«Alla domanda "chi è il vero romano", il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: "uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso"».
la Repubblica, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)
Come si sa i quattro nonni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non erano nati in America, ma in Europa. Di conseguenza il fatto che fra i primi provvedimenti presi da un presidente nipote di immigrati ci sia proprio un blocco dell’immigrazione suona paradossale. Tanto più se questo avviene in un paese come gli Stati Uniti nel quale, come in questi giorni sempre più spesso si ripete, tutti gli abitanti sono in definitiva degli immigrati o discendenti di immigrati. I bostoniani, che vantano come antenati i protestanti inglesi guidati da John Winthrop, di per sé non sono diversi dai latinos appena approdati alle periferie di Los Angeles: vengono comunque tutti “da fuori”.
Chi è dunque il “vero” americano, quello dell’America first, che ha il diritto di vivere sicuro dentro i “suoi” confini? Difficile rispondere a questa domanda. Forse qualcuno potrebbe sostenere che i “veri” americani sono in realtà solo i nativi che i coloni europei sterminarono o chiusero nelle riserve. Se non fosse, però, che anche loro sono giunti là dove ora si trovano venendo ugualmente “da fuori”.
Apache e Navaho, per esempio, ossia le popolazioni che vivono nel sud ovest degli Stati Uniti, provengono in realtà dall’Alaska; e dopo un viaggio di qualche migliaio di chilometri si sono stanziati nei territori attuali più o meno nel periodo in cui Colombo sbarcava nel “nuovo” continente. Tutto questo per dire che la risposta alla domanda «chi è il vero x?» — quando a x si sostituisce un sostantivo come “americano”, “italiano”, “francese” … — può ricevere solo risposte di tipo cinico o opportunistico se si è in campagna elettorale; oppure risposte di tipo più meditatamente giuridico se il discorso riguarda non il problema dell’etnia, della cultura o della religione, ma quello della cittadinanza. Esiste però una terza possibilità: che a questa domanda si dia una risposta di tipo mitologico.
È quanto fecero gli ateniesi nel quinto secolo a. c., dando vita a quel mito che porta il nome di “autoctonia”: secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati direttamente generati dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa mitica razza vantava naturalmente anche i propri antenati: si trattava di re che avevano per metà corpo di serpente, cioè l’animale più ctonio, più terrestre che si conosca. I cittadini ateniesi del V secolo, insomma, si presentavano come i “veri” ateniesi per il semplice motivo che quella terra non era stata mai abitata da nessuno fino al momento in cui essa stessa, la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.
L’autoctonia ateniese era ovviamente una favola, non solo perché la terra non ha mai partorito nessuno, ma perché anche gli abitanti dell’Attica erano venuti “da fuori” in tempi più o meno recenti. Questo mito però venne abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora, soprattutto discorsi pubblici e immagini che circolavano dipinte sui vasi; e l’immagine degli ateniesi, che in quegli anni combattevano contro gli spartani, ne uscì rafforzata, dentro e fuori le mura della città.
Atteggiandosi a “nati dalla terra”, infatti, essi potevano accreditarsi come uomini di cui non era possibile mettere in discussione la eugéneia, la “buona nascita”, visto che non si erano mai mischiati con altri popoli; una stirpe che amava come nessun’altra la propria patria (come si potrebbe non amare la propria “madre”?) e che soprattutto aveva raggiunto la civiltà da sola e prima di tutti gli altri. Attraverso il mito dell’autoctonia gli ateniesi erano dunque riusciti a dare una risposta alla difficile domanda «chi è il vero x?». Nello stesso tempo, però, essi avevano risolto una volta per tutte anche il problema degli immigrati e della loro posizione nella città.
Vero ateniese, infatti, poteva essere considerato solo il figlio di genitori entrambi ateniesi, ossia chi per via di sangue discendesse da quella stessa terra su cui abitava. Di conseguenza costui era anche l’unico a poter usufruire della qualifica di cittadino e l’unico che aveva il diritto di sedere in assemblea: luogo magico della democrazia ateniese. Tutti gli altri, gli stranieri che pur vivevano o lavoravano in città, ne erano esclusi. Né avrebbero mai potuto aspirare a diventare cittadini di Atene — non erano mica “autoctoni”.
Mito per mito, però, ce n’è un altro che ha ugualmente cercato di rispondere alla domanda «chi è il vero x?»: ma che preferiamo di molto a quello escogitato dagli ateniesi. Ci viene da Roma. Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non solo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione; ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secondo il mito romano, dunque, la città di Roma era sorta su una terra non solo “mista” di molte altre terre, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città. Al contrario di Atene, insomma, a Roma non era stata la terra a partorire gli uomini, ma gli uomini a fabbricare la propria terra.
Alla domanda «chi è il vero romano», dunque, il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso. Penso che questo mito meriterebbe di essere diffuso e fatto conoscere con tutti i mezzi mediatici che oggi abbiamo a disposizione: soprattutto là dove assieme ai fili spinati si moltiplicano gli appelli alle radici e il discorso pubblico si articola ossessivamente attorno al pronome “noi”. Questo mito ci aiuterebbe perlomeno a pensare a siriani, iracheni, sudanesi o libici in fila di fronte al blocco degli immigration points: ciascuno con una zolla di terra nella valigia.
il manifesto, 31 gennaio 2017 (p.d.)
L’inizio della presidenza Trump si può considerare come l’ultima ed estrema affermazione di una destra ultranazionalista e xenofoba che da alcuni anni sta montando nei maggiori paesi europei. Pur tra le differenze, che non si possono trascurare, v’è un elemento comune e fortemente caratterizzante di queste espressioni politiche: la decisa avversione all’immigrazione.
E’ stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. E’ questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei. Il fatto, poi, che governi di centro-sinistra o persino socialisti inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginare i loro guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica.
Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste. Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile. In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa.
Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nella status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. E’ in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno, avvertito come pericoloso. Un sentimento sul quale è facile far leva per le destre come per tutti i ceti dirigenti incapaci di autentica azione di governo e orientamento politico, ma solo di amministrazione dell’esistente al servizio degli interessi dominanti.
In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione. Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, “civiltà”. L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia. L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni.
Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria. La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e nel secondo dopoguerra, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno.
Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Significa cominciare a far valere una verità elementare. E cioè che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità.
«Decisione-shoc dell’Alta Corte federale: il nuovo governo africano è autorizzato a revocare la licenza per il maxi-giacimento OPL245. L’ordinanza conferma le accuse della procura di Milano: mega-corruzione da oltre un miliardo di dollari».
l'Espresso online, 27 gennaio 2017 , con postilla (p.s.)
Ora la società italiana rischia di perdere le più grandi riserve di greggio del continente nero dopo averle pagate ben 1.092 milioni. Destinati allo Stato, ma finiti in realtà agli ex ministri corrotti.
L'Eni rischia di perdere il maxi-giacimento delle tangenti africane. La Commissione d'inchiesta sui crimini economici e finanziari della Nigeria ha ottenuto dall'Alta Corte Federale un'ordinanza che autorizza il governo ad intimare alla società italiana e alla Shell di restituire la licenza per sfruttare il giacimento OPL 245, che è da tempo al centro di indagini italiane e internazionali per una presunta corruzione da oltre un miliardo di dollari.
L'Eni e Shell si erano aggiudicate la licenza nel 2011 firmando l'accordo con l'allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan. La società italiana si è sempre difesa sostenendo di aver trattato solo con il governo e di aver versato l'intero prezzo (1.092 milioni di dollari) su un conto intestato all'esecutivo nigeriano. La procura di Milano, in collaborazione con gli inquirenti olandesi, britannici e americani, ha però scoperto che il conto del governo è stato interamente svuotato: tutti i soldi sono finiti a politici e faccendieri tra cui spicca l'ex ministro del petrolio Dan Etete, che in sostanza si era auto-assegnato il giacimento dietro lo schermo di una società offshore chiamata Malabu.
Oltre 500 milioni di dollari sono stati poi dirottati sui conti di un certo Abubakar Aliyu, un presunto fiduciario e tesoriere dell'ex presidente Jonathan e di altri ministri del suo governo. Alla fine lo stato e il popolo nigeriano non hanno intascato un soldo.
L'ordinanza firmata ieri mattina dal giudice federale John Tsoho, in sostanza, autorizza formalmente il governo nigeriano a revocare la concessione e a imporre all'Eni e alla Shell di restituire il giacimento. L'Alta Corte, nel provvedimento, precisa che l'incheista della Commissione per i crimini economici è ormai prossima alla conclusione. Anche la Procura di Milano ha ormai chiuso la sua inchiesta: tra gli indagati per corruzione internazionale spiccano l'attuale numero uno dell'Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni, primo responsabile dell'accordo. Entrambi sono stati interrogati e hanno negato qualsiasi responsabilità. Anche la Shell è stata indagata e perquisita dalla polizia olandese.
Con il via libera dell'Alta Corte, le autorità nigeriane hanno formalmente avviato la procedura che può portare alla revoca defintiva della licenza, che riguarda il più più grande giacimento scoperto in Africa, con riserve stimate per oltre 9 miliardi di barili di greggio.
Antonio Tricarico, responsabile italiano dell'organizzazione internazionale “Re:Common”, che fu la prima a denunciare il caso di corruzione alla procura di Milano, commenta così la svolta giudiziaria in Nigeria: «In quanto più grande azionista dell'Eni, il governo italiano deve intervenire al più presto e fare piena luce sul caso OPL245».
Nick Hildyard, a nome dell'altra organizzazione internazionale che ha seguito il caso, The Corner House, ha confermato la grande importanza del provvedimento giudiziario: «Ci complimentiamo con il nuovo governo nigeriano per la lotta contro la corruzione che sta conducendo».
«Questo è un evento storico», ha aggiunto Simon Taylor di Global Witness: «Generazioni di nigeriani sono stati derubati dei servizi essenziali, mentre i signori del petrolio si sono arricchiti a loro spese. Ora Shell ed Eni devono finalmente affrontare le conseguenze delle loro azioni: le aziende e i loro investitori devono capire che non possono più fare affari con i corrotti senza pagare un prezzo pesante».
postilla
Era ora che fosse cacciato, dall'Africa (si spera che vada a finire così) una delle corporation del Primo mondo che più ha concorso e concorre a provocare le devastazioni, le miserie e e le guerre che obbligano gli africani a cercare la via della fuga verso i paesi parassiti del Primo mondo. Poco male se il renzismo sarà più debole.
».
la Repubblica, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
La battaglia politica è in corso e gli esiti sono ancora incerti, ma quella dei numeri è già vinta. I profughi stanno dando una spinta notevole all’economia tedesca. La scommessa della cancelliera Angela Merkel di una politica generosa con i rifugiati - pensata soprattutto in prospettiva, come un beneficio demografico - sta dando già i suoi frutti. E, a giudicare dal bilancio per il 2016 diffuso ieri dal ministero delle Finanze, anche una seconda sfida di Merkel si sta rivelando vincente: quella su Mario Draghi.
La cancelliera ha sempre fatto scudo al presidente della Bce contro il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, che punta il dito da mesi - come tre quarti della Germania - contro i mini tassi di interesse. Ebbene, con quei rendimenti azzerati sul debito, il guardiano dei conti ha ormai una cassaforte che scoppia. E, grazie ai rendimenti negativi sui propri titoli di Stato, ha persino guadagnato soldi facendo debiti: 1,2 miliardi. Ma non ditelo al Paese dove “debito” e “colpa” sono sinonimi.
Intanto, le miriadi di centri di accoglienza e di appartamenti messi a disposizione dei richiedenti asilo, le migliaia di persone assunte nel settore pubblico per far fronte all’emergenza, le spese sostenute per adeguare i ministeri, le frontiere, le strutture pubbliche alla sfida storica del biblico esodo dal Medio Oriente, ma anche i consumi del milione e oltre di disperati fuggiti dalle guerre e dall’Isis, stanno facendo da gigantesco volano all’economia. Nel 2016 il Pil tedesco è cresciuto dell’1,9% e le entrate fiscali sono letteralmente esplose. Nonostante il governo abbia speso quasi 22 miliardi di euro per i profughi (ma 7 miliardi sono stati investiti nei Paesi di provenienza), il ritorno è stato notevole. Per il terzo anno consecutivo, i conti chiudono con un ricco sovrappiù di 6,2 miliardi di euro. Non solo grazie i richiedenti asilo, ovviamente, ma un contributo importante è arrivato da lì.
Per un Paese abituato ad associare i grandi piani congiunturali alle dittature più feroci e a diffidare profondamente di Keynes, è sempre difficile ammettere che la spesa pubblica spinga l’economia. Nella patria dell’ordoliberalismo, sono stati pochi gli economisti a leggere nei dati diffusi ieri dal ministero delle Finanze quello che c’era da leggervi (e men che meno sono stati i funzionari di Wolfgang Schaeuble ad ammetterlo nel rapporto). Tra le mosche bianche, il capoeconomista dell’autorevole istituto di ricerca DIW, Ferdinand Fichtner: «Possiamo considerare (le spese sostenute per l’arrivo dei profughi, ndr) come un gigantesco piano congiunturale.
Una gran parte dei soldi è stato trasmesso all’economia attraverso le spese per il sostentamento dei rifugiati, per i loro affitti, per gli investimenti in infrastrutture, eccetera. Mi riferisco ad oltre il 90% di quelle spese». L’altro grande rimosso di Berlino è Draghi. Le sue tanto vituperate politiche monetarie, improntate ormai da anni ad una strategia di tassi azzerati non soltanto stanno tenendo debole l’euro, come ha confermato nei giorni scorsi la Bundesbank, facendo un regalo al tradizionale campione delle esportazioni, alla “Cina d’Europa”.
Stanno anche, per stessa ammissione del sottosegretario alle Finanze, Thomas Steffen, aiutando il più austero dei guardiani dei conti a mantenere le finanze pubbliche in ordine. Il 2016, spiega Steffen, è «il terzo anno consecutivo di pareggio di bilancio », grazie ad uno «sviluppo congiunturale robusto», ma anche a «risparmi sugli interessi del debito». Timido, ma inconfutabile.
«Serbia.Ottomila richiedenti asilo bloccati, 1500 vivono alle porte della Capitale senza bagni né riscaldamenti in un deposito dei bus».
il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2017 (p.d.)
Il viso strisciato di nero sbuca da un sarcofago di coperte. Gli addominali si flettono, un ragazzo non ancora ventenne sputa con tutta la forza che riesce a raccogliere. La saliva è bruna, mista a fuliggine. Due colpi di tosse e, dopo il tonfo sordo del corpo che si accascia a terra, torna il silenzio. Il freddo non dà tre gua, per tutta la settimana scorsa il termometro è oscillato tra i due e i meno 20 gradi centigradi. La neve diventa ghiaccio che calpestato si trasforma in acqua sporca, scarpe e vestiti si inzuppano. L’umidità corrode i tessuti e attacca la pelle, ogni taglio diventa una piaga. L’unica soluzione è il fuoco. Non si possono contare i roghi all’interno dei quattro capannoni della stazione ferroviaria abbandonata. I fuochi accesi al chiuso vengono alimentati da plastica e vecchie traversine ferroviarie incatramate.
L’invito (scaduto) della Merkel
Sono almeno 1500 i ragazzi bloccati in questi fabbricati sulla riva dello Sprea. Afghani e pachistani, migranti che decine di mesi fa hanno sentito nei racconti degli amici già partiti, dell’apertura europea ai profughi. Probabilmente si sono messi in viaggio quando l’invito della cancelliera Angela Merkel non era già più valido.
“Riaprono i confini?”, chiedono come una litania ai giornalisti e volontari, l’unico contatto con il mondo esterno. Ed è difficile spiegare che l’accoglienza è finita, che era solo per i siriani e per un tempo limitato, già terminato. “Le frontiere si chiudono per un mese, un anno, non per sempre”, risponde Imad, 17 anni, afghano con un berretto verde militare calcato sulla fronte. Aspetta da mesi, a ogni sua parola un fumetto di vapore esce dalla bocca. In quattro sono seduti sulle strutture metalliche di alcune sedie. Le parti in legno sono ormai brace.
Mentre vivono la distanza da casa, pensano alla meta. Quella che li ha fatti partire, la ricca Baviera, è ormai inarrivabile, quindi ne scelgono un'altra. “Sono qui da quattro mesi – racconta Kaleem Khan – sono in marcia da oltre un anno. Volevo andare in Germania, ma adesso anche loro fanno i rimpatri. Meglio l’Italia, da voi danno i documenti agli afghani”. Kaleem ha 23 anni e prima di partire per il sogno europeo non si era mai allontanato da casa per più di una giornata di cammino. La sua famiglia è in Pashtunistan, nella zona occidentale del Pakistan, regione della minoranza pashtun. Con ogni probabilità, per ottenere il visto umanitario, dirà alle autorità italiane di essere afghano. La lingua è la stessa e i suoi tratti somatici, occhi affilati e gote alte, non tradiscono la nazionalità del suo passaporto. Il confine tracciato, a tavolino a fine 800, dalla linea Durand non ha cancellato la sua identità culturale afghana, ne ha limitato il potere dei talebani nel suo villaggio.
In coda per una ciotola di zuppa calda
Una volta al giorno, i sogni di questi giovani si mettono in coda. Anche con la neve, un gruppo di volontari porta una zuppa calda, ce n’è sempre per tutti. Gli attivisti
si sono conosciuti a Idomeni, il campo dove decine di migliaia di persone si sono ammassate dopo la chiusura della rotta balcanica. Come durante la scorsa primavera al confine greco-macedone, gli unici europei sempre a disposizione sono una manciata di studenti con piercing e capelli colorati. E a forza di aiutare e parlare, questi coetanei iniziano a condividere anche prospettive e analisi politiche. Lo scorso fine settimana sono apparse, su diversi muri del deposito, frasi scritte con la bomboletta in un inglese incerto. “Rifugiati non terroristi” e “Aiutateci” e “Abbiamo bisogno di scarpe”.
In Serbia al momento sono bloccati quasi 8000 richiedenti asilo. Ai 1500 che vivono senza bagno né riscaldamento nel deposito dietro la stazione dei bus, si devono aggiungere diverse centinaia di accampati per strada o in occupazioni abitative. Mentre nei campi ufficiali, sparsi in tutto il Paese, sono ospitati in 6000. Krnjaca, alle porte della Capitale, ha una storia ventennale. Qui sono stati accolti i profughi croati e bosniaci degli anni Novanta, ora ci vivono 1154 persone. “La metà sono afghani – racconta Ivan Miskovic, responsabile governativo del campo – tutte famiglie e soggetti vulnerabili”. Le casette che compongono il centro racchiudono una serie di stanze di pochi metri quadrati.
Lo scultore diventato barbiere
Un armadio e due, tre, quattro letti a castello, fino a riempire ogni spazio. Tutto bianco, pulito, asettico. Anche i vialetti tra le baracche sono candidi, il sole rimbalza sulle lastre di ghiaccio che ricoprono tutto. Accecato dalla luce un bimbo piega la testa a favore dell’uomo che gli sta tagliando i capelli. Il barbiere, afghano come il suo giovane cliente, è in realtà uno scultore. Con lui ci sono la moglie e due ragazzi di 17 e 17 anni. “Siamo stati minacciati a lungo – racconta Shafiullah, il figlio maggiore – mio padre è un artista, ma secondo alcuni non rispetta i precetti religiosi islamici. Scolpisce figure umane”. Sono in questo campo da oltre cinque mesi e aspettano di poter andare in Ungheria, legalmente. “Il nostro numero è il 423, oggi hanno fatto passare il 404 e il 405. È quasi finita”.
Nelle comunità migranti nel nostro continente le potenzialità per la rinascita di Africa e Medio Orientee per rendere concreta una strategia di pace nel mondo. Respingimenti e xenofobia alimentano invece il terrorismo». il manifesto, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)
Fermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento.
Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità.
L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo.
La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi.
Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange.
E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
Riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.
«Dobbiamo dimostrare che la libertà e la sicurezza sono possibili solo se riusciamo a rompere l’isolamento che i restringimenti alla libera mobilità e l’attacco ai salari e al welfare stanno imponendo su tutti: migranti, precarie ed operai».
connessioniprecarie online, 9 gennaio 2017 (c.m.c.)
L’anno nuovo dei migranti inizia con la svolta securitaria annunciata da un governo nato per portare al voto il paese. Gli annunci dicono che a Bologna come in altre città italiane riapriranno i Cie (uno per ogni regione), mentre il ministro degli Interni e il capo della Polizia promettono una stretta nella politica delle espulsioni: controlli sui luoghi di lavoro per scovare gli irregolari e intensificazione degli accordi bilaterali con i paesi di provenienza per assicurare i rimpatri. L’obiettivo è raddoppiare le espulsioni, che quest’anno si sono fermate a “sole” 5000. La speranza è di raggiungere le 20000 all’anno.
Apparentemente è l’esibizione di forza di un governo che si fa vanto di aver casualmente incontrato in un controllo di routine per le strade di Sesto San Giovanni l’uomo che ha messo a segno la strage di Berlino. Si mettono in mostra i muscoli per convincere i cittadini, a cui il mix di crisi e politiche neoliberali ha sottratto salario e strappato via diritti e welfare, che lo Stato si preoccupa della loro sicurezza. È un risarcimento per chi in questi anni ha perso molto, se non tutto. Perché la sicurezza, come si usa dire negli ambienti di governo, non è un tema della destra, ma riguarda tutti. Per la verità, questo simulacro di sicurezza è l’unica cosa che questo governo può offrire ai cittadini che a breve saranno chiamati alle urne, dato che di fare marcia indietro su Jobs Act, voucher e tutto ciò che ruota attorno a salario e welfare non se ne parla proprio.
La tranquilla e regolare forza dello Stato e l’eroismo dei singoli, che quando non salutano con la mano tesa sanno piazzarla sul grilletto per sparare: è la ricetta per contenere una rabbia diffusa e poco disposta a seguire indicazioni politiche. I migranti sono così l’oggetto di uno scambio talmente ignobile da non poter essere nominato: cacciamo loro perché non possiamo e non vogliamo scacciare le vostre paure quotidiane.
Non si tratta però soltanto di pura retorica autoritaria. Dopo aver respinto le domande di asilo di decine di migliaia di migranti bisognerà pure trovare un posto dove metterli, che non siano i parchi e i ponti dove già vivono. Cie ed espulsioni rientrano allora nella logica del razzismo istituzionale. Sono il tassello mancante, e tutto sommato più a buon mercato, della politica dei dinieghi e dell’emergenza con cui fino ad ora è stato governato l’afflusso dei migranti rifugiati.
Contro questa politica, nelle ultime settimane, a Bologna, Milano e Roma i migranti hanno rotto il silenzio civile e civico su come viene gestita la presenza dei richiedenti asilo, denunciando come il razzismo istituzionale di Questure e Prefetture produca una situazione di attesa in cui i migranti sono costretti a lavorare in condizioni di assoluta precarietà.
Un minimo di realismo permette di capire che la svolta securitaria non può essere e nemmeno vuole essere la soluzione finale alla clandestinità. Essa appare piuttosto come un tentativo di diminuire il numero di migranti sulla soglia dell’irregolarità e inviare un messaggio prima che la bolla dei dinieghi esploda. La cifra di 10000 espulsioni annue è infatti irrisoria: solo nel 2015 le commissioni territoriali hanno “prodotto” 41mila clandestini, per non parlare di chi perde il permesso di soggiorno perché manca lavoro o per reddito insufficiente, o delle crescenti difficoltà di ottenere i documenti dalle Questure, che ormai ritirano le carte di soggiorno perfino ai minori. Il messaggio è per i migranti, ma anche per chi migrante non è: l’unico scopo possibile è quello di perpetrare una segmentazione del mercato del lavoro funzionale a tenere i salari sotto controllo.
La riapertura dei Cie è allora una misura di prevenzione che conserva e anzi intensifica le condizioni per lo sfruttamento, tanto più che il lavoro nero potrà continuare a contare su un discreto bacino d’utenza. La vita nei nuovi Cie sarà poi come quella molti migranti hanno già hanno già conosciuto nei vecchi Cie. Sarà un’esistenza ingiusta, misera e indifferente come quella che sperimentano oggi nei centri di accoglienza. Per questo e non per altro la storia dei Cie e dei centri d’accoglienza è costellata di rivolte, da ultima quella che ha coinvolto il centro di Cona.
Nella filiera che dalle commissioni territoriali alle Questure arriva fino alle espulsioni, passando per i Cie, si produce dunque clandestinizzazione mobile e flessibile, che assicura la presenza di una forza lavoro migrante sulla soglia dell’irregolarità che, se non vuole essere espulsa, deve accettare il ricatto insito nella propria condizione. A loro e agli altri, operai e precarie, si garantisce esclusivamente di mantenere inalterata la propria solitudine.
Contro questo esito non basta un moto d’indignazione democratica e in pelle bianca. C’è bisogno di uno scarto profondo nei comportamenti e nelle scelte politiche. Nessuno può pensare di approfittare della vetrina mediatica per farsi pubblicità con proclami e iniziative simboliche. Queste cose ci sono state già troppe volte e non sono più accettabili. Chi davvero vuole opporsi alla riapertura dei Cie deve necessariamente coniugare il proprio antirazzismo con l’iniziativa autonoma dei migranti.
Occorre oggi la capacità di attaccare la solitudine alla quale il piano securitario vuole condannare tutti, partendo dai migranti anche perché i migranti stessi stanno indicando una strada: la necessità di ribellarsi a una politica della paura che vuole mettere a tacere non solo i migranti, ma anche precari e precarie, operai e operaie. Stabilire una connessione tra tutte queste figure è la sola strada per opporsi alla riapertura dei Cie in Italia e a Bologna.
La nostra risposta deve superare i confini angusti della nostra giusta indignazione. Deve mostrare che la riapertura dei Cie vuole colpire con più violenza i migranti per chiudere altri spazi di libertà e mettere politicamente a tacere anche chi pensa così di essere più “sicuro”.
Contro l’ignobile scambio che ci viene proposto dobbiamo dimostrare che la libertà e la sicurezza sono possibili solo se riusciamo a rompere l’isolamento che i restringimenti alla libera mobilità e l’attacco ai salari e al welfare stanno imponendo su tutti: migranti, precarie ed operai.
«In Italia infatti a fronte delle migliaia di migranti spesso concentrati nelle stesse strutture in condizioni bestiali, esiste un patrimonio vuoto o inutilizzato di case o appartamenti superiore ad otto milioni di unità». il manifesto
, 7
gennaio 2017 (c.m.c.)
Assistere agli spettacoli da dannati della terra» offerti, oggi come ieri, da Cpa e Cie – e per di più nel nostro paese con milioni dei case vuote da rendita finanziario-immobiliare – è mostruosamente grottesco e inaccettabile. Sono da condividere le uscite di coloro che in queste ore ricordano i continui e clamorosi tragici fallimenti delle strutture a grande concentrazione di immigrati, le tristi sigle di questi anni: Cpa, Cie , Cat, per indicare soluzioni molto diverse. Così come da condividere sono le posizioni di chi – come Luigi Manconi- argomenta la sostanziale mistificazione che sta dietro alla categoria di clandestino; laddove sostanzialmente tutti coloro che arrivano (ormai riconosciuti e schedati) fuggono da disastri sociali o bellici o ambientali.
Sarebbe bene che Marco Minniti guardasse più a Papa Francesco e meno a Matteo Salvini; i tentativi di mediazione impossibili tra approcci troppo diversi, se non opposti, hanno significato disastri,troppo spesso.
Il frettoloso annuncio di «una stretta a controlli e espulsioni» rischia di mettere in crisi quel poco di buono che il governo – tramite le prefetture – sta esprimendo, in termini di presa d’atto dei fallimenti delle macrostrutture citate (a parte sprechi ,corruzione e mafie) e di cooperazione con i comuni disponibili e con l’Anci per l’inserimento di ridotti nuclei di migranti in quanti più comuni possibile. Tali strategie possono e devono diventare politiche permanenti nel periodo medio-lungo . Da comprendere nelle azioni di riqualificazione urbanistica e sociale di città e territori.
In Italia infatti a fronte delle migliaia di migranti spesso concentrati nelle stesse strutture in condizioni bestiali, esiste un patrimonio vuoto o inutilizzato di case o appartamenti superiore ad otto milioni di unità (Istat,2011) ; di queste quasi il 60 % sono effettivamente vuote . Mentre circa 450.000 edifici risultano completamente abbandonati. E parliamo solo di abitazioni, perché se aggiungiamo i volumi ex industriali e commerciali le cifre crescono di molto.
Il «vuoto nazionale» è talmente rilevante da costituire un enorme monumento allo spreco sociale , economico e ambientale.
Oltre che una ferita al paesaggio del Belpaese , anche per il consumo di suolo che ha comportato. Le cifre sono tali da permettere non solo azioni di accoglienza molto più vaste di quelle di cui oggi si parla , ma anche il totale soddisfacimento della domanda abitativa da disagio interno (poco più di 250.000 famiglie: solo le case vuote di Roma e Milano basterebbero quasi a soddisfare tale domanda).
Un problema è rappresentato dal fatto che oltre due terzi di tale patrimonio è privato . Ma proprio per questo l’accoglienza deve diventare una delle componenti fondamentali delle azioni, non solo abitative ma di nuova qualità civile e ambientale delle città. Come già avviene in alcuni comuni – in primis Riace in Calabria – si possono ricercare accordi che portino a protocolli di utilità sociale con i proprietari disponibili (che ne hanno il vantaggio del riuso del bene, spesso con azioni di piccola ristrutturazione o manutenzione straordinaria).
Mentre, laddove la proprietà è rappresentata da persone non fisiche – spesso immobiliari a scopo di lucro – che tengono fuori dal mercato sociale milioni di appartamenti, sovente esentasse perché dichiarati «beni destinati alla vendita» (tutti gli ultimi governi hanno annunciato di voler cancellare tale paradossale iniquità, ma ancora non è successo nulla) vanno ricercati gli idonei strumenti coercitivi: dalla tassazione progressiva sul vuoto/inutilizzato fino alla requisizione per pubblica utilità
L’Anci sottolinea come i migranti ospitati potrebbero svolgere a paga sociale lavori utili alle strutture urbane come raccolta differenziata, piccole riparazioni, cura degli arredi del verde, etc. In realtà – come sottolineato di recente dalla Società dei Territorialisti- tale presenza può agire aspetti molto più strutturali, favorendo la ricostituzione di tessuti socioculturali, oggi spariti, fino alla riqualificazione dei paesaggi urbani e abitativi.
Di più i migranti possono essere gli attori principali di opzioni di sviluppo sostenibile territorializzato – più che mai necessari-soprattutto nei centri abbandonati, che, come già avviene in alcuni contesti meridionali, possono vivere nuove stagioni di sostenibilità sociale legate all’agrorurale e al visiting socioculturale del paesaggio, per esempio. I centri della Piana di Gioia Tauro possono vedere un futuro di riqualificazione sostenibile legato alle strategie di accoglienza, se i migranti passano dai campi simil-profughi in cui vivono oggi a Rosarno e dintorni ad abitare le strutture vuote dei paesi del contesto.
«Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione».
il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)
Il Ministro dell’interno, Marco Minniti, che è persona intelligente e tutt’altro che sprovveduta, già ha dovuto ridimensionare l’annuncio sfuggitogli, nonostante l’accortezza che connota il suo stile pubblico. Il proposito di istituire «un Cie in ogni Regione» ha avuto vita breve, appena una manciata di ore, ed è sembrato rispondere più all’intento di sedare ansie diffuse che a quello di realizzare una strategia razionale. Per una serie di ragioni rivelatesi, alla luce dalla storia pregressa dei Cie (dal 1998 a oggi), inconfutabili.
In estrema sintesi, i Cie rappresentano un autentico fallimento. Prendete quella sigla: l’acronimo richiama due funzioni – identificazione ed espulsione – che costituiscono lo statuto giuridico dei Cie e la loro sola finalità normativa.
Nel tempo trascorso dall’approvazione della legge n. 40 del 1998, l’identificazione ha riguardato solo una quota minoritaria degli stranieri trattenuti in questi centri: e il dato stride con quella percentuale di oltre il 94% di identificati, grazie a procedure e a strutture diverse da quelle dei Cie, tra le persone sbarcate in Italia nel 2016. Insomma, in base a quanto appena detto, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita.
Per quanto riguarda le espulsioni, la vicenda di Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è la dimostrazione più limpida, e allo stesso tempo drammatica, di come tutte le misure di cui in questi giorni si è discusso con tanta foga siano approssimative, anche quando utili; e ancora più spesso sgangherate, quando si affidano a messaggi emotivi, destinati a blandire le pulsioni più oscure della società. Anis Amri trascorre quattro anni in un carcere italiano e viene poi trattenuto nel Cie di Caltanissetta, dove viene avviata la pratica di espulsione. Ma accade che le autorità consolari della Tunisia, che pure ha sottoscritto un accordo per la riammissione, si rifiutano di riconoscere Amri come connazionale.
Di conseguenza, il provvedimento di espulsione risulta ineseguibile e Amri, che ha espiato la sua pena, torna libero. Ma il futuro esecutore della strage di Berlino è persona identificata, riconosciuta, fotosegnalata, della quale sono state rilevate le impronte digitali e il cui curriculum criminale e giudiziario, sociale e persino politico (si ipotizza una possibile radicalizzazione) è stato regolarmente depositato nella banca dati europea. Quella banca dati a cui accedono le forze di intelligence e di polizia dei diversi paesi dell’Unione. Nonostante ciò, Amri non solo può organizzare e realizzare il suo progetto terroristico, ma può attraversare tre (forse quattro) paesi europei prima di trovare la morte a Sesto San Giovanni.
Se ne ricava che anche provvedimenti opportuni, come gli accordi con le nazioni extraeuropee, non offrono soluzioni miracolistiche: perché si tratta di paesi profondamente instabili, o lacerati da guerre civili, o soggetti a regimi totalitari; e perché, infine, quegli stessi paesi non hanno alcun interesse a riammettere connazionali che potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine interno.
La fragilità di tutte le soluzioni prospettate significa forse che non vi siano vie d’uscita e che sia fatale arrendersi? Assolutamente no: ancora una volta, è la vicenda di Amri che segnala in maniera inconfutabile come la debolezza delle strategie antiterroristiche risieda nell’impreparazione e nell’inefficienza degli apparati di intelligence e delle forze di polizia; e innanzitutto nel disastroso deficit di comunicazione e cooperazione a livello europeo. Come è potuto accadere, infatti, che il responsabile di una strage atroce, pur se da tempo conosciuto, identificato e segnalato, non sia stato intercettato e fermato? E se fosse vero, come pure credo, che non tutto – e non tutte le insidie, e non tutti i terroristi potenziali – può essere previsto e prevenuto, resta indiscutibile che è lì, esattamente lì, che si deve intervenire, concentrare le energie, focalizzare l’attenzione e le forze.
Dunque, circoscrivere e selezionare gli obiettivi veri, quelli che possono costituire una minaccia reale. E, invece, si fa l’esatto contrario: nel momento in cui si definiscono clandestini tutti gli irregolari, e si trattano tutti gli irregolari come clandestini e terroristi, e su questo meccanismo di sospetto si organizzano le politiche del controllo e della repressione, si ottengono due risultati analogamente perversi. Si finisce col trascurare i nemici veri e si trasformano in nemici coloro che nemici non sono affatto. Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari – per esempio, la gran massa di quanti sono impiegati in nero in agricoltura o nell’edilizia – si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione.
Ancora una volta, dunque, si dimostra come solo politiche sociali intelligenti rappresentino il contesto indispensabile per contrastare i fenomeni criminali.
Infine, il ministro dell’Interno ha detto: «I Cie non avranno nulla a che fare con il passato». Voglio considerarla una condanna inappellabile per ciò che sono stati e sono oggi i Cie: strutture orribili, dove vengono violati costantemente i diritti fondamentali della persona. Un non luogo precipitato nel non tempo.
Articoli di Ernesto Milanesi, Carlo Lania, Leo Lancari, Rachele Gonnelli, sulle più recenti malefatte della politica italiana di respingimento dei profughi, esuli e sfrattati del continenteil manifesto, 4 gennaio 2017
TENDOPOLI DI CONA AL COLLASSO
E LA MORTE DI SANDRINE INNESCA LA RIVOLTA
di Ernesto Milanesi
«I richiedenti asilo stipati al freddo e al buio nella ex base missilistica nelle campagne veneziane. Una bomba a orologeria. Il dramma della giovane rifugiata ivoriana colpita da malore Si era imbarcata in Libia ed era in attesa del riconoscimento dello status»
SANDRINE BAKAYOKO, 25 anni, si era imbarcata con il compagno nelle coste della Libia: dal 30 agosto erano in Italia, da tre mesi nell’ex base missilistica in mezzo alla campagna, aspettando sempre il riconoscimento di rifugiati. Lunedì mattina la ragazza è entrata in uno dei bagni, nell’area riservata alle donne, che possono chiudersi a chiave. Non vedendola più, il compagno ha dato l’allarme alla coop che gestisce la struttura. Forzata la porta, Sandrine era a terra priva di sensi. Alle 12.48 è partita la telefonata al 118 che ha inviato un’ambulanza da Cavarzere e l’auto medica da Piove di Sacco. Poco dopo le 13 i soccorritori hanno tentato di rianimarla inutilmente: alle 13.46 la constatazione del decesso in ospedale. Secondo l’autopsia effettuata dal medico legale Silvano Zancaner, si è trattato di «tromboembolia polmonare bilaterale fulminante» come hanno confermato il procuratore capo ad interim Carlo Nordio e il pm Lucia D’Alessandro soprattutto per smentire ogni voce di «emergenza sanitaria» a Cona.
Ma la morte di Sandrine nella notte aveva riacceso la miccia della protesta fra i 1.400 migranti, per lo più africani: circondati i container e gli uffici amministrativi dove si era rifugiato il personale della Edeco, accesi falò all’interno, pronti a resistere anche alle forze dell’ordine. Solo in mattinata la trattativa e il “rilascio” delle persone, anche se alcune auto sono state bersagliate dai manifestanti che hanno poi tentato di bloccare l’ingresso dei furgoni con i pasti.
LENTAMENTE, LA RABBIA si è placata. Il cancello d’ingresso presidiato da celerini e carabinieri in assetto anti-sommossa. Il questore Angelo Sanna “sul campo” a garantire la situazione. E Simone Borile di nuovo alle prese con una “grana” per la coop che monopolizza l’accoglienza dei migranti.
Tuttavia, adesso Cona è davvero al centro dell’attenzione. Ai cronisti l’ingresso non viene permesso, nonostante i migranti vogliano documentare le loro condizioni di vita. Sono le stesse verificate dalla delegazione del Progetto Melting Pot che a giugno relazionava così: «Non è un Cas, non è un Cara, non è un hub. È un luogo “temporaneo emergenziale” che sopperisce alla mancata accoglienza dei comuni veneti. L’agibilità della tendopoli è stata regolarmente acquisita tramite parere dell’Asl che il 1 aprile 2016 ha inviato la sua relazione spiegando che la struttura può ospitare 540 persone, considerando che per ogni persona bastano 3,50 metri quadrati e occorre che vi sia un bagno e una doccia ogni 12 persone».
Oggi a Cona torna in “visita” Giovanni Paglia, che ha monitorato la struttura insieme al gruppo di avvocati, medici e volontari locali. «C’ero stato il 16 novembre e poi ho depositato una circostanziata interrogazione-denuncia al ministro dell’Interno senza ricevere risposta» spiega il deputato Sel, «Già allora l’impressione era di un luogo fuori controllo: la sanità scaricata sui medici di base, sovraffollamento e servizi igienici sotto pressione, pochi operatori, pasti consumati in piedi, tende senza nemmeno un armadietto. Insomma, si capiva che Cona poteva esplodere da un momento all’altro…».
E la rivolta di lunedì notte per la morte di Sandrine era stata preceduta da altri episodi che segnalavano il disagio dei migranti. Il 30 agosto alcune decine avevano occupato la strada: un pacifico sit in sui tempi biblici delle pratiche sulla richiesta d’asilo. E già un anno fa un centinaio di ospiti della struttura (che allora ne conteneva la metà) lamentavano le carenze igienico-sanitarie.
Ieri mattina i profughi di Cona hanno invocato di nuovo l’intervento del prefetto Carlo Boffi, proprio perché nell’ex base missilistica fa freddo e manca l’illuminazione senza dimenticare i letti a castello ammassati per un numero di persone triplo rispetto all’originale agibilità.
Infine, il tam-tam della protesta dei migranti in Veneto cresce. A Vicenza, circa 70 richiedenti asilo hanno incontrato il vice-prefetto davanti alla caserma Sasso: contestavano le strutture dell’associazione Mediterraneo per il freddo, gli abiti e l’affollamento. A Verona, invece, i residenti dell’ostello Santa Chiara nel quartiere Veronetta hanno protestato per la qualità del cibo paralizzando il traffico, rovesciando i cassonetti e sfogandosi con le auto in sosta.
LE MANI SUL BUSINESS DEI PROFUGHI.
MA IL “SISTEMA” DI BORILE & C NON È INOSSIDABILE
di Ernesto Milanesi
«Gare anomale nelle prefetture venete. Fatture, contratti e maltrattamenti. Le inchieste sui bandi vinti da Ecofficina e Edeco, le due coop gestite dall'ex Dc e Forza Italia»
Dal consorzio inter-comunale dei rifiuti alle coop “sussidiarie” non solo ai migranti. La vicenda di Cona rinvia al profilo di Simone Borile e alle inchieste aperte dalle Procure di Padova e Rovigo.
Borile è un ex Dc, poi consigliere provinciale di Forza Italia, che ha ottenuto più di un incarico pubblico: dal CdA dell’istituto per minorati della vita Configliachi a quello dell’Ater fino alla breve presidenza del Parco Colli Euganei. Poi passa al Consorzio Padova Sud, anche con il ruolo di direttore di Padova Tre Srl (gestione dei rifiuti nei Comuni della Bassa). Proprio su iniziativa di questa società nasce nel 2011 la prima coop: Ecofficina Educational che fornisce servizi e gestisce asili nido, con al vertice Paolo Mastellaro, esponente del Pd. Nel febbraio 2015, la “scissione”: da una parte Edeco con sede a Battaglia Terme e Sara Felpati – moglie di Borile – come amministratore; dall’altra Ecofficina Servizi con sede a Este gestita da Mastellaro che colleziona progetti di educazione ambientale nelle scuole pagati dal Consorzio.
Edeco, invece, si dedica solo ai profughi. Non solo a Cona, perché ha ottenuto anche le ex basi militari a Bagnoli di Sopra (Padova) e Oderzo (Treviso) e l’anno scorso si è occupata dell’ex caserma Prandina, hub provvisorio nel centro di Padova. Un vero affare: più di 15 milioni secondo l’ultimo bilancio che contabilizza 180 dipendenti, di cui solo una cinquantina soci della cooperativa.
Ma il “sistema” di Borile & C non è inossidabile. A maggio 2015, il pm Federica Baccaglini apre un fascicolo sul bando per venti posti del servizio Sprar a Due Carrare: «Carte false» con l’avallo di una funzionaria della prefettura. E si moltiplicano i guai giudiziari con la Guardia di Finanza che setaccia le fatture delle due coop, le verifiche dei carabinieri sugli addetti alle pulizie, la denuncia per maltrattamenti e truffa nelle strutture di Montagnana. A quel punto diventa inevitabile la “scomunica” di Ugo Campagnaro, presidente regionale di Confcooperative: «Non esiste una legge che impedisce di ospitare centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. È un modello che guarda soprattutto al business. E per questo vogliamo prendere le distanze da un simile soggetto e dalla maniera in cui opera».
Del resto, la cronaca di Andrea Priante pubblicata otto mesi fa dal Corriere Veneto non lasciava molti dubbi sullo stile di Edeco: «Lavorerò sei giorni su sette, dalle 9 del mattino alle 7 di sera. Il pagamento sarà in voucher: 200 euro alla settimana, che togliendo la pausa pranzo fanno 3 euro e 70 centesimi l’ora. Ma presto, se tutto andrà bene, arriverà un vero contratto e allora lo stipendio supererà i mille euro al mese…». Come sulla situazione nella vecchia base nella campagna veneziana: «Mi diventa subito lampante quale sia il problema più grande: uomini di Paesi, culture e religioni diverse, stipati come polli dentro stanze disadorne, possono trasformare quel posto in una bomba a orologeria».
Un’anomalia riassunta dalle cifre: su circa 10 mila profughi accolti in Veneto oltre 2 mila risultano affidati alle coop di Borile. «Chi protegge Ecofficina?» chiedeva a settembre il M5S con la parlamentare Silvia Benedetti e i consiglieri comunali della Bassa padovana Luca Martinello, Andrea Bernardini, Filippo Gallocchio, Francesco Roin e Lorella Giordan. Sollecitavano l’intervento di Autorità anti-corruzione e Corte dei Conti sulla regolarità delle gare nelle prefetture venete. Finora, senza risposta.
IL VIMINALE AI PREFETTI:
BASTA SITUAZIONI A RISCHIO
di Carlo Lania
«Una circolare invita ad alleggerire i comuni con più migranti. Via al piano con l’Anci»
Situazioni come quella vista in questi giorni a Cona non devono più verificarsi. Per questo il Viminale ha già inviato una circolare ai prefetti invitandoli a decongestionare al più presto le situazioni maggiormente a rischio e a non inviare più profughi nei comuni che già li ospitano. E’ il primo punto dell’accordo raggiunto il 14 dicembre scorso dal ministro Marco Minniti con l’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, per un nuovo piano nazionale per la distribuzione dei migranti sul territorio. Piano che ha uno dei sui punti forza in un modello di accoglienza più diffusa e ragionata rispetto a oggi, insieme una serie di incentivi economici per i comuni. Nella speranza di riuscire così a convincere anche quei sindaci – e sono la maggioranza – che finora hanno voltato le spalle alle ripetute richieste di aprire le porte ai richiedenti asilo.
Per questo nei giorni scorsi è partita una circolare con cui il responsabile del Dipartimento Immigrazione del ministero degli Interni, Mario Morcone, oltre a spiegare i dettagli del piano ha chiesto ai prefetti di non caricare ulteriormente le amministrazioni che già accolgono migranti, cominciando anzi a decongestionare le situazioni più pesanti.
Il dato dal quale il piano ha preso avvio è la constatazione amara di un fallimento: degli 8.000 comuni italiani, oggi solo 2.600 accolgono migranti e di questi appena 1.300 partecipano al sistema Sprar, il programma di protezione richiedenti asilo e rifugiati. Ed è solo tra questi 2.600 municipi che sono distribuiti i circa 180 mila migranti in prima accoglienza. Chiaro che in questo modo le situazioni di tensione e malessere per tutti – popolazioni locali e migranti – rischiano di essere all’ordine del giorno. Partendo dunque dalla necessità di rimettere mano a un sistema che da tempo mostra la corda, si è arrivati a stabilire un numero massimo di migranti che un comune accogliere in base alla sua popolazione: 2,5 ogni mille persone per i comuni con più di 2.000 abitanti, vale a dire che una cittadina con diecimila abitanti si troverebbe a gestire al massimo 25 richiedenti asilo. Cifra più che ragionevole e sufficiente a non creare particolari tensioni.
L’Anci ha chiesto però di tutelare maggiormente i piccoli comuni, quelli con meno di 2.000 abitanti e di stabilire percentuali diverse per le aree metropolitane. Due punti che costituiranno l’ordine del giorno di un nuovo incontro tra i rappresentanti dei sindaci e il ministero Minniti previsto per i prossimi giorni. La proposta avanzata dai sindaci, che sembra però trovare d’accordo anche il Viminale, è quella di non destinare più di tre, quattro migranti ai comuni più piccoli e fissare in 1,5 richiedenti asilo ogni mille abitanti la quota per le grandi città.
L’intenzione è quella di coinvolgere al massimo i primi cittadini, chiedendo di preparare loro stessi i progetti per l’accoglienza e l’integrazione senza dover più subire decisioni dall’alto. «Se un sindaco sa quanti migranti arriveranno nel suo territorio, dove alloggeranno e cosa faranno, può anche accettarli», spiega il primo cittadino di Prato Matteo Biffoni, responsabile Immigrazione per l’Anci. Tanto più che, in maniera volontaria, i migranti potranno essere utilizzati per lavori utili alla cittadinanza, come la pulizia dei giardini o l’assistenza agli anziani. «Lavori che non sostituiscono ma che andrebbero ad aggiungersi a quelli svolti dagli italiani, e senza alcun costo per le comunità», ci tiene a precisare il sindaco di Prato.
C’è infine il capitolo che riguarda gli incentivi economici. Proprio in questi giorni sono in distribuzione i fondi stanziati dal governo Renzi per i comuni che già accolgono richiedenti asilo: 500 euro a profugo per un totale di 100 milioni che i sindaci potranno utilizzare come vorranno e non vincolati a progetti legati all’accoglienza. I sindaci – e questo è un altro punto che verrà affrontato con Minniti, chiedono inoltre di poter infrangere il patto di stabilità e di assumere personale in più per i settori che si trovano maggiormente sotto pressione come, ad esempio, le anagrafi comunali, i servizi sociali e le polizie municipali. Ma anche che i 100 milioni stanziati da Renzi come una tantum, diventino un contributo strutturale, magari i destinando 0,50 euro al giorno per ogni migrante ospitato. Soldi da utilizzare naturalmente per tutti i cittadini.
Dopo la firma di dicembre, entro gennaio di arriverà alla definizione dei particolari sia con l’Anci con in sede di Conferenza Stato-Ragioni in modo da poter partire al più presto. «Certo, i tempi sono lunghi – conclude Biffoni – e si arriverà a regime non prima della fine dell’anno quando potremo finalmente tracciare un primo bilancio. Ma finalmente si è presa la strada giusta per evitare che in futuro si ripetano situazioni come quelle che stiamo vedendo in questi giorni».
MANCONI: «ATTENZIONE
A CRIMINALIZZAZIONI PERICOLOSE »
di Leo Lancari
«Luigi Manconi, presidente commissione Diritti umani del Senato. "La quasi totalità dei migranti che arriva in Italia viene registrata. Non stiamo parlando quindi di un esercito di clandestini senza nome e senza volto"»
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«Che senso ha la parola d’ordine ’un Cie in ogni regione’? Si sta rilanciando l’equazione sciagurata irregolare uguale terrorista, spingendo così alla clandestinità quanti invece vorrebbero emergere alla legalità della regolarizzazione». Il presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi non è per niente convinto delle misure contro gli immigrati irregolari annunciate dal ministro degli Interni Marco Minniti.
L’attentato di Berlino ha provocato una svolta repressiva nella gestione dei migranti irregolari.
Credo che la discussione pubblica sia profondamente deformata da tre paradossi. Il primo riguarda la questione dei rimpatri. Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ha trascorso quattro anni in un carcere italiano, poi è stato trasferito nel Cie di Caltanissetta per essere rimpatriato ma le autorità consolari tunisine, nonostante vi sia un accordo di riammissione, si rifiutano di riconoscerlo come loro concittadino. Dunque gli viene notificato l’ordine di lasciare l’Italia. La sua storia giudiziaria – comprese le notizie riguardanti una sua possibile radicalizzazione – viene registrata nel database comune a tutti gli stati europei. Parliamo quindi di uno straniero identificato, passato attraverso tutte le procedure della legge, i cui movimenti sono stati monitorati e comunicati tra le forze di polizia dei diversi paesi. Nonostante ciò, non è stato possibile impedire l’attacco di Berlino.
Questo significa che bisogna arrendersi?
No, piuttosto che non esistono soluzioni miracolose.
E il secondo paradosso?
Il secondo paradosso riguarda il reato di clandestinità: norma inutile, meramente simbolica e schiettamente reazionaria che punisce non un atto ma una condizione esistenziale. Per giunta lenta perché, in ragione di quanto previsto dal nostro ordinamento, esige un lungo iter processuale (tre gradi di giudizio). Per questo e per la violazione del fondamentale diritto umano alla libertà di movimento, andava abrogata. Ma così non si è fatto per sudditanza psicologica nei confronti delle destre. Ora, finalmente, si rivela un arnese arruginito. E poi c’è il terzo paradosso che riguarda l’identificazione degli stranieri. Di oltre il 90% delle 180.000 persone sbarcate nel 2016 in Italia conosciamo dati anagrafici e impronte digitali grazie al foto-segnalamento che avviene appena giunti sulle nostre coste. Dunque la quasi totalità dei migranti sbarcati viene registrata e i dati vengono acquisiti all’interno di una banca-dati europea. Perciò non stiamo parlando di un esercito di clandestini senza volto e senza nome.
Resta il problema di una scarsa collaborazione e scambio di informazione tra le varie polizie europee.
La vera questione sicurezza è rappresentata proprio dalla debolezza dell’attività di intelligence, controllo del territorio e cooperazione a livello europeo. Come dimostra in maniera lampante la vicenda di Amri, il problema è rappresentato dalla scarsa efficienza dell’attività di prevenzione nei confronti di coloro che operano a fini terroristici. Si tratta, dunque, di concentrare l’attenzione, focalizzare gli interventi e selezionare con intelligenza gli obiettivi. E, invece, si fa l’esatto contrario: si rilancia l’equazione “irregolare uguale clandestino uguale terrorista”. É un’assimilazione sciagurata, che ha l’effetto di criminalizzare chi è irregolare esclusivamente per necessità e di spingere verso la clandestinità criminale quanti, al contrario, vorrebbero emergere alla legalità della regolarizzazione. Nella stragrande maggioranza dei casi chi è chiamato clandestino è, in realtà, uno straniero che non ha un titolo valido per vivere nel nostro paese per una serie di ragioni, prima tra tutte una normativa estremamente rigida ed escludente, con requisiti sempre più discriminatori. E clandestine, va ricordato, sono le migliaia di persone impiegate “in nero” nell’agricoltura e nell’edilizia.
Verso le quali come bisogna agire?
Si tratta di persone da regolarizzare e non da chiudere in un Centro di identificazione ed espulsione. Del resto, la popolazione trattenuta in quei centri ne è la dimostrazione: ex-detenuti, stranieri residenti in Italia da anni ma che hanno perso il lavoro, vittime di tratta, persone apolidi, diciottenni nati e cresciuti in Italia ma privi di cittadinanza. E parliamo di strutture dove i diritti fondamentali vengono costantemente violati, i cui costi sono enormi e che presentano un bilancio disastroso: nella migliore delle ipotesi appena la metà dei trattenuti viene rimpatriata. Qual è il senso, dunque di una parola d’ordine come «un Cie in ogni regione»?
«Oltre il 77 percento dei circa 180 mila profughi entrati nel sistema di asilo italiano vive in un limbo, ammassato in mega strutture inadatte»
Il Veneto della rivolta di Cona, governato dalla Lega Nord, è una delle regioni meno virtuose a livello di buone pratiche per l’accoglienza ai migranti e richiedenti asilo. Su un totale di 14.221 immigrati presenti sul suo territorio al 30 novembre scorso (dati del Viminale), appena 519 sono quelli che hanno trovato posto nel circuito Sprar, mentre quasi 11 mila (10.627) persone sono state ammassate nelle cosiddette «strutture temporanee» gestite dalle Prefetture con una modalità che non riesce ad uscire da logiche emergenziali e basate su mega strutture di contenimento.
In tutta Italia la mancanza di collaborazione degli enti locali, su cui si basano i bandi dei progetti Sprar, che dovrebbero formare una rete capillarmente diffusa di accoglienza accurata e finalizzata a integrare economicamente e socialmente i migranti in piccoli nuclei, tende a rigenerare logiche securitarie di contenimento in mega strutture come ex caserme o alberghi vuoti.
La Sicilia – come si vede dal grafico – è la regione più virtuosa in questo senso, dove i migranti ospitati negli Sprar sono 4.259, pari però a quelli ancora nel limbo dei Cas, centri di prima accoglienza. Al vecchio piano Sprar del 2015 hanno partecipato soltanto 339 comuni (su 7.983, dopo le ultime fusioni imposte per spending review), 29 province e 8 unioni comunali in 10 regioni. I progetti Sprar 2016 sono appena scaduti e dall’8 agosto scorso il Viminale ha riformato il sistema di accesso cercando di aumentarne la capienza con premi fiscali e agevolazioni agli enti locali che accettano di parteciparvi.
Il ministero dell’Interno non ha mai sposato in modo sistematico l’accoglienza diffusa ma nell’ultimo anno, sulla scia della battaglia delle associazioni antirazziste e umanitarie oltre che a causa delle inchieste della magistratura e dei richiami delle commissioni per i diritti umani di Strasburgo, almeno la tipologia funzionale alla detenzione e ai respingimenti dei migranti economici dei Cie sembrava avviata a un lento dissolvimento.
A rianimare invece l’idea di risolvere il problema dei profughi utilizzando mega strutture come ex caserme – sempre utilizzate dalle prefetture quando non sanno dove dare un tetto ai migranti in arrivo dagli Hotspot – è stata anche una delle ultime puntate di Report prima dell’addio di Milena Gabanelli alla Rai.
Poi il nuovo governo Gentiloni ha spostato Angelino Alfano, che proprio fuggendo dalla gestione della politica sull’immigrazione, poco politicamente redditizio nel centrodestra, è approdato alla Farnesina, lasciando al Viminale Marco Minniti che ha inaugurato il suo dicastero promettendo un ritorno in pompa magna di Cie ed espulsioni, proprio come Matteo Salvini ha sempre sbraitato di volere.
Il Fatto quotidiano/diritti online, 13 dicembre 2016 (p.s.)
Il Tar del Friuli Venezia Giulia ha giudicato illegittima l'”ordinanza antibarboni” emessa dal sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, per vietare accattonaggio, capannelli di persone e consumazione di cibi e bevande in luoghi pubblici. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso di un richiedente asilo pakistano, portando all’annullamento della sanzione di 50 euro per essere stato trovato a dormire all’aperto in città. Per il Tar, l’amministrazione locale può varare ordinanze solo per “fronteggiare eventi e pericoli eccezionali ed emergenziali” che minaccino “l’incolumità pubblica” e la “sicurezza urbana”, e che non possano essere affrontati in via ordinaria.
Il provvedimento, che è stato firmato dal vicesindaco della Lega Nord Pierpaolo Roberti, era stato emesso a fine settembre ed era valido fino allo scorso 15 novembre, ma molte delle sue indicazioni sono state riprese nella proposta di regolamento della Polizia municipale presentata dalla Giunta comunale e ora all’esame del Consiglio. Questo nuovo regolamento di polizia urbana, non entrato ancora in vigore, prevede multe fino a 900 euro non solo per i mendicanti ma anche per chi dà loro offerte in denaro.
Il rifugiato che ha visto riconosciute le proprie ragioni è stato assistito dai legali dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. La decisione del Tar, però, non fa retrocedere la giunta guidata da Dipiazza (Forza Italia), che – spiega il vicesindaco – non farà un solo passo indietro sulla strada della lotta ai senzatetto. «La volontà dell’amministrazione – continua Roberti – rimane la stessa, ovvero adottare tutti i provvedimenti possibili affinché Trieste torni ad essere una città bella, pulita e sicura: quindi nel frattempo si è dato il via all’iter per l’approvazione del nuovo regolamento di Polizia urbana, in arrivo in aula consiliare all’inizio del prossimo anno. Un nuovo atto amministrativo che supererà tutte le eccezioni sollevate dal Tar».
Il nuovo regolamento “antidegrado” verrà discusso in aula a partire da gennaio, ma sui social network è già cominciata la protesta organizzata da alcuni cittadini: la prima manifestazione si terrà il 21 dicembre, data in cui è prevista una “Marcia degli zaini“ con bivacco per “sfidare” l’amministrazione.
L’organizzatore dell’iniziativa è il giornalista e attivista Luigi Nacci che ricorda come la città “è stata prospera quando regnava il disordine, quando ci vivevano almeno cinquantamila persone più di oggi, le vie erano un turbinio di genti e lingue, la città intera era un bivacco a cielo aperto”. Critiche all’ordinanza arrivano anche dalle organizzazioni del mondo cattolico, tra cui Caritas, Comunità di Sant’Egidio e Comunità di San Martino al Campo.
L’ERRORE DEI CIE, LETTERA APERTA AL MINISTRO MINNITI
di Francesca Chiavacci
Caro ministro Minniti, se il buongiorno si vede dal mattino, la proposta di affidare ancora una volta le politiche sull’immigrazione ai Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), è vecchia e stantia ancor prima di essere avviata.
Ci hanno già provato – sapendo che si tratta solo di un’uscita propagandistica, che alimenta odio e razzismo e favorisce i predicatori d’odio – ministri e governi precedenti, senza ottenere alcun risultato concreto.
Nel suo messaggio di fine anno, il presidente Sergio Mattarella è intervenuto con autorevolezza per lanciare un monito contro il collegamento sbagliato tra immigrazione e terrorismo. Che invece è proprio quello che sottostà alla proposta di aumentare il numero dei Cie e quindi delle espulsioni.
La storia recente, d’altra parte, dimostra come sia impossibile aumentare il numero dei rimpatri degli irregolari attraverso i Centri d’identificazione e di espulsione.
Basterebbe andarsi a rileggere le conclusioni della Commissione De Mistura, voluta dall’allora ministro dell’Interno Amato e alla quale anche l’Arci partecipò, per sapere che si tratta di uno strumento ingiusto perché introduce un percorso differenziato per gli stranieri, meno garanzie e meno diritti, negando la nostra Costituzione e il principio di uguaglianza davanti alla legge.
Uno strumento sbagliato perché non è di sanzioni per chi non rispetta le regole che c’è bisogno in un Paese che ha una legislazione concretamente impraticabile, ma di canali d’accesso regolari, sia per ricerca di lavoro sia per richiesta di protezione internazionale (canali da sempre chiusi, in particolare negli ultimi anni, nei quali non è stato emanato il decreto flussi, se non per gli stagionali, favorendo gli ingressi irregolari).
Uno strumento inutile. Dati alla mano, un rimpatrio reale, e non fittizio come quelli a cui si riferiscono i giornali in questi giorni, attraverso i Cie, costa cifre esorbitanti, colpisce quasi esclusivamente persone che hanno perso il lavoro, riguardando comunque, anche quando i Cie erano 14, poche migliaia di persone.
Se non si vuole consegnare questo Paese ai Salvini e alle destre xenofobe, bisogna mettere in campo una politica che punti a impedire le morti da frontiera, lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, le diseguaglianze crescenti, la povertà diffusa, fermare l’odio contrastando gli argomenti di cui si nutre e raccontando la verità.
È sulla base della nostra esperienza concreta di questi anni, dei dati concreti che sono in possesso del suo Ministero e del fallimento di esperienze simili attuate in altri Paesi dell’Ue che le chiediamo, signor ministro, di congelare ogni iniziativa volta ad aumentare il numero dei Cie e di aprire un confronto con le organizzazioni sociali, laiche e religiose, con i sindacati e le organizzazioni di categoria, riaprendo quel Tavolo Immigrazione Nazionale che da anni è stato bloccato, per mettere in campo iniziative concrete nel campo dell’immigrazione e dell’asilo, a partire dall’esperienza dei soggetti del Terzo settore e delle organizzazioni sociali che quotidianamente, nei territori, si confrontano con le persone, con le loro storie e i loro diritti.
In attesa di un cortese riscontro, cordiali saluti.
Francesca Chiavacci è presidente nazionale dell’Arci
«I CIE? SOLO PER CHI COMMETTE DEI REATI»
Intervista di Carlo Lania a Matteo Biffoni
Il governo vuole riaprire i Cie, che ne pensa?Nessuno crede che i Cie siano la panacea di tutti i mali. Possono servire se utilizzati per quello che dovrebbero davvero essere, cioè dei luoghi in cui vengono reclusi in attesa di espulsione i cittadini non comunitari che hanno commesso dei reati. In questo senso sì, oggi possono servire, naturalmente rispettando i diritti costituzionali dei migranti, anche per quanto concerne il tempo di permanenza.
Il rischio è che si generalizzi e che vengano richiusi tutti gli irregolari solo per facilitare le espulsioni.
Dai numeri che sembra fare il ministro Minniti non pare essere così. Minniti parla di 10mila persone, numero che potrebbe effettivamente riguardare quanti hanno commesso un reato. Se parlassimo degli irregolari la cifra sarebbe per forza di cose molto più ampia. Su questi ultimi dobbiamo fare un ragionamento e decidere cosa fare perché stanno arrivando a compimento i percorsi di quanti hanno fatto richiesta di asilo, hanno avuto una risposta negativa dalla commissione territoriale e hanno concluso anche il ricorso con una risposta negativa. Penso che vada fatta una scelta, perché se la legge prevede l’allontanamento, l’allontanamento va fatto. Si tratta però di una decisione del governo alla quale noi come amministratori, che dobbiamo gestire l’impatto sul territorio, ci adegueremo, certo partecipando al confronto sul tema che immagino ci sarà.
In passato i Cie si sono dimostrati un fallimento. Un’esperienza negativa che ora potrebbe ripetersi.
E infatti non devono essere strutture che replicano quella esperienza negativa. Devono essere quello per cui teoricamente sono nati: ripeto, punti di appoggio per coloro che hanno commesso dei reati in attesa di essere allontanati dal territorio. Però attenzione. Noi dobbiamo ragionare su che impostazione diamo a queste persone che fanno richiesta di asilo e se la vedono respingere. Che cosa ne facciamo? Tecnicamente anche queste vanno allontanate, perché l’impatto sul territorio è forte. Altrimenti bisogna avere gli strumenti per gestirle: vanno potenziati i servizi sociali, i servizi di interpretariato, l’educazione civica, perché non possiamo lasciarle in mezzo a una strada, né possiamo indebolire le forme di tutela che eroghiamo al momento. Stiamo parlando di persone fragili, che in larga parte non possono farcela da sole.
Si parla di rimpatri, ma mancano gli accordi per poterli mettere in atto.E questo è infatti un altro pezzo del ragionamento legato all’allontanamento. Chiaramente bisogna essere conseguenti, quindi fare a monte gli accordi con i paesi di origine diventa un altro tassello fondamentale.
Ma lei accetterebbe un Cie nel suo territorio?
Se esistessero le condizioni logistiche e a patto che sia una struttura destinata a chi ha commesso dei reati e deve essere rimpatriato in tempi rapidi.
Il sindaco di Prato Matteo Biffoni è il responsabile Immigrazione per l’Anci.
«Bruciando denaro abbiamo elevato i moderni monumenti delle nostre fobie, espressione architettonica di comunità sterili incapaci di confronto con l’alterità».
Il Fatto Quotidiano online, 31 dicembre 2016 (c.m.c.)
E’ iniziato il 2017 e se vogliamo solo immaginarlo come un anno migliore del precedente, il primo compito sarà quello di iniziare a buttare giù i tanti “muri” che ci siamo affannati a costruire. E’ prioritario nella misura in cui risulta vero quanto sostenuto da Roberto Saviano che, nel ripercorrere gli eventi salienti dell’anno appena concluso nel programma ‘Imagine‘, ha designato la parola “muri” come quella più rappresentativa. «Il 2016 – ha commentato Saviano – è stato l’anno dell’esclusione, l’anno con più muri per la storia dell’umanità».
Nel 2015 ci eravamo lasciati commuovere dall’interminabile fila di disperati che univa Lesbo a Berlino arrivando a spendere parole di ammirazione verso le coraggiose scelte di Angela Merkel improntate ad un “Refugees welcome”. Eravamo stati trascinati dall’onda emotiva suscitata dalla foto simbolo di Aylan, il bimbo siriano che, nella sua t-shirt rossa e i suoi pantaloncini blu, piegati all’altezza della vita, sembrava dormire sulla spiaggia turca di Bodrum.
Nel 2016 ci siamo risvegliati, abbiamo asciugato le lacrime e ci siamo dedicati alla costruzione di muri, in Europa come in Italia. La solidarietà è stata spazzata via dalla paura e alla brezza delle belle intenzioni è subentrato il ciclone populista.
Nella primavera del 2016 abbiamo sbarrato la strada dei migranti con l’accordo firmato con la Turchia. Il “muro di Erdogan” ci è costato tre miliardi di euro e così nessun profugo è più giunto dalle coste turche. Qualche mese dopo si è deciso di salvaguardare il “muro del Mediterraneo” rafforzando le frontiere dell’Unione, dando vita a un sistema di implementazione di Frontex attraverso l’istituzione di una guardia costiera europea. Ad essa si è aggiunta una guardia di frontiera con un costo complessivo vicino ai 250 milioni di euro. Nessuno lo nega: i muri costano.
Negli stessi mesi in Italia è stato costruito il “muro degli hotspot” che separa migranti economici dai richiedenti asilo ed entrambi dal resto del Paese.
Una conseguenza del nuovo approccio è stato l’ampliamento di altri “muri”, quelli dei Cie (Centri di espulsione ed identificazione) che nel 2016, con l’apertura di quelli di Brindisi, Crotone e Trapani, sono diventati otto. Muro genera muro come la paura genera paura.
Per costruire nuovi “muri” e rafforzarne i vecchi ci si è adoperati anche a livello di amministrazione locale. Le baraccopoli istituzionali, chiamati anche “campi nomadi” o più bucolicamente “villaggi”, sono spazi mantenuti nel 2016 per continuare a segregare, concentrare, escludere, per separare un corpo ritenuto “malato” da quello considerato “sano”.
«I campi, informali o istituzionali – scrive Antonio Ciniero, ricercatore presso l’International centre of interdisciplinary studies on migrations – sono oggi l’emblema di una cittadinanza e di un’accoglienza mancata. Un dispositivo politico di controllo e subordinazione dei soggetti considerati indesiderabili che viene esteso a un numero sempre più alto di persone».
Abbiamo innalzato muri separatori, uno dietro l’altro, freneticamente. Bruciando denaro abbiamo elevato i moderni monumenti delle nostre fobie, espressione architettonica di comunità sterili incapaci di confronto con l’alterità.
«Campi sosta, baraccopoli istituzionali, ghetti, tendopoli temporanee – continua Ciniero – così come tutti gli altri campi nati ai confini e nel cuore dell’Europa, hotspot, Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e altri luoghi para-istituzionali, pensati per un’accoglienza ambivalente che assume i connotati dell’esclusione, pur nelle loro differenze, sono accomunati dal fatto di costringere la vita dei soggetti che vivono o transitano al loro interno a una continua provvisorietà e subalternità, sospendendone e violandone i diritti fondamentali. Processi di segregazione e confinamento che si pensava consegnati alla storia e che invece riaffiorano con sempre maggiore frequenza, frutto di politiche ancora schiacciate nell’alveo della logica emergenziale».
L’eredità che ci consegna il 2016 sono i “muri della segregazione” interni ed esterni al territorio nazionale, sia quelli fisici che quelli mentali. L’urgenza per il 2017 quindi sarà l’impegno di abbatterli, a partire dalla Capitale.
Nella città di Roma le due delibere di iniziativa popolare, quella relativa all’accoglienza dei migranti e quella sul superamento dei campi rom, predisposte dal comitato Accogliamoci e sottoscritte da 6.000 cittadini romani, incarnano questa urgenza e indicano soluzioni concrete e sostenibili per abbattere i “muri” presenti nella Capitale. Spetterà all’Assemblea Capitolina regalarci la prima buona notizia del 2017.
«L’Europa politica disgregata e in crisi, è stata messa di fronte alla propria inadeguatezza».
Internazionale online, 29 dicembre 2016 (p.d.)
Se il 2015 è stato l’anno del motto
refugees welcome (benvenuti rifugiati) rivolto dai cittadini europei,
da Lesbo a Berlino, al milione di profughi arrivati nel continente sopratutto dalla Siria, il 2016 è stato l’anno del ripristino dei controlli alle frontiere interne, della costruzione dei muri, degli accordi di rimpatrio, del record di morti nel Mediterraneo e della militarizzazione dei confini. Nel 2015 di fronte all’immagine delle famiglie siriane in cammino attraverso l’Europa con le loro poche cose, l’opinione pubblica e anche qualche
leader del vecchio continente avevano preso in considerazione una politica di moderata apertura delle frontiere. Prima tra tutte
la decisione della cancelliera tedesca Angela Merkel nell’estate del 2015 di sospendere il
regolamento di Dublino, la legislazione comune europea sull’asilo che impone ai migranti di chiedere protezione nel primo paese di ingresso dell’Unione. Questa timida, tintinnante apertura si è richiusa velocemente nell’anno che è appena trascorso. Nel giro di pochi mesi, sotto i colpi di campagne populiste sempre più aggressive condotte dai partiti nazionalisti e dell’estrema destra in molti paesi europei, si è imposta una narrazione negativa sui migranti, capro espiatorio perfetto di un’Europa politica disgregata e in crisi, messa di fronte alla propria inadeguatezza nel governare fenomeni transnazionali come la migrazione.
In sociologia si è parlato spesso della “funzione specchio” dell’immigrazione: mentre raccontiamo quello che l’Europa ha deciso di fare per affrontare la questione migratoria, ci accorgiamo che stiamo descrivendo in realtà i limiti delle istituzioni e delle politiche europee nel loro complesso, le loro inadeguatezze, che sono venute alla luce proprio attraverso il fenomeno dell’immigrazione e della sua gestione disastrosa. Ecco alcune tappe di questo rapido cambiamento di prospettiva, avvenuto sulla pelle di migliaia di persone. Tra molti segnali di chiusura, abbiamo voluto ricordare due pratiche di apertura, ancora minoritarie, che l’Italia ha sperimentato proprio nel 2016: i corridoi umanitari e il potenziamento del Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), un modello di accoglienza virtuoso per richiedenti asilo e rifugiati.
L’accordo con la Turchia
L’evento più importante dell’anno per quanto riguarda le politiche migratorie è stato l’accordo che
Bruxelles ha firmato il 18 marzo con Ankara per chiudere definitivamente la rotta che aveva portato migliaia di persone in Grecia dalle coste turche. L’accordo ha di fatto interrotto la cosiddetta rotta balcanica che collegava la Turchia con l’Europa nordoccidentale, attraverso la Grecia, la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria, l’Austria e gli altri paesi dei Balcani. La rotta era già stata in parte bloccata nei primi mesi dell’anno a causa del ripristino parziale dei controlli di frontiera da parte di alcuni paesi, come l’Ungheria e la Macedonia, e dalla costruzioni di muri e recinzioni
come quella lunga 175 chilometri che separa l’Ungheria dalla Serbia, voluta dal governo di Viktor Orbán. In cambio di tre miliardi di euro in aiuti, Ankara si è impegnata con l’Unione europea a non lasciare partire i profughi dalle sue coste e ad accettare che quelli arrivati in Grecia dopo il 20 marzo fossero deportati di nuovo in territorio turco.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’irregolarità dell’accordo, accusandolo di violare il diritto internazionale, e hanno presentato diversi ricorsi alla Corte europea di giustizia. Una delle conseguenze più gravi dell’accordo è stata che 55mila profughi che si trovavano in Grecia sono rimasti bloccati in campi di fortuna come quello di Idomeni al confine con la Macedonia, o nei campi governativi, senza poter accedere né all’asilo né al ricongiungimento familiare. Fenomeni simili, anche se in dimensioni ridotte, sono stati registrati in tutti i paesi della rotta balcanica, dove migliaia di persone sono rimaste in un limbo burocratico, impossibilitate a chiedere asilo o a raggiungere i propri familiari in altri paesi dell’Unione europea. Dopo lo sgombero dei campi informali, in Grecia i profughi sono stati trasferiti in campi gestiti dal governo greco, allestiti in fabbriche abbandonate e vecchi magazzini, in tende e in condizioni di precarietà definite dalle organizzazioni non governative “pericolose e inadatte per la vita umana”.
Durante l’estate i profughi presenti in Grecia sono stati censiti dalle autorità greche ed europee e sono stati indirizzati verso la richiesta del ricollocamento in altri paesi europei, prevista dall’Agenda europea sull’immigrazione entrata in vigore nel settembre del 2015. Ma i ricollocamenti sono partiti molto lentamente (solo 1.549 persone sono partite dall’Italia e 5.437 dalla Grecia su un totale di 40mila previste) e migliaia di persone vivono ancora in condizioni disumane nei campi gestiti dal governo in tutta la Grecia, e in molti altri paesi dei Balcani come la Serbia. Il 40 per cento dei profughi bloccati in Grecia è costituito da bambini che almeno da un anno non frequentano le scuole, se non quelle autoorganizzate all’interno dei campi.
Un’altra conseguenza dell’accordo tra Unione europea e Turchia è stata l’emergenza umanitaria che si è aperta nelle isole greche: sedicimila profughi
sono rimasti bloccati a Lesbo, Chios e Samos, che si sono trasformate in prigioni a cielo aperto. Nei centri di identificazione sulle isole,
i cosiddetti hotspot, i profughi arrivati dopo il 20 marzo sono stati rinchiusi in attesa di essere identificati ed eventualmente rimandati in Turchia, come previsto dall’accordo. Negli
hotspot greci, i profughi
vivono in tende, in situazioni igienico-sanitarie precarie, esposti al freddo e alle intemperie. La tensione all’interno dei campi provoca spesso scontri e rivolte, che sono pericolose soprattutto per le persone rinchiuse nei centri. Il 24 novembre nell’hotspot di Moria sull’isola di Lesbo l’ennesima protesta dei migranti
ha provocato un incendio nel quale hanno perso la vita una donna e un bambino.
L’approccio hotspot
Nel settembre del 2015 è entrata in vigore l’Agenda europea sull’immigrazione,
approvata nel maggio del 2015, che prevede il ricollocamento dei migranti all’interno dell’Unione europea in base a un sistema di quote. Questo sistema teorizza e impone una divisione netta dei migranti in due categorie: i cosiddetti migranti economici e i profughi. Le linee guida imposte dall’Unione hanno cambiato in maniera radicale il sistema di accoglienza dei migranti nei paesi di arrivo, come l’Italia e la Grecia, che da paesi di transito si sono trasformati in paesi di destinazione.
La distinzione tra migranti economici e profughi, stabilisce di fatto che i migranti possano accedere a una forma di protezione in Europa in base alla loro nazionalità. Hanno diritto a essere accolti i siriani, gli eritrei e gli iracheni, quelli cioè a cui è riconosciuta una protezione nella maggior parte dei paesi europei, mentre tutti gli altri rientrano nella categoria dei migranti economici. In questa categoria finiscono anche coloro che scappano dalla guerra in Libia, o da quella in Afghanistan, oppure i migranti che fuggono da governi dittatoriali come quello gambiano e quello etiope. Per queste altre nazionalità è possibile richiedere l’asilo in Italia, ma senza troppe speranze di avere un responso positivo alla propria domanda. In Italia nei primi sei mesi del 2016 le domande d’asilo sono aumentate del 60 per cento e le risposte negative (i dinieghi) sono state il 60 per cento. Un numero altissimo di persone in questo modo è diventato irregolare, senza documenti e senza diritti, dopo essere passato nelle maglie del sistema di accoglienza italiano che di fatto ha prodotto clandestinità, invece che integrazione.
Nei paesi di arrivo dei migranti sono stati istituiti dei centri per l’identificazione: appunto gli hotspot. Se in passato i migranti che arrivavano nel sud dell’Europa cercavano di sottrarsi al sistema di accoglienza istituzionale e di raggiungere il paese di destinazione con i propri mezzi, dopo l’entrata in vigore dell’Agenda questo non è più vero. In Italia nel 2016 sono stati fotosegnalati e identificati il 99 per cento dei migranti arrivati: molti di loro hanno chiesto di essere ricollocati, altri hanno fatto domanda d’asilo. Amnesty international e altre organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato la pressione attuata dall’Unione europea sulle autorità di Italia e Grecia per l’identificazione massiccia dei migranti. “Un processo di screening non fondato su alcuna legislazione e fatto con troppa fretta – quando le persone sono ancora troppo stanche o traumatizzate dal viaggio per poter prendere parte in modo consapevole a questo processo, e prima che abbiano avuto la possibilità di ricevere informazioni adeguate sui loro diritti e sulle conseguenze legali delle loro dichiarazioni – rischia di negare a coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni l’accesso alla protezione alla quale hanno diritto”, scrive Amnesty international nel suo rapporto Hotspot Italy, in cui denuncia le violazioni avvenute contro i migranti nei centri di identificazione italiani. A causa della lentezza del sistema di ricollocamento per quote, la maggior parte dei migranti che avevano aderito al programma è rimasto in attesa per mesi. Molti, stanchi di aspettare, hanno lasciato i centri e si sono rimessi in viaggio. Questo ha determinato una situazione complicata in alcune città italiane come Roma, Ventimiglia, Milano, Como, Bolzano. In queste città è stato registrato un flusso di persone che sostavano per alcuni giorni e che si dichiaravano in viaggio verso in Nordeuropa, ma a differenza dei migranti che erano in transito l’anno precedente, quelli in transito nel 2016 erano stati tutti identificati allo sbarco e alcuni avevano già chiesto di essere ricollocati. E per questo avevano perso il diritto di chiedere asilo in altri paesi europei ma allo stesso tempo, essendosi allontanati dai centri di accoglienza, avevano perso il diritto di essere assistiti dal sistema italiano. Inoltre alle frontiere di Ventimiglia e a Chiasso sono stati registrati numerosi casi di respingimento (tra i respinti molti minori) come denunciato dall’Asgi, da Amnesty international e da altre organizzazioni non governative. Queste persone, rimandate in Italia, sono state trasferite nell’hotspot di Taranto in un programma che le autorità italiane hanno definito di “alleggerimento delle frontiere”.
Un’altra conseguenza dell’approccio hotspot è stato l’ampliamento della rete dei Centri di espulsione e identificazione (Cie), come documentato dal Rapporto diritti dell’associazione A buon diritto. Fino a ottobre del 2015 i Cie erano cinque (Torino, Roma, Bari, Caltanissetta e Trapani) e nel 2016 sono diventati otto con l’apertura di quelli di Brindisi, Crotone Sant’Anna e con la conversione del centro di Trapani in un hotspot. Il 4 agosto 2016 inoltre è stato firmato un accordo di collaborazione tra la polizia del Sudan e quella italiana che è stato all’origine di alcuni rimpatri. Il 24 agosto 2016 quaranta migranti sudanesi sono stati fermati a Ventimiglia e trasferiti nell’hotspot di Taranto dove il 22 agosto sono stati raggiunti da un decreto di espulsione. Il 24 agosto da Taranto 48 sudanesi sono stati trasferiti a Torino per essere rimpatriati. Alcuni di questi migranti erano originari del Darfur e hanno denunciato i rischi a cui andavano incontro con il rimpatrio.
La militarizzazione delle frontiere
Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, nel gennaio del 2016, aveva detto che per salvare il sistema Schengen sarebbe stato necessario rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione. “Reinsediamenti, ricollocamenti e protezione delle frontiere vanno assieme. Ho fiducia che nel 2016 faremo dei buoni progressi”,
aveva affermato Juncker, inaugurando il semestre olandese di presidenza europea e lanciando l’idea di una guardia di frontiera comune. In effetti nel 2016 questa idea si è realizzata. Il 14 settembre 2016
è stata approvata la creazione di una guardia di frontiera e costiera europea, che in pratica corrisponde al rafforzamento di Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere esterne. Il nuovo corpo, diventato operativo già a metà ottobre, non dispone di guardie di frontiera proprie, ma può contare su 1.500 agenti scelti tra le guardie di frontiera nazionali, pronte a intervenire in caso di emergenza in uno dei paesi dell’Unione. I primi 120 agenti della guardia di frontiera europea
sono stati schierati al confine tra Bulgaria e Turchia, per scoraggiare i profughi ad attraversare il confine. Tra i compiti dell’agenzia europea ci sono quelli di valutare la capacità degli stati di controllare le frontiere esterne, affiancare le guardie costiere e frontaliere nazionali negli interventi contro l’immigrazione irregolare o il traffico di esseri umani, coordinare questi interventi, occuparsi delle deportazioni e dei rimpatri, coordinarsi con gli stati extraeuropei per la gestione delle frontiere. Come
ha commentato il giurista Fulvio Vassallo Paleologo “si tratta di una espansione delle attività dell’agenzia Frontex e di una sua maggiore autonomia nello stabilire
rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento”. Questo a fronte di un investimento economico importante che ha come scopo non la salvaguardia della vita umana, né il soccorso delle persone in difficoltà, bensì la militarizzazione delle frontiere.
Nel dicembre del 2016 a bordo della nave San Giorgio della marina militare italiana è cominciato anche l’addestramento di 62 agenti della guardia costiera libica, nell’ambito dell’Operazione Sophia, del dispositivo militare Eunavfor Med, a cui ha collaborato anche Frontex. Lo scopo dell’addestramento dei libici rientra nel piano di lotta al traffico di esseri umani e di rafforzamento del controllo delle frontiere. Secondo il rapporto Border wars dello studioso Mark Akkerman “il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3.688 per cento”, ed è passato da 6,3 milioni a 254 milioni di euro all’anno. Dal 2014 è quasi triplicato, passando da 97 milioni ai 281 milioni di euro previsti per il 2017. A beneficiare di queste politiche sono soprattutto le aziende militari, tecnologiche e della sicurezza. Border wars mostra che l’industria delle armi non solo ha beneficiato della militarizzazione delle frontiere europee, ma ha anche fatto pressioni e ha incoraggiato questo approccio facendo attività di lobby. Akkerman ha inoltre mostrato come molte aziende che stanno facendo affari con Frontex sono le stesse che vendono armi ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa da cui i migranti cercano di scappare, venendo in Europa. Questo dispendio economico senza precedenti per il controllo delle frontiere esterne è coinciso con un numero record di morti nel Mediterraneo: secondo i dati raccolti delle Nazioni Unite nel 2016 hanno perso la vita 5.011 persone durante la traversata del Mediterraneo, 1.300 in più di quelle morte nel 2015 (3.771).
I corridoi umanitari dal Libano
Tra molte cattive notizie che riguardano l’immigrazione, il 2016 è stato segnato anche da qualche buona notizia
come l’apertura di corridoi umanitari dal Libano all’Italia per i profughi siriani. Interamente finanziati dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla chiesa valdese e dalle chiese evangeliche italiane, i corridoi umanitari
hanno portato in Italia dal Libano a più riprese circa 500 profughi siriani, in una maniera legale e sicura. Si è trattato di un progetto pilota che ha coinvolto principalmente le persone più vulnerabili, famiglie e individui con problemi di salute, ma ha mostrato agli stati europei che una via di buon senso per gestire i flussi migratori e combattere il traffico di esseri umani in alcuni contesti è possibile. Il progetto è stato interamente finanziato dai suoi promotori che si sono occupati anche di sistemare i profughi in diversi progetti di accoglienza in tutta Italia. Il governo italiano si è occupato di fornire un visto umanitario “a territorialità limitata” per i profughi e di regolare le questioni burocratiche con le autorità libanesi. In tutto, nel giro di due anni dovrebbero arrivare mille persone con questo sistema, dal Libano e dal Marocco, e ultimamente Sant’Egidio ha annunciato di voler aprire
un corridoio umanitario anche dall’Etiopia, in collaborazione con la Cei, la Caritas e Migrantes. Dovrebbero arrivare dal paese africano circa 500 persone nel corso del prossimo anno. Qualche stato europeo, come la Francia, e molte organizzazioni umanitarie hanno mostrato interesse per il progetto che potrebbe essere quindi emulato in altri paesi nei prossimi anni.
Il rafforzamento del sistema di accoglienza Sprar
Al momento in Italia il 70 per cento dei profughi e dei richiedenti asilo
è ospitato da un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). I Cas sono centri nati per far fronte all’emergenza degli arrivi dopo le cosiddette primavere arabe del 2011 e sono diventati un sistema parallelo e preponderante rispetto a quello dell’accoglienza ordinaria dei richiedenti asilo nel paese, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). La qualità dei servizi offerti dai Cas, spesso allestiti in strutture turistiche e alberghiere, è disomogenea, così come lo è la loro collocazione sul territorio nazionale. Rispetto ai Cas, gli Sprar hanno standard di qualità più alti, che sono fissati da regole ben precise e hanno come scopo l’integrazione a lungo termine del richiedente asilo e non solo la sua accoglienza temporanea. Inoltre i centri Sprar sono soggetti a una rendicontazione economica più rigorosa, e sono quindi meno soggetti ad abusi e a malversazioni. Per questo nel 2016 il ministero dell’interno ha mostrato la volontà di superare il doppio binario dell’accoglienza italiano e di favorire la diffusione del sistema degli Sprar, che al momento ospitano solo il 20 per cento dei profughi e dei richiedenti asilo nel paese. Il 10 agosto 2016 un decreto governativo
ha stabilito che gli Sprar non saranno più finanziati con dei bandi periodici, ma continuativamente in base a un sistema di accreditamento permanente e ai finanziamenti disponibili. Inoltre per contrastare la reticenza dei comuni italiani ad aderire ai progetti Sprar (su ottomila comuni italiani solo 1.800 hanno accolto i migranti nel 2016) a ottobre una circolare del ministero dell’interno ha stabilito che se il comune aderisce allo Sprar otterrà la progressiva diminuzione della presenza dei Cas sul suo territorio e inoltre riceverà 500 euro all’anno per ogni accolto.
L’unica debolezza di questo sistema è che l’adesione al sistema Sprar è volontaria per i comuni, mentre la distribuzione dei migranti per regione nel sistema dei Cas è disposta dal ministero dell’interno attraverso le prefetture ed è obbligatoria. Questo elemento continuerà in parte a favorire la diffusione dei centri straordinari, anche se gli incentivi economici ai comuni virtuosi potrebbero rappresentare un punto di partenza per favorire l’idea dell’immigrazione come risorsa invece che come problema.
La Casa della Carità di Milano si prepara a celebrare il Natale con un Presepe che ci ricorda che le migrazioni forzate hanno sempre accompagnato la storia delle donne e degli uomini; anche di una coppia di genitori, Maria e Giuseppe, che, per i cristiani, sono stati i principali attori della Natività».
casadellacarità.org, 9 dicembre 2016 (m.c.g.)
Come vuole la tradizione, nel giorno dell'Immacolata abbiamo allestito il Presepe che quest'anno racconta le storie delle persone che incontriamo ogni giorno
Anche la Casa della carità si appresta a vivere il Natale. Come vuole la tradizione, nel giorno dell'Immacolata abbiamo allestito il Presepe, che è stato collocato proprio davanti all'ingresso di via Brambilla 10. Una tradizione che si rinnova di anno in anno, con la scena della nascita di Gesù che cambia sempre "forma", grazie alla fantasia della nostra operatrice Iole, che realizza il Presepe insieme alla collega di SoStare Chiara e ai preziosi volontari Gigi e Gianni.
«Credo che la Natività sia una storia di straordinaria contemporaneità, che continua a parlare al nostro presente. Nel pensare al Presepe di quest'anno, ho quindi chiesto a Iole che esso avesse un legame ancor più stretto con le storie che qui alla Casa della carità ascoltiamo tutti i giorni: le storie di coloro che bussano alla nostra porta chiedendo non solo di essere accolti, ma anche di essere ascoltati e riconosciuti in quanto esseri umani portatori di diritti e dignità, e non solo numeri, come invece spesso accade», ha detto don Virginio Colmegna.
Nell'allestire la scena, Iole ha allora pensato al brano biblico in cui si dice: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra [...] Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Per questo, a far da sfondo alla Sacra Famiglia sono dei rotoli di pergamena scritti in aramaico, a rappresentare i registri del censimento. Per collegarsi all'oggi, in primo piano davanti a Maria, Giuseppe e al Bambino ci sono invece decine di passaporti: di ogni parte del mondo, di diversi colori, nuovi oppure sgualciti a causa delle traversie dei viaggi che i proprietari hanno compiuto per arrivare fino a qui.
«Se al tempo di Gesù i registri erano lo strumento che attestava l'identità, oggi è il passaporto a dire chi sei e da dove vieni, dove puoi e soprattutto dove non puoi andare. In questo episodio Maria e Giuseppe compiono un viaggio verso Betlemme per farsi registrare, quindi per vedere riconosciuta la propria identità e la propria presenza. Millenni dopo, lo stesso accade per le centinaia di persone che si rivolgono alla Casa da ogni parte del mondo, chiedendo di poter essere registrate in via Brambilla [sede della Casa della casa della Carità la cui Fondazione è presieduta da don Virginio Colmegna], affinché vengano loro riconosciuti i più elementari diritti di cittadinanza», spiega l'operatrice.
». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il terrorismo che colpisce nel mucchio è difficile da combattere. Ma scoprire una cellula attiva tra popolazioni insediate da tempo in Europa (base indispensabile per ogni attività terroristica) è molto più difficile che individuare un terrorista imboscato tra un gruppo di profughi. Soprattutto se alla loro registrazione all’arrivo – o alla partenza con corridoi umanitari – corrispondesse il diritto a una libera circolazione in tutta Europa.
Perché ciò per cui i profughi si oppongono alla registrazione, o la rendono inefficace, è il timore di rimanere intrappolati nel paese di sbarco. Che poi si traduce spesso nel famigerato decreto di espulsione differito che lascia allo sbando decine di migliaia di profughi (come Amis Amri) che il governo italiano non sa né rimpatriare né controllare rendendo facile il loro reclutamento da parte della Jihad.
La gravità della situazione impone di alzare lo sguardo sulle radici del problema. Dal secondo dopoguerra l’Europa, a partire dai suoi stati centrali, è diventata un’area di massiccia immigrazione: profughi dai paesi dell’Est (circa 10 milioni), migranti dai paesi meridionali (quasi altrettanti), poi anche dai paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo, dalle ex colonie africane e del subcontinente indiano. Dall’ultimo decennio del secolo scorso gli arrivi sono proseguiti investendo anche i paesi dell’Europa mediterranea che prima avevano alimentato una parte cospicua di quel flusso.
Sono stati coinvolti più di 50 milioni di persone, molte delle quali, con i loro figli, sono poi diventate cittadini dei paesi di arrivo; per questo i migranti che non sono ancora cittadini europei sono solo 20 milioni circa. La maggior parte di quel flusso era costituita da «migranti economici» alla ricerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori.
I più il lavoro l’hanno trovato, tranne poi perderlo e venir relegati in ghetti e banlieu nel passaggio dalla prima alla seconda generazione. Senza di loro l’Europa però non avrebbe mai conosciuto i «miracoli economici» degli anni ’50 e ’60 né il più stentato sviluppo dei decenni successivi e sarebbe rimasta in gran parte un continente sottosviluppato. E lo sarà ben presto, e sempre di più, se continuerà a cercar di fermare i nuovi arrivi.
Per una denatalità irreversibile, infatti, l’Ue (Regno unito compreso) perde circa 3 milioni di abitanti all’anno. Nel 2050, senza l’apporto di nuovi migranti, invece dei 500 milioni attuali ci saranno solo 400 milioni di abitanti, più o meno autoctoni: in maggioranza vecchi e sclerotizzati dal punto di vista fisico, economico e soprattutto culturale: una cosa che in Italia si comincia a vedere già ora. Eppure si sta facendo di tutto per fermare o per respingere i nuovi arrivi. Fino a pochi anni fa arrivava in Europa una media di 1,5 milioni di «migranti economici» all’anno (300mila in Italia, tutti o quasi regolarizzati da sanatorie di destra e sinistra). Ma l’anno scorso, invece, 1,5 milioni di profughi (170mila in Italia, in gran parte «in transito») sono stati considerati un onere insostenibile. Che cosa ha provocato quella inversione di rotta?
I governi dell'unione Europea hanno risposto alla crisi del 2008, tutt’ora in corso, con politiche di austerità che hanno portato a 25 milioni il numero dei disoccupati ufficiali (quelli effettivi sono molti di più). Se non c’è più lavoro, reddito, casa e assistenza per tanti cittadini europei non ce ne può essere per i nuovi arrivati: questo è l’argomento alla base della svolta impressa alle politiche migratorie.
A questa chiusura delle frontiere e delle menti si è poi sovrapposta un’ondata di «islamofobia» alimentata dalle stragi perpetrate da membri o simpatizzanti di organizzazioni terroristiche islamiste. Alla sensazione diffusa che «sono troppi», alimentata dall’austerità, si è così mescolato, ad opera dei numerosi imprenditori politici della paura, il tentativo di attribuire all’arrivo dei profughi la proliferazione del terrorismo.
Oggi di fronte alla marea montante delle destre razziste Angela Merkel sembra rappresentare un baluardo, nonostante le sue oscillazioni e i suoi arretramenti. Ma all’origine della «crisi dei migranti», cioè dell’idea che per loro non ci sia più posto in Europa, c’è proprio l’austerità di cui la Merkel è la principale sponsor. E senza affrontarne le cause, la sua collocazione politica l’ha posta sulla china di un progressivo cedimento all’oltranzismo xenofobo.
Ma è soprattutto il metodo adottato per arginare la «piena» dei profughi che ad essere per molti versi criminale e carico di rischi. L’accordo con Erdogan, che ispira tutti gli altri accordi con paesi di origine o transito di profughi, imprigiona milioni di esseri umani nelle mani di governi e bande armate che hanno già dimostrato una vocazione a sfruttarli fino all’osso per poi farne scempio. Ma espone anche gli Stati europei al ricatto (già messo in atto a suo tempo da Gheddafi e oggi ventilato da Erdogan) di aprire le dighe di quei flussi se i rispettivi governi non saranno acquiescenti.
Ma alcuni semplici punti vanno messi in chiaro.
1. I profughi di oggi fuggono in gran parte da quelle stesse forze che sono gli ispiratori, se non gli organizzatori, degli attentati che stanno insanguinando le città europee. Respingerli significa ributtarli in loro balia e, in mancanza di alternative, costringere una parte a diventarne le future reclute.
2. La politica dei rimpatri è impraticabile se non per piccoli gruppi: per mancanza di interlocutori affidabili, per il costo (tanto è vero che vengono espulsi «per finta»), per il rischio di pagarla avallando le peggiori dittature e, non ultimo, perché è una politica di sterminio, anche se «esternalizzato».
3. La distinzione tra migranti economici e profughi politici su cui si regge la prospettiva dei rimpatri è un alibi privo di basi: sono tutti migranti ambientali, mossi da conflitti sempre più atroci innescati da un deterioramento radicale del loro habitat. C’è ormai una sovrapposizione netta tra i paesi centroafricani investiti dalla crisi climatica, quelli coinvolti in conflitti riconducibili a organizzazioni islamiste e l’origine dei maggiori flussi di profughi.
Ma anche la guerra civile (e mondiale) in Siria è partita da una rivolta contro il feroce regime di Assad innescata dal deterioramento ambientale del territorio; di quel fiume di profughi, e delle devastazione e degli orrori che li hanno fatti fuggire, i governi europei recano una pesante responsabilità: attraverso la Nato e la Turchia, appoggiandosi sui più feroci regimi mediorientali, non hanno esitato a fare della popolazione siriana in rivolta un ostaggio delle peggiori bande islamiste, Isis compreso, di cui ora sono il bersaglio. E facendo entrare i campo i bombardieri russi che hanno trasformato la guerra in conflitto mondiale.
4. Trasformare l’Europa in una fortezza, posto che sia possibile, significa metterla in mano a forze razziste e antidemocratiche al suo interno; ma anche perpetuare uno stato di guerra al di fuori dei suoi confini. Se nella fortezza non si può più entrare, diventerà sempre più difficile anche uscirne. Qualcuno farà mai turismo o affari leciti in luoghi come lo Stato islamico o tra i Boko haram?
5. Per questo restiutuire a ogni cittadino europeo i diritti sociali, civili e politici e garantire ai profughi i diritti che spettano a ogni essere umano è un’unica battaglia. Ed è l’unico modo, alla lunga, di prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista.
«La necessità di una corretta informazione come antidoto all’hate speech è il contributo che abbiamo ritenuto di portare ai lavori della Commissione contro l’intolleranza e l’odio».
Articolo21 online, 20 dicembre 2016 (c.m.c.)
Un anno fa, nel presentare la precedente edizione di questo rapporto, definivamo “impressionante” ma “non sorprendente” la quantità di articoli e di servizi televisivi che i media italiani avevano dedicato all’immigrazione nel corso del 2015: una crescita da 70 al 180 per cento nella carta stampata e fino al 400 per cento nelle tv.
“Non sorprendente” perché nel corso di quell’anno si erano verificati alcuni eventi che, in base agli ordinari “criteri di notiziabilità”, erano di rilevanza assoluta ed era dunque fisiologico che avessero prodotto un gran numero di articoli e di servizi: il naufragio del 18 aprile (a pochi mesi dalla sospensione dell’operazione Mare Nostrum) con 800 vittime, e la morte del piccolo Aylan Kurdi con quella sequenza fotografica che commosse il mondo.
Nel 2016 non si sono verificati eventi di quella portata eppure – ci dice l’analisi dell’Osservatorio di Pavia – quei numeri impressionanti si sono sostanzialmente ripetuti: una leggera flessione quanto ai servizi televisivi, un ulteriore incremento nei titoli delle prime pagine dei quotidiani nazionali.
Il dato quantitativo, insomma, si è stabilizzato: si parla molto più di prima dell’immigrazione, anche in assenza di notizie clamorose. Se negli anni passati se ne parlava in occasione di tragedie del mare, di gravi fatti di cronaca nera, dei ciclici aumenti degli sbarchi (le “invasioni”) e, spesso in chiave emergenziale, in coincidenza con le campagne elettorali, adesso se ne parla con continuità, quasi tutti i giorni, e vi si arriva attraverso percorsi un tempo praticati, raramente, da pochi specialisti del settore: dalle analisi sull’organizzazione del lavoro a quelle sull’equilibrio del sistema pensionistico, dagli studi sulla nuova imprenditoria ai rimedi per frenare lo spopolamento delle zone interne. Il tema dell’immigrazione è entrato, in modo strutturale e pervasivo, nel sistema dell’informazione.
L’approdo auspicato da anni – far uscire l’emigrazione dall’eterna emergenza e considerarla finalmente una delle ordinarie tematiche sociali del nostro Paese e del nostro tempo – è stato dunque raggiunto dai media italiani? O è stato il tema a espandersi in una misura tale da imporsi ai media, anche quelli che lo snobbavano considerandolo di scarsissimo appeal per i loro lettori e ascoltatori? È difficile dare una risposta netta. Di certo i due processi non sono alternativi tra loro.
L’impressione è che si siano verificati entrambi. L’immigrazione, attraverso la sua drammatica forza autonoma, si è imposta come tema centrale dell’agenda europea e, contemporaneamente, è cresciuto il numero dei professionisti che hanno deciso di approfondirlo. Ipotesi, quest’ultima, che avanziamo anche alla luce della grande partecipazione dei colleghi alle iniziative formative che abbiamo curato in questi dodici mesi.
A confermare l’avvenuto “approdo alla normalità” il calo della “componente ansiogena” delle notizie e il comparire, nei toni e negli stili delle notizie sull’immigrazione, di modelli tipici dell’informazione politica. Se negli anni scorsi i media più ostili all’accoglienza abbondavano di allarmi, adesso utilizzano lo strumento dell’ironia, e a volte del sarcasmo. È più difficile brandire un tema diventato “normale” e si preferisce, quando è possibile, liquidarlo. In un certo senso, mentre se ne vorrebbe contestare la legittimità, si conferma attraverso il linguaggio il pieno ingresso dell’immigrazione nell’agenda politica.
Ma la conferma più chiara viene da alcuni dei dati illustrati in questo rapporto. Gli analisti dell’Osservatorio di Pavia hanno rilevato che nei servizi sull’immigrazione mandati in onda nel corso del 2016 dai tg nella fascia prime time, i politici italiani sono presenti una volta ogni tre e quelli europei una volta ogni cinque. Complessivamente, i politici sono dunque presenti, quando si parla di immigrazione, in un servizio su due. Una percentuale che cala drasticamente quando si esamina la presenza di esponenti politici in servizi dedicati ad altre tematiche pure di grande rilevanza sociale.
Inoltre, quanto alla carta stampata, si è constatato che nella metà dei titoli dedicati all’immigrazione si fa riferimento esplicito a esponenti politici italiani e/o europei. Come ben sanno i colleghi che ci hanno seguito in questi anni, il nostro “chiodo fisso”, l’assunto metodologico che ci guida, è chiarire che le regole della Carta di Roma non costituiscono un mansionario per giornalisti “buoni” e “politicamente corretti”. Il nostro codice deontologico non fa altro che riferire a un tema particolarmente complesso e delicato qual è l’immigrazione le regole deontologiche generali. Su questo assunto si fonda la convinzione che, sperimentandole sull’immigrazione, possiamo migliorare e affinare le nostre capacità professionali. Proprio come un chirurgo che migliora le tecniche operatorie intervenendo sul corpo dei pazienti più fragili.
I dati sulla crescente presenza di esponenti politici nei servizi dedicati all’immigrazione, mentre rappresentano una formidabile conferma della “normalizzazione” del tema, sono anche una conferma della tendenza del nostro sistema informativo ad assecondare l’agenda politica. Un’agenda nella quale l’immigrazione compare come terreno di scontro.
Abbiamo preso atto, finalmente, del fatto che era ora di smetterla di usare toni ansiogeni ed emergenziali per un fenomeno che dura da più di vent’anni, ma la politica ancora non l’ha fatto. Lo scontro si riaccende in seguito a eventi connessi per larga parte all’accoglienza. Gli sbarchi sono diventati “normali”, ma non lo è ancora quel che succede un attimo dopo. Raccontiamo nei dettagli che “sono arrivati”, ma continuiamo a spiegare molto poco perché “sono partiti”. Teniamo la conta dei migranti e dei rifugiati vittime del Mediterraneo e riferiamo di indagini e processi che hanno per protagonisti trafficanti di esseri umani, ma non raccontiamo con altrettanta attenzione i canali alternativi sicuri e legali già attivi, dal reinsediamento ai corridoi umanitari.
La possibilità di un’informazione completa sull’immigrazione – un’informazione che, tra l’altro, sappia spiegare a lettori e telespettatori non solo gli effetti degli arrivi, ma anche le cause delle partenze e delle fughe – continua e entrare in conflitto con una politica che non riesce a trovare un orizzonte condiviso e parla (e litiga) con un’intensità tale da togliere spazio alla voce dei diretti interessati. E che, ancora, sostanzialmente impone la sua agenda, interferendo anche nei percorsi virtuosi.
Diminuisce l’utilizzo di un termine giuridicamente inappropriato come “clandestino”, ma si enfatizza lo status di rifugiato dell’autore di un reato. Anche quando non lo è, come nel caso delle violenze contro le donne compiute la notte di Capodanno a Colonia. Un quadro che conferma la necessità di un sistema di informazione che segua percorsi autonomi, che vada a fondo nelle notizie, che fornisca ai cittadini un quadro completo dei problemi in modo che possano formarsi un giudizio. Come si vede, partendo dall’immigrazione si arriva a conclusioni che riguardano tutti i giornalisti, anche quelli che si occupano di tutt’altro.
La “normalizzazione” ha determinato anche un abbassamento dei toni. Questo Rapporto ci dice che l’hate speech, il discorso d’odio, non riguarda in modo diretto il sistema dei media tradizionali. Non “produciamo” hate speech e, nella generalità dei casi, evitiamo di diventarne veicolo. Facciamo, con una certa efficacia, da filtro. Una buona notizia. Tuttavia dovremmo riflettere sul fatto che l’hate speech, quello che dilaga nei social network, trova alimento nella cattiva informazione. Ed è questa la ragione per cui non possiamo sentirci innocenti.
La necessità di una corretta informazione come antidoto all’hate speech è il contributo che abbiamo ritenuto di portare ai lavori della Commissione contro l’intolleranza e l’odio, la Commissione Joe Cox, istituita su iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini. Consideriamo il fatto della sua istituzione il primo tentativo di ragionare assieme, anche sulle modalità di formazione dell’agenda, tra politica, associazioni umanitarie e professionisti della comunicazione.
Un confronto utile a definire senza equivoci i reciproci ambiti. Ma anche necessario al sistema dell’informazione che ha nei social network dei formidabili alleati e delle insidiose serpi in seno. Se, infatti, per un verso i social consentono di diffondere in una misura un tempo impensabile i contenuti informativi, per altro verso agiscono come organi di informazione autonomi, privi di un direttore responsabile e animati da una moltitudine di redattori, alcuni dei quali totalmente irresponsabili, che diffondono notizie false che in alcuni casi configurano autentici incitamenti all’odio razziale.
Il filtro dei media professionali non è da solo sufficiente in assenza di regole certe che impongano ai social di attenersi alle norme dell’ordinamento giuridico a cui sono sottoposti i loro utenti, i cittadini dei Paesi in cui operano. Questo è il terreno nel quale gli operatori dell’informazione e la politica devono, con urgenza, incontrarsi.
«». La Repubblica, 19 dicembre 2016 (c.m.c.)
L’immigrazione è un capitolo centrale dello “spettacolo della vita”, che scorre sugli schermi e sulle pagine dei media. Ogni giorno, senza soluzione di continuità. Riflesso di un’emergenza infinita, visto che i flussi di migranti non finiscono mai. Mentre gli sbarchi proseguono. E il fondo del mare intorno a noi si è trasformato in un cimitero sommerso. Gli immigrati e l’immigrazione hanno “invaso” anche i media. Lo conferma il IV Rapporto curato da “Carta di Roma”.
Visto che la frequenza degli articoli e dei titoli sull’argomento, nel 2016, è aumentata di oltre il 10%, rispetto al 2015. Quando si era osservata la crescita più significativa dall’avvio di questo Osservatorio. Nell’ultimo anno, i servizi dedicati all’argomento nei telegiornali risultano 2954, con una media di quasi 10 notizie al giorno. Insomma, gli immigrati sono divenuti un tema dominante di cronaca e dibattito pubblico. Uno spazio fisso nelle prime pagine dei giornali e nei titoli di apertura dei tg nazionali di prima serata. Quasi una “rubrica”. Hanno occupato anche la comunicazione sui social media.
Intanto, la paura degli “altri” non accenna a declinare. Nel mese di aprile 2016, in Italia, l’indice di preoccupazione verso gli immigrati è salito al 41% (Sondaggio Demos): 10 punti di più rispetto all’aprile 2010.
Tuttavia, la frequenza degli articoli e dei titoli non si riflette sulla drammatizzazione “narrativa” dell’argomento. Gli sbarchi continui degli immigrati, infatti, sui media non fanno più grande rumore. Non sono sottolineati con enfasi e toni particolarmente ostili. Fatte salve, ovviamente, le differenze di testata. L’invasione degli immigrati sui media, nell’ultimo anno, si presenta e viene presentata, invece, come un fenomeno (quasi) “normale”, nella sua costante crescita.
Anche se le polemiche e l’allarme sui migranti non sono cessati. Non si sono spenti. Ma vengono espressi e amplificati non tanto dai media e dai “mediatori”, cioè, i giornalisti. Come mostra Il Rapporto redatto da “Carta di Roma”, sono, invece, usati (spesso strumentalmente) dagli esponenti politici e di partito. In oltre metà dei casi, peraltro, il tema dell’immigrazione è affrontato in chiave politica europea. Meglio, di polemica (anti)europea. Così, l’allarme e la tensione verso gli immigrati, sui media, nell’ultimo periodo si sono stemperati.
Perché l’immigrazione appare “un’emergenza normale”. E gli immigrati, “un popolo senza volto”. Inoltre, perché le voci dei politici che ne parlano sono ancor più “impopolari”. E intercettano il risentimento “popolare”.
Tuttavia, diversi media producono diversi messaggi, anche quando il contenuto è lo stesso. La distinzione più importante, al proposito, riguarda - e divide - i media tradizionali e nuovi. Perché si traduce nella distinzione fra comunicazione “mediata” - espressa dai media e dai mediatori - e “immediata”, orizzontale — espressa direttamente dalle persone. Sui social media, senza filtri. È qui che la comunicazione rischia di diventare - e spesso diventa - più violenta, quando si parla di migranti e di immigrazione. E qui, proprio per questo, è necessario esercitare maggiore sorveglianza. Sorvegliando i sorveglianti. Visto che i social media e la rete sono considerati canali di “sorveglianza” nei confronti del potere. Ma non sempre esercitano il medesimo auto- controllo. Su loro stessi.
Per questo, in futuro, occorrerà analizzare in modo più attento la presenza degli immigrati sui media. Sui diversi canali di informazione. Per evitare la scissione, sempre più evidente, fra la normalizzazione del fenomeno sui media tradizionali e la drammatizzazione che subisce sui media nuovi e immediati. Per tenere sotto controllo la paura, ma anche la pietà. Perché la pietà può essere, a sua volta, “feroce”, quando diventa spettacolo. Come avviene, sempre più spesso, nel caso dell’immigrazione. Che l’informazione ha normalizzato. Fin quasi a nasconderla. Nell’ombra dell’indifferenza. Con il rischio di nascondere - e dissimulare - anche l’intolleranza. Un sentimento tutt’altro che “normalizzato”.
Meglio, però, non fingere. E se è impossibile azzerare il razzismo e neutralizzare i razzisti, conviene renderli evidenti. Poi, a ciascuno il compito di agire e di reagire di conseguenza.
«I migranti sbarcati in Italia scappano da guerre, violenze, persecuzioni, miserie, conflitti. Il 18 dicembre è una data importante, segnata per ricordare le loro storie, le loro vicende
». Corriere della sera, Corriere sociale online, 18 dicembre 2016, con postilla sulla JP Morgan
Se guardi nella profondità dei suoi occhi, puoi ancora vedere tracce del riflesso di dolori e violenze che lo accompagnano sin da quando era molto piccolo. Ed ora che di anni ne ha 18, Kone sta provando ad allontanare dalla sua vita i momenti più drammatici e difficili per realizzare i suoi sogni più ambiziosi e confidare in un futuro più generoso del passato. Perché Kone, della Costa d’Avorio, ha perso il papà molto presto ed è cresciuto con la madre, attivista politica dell’opposizione. A soli 9 anni, però, ha assistito al pestaggio e all’arresto della madre da parte della polizia governativa. A quel punto, Kone ha iniziato il suo viaggio. Fisico e mentale. Ha seguito il tragitto compiuto da migliaia di migranti che ogni anno transitano dal Mali e dal Niger per arrivare in Libia. E’ in questa terra martoriata e in piena guerra civile che ha svolto lavori saltuari per pagarsi le tratte del viaggio, per garantirsi la miglior vita possibile dopo l’inferno che aveva vissuto e toccato con mano.
"Sosteniamoci" per minori stranieri non accompagnati
Kone fa parte dei 15 mila minori arrivati nel 2016 sulle coste italiane senza genitori, bambini in condizioni al limite della sopravvivenza ed in fuga da contesti di guerra, violenza, povertà. Adolescenti di 12-17 anni, provenienti da Paesi diversi, come Egitto, Gambia, Albania, Eritrea, Nigeria, Guinea, Costa d’Avorio e Somalia. Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno. Kone nella città di Bergamo ha trovato la risposta al suo viaggio migratorio. Perché fa parte dei 25 minori stranieri non accompagnati inseriti nel progetto "SOSteniamoci", l’iniziativa realizzata da Cesvi con il sostegno di Brembo per favorire l’autonomia socioeconomica dei ragazzi, supportandoli nella realizzazione del loro progetto di vita tramite la creazione di percorsi formativi a cui farà seguito un processo di inserimento lavorativo in varie realtà del bergamasco.
Quella di Kone, dunque, è una storia destinata a cambiare, ad evolvere in un sentiero di piena integrazione nella comunità e di acquisizioni di competenze professionali. Ma per tutti gli altri?
La giornata internazionale di solidarietà
Dal primo gennaio al 31 ottobre 2016 sono più di 158.795 i migranti sbarcati in Italia. Scappano da guerre, violenze, persecuzioni, miserie, conflitti. Il 18 dicembre è una data importante, segnata per ricordare le loro storie, le loro vicende. La Giornata Internazionale di Solidarietà con i Migranti, infatti, è stata istituita nel 2000 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite perché in questo stesso giorno del 1990, l’Assemblea Generale dell’ONU aveva adottato la Convenzione Internazionale per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Ed allora storie come quelle di Kone aiutano fare memoria, a creare una maggiore coscienza sul fenomeno dell’immigrazione, ad approfondire meglio cosa succede nei loro Paesi e cosa c’è dietro la fuga che troppo spesso coincide con la perdita di numerose vite umane durante il cosiddetto viaggio della speranza.
In fuga da Boko Haram
Grace ha 40 anni e vive in Nigeria. Circa sei anni il suo villaggio è stato attaccato, saccheggiato e distrutto da Boko Haram. Grace in quel periodo era incinta e viveva col marito ed il figlio di 12 anni. L’intera famiglia è stata catturata dalle milizie jihadiste. Grace nel periodo di prigionia ha dovuto subire ogni forma di schiavitù, ha fatto lavori pesanti, ha sofferto tanto, ma in qualche modo è riuscita a scappare e a far perdere le sue tracce.
E’ tornata nel suo villaggio ed ha aspettato il ritorno dei suoi cari. Durante la straziante attesa ha anche partorito il suo secondo bambino. Il marito un giorno ha fatto ritorno a casa, ma l’altro suo figlio non è più tornato al villaggio. Lo sta ancora aspettando, perché è convinta che sia ancora sotto le mani di Boko Haram, utilizzato probabilmente come bambino soldato.
Una delle più gravi crisi umanitarie si sta consumando in Africa proprio a causa degli attacchi indiscriminati di Boko Haram ed a pagarne le conseguenze come Grace e la sua famiglia sono 21 milione di persone; 2,6 milioni di persone, invece, sono state costrette a lasciare le loro case per evitare la morte.
E’ una migrazione silenziosa e dimenticata dall’opinione pubblica che coinvolge la regione del bacino del Lago Ciad dove si affacciano il Camerun, il Niger, la Nigeria e il Ciad. Dal 2009 l’area è stata assediata da Boko Haram nel tentativo di instaurare un califfato islamico in Africa occidentale; le violenze delle milizie dell’estremista jihadista si sono concentrate in particolare nel nord-est della Nigeria. «Tra gli esuli vi è un ampio numero di bambine che sono state sottoposte a violenze di ogni tipo – spiega Tiziana Fattori, Direttore Nazionale di Plan International Italia – .
Alle bambine tocca pagare sempre doppio in quanto quelle abusate vengono stigmatizzate dalle comunità, specie se rimaste incinte durante la cattura. Infatti molte di loro non vogliono tornare nel loro villaggio, temendo il disonore per la loro famiglia che le ripudierebbe». Di conseguenza, i programmi in loco di "Plan International" per i bambini migranti hanno due focus: la protezione infantile e l’aiuto alle vittime di violenza di genere. Ma di recente Plan International ha anche aperto due uffici per avviare un programma dedicata alla ricerca dei bambini scomparsi, proprio come nel caso di Grace che nonostante tutto non ha ancora perso la speranza.
Contrastare la tratta di esseri umani
Quello di Seny, invece, è stato un viaggio di ritorno. Disoccupazione, mercato locale sottosviluppato, mancanza di competenze professionali, il giovane è partito dalla sua terra, dal Senegal per sognare un futuro migliore in Europa. Non sapeva che la morte è un prezzo concreto da pagare se ci si mette in viaggio senza essere a conoscenza dei pericoli o di che cosa sia la tratta di esseri umani. Anche Seny è stato fortunato. Perché al suo arrivo in Italia è stato accolto in Centro di Accoglienza in Sicilia. E’ qui che il giovane ha conosciuto gli operatori di Missioni Don Bosco e VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), le due realtà promotrici della campagna "Stop-Tratta – Qui si tratta di essere/i umani", rivolta a cinque Paesi di origine e transito dell’Africa Sub-Sahariana: Ghana, Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio ed Etiopia.
Attraverso il progetto, quindi, Seny è tornato nel villaggio da cui era partito per incontrare e parlare con la sua gente, con la sua comunità d’origine. Ha raccontato, a chi lo conosce da sempre, il terribile viaggio che ha dovuto affrontare, i pericoli, le insidie.
Non a caso, la campagna è nata dalla necessità di contrastare il traffico di esseri umani attraverso la sensibilizzazione dei potenziali migranti sui rischi del viaggio verso l’Europa, dalla detenzione alla morte, fornendo informazioni utili attraverso i social network e contenuti nelle lingue locali per favorire una scelta consapevole. Seny ha portato la sua diretta testimonianza. Ma il lavoro di VIS e Missioni Don Bosco prosegue nei cinque Paesi coinvolti con l’attivazione di corsi di formazione professionale. Idraulica, sartoria, informatica, agricoltura, elettromeccanica e tanto altro. Perché al viaggio, i migranti devono preferire sfruttare le risorse e le ricchezze offerte dai loro territori e le varie competenze professionali acquisite.
Il lavoro per l'integrazione
Intanto, proprio nella Giornata nata nel rispetto della Convenzione Internazionale per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, prende il via Work 4 Integration»
, il progetto promosso dall’Organizzazione Umanitaria Soleterre-Strategie di pace destinato a 120 cittadini migranti residenti nella provincia di Milano disoccupati o a rischio disoccupazione. Tra il 2010 e il 2014 il tasso di occupazione a livello nazionale è diminuito del 5,5 %, passando dal 68,1 % al 62,6 %. All’interno di questo scenario, quindi, i migranti sono vittime di discriminazioni (retribuzione, condizioni di lavoro, possibilità di carriera), segregazione orizzontale e verticale in settori e mansioni specifici e di iper-specializzazione che porta fino al de-mansionamento, fenomeno per cui l’Italia presenta i tassi più alti d’Europa e che rappresenta dunque un tratto caratteristico del modello d’integrazione italiano.
Le difficoltà primarie che gli immigrati in Italia devono affrontare nella ricerca del lavoro sono le conoscenze linguistiche, in particolare la terminologia specifica del settore lavorativo, il livello di istruzione e le competenze tecniche che potrebbero non aderire agli standard italiani. E’ qui che si inserisce il progetto finanziato dalla JP Morgan Chase Foundation, che per 18 mesi coinvolgerà i migranti residenti nella provincia di Milano in attività che facilitano l’accesso all’informazione, alla formazione e all’inserimento lavorativo. Obiettivo dell’iniziativa è assicurare il benessere psicosociale di uomini e donne adulti e neo-maggiorenni, sostenendo i loro percorsi migratori con particolare attenzione alla dimensione lavorativa, e sensibilizzare le aziende su questi delicati temi.
postilla
Il riferimento alla JP Morgan (quella multinazionale che ha raccomandato ai governi dell'Europa del Sud di rendere le loro costituzioni meno favorevoli ai diritti dei lavoratori e alla democrazia) fa venire in mente brutti pensieri. E in particolare fa ricordare quanto sia labile il confine tra neoschiavismo e offerta di attività ai migranti. Oltre all'affidabilità della rete d'accoglienza, la garanzia è forse costituita dall'offrire occasioni di lavoro non a migranti singoli, ma a gruppi capaci di autodeterminazione.
«Priorità ai più vulnerabili (minori non accompagnati, vittime di tratta e sfruttamento); ma attenzione anche ai figli dei migranti di prima generazione: possono essere il cemento per una matura società multiculturale».
il manifesto, 11 ottobre 2016
«Il dovere morale dell’accoglienza» di chi fugge dalle emergenze umanitarie, in memoria dei 24 milioni di italiani emigrati negli scorsi due secoli: questo il Manifesto dei sindaci italiani per l’accoglienza firmato dal presidente Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro, dal presidente del Consiglio Nazionale Anci e sindaco di Catania Enzo Bianco e, tra gli altri, dai colleghi di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Lampedusa.
Il documento è stato siglato ieri in Vaticano, a conclusione della due giorni di incontri tra 80 sindaci europei sull’immigrazione, promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze. Il summit si è svolto 48 ore dopo l’approvazione a Bruxelles, da parte del Comitato delle Regioni, del parere di Enzo Bianco sulla revisione delle regole di Dublino. No a un’Europa che rifiuta di affrontare in maniera strutturale le politiche sui migranti e basta alla logica dell’emergenza i punti da cui i sindaci sono partiti.
Occorrono «corridoi umanitari e programmi di reinsediamento – si legge nel manifesto – che permettano a chi fugge di raggiungere i nostri territori senza mettere a repentaglio la vita e senza arricchire i trafficanti. Oggi il 98% delle persone in fuga sono accolte fuori dai confini dell’Ue». I comuni chiedono una distribuzione «diffusa, per piccoli numeri, proporzionati alla popolazione residente. Sono questi fattori che permettono ai sindaci di essere costruttori di ponti e non di muri».
Priorità ai più vulnerabili (minori non accompagnati, vittime di tratta e sfruttamento) ma attenzione anche ai figli dei migranti di prima generazione: «Possono essere il cemento per una matura società multiculturale. Oppure, al contrario, diventare il punto di rottura per la convivenza di ragazzi con gli stessi bisogni ma con diritti e possibilità nettamente diversi». Infine, il documento chiede di riconoscere che le politiche economiche occidentali sono una delle cause delle crisi e quindi delle fughe. «Lavoriamo tutti con decisione perché nessuno sia escluso dall’effettivo riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana» ha scritto il papa via twitter.
E' una realtà molto triste quella di un popolo che ha bisogno di prefetti di ferro per risolvere i problemi che la comprensione e la solidarietà dovrebbero essere capaci di risolvere e che la politica dovrebbe aver risolto ancora prima combattendo lo sfruttamento dei popoli lontani.
La Repubblica, 8 dicembre
«Siamo pronti ad abbattere muri e barricate. Le circolari sono scritte, i prefetti allertati. Non è più accettabile che alcuni comuni si sobbarchino il peso dell’emergenza, mentre tanti altri se ne lavino le mani». Il Viminale va alla “guerra” dell’accoglienza. Parte infatti il nuovo Piano nazionale di distribuzione dei migranti. L’obiettivo? Costringere i 5.400 sindaci che non ospitano nessuno a fare la propria parte.
Le città che già accolgono saranno “salve”, tutte le altre riceveranno con gare prefettizie 3 migranti ogni mille abitanti. Non solo. I prefetti, dopo aver verificato l’indisponibilità di strutture pubbliche, potranno requisire anche immobili privati. «Ma saranno casi eccezionali».
Oggi in Italia sono 2.600 su 8.000 i sindaci che ospitano migranti, con gare gestite dai prefetti. E di questi, meno di mille sono i virtuosi che volontariamente aderiscono alla rete Sprar d’accoglienza diffusa. Una situazione, che cozza contro i numeri del 2016: 174.603 i migranti già sbarcati sulle nostre coste (quasi solo africani), ben più dello scorso anno (quando alla fine se ne contarono 153mila), ma anche più di tutti quelli arrivati nel corso dell’intero 2014 (anno record con 170.100 sbarchi). Boom pure di minori stranieri non accompagnati: sono già oltre 24mila (l’anno scorso erano stati 12mila). Fermi al palo invece i ricollocamenti in altri Paesi Ue (solo 1.803 i migranti trasferiti dall’Italia). E così oggi il nostro Paese si trova a gestire 175.143 rifugiati tra centri governativi (15mila), strutture temporanee (136.818) e comuni che aderiscono allo Sprar (23mila).
In prima fila resta la Lombardia, seguono Lazio, Veneto, Piemonte, Campania e Sicilia. «Ma mentre la situazione a livello regionale è abbastanza equilibrata — precisano al Viminale — è all’interno delle singole regioni che ci sono troppe disparità tra comuni che fanno molto e altri che non fanno niente». Un esempio è in Veneto, dove ben 250 sindaci non accolgono nessuno. Per questo è pronto ora a partire il nuovo Piano nazionale d’accoglienza, siglato tra Anci e ministero dell’Interno.
Il via libera tecnico è stato dato ieri mattina a Roma, durante la celebrazione di Sant’Ambrogio, patrono del corpo prefettizio. «Prevedendo la reazione di alcune comunità locali, strumentalizzate dalle solite forze politiche — confidano al Viminale — si è deciso di aspettare il dopo-referendum ». Ora, nonostante la crisi di governo, si parte. Come funzionerà il Piano? Già sono pronte le circolari ministeriali e sono previste anche video-conferenze tra prefetti, sindaci e Viminale. Le città che già accolgono non vedranno piombare sul loro territorio altri migranti, tutte le altre invece saranno oggetto di gare prefettizie e dovranno prepararsi ad accogliere 3 rifugiati ogni mille abitanti. La quota prevista originariamente di 2,5 ogni mille è stata infatti rivista al rialzo, dopo i flussi migratori record degli ultimi mesi. Le grandi città metropolitane, già sotto pressione in quanto snodi di transito per tanti migranti diretti verso il Nord Europa, saranno invece alleggerite: 1,5 migranti ogni mille abitanti. In compenso, i comuni virtuosi riceveranno come incentivo uno stanziamento di 500 euro per ogni migrante ospitato.
Insomma tutto poggerà su gare pubbliche gestite dai prefetti, di fronte ai quali i sindaci che finora si sono chiamati fuori dall’emergenza dovranno piegarsi. Requisizione di immobili privati non sono previste, se non come extrema ratio, dopo che i prefetti abbiano verificato l’indisponibilità di strutture pubbliche.
«Ecco l’equivoco da cui dobbiamo liberarci: se neghiamo ai migranti i loro diritti umani, li neghiamo anche a noi stessi. E in ultimo diventiamo più insicuri».
La Repubblica 15 novembre 2016 (c.m.c.)
Donald Trump vorrebbe cacciarne 3 milioni. E noi? Sotto sotto lo approviamo. Perché anche in Italia gli immigrati sono un fiume in piena: negli ultimi 25 anni il loro numero è aumentato 10 volte.
E perchè quest’invasione ci spaventa. Sarà forse un delitto aver paura? Vabbè, le statistiche ci informano che gli stranieri delinquono meno degli italiani e sono pure più istruiti (Dossier statistico immigrazione 2016); ma è un racconto buono per i grulli, noi non ci caschiamo. Vabbè, in un anno la Germania ha assorbito oltre un milione d’immigrati; fatti loro, non vengano a farci la morale. Vabbè, un tempo fummo migranti pure noi italiani. Però è una storia che riguarda i nostri nonni, pace all’anima loro. E poi allora mica c’era il terrorismo, con la sua ferocia senza pari. Adesso c’è, e i politici non sanno trovare soluzioni. Di conseguenza abbiamo perso fiducia nei politici, e forse anche in noi stessi. Ci sentiamo confusi, spaesati. Ma dopotutto reclamiamo soltanto un po’ di sicurezza. È il primo diritto, l’unico davvero fondamentale. O no?
L’uomo moderno — scriveva nel 1929 Sigmund Freud — ha rinunziato alla possibilità d’essere felice in cambio di maggiore sicurezza. Ma sta di fatto che nel terzo millennio l’insicurezza domina la nostra vita pubblica e privata. Perché sperimentiamo matrimoni instabili, lavori precari, trasferimenti di città in città.
E perché al rischio esistenziale si somma un rischio esterno, che la globalizzazione ha elevato alla massima potenza. Il rischio demografico, dato che siamo ormai 7 miliardi sulla faccia della terra. Il rischio ecologico, che s’aggrava insieme al surriscaldamento globale. Il rischio atomico, con 16 mila testate nucleari disseminate ai quattro angoli del mondo (70 in Italia), quando una ventina basterebbero per oscurare il sole. Il rischio idrico (le prossime guerre si combatteranno per il controllo dell’acqua). Il rischio economico, che non deriva solo dalla crisi dei mercati. È la diseguaglianza, è la forbice tra il Nord e il Sud del nostro pianeta (90 a 1, in base al reddito pro capite), che alimenta tensioni nonché — per l’appunto — migrazioni.
Sì, viviamo nella società del rischio, come la definisce Ulrich Beck. E il rischio alleva la paura. Però quest’ultima è una sorella inseparabile della condizione umana. Nel volgere dei secoli cambia l’argomento, non il sentimento. Anche se l’argomento principale è poi sempre lo stesso: paura dell’altro, paura del nemico che t’invade. Tuttavia abbiamo già escogitato un esorcismo, un antidoto contro il trionfo degli istinti. Consiste nelle regole giuridiche, nel rispetto del diritto, dei diritti. A conti fatti, lo Stato di diritto è proprio questo: una fortezza che protegge l’umanità dalla paura. Ma il presupposto sta nella sua capacità di garantire l’esercizio dei diritti. I diritti altrui, non solo i nostri. Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti di nessuno.
Ecco perciò l’equivoco da cui dobbiamo liberarci: se neghiamo ai migranti i loro diritti umani, li neghiamo anche a noi stessi. E in ultimo diventiamo più insicuri. Più deboli, non più forti. La sicurezza, infatti, coincide con la sicurezza dei diritti. Tuttavia non configura un diritto autonomo a sua volta, come pretende un altro equivoco che ci intorbida le menti. Vero: la Déclaration del 1789 sanciva il «diritto alla sicurezza ».
E già un secolo prima Thomas Hobbes, nel Leviatano (1651), v’imperniava la sua dottrina dello Stato. Hanno questa remota origine gli echi che ancora s’incontrano in alcune Costituzioni, come quella finlandese. Si tratta però di formule retoriche, se non anche pleonastiche. È del tutto ovvio, infatti, che ogni Stato debba proteggere i propri cittadini. Se nelle periferie milanesi si moltiplicano gli episodi di violenza, rafforzare i controlli — come ieri ha chiesto il sindaco Sala — è una misura obbligata, non una graziosa concessione dello Stato.
Insomma, la sicurezza non è un diritto, bensì un limite all’esercizio dei diritti. Vale per la privacy, che può ben essere violata quando entra in gioco l’esigenza di perseguire i criminali. Vale per cortei e manifestazioni, vietati se mettono a rischio l’incolumità pubblica. Vale per la libertà di domicilio, così come per ogni altra libertà. Ma se nessun diritto è incondizionato, allora non potrà mai dirsi assoluta la sete di sicurezza, che non assurge nemmeno al rango di diritto.
A differenza del diritto d’asilo, protetto dall’articolo 10 della Costituzione. Da qui la conclusione: se per respingere i migranti proclamiamo uno stato d’assedio permanente, ne va di mezzo la nostra stessa libertà. E in ultimo l’ossessione della sicurezza ci recherà in dono la più acuta insicurezza.
«Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio - non so come riesco a essere calmo - di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno».
La Repubblica, 13 novembre 2016 (m.p.r.)
Come l’epidemia di mucca pazza, la vittoria di Trump ha imbarbarito all’istante il linguaggio in Europa e in Italia. Era prevedibile: i beceri parlano più ad alta voce per strada e nei mezzi pubblici e il web, già saturo di imbecillità, ha dato la stura a nuove ondate di demenza razzista. Ora, siccome le parole sdoganano i fatti, sappiamo in anticipo che dovremo fronteggiare il peggio anche a livello politico e che l’Unione finirà per vedersela brutta. Ma quello che preoccupa, più ancora delle urla di odio, è il silenzio attonito dei benpensanti. Come se non ci fosse nulla da fare, come se il mondo stesse già deragliando.
Homo homini lupus, et dominus vobiscum. Troppo ricorda l’Europa degli anni di Weimar. E allora la domanda da porci subito è: come replicare all’odio verso i profughi? Che parole a caldo può usare il cittadino di buona volontà, specie se impregnato di valori cristiani, contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda - che serpeggia via Facebook con parole indecenti? Valide analisi sul come ci siamo ridotti a questo punto ne abbiamo anche troppe. Siamo pieni di libri e analisi. Quello che disperatamente manca è un prontuario, un manualetto, una rubrichetta quotidiana che insegni a rispondere per le rime alla liquidazione della misericordia, a costruire l’anatema dal pulpito giusto, anziché porgere l’altra guancia o trincerarsi in un verginale politicamente corretto. È di questo che abbiamo bisogno ora per attivare una guerra di resistenza.
Che fare? Quando sento quelle urla oscene mi sale la pressione e mi tocca andar dal medico. Il malessere è ormai di vecchia data. È cominciato con la guerra in Bosnia, quando ho sofferto tutta la mia impotenza di reporter non solo nella difesa degli innocenti ma soprattutto nel far capire ai lettori che un giorno sarebbe potuta toccare a noi, perché “loro” erano come noi, e il disastro balcanico non era che l’avvisaglia di un disastro europeo. Oggi è peggio, perché la lezione non è servita a niente. Penso a questo mio Paese che non si indigna più di nulla ma grida contro i poveracci e allora sento una pressione alla bocca dello stomaco che nasce appunto dal mio mancato allenamento a controbattere ai barbari.
Qualche giorno fa ci ho provato a trovarle, le parole, nella mia Trieste. Ecco come è andata. Sono in macchina, fermo a un semaforo del centro. Vedo una famigliola di profughi, forse siriani, che traversa la strada. Mamma, papà, due bimbi di circa tre e cinque anni, una valigetta e uno zaino. Gente distinta, signorile. Sono diretti alla stazione. Ma ecco, accanto a me, arrivare un’utilitaria con una bionda e il suo moroso al volante. Il quale, in un raptus improvviso, abbassa il finestrino e urla: «Stronzi! Non avete capito che non vi vuole nessuno?». Bersaglio facile: i fuggiaschi non reagiscono. Poi si gira verso la ragazza in cerca di un’approvazione. Lei esulta. Ah, che uomo. Mi guardo intorno. Un passante ride. Ma la maggioranza tace, di fronte alla violenza delle parole.
Mi sale il sangue alla testa. Alla mia età non ho ancora raggiunto la pace dei sensi. Scatta il verde, riparto e tengo d’occhio il bellimbusto fino al semaforo successivo. Respiro forte, ho il cuore a mille. Mi passa davanti un film. Sempre lo stesso. Il film dell’Esilio. È da ragazzino che li vedo, a Trieste, quelli con la valigia e i bambini per mano. Prima gli istriani e i dalmati, costretti a vagare per l’Italia, bloccati anche loro da picchetti, presi per fascisti dai “rossi” nelle stazioni. Poi gli jugoslavi in fuga dalle stragi, bollati come “nipotini degli infoibatori” dagli stessi avanguardisti in malafede che a Belgrado trescavano con i massacratori veri. E poi i curdi, gli afghani, i siriani. Ogni volta, uomini e donne in fuga dalla barbarie che venivano presi per barbari con un cinico ribaltamento della realtà. Ieri come oggi capri espiatori perfetti per far voti.
Ora l’auto è di nuovo vicina. Tocca a me abbassare il finestrino. Faccio alla bionda: «Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio - non so come riesco a essere calmo - di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno ». I due restano senza parole, forse stupiti dalla determinazione di uno con la barba bianca. Si riparte, il traffico ci divide. Respiro. Mi sento meglio. Ho rotto il silenzio. Sono certo che parecchie persone hanno udito, e penso che a qualcuna di esse avrò pur dato una voce. Non ci credo che una frontiera come la mia, che ha visto tante disperate migrazioni, abbia perso completamente la memoria.
Rompere il silenzio degli “innocenti” e trovare le parole giuste: è questo il problema pratico da superare per affrontare i tempi nuovi. Se lo facessimo, si creerebbe un fronte. Sapremmo cosa dire ai vigliacchi aggressivi con i deboli e tremebondi con i forti. E allora verrebbe alla luce, come nei Balcani, l’inganno della guerra tra poveri. Il trucco dello scontro etnico costruito per risparmiare la resa dei conti politica ai veri responsabili delle crisi. Gli esiliati parafulmini ideali per depistare la nostra legittima frustrazione su falsi obiettivi. Qualcosa che rende l’odio razziale utile ai poteri senza patria che dettano le regole di un’economia globale di rapina. Per questo è importante rispondere picche a chi cavalca la discordia. Non solo per motivi umanitari, ma per smascherare il Grande Gioco di cui essi sono complici, e talvolta vittime inconsapevoli.
L'unica voce autorevole al mondo che parla per esprimere la buona politica stracciando i veli dell'ipocrisia e raccontando le cose così come sono, nella loro orribile realtà.
il manifesto, La Repubblica, il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2016
Il manifesto
IL PAPA:
«TERRORISTA È IL CAPITALISMO»
di Geraldina Colotti
«Vaticano. Il discorso di Bergoglio ai movimenti popolari»
È nata «l’internazionale francescana»? Sulle note della prima tarantella, scritta da un Gesuita nel 1600 e nei colori dei 5 continenti, si è concluso in Vaticano il III Incontro mondiale dei movimenti popolari voluto da papa Bergoglio. Da loro, il pontefice ha ricevuto la sintesi e le proposte di 4 giorni di convegno: sulle 3T (Tierra, Techo y Trabajo, Terra, Casa e Lavoro), e sui temi della partecipazione popolare e dei migranti.
Bergoglio ha pronunciato un discorso forte, spingendosi su terreni un tempo propri alla sinistra: «E’ il sistema capitalista ad essere terrorista, non le religioni», ha detto, e ha parlato della necessità di «riforme strutturali». Le stragi di migranti – ha aggiunto – indicano la bancarotta umana di tutto il sistema. E però, mentre si spendono fiumi di denaro per risollevare le banche, o per costruire muri, ai migranti vengono destinate briciole. Da qui l’appoggio alla proposta di un salario e di una cittadinanza universale, di una riforma agraria integrale e di una casa per tutti. E un No mondiale agli sfratti.
La Repubblica
MIGRANTI,
BANCAROTTA DELL’UMANITÀ
di Paolo Rodari
«L’ira del Papa per le stragi nel Mediterraneo: “Vergogna che si salvino le banche e non le vite degli innocenti” In Vaticano i rappresentanti dei movimenti di base di tutto il mondo: “La misericordia meglio degli ansiolitici” ».
Vergogna », come disse a Lampedusa nel suo primo viaggio dopo l’elezione. Tuona ancora papa Francesco contro la situazione «obbrobriosa » dei migranti che muoiono nel Mediterraneo, un «cimitero » i cui muri «sono macchiati di sangue innocente». È uno scandalo - dice il pontefice - che si salvino le banche e non si pensi alla «bancarotta dell’umanità».
È a suo agio Francesco quando incontra in Vaticano i movimenti di base giunti ieri da tutto il mondo per una tre giorni insieme: dai disoccupati ai senzatetto, dalle associazioni ambientaliste ai piccoli produttori terrieri, dai sindacati ai preti impegnati in prima linea con le persone tenute ai margini, da coloro che combattono la criminalità organizzata, come don Luigi Ciotti di Libera, a coloro che hanno speso la loro vita pensando ai poveri, come l’ex presidente dell’Uruguay José Mujica.
Davanti a cinquemila persone riunite nell’Aula Paolo VI, il Papa non usa giri di parole e chiede esplicitamente di proseguire nell’impegno per un mondo che rimetta al centro «l’essere umano, l’uomo, la donna », al posto di quello che è oggi «il primato del denaro». Denaro divinizzato che tutti vogliono controllare a livello globale ed al quale è legato anche il «terrorismo di base». «Nessun popolo e nessuna religione è terrorista», dice il Papa mentre chiede anche di impegnarsi in una «Politica con la maiuscola».
Le battaglie dei movimenti di base sono le medesime di Francesco. Da sempre impegnato in difesa degli ultimi, contro ogni tipo di sfruttamento. E a favore di progetti di vita che sappiano «respingere il consumismo e recuperare la solidarietà». Il leitmotiv è uno: «Terra, casa e lavoro per tutti». Anche perché è «la frusta della paura» a portare gli uomini a chiudersi e difendersi dagli altri. Francesco, insieme, indica la via della misericordia come «migliore antidoto contro la paura. È molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio». Per questo i muri non servono, danno solo «una falsa sicurezza».
Fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio promuoveva una maggiore presenza del popolo nelle decisioni democratiche. Così ancora davanti ai “suoi” movimenti ricorda come «le democrazie stiano attraversando una vera crisi», che viviamo insomma «tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive». Ma i movimenti popolari possono essere decisivi solo se non si lasciano «incasellare» e se rifuggono dalla tentazione della corruzione che «non è un vizio esclusivo della politica», ma c’è dappertutto, anche nella stessa Chiesa.
La corruzione si combatte con i fatti: «Il valore dell’esempio ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su Youtube», dice il Papa a quella platea piena anche di tanti giovani nei quali Francesco dichiara di nutrire grande speranza.
Il Fatto Quotidiano
MIGRANTI,PAPA: “SOMME SCANDALOSE PER SALVARE LE BANCHE,
NON PER LA BANCAROTTADELL’UMANITÀ.
SITUAZIONE OBBROBRIOSA”
«Bergoglio incontrando i rappresentanti dei movimenti popolari è tornato a denunciare la situazione del Mediterraneo che è diventato "un cimitero": "E' una vergogna", ha detto ripetendo quello che aveva già affermato a Lampedusa. Il pontefice ha anche invitato chi è "attaccato al lusso a non fare politica" e ha ricordato che "il futuro dell'umanità è sopratutto nelle mani dei popoli"»
“Quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto?”. Papa Francesco durante l’incontro con i movimenti popolari è tornato a parlare della crisi dei migranti e della necessità di intervenire per risolvere l’emergenza.
Il pontefice ha denunciato la situazione “obbrobriosa” che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero e non solo: “Ci sono molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente”. Parlando alla folla che lo ascoltava, il Papa ha ripetuto la parola che “spontaneamente” usò quando andò a Lampedusa: “Vergogna”. “Lì, come anche a Lesbo“, ha continuato, “ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate, l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo, a causa di un sistema socio economico ingiusto e di guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli”.
Come ricorda l’agenzia Ansa, si tratta del terzo incontro del pontefice con i movimenti di base, dai disoccupati ai cartoneros, dalle associazioni ambientaliste ai piccoli produttori terrieri, dai sindacati ai preti impegnati in prima linea con le persone “scartate”, da coloro che combattono la criminalità organizzata, come don Luigi Ciotti di Libera, a coloro che hanno speso la loro vita pensando ai poveri, come l’ex presidente dell’Uruguay José Mujica. E in questa circostanza il Papa ha anche invitato le persone che amano il lusso a stare lontane dalla politica: “Chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci”. E ha concluso che il futuro dell’umanità è sopratutto nelle mani dei popoli e “non è solo in quelle dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite”. I movimenti popolari secondo Bergoglio possono essere decisivi solo se non si lasciano “incasellare” e se rifuggono dalla tentazione della corruzione che “non è un vizio esclusivo della politica”, ma c’è dappertutto, anche nella stessa Chiesa. La corruzione si combatte con i fatti: “Il valore dell’esempio ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille ‘mi piace’, di mille video su youtube”, ha concluso.