Per Israele la route 4370 è una «tangenziale» che permette al traffico di scorrere senza problemi all’ingresso orientale di Gerusalemme. Per i palestinesi, invece, è la prova dell’intenzione di Tel Aviv di sviluppare una doppia rete stradale, una per loro sotto occupazione e un’altra per gli israeliani. In effetti la corsia ovest a loro destinata preclude l’accesso alla Città Santa e prosegue verso il sud della Cisgiordania (Nena-news.it).
19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE
Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.
Sintesi del Tavolo Pace e beni comuni
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)
Intervengono:
Lisa Clark - Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Elio Pagani - Pax Christi
Guido Pollice - già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società
Luca Zevi - architetto e urbanista
Gli umani sono creature piuttosto pericolose per il pianeta in cui vivono. Il simbolo che rappresenta questo al meglio è probabilmente l'orologio del giorno del giudizio (il
Doomsday Clock). Si tratta di un orologio o un simbolo immaginario, che rappresenta quanto è probabile che gli umani provochino una catastrofe globale. È stato messo in atto come una sorta di metafora, dal Bollettino degli Scienziati Atomici un consesso internazionale che pubblica una rivista accademica sulla sicurezza globale e sulla tecnologia. A Gennaio 2019 l’orologio segna 2 minuti alla mezzanotte. Le sue lancette sono rimaste sulla stessa posizione dell’anno precedente, ma sono pur sempre le più prossime alla fine dal 1953. La maggior minaccia per l'umanità consiste nel crescente arsenale nucleare in tutto il mondo.
|
Doomsday Clock |
La faida tra Stati Uniti e Corea del Nord si è in gran parte ridotta, e questo è uno dei motivi per cui l'orologio non è cambiato dall'anno scorso. Ma le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono ancora molto tese, e gli Stati Uniti e la Russia possiedono il 90% di tutte le armi nucleari in tutto il mondo. I tempi erano buoni per un po ', ma da allora, il giorno del giudizio si avvicina sempre di più, ricordandoci che la fine del mondo è a solo una o due decisioni sbagliate. In queste decisioni rientrano anche le politiche di mancato contenimento dei cambiamenti climatici
Il 7 Luglio 2017 si è svolta a new York una storica votazione in cui 122 stati si impegnano sulla base del trattato TNP (Trattato di proibizione delle armi nucleari) a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Il Trattato potrà entrare in vigore quando sarà stato firmato e ratificato da almeno 50 stati. Sarà giuridicamente vincolante solo per gli stati che vi aderiscono e non proibirà loro di far parte di alleanze militari con stati in possesso di armi nucleari. Allo stato attuale non aderisce al Trattato nessuno degli stati in possesso di armi nucleari: gli Stati uniti la Francia e la Gran Bretagna, la Russia, Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea e gli altri membri della Nato, in particolare Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, che ospitano bombe nucleari statunitensi. Aderendo al Trattato, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari Usa schierate sul suo territorio a Ghedi ed Aviano (50 bombe nucleari B-61 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani). Ai 122 Stati membri dell'ONU, si sono associati parlamentari, sindaci e organizzazioni della società civile nel celebrare l'adozione di un trattato finalmente giuridicamente vincolante per vietare la bomba atomica impegnandosi ad accrescere la coscienza pubblica sui principi e sui valori dell'umanità. Il valore del TNP è innanzitutto quello di creare una norma universale e di aprire un negoziato umanitario che parte da una valutazione sull’essere umano.
La novità dopo Rio 1992 sta nella percezione che l’umanità possa perire non solo per la forza distruttiva della bomba, ma anche per la progressione brusca del cambiamento climatico. A livello politico, però, non ci sono adeguati segnali di preoccupazione e di azione per azzerare le emissioni di gas serra e cercare quindi di evitare i fenomeni più catastrofici. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C significa intrecciare sotto il segno del diritto della pace e della cura di Madre Terra le due emergenze più attuali.
La
California, nell'ambito del movimento "We are still in" , contro la decisione di Trump di ritirare gli USA dall'accordo di Parigi, adotta un piano per il 100% rinnovabili entro il 2045 ed allo stesso tempo supporta il TNP. Questa è la prospettiva in cui si deve porre l’Unione Europea. E’ importante chiarire come il militarismo e la logica imperante dell'economia di guerra fungano da acceleratori della contaminazione ambientale e dei cambiamenti climatici in corso, nonché delle minacce della sicurezza globale e dell'ingiustizia sociale. Reagire a questa realtà di degrado complessivo contribuisce a far crescere una cultura politica e sociale che riaffermi la centralità di una rinnovata alleanza tra esseri umani e natura. “Dirottare risorse dal mondo fossile a quello pulito”, è la riedizione o la reiterazione complementare di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Lo spostamento di investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica è un’urgenza assoluta. Va ricordato che con le scelte o le non scelte che oggi faremo (o che lasceremo fare) in difesa o meno della comune umanità sarà costruita la qualità del futuro, da cui nessuno potrà neanche volendo sfuggire.
Il diritto “di” pace è l’opposto del diritto che vige in guerra e che riguarda l’uguaglianza e la giustizia sociale senza cui non c’è “pace” possibile, né in ambito nazionale né in quello internazionale. Nel caso della pace e nella formulazione dell’articolo 11 emergono quei diritti naturali e inalienabili dell'uomo che vengono posti dalla Costituzione prima dello Stato e dell'ordinamento. Emerge quindi una considerazione non nuova: che il principio di maggioranza non sempre è di per sé coincidente con il principio di democrazia.
Guerre per il petrolio, guerre per l'acqua, guerre per la terra, guerre per l'atmosfera: la scarsità di risorse e il loro rapido deterioramento sono all’origine di conflitti di così devastante impatto sulle condizioni di vita da provocare ondate di emigrazioni. Il degrado di materia vitale alla massima velocità (i processi naturali non ricorrono a forme di combustione) e con un impiego inusitato di energia (le esplosioni richiedono che la trasformazione energetiche si consumino nel più breve lasso di tempo possibile) trascende le potenzialità della natura e impedisce una rigenerazione della vita in dissintonia con i tempi della natura. Per semplificare: quanto più elevata sarà la densità energetica di una bomba, (termica chimica o nucleare), tanto più lunghi saranno i tempi di bonifica del territorio distrutto. L' impronta ecologica della guerra rende tanto più stringente per i popoli il “diritto della pace”, certamente più integrale del “diritto alla pace”. “Per conquistare la pace si deve abitare la Terra con leggerezza, distribuire le sue risorse vitali in modo equo, mantenere lo spazio ecologico delle comunità” (W. Sachs). C’è piena coerenza tra Laudato Sì e disarmo. E' indispensabile e urgente lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate in grado di garantire la Pace attraverso il disarmo integrale, la salvaguardia dell'ambiente, la sicurezza alimentare, l’accoglienza per regolare i flussi migratori.
Si stima che il solo Pentagono produca il 5% della CO2 globale, un valore che supera quello complessivo di diversi Paesi. La produzione di CO2 dell'insieme dei sistemi militari mondiali potrebbe ammontare al 15% della CO2 totale. (Oltre metà della quale imputabile ai 29 paesi della NATO). Il settore militare è esente (non viene contabilizzato!) da obblighi stabiliti alle convenzioni internazionali per il clima.
Il Nuovo Modello di Difesa presentato nel 1991 prevede la difesa armata degli interessi italiani ovunque nel mondo, in piena violazione dell'art.11 della Costituzione: spinge quindi verso l'acquisizione di sistemi d'attacco e di proiezione a lungo raggio e mortifica la corretta applicazione della L. 185/90 sulla esportazione di armi (L.185/'90). Va contestata la nostra presenza nella NATO: la sua spesa militare vale il 52% di quella mondiale e non è più statutariamente una alleanza solo difensiva. La UE deve rinunciare a capacità di proiezione militare all'estero, adottando un modello strettamente difensivo, non nucleare, nel rispetto dello Statuto ONU, che sola può, come ultima ratio, usare la forza militare per riportare la pace.
Un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle macchine è l’utopia del socialismo del Novecento. Negli ultimi quarant’anni le telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del suo possesso per altri. Si tratta di un “furto di tempo”, senza la cui comprensione si perde la pienezza del valore sociale del lavoro. Anche i tempi di vita, di ozio, di apprendimento sono oggetti di esproprio, al punto che il riscatto del “tempo proprio” rappresenta forse l’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni nostri. La colonizzazione del tempo maschera molti conflitti. Possedere e dominare il tempo – lavoro e ozio, orario vincolato e tempo libero - così come una volta possedere e dominare lo spazio, corrispondono, nel senso comune, ad una manifestazione di successo e di supremazia politica e sociale, mentre subire un imponente meccanismo di controllo e sequestro del tempo - saturato, accelerato, compresso, spiato, sprecato, ormai al di fuori di qualsiasi forma di negoziato – fa parte dell’affermazione di uno stile di vita imposto e passivamente accettato, contraddistinto dal consumo e dallo spreco. La natura, al contrario dell’impresa, sceglie, tra i vari concepibili modi di realizzare le sue azioni, la traiettoria più economica dal suo punto di vista, che è quella della minimizzazione dell’energia. Avvengono così delle scissioni irreparabili tra mondo artificiale e naturale, tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio e viene infranta definitivamente l’armonia tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro. Riappropriarsi del tempo ha anche una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di potere maschile. Siamo di fronte ad un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro, che accelera il degrado del mondo naturale. L’enorme “dividendo” che si ottiene a spese della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, deve essere restituito alla natura conservando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente sostenuta dell’orario di lavoro.
Nasce la necessità di uno spazio di educazione alla bellezza per sfuggire alla razionalità del calcolo utilitaristico volto al profitto. Il Capitolo II dell’Enciclica Laudato Sì, cerca nella tradizione ebraico-cristiana la radice di una possibile ecologia integrale fondata su una cultura del limite del potere umano.
Il sostrato morale della bellezza del paesaggio agrario storico italiano, non scaturisce da una progettazione a tavolino, ma da un processo produttivo virtuoso. La compresenza di tutte le coltivazioni – antesignana dell’agricoltura “a chilometro zero” – la rotazione sistematica delle coltivazioni stesse e il riposo periodico della terra danno infatti vita a un sistema complesso che, in quanto tale, assume una valenza figurativa equivalente e complementare a quella degli insediamenti urbani storici. Dobbiamo fare appello a percorsi di rigenerazione urbana consapevoli di “come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro” (Laudato si’,152). Essenziale è però coordinare le azioni di resistenza in un “paradigma ecosistemico”, da contrapporre a quello “tecnocratico dominante”. Coniugare solidarietà e innovazione è la grande sfida che ci si para innanzi.
Aggiunte finali del curatore
Il “diritto di pace”, riguarda una concezione del diritto attributiva ai popoli del potere di “autodeterminazione” e conferma il ruolo antagonistico della “sovranità popolare” rispetto al ruolo dell’élite economico-politiche dominanti. Rompere la Costituzione delle Repubblica antifascista e di democrazia-sociale “fondata sul lavoro” e sul diritto “di” pace, è di fatto una rottura di grandi proporzioni, in quanto limita la sovranità popolare che ha la sua rappresentanza nel Parlamento, non nel Governo.
Se non ci si rifà all’articolo 11 nella sua interezza, nel migliore dei casi quello della pace è un concetto assai relativo che suscita in ciascuno di noi immagini differenti e assume significati diversi a seconda della persona, del luogo e del tempo, un ideale, insomma, che di volta in volta diventa reale soltanto in un determinato contesto. L'anelito di potere e ricchezza, sia esso individuale o collettivo, se non viene mantenuto entro certi limiti mediante valori più elevati, finisce per condurre facilmente all'insoddisfazione, alla corruzione e alla guerra. Oggi al conflitto si aggiunge una nuova dimensione: consumiamo gli elementi naturali, l'aria, l'acqua, la terra, la flora e la fauna da cui dipende la vita tutta e quelle delle generazioni a venire.
Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza è quello per cui il Governo garantisce la sicurezza sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.
comune-info.net, 12 gen 2018. Seppellito sotto un mare di dollari l'art.11 della costituzione: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli [...]". Sono made in Italy gli destinati a ospitare i droni killer americani usati usati nelle guerre nel Corno d’Africa e nello Yemen. Qui la notizia. (a.b.)
Così come il ragazzo che ne è diventato il simbolo iconografico, la strenua resistenza delle marce di questi mesi a Gaza difficilmente sarà fermata dagli accordi tra Israele e Hamas patrocinati dall’Egitto. Il giovane Aed Abu Amro è stato ferito durante la Marcia del lunedì, quella sulla spiaggia contro l’assedio via mare, ma non è grave e tutto lascia credere che presto potrà tornare a manifestare. Si fanno più insistenti, intanto, le voci sull’accordo che tenterebbe di rendere la grande Marcia del Ritorno iniziata a fine marzo poco più che simbolica fino a farla cessare a fine anno. Ma, nonostante faccia di tutto per riuscirci, e malgrado tutti i media lo lascino intendere, è assai improbabile che Hamas riesca a fermare una protesta cui non ha affatto dato vita né, per ora, è mai riuscita davvero a controllare. (comune-info)
Aed Abu Amro, il ragazzo divenuto icona della “Grande marcia del ritorno” – facilmente identificabile dopo che il memorabile scatto di Mustafa Hassouna ha riempito i social e i mezzi di informazione di massa – è stato colpito da un cecchino israeliano durante la manifestazione del lunedì, quella che si svolge lungo la spiaggia a nord di Gaza per rivendicare la fine dell’assedio via mare, oltre che dell’assedio tout court. Era abbastanza normale aspettarselo e Aed ovviamente se lo aspettava, ma se resistere non è un gioco di società è anche normale correre il rischio, e Aed lo ha corso.
Ora è ricoverato in ospedale, ferito da uno dei proiettili con cui Israele ha azzoppato una buona percentuale della gioventù palestinese. I medici dicono che non dovrebbe riportare danni permanenti il che significa che il proiettile non è esploso frantumandogli l’osso. Chi conosce un po’ i gazawi sa che non sono facilmente “addomesticabili”, né da Hamas, né dall’assediante e sa che le decine di migliaia di manifestanti che in questi mesi hanno seguitato a marciare lungo il confine, non si sono fatti fermare neanche dopo aver perso una o entrambe le gambe. Lo sa bene anche Israele che, infatti, nell’archivio delle sue vergogne conta anche l’assassinio di diversi manifestanti invalidi.
Siamo certi di ritrovare Aed, una volta uscito dall’ospedale, a manifestare per la rottura dell’assedio e l’applicazione della Risoluzione Onu 194 che Israele seguita a calpestare.
Le voci accreditate di questi giorni parlano di accordi tra Hamas e Israele patrocinati dall’Egitto. Accordi che dovrebbero gradualmente bloccare la grande marcia rendendola soltanto una manifestazione di facciata fino al suo concludersi con la fine dell’anno.
Hamas – si dice – punirà chi contravverrà ai suoi ordini di non lanciare sassi né aquiloni fiammanti. Hamas, forse, dovrà punire molti manifestanti perché una cosa che il mondo mediatico ignora e ha “voluto” ignorare già dal primo giorno della marcia è che si tratta di un’iniziativa a “propulsione popolare” e non di un’iniziativa promossa da Hamas, sebbene Hamas ci stia mettendo il cappello. Esattamente come voleva Israele e inoltre, cosa importante, cercando in tal modo di riprendere l’autorevolezza d’immagine che era andata via via scemando grazie a una politica da una parte troppo repressiva e dall’altra non più capace di fornire assistenza e servizi a due milioni di persone per la maggior parte povere e prive di lavoro.
La prova che sarà difficile bloccare i manifestanti la si è avuta sia ieri che venerdì, i due giorni dedicati alla marcia. L’una, quella del venerdì, iniziata il 30 marzo lungo l’assedio terrestre, e l’altra, quella del lunedì, iniziata successivamente, lungo l’assedio via mare. C’è stata meno affluenza, è vero, ma c’è stata e lo dimostrano i gas e le pallottole sparate dagli snipers che seppur non hanno ucciso (immediatamente) i manifestanti, ne hanno feriti molte decine.
A Beit Lahya, lungo la spiaggia a nord di Gaza, è ancora più criminale la reazione dei cecchini alla marcia dei palestinesi, perché mentre questi dimostrano sulla spiaggia, i tiratori scelti dello Stato ebraico fanno il tirassegno senza che vi sia neanche l’ipotetico minimo rischio dei cosiddetti scontri che servono ai media per giustificare i numerosi assassinii e ferimenti di manifestanti palestinesi.
I dieci feriti di ieri sulla spiaggia di Gaza sono stati ricoverati allo Shifa e all’Indonesian hospital e tra questi c’è Aed che i medici considerano (al pari degli altri per fortuna) non particolarmente grave.
Il Comitato Nazionale per la Rottura dell’Assedio, ha comunque dichiarato: “Non fermeremo le marce di ritorno e le marce navali finché i nostri obiettivi non saranno raggiunti”. Gli obiettivi come ormai dovrebbero sapere anche i distratti, sono la fine dell’assedio (e gli accordi ne prevedono un notevole alleggerimento ma non la fine) e il diritto al ritorno nelle loro terre come da Risoluzione 194 e questo non sembra che Israele sia disposto a concederlo restando, di fatto e di diritto, fuorilegge, cioè al di fuori della legalità internazionale.
Il Comitato ha precisato che le marce hanno l’obiettivo di garantire ai palestinesi i diritti umani fondamentali che Israele comprime, tra cui la libertà, l’autodeterminazione e il diritto di stabilire uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale. Questa specifica aggiuntiva mostra che gli obiettivi sono chiaramente legittimi e addirittura che si avvicinano, per la parte che concerne “lo Stato indipendente” alle posizioni dell’avversario interno, cioè dell’Anp, ma ogni osservatore politico sa che per quanto possano essere legittimi e addirittura moderati, questi obiettivi non saranno raggiungibili finché Israele seguiterà a non pagare sanzioni per le sue azioni illegali e criminose.
La marcia, anzi “le” marce intanto continuano e nelle prossime settimane si capirà se Hamas avrà ottenuto i risultati che i manifestanti auspicano, o se sceglierà un compromesso che renderà inutile il sacrificio di oltre 200 morti e di circa 21.000 feriti tra cui Aed Abu Amro, l’icona della Grande Marcia.
Articolo pubblicato su l’antidiplomatico, ripreso da comune-info, qui raggiungibile, che vi ha aggiunto le immagini e un'introduzione.
il manifesto,
Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro.
Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell'opposizione, sul fatto che l'Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere militare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l'Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.
Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l'«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare.
Quella statunitense per l'anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale.
La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell'anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.
Esso viene scaricato all'interno con tagli alle spese sociali e, all'estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime.
C'è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell'industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica BAE Systems, la franco-olandese Airbus, l'italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.
Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.
La Leonardo, che ricava l'85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d'intelligence, mentre in Italia gestisce l'impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin.
In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla US Air Force l'elicottero da attacco AW139.
In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell'Economia e delle Finanze) ha consegnato alla US Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.
Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c'è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.
Riferimenti
In eddyburg.it abbiamo più volte segnalato come l'Italia continui a sostenere ingenti spese militari nonostante l'articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra e ribadisce l'impegno per la pace. A questo proposito si consiglia la lettura dell'articolo di Adriana Cosseddu "Il caso serio delle bombe italiane". Per una panoramica si veda l'articolo sul Rapporto Milex 2018, che sottolinea come insieme alla crescita delle spese militari, dal 2008 ad oggi aumentate del 25,8%, continua la servitù nucleare dell'Italia. Qui un articolo sulle spese per i droni, finora usati solo per ricognizione, ma che ora stanno per essere armati con bombe e missili e senza che la scelta sia stata dibattuta in Parlamento. Le spese militari sono in ascesa anche in Europa, dove il 2018 si annuncia un anno record,
Left,
Bombe italiane vengono usate in Yemen. Da anni denunciamo l’esportazione illegale di armi alla coalizione saudita impegnata nella guerra civile in Yemen». Da qui l’appello: «Fermiamo il massacro saudita» perché «i bambini continuano a morire, uno ogni dieci minuti». Era il 16 giugno 2017 quando l’europarlamentare M5s Fabio Massimo Castaldo denunciava, ancora una volta, la vendita di bombe dall’Italia all’Arabia, le stesse bombe che, come accertato dai commissari Onu, sono utilizzate in Yemen, in una guerra che ha prodotto una crisi umanitaria senza precedenti e migliaia di morti civili. Il Movimento 5 stelle, anche nel Parlamento italiano, nella passata legislatura non ha mai avuto dubbi da che parte stare: l’ex senatore Roberto Cotti (non ricandidato nel 2018) è stato uno dei più attivi nel denunciare con atti parlamentari ogni carico di armamenti che, dalla Rwm Italia con sede a Domusnovas in Sardegna, partiva alla volta di Ryad. Un altro sempre in prima linea è stato Manlio Di Stefano. «Europa e Italia fingono di non capire che le armi vendute all’Arabia Saudita vadano a finire nelle mani dei terroristi (e parliamo di uno tra i primi acquirenti al mondo nonché primo acquirente di armi italiane)», scriveva il 29 luglio 2016. «Italia ed Europa dovrebbero contenere in tutti i modi quei Paesi che forniscono soldi e armi ai terroristi e responsabili dello scempio in Yemen».
Oggi la linea all’interno del Movimento sembra diversa. La deputata Pd Lia Quartapelle ha presentato un’interrogazione in commissione esteri nella quale chiede «se il Governo […] non ritenga opportuno, assumere iniziative per rivedere […] i termini delle forniture di materiali di armamento ai Paesi» impegnati nella guerra in Yemen. La replica di Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, non è stata incisiva e diretta quanto le sue osservazioni del 2016. Dopo un lungo ex-cursus sul ruolo del Cipe-Comitato interministeriale per la programmazione economica e su quello del ministero degli Esteri, il sottosegretario ha assicurato che «il Governo presterà particolare attenzione affinché tutte le richieste autorizzative di esportazione di materiale d’armamento continuino ad essere valutate con estrema attenzione e particolare rigore». In pratica il governo M5s-Lega continuerà a valutare le richieste esattamente come è accaduto fino a prima del suo insediamento (quando era guidato dal partito della Quartapelle). Il rischio che il commercio di bombe verso l’Arabia non venga fermato è concreto. Insomma, ancora una volta l’Italia pare non voglia prendere decisioni forti. «Le valutazioni avvengono in un quadro di concertazione fra Paesi Alleati ed UE, tenendo anche conto dei rapporti bilaterali e della cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo», si legge ancora nella risposta di Di Stefano. Una risposta che, appunto, ricalca esattamente la linea del Governo Gentiloni, a suo tempo tanto osteggiata dal Movimento 5 stelle.
Sul punto è molto chiaro Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia: «La posizione espressa dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ripropone sostanzialmente quelle manifestate dai precedenti governi Renzi e Gentiloni», dice. «Si tratta di posizioni che nella precedente legislatura il M5S aveva duramente criticato dai banchi di Montecitorio chiedendo che venisse bloccata “l’esportazione di armi e articoli correlati prodotti in Italia o che transitino per l’Italia, destinati all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen”, ed invitando il governo ad “assumere questa posizione anche in assenza di una formale dichiarazione di embargo sulle armi da parte delle organizzazioni internazionali». Insomma, un gioco delle parti, come lo definisce Maurizio Simoncelli, dell’Archivio per il Disarmo: «La risposta è talmente generica che lascia stupiti, considerando le battaglie che a suo tempo il Movimento ha sposato. Come del resto lascia stupiti che l’interrogazione sia stata presentata dalla Quartapelle che fino a poco tempo fa era in maggioranza».
Di «minuetto politico» parla anche il coordinatore della Rete italiana per il Disarmo, Francesco Vignarca, perché «se Di Stefano è passato da una posizione decisa sulla vendita di armi all’Arabia a una più morbida, è anche vero che quando noi nella scorsa legislatura chiedevamo lo stop al commercio armato, la Quartapelle e il Pd non ci hanno dato retta, hanno neutralizzato le nostre mozioni, spostandole sulla posizione che oggi Di Stefano ha riconfermato e cioè: “ragioniamo con l’Europa”. Il tanto agognato “cambiamento”, insomma, su questo fronte pare non esserci. O, meglio, c’è solo nello scambio di ruoli tra Pd e 5 stelle, come riflette ancora Beretta. «Nel novembre del 2016 – ricorda l’analista dell’Opal – i parlamentari del M5S membri delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno depositato un esposto in Procura a Roma per chiedere alla magistratura di indagare sulle esportazioni di bombe dell’Italia all’Arabia Saudita, ipotizzando reati ministeriali da parte dei ministri Pinotti e Gentiloni. La recente risposta del sottosegretario è perciò quanto mai rilevante perché manifesta una radicale differenza rispetto alle posizioni sostenute dal M5S quando era all’opposizione: differenza di cui non posso non prendere atto, ma che il M5S dovrebbe spiegare ai suoi elettori e a tutti coloro che sono in attesa di vedere le novità del Governo del Cambiamento».
Non è detto, però, che una soluzione non possa arrivare, come spiega Vignarca. «Noi vorremmo lo stop immediato, ma la posizione di Di Stefano ricalca quella espressa in una mozione approvata dal Pd nell’ottobre 2017, ovvero impegnarsi a livello internazionale per risolvere la questione. Bene, ora fatelo». Il Pd a suo tempo non è mai andato al di là delle parole. Adesso, però, il governo giallo-verde potrebbe avere un’importante sponda a livello europeo considerando, sottolinea ancora Vignarca, che «nel contratto della Große Koalition, si parla chiaramente di stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita». Insomma, tutto dipenderà dalla volontà politica di chi governa. Ieri come oggi. Intanto continuano a piovere bombe sui cittadini yemeniti. E la guerra va avanti.
Re:common
Pubblicato anche in italiano (con la collaborazione e il rilancio di Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo) il Report elaborato da Corruption Watch sui possibili casi di corruzioni che coinvolgono il gigante italiano degli armamenti.
Una serie di scandali e possibili episodi di corruzione in almeno tre Paesi, che riguardavano contratti del valore di centinaia di milioni di euro e da cui sono scaturiti controversi versamenti per decine di milioni di euro ad agenti e intermediari collegati a figure militari e politiche. Uno spaccato di notizie e documenti sulla “zona grigia” che caratterizza in molti casi i principali appalti militari internazionali, tanto che il comparto produttivo militare-industriale risulta in testa a tutte le classifiche mondiali sulla corruzione. Tutti legati ad uno dei maggiori produttori armieri del mondo, il principale in Italia: Leonardo S.p.A (fino al gennaio 2016 denominata Finmeccanica). E’ questo il contenuto di “Anglo Italian job”, il Rapporto elaborato da Corruption Watch e da oggi disponibile anche in italiano grazie alla collaborazione con Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo.
“Scorrendo gli elementi e documenti grazie ai quali siamo riusciti a ricostruire diversi casi problematici in cui è stata coinvolta Leonardo – commentano gli autori del Rapporto – risulta particolarmente inquietante il fatto che gli episodi di corruzione abbiano coinvolto i massimi dirigenti dell’azienda”. Società a partecipazione statale (con il Governo che detiene per legge una quota di controllo e nomina i vertici) frutto della fusione ed agglomerazione dei principali segmenti produttivi italiani del settore, Leonardo negli ultimi dieci anni è stata coinvolta in numerosi scandali per corruzione in tutto il mondo. Il Rapporto “Anglo Italian job” esamina i più eclatanti ed emblematici di questi scandali, rivelando in particolare le dinamiche interne di tre casi di possibile corruzione in cui l’azienda, le sue controllate o i suoi funzionari sono stati implicati in azioni illecite con il coinvolgimento dei più alti vertici.
Si parte dalla vendita di elicotteri Wildcat alle forze armate della Corea del Sud. AgustaWestland (controllata di Leonardo ora inserita integralmente nella divisione Elicotteri) avrebbe versato somme di denaro a favore di persone collegate all’establishment militare sudcoreano per garantire l’accordo. Fra i beneficiari di tali pagamenti figurerebbe un lobbista sotto la diretta supervisione di Geoff Hoon, già Segretario alla Difesa durante il mandato di Tony Blair e, dal 2011 al 2016, International Business Manager di AgustaWestland con sede nel Regno Unito. Il secondo caso riguarda invece la discussa vendita di Elicotteri VVIP all’India, nel cui contratto sarebbe compreso anche il pagamento di oltre 60 milioni di euro ad agenti e intermediari. AgustaWestland avrebbe inoltre effettuato dei versamenti ad uno di questi agenti per ottenere altri appalti in India. Le autorità indiane hanno dichiarato che, riguardo a tali lavori aggiuntivi, non è stata svolta alcuna operazione legittima, cosa che l’agente nega. Infine, la vendita di varie attrezzature (tra cui quelle per sorveglianza) al Governo di Panama. Proprio la diffusione sulla stampa di accuse di tangenti all’ex presidente di Panama, gestite attraverso un imprenditore italiano strettamente legato all’entourage di Silvio Berlusconi, avrebbero poi fatto svanire il contratto. Panama ha revocato l’affare sulla base di un accordo negoziale con Leonardo che ha comportato l’annullamento dei procedimenti giudiziari nel Paese.
Lo scenario che deriva da questi casi fa sorgere il dubbio che la società possa essere considerata sistemicamente corrotta con forti sospetti che possa essere nuovamente coinvolta in casi di corruzione anche in futuro. A riguardo, la risposta sembra essere positiva: stando alle ultime informazioni tratte da un’analisi sulla società recentemente pubblicata dal Comitato Etico norvegese si direbbe che Leonardo S.p.A. possa dare ancora motivi di dubitare sul rischio di corruzione.
Dopo l’analisi e la ricostruzione dei casi specifici il Rapporto si conclude con diverse raccomandazioni di intervento atte a ridurre gli impatti negativi e problematici di possibili percorsi corruttivi. In particolare viene suggerito:
Alle forze dell’ordine italiane di intraprendere senza ulteriori ritardi un’inchiesta sugli accordi di consulenza e rappresentanza passati e presenti di Leonardo S.p.A. in tutto il mondo per stabilire se la società sia stata coinvolta in episodi di corruzione in passato o potrebbe essere a rischio di ripetere tale condotta nel presente.
Al governo italiano, in quanto principale azionista di Leonardo S.p.A., di intraprendere una revisione urgente delle pratiche commerciali di Leonardo S.p.A., sia passate che presenti, e intervenire per garantire che la società metta in atto riforme immediate e sostanziali volte a limitare la propria esposizione al rischio di corruzione.
A Leonardo S.p.A. di impegnarsi a rivedere e riformare i propri meccanismi di compliance, adottando le misure necessarie per limitare il rischio di corruzione, compreso lo sviluppo di un piano concreto atto a ridurre il numero di agenti utilizzati dall’azienda in tutto il mondo. In tal senso sarebbe opportuno pubblicare un elenco completo degli agenti e degli intermediari attualmente e precedentemente utilizzati dalla società per ottenere commesse di vendita di apparecchiature e sistemi di difesa all’estero in nome della piena trasparenza e responsabilità.
Corruption Watch UK si è rivolta a Leonardo chiedendo all’azienda di commentare il contenuto e le conclusioni di questo rapporto fra aprile e maggio del 2018. La società ha risposto evidenziando la forza del suo programma di conformità anticorruzione e ha sottolineato che non è stata condannata in nessuna giurisdizione in relazione ai procedimenti trattati; inoltre, ha esposto la sua versione dei fatti per ciascun caso.
La risposta completa dell’azienda è disponibile su www.cw-uk.org/angloitalianjob.
Ciavula, Sacrosanto appello ai responsabili dell'incredibile deficit d'informazioni veritiere sui fatti che contano per il destino dell'umanità, e per il continente che ha pagato e paga il prezzo più alto per il benessere dei paesi ricchi. Con commento (e.s)
«Ma i disperati della storia nessuno li fermerà» queste parole sono il cuore dell’appello di Alex Zanotelli. Sono parole pronunciate da chi sa che la paura è il sentimento che domina su tutti gli animi degli uomini di oggi. Se non si fa ricorso alla paura nessuno ascolterà parole diverse del tranquilizzante senso comune provocato da un’azione di rimodellamento dei cervelli e dei cuori compiuto con un lavoro di decenni da “persuasori occulti”. Zanotelli ci ricorda che la sofferenza che patisce gran parte dell’umanità è destinata a crescere intensamente se non ne cessano le cause, si esprimerà nelle forme nelle quali si esprime una sofferenza inaccettabile dell’uomo e quindi travolgerà quanti non hanno avuto orecchie per ascoltare né occhi per vedere né mani per operare per ristabilire l’equilibrio tra e i diritti e doveri.
L’appello, di Zanotelli ricorda puntualmente tutti i delitti compiuti dalle nazioni dei Nord del mondo nelle varie regioni dell’Africa (e non solo): il continente più saccheggiato, sfruttato incendiato dal mondo cosiddetto "sviluppato". Da quel mondo che non si rende conto che il suo benessere è stato pagato, e continua a essere pagato, da quel colonialismo che ha saccheggiato, incendiato, ridotto alla miseria e alla fame popoli che oggi tentano di fuggirne, e vengono rigettati nei loro inferni da quelli stessi che li hanno creato.
L’appello, anzi l’anatema di Alex Zanotelli è un testo che andrebbe non solo pubblicizzato, reso dai giornalisti a cui è più rivolto l’autore, ma dovrebbe essere letto nelle scuole a partire dalle elementari.
Appello di padre Alex Zanotelli
ai giornalisti italiani:
“Rompiamo il silenzio sull’Africa”
Condividete e fate in modo che gli italiani sappiano
cosa sta veramente vivendo gran parte della popolazione africana.
Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo.
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica. E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio (i nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?
Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell'Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace
il Manifesto 26, giugno 2018. Il consenso a Erdogan non viene meno, mentre cresce quello al'ultradestra dell'Mhp, i Lupi Grigi. Al presidente poteri quasi assoluti in un paese sempre più diviso dove il nazionalismo diventa lo strumento di gestione e mantenimento del potere.
il Post e il Manifesto, 26 giugno 2018. Con l'appoggio di altro partito ultra-nazionalista, Erdogan vince con il 52,5% dei voti, mantenendo la Turchia sotto un regime autoritario e repressivo, nel silenzio quasi assoluto dell'Europa. Due articoli per comprenderne le ragioni. (i.b.)
il Post, 26 giugno 2018
COSA ASPETTARCI ORA DALLA TURCHIA
Traduzione dell'articolo "Five Takeaways From Turkey’s Election" di Palko Karasz
comparso sul New York Times del 25 giugno 2018
Recep Tayyip Erdoğan è stato rieletto domenica presidente della Turchia, vincendo le prime elezioni presidenziali dopo la controversa riforma con la quale aveva accentrato in quel ruolo la gran parte dei poteri politici del paese. Grazie alla vittoria di domenica – ottenuta con il 52,5 per cento dei voti – Erdoğan rimarrà al potere in Turchia almeno fino al 2023: saranno passati vent’anni esatti da quando giurò la prima volta come primo ministro, e a quel punto potrà candidarsi ancora per un altro mandato da presidente.
Intanto, la Turchia è uscita da un lungo periodo di crescita economica, che aveva fatto la grande fortuna politica di Erdoğan, e sta attraversando un momento di crisi, anche politica. Il paese sta ancora facendo i conti con i postumi del tentato colpo di stato di due anni fa, centinaia di persone sono ancora a processo accusate di complicità con i golpisti e i principali giornali di opposizione sono stati messi sotto il controllo di figure vicine ad Erdoğan.
Il New York Times ha provato a fare un punto per capire dove sia la Turchia oggi e dove possiamo aspettare di trovarla tra cinque anni.
Il controllo di Erdoğan sul potere esecutivo è ufficiale, ma cambierà poco
La riforma costituzionale voluta da Erdoğan ha trasformato il sistema istituzionale turco da un modello parlamentare simile a quello italiano a un sistema presidenziale, con un grandissimo accentramento di poteri politici nella figura del presidente. Ora Erdoğan avrà grandissima libertà nella nomina di giudici e ministri e potrà approvare decreti o avviare indagini sull’operato di funzionari governativi.
Se ufficialmente quella del presidente era prima una figura terza e imparziale, è bene però ricordare che da quando Erdoğan fu eletto presidente la prima volta nel 2014 le cose avevano già cominciato a cambiare. Anche prima della riforma Erdoğan dirigeva i lavori del Consiglio dei ministri al posto del primo ministro e aveva un quasi totale controllo del sistema giudiziario del paese, controllo che era ulteriormente cresciuto con la repressione dopo il tentato colpo di stato del 2016.Le elezioni sono state libere, quasi
Gli osservatori internazionali non hanno rilevato casi di brogli di misura tale da aver compromesso il risultato delle elezioni di domenica, ma questo non significa che il voto sia stato completamente libero. Il campo di gioco – come si dice – non era in piano.
Negli ultimi anni Erdoğan è arrivato ad avere un controllo quasi totale sui media di stato e, indirettamente, è arrivato a controllare anche gran parte dei giornali e delle televisioni private del paese. Nel 2016 si era parlato molto del commissariamento di uno dei principali giornali di opposizione, Zaman, la cui direzione era stata sostituita nel giro di poche ore per un intervento dell’autorità giudiziaria considerato da molti come politicamente motivato. Pochi mesi prima delle elezioni, uno dei più importanti e rispettati giornali turchi – Hurriyet – era stato comprato da un gruppo molto vicino a Erdoğan. In generale, tra persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga per paura di ritorsioni del governo, la vita per qualsiasi giornale indipendente e di opposizione è diventata durissima.
A questo bisogna aggiungere gli arresti degli ultimi due anni tra i principali esponenti dell’opposizione, le molte limitazioni ai loro comizi in campagna elettorale e in generale il clima di paura che molti descrivono nel paese.
L’economia turca potrebbe peggiorare ancora
L’ascesa politica di Erdoğan, dal 2003 in avanti, aveva coinciso con un momento di grandissima crescita economica della Turchia, ed Erdoğan ne era diventato il simbolo. Non si può evidentemente dire che nel paese non ci sia più fiducia nelle capacità di Erdoğan, ma l’economia ha molto rallentato e qualche recente decisione del presidente ha fatto spaventare esperti e investitori.
Prima delle elezioni, per esempio, Erdoğan aveva promesso e minacciato di aumentare il suo controllo sulla banca centrale turca nel caso avesse vinto le elezioni e il solo annuncio delle sue intenzioni era stato sufficiente per far precipitare il valore della lira turca. Ora non è chiaro cosa farà Erdoğan, ma se mantenesse fede alle sue promesse sarebbe «un disastro per la lira, per l’inflazione e per quelli che hanno investito nel debito turco», ha detto al New York Times l’analista Emre Deliveli, ex editorialista del quotidiano Hurriyet.
La Turchia si avvicinerà alla Russia?
Quando Erdoğan arrivò al potere per la prima volta nel 2003 sembrava voler portare la Turchia più vicina all’Occidente e inizialmente accelerò il processo che avrebbe dovuto portare il paese a fare parte dell’Unione Europea. La Russia, fino a poco meno di tre anni fa, sembrava un nemico della Turchia e i rapporti tra Erdoğan e Vladimir Putin erano tutto fuorché buoni.
Le cose sono cambiate velocemente. Gli attriti tra l’Unione Europea e il governo turco si sono fatti sempre più intensi e nel 2017 Erdoğan ha esplicitamente detto di aver cambiato idea sull’ingresso della Turchia nella UE. Nello stesso periodo, Russia e Turchia hanno fatto la pace e trovato un’importante intesa su un grande gasdotto che fino a quel punto aveva molto fatto litigare i due paesi. A questo, si è aggiunto l’accordo con cui nel 2017 la Russia ha venduto alla Turchia un efficace sistema missilistico: però la Turchia fa parte della NATO e una tale vicinanza militare con la Russia è quantomeno strana.
È probabile che la tendenza di avvicinamento della Turchia alla Russia non cambierà nei prossimi anni, scrive il New York Times. Per assicurarsi le grandi vittorie politiche degli ultimi anni, Erdoğan ha stretto sempre più forti alleanze con i partiti nazionalisti di estrema destra, da sempre su posizioni anti-occidentali e anti-curde, e dovrà accontentarli. Questo, oltre che per l’Europa, potrebbe diventare un grosso problema anche per gli Stati Uniti, storici alleati della Turchia con cui da tempo però i rapporti non vanno benissimo. Le cose si sono già mostrate complicate in Siria negli ultimi mesi quando la Turchia ha attaccato direttamente le forze dei curdi siriani nel nord del paese, da tempo alleate degli Stati Uniti nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.
L’opposizione è in una posizione difficile
Prima del voto di domenica in molti pensavano – o speravano – che il risultato avrebbe potuto essere una brutta sorpresa per Erdoğan. Il principale candidato dell’opposizione – Muharrem Ince del Partito Popolare Repubblicano – aveva condotto una campagna elettorale molto apprezzata e, sebbene abbia perso le elezioni, il fatto che sia arrivato al 30 per cento dei voti è stato di incoraggiamento per qualcuno. Il problema, dice il New York Times, è che continuare a partecipare alle elezioni in un contesto “falsato” come quello turco non fa che rafforzare la posizione di Erdoğan, legittimando le sue vittorie.
«È arrivato il momento che le opposizioni decidano se vogliono continuare a facilitare lo status quo nella speranza che a un certo punto cambino le cose, o se vogliono provare ad attirare l’attenzione sul fatto che le regole democratiche siano di fatto state svuotate», ha detto al New York Times Howard Eissenstat, esperto di Turchia e professore alla St. Lawrence University.
il Manifesto, 26 giugno 2018
NATO E RUSSIA ALLA CORTE DEL RÈIS, CRITICHE DALLA UE
di Chiara Cruciati
Le prime reazioni alla vittoria di Erdogan: l'Alleanza Atlantica e Mosca mandano le loro congratulazioni, Mogherini denuncia le condizioni inique della campagna elettorale ma il patto sui migranti non è in pericolo. Sullo sfondo l'escalation militare tra Siria e Iraq.
Fa buon viso a cattivo gioco Angela Merkel, la cancelliera che prima ha pavimentato la strada turca verso l’incasso di sei miliardi di euro europei per bloccare i rifugiati siriani e poi ha attraversato una delle peggiori crisi diplomatiche tra Berlino e Ankara, dal no ai comizi dell’Akp in Germania nei mesi del referendum costituzionale fino alla detenzione del reporter turco-tedesco Deniz Yucel.
Con il milione e mezzo di turchi residenti in Germania che ha votato per Erdogan con percentuali più alte di quelle domestiche (65,7%), a poche ore dalla vittoria del Rèis il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha parlato dell’intenzione di continuare a lavorare «in modo costruttivo e vantaggioso» con Ankara.
A vantaggio di chi si sa: della Ue interessata a mantenere chiusa la rotta balcanica; di Berlino che alla Turchia vende armi poi usate in Rojava, secondo le denunce delle unità curdo-siriane Ypg; e del presidente vittorioso che si garantisce la seconda tranche da tre miliardi di euro.
L’Europa opta per gli stessi toni: prende atto e spera. A parlare per prima ieri è stata la Commissione Ue che si augura che «la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come migrazioni, sicurezza e stabilità regionale». Quella che Ankara devasta con operazioni unilaterali nei paesi vicini, dalla Siria all’Iraq.
Molto più critica Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli esteri, che prima dice di voler attendere i risultati definitivi (secondo la Commissione elettorale turca disponibili il 5 luglio) prima di rilasciare dichiarazioni di merito e poi definisce «iniqua» la campagna elettorale e condanna la riduzione delle «libertà di associazione e di espressione per i media».
Sull’altro fronte, quello del doppiogiochismo regionale turco, è un susseguirsi di felicitazioni. Russia e Nato, protagonisti di un tiro alla giacchetta molto apprezzato e ben sfruttato da Erdogan, ieri hanno inviato le rispettive congratulazioni: via lettera il presidente russo Putin ha sottolineato «la grande autorità politica» di Erdogan e ribadito la volontà di mantenere vivo il dialogo con uno degli sponsor del negoziato siriano di Astana (a tal proposito congratulazioni sono giunte anche dall’Iran, dai tempi degli imperi ottomano e persiano tra i principali competitori dell’attuale Turchia); mentre il segretario generale della Nato Stoltenberg ha espresso il suo plauso e ricordato a Erdogan quello che chiama «il nucleo di valori» che caratterizzano il Patto atlantico, «democrazia, Stato di diritto, libertà individuale» in primis (alcuni popoli avrebbero da dissentire).
Parole non da poco, soprattutto alla luce delle prime dichiarazioni post-vittoria del presidente turco: «Libereremo la Siria», ha detto lunedì notte dal terrazzo del quartier generale dell’Akp ad Ankara, aprendo a un’escalation dell’operazione militare contro i curdi in Siria e Iraq che è già realtà quotidiana.
Osservatorio Diritti
Lo ha scoperto l'Osservatorio Mil€x da documenti del ministero della Difesa. Una svolta epocale nella storia militare italiana: per i droni militari sarà possibile attaccare, non solo fare missioni di ricognizione. A questo si aggiunge il costo per rinnovare il parco droni con nuovi esemplari. Un investimento da 700 milioni di euro.
L’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dal 2015, il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense. Finora sembrava che il progetto di trasformarli in delle vere e proprie armi da guerra non dovesse andare in porto.
Invece, come rivela Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, nel suo rapporto Droni, Dossier sul APR militari italiani, sul piatto ci sono già 19,3 milioni di euro, di cui 0,5 spesi nel 2017 e 5 da spendere nel 2018. La voce, contenuta in documenti ufficiali del ministero recuperati da Mil€x, è definita stanziamento per sviluppare «capacità di ingaggio e sistema Apr Predator B». Tradotto dal gergo militare, significa che i droni italiani (Apr, aerei a pilotaggio remoto) Predator B hanno cominciato la procedura per l’armamento.
Il costo dei droni militari italiani
Finora l’Italia ha stanziato 668 milioni di euro in droni, principalmente allo scopo di acquistare mezzi da ricognizione. Duecentoundici milioni sono stati spesi all’interno del programma Nato Alliance ground surveillance (Ags), attraverso cui si sono acquistati in tutto 15 velivoli (uno costa circa 187 milioni di euro).
Altri 142 milioni di euro sono stati spesi per sei Reaper prodotti dalla statunitense General Atomics. Sono questi i famosi Predator B che l’Italia sta armando, visto che il loro scopo, oltre alla ricognizione, è l’attacco. Terza voce di spesa la partita di nove Predator A (di cui due precipitati) acquistati tra il 2004 e il 2015: 95 milioni di euro.
I droni militari americani che partono da Sigonella in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.
La questione droni in Italia finora è sempre passata sotto silenzio. Anche quando a settembre dello scorso anno la Repubblica ha dato la notizia di attacchi missilistici effettuati da droni americani in Libia partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.
Italia: i nuovi droni militari della Piaggio Aerospace
Fin qui lo stato dell’arte, con le spese già effettuate. Il bilancio della difesa però potrebbe raddoppiare. L’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, a febbraio, ha presentato al Parlamento una richiesta per 20 nuovi droni militari P2HH, armabili, per sostituire il vecchio parco velivoli (Predator A e B). Li produce Piaggio Aerospace, azienda con sede ad Albenga, in Liguria, dal 2014 controllata al 100% dal fondo d’investimento Mubadala degli Emirati Arabi Uniti.
La società ha passato anni travagliati sul piano economico. La sua crisi, che ha fatto sfiorare il fallimento al comparto Aerospace, si è acuita con lo sviluppo del primo prototipo di droni Piaggio, i P1HH, uno dei quali scomparso misteriosamente nel Mediterraneo.
Lo scorso anno, il fondo Mubadala ha iniettato nell’azienda 700 milioni di euro per prendere un minimo di ossigeno. La commessa dell’Aeronautica italiana potrebbe essere la spallata per farla uscire dalla crisi.
I dubbi intorno al programma, però, sono molteplici. La commessa vale 15 anni e 766 milioni di euro: 51 milioni all’anno. Non solo: i primi prototipi si vedranno nel 2022. Per altro, il progetto rischia di sovrapporsi al più ambizioso progetto europeo Male 2025(Medium altitude long endurance), a cui partecipano consorziate le più grandi compagnie che si occupano di sistemi di difesa in Europa, compresa l’italiana Leonardo. L’Italia ha investito nel progetto 15 milioni di euro.
Altre spese inutili per gli F35: prezzo medio 190 milioni
Il ministero della Difesa non è nuovo a investimenti discutibili per rinnovare la flotta aerea. L’esempio più clamoroso sono gli F-35: il volo inaugurale degli esemplari acquistati dalla Royal Air Force (Raf) britannica, avvenuto a giugno, è stato definito dal «imbarazzante» e «patetico» dal Times di Londra. Gli aerei sono prodotti da Lockheed Martin e assemblati in Italia da Leonardo.
Dieci di questi cacciabombardieri sono stati già consegnati, al prezzo medio di 150 milioni di euro l’uno, a cui si aggiungeranno altri 40 milioni di euro di “ammodernamento” di ogni singolo aereo, nato già vecchio. La Corte dei conti, l’estate scorsa, nella relazione sulla Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter – F35 Lightning II, il programma di sviluppo dei nuovi cacciabombardieri, ha detto:
«Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021».
Si poteva fare meglio, anche perché ai ritardi hanno fatto seguito aumenti dei costi.
Mil€x ha scoperto che al già costoso programma la ministra Pinotti ha aggiunto un’ulteriore commessa di otto F-35, arrivando a un totale di 26 nuovi aerei. L’ultimo Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa redatto sotto la ministra Pinotti, prevedeva un esborso di 727 milioni per quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.
Tratto dal sito qui raggiungibile.
Internazionale,
Sono più di 1,5 milioni su una popolazione libanese di sei milioni di persone. Vivono a pochi chilometri da casa ma temono di non poterci tornare più. Soprattutto, soffrono per la loro invisibilità. E invece, i profughi siriani in Libano hanno un piano, dice un loro portavoce, Sheik Abdo.
La proposta che Sheik Abdo, maestro di scuola siriano rifugiato in Libano, porta in Europa a nome dei profughi siriani è incentrata sul ritorno. Dopo aver riconquistato città dopo città e sconfitta la resistenza con massicci bombardamenti, il regime siriano si sta dedicando allo spostamento della popolazione. Mettendo così a grave rischio il futuro del paese e il fragile equilibrio comunitario precedente alla guerra.
Sulla questione degli spostamenti della popolazione, la memoria dell’esperienza palestinese è onnipresente nella regione. I palestinesi, scappati nel 1948, non sono mai potuti tornare. E oggi, settant’anni dopo, secondo l’Unrwa 450mila palestinesi vivono ancora nei 12 campi profughi del Libano.
Così, un gruppo di profughi siriani ha redatto una proposta di pace. Vogliono la creazione di una zona umanitaria in Siria, “ovvero di territori che scelgano la neutralità rispetto al conflitto, sottoposti a protezione internazionale, in cui non abbiano accesso attori armati, secondo il modello, per esempio, della Comunità di pace di San José de Apartadó, in Colombia” e dove, sotto la protezione internazionale, siano garantite la sanità e l’istruzione.
Sheik Abdo, accompagnato dall’organizzazione Operazione colomba che lavora nei campi profughi libanesi, sta girando l’Europa per convincere politici e diplomatici a non ascoltare solo quelli che in Siria hanno le armi.
Nella sua chiavetta usb, Abdo porta invece con sé la testimonianza dei siriani disarmati. I bambini, per esempio, che hanno realizzato il valore delle cose una volta che le hanno perse e che raccontano quanto rimpiangano i giorni in cui aspettavano l’autobus per andare a scuola. Su questo, Abdo presenta il lavoro di organizzazioni che pensano davvero al futuro, come Save syrian schools.
A nome di chi parla Sheik Abdo? Rappresenta chiaramente la maggioranza della popolazione siriana, muta, senza voce, che sogna la pace e il ritorno, senza il ricorso alle armi.
Prima della guerra, Sheik Abdo era un maestro elementare ad Al Qusayr, vicino alla città martire di Homs. Nel 1982, Homs fu quasi rasa al suolo dall’allora presidente Hafez al Assad. Oggi è quasi totalmente distrutta per volere del figlio, Bashar al Assad.
Durante proteste pacifiche, Abdo ha visto i cecchini governativi sparare sui manifestanti e ha organizzato ospedali di fortuna per i feriti che non potevano andare in quelli governativi per paura di essere arrestati. La sua attività non è piaciuta al regime e nel 2012 è dovuto scappare e cercare rifugio in Libano: ha attraversato il confine pensando di dover stare lontano da casa solo pochi mesi.
Oggi, adiacente al campo dove vive Abdo, sorge anche una scuola per bambini siriani, di cui è il preside. Il documentario Lost in Lebanon, di Sophia Scott e Georgia Scott, racconta il suo impegno per dare un’istruzione a una generazione di bambini che non ne riceve più, e che rischia di essere lasciata senza voce anche in futuro:
"A noi, vere vittime della guerra e veri amanti della Siria, l’unico diritto che viene lasciato è quello di scegliere come morire in silenzio. Ma noi, nel rumore assordante delle armi, rivendichiamo il diritto di far sentire la nostra voce, insieme a coloro che ci sostengono e a chi vorrà unirsi al nostro appello."
Sheik Abdo e gli altri profughi che collaborano con lui mettono in discussione la legittimazione dalla violenza:
"Nel nostro paese ci sono centinaia di gruppi militari che, con la sola legittimità data loro dall’uso della violenza e dal potere di uccidere, ci hanno cacciato dalle nostre case. Ancora oggi ci uccidono, ci costringono a combattere, a vivere nel terrore, a fuggire, umiliati e offesi. Ai tavoli delle trattative siedono solo coloro che hanno mire economiche e politiche sulla Siria."
Sheik Abdo sta viaggiando in Europa per diffondere la Proposta di pace per la Siria, e cercare sostegno a più livelli: politico, istituzionale, popolare, perché oggi “in Libano la situazione è insostenibile, ed è urgente che i profughi siriani abbiano un posto dove poter vivere in pace, senza rischiare la vita”.
Iniziative come quella di Sheik Abdo sono fondamentali, permettono di dare dignità e voce a più di 5,6 milioni di profughi siriani e a più di sei milioni di profughi interni in Siria che vivono oggi senza nessuna prospettiva.
Avvenire,
Prosegue senza tregua l'occupazione della Palestina da parte di Israele Le armi che l'aggressore israeliano applica sono le più diverse: dalle armi di tutti i tipi, in cui si sperimentano sempre nuove tecnologia di ammazzamento su commessa del consorzio internazionale dei Mercanti di morte, fino alle infrastrutture e alle opere edilizia. L'Europa osserva, con soddisfatta compiacenza e gli Usa partecipano con entusiasmo. Le autorità che dovrebbero garantire la pace ne mondo volgono gli occhi altrove. (e.s.)
Avvenire, 24 maggio 2018
Israele. Piani per 2.500 nuove case in Cisgiordania»
di Luca Geronico
«L'annuncio del ministro della Difesa Lieberman: «Estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea e Samaria». Il ministro Katz: in cima all'agenda il riconoscimento Usa dell'annessione del Golan»
Nuova stoccata, nel quotidiano duello verbale e legale tra Palestina e Israele. Con un twitter il super falco Avigdor Lieberman, titolare della Difesa ha annunciato che Israele rilancerà nuovi progetti edilizi in Cisgiordania. «La settimana prossima - ha scritto Lieberman - sottoporremo al Consiglio superiore per la progettazione nella Giudea-Samaria (Cisgiordania) piani per la costruzione di 2.500 alloggi, 1.400 dei quali da realizzare subito». Inoltre, ha aggiunto il ministro della Difesa israeliano, «estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea-Samaria da Nord a Sud, in insediamenti piccoli e grandi».
E ora, dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale unica di Israele da parte della Casa Bianca, ora Israele punta anche sulle alture del Golan. Il ministro israeliano dell'Intelligence, Yisrael Katz, ha infatti dichiarato che nei colloqui bilaterali con Washington è ora "in cima all'agenda" il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell'annessione unilaterale delle alture del Golan, contese con la Siria, da parte dello Stato ebraico."Questo è il momento perfetto per fare una tale mossa", ha detto il ministro.
Un passo giustificato per contrastare Teheran: "La risposta più dolorosa che si può dare agli iraniani è riconoscere la sovranità sul Golan di Israele". "Penso che ci sia una grande maturità e un'alta probabilità che questo accada", ha aggiunto il ministro, secondo cui il riconoscimento potrebbe avvenire "entro qualche mese". La Casa Bianca non ha per ora commentato le osservazioni di Katz.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Avvenire, 22 maggio 2019.
Sono pazzi gli uomini che abbiamo scelto per governarci. Lo diciamo per molte ragioni, tanto ovvie e ripetute che ci stufa doverle sempre ripetere: La pace, il lavoro, la possibilità di impirgre le risorse nell'interesse di un miglioramento delle condizioni materiali e immateriali dell'umanità tutta, la riduzione - fino all'annullamento - della distanza tra ricchi e poveri.
E invece no. L'impiego delle risorse è destinato ad altri scopi: a far diventare più ricchi e potenti quelli che già lo sono, nel modo più facile e rapido possibile. L'impiego delle risorse negli armamenti è un ottimo investimento, e per aumentare la domanda basta produrre più guerra, più morte. Ripetiamo queste cose per l'ennesima volta perchè oggi possiamo aggiungere una ulteriore perla alla frottole dei guerrafondai. Oggi apprendiamo, dall'articolo di Raul Caruso, che le spese per la guerra sono utili perché consentono di migliorare tecnologie che potrebbero essere utilizzate anche per opere civili. Insomma, produciamo morti ammazzati per rendere più fertile il terreno i cui frutti serviranno ai nostri posteri per nutrirsi! (e.s.)
22 maggio 2018Investimenti militari e pacedi Raul Caruso
«I costi del riarmo: più insicurezza e ritardi nell'innovazione. L'Unione Europea si trova a un bivio»
Il riarmo a livello mondiale non sembra arrestarsi. Secondo gli ultimi dati del Sipri la spesa militare mondiale nel 2017 è stata pari a 1.739 miliardi di dollari, dato in crescita rispetto al 2016. La maggioranza dei Paesi sta aumentando i propri arsenali e la produzione della 'Pace' sembra divenire sempre più difficile. I costi legati all’espansione della spesa militare sono diversi e sostanziali. Al fine di avere un’idea più compiuta del nocumento e dei rischi legati al riarmo in corso in particolare per un Paese come l’Italia, dobbiamo in primo luogo interpretare il termine 'costo' in un’accezione ampia andando a indicare non solamente un esborso monetario ma più propriamente un 'disagio' o una 'privazione'. In sintesi, tre sono i costi da evidenziare, vale a dire un minore sviluppo economico, un indebolimento della democrazia e una maggiore insicurezza. Le spese militari, in quanto intrinsecamente improduttive, costituiscono un peso per lo sviluppo economico.
Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare un crescente impegno militare è quella che fa leva sullo spillover tecnologico che deriverebbe dagli avanzamenti della tecnologia militare. In altre parole, secondo molti le attività di ricerca e sviluppo in ambito militare potrebbero generare innovazioni poi riutilizzabili in ambito civile. Questo convincimento è tuttavia sbagliato per una serie di ragioni. In primo luogo – in particolare per Paesi piccoli come l’Italia – il capitale umano impiegato nella ricerca militare è sottratto a quella in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano ha conseguenze spiazzanti sulla ricerca civile, dal momento che la disponibilità di risorse umane qualificate è limitata. In ogni caso, la più importante criticità della ricerca militare è la segretezza. Poiché i prodotti della ricerca in questo ambito dovrebbero essere destinati a realizzare un vantaggio concreto nei confronti di nemici, tradizionalmente i ricercatori e gli inventori che vi sono impegnati sono tenuti a rispettare vincoli di segretezza, che da un lato generano un ritardo nell’innovazione e dall’altro rendono impossibile sfruttarne i ritorni in ambito commerciale. Se quindi le innovazioni sviluppate nell’industria militare tendono a essere introdotte con ritardo, gli eventuali benefici per l’economia civile tendono conseguentemente a essere limitati.
Costo ancor più rilevante è quello legato all’indebolimento della democrazia. Alcuni avanzamenti tecnologici, tra cui i droni armati e i dispositivi d’arma autonomi (come i Killer Robot), infatti, destinati a cambiare la condotta della guerra, vengono solitamente indicati nel discorso pubblico come strumenti che aumentano i livelli di efficienza bellica, ma in realtà incidono sulla legittimità, la qualità e la solidità della democrazia stessa. Questo è particolarmente vero nel caso dei killer robot. Uno dei principi alla base delle società democratiche, infatti, è quello della responsabilità. Nelle democrazie i cittadini dovrebbero essere messi in condizione di identificare e valutare i responsabili delle azioni del loro governo, in particolare di fronte a scelte tragiche quali ad esempio quelle in merito alla partecipazione e alla condotta da tenere in guerra. Nel momento in cui una 'macchina intelligente' operi in maniera autonoma e brutale, potrebbe infatti innescarsi un meccanismo di negazione della responsabilità a causa del quale nessun soggetto vorrà essere chiamato in causa per risultati indesiderati. In parole più semplici: nel momento in cui un robot dovesse rendersi protagonista di stragi o uccisioni indiscriminate sorgerebbe un problema di attribuzione di responsabilità. Almeno tre soggetti potrebbero essere additati come responsabili: i programmatori e coloro che hanno sviluppato gli algoritmi di azione dei robot; il comando militare che ha decretato l’impiego delle macchine; i decisori politici che hanno deciso in favore dell’impegno bellico e della sua intensità. È chiaro che l’incertezza e la confusione nell’attribuzione di responsabilità sono sicuramente una buona notizia per i leader politici ma una pessima notizia per la democrazia.
Nella storia sappiamo, infatti, che non è infrequente che leader politici tendano a sminuire il proprio ruolo laddove le azioni di guerra siano state caratterizzate da gravi abusi e da violazioni dei diritti umani. Il caso delle torture di Abu Grahib in questo senso è emblematico: l’amministrazione Bush respinse una responsabilità diretta parlando di 'mele marce' e trasferendo in tal modo la responsabilità sui singoli soldati coinvolti. Tali meccanismi di negazione di responsabilità (il blame shifting)rappresentano un costo elevato per le democrazie e per la pace, in virtù del fatto che se i capi non sono chiamati a rispondere delle proprie azioni la prudenza dei leader democratici rispetto alla partecipazione ad azioni belliche tende ad attenuarsi diminuendo la probabilità di mantenimento della pace. In assenza di chiare responsabilità le guerre potrebbero dunque essere più frequenti e più sanguinose.
Ultimo tra i costi del riarmo, ma chiaramente non in termini di importanza, è l’aumento del livello di insicurezza. In linea generale, a dispetto del senso comune, la sicurezza di un Paese decresce al moltiplicarsi delle armi disponibili. L’aumento delle spese militari è infatti percepito come una 'minaccia' dagli altri Paesi che, di conseguenza, alzeranno a loro volta le proprie spese militari, con un effetto negativo sulla pace. Questa dinamica nelle rivalità più accese prende il nome di 'corsa agli armamenti' che è caratterizzata da instabilità. Paradossalmente, la mancata guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di bombe atomiche ha convinto molti che la deterrenza sia una condizione intrinsecamente stabile e che una politica in questa direzione sia pertanto auspicabile. Anche questa tuttavia è una convinzione sbagliata ma sovente utilizzata per giustificare i processi di riarmo. Una delle condizioni essenziali della stabilità della Guerra Fredda, infatti, era la sua natura diadica. La presenza di soli due attori favoriva la stabilità al verificarsi di alcune specifiche condizioni. In presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, l’analisi e la gestione della deterrenza diviene più complessa e le condizioni che lasciavano pensare a un’intrinseca stabilità di tali scenari tendono a scomparire.
Per questi motivi è necessario provare a invertire la rotta e impegnarsi per il disarmo. L’Unione Europea in particolare si trova di fronte a un bivio. Da un lato i Paesi mantengono un proprio modello di difesa basato sull’esistenza di 'campioni nazionali' di proprietà pubblica (come nel caso di Leonardo ex Finmeccanica) in ambito industriale e dall’altro si dicono disponibili alla costruzione di una difesa comune. Questo scenario purtroppo presenta diverse problematiche. In primo luogo, la quotazione in Borsa dei gruppi industriali di proprietà pubblica spinge gli amministratori a muoversi finanche al di fuori del perimetro degli accordi internazionali sottoscritti e ratificati dai loro principali azionisti come ad esempio l’Att, il Trattato sul commercio delle armi, ratificato da tutti i Paesi Ue ma disatteso nei fatti. In secondo luogo tali gruppi al fine di generare i maggiori rendimenti possibili oltre ad aumentare l’offerta e la varietà di armamenti competono tra loro rischiando di minare anche le tradizionali alleanze politiche.
È necessario, quindi, rivedere la natura di aziende orientate al profitto dei gruppi industriali militari ma anche creare un’agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti che abbia i poteri adeguati per limitare le esportazioni in linea con i trattati internazionali ratificati dai parlamenti. Questo è tanto più urgente se consideriamo il processo di creazione di una Difesa comune appena iniziato con la Pesco e con l’istituzione del fondo europeo per la Difesa. In questa fase iniziale sembra che i nuovi accordi europei non limiteranno gli impegni di spesa nazionali ma piuttosto si affiancheranno ad essi andando infine ad aumentare la spesa militare aggregata. Come detto, questo costituisce una fonte di declino economico e di svuotamento di significato delle democrazie con conseguenti ricadute sui livelli di sicurezza e Pace. Speriamo che le classi dirigenti abbiano la visione e la forza per invertire questa tendenza abbandonando i falsi convincimenti che le danno forma.
L’autore dell’articolo di questa pagina, Raul Caruso, ha appena pubblicato per Egea Chiamata alle armi, libro sui costi della spesa militare.
Come in Italia per sconfiggere la barbarie nazifascista, così nelle terre palestinesi l'estrema risorsa degli oppressi - se i loro difensori patentati, locali e internazionali - non sono capaci di far riconoscere i loro diritti - è la cocciuta resistenza. Il fatto che essa si svolga oggi da parte di un popolo che lotta a mani nude contro uno dei più agguerritii eserciti del mondo dovrebbe costituire un ulteriore elemento per suscitare la solidarietà internazionale. Segue l'intervista (e.s.)
Richard Falk:«un massacro per dire ai palestinesi:la vostra è una resistenza impossibile»
intervista di Ciara Cruciati
«Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite: "Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più alto, l’autodeterminazione"»
La brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha votato per il lancio di un’inchiesta.
Ne abbiamo discusso con Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni unite sulla questione palestinese.
In un suo articolo, scritto dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di qualità” nell’uso della forza?
«Siamo di fronte a un nuovo livello di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato, confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna».
Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
«Le ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque».
La legalità internazionale esiste ancora?
Le regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle. Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione. Così si indebolisce l’intero sistema.
È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?
«Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni e che si estende ai paesi amici.
«Possiamo chiederci da cosa derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli ebrei liberali che vogliono una soluzione politica».
Lei ha spesso parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano), l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una colonia.
«Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli. L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi in territori separati e dunque in diversi status giuridici».
Vede all’orizzonte un cambiamento positivo?
«L’ultimo secolo ha dimostrato che l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un fine più alto, l’autodeterminazione».
i
La politica aggressiva di Israele nei confronti degli abitanti della Palestina non trova sosta, e prosegue con l’assassinio e il ferimento di persone di ogni condizione e ogni età che sti battono a mani nude per difendere il loro diritto a vivere sulla terra in cui sono nati. Non è una politica iniziata oggi. Ha scritto lo storico israeliano Gideon Levy: «Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono
.in Palestina. Al loro arrivo
si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato»A chi si presentava e comportava come aggressore i palestinesi risposero impiegarono anchessi la violena. Divampà una guerra che ancora provocamorti e feriti. Le due parti del conflitto non possono essere messe sullo stesso piano. Chi impiega missili, carri armati e fucili di precisione contro un popolo armato di fionde e sassi si rivela come un assassino, e rischia di essere collocato sullo stesso piano di chi lo aggredì nella Shoa. Sembrano considerazioni che dovrebbero essere condivisi da tutti. Ma non è così. La catastrofr continua, i palestinesi che protestano a mani nude per ottenere i propri elementari diritti vengono sterminati dai missili, o dai fucili di precisione dell’armata di Israele.
A seguire un articolo di Tommaso Di Francesco, ela denuncia di un gruppo di intellettuali israeliani con il loro appello perché l’inumana tragedia abbia fine, entrambi ripresi da il manifesto del 18 maggio 2018 (e.s.)
Nakba. La catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco
I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».
Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».
Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.
Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.
Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.
Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.
Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».
«I responsabili della strage di Gaza siano processati»
La forte denuncia e l’accorato appello di 9 intellettuali israeliani
Noi, israeliani che desideriamo che il nostro paese sia sicuro e giusto, siamo sconvolti e inorriditi dall’uccisione di massa di manifestanti palestinesi disarmati a Gaza. Nessuno dei manifestanti rappresentava un pericolo diretto allo Stato di Israele o ai suoi cittadini. L’uccisione di oltre 50 manifestanti e il ferimento di migliaia ricordano il massacro di Sharpeville nel 1960 in Sudafrica. Il mondo allora agì.Facciamo appello ai membri rispettabili della comunità internazionale perché chiedano che chi ha ordinato tale massacro sia indagato e processato. Gli attuali leader del governo israeliano sono responsabili della politica criminale di fuoco sparato su manifestanti disarmati. Il mondo deve intervenire per fermare le attuali uccisioni.
1. Avraham Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia ebraica
2. Prof. Nurit Peled Elhanan, vincitrice del premio Sakharov 2001
3. Prof. David Harel, vice presidente dell’Accademia israeliana per le scienze umane e premio Israel 2014
4. Prof. Yehoshua Kolodny, vincitore del premio Israel 2010
5. Alex Levac, fotografo e vincitore del premio Israel 2005
6. Prof. Judd Ne’eman, regista e vincitore del premio Israel 2009
7. Prof. Zeev Sternhell, storico e vincitore del premio Israel 2008
8. Prof. David Shulman, vincitore del premio Israel 2016
9. David Tartakover, artista e vincitore del premio Israel 2002
Avvenire,
Della strage di palestinesi di lunedì, al confine tra Gaza e Israele, ha parlato con toni preoccupati papa Francesco al termine dell'udienza generale del mercoledì. «Sono molto preoccupato per l'acuirsi delle tensioni in Terra Santa e in Medio Oriente, e per la spirale di violenza che allontana sempre più dalla via della pace, del dialogo e dei negoziati» ha detto il Pontefice. «Esprimo il mio grande dolore per i morti e i feriti e sono vicino con la preghiera e l'affetto a tutti coloro che soffrono - ha proseguito -. Ribadisco che non è mai l'uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». «Invito tutte le parti in causa e la comunità internazionale a rinnovare l'impegno perché prevalgano il dialogo, la giustizia e la pace. Invochiamo Maria, Regina della pace», ha concluso.
Uccisa dai lacrimogeni bimba di 8 mesi
Il giorno dopo il massacro più pesante da anni nei Territori palestinesi, ieri a Gaza si è dato sepoltura ai morti (saliti a 61) nelle proteste scatenate dal trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme.
Intanto, secondo fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti hanno bloccato all'Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza, dove lunedì sono morti 58 palestinesi (e altri 3 sono deceduti ieri) per mano dell'esercito dello Stato ebraico e oltre 2.800 sono rimasti feriti. È morta anche una bimba di appena otto mesi, perché aveva inalato gas lacrimogeni. I genitori l'avevano portata nella zona degli scontri per non lasciarla a casa da sola, hanno detto.
Dopo la strage, la più grave dalla guerra del 2014, il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha proclamato uno sciopero generale e tre giorni di lutto. Mentre lo Shin Bet, la sicurezza interna di Israele, e l'esercito hanno rivelato che almeno 24 dei manifestanti palestinesi uccisi lunedì «erano terroristi nell'atto di compiere atti di terrore». La maggior parte di questi - hanno aggiunto - erano di Hamas e altri della Jihad islamica.
Martedì i palestinesi ricordavano il 70esimo anniversario della Nakba, la catastrofe, l'esodo forzato dalle terre arabe confiscate da Israele con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948. Nel corso di una manifestazione un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani a est del campo profughi di Al-Bureij nella parte centrale di Gaza. L'uomo è stato identificato in Nasser Aourab, 51 anni.
Pizzaballa condanna l'uso di «violenza sproporzionata»
Sulla «ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa» è intervenuto martedì l'Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che ha espresso «condanna di ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata». «La vita di tanti giovani ancora una volta - ha scritto Pizzaballa - è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace! Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l'uno all'altro». Da qui l'invito dell'arcivescovo a tutta la comunità cristiana della diocesi «a unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto».
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
NenaNews, 15 maggio 2018
«Parla l’analista Mukreir Abu Saada: siamo stati abbandonati anche dal mondo arabo, in questo contesto sfavorevole i palestinesi hanno diritto a leader migliori di quelli attuali che non si impegnano per la riconciliazione»
La decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme è stato il motivo scatenante delle ultime manifestazioni di protesta palestinesi a Gaza. I morti solo nelle ultime ore sono stati oltre 50, eppure fate fatica a far sentire la vostra voce.
Il mondo non riesce a capire che queste manifestazioni palestinesi a ridosso delle linee con Israele non sono frutto di macchinazioni politiche ma l’esito di 11 anni di assedio totale di Gaza che colpisce due milioni di persone innocenti. La condizione di Gaza non è più sostenibile, la popolazione non ce la fa più. Certe forze politiche sono coinvolte, senza dubbio, ma i palestinesi vanno al confine con Israele per chiedere una una vita normale, per avere la libertà. Le manifestazioni andranno avanti spontaneamente e non perché sia tutto telecomandato a distanza come sostiene Israele. Qualcuno deve intervenire, la comunità internazionale o i Paesi della regione, non lo so ma qualcuno deve agire per mettere fine a tutto questo.
Questo intervento internazionale non sembra all’orizzonte e il governo israeliano agisce in un contesto molto favorevole. Gli Stati uniti hanno trasferito la loro ambasciata a Gerusalemme e alcuni Paesi arabi, in particolare l’Arabia saudita ed altre monarchie del Golfo, rafforzano le relazioni con Israele. Per i palestinesi non sarà facile far emergere le loro ragioni.
Un nuovo massacro di palestinesi è avvenuto qui a Gaza nel giorno del passaggio da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata statunitense e a poche ore dal 70esimo anniversario della Nakba. Di fronte a tutto ciò il mondo arabo tace, al massimo balbetta, non fa nulla per proteggere i palestinesi. Non si può negare, ci hanno dimenticato. Certo, capisco che alcuni dei Paesi arabi fanno i conti con crisi interne, conflitti e problemi economici e sociali molto gravi. Altri, come le monarchie del Golfo, sono occupati dal loro scontro a distanza con l’Iran e per loro la questione palestinese non ha più rilevanza. Israele e Usa prendono vantaggio da questa situazione e dalle divisioni esplose in questi anni tra i Paesi arabi.
Neppure la strage di decine di civili di Gaza pare aprire la strada alla riconciliazione tra il movimento islamico Hamas e l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.
E’ sconcertante. Neppure di fronte al sangue che è stato sparso a Gaza Hamas e Abu Mazen riescono a trovare l’intesa auspicata da tutti per realizzare la riconciliazione nazionale. Il popolo palestinese merita una leadership migliore, e mi riferisco ad entrambe le parti. Sino ad oggi il nostro popolo non è stato in grado di darsi una nuova direzione politica e di rinnovare i leader che controllano la loro vita quotidiana. L’unica speranza è che la continuazione delle proteste e della manifestazioni (lungo le linee con Israele, ndr) metta sotto pressione l’Anp e Hamas fino a spingere queste due forze a fare i conti con la realtà e ad agire soltanto nell’interesse del popolo palestinese. Però non sono ottimista perché negli ultimi 11 anni, Israele ha lanciato tre grandi operazione militari contro Gaza e altre più piccole facendo migliaia di morti e feriti. Neppure questo ha indotto le fazioni palestinesi rivali a ricucire lo strappo e a dare vita a una politica nuova, ecco perché guardo con un certo distacco alla possibilità della riconciliazione. Temo che ci vorrà molto di più per convincere l’Anp e Hamas a voltare pagina.
il manifesto,
Mentre la crisi italiana dopo il voto del 4 marzo getta la maschera, con la rischiosa trattativa di governo tra le due forze populiste vincenti ed emergenti, all’ombra dello «statista» Berlusconi, ecco che subito si riaffaccia la voragine di un’altra guerra. Stavolta con l’Iran come target e Israele come protagonista.
Sono decine le persone uccise nei raid israeliani della notte scorsa in Siria «contro obiettivi iraniani»; l’esercito israeliano – che sostiene di aver reagito al lancio di venti razzi sul Golan (che è territorio siriano occupato da Israele) – ha colpito con 70 missili complessivi, 60 con 28 jet F15 ed F16 e dieci con missili tattici terra-terra dal territorio israeliano. È la prova generale di un’altra guerra su vasta scala e diretta, dopo le tante in Siria «per procura».
Alla nuova deflagrazione ha dato il via libera Trump con la denuncia dell’accordo sul nucleare civile dell’Iran faticosamente raggiunto da Obama insieme ai 5 più 1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e definito da Mogherini «storico». Lo ha fatto con l’annuncio peggiore di nuove sanzioni non solo contro l’Iran ma anche contro chi avrà rapporti con Teheran.
Che quella di Trump sia una scelta di guerra, lo ha denunciato anche il segretario dell’Onu Antònio Guterres. Ma per Trump è di più: è una promessa elettorale da rovesciare nella voragine mediorientale. Come del resto l’altro «ordigno» che lancerà tra poche ore: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Perché l’intento della Casa bianca è lasciare incandescente il «forno» del conflitto tra sciiti e sunniti, eredità delle guerre bipartisan contro l’Iraq.
La guerra in Siria non deve finire con la sconfitta – invece cogente – dello jihadismo alimentato in primis dall’Arabia saudita alleato storico d’acciaio degli Stati uniti. Per questo Trump è diventato un piazzista di armi. A fine 2017 ha riunito il fronte sunnita a Riyadh per schierarlo contro l’Iran, portando in dote alla petromonarchia dei Saud una fornitura di armi di 100 miliardi di dollari. E qui, tra Mediterraneo, fossa comune di migranti e martoriato Medio Oriente non c’è nemmeno la Cina a garantirgli la scena per una trattativa con il cattivo di turno, come accade nella penisola coreana.
Direttore d’orchestra il premier israeliano Benjamin Netanyhau, che aizza contro il nucleare civile dell’Iran mentre Israele possiede centinaia di atomiche (alcune puntate su Teheran) e che va al conflitto, e al tiro al piccione dei palestinesi – dopo aver fatto scempio di ogni possibilità di pace interna – perfino «in bicicletta», sponsorizzato dai media occidentali dopo le tre tappe israeliane del Giro d’Italia (povero Ginettaccio).
Unica voce alternativa al mondo Amnesty International che, dopo un rapporto agghiacciante sui corpi devastati a Gaza dai proiettili israeliani, chiede con forza l’embargo di armi per Israele. Il dossier nucleare di Netanyahu è pari alla sua faccia tosta: Israele è l’unica potenza atomica del Medio Oriente e detta legge sul nucleare civile altrui; eppure «Bibi», con uno spettacolo da comico di crociera, ha «rivelato» al mondo le presunte preparazioni atomiche dell’Iran che l’atomica non ce l’ha, ma aderisce a controlli e Trattati, e vuole solo diversificare le fonti energetiche per la crisi economica che l’attanaglia anche per il peso delle sanzioni Usa.
Mentre in queste ore l’Arabia saudita – fomentatrice del jihadismo sunnita e alleata d’Israele – avverte: «Se Teheran avrà l’atomica anche noi l’avremo». Tra gli altri effetti collaterali, la scena sembra pronta per l’intervento diplomatico di Putin, grande alleato della presidenza Rohani,- del resto Putin venne pubblicamente ringraziato da Obama nel 2015 per la sua decisiva mediazione.
Alternativa alla guerra sembra stavolta la reazione dell’Unione europea che di quell’accordo è stata in parte artefice. Ora, almeno a parole, da Macron a Mogherini, da Merkel all’uscente Gentiloni, si conferma uno schieramento contrario perfino con l’atlantica May. Tutti presi a schiaffi in faccia da Trump. Ma che accadrà quando le capitali europee dovranno fare i conti con lo spettro che già terrorizza, vale a dire l’annunciato embargo americano alle transazioni con l’Iran? Ci vorrebbe allora un’Europa non atlantica.
Perché mentre l’Unione europea si barcamena solo sulle vicende monetarie ed economiche perseguendo coi vincoli di bilancio le già scarse politiche sociali dei Paesi comunitari, la sua politica estera fin qui resta avventurista o apre fronti tardo-coloniali, come fa Macron in Africa; oppure pensa alla difesa europea ma come doppio subalterno (nelle spese e nelle finalità) all’unica realtà sovranazionale d’Europa: la Nato.
Teheran intanto minimizza. Ma s’incendiano nuovi fronti. Così si prepara al peggio. Che non è solo il conflitto in Siria, ma l’attesa provocazione di un raid aereo israeliano su siti nucleari iraniani – un déjà-vu che stavolta sarebbe un detonatore – del quale già si intravvede la traiettoria.
Siamo nella voragine. Ci stiamo dentro nel vuoto di contenuti e di forze che assumano la pace e il rispetto della Costituzione come condizione senza la quale non c’è governo possibile.
Avvenire,
C'è chi sostiene - secondo noi a ragione - che la ripresa dell'antica guerra tra mondo giudaico-cristiano e mondo islamico iniziò, nel 1917, quando Germania, Francia e Gran Bretagna chiesero aiuto a Wall street per ottenere l'alleanza degli Usa nella guerra mondiale contro la Russia degli Zar, stipulando il cosiddetto accordo Balfour e concedendo a Wall street un pezzo della colonia britannica dell'impero ottomano, la Palestina, autorizzando la costituzione dello stato di Israele. E' passato un secolo, e il fuoco continua a bruciare e il sangue a scorrere. Quell'angolo del Mediterraneo rimane l'epitome di una cace che, pur essendo nei cuori dei popoli e sulle bocche di tutti i governanti, non riesce a prevale contro gli interessi dei Signori della morte (e.s.)
Uccisi almeno 41 palestinesi, oltre 1.900 i feriti. È il giorno più sanguinoso nel conflitto israelo-palestinese dalla guerra del 2014. È un bollettino di guerra, che si aggrava di ora in ora. Almeno 41palestinesi sono stati uccisi e oltre 1.900 feriti negli scontri esplosi stamani fra manifestanti della Striscia di Gaza e soldati israeliani lungo la barriera che segna il confine con Israele, nel giorno dell'inaugurazione dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme e nel 70° anniversario della fondazione di
Israele. A fornire il bilancio delle vittime è il ministero della Sanità di Gaza.
Si tratta del giorno più sanguinoso nel conflitto israelo-palestinese dalla guerra del 2014. Gli ospedali di Gaza hanno lanciato appelli alla popolazione affinché giunga in massa per donare sangue. Le autorità hanno chiesto all'Egitto aiuti medici immediati e l'autorizzazione a trasferire oltre frontiera i feriti più gravi.
Israele sostiene di aver aperto il fuoco solo quando necessario per fermare attacchi, danni alla barriera di confine e tentativi di infiltrazione sul suo territorio. Il primo a morire è stato un 21enne, Anas Qudieh, a Khan Yunis, nel sud della Striscia. Poi un 28enne identificato come Musab Abu Leila, ucciso a Jabalya, a nord. Successivamente il ministero della Salute ha fornito l'identità di altri cinque morti, tra cui un minorenne: Izaldin Musa Al Samak, di 14 anni; Obaidan Salem Farhan, di 30; Mohamed Ashraf Abu Stah, 26; Izaldin Nahid al Aweiti, 23; Bilal Ahmed Abu Daqa, 26. Almeno 250 feriti sarebbero stati colpiti da fuoco vivo, altre centinaia sono intossicati da gas lacrimogeni.
In precedenza, erano 54 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza da spari israeliani dall'inizio della Marcia del Ritorno, il 30 marzo, organizzata ogni venerdì lungo la barriera per chiedere il "diritto al ritorno" a 70 anni dall'esodo del 1948.
L'esercito: «Sventato attentato terrorista di Hamas»
L'esercito israeliano accusa Hamas di «dirigere un'operazione terroristica sotto la copertura di masse di persone in 10 località a Gaza». In particolare l'esercito afferma di aver sventato un attentato vicino a Rafah, nel sud della Striscia. «Un commando di tre terroristi armati - ha detto un portavoce - stava cercando di deporre un ordigno. Le nostre forze hanno reagito e i tre sono morti». Secondo i media, i militari hanno fatto ricorso a un carro armato.
Il portavoce ha aggiunto che velivoli israeliani hanno colpito anche un obiettivo di Hamas a Jabalya, dopo che da lì erano partiti spari. Fonti locali riferiscono inoltre che un aereo da combattimento israeliano ha colpito con almeno un missile un obiettivo nel Nord della Striscia.
L'Anp chiede un intervento internazionale
Il governo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) accusa Israele di avere commesso un «terribile massacro». In una dichiarazione, il portavoce del governo palestinese Yusuf al-Mahmoud ha chiesto «un intervento internazionale immediato per fermare il terribile massacro a Gaza commesso dalle forze di occupazione israeliane contro il nostro popolo eroico». Il governo palestinese ha base a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.
Nella Striscia sciopero e mobilitazione di massa
Fin dal mattino migliaia di palestinesi si erano radunati in diversi punti della barriera, mentre cecchini israeliani erano posizionati dall'altra parte. Piccoli gruppi di manifestanti hanno cominciato a lanciare pietre verso i soldati, che hanno risposto sparando.
Nella Striscia è sciopero generale, mentre mezzi pesanti trasportano i manifestanti al confine e dagli altoparlanti delle moschee i muezzin esortano a raggiungere il milione di presenze alla protesta di massa. In concomitanza con il 70° anniversario della fondazione d'Israele, i palestinesi commemorano domani la Nakba, il ricordo delle oltre 700 mila persone costrette a lasciare le proprie case nel 1948.
Massimo dispiegamento di forze israeliane
L'esercito israeliano ha raddoppiato gli uomini sia in Cisgiordania sia al confine con la Striscia di Gaza. Un migliaio di poliziotti sono stati dispiegati a Gerusalemme per garantire la sicurezza dell'ambasciata. Jet dell'esercito israeliano hanno lanciato volantini sull'enclave palestinese esortando gli abitanti a non lasciarsi manovrare da Hamase a restare lontani dal confine. «L'esercito israeliano - si legge nel volantino in arabo - è pronto ad affrontare qualsiasi scenario e agirà contro ogni tentativo di danneggiare la barriera di sicurezza o colpire militari o civili israeliani».
Hamas: «Non moriremo da soli». Al-Qaeda chiama al jihad
Avvertimenti simili ma di segno opposto sono stati lanciati da Hamas nei giorni scorsi: in un video in ebraico il movimento si è rivolto ai residenti delle comunità israeliane vicino al confine con Gaza, esortandoli ad andarsene. «Siete stati avvisati, attraverseremo il confine e raggiungeremo tutte le vostre comunità. Non moriremo da soli». Anche il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha lanciato un appello al jihad, sottolineando che Trump, «è stato chiaro ed esplicito, e ha rivelato la vera faccia della Crociata moderna: l'essere accomodante non funziona con loro, ma solo la resistenza attraverso il jihad».
Inaugurata l'ambasciata Usa, Trump: «È un grande giorno»
È toccato a Ivanka Trump il compito di togliere il velo allo stemma sul muro della legazione americana a Gerusalemme. «A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America - ha detto la figlia di Trump - vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta all'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, capitale di Israele».
Dopo l'inno nazionale l'ambasciatore Usa in Israele, David Friedman, ha preso la parola e, quando ha menzionato Donald Trump, per il presidente Usa c'è stata una standing ovation. Friedman si è riferito alla sede dell'ambasciata parlando di «Gerusalemme, Israele», suscitando un applauso scrosciante. «Oggi manteniamo la promessa fatta al popolo americano e accordiamo a Israele lo stesso diritto che accordiamo a tutti i Paesi, cioè il diritto di designare la sua capitale», ha dichiarato l'ambasciatore.
La delegazione presidenziale alla cerimonia è guidata dal vice segretario di Stato John Sullivan; ne fanno parte anche la figlia e il genero di Trump, rispettivamente Ivanka Trump e Jared Kushner, entrambi collaboratori della Casa Bianca, nonché il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin. Partecipano circa 800 ospiti.«La nostra più grande speranza è la pace» ha detto Trump, in un messaggio preregistrato. «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - rimangono pienamenteimpegnati a facilitare un accordo di pace duraturo».
Tra i 32 Paesi rappresentati presenti anche 4 Paesi europei (Austria, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania) nonostante la ferma condanna di Bruxelles per la decisione di Washington. Nessun delegato invece dell'Unione Europea, né di Russia, Egitto e Messico. Calorosi ringraziamenti a Trump erano già stati espressi ieri dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha esortato altri Paesi a trasferire le proprie ambasciate a Gerusalemme.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Nena News,
«Intervista a Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex presidente della Knesset: "La società israeliana si è radicalizzata perché, come nel resto del mondo, il welfare è stato demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale da politiche identitarie"»
«Bombe israeliane su Damasco (ormai di una frequenza inquietante), missili siriani sul Golan, decisioni unilaterali dell’amministrazione Usa stanno conducendo la regione verso una pericolosa escalation bellica. Ne abbiamo discusso con Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, già presidente della Knesset, ex membro del Partito laburista e oggi della formazione di sinistra Hadash.
I
l conflitto che Israele sta costruendo contro l’Iran si fa concreto. Quali sono gli obiettivi del governo Netanyahu?
Sono diversi. La prima ragione delle manovre tra due dei principali attori regionali, Israele e Iran, è l’immediato futuro della Siria, una lotta tattica e strategica. Spostandoci sul medio termine, la motivazione di Israele è evitare la libanizzazione della Siria, con milizie in stile Hezbollah, e dunque evitare che proxy dell’Iran si stabilizzino ai confini israeliani. La motivazione iraniana è opposta: una striscia di terra che dall’Iran passi per le zone sciite irachene, la Siria fino al Libano. Il terzo elemento, quello di lungo periodo, è la creazione da parte israeliana di una zona di influenza, in contrasto con quella iraniana: una coalizione Usa, Israele, Egitto e Arabia saudita, dove i sauditi giochino da pivot della coalizione.
Di nuovo giovedì il ministro della difesa israeliano Lieberman ha lanciato un appello ai paesi del Golfo per la creazione di un asse anti-Teheran.
Non sono però così certo che una tale alleanza possa reggere. Il Medio Oriente non è quello che si vede, è luogo pieno di specchi: non sai mai qual è l’oggetto reale e quale il suo riflesso. Di base, se si vuole dividerlo tra sciiti e sunniti, è chiaro che Israele ha scelto il secondo fronte. Ma se si va a vedere in profondità non è così semplice. Un esempio: l’Iran sostiene Hamas che è una formazione sunnita. Il Medio Oriente è come il caffè arabo: bisogna aspettare che la polvere si posi in fondo alla tazzina per capire. Per questo non sono affatto sicuro che una simile alleanza possa davvero realizzarsi: in mezzo ci sono diversi elementi che potrebbero interferire, a partire dal ruolo della Turchia.
In tale contesto la società israeliana ha vissuto una polarizzazione ulteriore, dagli anni ’90 si è spostata a destra, si è radicalizzata. Un effetto delle politiche dei governi post-laburisti o la trasformazione è avvenuta alla base?
Se si guarda al processo vissuto dall’Italia negli ultimi 20 anni è piuttosto simile a quello in Israele: le politiche di Berlusconi e Netanyahu sono entrambe state fondate sull’apparenza mediatica, mentre il welfare veniva demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale distrutta da politiche identitarie. Il processo è identico, globale. La differenza sta nella presenza, in Israele, di un conflitto con i palestinesi che si sviluppa nell’ambito di dinamiche di trasformazione delle società e frammentazione della solidarietà interna.
Il nemico interno collante di una società frammentata sul piano socio-economico: i palestinesi sono lo strumento per evitare l’esplosione di conflitti interni?
Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione interna israeliana e la radicalizzazione dell’attitudine verso i palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità di interessi da parte dei paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa bianca e un’Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con Oslo, che sostengano l’apertura di un dialogo.
Viene meno anche la legalità internazionale: il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, lunedì, è un atto simbolico o il preludio a cambiamenti strutturali?
Trump non ha una politica chiara, è impossibile definirlo e comprenderlo. È possibile che oggi ripaghi i suoi amici conservatori in America e in Israele e che domani invece «ricatti» Israele: ho spostato l’ambasciata, ho creato un conflitto con l’Iran, ora dovete accordarvi con i palestinesi. Chissà. Di certo l’Occidente ha perso il controllo su tutto e Israele fa quel che vuole. A muovere i fili in Medio Oriente sono i vari imperi e i loro alleati locali, l’impero americano, il russo, il persiano e quello neo-ottomano.
Israele, allo stesso tempo, gode ancora di appoggio in Europa per la crescente islamofobia e perché visto come modello di sicurezza.
Non esiste un’Europa sola, ma due: un’Europa dell’est che d’improvviso si scopre «giudeofila» per giustificare la sua islamofobia; e poi un’Europa dell’ovest preda di poteri nuovi come in Italia i 5stelle, che non hanno idea della questione. In tale caos dominato dalla paura, in nome di una falsa sicurezza si sacrificano i diritti. E il modello è Israele.