorno Gerusalemme.
Dura la Lega Araba che, sabato al Cairo, ha fatto appello a Washington perché ritiri la dichiarazione di Trump, sottolineandone allo stesso tempo il nullo “effetto legale” della decisione che è volta solo ad “aumentare la tensione e alimentare la rabbia”. Ma, come nel caso europeo, alle parole non seguono i fatti: nessun paese arabo ha assunto misure più drastiche al di là delle condanne a parole, ritirato gli ambasciatori o congelato i rapporti diplomatici. Solo il Libano, per bocca del suo ministro degli Esteri, ha chiesto alla Lega Araba di imporre sanzioni a Washington.
Al di là delle condanne della Lega Araba e dei singoli paesi, nessuno ha assunto misure concrete. Macron e Mogherini strigliano Netanyahu, mentre Washington prova a spostare su Abu Mazen la responsabilità delle tensioni
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Gerusalemme est durante le proteste palestinesi (Foto: Ma’an News) |
, 9 dicembre 2017. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti,che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni.
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NENA news, 8 dicembre 2017. Esplode la rabbia generata dalla provocazione di Donald Trump, il quale dichiara Gerusalemme capitale di Israele annullando con una sciabolata i diritti del popolo palestinese militarmente occupato un secolo fa dalla prepotenza dell'Europa e dall'esercito di Israele
Raggiungere qui l'articolo Gerusalemme oggi è il giorno della rabbia
NENA news, 7 dicembre 2017.La decisione di Trump di insediare a Gerusalemme l'ambasciata Usa in Israele aizza i palestinesi a riprendere con maggior forza la loro lotta per i diritti calpestati. È passato un secolo dal l'editto di Balfour che apriva la strada all'invasione israeliana della Palestina
l'Avvenire, la Repubblica, il manifesto
L’Avvenire
UE-AFRICA. LIBIA,
I NUMERI DELL'ORRORE:
NEI CAMPI 700MILA MIGRANTI
di Giovanni Maria Del Re
Abidjan (Costa d'Avorio) venerdì 1 dicembre 2017 Individuati 3.800 profughi da rimpatriare subito. Tusk: «Servono sanzioni Onu contro i trafficanti»
Nei campi libici potrebbero essere rinchiusi tra i 400.000 e i 700.000 migranti. La stima choc – peraltro già avanzata nei mesi scorsi da altre fonti – è stata diffusa ieri dal presidente della Commissione Africana, il ciadiano Mahamat Moussa Faki, al termine del vertice Unione Africana-Ue ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Un vertice segnato in massima parte proprio dal dramma libico, e che ha portato a un’accelerazione degli sforzi già in atto per svuotare i campi libici. Moussa Faki ieri ha spiegato che l’Unione Africana ha già individuato un campo in Libia con 3.800 migranti.
«E questo – ha detto il presidente – è solo uno, in Libia ci dicono ce ne sono 42». Occorre fare in fretta, «il mio inviato speciale – ha proseguito il ciadiano – è tornato ieri da Tripoli e ha riferito di aver trovato migranti soprattutto dell’Africa occidentale. Ci sono donne e bambini, e vivono in condizioni disumane vogliono tutti tornare a casa». Simbolicamente, il re del Marocco Mohammad VI – alla prima partecipazione del suo Paese a un vertice dell’Ua – ha annunciato di aver già messo a disposizione aerei per l’evacuazione in vari Stati dell’Africa subsahariana dei 3.800 profughi.
Un segnale, ha detto il presidente dell’Unione Africana, il capo di Stato della Guinea Alpha Condé, che «l’Africa è in grado di intervenire an- ch’essa su questo fronte». Un’accelerazione, grazie a un netto coinvolgimento dell’Unione Africana, delle operazioni già lanciate dall’Organizzazione mondiale dei migranti con il sostegno Ue che ha portato nel 2017 al rimpatrio volontari di 13.000 (10.000 dalla Libia) bloccati nei campi in Nordafrica, l’obiettivo è di arrivare a 17.000 entro fine anno. L’occhio è rivolto ovviamente anche alla lotta ai trafficanti. Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha parlato di «abuso estremamente cinico di esseri umani», chiedendo di «imporre sanzioni Onu ai trafficanti.
Non saremo efficaci, inoltre, se non faremo in modo che le persone bloccate in Libia e altrove possano tornare in modo sicuro nelle loro case». Anche la Francia ieri ha chiesto «il ricorso alle sanzioni individuali e alla giustizia penale internazionale contro chi si macchia di tratta di esseri umani e passeurs di migranti». Intanto ieri è stato chiarito una volta per tutte che la task force per accelerare lo svuotamento dei campi concordata mercoledì sera tra Ue, Ua e Onu non avrà componenti militari.
In un’intervista rilasciata mercoledì sera (prima della riunione sulla task force) a France24 e Radio France Internationale, il presidente francese Emmanuel Macron aveva parlato di una «iniziativa per lanciare azioni militari e di polizia sul terreno per smantellare queste reti», suscitando qualche perplessità, tanto che qualche diplomatico europeo ha sostenuto che Macron abbia tentato una «fuga in avanti» fermata poi dagli europei.
Fatto sta che in realtà la Francia non ha mai proposto formalmente una componente militare per la “task force”, mentre si parla di una più stretta cooperazione tra servizi di intelligence e polizie. «Per fermare il fenomeno – ha detto ancora Moussa Faki – serve una cooperazione mondiale, per bloccare le fonti finanziarie dei trafficanti e tradurli alla giustizia». E infatti di azione militare non si parla né nella dichiarazione comune sulla situazione dei migranti in Libia, né nell’accordo per la task-force per accelerare lo svuotamento dei campi.
Lo stesso Macron ieri in visita ad Accra, la capitale del Ghana, ha precisato che «in questa fase la Francia non ha piani di inviare soldati o poliziotti in Libia». Forse il malinteso è nato dal fatto che in effetti la Francia è sì in impegnata in una missione militare, non però in Libia, bensì in Mali (qui coadiuvata dalla Germania), Niger e Ciad anzitutto per combattere i nuclei terroristici islamistici attivi nel Sahel. Sullo sfondo resta la questione dei fondi. Ieri ad Abidjan Tusk ha di nuovo chiesto che gli Stati membri Ue «mantengano gli impegni economici alimentando il Fondo fiduciario per l’Africa. Sono sicuro che ce la faremo».
La Repubblica
L’EUROPA SCRIVE IL NUOVO PIANO
PER I CAMPI NASCOSTI IN LIBIA
di Alberto D’Argenio
«Per Bruxelles sono 42, ma non si sa dove siano Sarà la prima spesa del fondo per l’Africa “Servono più soldi”»
Sarà un lavoro titanico svuotare i campi di detenzione in Libia. Sono le cifre a dirlo. Secondo l’Unione africana i migranti detenuti ( « in condizioni disumane » ) sono tra i 400 e i 700mila. A Bruxelles sono consapevoli della sfida e lo staff dell’Alto rappresentante Federica Mogherini lavora a tempo pieno per predisporre il piano che l’Europa ha concordato al vertice di Abidjan con partner africani e Onu. Sono almeno 42 i campi sparsi sul territorio libico, di molti di questi non si sa nulla, nemmeno la posizione precisa. Tanto che l’Organizzazione mondiale dei migranti, insieme agli esperti Ue, si sta attrezzando per andare a cercarli.
Si partirà evacuando 15mila persone entro febbraio. Sono i detenuti dei campi ufficiali nella zona di Tripoli. I soli dei quali c’è conoscenza certa. Per farlo serviranno 60- 80 milioni. Una prima fase del piano di per sé complessa considerando che l’Europa ha rimpatriato dalla Libia 13mila migranti da gennaio a oggi. Ora una cifra superiore andrà rimandata nel proprio paese, reintegrata (anche con un lavoro) entro tre mesi. Certo, dopo il video della Cnn sui lager libici i governi africani hanno deciso di aprire le porte alle persone di ritorno (alcuni come il Ruanda allestiranno anche campi di transito) e grazie all’expertise e ai soldi Ue l’obiettivo è raggiungibile. Il denaro arriverà dal Trust Fund Africa da 2,9 miliardi varato nei mesi scorsi ma ora Bruxelles sprona i governi a mettere più soldi: l’Italia è il primo contributore con 92 milioni, poi la Germania con 33 ma ci sono capitali che pur rifiutando di ospitare i richiedenti asilo e chiedendo che i migranti vengano bloccati in Africa non hanno praticamente messo un centesimo ( l’Ungheria di Orban: 50mila euro). Si spera in nuovi contributi entro il summit Ue di metà dicembre.
Anche perché la seconda parte del piano umanitario sarà ancora più complessa e costosa. Gli europei per ora non confermano i numeri dell’Unione africana (fino a 700mila) sui migranti detenuti in Libia. Si limitano a parlare di decine di migliaia, se non centinaia, di persone da trovare e salvare. I campi andranno cercati — anche in zone poco sicure — e svuotati uno ad uno. I migranti verranno rimpatriati, chi avrà diritto alla protezione internazionale potrà invece contare sul programma di ingresso in Europa già varato da Bruxelles per 50mila persone. Intanto si proverà a chiudere le rotte che portano alla Libia e si andrà in pressing sulle autorità locali perché chiudano i campi cambiando la legge che prevede la detenzione per tutti i migranti illegali, altrimenti si corre il rischio di trovarli di nuovo pieni dopo che sono stati svuotati.
C’è infine il piano Marhall per l’Africa: si parte con i 44 miliardi di investimenti raccolti da Bruxelles per creare un’economia africana capace di trattenere i giovani. Poi si punta, nel bilancio Ue post 2020, a trovare 30- 40 miliardi che grazie ai privati lievitino a 350-400 miliardi per rilanciare il continente nei prossimi decenni e bloccare i flussi. Questa è la scommessa. Vitale per Africa ed Europa.
Il manifesto
«CENTINAIA DI MIGLIAIA I MIGRANTI CHE IN LIBIA
HANNO BISOGNO DI AIUTO»
di Carlo Lania
«Si salvi chi può. Intervista a Federico Scoda (Oim): "Puntiamo a organizzare un volo al giorno per i rimpatri. Ma i libici devono farci entrare in tutti i centri"»
Il vertice di Abidjan si è chiuso con l’impegno preso da Unione europea, Unione africana e Onu di svuotare i centri di detenzione libici rimpatriando i migranti che vi sono tenuti prigionieri. Un compito che dovrà svolgere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che nel 2016 ha favorito il ritorno dalla Libia nei Paesi di origine di 2.775 migranti. «Quest’anno abbiamo già superato i 13.600 rimpatri e penso che arriveremo a 16-17 mila entro la fine di dicembre» afferma Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim.
I rimpatri vengono già fatti, quindi quale sarebbe la novità del piano annunciato ad Abidjan?
La novità non è nel piano, ma nella volontà politica sorta in seguito al reportage della Cnn sui migranti venduti come schiavi. Una realtà che noi avevamo già denunciato ad aprile ma l’impatto avuto da quello immagini ha provocato la reazioni di alcuni organismi, inclusa l’Unione africana. Come Oim siamo in grado oggi di trasferire circa 3-4 mila persone al mese. Se avremo altre risorse, sia dal governo libico che dai Paesi africani, riusciremo a togliere molti più migranti da una situazione come quella dei centri che non è solo inaccettabile e pericolosa , ma spesso rappresenta l’unica possibilità che queste persone hanno visto che molte di loro non possono fuggire perché non hanno i documenti né i mezzi per farlo.
Per gli eritrei e i somali cosa è previsto? Per loro, come per chiunque altro abbia un valido motivo per richiedere la protezione internazionale, il mandato è dell’Unhcr che sta cercando di realizzare un centro a Tripoli dove fare una prima valutazione delle domande di asilo per poi spostare le persone in un Paese sicuro prima di trovare un terzo Paese sicuro dove ricollocarle.
Si è parlato di una task force formata da Ue- Unione africana e Onu. Che compiti avrà? Sarà una task force politica che cercherà di aprire maggiori spazi in Libia per poter lavorare. Ma i dettagli devono ancora essere decisi.
Servono più soldi per organizzare i rimpatri? I soldi ci vorranno. Non è un’esigenza immediata ma lo sarà presto. Oggi organizziamo quattro voli a settimana ma potremmo arrivare facilmente a uno al giorno. Ma c’è qualche ostacolo con le autorità libiche che va superato e questo include anche l’accesso a tutti i centri di detenzione. Lo stesso per gli aerei. La ragione per cui oggi abbiamo solo qualche volo alla settimana è strettamente operativa e riguarda l’aeroporto di Tripoli dove avremmo bisogno di far atterrare aerei più grandi.
Di quanti migranti stiamo parlando? Glielo chiedo perché voi avete accesso ai soli centri governativi, che sono una trentina, ma poi ci sono quelli gestiti dalla milizie.
Stimiamo che nei centri gestiti dal ministero dell’Interno libico ci siano tra i 15 mila e i 18 mila migranti. Poi ci sono tutti quelli di cui non sappiamo niente perché si trovano in luoghi non monitorati come case o altri posti privati. Pensiamo che il Libia possano esserci tra 700 e gli 800 mila stranieri, forse anche di più. Va detto però che non tutti sono in situazioni di pericolo o di sofferenza e non tutti hanno intenzione di raggiungere l’Europa. Sicuramente però le persone che hanno bisogno di assistenza sono molte centinaia di migliaia.
Alla luce di questi dati l’annuncio di voler vuotare i centri non rischia di essere solo propaganda?
Non credo. Il programma non è limitato a 20-25 mila persone. Non dimentichiamoci che nel 2011 abbiamo evacuato dalla Libia quasi 250 mila persone, quasi tutte verso il Bangladesh e le Filippine.
Ma non erano prigioniere come invece succede oggi.E’ vero. Ovviamente in uno Stato fallito e senza strutture governative come è oggi la Libia la situazione è completamente diversa. Non la considero un’operazione di propaganda perché stiamo aiutando migliaia di persone migliorando le loro condizioni di vita. Il punto è che quando c’è qualcuno che soffre e ha bisogno di aiuto i numeri diventano in un certo senso irrilevanti. Se ne aiuti dieci o cento ovviamente cento è meglio, ma comunque quei dieci hanno ricevuto un’assistenza indispensabile. I numeri sono la propaganda degli europei, fissati su quanti sbarchi ci sono ogni giorno trascurando le questioni veramente importanti.
L’Unhcr parla di 50 mila rifugiati da ricollocare in Europa. E’ una cifra realistica viste le difficoltà sempre mostrate da molti Stati?In questo momento non ci sono le condizioni in Europa per farlo. I 50 mila di cui parla l’Unhcr rappresentano l’esigenza, purtroppo però nella maggioranza degli Stati prevale una posizione di chiusura e siamo ancora molto, molto lontani da quei numeri.
'Avvenire, 30 novembre 2017. «Ben 28 milioni sono sfollati a causa delle guerre e spesso cadono nella tratta di esseri umani. Sono 200 mila i migranti minori non accompagnati». La tragica contabilità d'una società nella quale guerre e devastazioni non sono un effetto collaterale, ma il motore stesso del sistema
Sono 50 milioni i bambini coinvolti nelle migrazioni a livello mondiale, e 28 milioni sono stati sfollati a causa di conflitti. I bambini rappresentano circa il 28% delle vittime della tratta di esseri umani a livello globale, soprattutto nell'Africa subsahariana e in America centrale. Nel 2015-2016 ben 200.000 bambini non accompagnati hanno presentato domanda di asilo in circa 80 Paesi del mondo, mentre nello stesso periodo 100.000 minorenni non accompagnati sono stati arrestati al confine tra Stati Uniti e Messico.
Un vertice mondiale per proteggerli
In anticipo rispetto all`incontro previsto da 4 al 6 dicembre a Puerto Vallarta, in Messico, sulle migrazioni sicure e regolate, l'Unicef ha presentato oggi "Oltre le frontiere", un rapporto sulle migliori pratiche per la cura e la protezione dei bambini rifugiati e migranti.
Il documento contiene esempi concreti del lavoro di governi e comunità di accoglienza per sostenere e integrare i bambini "sperduti" e le loro famiglie, ma anche i rischi cui sono esposti. I minori rifugiati e migranti infatti sono particolarmente vulnerabili alla xenofobia, agli abusi, allo sfruttamento sessuale e alla mancanza di accesso ai servizi sociali. Per questo Unicef ha attivato un programma d'azione in sei punti, che costituisce la base delle politiche per proteggerli e garantirne il benessere; esso comprende azioni per evitare la detenzione dei bambini richiedenti lo status di rifugiato introducendo una serie di alternative pratiche, per mantenere unite le famiglie come migliore mezzo per proteggere i figli, per consentire ai piccoli rifugiati di studiare e avere accesso a servizi sanitari di qualità, per promuovere misure che combattano xenofobia, discriminazioni e marginalizzazione nei Paesi di transito e di destinazione.
Le "buone pratiche" nel mondo
Non è impossibile. Il rapporto presenta casi riusciti di tutto il mondo, tra cui l'attuazione di norme minime di protezione per i bambini rifugiati in Germania, sistemi transfrontalieri di protezione dell'infanzia nell'Africa occidentale e la ricerca di alternative alla detenzione di bambini migranti in Zambia (altri Paesi citati: Afghanistan, Giordania, Libano, Sud Sudan, Vietnam, Uganda e Stati Uniti). Per quanto riguarda l`Italia, si segnala come buona pratica l`adozione della legge 47/2017 sulle misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati (Legge Zampa), che definisce un sistema nazionale organico di accoglienza.
I diritti, la protezione e il benessere dei bambini sradicati, "sperduti", dovrebbero essere al centro degli impegni delle politiche migratorie globali. "I leader e i responsabili politici che si riuniscono a Puerto Vallarta possono lavorare insieme per rendere la migrazione sicura per i bambini - ha dichiarato Ted Chaiban, direttore dei programmi dell'Unicef -. Il nostro nuovo rapporto mostra che è possibile, anche in Paesi con risorse limitate, attuare politiche, servizi e investimenti che sostengano efficacemente i bambini rifugiati nei loro Paesi d'origine, mentre attraversano le frontiere e quando raggiungono le loro destinazioni".
Le informazioni e i commenti sono ripresi dall'articolo pubblicato da l'Avvenire online. l'originale è raggiungibile cliccando qui: Sono 50 milioni i bambini «in fuga» nel mondo
Ma’an news,
Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania. Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:
1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, [gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].
2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.
3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.
4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.
5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.
6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.
7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.
8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.
9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.
10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.
(traduzione di Amedeo Rossi)