Affidare alle navi libiche i fuggitivi, come il governo italiano ha deciso, significa condannarli a subire le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire.
il manifesto, 6 agosto 2017
Coloro che dalle coste della Libia si imbarcano su un gommone o una carretta del mare sono esseri umani in fuga da un paese dove per mesi o anni sono stati imprigionati in condizioni disumane, violati, comprati e venduti, torturati per estorcere riscatti dalle loro famiglie, aggrediti da scabbia e malattie; e dove hanno rischiato fino all’ultimo istante di venir uccisi.
Molti di loro non hanno mai visto il mare e non hanno idea di che cosa li aspetti, ma sanno benissimo che in quel viaggio stanno rischiando ancora una volta la vita.
Chi fugge da un paese del genere avrebbe diritto alla protezione internazionale garantita dalla convenzione di Ginevra, ma solo se è «cittadino» di quel paese. Quei profughi non lo sono; sono arrivati lì da altre terre. Ma fermarli in mare e riportarli in Libia è un vero e proprio respingimento (refoulement, proibito dalla convenzione di Ginevra) di persone perseguitate, anche se materialmente a farlo è la Guardia costiera libica.
Una volta riportati in Libia verranno di nuovo imprigionati in una delle galere da cui sono appena usciti, subiranno le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire, fino a che non riusciranno a riprendere la via del mare.
Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un simile destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio. Invece, ora come allora, vengono trattati come criminali: dai Governi, da molte forze politiche, dalla magistratura, dai media e da una parte crescente dell’opinione pubblica (i social!); sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare.
Non ci si rende più conto che sono esseri umani: disumanizzare le persone come fossero cose o pidocchi è un percorso verso il razzismo e le sue conseguenze più spietate. Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista. Nessuno prova a mettersi nei panni di queste persone in fuga, per le quali gli scafisti che li sfruttano in modo cinico e feroce sono speranza di salvezza, l’ultima risorsa per sottrarsi a violenze e soprusi indicibili. La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.
Da tempo le imbarcazioni su cui vengono fatti salire i profughi non sono più in grado di raggiungere l’Italia: sono destinate ad affondare con il loro carico. Ma gli scafisti certo non se ne preoccupano: il viaggio è già stato pagato, e se il «carico» viene riportato in Libia, prima o dopo verrà pagato una seconda e una terza volta.
In queste condizioni, non c’è bisogno che un gommone si sgonfi o che una carretta imbarchi acqua per renderne obbligatorio il salvataggio, anche in acque libiche: quegli esseri umani violati e derubati sono naufraghi fin dal momento in cui salpano e, se non si vuole farli annegare, vanno salvati appena possibile.
Gran parte di quei salvataggi è affidata alle Ong, perché le navi di Frontex e della marina italiana restano nelle retrovie per evitare di dover intervenire in base alla legge del mare; ma gli esseri umani che vengono raccolti in mare da alcune navi delle Ong devono essere trasbordati al più presto su un mezzo più capiente, più sicuro e più veloce; altrimenti le navi che eseguono il soccorso rischiano di affondare per eccesso di carico, oppure non riescono a raccogliere tutte le persone che sono in mare o, ancora, impiegherebbero giorni e giorni per raggiungere un porto, lasciando scoperto il campo di intervento.
Vietare i trasbordi è un delitto come lo è ingiungere alle Ong di imbarcare agenti armati: farlo impedirebbe alle organizzazioni impegnate in interventi in zone di guerra di respingere pretese analoghe delle parti in conflitto, facendo venir meno la neutralità che permette loro di operare.
Né le Ong possono occuparsi delle barche abbandonate, soprattutto in presenza di uomini armati fino ai denti venuti a riprendersele. Solo i mezzi militari di Frontex potrebbero farlo: distruggendo altrettante speranze di chi aspetta ancora di imbarcarsi.
I problemi continuano quando queste persone vengono sbarcate: l’Unione europea appoggia la guerra ai profughi, ma poi se ne lava le mani. Sono problemi dell’Italia; la «selezione» tra sommersi e salvati se la veda lei… I rimpatri, oltre che crudeli e spesso illegali, sono per lo più infattibili e molto costosi.
Così, dopo la selezione, quell’umanità dolente si accumula in Italia, divisa tra clandestinità, lavoro nero, prostituzione e criminalità: quanto basta a mettere ko la vita politica e sociale di tutto paese. Ma cercare di fermare i profughi ai confini settentrionali o a quelli meridionali della Libia accresce solo il numero dei morti.
Dobbiamo guardare in avanti, accogliere in tutta Europa come fratelli coloro che cercano da lei la loro salvezza; adoperarci per creare un grande movimento europeo che lavori e lotti per riportare la pace nei loro paesi (non lo faranno certo i governi impegnati in quelle guerre) e perché i profughi che sono tra noi possano farsi promotori della bonifica ambientale e sociale delle loro terre (non lo faranno certo le multinazionali impegnate nel loro saccheggio). L’alternativa è una notte buia che l’Europa ha già conosciuto e in cui sta per ricadere.
«Nei luoghi di soccorso non ci sono armi: ecco perché Msf non accetta la polizia a bordo Il divieto di trasbordare migranti da una nave all’altra ne lascia molti di più in balia delle onde».
La Repubblica, 5 agosto 2017
Io sto con Medici senza Frontiere. Lo voglio dire ed esprimere chiaramente in un momento in cui sta avvenendo la più pericolosa delle dinamiche, ossia la criminalizzazione del gesto umanitario. Sto con Medici senza Frontiere nella decisione di non firmare il codice di condotta per le Ong che fanno salvataggi in mare voluto dal ministro Minniti. È una scelta importante e sostanziale, non un capriccio. Medici Senza Frontiere (Premio Nobel per la Pace 1999) difende un principio fondamentale: la neutralità. Questo significa che avere agenti armati sulle navi sarebbe la fine di questo principio. Il lettore forse ingenuo mi dirà: ma come? È una garanzia per tutti avere agenti armati sulle navi di Msf: per i migranti, per gli operatori volontari, per la sicurezza. Invece non è così e per capirlo basta conoscere le dinamiche di chi opera in situazioni difficili, di emergenza sanitaria, di guerra, dove l’assoluta assenza di armi nei luoghi del soccorso rappresenta la vera protezione. Il segnale di divieto che disegna il kalashnikov inserito nel cerchio rosso sbarrato è fuori di ogni laboratorio, ogni tenda, ogni presidio di Msf, Emergency e non solo.
È l‘elemento fondante che permette alle Ong di agire in sicurezza e con la propria identità. Non avere armi in un luogo di soccorso non significa che sono luoghi dove la legge è sospesa, tutt’altro. Infatti qualsiasi sbarco di profughi che effettua Msf viene coordinato dalla Guardia costiera e una volta a terra c’è totale collaborazione con le forze di polizia. A Mosul, ad Haiti, in Congo i soldati di qualsiasi esercito lasciano le armi fuori dai presidi di Msf. Invece il governo italiano vorrebbe portare agenti armati sulle navi.
Non firmando il codice Msf salva i suoi operatori e la sua condotta, tutte le parti in causa nei conflitti devono sapere che Msf non ha armi, mai, non nasconde soldati sotto le sue pettorine, non è un luogo utilizzato per indagini, ma solo di soccorso.
Questi sono i motivi per i quali Msf non ha sottoscritto il codice. Altre Ong possono firmare il patto Minniti perché non hanno presidi in zone di guerra o perché facendolo sanno di non mettere a repentaglio la propria identità. Ma non Msf. In questa triste fase storica si sta configurando in Italia, come ha scritto Luigi Manconi su il manifesto e come scrive da giorni Avvenire, il “reato umanitario”. È il frutto di mesi di confusione, durante i quali tutte le parti politiche hanno soffiato — in un clima di perenne campagna elettorale — sul fuoco della paura. Dall’aberrante definizione di “taxi del mare” di Di Maio sino a chi pone sullo stesso piano gli affari criminali fatti da Mafia Capitale e il business dei trafficanti con l’attività di chi salva vite. Tutti luoghi comuni banali, semplici, veloci per configurare il “reato umanitario”. L’indagine sulla Ong tedesca Jugend Rettet (che non ha firmato il protocollo Minniti) non c’entra nulla con le insinuazioni fatte sino ad oggi, tese a dimostrare che le Ong sono braccia operative dei trafficanti. Nonostante si cerchi di manipolare il più possibile - come tenta di fare l’aberrante (e come sempre ridicolo) post di Matteo Salvini che parla di Ong che hanno protetto scafisti - secondo la stessa procura di Trapani avrebbero agito «non per denaro» ma per «motivi umanitari». In ogni caso se gli appartenenti a Jugend Rettet hanno commesso reati, verranno processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati. Quello che sappiamo sino ad oggi è che se hanno violato regole lo hanno fatto per realizzare un corridoio umanitario, come lo definisce Massimo Bordin di Radio Radicale.
Null’altro che questo.
Mi domando a questo punto dove nasce tutto questo odio? Siamo di fronte a dinamiche psicologiche semplici, basterebbe rileggere “Psicologia delle folle” di Gustave Le Bon. Di fronte al senso di colpa d’essere incapaci di agire, dinanzi a centinaia di bambini che annegano nel Mediterraneo, si accusa chi agisce. La stessa cosa avviene con le mafie. Spesso è più facile attaccare chi combatte la mafia piuttosto del mafioso. Un paese al collasso economico e demografico ha l’esigenza di trovare altrove i colpevoli: i migranti sono il capro espiatorio perfetto. Più è semplice la lettura più verrà adottato quel bersaglio. Manca il lavoro? Colpa degli immigrati. Aumentano i crimini? Colpa degli immigrati. Anche se i dati ci smentiscono, anche se si ha una falsa percezione del problema. Furbescamente chi soffia sulla paura, sul razzismo, vuole approfittare della enorme possibilità distraente del dramma immigrazione. Se il problema sono gli immigrati l’incapacità economica di far ripartire il paese, di snellire le dinamiche burocratiche, di contrastare il crimine organizzato diventa un corollario.
La coperta dell’immigrazione protegge tutti. Per cui quando Renzi dichiara «pugno duro contro le Ong che hanno contatti con i trafficanti», senza conoscere i termini dell’indagine, bisognerebbe rispondere che ci sarebbe piaciuto sentirlo tuonare contro la vendita delle armi italiane ai paesi in guerra. Né abbiamo sentito insistere Minniti sulla necessità di aumentare la quota di Pil destinato ai paesi in via di sviluppo che oggi è appena dello 0,17%. Parole legittime le loro ma che li precipitano al di fuori della tradizione di sinistra del paese. Avverto i miei lettori: tutti coloro che non si inseriscono nella canea anti immigrazione e contro le Ong saranno soli. In questo momento l’odio verso le Ong e verso gli immigrati non ha pari, magari le mafie avessero avuto contro tutto questo impegno e questa solerzia. Facciamoci forza, io ne sono consapevole. Bersagliati dalle più basse menzogne, ci vedremo sui social sommersi dalle più comuni banalità. Sarà un profluvio di «portateli a casa tu», «vi fate pagare per fare le anime belle», «buonisti». Ma pazientemente, smontando il fuoco di fila delle bugie ne verremo fuori. Ricordo che non è solo il Mediterraneo a vivere il problema profughi, anzi sono quasi 3 milioni i rifugiati intorno al Lago Chad dove si sta consumando una delle peggiori crisi umanitarie del
La decadenza profonda della democrazia nella quale viviamo è testimoniata dal fatto che le scelte politiche più impegnative sono compiute in funzione dei voti che si possono raccogliere. Articoli di Andrea Colombo, eAdriana Pollice, il manifesto, 5 agosto 2017
RENZI SCIPPA IL “PUGNO DI FERRO”
A GRILLO E SALVINI
di Andrea Colombo
«Migranti. Il segretario completa la correzione di rotta del partito democratico invocando linea dura contro le Ong. Si è convinto che solo una politica feroce può conquistare voti. Gli avversari reagiscono alla concorrenza. Di Maio: l’avevamo detto prima noi. La Lega: di più, bisogna affondare
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Come se il grottesco duello sulla primogenitura dei tagli ai vitalizi fosse stata solo una prova generale, Pd e M5S si azzuffano di nuovo, si contendono il copyright della guerra alle Ong camuffata sotto il velo di quella ai trafficanti. Ma stavolta la disfida rischia di finire in tragedia, perché in gioco ora non ci sono più le pensioni di un nucleo ristretto di ex parlamentari, ma la sorte di migliaia di persone. Renzi vuole che la firma sotto il proclama di tolleranza zero sia la sua: «Se qualcuna tra le decine di Ong che fanno benissimo il loro lavoro ha contatti con gli scafisti, come potrebbe essere, bisogna usare il pugno di ferro». La replica dei 5S, affidata a Di Maio, arriva immediata: «Ma quale pugno di ferro, faccia di bronzo piuttosto! Quando io sollevai il tema, in aprile, Renzi si mise a sparare a zero contro M5S».
Il Movimento di Grillo non si accontenta di ringhi e ruggiti vuole che «siano attribuiti alle unità nel Mediterraneo i poteri dell’autorità giudiziaria», torna a rinfacciare a Renzi «il patto stretto nel 2014 con Bruxelles per far approdare tutti i migranti del Mediterraneo in Italia». Renzi ha sempre negato che quell’accordo, porti aperti in cambio di flessibilità, sia mai esistito, ma è molto probabile che invece abbia ragione Di Maio, come ha ragione nel rivendicare la paternità della campagna contro le Ong. Certo, messa su questo piano la Lega avrebbe qualche titolo in più per reclamare la corona della muso duro. Invece, con una platea di cacciatori di voti sulla pelle dei migranti così folta, proprio Salvini è costretto a rilanciare oltrepassando i confini dell’assurdo: «Le navi Ong che hanno chiamato gli scafisti non vanno sequestrate ma affondate». Nella ressa s’inserisce Forza Italia: «Fermare immediatamente tutte le Ong che non firmano il Codice».
In superficie il problema è solo quello dei «contatti con i trafficanti» e si tratta di un problema reale, anche se l’idea di mettere sullo stesso piano rapporti stretti per lucro o per salvare migliaia di vite umane non è tra le più brillanti. Ma la campagna sulle Ong maschera in realtà una torsione radicale nella politica italiana nei confronti dei migranti. La «dottrina Minniti» non è a costo zero. Da un lato rende molto più difficili i salvataggi, dall’altro consegna i migranti salvati in mare ai lager libici, quanto di meno rispettoso dei diritti umani si possa immaginare. ««Non ci sono campi o centri per i migranti in Libia ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre dalle milizie e dai trafficanti, e vi sussistono condizioni terrificanti», dichiara l’inviato speciale dell’Unhcr Vincent Cochelet, confermando ciò che aveva denunciato Medici senza frontiere e ripetuto ieri Emergency: «Il Codice di condotta mette a rischio la vita di migliaia di persone. L’invio di navi militari è un atto di guerra contro i migranti».
Le dichiarazione fragorose rilasciate dallo studio di Agorà, con l’abituale improntitudine, dal senatore Pd Stefano Esposito due giorni fa non sono parole in libertà. Rispecchiano la «correzione di rotta» di un Pd convinto che solo una politica feroce sul fronte dell’immigrazione permetta di conquistare voti. Bisogna poter rivendicare di aver fermato gli sbarchi e «i risultati positivi che sta ottenendo l’Italia – spiega Verducci, altro senatore Pd – sono dovuti anche alla dottrina Minniti, imperniata sul governo dei flussi e principalmente sulla interlocuzione con la Libia. Abbiamo salvato centinaia di migliaia di vite, ma c’è un’esigenza fondamentale: quella del governo dei flussi».
Toni e parole molto più civili di quelli adoperati dal collega Esposito, ma il senso è identico. Non è che il Pd abbia perso interesse nei soccorsi. Però quell’esigenza non è più in testa all’agenda, è scivolata dietro quella, tanto più fondamentale con le elezioni vicine, di «governare i flussi». Gli annegamenti o lo strazio dei diritti umani che verrà fatto in Libia come del resto era d’uso prima del 2011, quando pagavamo Gheddafi perché risolvesse il problema per conto dell’Italia e poco male se il prezzo era un deserto cosparso di cadaveri, saranno, come dice la capogruppo di Sinistra italiana al senato Loredana De Petris, «effetti collaterali».
«SE CI COSTRINGONO AD ACCETTARE ILCODICE
LASCIAMO I SOCCORSI»
di Adriana Pollice
«Mediterraneo. Medici senza frontiere, che ieri ha salvato 129 migranti: “Se ce lo vietano andiamo via”»
Non abbiamo nessuna intenzione di aprire un braccio di ferro con lo stato, abbiamo salvato 69mila persone e tutti i nostri interventi sono stati coordinati dalla Guardia Costiera. Quindi se ci costringeranno ad accettare il codice che non abbiamo firmato, Medici senza Frontiere abbandonerà il soccorso dei migranti in mare»: Loris De Filippi, presidente di Msf, chiarisce la posizione dell’organizzazione. Sulle Ong che hanno rifiutato di sottoscrivere le regole di comportamento stilate dal Viminale è aumentata la pressione ad accettarle, dopo il sequestro della Iuventa tre giorni fa.
La vos prudence, nave ammiraglia di Msf, ieri ha salvato 129 persone al largo delle coste libiche: «Non ci sfugge il tentativo mediatico di collegare il procedimento penale con il rifiuto dell’accordo – prosegue – . Se qualcuno ha violato le regole è giusto che paghi. Non so cosa abbiano fatto quei ragazzi tedeschi, magari hanno peccato d’inesperienza». E sull’uso di infiltrati (come avvenuto contro Iuventa): «Nessuno può escludere che anche sulle nostre navi possa esserci polizia sotto copertura. È importante fare attenzione nel reclutamento del personale, noi stiamo molto attenti». Sotto accusa della procura di Trapani i trasbordi da un’imbarcazione di soccorso a un’altra: «In mare – spiega De Filippi – quando arrivano barche cariche di centinaia di persone, le Ong intervengono e, coordinate dalla Guardia costiera, procedono al trasbordo in modo che le persone salvate “riempano” la nave più grossa». Sulla polizia a bordo nessun passo indietro: «Vogliono obbligarci ad accogliere persone armate? Smetteremo di salvare la gente in mare, ma sarebbe una grave sconfitta per tutti. Su uomini armati a bordo e trasbordi non possiamo transigere. Vogliono il braccio di ferro? Ci metteremo da parte».
Ieri iuventa è arrivata sotto scorta nel porto di Trapani: «La Ong respinge ogni accusa. L’unica finalità della Jugend Rettet è salvare vite umane. I ragazzi che erano a bordo hanno già spiegato che non c’entrano nulla con il reato che viene loro contestato» spiega Leonardo Marino, legale dell’organizzazione non governativa tedesca. Nessun di loro risulta indagato. Su richiesta della procura sono stati prelevati anche pc, smartphone e documenti. Il reato ipotizzato è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, al momento contro ignoti. «Presto sarà pronto il ricorso per ottenere il dissequestro del materiale e della nave – conclude il legale -. Non si può, per pochi episodi da accertare, cancellare quanto di positivo è stato fatto». Un breve messaggio è stato diffuso anche dalla Jugend Rettet: «Nella zona Search and rescue negli ultimi due giorni sono stati recuperati otto cadaveri di migranti. Il sequestro della nostra nave ci impedisce di aiutare».
Sul caso della Ong tedesca è intervenuto Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) per la rotta del Mediterraneo Centrale: «Sta alla giustizia italiana pronunciarsi». Ma sulle condizioni dei migranti in Libia ha aggiunto: «Non ci sono campi o “centri per migranti”, solo prigioni. Alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti e vi sussistono condizioni orribili. Chiunque venga sbarcato sulle coste libiche torna in queste carceri».
Un ruolo fondamentale nella costruzione dell’inchiesta l’ha giocato la Vos Hestia: sulla nave che fa capo a Save the children si è imbarcato l’infiltrato dello Sco che ha prodotto il dossier di accusa, sullo stesso natante c’erano i due membri della Imi security service che si sono offerti come testimoni alla procura. Ieri Save the children ha spiegato la sua posizione: «Non eravamo a conoscenza della presenza a bordo di un agente di polizia sotto copertura» né controllavano i due uomini della security ma ribadisce «la volontà di continuare a collaborare con le altre organizzazioni».
Una precisazione è arrivata anche dalla tedesca Sea Eye, l’ultima Ong in ordine di tempo ad aver dato la propria disponibilità ad accettare il codice stilato dal Viminale. La firma però non c’è ancora: «C’è l’impegno a siglarlo poiché intendiamo continuare il soccorso marittimo e siamo d’accordo su tutte le regole tranne una: attestare l’idoneità tecnica della nave e del suo equipaggiamento». La Ong non si era presentata all’incontro del 31 luglio convocato dal Viminale, con il sequestro di Iuventa la posizione si è ammorbidita.
J il manifesto, 5 agosto 2017
Il nome della Ong nel mirino della procura di Trapani, Jugend Rettet, cioè «la gioventù salva», chiarisce perfettamente il significato dell’azione dei giovani tedeschi nel Mediterraneo. Solo gente che non ha alcuna responsabilità negli orrori commessi dalla Germania nazista, ma ne porta sulle spalle la terribile memoria, può salvare gli innocenti dalla morte. Ed ecco perché questi ragazzi non vogliono firmare alcun codice che ne limiterebbe l’azione: perché sanno quanto gli stati siano letali e colpevoli di fronte ai trentamila morti del Mediterraneo.
Questo è il punto, come notava Luigi Manconi sul manifesto di ieri: la pretesa di criminalizzare chi ritiene che ci sia una giustizia superiore alle esigenze, vere o presunte, degli stati. E anche alla giustizia terrena. Quando la Svizzera chiuse le frontiere agli ebrei in fuga dal nazismo, ci fu un capitano di polizia, Paul Grüninger, che violò le rigide norme della Confederazione falsificando i visti dei rifugiati ebrei e perciò meritò il titolo e l’onore di «giusto». Fu cacciato dal servizio, senza pensione, e morì in povertà. I giovani tedeschi, da pare loro, ci ricordano che esiste una giustizia più alta di quella delle procure e delle norme emanate da legislatori ciechi ed esecutori ottusi. Un credente ne troverà le radici in Dio, un laico nella ragione o nel semplice, intuitivo ma cogente senso dell’umanità.
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la sacrosanta operazione di contatto per salvare i profughi |
E poi, che infrazioni della legge avrebbero commesso? «Comunicare» con gli «scafisti», quando tutti sanno che in mare aperto si incrociano innumerevoli messaggi? E come non sapere o non capire che spesso i cosiddetti «scafisti» spesso sono poveracci che magari si procurano a un passaggio? Quelli che ci guadagnano davvero stanno a terra, magari nella stessa guardia costiera libica, per quanto ne sappiamo, o in qualsiasi banda che scorrazza in Libia. Questi non li ferma mai nessuno, tantomeno il Minniti l’Africano. L’ossessivo e ripetitivo slogan «guerra ai trafficanti» serve solo a coprire il vero scopo di tutto questo: impedire che le navi delle Ong salvino i migranti. Qualche genio strategico di Frontex – che non ha mai salvato nessuno e tiene le sue navicelle al sicuro nei porti – pensava che se ne annegano un po’ di più, ne arrivano di meno e quindi il conto va in pari. E magari si sente la coscienza a posto. E quindi non stupisce che, come ha scritto la Tageszeitung, «Chi salva i migranti viene fatto fuori».
Il Mediterraneo tra Sicilia e Libia non è un far west, come ha scritto Travaglio, che ora esige legalità, cioè ordine e disciplina, anche in questo nuovo campo. È un tratto di mare strapieno di navi militari e sorvegliato perennemente dai droni, senza che nessuno si preoccupi di trarre in salvo i potenziali naufraghi, tranne le Ong. D’altronde, anche il poliziotto infiltrato sulla nave di Save the Children, ha salvato il suo bambino, il brav’uomo. Ma come l’avrebbe salvato, se non fosse stato sulla nave dei volontari? Detto questo altrove infiltrano gli agenti segreti o i poliziotti tra i narcotrafficanti, noi tra i volontari che salvano i migranti.
Questa è una brutta storia per la giustizia e per gli organi di informazione che pubblicano video insignificanti, cercando di farci credere che rivelino chissà quali segreti. Naturalmente non poteva mancare la soddisfazione di Di Maio né il punto di vista di Renzi che esige un «pugno di ferro».
Spezzeremo le reni alle Ong? Tra l’altro, c’è da giurare che tra qualche tempo, finita la cagnara, andrà come nel caso della Cap Anamour accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel 2004 e assolta completamente nel 2009. Per fortuna, ci sono ancora giudici in Italia.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini! grida Gesù alla folla nel Vangelo di Matteo. Certo, l’Europa non è il regno dei cieli, ma, chissà perché, da giorni queste parole mi rimbombano ossessivamente nella testa.
«Il filo che lega le opere è quello dell’esodo, ma non è facile riuscire a raccontarlo, soprattutto per i Paesi più grandi».
il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2017 (p.d.)
Da un po’ il governo del mio Paese, dopo aver già liquidato per ragioni essenzialmente economiche l’operazione “Mare nostrum”, vanto della nostra Marina Militare, in pro di una assai meno efficace, ha iniziato a prendersela con le Ong che raccolgono in mare i naufraghi: li salvano o non li salvano davvero? Sono colluse con gli scafisti o animate da principi nobili ma per i quali non c’è spazio? Il Testo unico sull’immigrazione all’articolo 12 recita “non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”; e la convenzione Sar obbliga a soccorrere chiunque si trovi in mare anche oltre le acque territoriali. Il “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, per molti odioso (riposa tra l’altro sulla malfamata legge Bossi-Fini), è per fortuna difficile da provare, quando la gente è in mare; e pare che il film Terraferma di Emanuele Crialese (2011) sia passato invano.
Da quando è iniziata questa svolta, ho ripreso in mano il mio Freesa, “documento di viaggio universale” rilasciato dal Padiglione tunisino della 57ma Biennale di Venezia: nelle sue pagine, anziché visti o normative, s’incontrano numeri (i 65,3 milioni di rifugiati del 2015; i 3,2 milioni di richiedenti asilo in attesa di conoscere il loro destino; i 165mila "abitanti" del campo di Kakuma in Kenya) e ideali (anzitutto quello della libertà di movimento, come elaborato sul sito
theabsenceofpaths.com, un progetto che coinvolge anche l’ong maltese Moas). Il Freesa può sembrare l’ennesima, gratuita trovata di un’arte che sbandiera nobili principi, senza additare i veri conflitti o i responsabili; ma s'inserisce in un quadro più ampio.
Se una mostra come la Biennale di Venezia ha un senso, è infatti quello di registrare il clima del mondo in cui viviamo, un orizzonte di attesa che esca dal recinto strettamente estetico e rifletta anche la dinamica sociale e culturale. Tanto più in un’edizione come quella di quest'anno, alquanto insipida fin dal titolo (“Viva Arte Viva”, fino al 26 novembre), e incongruamente suddivisa in isole che richiamano piuttosto un Brek o un parco-giochi (“Padiglione della Terra”, “Padiglione dei colori”, “Padiglione del Tempo e dell’Infinito” e via dicendo). Optando per una selezione di basso profilo, la curatrice Christine Macel ha raccolto poche star (Eliasson, Parreno, Sala, Orozco), un po’di amarcord degli anni che furono (i defunti John Latham, Marwan, Maria Lai, Bas Jan Ader) e molti epigoni. Non mancano cose poetiche, però, come i totem dell'indiana Rina Banerjee, l’arazzo del maliano Abdoulaye Konaté, le precarie figurine della neozelandese Francis Upritchard, il video del giapponese Koki Tanaka, che percorre e conquista lo spazio da casa sua alla centrale nucleare più vicina, e quelli della russa Taus Makhacheva con il funambolo che trasporta quadri sui monti del Caucaso, e con i naufraghi che scompaiono in mare su un barcone capovolto; e naufraghi annegano anche nei dipinti della canadese Hajra Waheed.
I naufraghi, appunto. Come sempre alla Biennale, le partecipazioni dei singoli Paesi sono più vivaci della selezione ufficiale, e spesso la redimono. Quest’anno, sebbene le grandi nazioni preferiscano gingillarsi in cervellotiche astrazioni (taceremo del padiglione italiano, che oscilla fra il mistico e il compiaciuto), un filo rosso che emerge è proprio quello relativo al fenomeno migratorio, ai percorsi dello “straniero”. Storie concrete, documentate con uno slancio che sfugge alla retorica, ed elabora in segno il nocciolo dei problemi: la ferrovia della rotta balcanica nel padiglione sloveno, la tragedia delle famiglie strappate in quello messicano, le maschere dei Mapuche perseguitati in Cile, i cerchi di appartenenza nello Zimbabwe, e soprattutto, nel padiglione sudafricano e in quello australiano (in modi assai diversi), il confronto fra i volti e le parole degli attori di Hollywood e le icone vive e vere dei migranti dei nostri giorni. L’arte che prova, coi suoi mezzi, a riflettere sul mondo.
In questo discorso, ormai globale, l'Italia, al pari della Grecia, non riveste un ruolo marginale: molte storie hanno il loro fulcro nel Mediterraneo, molte immagini sono delle nostre coste. E sono passati già dieci anni dal mirabile trittico Western Union Small Boats di Isaac Julien, tutto ambientato in Sicilia, sulle spiagge che allineano cadaveri e vacanzieri (come in Crialese, appunto), tra i balli nei palazzi del Gattopardo e l'annaspare in acqua delle membra di giovani donne che non sanno nuotare. Ecco allora che il modo in cui l’Italia, messa alla prova dalla colpevole inazione dell'Europa, affronta l'esodo dei disperati, non ha solo una dimensione legislativa e politica, ma anche un valore simbolico e culturale: è da noi che si gioca la partita, da un nostro gesto (quelli dei Paesi balcanici li abbiamo visti: muri e filo spinato) dipende moltissimo. Di quali immagini, di quali parole (d'ordine?), di quali minacce, noi Paese di Fuocoammare, dovremo gloriarci (o vergognarci) un giorno? Dei poliziotti che accolgono schierati i ragazzi di Jugendrettet, o dei porti che respingono le navi di MSF?
La Grecia, nostra compagna in questa difficile vicenda (molti ancora i profughi imbottigliati nel Paese, che pure beneficia dei nefandi accordi dell'Unione con Erdogan), non perde tempo, e crea nel suo padiglione un capolavoro che vale da solo il biglietto di tutta Biennale: in Laboratorio di dilemmi, Yorgos Drivas presenta un'allegoria che parla di cellule epatiche ma in realtà soprattutto nel video finale, in cui recita una magnifica Charlotte Rampling - delinea il problema di come una società può reagire dinanzi al diverso. Tutta la storia è una sorta di riscrittura delle Supplici di Eschilo, una tragedia che, nel mettere in scena l’arrivo e la problematica accoglienza ad Argo delle cinquanta figlie dell’egiziano Danao, ha già detto tutto sul tema delle migrazioni (ne fanno fede i recenti adattamenti di Moni Oadia a Siracusa e di David Greig a Edimburgo): un’opera antica dalla quale una cultura europea meno immemore di sé dovrebbe forse ripartire.
dimentica che chi fugge oggi lo fa perché, per raggiungere il nostro benessere, abbiamo razziato le loro risorse, creando i deserti dove vogliamo respingerli.
il manifesto, 29 luglio 2017
«Aiutiamoli a casa loro». E dopo averli "aiutati» per secoli a casa loro, in Africa, schiavizzandoli e depredando le loro risorse, una generazione "ingrata" vuole venire a casa nostra. Deportiamoli, si dice anche a sinistra»
Adesso sono tutti d’accordo, compreso il segretario del Pd che ha sposato in pieno questo slogan che coniò per primo Salvini. Per la verità, la prima volta che ho sentito dire con convinzione «aiutiamoli a casa loro» è stato nel giugno del 2001.
Durante una conversazione con il presidente del Parco delle Cinque Terre, allora attivista del Pds e poi europarlamentare. Un presidente di Parco molto capace che ha trovato un modo intelligente per recuperare i vigneti ed i terrazzamenti nelle stupende colline delle Cinque Terre, cercando di promuovere un turismo sostenibile in un ambiente molto fragile.
Un uomo innamorato della sua terra e convinto oppositore della globalizzazione capitalistica. Ad un certo punto della discussione venne fuori la questione dell’immigrazione e lui mi raccontò di cinque albanesi che avevano accolto con entusiasmo alle Cinque Terre ed erano stati ricambiati con furti e violenze varie. Da qui la sua profonda avversione al fenomeno migratorio e il suo profondo convincimento: «Aiutiamoli a casa loro».
Poco tempo fa mentre attraversavo lo Stretto ho incontrato un amico magistrato, un democratico convinto e conseguente, cattolico socialmente impegnato, da sempre persona sensibile ai temi sociali.
Mentre l’aliscafo saltellava sulle onde, in una giornata da montagne russe, sono sbalzato via dalla poltrona, non per il mal di mare ma quando gli ho sentito dire: «Aiutiamoli a casa loro…qui non possiamo continuare ad accoglierli…anzi dovremmo far star male quelli che ci sono in modo tale che quando telefonano a casa sconsiglino altri a partire…» .
Me lo diceva con sofferenza, vera, con rammarico ma anche con la convinzione che se non vogliamo far vincere Salvini dobbiamo porre un argine a questi flussi migratori. Se li lasciamo a bighellonare tutto il giorno, ospiti di buoni alberghi- sosteneva- questi giovanissimi africani che hanno tutti un telefonino manderanno a casa delle belle immagini e il flusso diventerà una valanga e saremo sommersi.
Come ha lucidamente ribadito ribadito Guido Viale su questo giornale con 180mila profughi o 200mila non si dovrebbe parlare di invasione in un paese con 60 milioni di abitanti.
Cosa avrebbe dovuto dire il popolo libanese quando sono arrivati un milione e mezzo di siriani in un paese di cinque milioni di abitanti? Inoltre, e spesso lo dimentichiamo, abbiamo un saldo demografico negativo di circa 50mila unità l’anno e un saldo migratorio nazionale negativo per oltre 100 mila unità (soprattutto dovuto a giovani italiani studenti e laureati che emigrano in vari paesi del mondo).
Inoltre, negli ultimi anni per via della crisi economica del nostro paese gli stranieri che ritornano nel loro paese sono superiori a quelli che arrivano, in particolare gli albanesi, i marocchini, rumeni, filippini, ecc.
Quindi non c’è nessuna esplosione demografica e non c’è nessun pericolo di invasione se gli immigrati sono ancora oggi l’8,5% della popolazione a fronte di percentuali ben maggiori in diversi paesi europei, dall’Austria all’Irlanda per non parlare della Svizzera.
Malgrado queste evidenze statistiche è entrato nella pelle italica questo virus dell’invasione che porta ogni giorno persone insospettabili a chiedere di respingere i barconi e magari affondarli. Uno degli ultimi casi riguarda un noto intellettuale siciliano, Antonio Presti, l’ideatore di «Fiumara d’arte» famosa a livello internazionale, organizzatore di eventi artistici di assoluto rilievo.
Ebbene proprio lui, in una conferenza stampa che annunciava a Taormina il progetto di riqualificazione del Villaggio Le Rocce di Mazzarò, ad un certo punto denuncia l’arrivo nel paese di una trentina di migranti dicendo testualmente : «Meno italiani più immigrati, è iniziata la sostituzione di popolo»». Ed aggiungendo che «« non è razzismo, ci opponiamo all’invasione di altre culture e alla perdita della nostra identità».
Ho voluto citare questi casi concreti di intellettuali, di persone che hanno operato bene in diversi campi, non di operai disoccupati che temono la concorrenza di chi è costretto a lavorare a salari da fame – come avviene nell’edilizia e in agricoltura – né di persone ideologicamente di destra.
Ho voluto citarli perché dovremmo prendere atto che viviamo in un paese che sta diventando profondamente razzista nella sua stragrande maggioranza. A differenza degli anni ’30 del secolo scorso, oggi nessuno si dichiara apertamente razzista, o parla di razze superiori, ma di diritto a difendersi da una invasione distruttiva, sia sul piano culturale che su quello economico (i soldi ai migranti anziché ai nostri poveri!!).
E sono tutti convinti che «non possiamo accoglierli tutti» e quindi dobbiamo fermarli con ogni mezzo. E, siccome siamo buoni, l’unica cosa che possiamo fare è di «aiutarli a casa loro»». Come? Semplice: con lo sviluppo economico. Se i popoli dell’Africa subsahariana si svilupperanno come abbiamo fatto noi si fermerà l’emigrazione.
Peccato che abbiamo dimenticato o non vogliamo fare i conti con la storia. Le prime grandi ondate migratorie dall’Europa verso altri continenti sono iniziate nei paesi in cui avveniva la rivoluzione industriale, a cominciare dall’Inghilterra, ovvero iniziava quello che chiamiamo sviluppo economico capitalista.
Anche in Italia, nell’ultimo quarto del XIX secolo, le prime ondate migratorie hanno interessato il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, cioè le regioni dove è nata la prima rivoluzione industriale italiana. Prima che lo sviluppo economico porti ad un blocco dell’emigrazione possono passare decenni o secoli, come dimostra, tra l’altro il caso emblematico del nostro Mezzogiorno.
E noi italiani che non siamo riusciti in centocinquanta anni a risolvere la questione meridionale, che abbiamo milioni di giovani meridionali precari e/o disoccupati malgrado le politiche di sviluppo adottate nel corso di decenni, gli investimenti a valanga, i poli di sviluppo industriale, il sostegno alle start-up, vorremmo risolvere la «questione africana» esportando il nostro modello di sviluppo?!
E quale aiuto a casa loro vorremmo portare dopo che abbiamo tagliato le poche risorse che c’erano per la cooperazione popolare, quelle delle ong, che in qualche caso aveva dato buoni frutti quando non era caduta nella logica dell’economicismo o dello sviluppismo esasperato.
La cooperazione per garantire un minimo di welfare come scuole, sanità, case, questo sì che serve. Ma, se volessimo veramente «aiutarli a casa loro» ci sarebbe un mezzo immediato: un reddito minimo vitale per tutte le famiglie povere africane.
Si potrebbe cominciare dai paesi dove in questo momento partono il maggior numero di migranti come la Nigeria, Niger, Etiopia, Eritrea, ecc. Ipotizziamo che si riuscisse a dare a tutti i giovani tra i 16 ed i 32 anni un minimo vitale di 200 euro al mese, che mediamente in Africa consentono ad una famiglia di sopravvivere. E ipotizziamo sempre che un primo bacino di utenza sia di circa 100 milioni di giovani.
Il costo mensile sarebbe di 20 miliardi di euro al mese, un terzo di quello che Draghi ha elargito mensilmente al sistema creditizio europeo oberato da titoli spazzatura e crediti inesigibili. Immaginiamo che a Bruxelles passi una decisione del genere, quale sarebbe la reazione? Scandalo! Aiutiamo i giovani africani mentre i nostri sono precari, disoccupati e impoveriti? Morale della favola: quando diciamo «aiutiamoli a casa loro» vogliamo dire ben altro.
Basa un breve excursus storico per rendercene conto. Sono secoli che come europei ««aiutiamo a casa loro»» i popoli africani , latino-americani ed asiatici. Soprattutto gli africani sono stati oggetto delle nostre attenzioni, premure, affetto. Prima di tutto portandogli la civiltà e facendoli uscire da una condizione di uomini semiselvaggi, animisti e antropofagi, trasportandoli a nostre spese nel mondo civile (quello che i comunisti un tempo chiamavano «tratta degli schiavi»).
Poi con l’installazione delle nostre tecniche agricole, delle monoculture più moderne che hanno prodotto un notevole flusso di esportazioni, nonché la valorizzazione delle loro miniere che erano state ignorate per secoli come fonte di ricchezza. Ed ancora gli abbiamo insegnato l’uso delle moderne tecniche militari, li abbiamo fatti passare dall’arco e le lance ai carri armati e agli aerei, li abbiamo aiutati a combattersi nel modo più moderno ed avanzato possibile offrendogli consiglieri militari e le armi più sofisticate.
Infine gli abbiamo insegnato l’uso del denaro e come sia facile prenderlo in prestito e poi doverlo restituire con buoni tassi di interesse, ovvero quella che è la nostra libertà più grande e bella: la libertà di indebitarsi fino al collo.
E dopo aver operato per secoli a casa loro, per il loro benessere, adesso questa generazione ingrata vuole venire a casa nostra con tutti i problemi che già abbiamo… Non è possibile…riportiamoli a casa loro , anzi deportiamoli.
L'interesse dell'Europa a utilizzare le persone che fuggono dai loro deserti è simmetrico rispetto all'interesse dei migranti di trovare un'occupazione. Ma per trovare la sintesi occorre un'Europa profondamente diversa dall'UE. il manifesto
, 26 luglio 2017
Il terrore e il furore con cui l’Unione Europea e il governo italiano affrontano l’arrivo dei profughi nascono dall’oblio del passato e dall’incapacità di guardare al futuro. I profughi che hanno raggiunto l’Europa nel 2015 (l’anno di maggior afflusso) sono meno dei migranti economici arrivati o legalizzati ogni anno prima del 2008. Con quei migranti l’Europa aveva realizzato la sua ricostruzione postbellica, il miracolo economico e conquistato la posizione di rilievo mondiale che oggi sta perdendo. Ma quel milione e mezzo è solo la metà degli abitanti che un’Europa sempre più vecchia perde ogni anno.
Così tra non molto i governi europei dovranno richiamare nei loro paesi i fratelli e i figli di quegli esseri umani che oggi cercano di far annegare nel Mediterraneo, far morire di sete nel Sahara, far schiavizzare dalle bande che controllano la Libia, far azzannare dai cani e bastonare dalle guardie alle barriere di filo spinato dei Balcani. Perché in un’Europa sempre più vecchia non sarà solo impossibile pagarsi le pensioni; un paese con pochi giovani, pochi bambini, senza gioia, senza creatività, senza iniziativa, senza capacità di confrontarsi con l’altro da sé è condannato a chiudersi e morire.
Chiusura di cui l’Italia è stata destinata a far le spese per prima: mentre il suo governo cerca di spostare i confini dell’Europa al di sotto della Libia, per non farvi entrare chi scappa da dittature, guerre o disastri ambientali, gli altri governi dell’Unione europea hanno invece spostato da tempo quei confini alle Alpi: di lì non si passa; i profughi, se proprio si devono salvare, se li tenga l’Italia.
Stanno facendo del nostro paese quello che il Governo italiano vorrebbe fare della Libia: un deposito di esseri umani a perdere, con tutto il caos che ne consegue. I rimpatri sono costosi e per lo più impraticabili; i respingimenti non ottengono altro effetto che alzare il numero dei morti. Ma se i profughi si sa solo trattenerli per un anno o sei mesi in degradanti contenitori per poi mettere per strada sia coloro a cui viene denegato che coloro a cui viene riconosciuto l’asilo, consegnandoli al lavoro nero, alla criminalità, alla prostituzione, a una clandestinità imposta per legge, allora sì, questo renderà invivibile il paese. I 180 mila profughi del 2016 non sono un gran numero per un paese di 60 milioni di abitanti. Ma con i 200 mila di quest’anno raddoppiano e l’anno prossimo saranno 600 mila o forse più, e così via; non c’è alternativa di destra – respingimenti e rimpatri – che valga: quelle alternative sono state già tutte tentate senza risultati.
Nessun dubbio che un’Unione europea come questa, dove ciascuno va per conto suo, sia destinata a crollare: messe ai margini Italia e Grecia, perso il Regno unito, sarà comunque difficile tener dentro paesi come Ungheria, Polonia e compagnia. D’altronde, un’Europa assediata dalle guerre, dall’Ucraina al Sahrawi, passando per Siria, Iraq, Afghanistan, Israele, Yemen, Sud Sudan, Libia, Ciad, Mali, Nigeria, Repubblica Centroafricana, e altro ancora, si sta trasformando in una fortezza: in cui forse non si entra più (ma c’è già abbondanza di materiale umano esplosivo al suo interno); ma da cui non si potrà neanche più uscire. O solo con le armi: a combattere contro quelle che stiamo vendendo a piene mani in quegli stessi paesi.
Nel mondo d’oggi non si può più stare da soli e per questo l’Europa va ricostituita; ma dalle fondamenta; le sue classi dirigenti non sono in grado di farlo, e nemmeno di concepirlo: hanno smesso da tempo di pensare, non vedono né passato né futuro, vivono in un eterno presente; tutt’altro che innocente. La questione dei profughi andava affrontata dall’inizio, ben prima del semestre di presidenza italiana, come una questione di tutta l’Unione, da mettere davanti a tutto il resto, come aveva cercato di prospettare, tra i tanti, Barbara Spinelli subito dopo la sua elezione al Parlamento europeo. Invece si sono persi tre anni. «Davanti a tutto il resto» non vuol dir solo corridoi umanitari ragionevolmente selettivi invece del massacro in corso, che procura guadagni e poteri immensi a scafisti, aguzzini del deserto e affiliati all’Isis.
Vuol dire rovesciare il tavolo dell’austerità. L’Europa ha bisogno di quei migranti; per integrarli deve innanzitutto offrire a loro e, insieme, ai 25 milioni di disoccupati creati con la crisi, un lavoro. Per mettere tutte quelle persone al lavoro ci vuole un grande piano di investimenti diffusi.
Quel piano è la conversione ecologica, come prescritto dagli impegni presi al vertice di Parigi. Ma è un piano che non può riguardare solo l’Europa: deve coinvolgere anche i paesi di origine dei nuovi arrivati: non si tratta di «aiutarli a casa loro», bensì di aiutarli qui in Europa (che non è casa nostra) ad aver voce e a rendersi parte attiva della pacificazione dei loro paesi in guerra; e, quando potranno tornarvi (e molti non aspettano altro), della loro ricostruzione, del loro risanamento ambientale e sociale, della loro conversione ecologica, con progetti e interventi analoghi a quelli da sviluppare qui.
E’ inutile vaneggiare di piani Marshall per l’Africa senza dir a chi sono diretti: protagonisti della rinascita di quei paesi non possono essere né le multinazionali che la stanno devastando, né i suoi governi corrotti e sanguinari che costringono a fuggire la parte migliore dei loro concittadini, ma solo una nuova grande leva di migranti e di cooperanti europei impegnati a costruire insieme non solo una nuova Europa qui, ma anche una grande comunità euro-afro-mediterranea là; aperta alla libera circolazione non dei capitali, ma delle persone e delle loro aspirazioni.
“
“Non c’è niente di più misterioso o di più bello di un muro. Già me lo vedo; laggiù nel prato, che si erge come un’immane barriera contro il tempo”, La musica del caso, 1990, Paul Auster.
1. Nel recente incontro tra Papa Francesco e Angela Merkel è emersa “sintonia sulla necessità di abbattere i muri”. Non è stato detto a quali, dei tanti muri già eretti o in corso di costruzione, l’auspicio si riferisca, ma è poco probabile si tratti di quello tra la Turchia e la Siria, ormai quasi completato. La gigantesca opera, che si estende lungo cinquecento cinquanta sei dei novecento undici chilometri della linea di confine, consiste in una serie di blocchi di calcestruzzo alti tre metri, larghi due e del peso di quattordici tonnellate ciascuno, sovrastati da sessanta centimetri di filo spinato e con sessanta sette torri di avvistamento.
I lavori sono iniziati nel 2014, in seguito alle pressanti richieste degli Stati Uniti e dell’Europa di chiudere la “frontiera porosa” e impedire il passaggio di estremisti e terroristi. L’allora presidente Obama aveva più volte ammonito la Turchia a fare di più per “sigillare” il confine ed ora, a sancire la complicità con l’occidente, il governo turco orgoglioso per lo stato di avanzamento del muro può dichiarare “siamo nella stessa barca con i nostri alleati, stiamo facendo del nostro meglio”. E del loro meglio si accingono a fare anche lungo i confini con l’Iran e con l’Iraq dove è stata avviata la costruzione di altri due muri, rispettivamente di settanta e novantadue chilometri.
2. I muri, che provocano sofferenza e morte per migliaia di esseri umani, sono anche grandi infrastrutture e, come tutte le grandi opere, procurano enormi profitti alle imprese che le costruiscono. I progetti dei muri turchi, coordinati dai ministeri della difesa e delle finanze, sono stati affidati a TOKI, la società di proprietà dello stato, fondata trent’anni fa per costruire case popolari e che si è espansa fino a controllare l’intero settore dell’edilizia e dell’urbanistica. Presieduta da Ergun Turan, fedelissimo di Erdogan, e posta sotto il personale controllo del primo ministro, è diventata uno dei cardini su cui si regge il regime. Ufficialmente è un ente senza scopo di lucro ma, avendo la facoltà di espropriare terreni e proprietà pubbliche e private e di cambiarne le destinazioni, ad esempio trasformando un parco in centro commerciale (come è successo a Gezi park) o distruggendo le città abitate dai curdi per rinnovarle e renderle “attraenti al turismo internazionale” (come ha fatto a Diyarbakir) il suo potere è enorme. Secondo gli oppositori, l’intoccabilità di Toki, che non è stata scalfita nemmeno dai pur numerosi scandali e accuse di corruzione, deriva dal fatto che gira i suoi profitti al governo e ai suoi amici.
3. Un muro non è una linea sulla carta, un segno topografico come dicono gli architetti, ma un manufatto tridimensionale che riconfigurando i rapporti tra chi sta da una parte e dall’altra e le loro condizioni di vita, cambia la geografia e la storia del territorio al quale viene imposto. L’intenzione della Turchia di occupare la parte settentrionale della Siria è nota da tempo e, secondo molti osservatori, di fatto il muro ha già spostato il confine. Meno attenzione, invece, è stata data ai progetti di sviluppo immobiliare di Erdogan, la cui visione per la regione, una volta “ripulita dai terroristi jihadisti e curdi”, è di costruirvi una città nuova. “Possiamo farlo in meno di un anno”, ha detto, “siamo esperti in costruzioni e infrastrutture, quello di cui abbiamo bisogno è solo un flusso costante di investimenti”. … Con un linguaggio che abilmente maschera con la retorica dell’intervento umanitario il furto della terra e i relativi grandi affari, ha concluso “oltre a case adatte alla locale tradizione architettonica, costruiremo scuole ed ospedali e così elimineremo il trauma psicologico della popolazione….. bisogna avviare una campagna internazionale per la raccolta dei fondi e poi noi siamo
Una forte invettiva contro i mille silenzi dei mass media sulla giungla di delitti che giorno dopo giorno vengono compiuti in Africa. I nostri posteri ci ricorderanno come noi oggi ricordiamo i nazisti?,
FNSI (Federazione italiana stampa italiana), 18 luglio 2017 (m.c.g.)
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani.
Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai. È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
«I leader europei stanno cercando di distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero problema: la mancanza di canali sicuri e legali per le persone che vogliono raggiungere l’Europa».
Internazionale online, 18 luglio 2017 (p.d.)
Tra un’ora, Stephane Broch, il vicecoordinatore delle operazioni di soccorso salirà sul ponte di comando della nave Aquarius con un binocolo e comincerà il primo turno di avvistamento. La luce è nitida, il mare leggermente increspato, ci aspettano tre giorni di bel tempo. Intanto la squadra di Sos Méditerranée è a prua: Rocco, Tanguy, Charlie sistemano i giubbotti di salvataggio arancioni dentro dei grossi sacchi di rafia bianca. Mentre Alain, Alessandro e Svenja gonfiano i gommoni. Bananas, li chiamano. Sono lunghi galleggianti arancioni che vengono lanciati in acqua se qualcuno finisce in mare. “Anche se abbiamo fatto decine, centinaia di soccorsi, ogni volta che saltiamo dentro un gommone per cominciare un’operazione ci prende paura. Nessun soccorso è uguale al precedente, ogni volta è diverso. La paura ci aiuta a tenere l’attenzione alta e a non fare sbagli”, spiega Rocco Aiello, uno dei soccorritori.
Sotto coperta Craig Spencer di Medici senza frontiere tiene una breve lezione per i giornalisti sulla rianimazione cardiopolmonare. “Ci succede così frequentemente che le persone che soccorriamo perdano coscienza che abbiamo deciso che tutti a bordo debbano saper fare la rianimazione, perché in questi casi il tempo è tutto: la tempestività è inversamente proporzionale alla mortalità”, spiega Spencer. Piegato su un manichino di gomma steso a terra, il medico americano mostra tutte le fasi del soccorso: “Dovete prima accertarvi che la persona non risponda agli stimoli sia verbali sia fisici e che la situazione non comporti pericolo. Poi dovete chiamare i medici con la radio di bordo. Urlate: "Medical emergency, medical emergency" e il punto della nave in cui vi trovate. Quindi dovete controllare il respiro della persona e in caso sia assente procedete con la manovra di rianimazione cardiopolmonare”. Cento pressioni al minuto, intense, alla base dello sterno, con entrambe le mani una sopra all’altra, ginocchia ben piantate per terra. “Per darvi il ritmo pensate alla canzone Stain’ alive dei Bee Gees, aiuta!”.
Un codice di condotta per le ong
“Quando arriveremo a 25 miglia dalle coste libiche, ridurremo la nostra velocità di crociera e cominceremo a pattugliare quella che viene chiamata in gergo Sar zone (area di ricerca e soccorso)”, afferma Hauke Mack, il coordinatore di Sos Méditerranée sull’Aquarius. È seduto al computer nella sua cabina e controlla le condizioni del tempo. Vive ad Amburgo e ha lavorato nel settore navale per tutta la vita, fino a quando ha letto sul giornale che Sos Méditerranée avrebbe cominciato a salvare i migranti nel Mediterraneo e ha deciso di mettere a disposizione del progetto le sue competenze. “Io mi sento europeo, anche se so di avere molte identità: sono tedesco, del nord della Germania. Sono molto critico verso l’Unione europea, ma penso che sia stata un grande passo in avanti per tutti, perché ha garantito soprattutto la pace. Questo le persone tendono a dimenticarselo”.
Come previsto dal vertice dei ministri dell’interno europei che si è svolto a Tallinn, il 18 luglio le organizzazioni non governative hanno ricevuto dal governo italiano un codice di condotta in undici punti, e sono state convocate al ministero dell’interno a Roma il 25 luglio per discutere delle nuove norme. Se non lo dovessero sottoscrivere, il governo potrebbe impedire loro di continuare a operare nel Mediterraneo centrale. Le nuove norme prevedono tra le altre cose che le ong non entrino nelle acque territoriali libiche, che non spengano mai i transponder delle navi e che facciano salire a bordo su richiesta delle autorità degli agenti della polizia giudiziaria contro il traffico di esseri umani.
“La maggior parte di queste norme sono inutili”, afferma Mack. “Perché sono quelle già previste dalla legge che rispettiamo: non entriamo nelle acque territoriali libiche, non spegniamo i transponder. Quello che facciamo nel Mediterraneo è conforme alla legge: soccorriamo imbarcazioni in difficoltà che è un obbligo per qualsiasi nave”. Tuttavia c’è un punto problematico nel codice di condotta, quello che prevede che la polizia salga a bordo delle navi umanitarie su richiesta delle autorità. In particolare per le grandi organizzazioni come Medici senza frontiere e Save the children questo punto potrebbe rappresentare un ostacolo: infatti, nello statuto di queste organizzazioni, c’è il divieto di cooperare con le forze armate in qualsiasi parte del mondo per garantire la neutralità degli spazi umanitari in qualunque tipo di situazione. “Rispettiamo tutte le norme internazionali in merito ai salvataggi in mare, il fatto di imporci un codice di condotta implica che noi stiamo facendo qualcosa di sbagliato”, afferma Marcella Kraay di Medici senza frontiere. “Quello che facciamo qui è salvare vite umane e sulle nostre imbarcazioni ospitiamo persone molto provate e vulnerabili che possono essere interrogate dalla polizia una volta arrivate in Italia, perché mentre sono sulla nave non rischiano di scappare”.
Secondo Marcella Kraay, i leader europei stanno cercando di distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero problema: la mancanza di canali sicuri e legali per le persone che vogliono raggiungere l’Europa. “Le ong in questo momento stanno mettendo in luce con le loro azioni che le istituzioni europee non si stanno prendendo responsabilità, non stanno facendo il loro dovere e per questo sono sotto attacco”. Per gli umanitari impegnati nei soccorsi è molto chiaro che il problema è il sistema che costringe le persone ad affrontare viaggi pericolosi attraverso il deserto e attraverso il mare per raggiungere un paese sicuro dove vivere. “Ci vorrebbe un codice di condotta per l’Europa, che permette ai suoi stati membri di non essere solidali”, afferma Mack.
“Le persone continueranno ad attraversare il Mediterraneo anche se le ong se ne andranno, come facevano già prima che noi arrivassimo”, assicura Mack. “Ho l’impressione che i leader europei vogliano solo chiudere gli occhi di fronte a questa tragedia, non gli conviene vedere quello che sta succedendo qui. Ma è un’illusione pensare che se le ong se ne andranno le persone smetteranno di mettersi su una barca”. Le persone che vengono soccorse spesso non sanno quanto sia grande il Mediterraneo, anche per questo accettano di salire su barche instabili, secondo il coordinatore di Sos Méditerranée. “Pensano che sia un fiume o un lago, perché molti di loro il mare non l’hanno mai visto”, conclude Mack.
Questo articolo fa parte di un diario che racconta la vita a bordo dell’Aquarius, una delle navi impegnate nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo centrale.
Corriere della Sera
«L’ITALIA NON PUÒ DIVENTARE
LA DISCARICA DI TUTTA L’AFRICA
BLOCCHI LE NAVI ESTERE»
di Lorenzo Cremonesi
«Occorre assolutamente che i leader europei, in particolare di Francia, Germania e Italia, si riuniscano a Bruxelles per elaborare una politica comune di fronte al problema migranti. L’Italia non può accogliere le navi straniere colme di migranti, come del resto non può diventare la discarica delle masse di persone che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente mentre l’Europa non fa nulla per aiutarla».
È molto determinato Gilles Kepel mentre riflette sulle questioni poste dai massicci arrivi di migranti sulle nostre coste. Il celebre politologo francese, noto per i suoi studi sull’estremismo islamico, si occupa anche di questo tema in una serie di lezioni che sta tenendo all’Università di Lugano.
Centinaia e centinaia di migranti continuano ad arrivare sulle coste italiane. Nelle ultime ore sono approdate nei porti italiani anche navi battenti bandiera tedesca e britannica. Non crede che queste navi dovrebbero portare i migranti a casa loro?
«Credo che nei confronti della questione migranti l’Europa stia conducendo una politica assolutamente irresponsabile. Manca un coordinamento gestito da Bruxelles. L’Italia non può diventare uno spazio grigio dove arrivano i migranti senza alcun controllo e senza alcun coordinamento con gli altri partner di Bruxelles. Si rischia in questo modo di destabilizzare l’Italia in vista degli importanti appuntamenti elettorali dei prossimi mesi. E la questione migranti rischia di spostare il vostro elettorato verso le destre nazionaliste e il Movimento 5 Stelle. È tempo che le istituzioni europee smettano di disperdersi nei rivoli burocratici infiniti dei loro meccanismi interni e assumano finalmente le loro responsabilità nei confronti di questi giganteschi ed epocali movimenti di popolazioni che premono alle nostre coste meridionali. Il tema sarà sempre più esistenziale per l’unità europea. Occorre darci criteri di accoglienza e di divisioni dei compiti. Senza questo l’Italia diventerà sempre più una zona anarchica di accoglienza. La Germania continuerà a scegliere a suo piacimento gli elementi migliori tra i migranti. La Francia sempre più sarà costretta a ricevere i migranti che la Germania espelle. Mentre i Paesi dell’Est europeo continueranno a rifiutarli tout court».
DALL’UE VIA LIBERA AL CODICEPER LE ONG
IL VIMINALE: LINEA DURA CON CHI NON FIRMA
di Dino Martirano
ROMA L’Unione Europea dà il via libera al «Codice dicondotta per le Ong impegnate nelle operazioni salvataggio dei migranti inmare» che ora l’Italia è pronta a utilizzare per regolare il traffico dellenavi umanitarie nei nostri porti. Secondo il diritto internazionale, gli scaliitaliani non possono certo essere chiusi ma è chiaro che adesso, con il codicecondiviso in sede Ue e sottoscritto dalle organizzazioni umanitarie, leautorità portuali — su indicazione del ministero dell’Interno — potrebbero rivelarsimolto ma molto pignole con le Ong che dovessero rifiutare di firmare.
Il testo, corretto, ha eliminato i vocaboli «obbligo» e«divieto», posizionandosi su un più tenue «si impegna». La nuova formulazionesoddisfa comunque il ministro dell’Interno, Marco Minniti, che oggi farà ilpunto al Viminale per stabilire modalità e tempi del tavolo aperto con le Ong(già in settimana) attraverso la Guardia Costiera. A Bruxelles il via libera al«Codice» c’è da giovedì 13 ma è stato annunciato dal Viminale ieri al terminedi un fine settimana molto articolato sul fronte immigrazione. Infatti con inumeri di nuovo massicci degli sbarchi — e la rivolta dei cittadini e delsindaco di Castell’Umberto nel Messinese contro l’arrivo dei migranti — ilTimes di Londra ha dato ampio spazio a un meccanismo, già utilizzato nel 2011dal governo Berlusconi per ridistribuire i migranti in tutti i Paesi Ue,definendolo «l’opzione nucleare dell’Italia».
L’idea — spinta da tempo da Emma Bonino, dalla comunità diSant’Egidio e dal senatore Luigi Manconi — si aggancia alla direttiva Ue55/2001 che prevede la concessione ai migranti di documenti provvisori a scopoumanitario validi anche per varcare le frontiere Ue. Spiega Emma Bonino: «Laminaccia di bloccare i porti era inattuabile, come quella di espellere iclandestini. I visti temporanei sono un buon modo per affrontare la questioneperché non fanno pressione sui profughi ma sugli Stati membri».
Alla vigilia del vertice di Tallinn, il ministro Minniti haricevuto al Senato da Luigi Manconi un documento con i dettagli del «pianovisti» ma al Viminale la proposta non ha fatto breccia: perché per rilasciarequei visti umanitari serve la maggioranza qualificata del Consiglio Ue dei capidi Stato e di governo.
Manconi ricorda che nel 2011 il ministro dell’InternoRoberto Maroni, davanti al «niet» dell’Ue, forzò la mano:«Applicando l’articolo20 del Testo unico sull’Immigrazione concesse migliaia di permessi di soggiornotemporanei e marocchini e tunisini che in parte riuscirono a passare inFrancia». Maroni conferma: «Il sistema funzionò e potrebbe funzionare ancora maprima bisogna dichiarare lo stato di emergenza». È certo — dice il viceministrodegli Esteri Mario Giro citato dal Times , che nel governo è il piùpossibilista — che l’Italia avrà «un duro negoziato» con i partner Ue.
Può la Caritas di un pugno d'isolani riscattare la feroce assenza di una moltitudine di pasciuti costruttori di impenetrabili muraglie, erette per "aiutare a casa loro" gli sfruttati del mondo?
il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017
I naufraghi che arrivano morti a Lampedusa sono nudi. I lampedusani li vestono coi propri abiti e danno loro una tomba. Lo ius soli che tutti cercano è qui, nel cimitero dell’isola dove questi scappati per mare trovano una zolla e qualcuno anche un nome. Il naufrago che arriva a Lampedusa quando sta per annegare urla il proprio nome per sapersi presentare perché solo in questo modo, galleggiando – pur sbocconcellato dalle spigole – riafferma l’essere lui una persona e non lo “zero, virgola” di un calcolo.
Il naufrago è recuperato in acqua dalla Guardia Costiera e da lì, insaccato, approda allo stanzone dei morti nudi di tutto, pure di bara, con il custode che corre portando pantaloncini, magliette e legname, tanto legno con cui chiuderli – i morti, i naufraghi – per sorvegliarli nella pietà della terra che tutti ci fa uguali.
La Guardia costiera “che esce quando tutti rientrano” trova al largo una barca. Vi dondola dentro un liquame ustionante di benzina, urina e acqua di mare: una catasta di cadaveri putrefatti.
Solo il custode del cimitero sa come metterci mano, e quindi Compassione, su quella pappa informe. Il fetore della carne squagliata artiglia il blu incantevole del mare e del cielo.
Il custode, allora, alza l’ingegno: strappa dall’orto di casa sua le foglie d’alloro, le raduna in un fazzolettone che s’annoda in faccia al modo dei banditi del West e così coperto – proteggendo il proprio respiro – procede col da fare. Dal suo fagotto prende gli abiti asciutti con cui vestire i profughi, quindi scava, li seppellisce e poi vi mette sopra la croce.
“Come, la croce?” gli dicono tutti. “Non sono cristiani come noi, saranno di certo musulmani, dovevi metterci una cosa loro in segno di rispetto, una Mezzaluna”.
Ma solo il custode del cimitero, con l’alloro in faccia, conosce la parola giusta: “Se li avessi seppelliti sotto un altro segno li avrei fatti diversi da noi, il vero rispetto è farli uguali a noi”.
È come attraversare una dolorosa canzone a due voci trovarsi qua, a Lampedusa, e leggere Appunti per un naufragio di Davide Enia (edizioni Sellerio). Questo è lo scoglio dove si registra il numero più alto di riconoscimenti di cadaveri in una zona non di guerra. E così, sfogliare quelle pagine di realtà e camminarci dentro – con la cautela propria dello stare in un camposanto, tra le tombe – fa scoppiare in petto la verità.
Una granata che scoppia nel cuore è Lampedusa. I lampedusani si fanno in quattro per capire come aiutarli, i naufraghi – i sopravvisuti, e le salme – e il medico, presente da sempre, non ha certo fatto il callo alla fatica dei mangiamorte.
Ed è sempre come la prima volta. Poco prima di aprire il sacco necroforo supplica Dio mormorando “fa che non sia un bambino” – fa-che-non-sia-un-bambino! – poi va a spalancare quella borsa e vi trova proprio un bambino: “Era”, scrive Enia, “una cosuzza così.”
Enia nel suo libro descrive Pietro Bartolo – lui è il medico – mentre rivive lo sconforto di quella autopsia: “Le mani del dottore erano ferme nell’indicarne la statura. Non più di quaranta centimetri. Il bambino poteva avere un paio d’anni.”
E chissà adesso – in quale fossa, sotto quale lastra – è finito questo piccolino. Chiunque arrivi qui, tra le tombe di questo cimitero, scruta ogni placca – ogni buca – e s’interroga: “Dove l’avranno messo quel pesciolino?”
Chi legge Enia non può che andare a vedere e capire. Ecco qua, dunque, il pezzo di terra dove il mare, la benzina e l’urina hanno trovato tomba. Eccolo: un cespuglio fiorito, i lumini e “l’arriverò” di Cesare Pavese tra le croci. Così si legge: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”.
Tra le cale ricche di memoria, come nella grotta dedicata alla Madonna di Porto Salvo, c’è il segnale che da secoli, ormai, marchia l’isola. Al tempo in cui parlavano le armi dell’Orlando Furioso, come nella battaglia di Lampedusa – tre cavalieri mori e tre crociati – descritta da Ludovico Ariosto, coi cristiani hanno trovato sosta anche i musulmani fino a farne un porto franco.
Un segnale che fa stare insieme tutti, oggi, comunque c’è: un timone conficcato sul terreno. Lo stesso legno delle barche usate nelle traversate indica il luogo del qui riposano “musulmani e cattolici, vecchi e giovani, neri e bianchi…”
Un altro segnale scavato nella viva carne dei popoli è nella tela nella grotta che raffigura la Madonna, il Bambino e Santa Caterina. Il quadro, oggetto di infiammata devozione, nell’incastro dei dettagli e delle affinità svela un’intimità con il Monastero di Santa Caterina di Alessandria, in Egitto, da sempre collegato con questa isola che è ancora Africa quando Linosa, invece, è già Europa.
È il monastero dove Muhammad il Profeta accordò la sua protezione e dove i cristiani vollero erigere una moschea che purtroppo non poté mai accogliere la preghiera per via di un errore di costruzione: non era orientata a Mecca.
Ogni indizio rivela l’imprinting.
Una tomba antica e senza nome, addobbata di piastrelle color turchese, svela all’occhio una suggestione più che una data: quell’anno Mille in cui erano appunto solo mille gli abitanti dell’isola di Lampedusa e tutt’e mille saraceni.
La prova Qibla con l’i-phone, l’applicazione dello smartphone che indica la direzione di Mecca, conferma: l’elegante fossa è correttamente rivolta verso la preghiera. Tutto il resto, no. Tutto è confusione nel segno di fare presto e fare al meglio.
I fiori sono scelti finti apposta per restare lungo a sulle pietre, ancora più duraturi delle lapidi di plexiglass del “Qui riposa”.
Ecco, se non un nome, la storia: “Il corpo di una donna di età compresa tra i 30 e i 40 anni viene rinvenuto dagli uomini della Guardia di Finanza a circa 5 miglia da Capo Ponente” La data, quindi: il 7 giugno 2008.
Ancora una data: 26/02/1973 –21/01/2009. Èla tomba di Eze Chidi: “Nato in Nigeria è stato ritrovato senza vita in un’imbarcazione a bordo della quale tentava di raggiungere l’Europa”.
Sono più di vent’anni che dura, la storia. Paola e Melo dicono che è la tomba a segnare l’appartenenza. È la tesi dell’antropologo Marco Aime, loro amico, un tema fatto proprio dal Forum Lampedusa Solidale che non è un’associazione, ma solo un gruppo di persone che in questo punto sul mare – il più vicino all’altro oceano, quello di sabbia – trova un bandolo alle esistenze venute a morire nel Mediterraneo dopo essersi lasciate alle spalle il Sahara.
Un ragazzo somalo che muore e fa sapere chi è – racconta Paola – rinuncia allo ius soli di qua perché la famiglia, nell’urgente richiamo dello ius sanguinis di là, in Somalia, viene a Lampedusa e se lo riporta a casa.
Per marocchini, tunisini, eritrei e nigeriani capitati qui è il tumulo a stabilire il domicilio. E mentre i sopravvissuti – indiscutibilmente vivi – diventano cifre di statistiche, i morti sono uomini e donne anche a dispetto del “pare che…”
Ed ecco il sepolcro di Yassin: “Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo, è che è arrivato a senza vita a Lampedusa.”
Paola e Melo gestiscono un B&b sull’isola che è come una camera di compensazione tra l’incontrovertibile fatto della bellezza assoluta e l’epica di Lampedusa.
Enia vi ha scorto il genius loci in quella residenza e sono loro, personaggi della realtà trasferiti nella verità di sguardo e parola, a dare testimonianza. Nel libro, e poi ancora dopo, quando le pagine sono state chiuse: “I veri soggetti di questa storia, quelli che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa vengono rinchiusi nei Centri e zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni.”
Un libro che si legge coi piedi, questo di Enia detto Davidù nella realtà eclatante di una storia – quella del confine estremo d’Italia – diventata epica. Un libro da inghiottire trovando nomi. E tombe.
Ne siamo convinti, lo sosteniamo da tempo, e in questi tempi grigi nei quali i nostri governanti operano con fredda superiorità unicamente attenti al "nostro" tornaconto occorre ribadire con forza il concetto.
Internazionale, 14 luglio 2017 (p.d.)
Le frasi di Matteo Renzi sui migranti (“Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ma abbiamo il dovere morale di aiutarli a casa loro”) non sono un inciampo o un errore di comunicazione. Sono invece un buon indicatore dell’umore generale, perfino a sinistra. Un umore che Renzi asseconda e cerca di sfruttare, anziché combattere. Ma l’idea di “aiutarli a casa loro” è un bluff, un modo neppure troppo elegante di lavarsi le mani della questione. Perché se si fanno due conti, come li ha fatti Ilda Curti, esperta di relazioni internazionali e in passato assessore a Torino, si capisce subito che “aiutarli a casa loro” comporterebbe costi, non solo economici, di gran lunga superiori ad “accoglierli a casa nostra”.
Bisognerebbe smettere di vendere armi e tecnologie militari ai regimi autoritari (l’Italia è l’ottavo paese al mondo per esportazioni di armi); sospendere ogni forma di sostegno economico ai governi corrotti; interrompere lo sfruttamento delle regioni da cui proviene gran parte delle materie prime di cui hanno bisogno le nostre industrie; affrontare e combattere seriamente il cambiamento climatico; investire in scuole, ospedali, sviluppo locale, infrastrutture, tecnologia, energia rinnovabile, reti di mobilità sostenibile; combattere l’economia dello sfruttamento, quella che ci fa trovare i pomodori a un euro al chilo nei supermercati; aprire canali umanitari che tolgano ossigeno a trafficanti e mafie; riformare e dare autorevolezza alle istituzioni internazionali, cedendo tutti un po’ di sovranità nazionale. E molto altro ancora, con l’obiettivo di combattere le disuguaglianze globali e pronti a rinunciare a parte dei privilegi dell’essere nati casualmente da questa parte del mondo.
Ecco, per aiutarli davvero “a casa loro” bisognerebbe fare tutto questo. Ma è chiaro che nessun leader europeo ha realmente intenzione di farlo. Perché vorrebbe dire fare la rivoluzione.
«». altreconomia online, 12 luglio 2017 (c.m.c.)
Se il “codice di condotta” per le Ong messo a punto dal ministro dell’Interno Marco Minniti venisse messo in pratica «molte migliaia di migranti e rifugiati potrebbero rischiare di morire in mare». La denuncia arriva da Human Rights Watch e da Amnesty International che, con un comunicato stampa congiunto, evidenziano come «qualsiasi codice di condotta, se necessario, dovrebbe avere come obiettivo quello di rendere più efficace il salvataggio in mare», evidenziano le due associazioni. Puntualizzando che l’adozione del codice di condotta «non dovrebbe essere collegato allo sbarco».
Il testo del codice di condotta è stato diffuso ieri da Statewatch, ong indipendente che dal 1991 è attiva nel monitoraggio civico delle attività degli Stati e dell’Unione europea sui temi della giustizia sociale. Il documento, così come è formulato ora, prevede il divieto assoluto per le navi delle Ong di entrare in acque libiche, il divieto di inviare segnali luminosi, l’obbligo «di non effettuare trasbordi su altre navi, italiane o appartenenti a dispositivi internazionali», l’obbligo di non ostacolare le operazioni di search and rescue della Guardia costiera libica.
Infine l’obbligo pubblicare le fonti di finanziamento e quello di ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria (per svolgere le indagini preliminari per individuare scafisti e trafficanti) oltre che di trasmettere alla polizia tutte le informazioni potenzialmente interessanti per l’attività investigativa. «Il rifiuto di sottoscrivere il codice di condotta o il fatto di non adempiere a questi obblighi – conclude il documento – potrebbe portare al rifiuto da parte dello Stato Italiano di autorizzare l’accesso ai porti».
«Le Ong sono impegnate nel Mediterraneo a salvare vite umane perché l’Europa non lo sta facendo» commenta Judith Sunderland, direttore associato di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia Centrale. «Di fronte alle dimensioni di questa tragedia e agli orribili abusi cui sono vittime i migranti in Libia, l’Unione europea dovrebbe lavorare con l’Italia per mettere in atto una robusta attività di search and rescue nelle acque di fronte alla Libia, non limitarla».
Alle voci critiche nei confronti del codice di condotta si è aggiunta oggi quella dell’europarlamentare Barbara Spinelli durante un dibattito sulle attività di ricerca e soccorso promosso dalla Commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo. Spinelli ha ricordato che «un codice di condotta volontario era già stato sottoscritto dalla maggior parte delle Ong impegnate nel Mediterraneo» e ha stigmatizzato come «alcuni paragrafi siano stati concepiti solo per rendere impossibile il salvataggio di vite umane». Per Spinelli i punti critici sono soprattutto il divieto assoluto di operare in acque libiche «dove Triton non è presente e dove muoiono tantissime persone anche perché la Libia non è in grado di gestire un’area SAR» e la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni, in violazione del principio di neutralità delle Ong stesse.
Intanto, dal parlamento inglese arriva una secca bocciatura all’operazione navale “Sophia” promossa dall’Unione Europea per contrastare il traffico di esseri umani: non solo non avrebbe raggiunto i risultati prefissi, ma la strategia di affondare le imbarcazioni dei trafficanti avrebbe spinto questi ultimi a usare sempre più spesso gommoni insicuri e sovraccarichi. Provocando così “un aumento delle morti in mare”, come si legge nell’inchiesta pubblicata dalla Camera dei Lord.
Al 19 giugno 2017 erano stati arrestati 110 smugglers (che però “appartengono agli ultimi anelli della catena criminale”) e distrutte 452 imbarcazioni. La prassi di distruggere le imbarcazioni avrebbe spinto i trafficanti a cambiare strategia: abbandonare i pescherecci, capaci di trasportare 500-600 persone e di raggiungere il centro del Mediterraneo, per sostituirli con gommoni gonfiabili, più economici e facili da reperire. «Questo cambiamento nel modello di business ha reso l’attraversamento molto più pericoloso per i migranti -si legge nel documento inglese-. Il fatto che oggi il 70% delle imbarcazioni in partenza dalla Libia siano gommoni ha provocato un aumento delle morti in mare».
La conclusione a cui giunge la Camera dei Lord è secca: l’Operazione Sophia ha alterato il modello di business, ma non ha in alcun modo ridotto i flussi dei migranti. «Una missione navale non è lo strumento corretto per contrastare l’immigrazione nel Mediterraneo Centrale – concludono i Lord-. Vi è poca giustificazione per il dispiegamento di asset navali e arei di alta fascia per i compiti svolti dall’operazione Sophia nella fase 2A (il contrasto in mare degli scafisti)». Il contrasto ai trafficanti non può essere fatto in alto mare, mentre «ci sono imbarcazioni molto più piccole e più adatte a svolgere l’essenziale compito di ricerca e soccorso, che può essere messo in atto al posto della missione (Sophia, ndr) per continuare a salvare vite».
Intervista di Fiorenza Sarzanini a Louise Arbour. Un po' deboli le risposte, dato il ruolo della signora Arbour. Del resto, se l'intervistatrice sostiene che l'unico modo di fermare i migranti è aiutare i guardiacoste libici a sparare...
Corriere della Sera, 10 luglio 2017
Roma. «L’unica soluzione per risolvere il problema dei migranti è creare flussi legali. Pensare di fermare queste persone alzando muri e impedendo loro di partire è un’utopia». Louise Arbour, è la rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu e sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact, accordo non vincolante per ottenere una migrazione «sicura, ordinata e regolare».
L’Italia denuncia di essere sola di fronte all’emergenza.
«Io non userei questo termine così catastrofico. Il problema certamente esiste, ma parlare di emergenza serve ad enfatizzare i timori. E invece queste persone rappresentano una vera risorsa per gli Stati».
Anche se non sono regolarizzati?
«Certamente, perché forniscono un contributo concreto: la maggior parte di loro manda nel Paese d’origine appena il 15 per cento di quanto guadagna. Il resto lo spende dove ha deciso di vivere».
Perché in Europa c’è tanta ritrosia ad accoglierli?
«Subentra la paura, il rifiuto alla regolarizzazione di chi riteniamo diverso da noi. Ma bisogna spiegare quali sono i vantaggi. Fermare questi flussi non è possibile, il fenomeno è irreversibile e come tale va governato. Anche perché, parlo dei rifugiati, ci sono dei requisiti di solidarietà da rispettare. Purtroppo all’interno dell’Ue si prendono impegni che poi non vengono rispettati».
Le difficoltà incontrate dall’Onu per formare un governo in Libia e la fragilità dell’esecutivo in carica hanno aggravato il problema?
«La Libia è uno dei problemi più seri che ci troviamo ad affrontare. Ma fino a che si procederà seguendo lo schema attuale non si raggiungerà alcun risultato».
Che cosa vuole dire?
«Dare soldi ai libici servirà soltanto ad aumentare il flusso migratorio e anzi contribuirà ad intensificarlo. Concedere fondi alla Guardia costiera locale non è la soluzione, anzi».
È l’unico modo per cercare di fermare le partenze.
«No, credere che sia così è un grave errore. L’unica strada da percorrere è quella che mira a mettere a posto le cose dal punto di vista politico. Si deve creare un governo stabile, evitare che i trafficanti continuino a spostare le armi dal sud al nord del Paese. Se non si imboccherà questo percorso la situazione peggiorerà ulteriormente».
L’Onu ha provato, evidentemente non è così semplice. Non si è fatto abbastanza?
«Quando la Nato ha deciso di annientare il regime di Gheddafi era prevedibile che ciò avrebbe portato al caos, ma questo sembrava non importare a nessuno. Adesso è molto più difficile trovare un rimedio. Se però l’Europa si illude che la concessione dei finanziamenti servirà a chiudere la partita commette uno sbaglio».
E allora qual è la soluzione?
«Lo ripeto, bisogna aprire canali di trasferimento legali anche per i cosiddetti migranti economici. Nel 2018 sarà operativo il Global Compact per favorire gli ingressi legali per motivi di studio, lavoro e ricongiungimento familiare di chi non ha diritto allo status di rifugiato».
I politici ignorano, per convenienze elettorali, l’evidente relazione tra le leggi che limitano la migrazione regolare e l’aumento del traffico di esseri umani. La sensata conclusione di aprire i canali legali ripresa dal
"Refugee Deeply"Internazionale, 7 luglio 2017 (i.b)
Nel momento in cui l’immigrazione viene vista quasi come una crisi esistenziale per l’Unione europea, è facile dimenticare che Bruxelles ha sviluppato una politica comune al riguardo solo negli ultimi due anni. Prima erano i singoli paesi a gestire la questione, e i loro errori condizionano ancora oggi i tentativi di dare una risposta al problema. Tuttavia il fatto che le politiche migratorie dell’Unione siano relativamente nuove significa anche che abbiamo la possibilità di lasciarci alle spalle le idee sbagliate che hanno guidato le azioni dei singoli stati ed evitare le loro tragiche conseguenze.
Gli sforzi per chiudere le rotte dell’immigrazione illegale possono funzionare solo se sono accompagnati dal tentativo di espandere i canali per entrare legalmente in Europa. In pratica questo significa che gli stati dovrebbero concedere più visti per motivi di lavoro nel corso delle trattative con i paesi d’origine o di transito dei migranti sui rimpatri di coloro che non hanno il diritto di restare nell’Unione.
Il flusso migratorio verso l’Europa è alimentato da alcuni fattori – dalla guerra in Siria ai vari conflitti dell’area che si estende fino all’Afghanistan – di cui l’Unione non è direttamente responsabile. Ma finora le politiche europee sui migranti hanno causato grandi sofferenze alle persone in fuga dalla povertà, dalla guerra e dalle discriminazioni, senza fare nulla per rendere i cittadini europei più sicuri. Il principale equivoco alla base di questo fallimento è la convinzione che i confini europei possano e debbano essere chiusi ai migranti economici.
Questa convinzione ha praticamente impedito ai migranti africani e asiatici di entrare legalmente nella maggior parte dei paesi europei. È importante tenerlo presente quando vediamo le caotiche scene di persone trasportate illegalmente via mare o via terra. Fino agli anni novanta, quando furono introdotte forti limitazioni ai visti, i migranti arrivavano in Europa in aereo. Eppure l’evidente relazione tra le leggi che limitano la migrazione regolare e l’aumento del traffico di esseri umani è spesso ignorata dai politici e dall’opinione pubblica.
La destra populista che chiede la chiusura delle frontiere trascura il fatto che i confini sono già chiusi per chi viene da paesi esterni all’Unione, e questo succede da anni. La traversata su vasta scala del Mediterraneo dalla Libia, e dal Nordafrica più in generale, verso l’Italia è invece un fenomeno relativamente recente e una conseguenza del progressivo inasprimento delle leggi italiane, culminato nel divieto di restare nel paese per gli stranieri che non hanno un contratto di lavoro, divieto introdotto dalla legge Bossi-Fini del 2002.
Misure del genere, oltre a causare enormi soferenze a persone la cui unica colpa è quella di voler lavorare, non raggiungono il loro obiettivo, cioè ridurre i lussi migratori via mare. Gli sbarchi in Europa di migranti provenienti dalla Libia sono aumentati di oltre il 25 per cento nei primi cinque mesi del 2017 rispetto allo stesso periodo del 2016.
Concessioni necessarie
È necessario cambiare strada: l’Europa riuscirà a chiudere i canali dell’immigrazione illegale solo se aprirà quelli legali. Le due cose vanno di pari passo. La Commissione europea si sta rendendo conto che è impossibile stringere accordi di riammissione (per rimpatriare i migranti economici e i richiedenti asilo la cui domanda viene respinta) senza offrire in cambio un aumento dei visti di lavoro. Si potrebbe mettere a punto un nuovo sistema che veda una coalizione di paesi europei offrire una serie d’incentivi ai paesi d’origine e di transito dei migranti, tra cui la concessione di un certo numero di permessi di soggiorno in cambio di un accordo sui rimpatri.
Probabilmente questa coalizione non godrebbe del sostegno unanime di tutti i governi dell’Unione. Alcuni paesi, soprattutto quelli del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) si opporrebbero, così come quelli dove i partiti ostili all’immigrazione hanno un ruolo di primo piano nelle alleanze di governo.
Ma questa “coalizione di volenterosi” potrebbe comunque comprendere Italia, Germania, Svezia e Austria, e avere il sostegno di stati importanti come Francia e Spagna. E non si può escludere la partecipazione di altri paesi interessati al rafforzamento delle frontiere, come Slovenia, Croazia, Bulgaria e Grecia. Questo “patto” non sostituirebbe gli accordi di partenariato che sono già in vigore con alcuni paesi d’origine e hanno ricevuto l’appoggio anche degli stati più riluttanti all’idea di “concedere” poteri a Bruxelles in materia d’immigrazione. Lo scambio tra i canali d’immigrazione legali e gli accordi di riammissione potrebbe avvenire in maniera meno formale, attraverso un memorandum d’intesa tra un certo numero di paesi europei e i singoli stati d’origine. I primi indicherebbero il numero di visti che sarebbero disposti a concedere (prerogativa in gran parte affidata ai governi nazionali) mentre i secondi accetterebbero modalità più rapide per i rimpatri.
Un circolo vizioso
Non sarebbe la soluzione a tutti i problemi. I lussi migratori dall’Africa non s’interromperanno di colpo. Rafforzare le istituzioni dei paesi africani, salvaguardare lo stato di diritto e favorire lo sviluppo economico devono essere i pilastri di una più ampia strategia dell’Unione. Esigere il rispetto dei diritti umani in Libia è fondamentale per eliminare uno dei fattori principali che spingono i migranti a partire. Tuttavia, permettergli di farlo legalmente, mettendo in piedi nel frattempo un meccanismo efficace per i rimpatri, è il genere di cambiamento politico di cui l’Europa ha bisogno. I più cinici sosterranno che queste misure sarebbero impopolari.
Ma un’attenta analisi degli ultimi risultati elettorali in vari paesi europei lascia pensare che molti abbiano confuso una chiassosa e influente minoranza di elettori ostili all’immigrazione con la maggioranza della popolazione, che non ha idee xenofobe ma vorrebbe semplicemente che il problema fosse affrontato in modo più efficace.
La strategia dei “confini chiusi” ha favorito i partiti populisti ostili ai migranti: i confini chiusi causano un aumento dell’immigrazione illegale, che a sua volta alimenta il senso d’insicurezza della popolazione e ostacola l’integrazione dei nuovi arrivati. È arrivato il momento di interrompere questo circolo vizioso, che sta danneggiando la democrazia europea e sta causando terribili sofferenze ai migranti. Ora spetta a una coalizione di volenterosi proporre soluzioni più realistiche al problema dell’immigrazione.
anche sul no profit, invitando i suoi host a offrire alloggi a migranti e sfollati.
Huffpost online, 5 luglio 2017 (i.b.)
Un patto per l'accoglienza. Airbnb, società leader mondiale nel settore dell'ospitalità, ha presentato oggi il portale Open Homes Rifugiati e la collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio e Refugees Welcome Italia, per rendere più semplice per tutti i milanesi aprire le porte della propria casa e accogliere temporaneamente migranti e sfollati. Chiunque desideri condividere i propri spazi con persone in difficoltà potrà candidarsi direttamente sul sito. Gli host Airbnb già attivi potranno in pochi click mettere a disposizione il proprio annuncio a costo zero, mentre tutti gli altri verranno guidati nella creazione di un profilo per poter condividere il proprio spazio. Il nuovo servizio metterà in contatto gli host di Airbnb disponibili a offrire gratuitamente una sistemazione ai rifugiati con le due associazioni, che potranno verificare sul sito la disponibilità di posti letto e prenotarli.
"È facile sentirsi impotenti di fronte alle grandi sfide globali come quella dei rifugiati, ma ci sono azioni che chiunque di noi può fare e che possono fare la differenza", spiega Joe Gebbia, co-fondatore di Airbnb, "il semplice atto di aprire la propria casa per poche notti può cambiare la vita a una persona che ha dovuto lasciarsi tutto alle spalle". Airbnb si è impegnata a fornire ospitalità a 100mila persone nel mondo nei prossimi cinque anni. A oggi sono 6.000 i membri della community che hanno accettato di aderire al programma, oltre un centinaio le prime adesioni in Italia. "Siamo felici di unire le competenze di Refugees Welcome e della Comunità di Sant'Egidio su un tema così delicato con la solidarietà della community di host di Airbnb", aggiunge Matteo Stifanelli, country manager di Airbnb Italia, "crediamo sia giusto provare a dare il nostro contributo, a fianco delle città, nell'affrontare la difficile situazione che queste persone stanno vivendo".
L'idea attinge da esperienze passate analoghe: lo scorso anno il Progetto Open Homes, promosso dal Comune di Milano in collaborazione con l'associazione no profit I sei petali, ha raccolto l'adesione di 126 host che hanno ospitato 90 familiari di pazienti ricoverati negli ospedali milanesi. Ma già prima, nel 1012, durante l'Uragano Sandy, la comunità di Airbnb si è offerta di accogliere senza costi gli sfollati a causa del ciclone. Di lì è nata l'ispirazione per la creazione del programma di risposta alle catastrofi di Airbnb, che da allora ha fornito alloggi temporanei alle persone colpite da 65 disastri naturali nel mondo. A oggi è stata offerta ospitalità per oltre 6.000 notti senza alcun costo per gli operatori umanitari al lavoro per le crisi dei rifugiati a Kos, Lesbo, Giannina, Atene e nei Balcani, mentre l'anno scorso è stato raccolto circa un milione di dollari tra i membri della community da devolvere all'Unhcr. All'inizio di quest'anno, poi, Airbnb si è impegnata a contribuire all'International Rescue Committee con 4 milioni di dollari nei prossimi 4 anni per rispondere all'emergenza rifugiati a livello internazionale.
"Da oggi potremo contare non solo sul sostegno delle nostre famiglie ospitanti, ma anche sulla disponibilità degli host di Airbnb a offrire un appoggio per qualche giorno e in casi specifici: quando un nostro rifugiato, in attesa di essere ospitato in famiglia, ha bisogno di un posto dove andare, o quando, terminata una convivenza, non è ancora totalmente autonomo", spiega Germana Lavagna, presidentessa di Refugees Welcome Italia, mentre Stefano Pasta, responsabile dell'accoglienza profughi a Milano della Comunità di Sant'Egidio, rimarca come "dal 2013, a fronte dell'emergenza profughi, assistiamo a due Europe: da un lato l'Europa dei muri, dei fili spinati, dei respingimenti e di chi è indifferente ai morti in mare, dall'altro l'Europa delle associazioni e dei tanti cittadini che vogliono aiutare in modo solidale i profughi, anche inventando forme innovative di welfare. Sono due Europe entrambe vere, anche se paradossalmente opposte. Apprezziamo particolarmente questo progetto con Airbnb perché ci permette di contribuire a costruire l'Europa dei ponti e non dei muri".
Le politiche italiane ed europee perseverano nella egoistica volontà di risoluzione dei soli effetti arrecati al mondo sviluppato, ignorando le cause che attanagliano i "dannati dello sviluppo".
il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2017 (p.d.)
Al netto delle vaghe iniziative decise ieri dalla Commissione europea, la situazione grossomodo è questa: avendo minacciato i fratelli-coltelli europei di rovesciare carichi di migranti nei loro porti, il governo italiano deve constatare che far la voce grossa ha prodotto scarsi risultati. Gli europei hanno fatto spallucce e non si sono mossi di un millimetro. Ove mai Roma volesse dare corso ai suoi moniti, chiuderanno i porti e schiereranno l’esercito sul confine, come hanno annunciato. E adesso? Il ministro degli Interni Marco Minniti rilancia, chiede una riunione per discutere; ma è evidente che un governo di incerta tenuta e le finanze in disordine non può battere i pugni sul tavolo.
Alla fine dovrà accontentarsi di quanto grida e invocazioni finora hanno permesso di raccogliere, non molto. Soprattutto questo: l’impegno dell’Unione ad aprire vie legali per trasferire rifugiati politici dal Nord Africa al l’Europa, in modo che in futuro (quando?) la ridistribuzione diventi equa ed effettiva; e un finanziamento della Commissione europea alla Guardia costiera libica, il perno della nuova politica italiana sull’immigrazione. Il problema è che questa politica ha molte possibilità di produrre un disastro umanitario: l’Europa intera ne sarebbe corresponsabile, ma quasi tutto il discredito e la responsabilità morale graverebbero sull’Italia.
Nel concreto il piano italo-europeo funzionerà così: le navi umanitarie d’ora in poi saranno soggette a un codice di comportamento, soprattutto per impedire che soccorrano migranti nelle acque territoriali libiche. A tenerle lontane dal litorale provvedono già ora le motovedette della Guardia costiera libica, di fatto una creazione del Viminale. In teoria questo nuovo regime dovrebbe nuocere agli scafisti, che non sarebbero più in grado di imbarcare i migranti su gommoni di basso costo, nella previsione che appena al largo quelle imbarcazioni verrebbero soccorse dalle ong. Un secondo obiettivo che Roma si prefigge, senza dichiararlo, è dotarsi di strumenti e pretesti per costringere le navi umanitarie a far rotta su porti non italiani (ma quali?) con il loro carico umano. Nel concreto le traversate diventeranno più rischiose e complicate per i migranti intrappolati in Libia in condizioni precarie, sovente in semi-schiavitù.
La loro sofferenza non inquieta la Ue, però le ong potrebbero reagire con veemenza all’imposizione di condizioni sgradite, quali quelle decise all’unanimità in giugno dalla Commissione Difesa per sottomettere le navi umanitarie al controllo della polizia italiana. E se si arriva ad uno scontro pubblico, la faccenda diventa imbarazzante per l’Italia. I nostri ascari di Libia, i guardacoste, sono raccontati da un recente rapporto delle Nazioni Unite grossomodo come un arcipelago di milizie inaffidabili, alcune in buoni rapporti con la maggiore organizzazione di scafisti, la stessa che detiene i migranti in un lager tra i più infami.
Inoltre sulla Guardia costiera libica indaga la Corte penale internazionale, sollecitata da una ong umanitaria. Insomma c’è il rischio di scoprire che l’Unione europea finanzia, su richiesta italiana, una sorta di mafia in divisa, sodale di quelle cosche di trafficanti che in teoria Roma dice di combattere. Se poi i finanziamenti alla Guardia costiera funzionassero come una specie di tangente e convincessero alcune organizzazioni di scafisti a sospendere le partenze per l’Italia, resterebbe comunque irrisolto il problema dei 150-180 mila migranti che sono in Libia e non sanno più dove andare se non in Europa, essendo bloccate le altre vie di fuga.
Quanto ai migranti che continuano a entrare in Libia, il piano italiano propone di chiudere il confine libico a sud, lungo la frontiera con il Niger, in modo da bloccare l’ingresso di migranti. In giugno il ministro degli Interni Marco Minniti ha stretto un’alleanza con le due principali tribù di quella regione, i Tebu e i Tuareg., che tuttavia sono una congerie di gruppi divisi da differenti fedeltà claniche e opposte alleanze politiche. Minniti al più potrebbe comprare l’assenso di alcuni capitribù alla presenza di 500 soldati italiani nel sud della Libia, a ridosso di pozzi e tubi dell’Eni. Ma per chiudere il confine ne occorrerebbero molti di più. A sud di quella frontiera, nel Sahel, Macron sta organizzando un mini-esercito di 5.000 soldati di cinque Paesi africani per combattere le milizie di al Qaeda. Tanti ne basterebbero, probabilmente, per cacciare gli scafisti da larghi tratti della costa libica e liberare i migranti lì reclusi. Ma a quel punto una parte di quegli sventurati potrebbe chiedere l’ingresso in Europa. E nessuno a quanto pare intende accoglierli.
Cronaca di un incubo: la vita in uno degli Hotspot, campi di concentramento provvisori per un’umanità in fuga dalla miseria e dalla morte.
Internazionale online, 2 luglio 2017 (i.b.)
“Moria è la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo l’entrata in vigore dell'accordo tra Unione Europea e Turchia nel marzo del 2016. Sophia è arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”, spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.
Dopo alcuni incidenti avvenuti lo scorso inverno, la recinzione esterna è stata rafforzata: un muro bianco circonda il campo, sovrastato da una rete e da una corona di filo spinato. Dopo la recinzione, c’è qualche metro di vuoto, la casupola di ferro di un secondino che svetta nell’azzurro del cielo, poi una nuova recinzione al cui interno ci sono dei container bianchi e grigi: parallelepipedi regolari montati uno a fianco dell’altro. In ogni container dormono dieci o quindici persone, su letti a castello. Non hanno armadietti, non hanno nessuno spazio privato, usano qualche vecchia coperta di lana grigia come una tenda intorno al letto, per riprodurre un’idea d’intimità.
Da tutto il mondo
La maggior parte delle persone che arriva a Lesbo dalle coste turche si sente di passaggio, spiega Sophia Koufopoulou. “Arrivano in Grecia pensando che prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche altro paese europeo”. Ma in realtà, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica nel marzo del 2016, rimangono bloccati in Grecia per mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento (relocation) o di ricongiungimento familiare sia valutata dalle autorità europee. L’ingresso di Moria è un cancello, controllato da un poliziotto che lascia entrare solo chi riconosce. Dopo il primo blocco, si arriva davanti a un container che funge da reception: dietro una finestra una donna bionda chiede con gentilezza il nome di chi entra e di chi esce, si fa scrivere i nomi su dei post-it blu, li spunta da una lista, quindi lascia passare.
Un ragazzo afgano ha disegnato sulla parete del container dove vive il suo viaggio dall’Afganistan all’hotspot di Moria. Nella mappa ha tratteggiato con un pennarello nero la forma del suo paese: carri armati e cecchini ovunque. Nel suo percorso ci sono piccoli uomini, soldati, prigioni, carcerieri e foreste. “I ragazzi ci raccontano spesso degli abusi sessuali e delle violenze che subiscono da parte dei trafficanti che li conducono attraverso il percorso”, racconta Niovi Sakellaridi. “Eid Mubarak”, dice con timidezza Mohammad Qadeem, un ragazzo pachistano di 17 anni, mentre cammina svelto sulla strada in salita che attraversa il campo per raggiungere la sezione dove dormono gli uomini soli, il gruppo più nutrito del campo. È l’ultimo giorno del Ramadan, la più importante festività islamica e tutti i musulmani praticanti dell’hotspot stanno andando a pregare. Ibhraim Al Nasir è appena arrivato sull’isola con sua moglie Sherazade e le sue tre figlie. La più piccola, Bayam, non ha nemmeno un anno. Ibhraim ha pagato duecento euro per la traversata dell’Egeo da Ayvalık, in Turchia. La famiglia siriana, originaria di Raqqa, è partita di notte dalla costa turca con un gommone che è stato intercettato dalla guardia costiera appena entrato nelle acque greche. Le famiglie siriane sono state fatte salire su un’imbarcazione più grande che le ha portate nel porto commerciale di Mitilene, la città più grande dell’isola, dove sono sbarcate e portate direttamente all’hotspot di Moria su un autobus.
Sull’isola, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNCHR), ci sono 4.521 profughi, in gran parte nell’hotspot di Moria. Tra loro 45 minori non accompagnati. Le famiglie invece vengono sistemate perlopiù nel campo attrezzato di Kara Tepe, qualche chilometro a nord di Mitilene. “Mentre un anno fa arrivavano a Lesbo via mare soprattutto siriani ora sbarcano gruppi di persone da tutto il mondo: dalla Repubblica Democratica del Congo alla Nigeria, dal Mali al Kuwait. Quelli che vengono da paesi considerati sicuri come l’Algeria e il Pakistan sono sottoposti a una procedura accelerata per la richiesta di asilo e nella maggior parte dei casi la domanda viene respinta. A quel punto sono riportati indietro in Turchia”, spiega. Il campo è diventato un hotspot, cioè un centro d’identificazione e registrazione per i migranti irregolari nel gennaio del 2016. Si sviluppa verticalmente sulla collina, come un fortino. Ci si arriva attraverso una strada che dalla litoranea svolta verso l’interno, tra uliveti, campi di grano e vecchie edicole religiose che riproducono in miniatura i monasteri ortodossi dell’isola. Gruppi di persone camminano avanti e indietro sulla strada, chiacchierano tra loro e al telefono, non troppo preoccupati delle poche macchine che percorrono la via. Sono migranti che risiedono nel centro e a cui da qualche mese è stato concesso di uscire. Alcuni hanno dei braccialetti colorati che indicano che possono rimanere fuori dal centro solo qualche ora al giorno per poi rientrare nella sezione a cui sono stati assegnati, divisi per nazionalità.
Piccoli tagli
Un gruppo di poliziotti e militari greci staziona sul secondo ingresso: chiacchierano del più e del meno, mentre si riparano dal sole che già a metà mattina si riflette sui container spargendo una luce e un’afa insopportabili. Passato il secondo posto di blocco, si comincia a salire percorrendo una stradina che costeggia il campo. Così si arriva a un terzo cancello, dove alcune volontarie con delle pettorine arancioni sorvegliano l’ingresso. Entrano nel cuore del campo solo le persone che indossano un braccialetto di riconoscimento: minori, donne, gruppi familiari, ma anche chi deve andare dal medico o chi ha appuntamento con i funzionari dell' European asylum support office (EASO) o con quelli greci dell’Asylum Service.
Dopo il posto di blocco si apre una sorta di corridoio di cemento: sulla sinistra c’è una piazza circondata dai container, alcune persone aspettano sedute su una panca altre sono in fila davanti all’ambulatorio. Sulla destra invece ci sono tre corridoi circondati da recinzioni, tre settori, ognuno chiuso da un cancello: il settore dei minori non accompagnati, quello delle donne e quello delle famiglie. Nel primo compound i container sono stati dipinti di fresco con vernici colorate dagli studenti americani venuti insieme alla professoressa Koufopoulou. Sembrano casette estive – gialle, rosse e blu – ma sono circondate da filo spinato. In questa parte del campo sono rinchiusi i minorenni arrivati da soli sull’isola, a cui non viene mai concesso di uscire, se non per gite organizzate dagli operatori. Al cancello una volontaria statunitense che indossa un vestito tradizionale della comunità mormona – abito lungo grigio e cuffietta bianca – deve sorvegliare l’ingresso: possono uscire ed entrare solo gli operatori. Ibu, un ragazzino siriano, sta finendo di dipingere con una vernice celeste la parete di un container, ha lo sguardo vivace, velato in certi momenti da una patina di sconforto.
“Vengono dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dal Pakistan”, spiega Niovi Sakellaridi, un’operatrice dell’associazione greca Praksis che lavora all’interno di Moria da un anno e mezzo. “Non capiscono perché siano stati rinchiusi nell’hotspot e per questo cerchiamo di rassicurarli e di spiegare loro che presto saranno trasferiti in un centro per minorenni, appena sarà accertata la loro età”, dice Sakellaridi. Secondo le norme europee, detenere minorenni è illegale. La legge greca sull’asilo invece prevede che i minori possano essere detenuti in un regime amministrativo (senza l’autorizzazione di un giudice) per un massimo di 25 giorni per “proteggerli”, in attesa che siano trasferiti in un centro di accoglienza adeguato. “Tuttavia abbiamo conosciuto ragazzi detenuti anche per sei mesi”, afferma Sakellaridi. Il fatto di dover vivere all’interno di un carcere, senza aver commesso nessun tipo di crimine, provoca una sofferenza profonda nei ragazzi: “Gli attacchi di panico sono all’ordine del giorno: vediamo sempre più spesso ragazzini che si fanno piccoli tagli sulle braccia”, racconta l’operatrice umanitaria. “Un ragazzino che abbiamo soccorso dopo che si era tagliato mi ha detto: ‘Volevo farmi del male sul corpo, perché così almeno posso vedere il male che sento dentro”. Nel cortile tra i container ci sono delle cabine telefoniche, i volontari hanno dipinto anche quelle con vernici colorate. “I ragazzi chiamano spesso le loro famiglie, ma non dicono dove si trovano, si vergognano di dire ai genitori che sono in difficoltà”, spiega Sakellaridi.
Carcerieri e foreste
“L’incubo ricorrente è un bosco che si trova al confine tra Iran e Turchia: nella foresta i ragazzi hanno dovuto nascondersi dai militari di frontiera che sparavano a vista a chiunque cercava di attraversare il confine”. L’operatrice ha un sorriso aperto e luminoso, ma confessa di aver provato spesso sconforto: “Lavorare otto ore nel campo, reclusi, non è facile. All’inizio soffrivo d’insonnia, poi mi sono uscite delle bolle sulle braccia e poi su tutto il corpo. Credo che sia il mio modo di sfogare lo stress”, racconta mentre mostra delle piccole bolle biancastre sulle braccia. Praksis, l’organizzazione per cui lavora, ha deciso di lasciare il campo di Moria: “Crediamo che non sia giusto trattare le persone come pacchi, come cose, e per questo dopo aver cercato di dare assistenza a chi vive all’interno di Moria per molti mesi, l’ong Praksis ha deciso di andarsene”. Niovi Sakellaridi è combattuta perché crede che i ragazzi abbiano bisogno di essere aiutati, ma si rende conto che la detenzione acuisce i traumi e le difficoltà dei bambini.
Spesso nel campo scoppiano rivolte violente e lo scorso inverno sono morte tre persone in diversi incidenti causati dalla precarietà delle condizioni di vita: molti dormivano nelle tende nonostante il freddo e la neve e usavano stufe a gas per scaldarsi. “Queste persone hanno più di un trauma: hanno subìto abusi e violenze nei loro paesi d’origine, poi ne hanno subiti durante il viaggio, sono riuscite ad attraversare il mare, ma quando pensavano di avercela fatta è cominciata una condizione di attesa e di sospensione, ed è in quel momento che affiorano i traumi”, spiega la ricercatrice greca Sophia Koufopoulou mentre chiede a uno dei ragazzi di aiutarla a dipingere anche i container in cui vivono le famiglie, dopo aver concluso il lavoro nel settore dei ragazzi.
Esperimento Grecia
In cima alla collina, in una delle estremità dell’insediamento, un imam algerino ha allestito in una tenda una specie di sala di preghiera. Mohammad è arrivato quattro mesi fa, è minorenne, ma sostiene che di questo non si è tenuto conto a causa della sua nazionalità. “Ai pachistani si applica una procedura accelerata perché sono considerati migranti economici”, spiega Mairaj, un altro pachistano, in un ottimo inglese. E raccontano di aver conosciuto molte persone, a cui è stato negato l’asilo e che sono state rimandate in Turchia, oppure che hanno accettato un programma dell’Organizzazione mondiale dell’immigrazione (Oim) per il rimpatrio volontario nel loro paese. “Meglio tornare a casa che finire in qualche carcere in Turchia”, dice Mairaj mentre allestisce un piccolo fuoco dietro una costruzione di cemento per preparare il cibo della festa. “Preferiamo cucinarci da mangiare, invece di mangiare sempre il cibo che distribuiscono. Per questo alcuni si sono organizzati con bombole a gas e fornelli anche se non potrebbero farlo”, racconta. Nel campo la vita quotidiana è molto dura: l’elettricità va e viene, manca spesso l’acqua e i bagni sono inservibili. Cumuli di bottiglie di plastica giacciono abbandonate dentro i bagni del settore maschile e l’odore è insopportabile.
Ahmed, un ragazzo algerino di 25 anni, si affaccia da un container per guardare Mairaj che cucina: “Algerini e pachistani non hanno nessuna possibilità che la loro domanda di asilo sia accettata”, conferma. Per questo molti provano a rimanere sull’isola in maniera illegale, dormono in fabbriche abbandonate vicino a Mitilene e lavorano nei campi. “Ma non è facile, rischiano di essere rimandati in Turchia e quello che li aspetta dall’altra parte è la prigione”, dice Ahmed. Per sfuggire al rimpatrio Nazeed, un ragazzo afgano, racconta di essersi nascosto in un camion che si stava imbarcando su un traghetto per Atene. “Sono arrivato ad Atene, poi in Italia sempre con lo stesso metodo. Ma la polizia mi ha fermato e dopo qualche mese mi ha rimandato in Grecia”, racconta. La tendenza delle autorità greche a valutare con procedure diverse le domande di asilo, in particolare sulla base della nazionalità, è stata denunciata anche dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nel rapporto Esperimento Grecia: un'idea di Europa, , pubblicato il 22 giugno. “Per bloccare i flussi migratori verso l’Europa dalla Turchia, Atene ha sperimentato nell’ultimo anno una serie di procedure in particolare nelle isole greche”, spiega l’avvocata Lucia Gennari, una degli autori del rapporto dell’Asgi.
“Riformando la legge sull’asilo nell’aprile del 2016, dopo un mese dall’entrata in vigore dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sui migranti, la Grecia ha introdotto il meccanismo dell’ammissibilità della domanda con cui si valuta se il richiedente asilo provenga da un paese terzo considerato sicuro come la Turchia. Quindi le autorità greche non valutano le domande nel merito, ma nel caso dei siriani valutano solo se la Turchia sia un paese sicuro dove rimandarli”, continua. “Non c’è bisogno di andare troppo a fondo per sapere che la Turchia non è un paese sicuro perché non garantisce la protezione internazionale praticamente a nessuno e perché si è resa spesso responsabile di respingimenti alla frontiera con la Siria”, continua Gennari. “Il meccanismo ellenico ci interessa anche perché ci sembra che la Grecia si possa considerare un laboratorio delle politiche europee sull’immigrazione. Infatti se esaminiamo le riforme che il parlamento e la Commissione europea stanno valutando in questo momento – come la riforma del regolamento di Dublino e la riforma della direttiva procedure – norme che riguardano i pilastri del diritto d’asilo, ci rendiamo conto che Bruxelles vuole estendere a tutti i paesi europei molti meccanismi che sono stati sperimentati in Grecia, in vista di una restrizione generale dell’accesso all’asilo”, conclude Gennari.
Nuovi arrivi
“Da quando siamo arrivati ci hanno messo a dormire in un container con altre sette famiglie, per terra, con delle coperte, perché la stanza non è un dormitorio, ma una scuola. Non ci sono letti, non c’è acqua, la bambina ha una ferita sul piede ma non è ancora stata visitata dal medico”, afferma Ibhraim che ha vissuto a Urfa, in Turchia, prima di provare a raggiungere la famiglia della moglie in Grecia. Sull’isola di Lesbo da qualche settimana è stato registrato un leggero aumento degli arrivi. “Ogni giorno arrivano più di cento persone”, conferma Chloe Haralambous dell’associazione Borderline-Europe che monitora gli arrivi sull’isola greca. “Un incremento rispetto alle scorse settimane, ma niente di paragonabile agli arrivi di massa del 2015, quando se ne registravano anche tremila al giorno”. L’aumento degli sbarchi ha convinto le autorità a riaprire tre campi di transito nel nord dell’isola, dove da tempo le barche non arrivavano più direttamente sulla costa. “Credo che questa situazione sia dovuta più alle condizioni del mare, in questi giorni particolarmente piatto, che a un cambiamento della strategia da parte delle autorità turche che pattugliano le coste e riportano indietro i migranti”.
Quello che è certo è che si sono aperte nuove rotte: “Mentre nel 2015 il flusso era composto quasi esclusivamente da siriani, afgani e iracheni, ora arrivano migranti da tutto il mondo, anche se i siriani rimangono il gruppo più numeroso. Recentemente si è aperta una rotta dalla Repubblica Democratica del Congo: i congolesi arrivano all’aeroporto di Istanbul o a Smirne con un volo di linea e lì trovano trafficanti ad aspettarli. Questa situazione è sicuramente legata anche al deterioramento della rotta del Mediterraneo centrale, sempre più pericolosa”. Per compiere la traversata dell’Egeo i migranti riferiscono di aver pagato anche 50 euro, un prezzo molto basso rispetto ai cinquecento euro che servivano nel 2015, prima dell’accordo tra Unione europea e Turchia. “È paradossale che i viaggi costino di meno dopo l’approvazione dell’accordo, proprio quando cioè dovrebbe essere più complicato arrivare in Grecia dalla Turchia, con il dispiegamento di mezzi navali europei al largo delle coste turche, ma non riusciamo a capire bene che cosa stia succedendo in Turchia per quanto riguarda il traffico di esseri umani”, afferma Chloe Haralambous. Una cosa è certa: “Se la rotta dalla Turchia alle isole greche dovesse riaprirsi, la Grecia non sarebbe in grado di far fronte a una nuova emergenza”.
Prosegue la cieca politica di utilizzazione degli strumenti del nazismo per impedire l'evasione dei “dannati dello sviluppo” prima ancora di doverli respingere.
la Repubblica, 3 luglio 2017, con postilla.
Navi delle ong straniere fuori dalle acque libiche: non potranno avvicinarsi troppo alle coste africane nelle operazioni di salvataggio in mare. Dovranno inoltre garantire bilanci trasparenti. Un nuovo protocollo sulle Ong, quasi un codice di comportamento, che potrebbe spingersi a bloccare l’accesso in porto a chi non è in regola. E ancora: ruolo di coordinamento più forte in capo alla Guardia costiera italiana. Rilancio del piano dei ricollocamenti dei migranti giunti in Italia e Grecia. Esternalizzazione delle frontiere italiane (ed europee) in Libia, sulla scia dell’accordo con la Turchia e cioè più controlli al confine meridionale libico, vera porta d’accesso dei flussi.
Questi alcuni dei punti sul tavolo a Parigi, nel corso di una cena di lavoro fra i ministri dell’Interno di Italia, Francia e Germania per «trovare una risposta comune ai flussi migratori e capire come meglio aiutare gli italiani». Così un portavoce dell’Hotel de Beauvau, il ministero dell’Interno francese, ha descritto l’incontro di ieri fra il ministro Marco Minniti, il suo omologo francese Gerard Collomb, quello tedesco Thomas de Maizière e il commissario Ue, Dimitri Avramopoulos. I quattro hanno lavorato insieme alla stesura di un “approccio coordinato” alla questione migranti per alleviare la pressione sulle coste italiane, che aveva portato, mercoledì scorso, alla minaccia del governo italiano di «chiudere i nostri porti» alle navi straniere. «È stato un incontro lungo e franco - commentano dal Viminale - abbiamo raggiunto un’intesa e ora i francesi stanno scrivendo un documento di proposte condivise» da portare al Consiglio degli Affari Interni della Ue che si terrà giovedì a Tallin con i ministri di tutti i 28 paesi Ue. Molti dei quali si sono già dimostrati refrattari a condividere con l’Italia la responsabilità dei migranti.
L’obiettivo è naturalmente quello di ridurre gli sbarchi: a tal scopo si pensa di limitare la libertà di movimento delle navi delle Ong a cui potrebbe essere vietato l’accesso in acque libiche e che potrebbero essere invitate ad approdare anche nei Paesi di cui battono bandiera. Un’altra richiesta è quella di riscrivere il mandato di Frontex per permettere di sbarcare i migranti in altri Paesi europei oltre il nostro. Quel «segnale straordinario» invocato ieri dal ministro Minniti in un’intervista a Il Messaggero: «Sono europeista e vorrei vedere l’arrivo di una nave carica di migranti in un porto non italiano». L’Europa, naturalmente, è solo uno degli scenari: «La partita fondamentale si gioca in Libia - ha detto lo stesso Minniti - vero confine meridionale dell’Europa, da cui sono arrivati quest’anno il 97% dei migranti » e dove serve dunque un governo stabile. Infine si chiede di affrontare in maniera seria la questione della ridistribuzione dei migranti: quella ricollocazione che finora è stato un flop visto che dall’Italia sono state smistate solo settemila persone.
L’incontro di ieri ha dato il via ad una settimana di incontri cruciali per l’Italia: oltre all’appuntamento di giovedì a Tallin, infatti, domani a Strasburgo si tiene il dibattito plenario al Parlamento europeo con anche i presidenti di Commissione e Consiglio europeo Jean-Claude Juncker e Donald Tusk. Mentre il 7 e 8 luglio si tiene il G20 di Amburgo. Anche per questo si è deciso di preparare il terreno con Francia e Germania, che finora si sono detti pronti ad aiutare l’Italia, nonostante quella distinzione fatta dal presidente francese Macron, fra migranti economici e rifugiati. L’Italia ha ormai bisogno di risposte immediate visto che, secondo dati del Viminale nei primi mesi del 2017 sulle nostre coste sono sbarcate 83.360 migranti, il 18,7 per cento in più dell’anno precedente. Di questi - sono dati dell’Unhcr - 12.600 solo la scorsa settimana.
postilla
I governanti europei non riescono ad avere altri interessi che quello di conservare poltrone e potere connesso ai miserabili ruoli che i sapienti mandriani del popolo bue ha loro affidato. Perciò sono incapaci di comprendere che la tragedia dell’esodo, provocato da decenni di insensato «sviluppo» delle risorse del pianeta Terra, e che le pratiche neonaziste che hanno promosso e continuano a promuovere, si ritorcerà contro di loro e dei popoli che governano. (e.s.)
I migranti usati come giustificazione per espandere i confini dell'occidente, per difendere i "nostri" interessi in «Africa [che] gioca un ruolo cruciale per l’economia mondiale».
il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)
Parlando la settimana scorsa da Bruxelles, il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha annunciato la nuova strategia italiana ed europea per mettere fine agli sbarchi dei migranti. «La questione non è impedire che partano dalla Libia, ma che entrino proprio in Libia. Solo così si farà un vero passo in avanti», ha spiegato Alfano al termine di una riunione del Ppe. Un drastico cambio di direzione rispetto alle politiche intraprese fino a oggi, soprattutto perché lascia intendere, seppure senza dirlo ufficialmente, che sia Roma che Bruxelles stanno ormai accantonando l’idea di coinvolgere il sempre più debole premier libico al Serraj nei tentativi di fermare alla partenza i barconi carichi di disperati che ogni giorno arrivano sulle coste italiane.
In questa ottica – blindare le frontiere meridionali della Libia – va inteso anche il vertice che si terrà alla Farnesina il prossimo 6 luglio tra l’Ue e alcuni paesi di transito dei migranti. Con Alfano ci saranno i ministri degli Esteri di Germania, Austria, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Malta ed Estonia (a cui da domani e fino a dicembre spetta il turno di presidenza Ue), oltre alla rappresentante della politica estera dell’Unione Federica Mogherini. Per l’Africa è prevista invece la partecipazione dei ministri degli Esteri di Libia, Niger, Etiopia e Sudan, insieme ad esponenti di livello dei governi di Tunisia, Egitto e Ciad. Tra gli obiettivi dell’incontro – al quale parteciperanno anche rappresentanti dell’Oim, dell’Unhcr e dell’Onu – rafforzare le frontiere esterne dell’Ue e siglare nuovi accordi per i rimpatri, valutando anche la possibilità di aprire campi profughi a sud dei confini libici. Naturalmente in cambio di finanziamenti e mezzi destinati alla formazione di guardie di frontiera e a progetti di sviluppo nei paesi africani interessati. «L’idea – spiega il viceministro degli Esteri Mario Giro – è quella di dialogare con i paesi di origine e di transito dei migranti. Con i primi puntiamo a realizzare accordi che facilitino i rimpatri consentendo anche l’ingresso in Europa di poliziotti che aiutino nelle identificazioni dei migranti. Con i secondi invece il discorso è diverso: lo scopo è rafforzare i governi locali per evitare che si creino situazioni come quella libica, ma anche rafforzare la lotta al terrorismo e la sicurezza dei confini. Inoltre valuteremo la possibilità di aprire campi nei quali trattenere i migranti».
L’Africa si conferma quindi sempre più al centro delle strategie europee di contrasto all’immigrazione. Al punto che terrà banco anche al prossimo G20 che si terrà ad Amburgo sotto la guida tedesca, nel quale la cancelliera Merkel spera di poter lanciare un «piano Marshal» che incentivi gli investimenti privati nel continente (progetto nel quale Berlino ha già investito 300 milioni di euro). «L’Africa gioca un ruolo cruciale per l’economia mondiale, sia per il suo potenziale che per i rischi che rappresenta», ha spiegato giorni fa in un’intervista il ministro delle finanze Wolfang Schauble.
Non si tratta certo delle uniche iniziative messe in campo e l’Italia è spesso capofila di questi interventi. Ad aprile sempre Alfano ha firmato con il ministro degli Esteri del Niger un accordo che destina 50 milioni di euro per il rafforzamento delle frontiere del paese africano (accordi simili, anche se per importi inferiori, starebbero per essere raggiunti anche con Mauritania, Tunisia, Burkina Faso, Guinea a Mali), mentre a maggio il ministro degli Interni Minniti ha siglato con Niger e Ciad un accordo per l’apertura di campi profughi nei due paesi. Sempre l’Italia, ma questa volta insieme a Portogallo, Spagna e Francia, partecipa inoltre a un progetto finanziato dall’Ue con 41,6 milioni di euro per la formazione in Mauritania, Mali, Ciad, Niger, Burkina Faso e Senegal di reparti di élite di polizia tra i cui compiti figura anche il contrasto all’immigrazione.
Infine i finanziamenti. Due giorni fa Consiglio e ’parlamento europeo hanno dato il via libera a un stanziamento di 3,3 miliardi di euro per un Fondo per lo sviluppo destinati a diventare 44 miliardi grazie al cosiddetto «effetto leva». I soldi serviranno a incentivare investimenti privati destinati a progetti di sviluppo che si spera possano creare posti di lavoro e sostenere le Pmi locali. In cambio dei finanziamenti, i paesi beneficiari devono impegnarsi nel rispetto dei diritti umani e garantire la trasparenza fiscale.
«». Reset, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Prima Milano poi Bologna: due città che, in modi diversi ma con due importanti manifestazioni pubbliche a maggio 2017, hanno accolto la voce dei migranti. Il capoluogo lombardo ha visto la partecipazione di numerosi migranti e cittadini, assieme alle istituzioni; il capoluogo emiliano, al contrario, ha avuto come protagonista la sola voce dei migranti rivolta in primis contro la legge Minniti-Orlando.
Lo slogan della manifestazione di Bologna, NoOneIsIllegal, è sorta esclusivamente dal basso, dalle esigenze e dalla rivendicazione dei diritti da parte degli stessi migranti e non è stato accolto dalle istituzioni che sembrano comunque abbracciare una legge come quella Minniti-Orlando. Quest’ultima rappresenta un ostacolo evidente alle possibilità dei migranti di appellarsi contro le commissioni che devono valutare le richieste di asilo. I migranti stessi non ci stanno e lo dimostrano con la consapevolezza del proprio status di apolide che, come sosteneva Hanna Arendt, li porta ad essere considerati delle non persone. Due mobilitazioni piene di speranza, portate avanti da chi crede nel valore delle differenze culturali ed etniche: la voce dei migranti nelle due manifestazioni italiane vuole una società plurale che non fomenti muri e paure.
Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia solo negli ultimi decenni (in particolare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta) ha adottato una politica di accoglienza nei confronti dei migranti che si è tradotta inevitabilmente in un’urgenza presente nel tessuto sociale. Già la Bossi-Fini ha dato vita a un processo di costante indurimento della condizione dei migranti, che s’inscrive perfettamente nel quadro socio-politico europeo. E i migranti, consapevoli dei fraintendimenti che hanno dato luogo a simili leggi, in queste recenti manifestazioni hanno richiesto una risposta in prima istanza politica, e poi socio-culturale, al razzismo e alla xenofobia.
Occorre partire proprio da qui, ovvero dal contesto sociale e politico dell’Europa, per adottare un punto di vista privo di pregiudizi e miti che alimentano il dibattito sull’immigrazione, che va considerato nel quadro generale delle politiche neoliberali. Considerando anche il caso delle presidenziali francesi di maggio 2017, c’è stato uno sforzo intellettuale da parte di alcuni economisti che hanno riformulato l’urgenza del problema dell’immigrazione, analizzando i miti che ruotano attorno ad esso. Tra chi, come Le Pen, ha portato avanti una campagna politica incentrata sulla sicurezza dei cittadini francesi e di conseguenza sulla paura dell’immigrato, e chi, come Macron, ha considerato i problemi dell’immigrazione in Francia a partire da una consapevolezza storica del periodo colonialista. Emerge, inoltre, la voce di studiosi che hanno fornito alcuni spunti per una ricostruzione del problema immigrazione.
Gran parte dei fraintendimenti generati dal dibattito sull’immigrazione sono dovuti a una mitologia, cioè a un insieme di rappresentazioni collettive radicate nei cittadini. Ed è proprio la potenza di questo mito che svela la sua contraddizione. Questa è l’ipotesi proposta da Éloi Laurent, professore di scienze politiche all’università di Stanford, nel suo libro Mitologie economiche (Neri Pozza 2017). Negli ultimi anni regna incontrastato il “mito socio-xenofobo” che, secondo l’economista francese, può essere descritto brevemente in questi termini: ci sono troppi migranti e poche risorse disponibili. L’immigrazione rappresenterebbe un costo economico non sostenibile. Tuttavia, i migranti sono in maggioranza giovani, attivi, in molti casi anche formati e rinforzano le dinamiche sociali dei Paesi in cui vivono. In realtà non è l’immigrazione in sé, ma la non integrazione che costituisce un costo economico considerevole. L’adozione di un approccio neoliberale ha dato luogo alla strumentalizzazione, in Europa e anche negli Stati Uniti, dello status dei migranti e degli stranieri.
Questa è la socio-xenofobia che secondo Laurent è figlia del neoliberismo. I Paesi del Nord Europa, considerati un tempo come modelli d’integrazione e d’accoglienza, stanno assumendo un atteggiamento di chiusura nei confronti dello straniero e del migrante. L’immigrazione sarebbe, secondo i cittadini europei, esclusivamente responsabile dei nostri mali e non un coadiuvante ai problemi relativi al mercato del lavoro. Questa è la tesi che invece riporta il libro di El Mouhoub Mouloud – professore di economia all’Università di Parigi Dauphine ed esperto di relazioni internazionali – che in L’immigration en France. Mythes et Réalités (Fayard 2017 non tradotto in italiano) svela i miti sull’immigrazione fornendo dati empirici.
Primo mito da scardinare, la definizione di quello che dovrebbe essere un Paese accogliente. Si tratta spesso di un mito diffuso, soprattutto in Francia, ma smentito da dati sul numero di rifugiati. La popolazione immigrata è costituita da meno di 6 milioni di persone in Francia all’inizio del 2015, e cioè l’8.9%, una cifra che, paragonata al dato di grandi paesi d’immigrazione come il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada e la Nuova Zelanda dove si supera anche il 20%, non sembra essere poi così alta. La Francia, come l’Italia, non sembra essere propriamente una terra d’accoglienza. Lo dimostrano anche dati sui rifugiati: le richieste di asilo politico sono nettamente inferiori a Paesi come Germania, Regno Unito e Svezia. Mouloud propone alcuni spunti di riflessione per definire i contorni di una politica alternativa dell’immigrazione: il più interessante è costituito dalla creazione di un permesso di residenza permanente per sostituire la molteplicità di tutti quei decreti vigenti e favorire la mobilità dei migranti garantendo così i loro i diritti.
Una via, quella proposta dai due economisti, che accantona l’intolleranza che contraddistingue l’atteggiamento dei cittadini europei e che, attraverso una pulizia semantica con dati e numeri alla mano, pone al centro la necessità di partire dal valore della persona. Al di là della nazione d’origine e della fede professata: pretesti concettuali che hanno alimentato da sempre le discriminazioni. Quella sul valore della persona è una scelta che, almeno nel caso del territorio italiano, dovrebbe condurci all’approvazione della Legge sulla cittadinanza, un gran passo in avanti che farebbe dialogare comunità e istituzioni.
«Viaggio nel campo di Zaatari, uno dei più grandi del mondo, dove sono ospitati 80 mila profughi .Al centro di distribuzione c'è la fila: bisogna passare il riconoscimento dell'iride oculare».
L'Espresso, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
«La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere», scriveva Italo Calvino. Il paesaggio semidesertico, il caldo torrido, quel colore, un marrone chiaro e tendente al giallo, che domina l'orizzonte di rocce e deserto. E poi i diavoli di sabbia: alti mulinelli di rena e polvere che si formano improvvisamente, ricordando dei piccoli tornado, e crescono su uno sterminato numero di prefabbricati bianchi e grigi. Se i segni si ripetono, affinché una città cominci a esistere, questi sono i segni che hanno fatto nascere Zaatari, la città dei rifugiati.
Il campo rifugiati di Zaatari sorge al nord della Giordania, su un lembo di terra semidesertico al confine con la Siria, vicino alla città di Al Mafraq. Nato per ospitare le migliaia di profughi in fuga dal vicino Paese devastato dalla guerra civile, Zaatari viene aperto nell'estate 2012, come campo temporaneo di tende, sotto l'egida del governo di Amman e dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. In pochi mesi diventa uno dei campi più grandi del mondo e, per densità di popolazione, la terza città del regno hascemita. Oggi vi abitano circa 80.000 persone. Tutte siriane.
Arrivarci, partendo dalla capitale, è molto semplice: si tratta di circa settanta chilometri di strada scorrevole. Entrare nel campo, invece, è già più complicato. Circondato da un arido perimetro privo di barriere o reticolati, ma controllato giorno e notte dall'esercito giordano, Zaatari ha un'unica strada di accesso alla fine della quale, ovviamente, la polizia chiede di verificare i permessi di entrata rilasciati dallo Stato. Fuori dal posto di blocco non c'è la fila: il campo ha raggiunto la sua capienza massima ed è quindi stato chiuso a nuovi ingressi. Ottenere il permesso per entrare non è per nulla semplice e i rifugiati che escono per lavorare nelle vicinanze sono pochi, e spesso non lo fanno per la via principale.
Noi siamo riusciti a visitarlo grazie al supporto del Norwegian Refugee Council, efficiente ong norvegese che all'interno ricopre un ruolo fondamentale nella distribuzione di quelli che in termine tecnico vengono definiti "non-food items", tutti i beni di prima necessità che non sono alimentari: dai pannolini per i bambini e i vestiti fino ai sussidi finanziari.
Zaatari è diviso in 12 distretti, 12 aree diverse create per praticità e per una migliore organizzazione. Le strade, a un occidentale, possono sembrare tutte simili. Lo stesso vale per le costruzioni destinate ad abitazione. Un occhio più attento, però, può distinguere i distretti in base ai prefabbricati: da una parte quelli donati dall'Arabia Saudita, dall'altra le abitazioni regalate dal Qatar o da altri benefattori.
In ogni distretto, inoltre, ci sono aree destinate a usi specifici, circondate da barriere e filo spinato, controllate all'entrata. Grazie ad Hassan, il giovane "technical communications officer" di Nrc, e grazie soprattutto al loro Country director, l'italiano Carlo Gherardi, visitiamo le attività nel campo della ong norvegese: da un lato la formazione, i grandi laboratori professionali dove i più giovani siriani possono imparare l'arte della sartoria, il mestiere dell'elettricista, come aggiustare un moderno telefono cellulare o come costruire, e poi gestire, un pannello solare. Dall'altra le attività di educazione per i bambini in età scolare: in Giordania, come negli altri Paesi dell'area mediorientale, il tema del diritto all'educazione dei rifugiati siriani rimane una delle sfide più importanti da vincere. All'interno di Zaatari, per fortuna, sono state costruite più scuole in grado di garantire un percorso scolastico ufficiale a tutti questi figli della guerra civile.
Organizzazioni come Nrc, con l'aiuto di Unicef, realizzano programmi di recupero per chi ha perso anni di istruzione, corsi di supporto nello studio, di affiancamento per i bambini che hanno più difficoltà a concentrarsi. Colpisce il lavoro realizzato con il "Better Learning Programme", un progetto mirato ad aiutare i piccoli che non riescono a concentrarsi in classe a causa del sonno disturbato: gli incubi e la paura di quello che hanno vissuto in Siria li continuano a perseguitare.
Zaatari è enorme e la scuola, ovviamente, non è l'unico problema di una città nata all'improvviso. Per anni le case dei rifugiati sono state le tende delle Nazioni Unite. Ora, come detto, sono prefabbricati più moderni, con interni rivestiti da una lamina di legno. L'elettricità, però, c'è solo quando cala il buio. Durante il giorno bisogna farne a meno, tranne che nelle zone provviste di generatore. L'acqua potabile viene fornita dall'Unicef, con grandi contenitori di plastica che vengono ricaricati quotidianamente per servire più di una famiglia. Alimenti e cibo sono garantiti da un'altra agenzia dell'Onu, il World Food Programme. Mentre, per tutto quello che riguarda i beni di prima necessità non alimentari a pensarci è proprio il Norwegian Refugee Council. È grazie a loro che riusciamo a entrare nell'area di distribuzione: è qui che un rifugiato può chiedere quello di cui ha più bisogno. Quando vi entriamo è in corso la consegna di pannolini per i neonati. Decine di donne si muovono silenziose e velate nell'area di riconoscimento, alcune con un semplice velo sui capelli, molte con il velo totale, quello che permette di vedere solo gli occhi di chi lo porta.
All'interno dell'area, però, devono alzarlo per il riconoscimento dell'iride: il governo giordano, infatti, in collaborazione con Unhcr, ha attivato un sistema di registrazione dei rifugiati tramite il riconoscimento oculare. Con una macchina fotografica digitale l'iride viene registrata nei database all'arrivo e ogni volta che è necessario qualcosa dal Centro di distribuzione per l'assistenza umanitaria, che sia qualcosa di materiale o il sussidio monetario mensile, è necessario il suo riconoscimento. Il clima nella stanza in cui avviene è surreale: per chi vive al campo non c'è nulla di più naturale, per i visitatori vedere una fila di operatori chiedere ai siriani di guardare nella macchina fotografica a forma di binocolo crea un clima un po'fantascientifico. E ancor di più quando, dopo pochi secondi, una nitida foto dell'occhio appare sugli schermi dei computer.
Una forma di ossimoro in una "città" in cui, per motivi di sicurezza, nessuno può accedere alla rete internet. Eppure la vita va avanti, nonostante le difficoltà. A raccontarcelo è Farazat, un siriano trasferitosi qua da tre anni. «Prima di scappare dalla mia terra le ho provate tutte: per un periodo ho lavorato come falegname e carpentiere in Libano, per mandare del denaro a casa. Ma dopo pochi mesi sono voluto tornare; non potevo lasciare mia moglie e i miei figli da soli in Siria», ci rivela seduto per terra, nel suo ordinato prefabbricato. «Per qualche mese ho cercato di tirare avanti; ho sperato che la guerra finisse. Ho deciso di scappare definitivamente il giorno in cui è nata mia figlia», racconta. E ancora: «eravamo in un ospedale da campo e lei è nata prematura di qualche settimana. Subito dopo il parto è stata messa in un'incubatrice. Dopo pochi minuti una bomba ha colpito l'ospedale; la piccola ha iniziato a piangere e l'elettricità è saltata, interrompendo il funzionamento dell'apparecchiatura. In quel momento ho deciso che non avrei più potuto rischiare la vita della mia famiglia. Appena mia figlia si è stabilizzata, siamo scappati». Farazat ora ha tre figli, che gli corrono attorno sotto lo sguardo vigile della moglie, mentre ci parla. Sono salvi, sono vivi. «La vita nel campo non è facile, per mesi sono stato passivo, senza far nulla, poi ho ritrovato coraggio e mi sono messo a insegnare l'arte della falegnameria in un centro di formazione. Ora sono felice: siamo salvi, abbiamo un tetto, del cibo, una casa. Ma quando penso alla mia terra, a una vita normale, mi piange il cuore. Soprattutto quando penso ai miei figli, che credono il mondo finisca qua, perché non hanno mai visto altro. Se non il campo, se non Zaatari».
È impossibile descrivere in poche parole una vita così complessa, un luogo così difficile e complicato, una quotidianità così distante dalla nostra, ma reale. L'esempio lampante, forse, sono gli "Sham Elysees", il viale principale, che prende nome un po' da Parigi e un po' dal nome arabo di Damasco. Sham, appunto. È lì che si può sentire con gli occhi come la vita vince, comunque, sulle tragedie umane. È lì che i siriani hanno aperto una miriade di negozietti in cui vendono di tutto, dai profumi per le ragazze agli abiti da sposa. Perché a Zaatari c'è chi nasce, chi cresce e va scuola, chi lavora, chi ruba e chi si sposa. A Zaatari c'è la vita. Nonostante tutto. Nonostante il costante tentativo degli esseri umani di provare a porvi fine
Una lezione preziosa sul fenomeno sociale e umano più rilevante del nostro secolo. Gli imbrogli, le contraddizioni e le crudeltà nelle parole e negli atti delle politiche internazionale, i modi in cui l'inumanità degli eventi viene accresciuta anzchè ridotta, già che si dovrebbe fare.
Guidoviale.it blog, 19 giugno 2017 (p.d.)
Chi sono i rifugiati ambientali? Secondo Essam El-Hinawi, che ha introdotto questo termine nel 1985, si tratta di “persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat abituale, temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi ambientale (naturale e/o provocata da attività umane, come per esempio un incidente industriale) o che sono state spostate in via definitiva da significativi sviluppi economici o dal trattamento e dallo stoccaggio di scarti tossici, mettendo così a repentaglio la loro esistenza e influenzando gravemente la qualità delle loro vite”.
Un’altra definizione da prendere in considerazione è quella dell’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) che, si badi bene, parla di
migranti ambientali e non di
profughi. Vedremo che in un diverso contesto la differenza è molto importante. Per l’OIM (2007) i migranti ambientali sono “persone o gruppi di persone che, per pressanti ragioni di un cambiamento improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia all’interno del loro paese che oltre confine.
Entrambe queste definizioni collocano i profughi o i migranti ambientali fuori dal diritto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale le persone a cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. Successivamente il diritto di asilo è stato esteso includendovi ogni tipo di violenza e, in particolare, la guerra. In ogni caso il termine profugo (refugee) si applica solo alle persone che varcano il confine del proprio Stato, mentre le persone che si spostano al suo interno per cause di forza maggiore, siano esse la guerra, la violenza o il degrado ambientale, sono chiamate (displaced persons) e non possono ovviamente essere fatte oggetto di protezione internazionale. La correttezza del termine profugo ambientale è stata comunque contestata soprattutto sulla base di due considerazioni:
Primo, il rapporto tra degrado ambientale ed esodo all’estero non è quasi mai diretto. Prima di abbandonare il proprio paese le vittime di un processo di degrado ambientale cercano per lo più altre strade: si spostano in un altro territorio, spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale. Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero. Ricostruire l’eziologia di questo esodo è pertanto molto difficile. “I disastri – afferma il professor Roger Zetter dell’Università di Oxford, una delle massime autorità negli studi su questo argomento – non spostano la gente. E’ la loro vulnerabilità sociale e politica e la loro esposizione agli shock a predisporli allo spostamento. L’ambiente non ‘perseguita’ come possono farlo una dittatura o una guerra”. Secondo, il tentativo di estendere ai migranti ambientali la protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra, in particolare in un periodo in cui la sua applicazione viene messa in forse da molti Governi, rischia di diluire e compromettere anche la protezione accordata alle persone che la Convenzione deve proteggere.
Altri studiosi ritengono invece che i profughi ambientali siano effettivamente vittime di una violenza, quella dei cambiamenti climatici provocati dall’Occidente e dei disastri prodotti dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi processi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per il professor Francois Gemenne dell’Università di Paris Vincennes, i profughi ambientali sono effettivamente vittime di violenza: quelli propri dell’antropocene, cioè dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali provocati dall’Occidente, dai suoi consumi e dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi flussi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per questo hanno diritto a una protezione internazionale. Quale che siano le ragioni che spingono sia i profughi di guerra che i migranti ambientali a fuggire dai loro paesi, oggi sono entrambi esposti allo stesso carico di maltrattamenti, violenza, sfruttamento, rapine e rischi mortali durante il loro viaggio verso l’Europa, dato che nessun corridoio umanitario viene predisposto per facilitare il loro arrivo.
Come si è visto, le cause che spingono i profughi e i migranti ambientali ad abbandonare il loro paese sono diverse. Più in particolare esse rientrano in una delle seguenti categorie:
- Eventi ambientali estremi come terremoti, alluvioni. Uragani, siccità, carestia, ecc.;
- Lento degrado del suolo anno dopo anno, come desertificazione, innalzamento del livello del mare, esaurimento degli acquiferi (tutti fenomeni che dipendono dai cambiamenti climatici);
- Interventi umani che cambiano lo stato di un territorio, come miniere, pozzi petroliferi o per l’estrazione del gas, appropriazione del suolo o dell’acqua, costruzione di grandi infrastrutture come dighe, oleodotti, ferrovie, strade, impianti turistici, sviluppo urbano o grandi manifestazioni come Giochi Olimpici o esposizioni internazionali.
I profughi e i migranti ambientali abbandonano i loro luoghi di origine secondo modalità differenti a seconda dei fenomeni che li hanno spinti a farlo. Quando sono in gioco eventi estremi e improvvisi, quasi tutti gli abitanti di un’area si spostano insieme verso altre aree il più possibile vicine a quelle che lasciano, per lo più all’interno dello stesso paese. Quando invece il fattore determinante è un degrado graduale dell’habitat, l’emigrazione è in genere più selettiva. Si spostano (da soli o in piccoli gruppi) solo alcuni membri di una famiglia o di una comunità, in genere giovani, spesso i più istruiti e persino i più benestanti, anche perché devono sostenere i costi del loro viaggio, tutt’altro che indifferenti, con le risorse delle loro famiglie o con quelle di parenti che si trovano già all’estero e che li attendono. Spesso, prima di imbarcarsi in un viaggio rischioso verso l’Europa, raggiungono una città o la capitale del paese, dando origine a nuovi slum. Il loro obiettivo principale è guadagnare e mandare del denaro a casa per integrare le scarse risorse delle loro famiglie. Il modello di migrazione seguito dalle persone cacciate dalla costruzione di un’infrastruttura o da qualche altro progetto di sviluppo riproduce quello delle persone colpite da un evento estremo, anche quando il loro trasferimento è organizzato da un’agenzia di governo.
Il modello della gente che fugge da una guerra è invece spesso simile a quello seguito dalle persone cacciate dal degrado del loro habitat, anche quando la loro fuga assume le caratteristiche di una valanga, come oggi in Siria. In entrambi questi schemi di esodo, la maggioranza delle persone desiderano tornare prima o poi da dove sono venuti, anche se pochi riescono poi a farlo. Improvvisi disastri ambientali o lento degrado di un habitat sono spesso causa di conflitti armati o di guerre, perché un ambiente immiserito riduce le risorse di una comunità che vive di un’economia di sussistenza, inducendo gruppi etnici o armati ad accaparrarsi quel che resta a spese di altri gruppi anche con le armi. E’ questo, per esempio, il caso del confitto che coinvolge Boko Haram nel nordest della Nigeria, o di quello che aveva devastato il Ruanda. Spesso l’economia nazionale o le politiche del Governo non sono in grado di far fronte alla rapida crescita di conglomerati urbani provocati da una migrazione interna. E’ questa una situazione che sfocia facilmente in rivolte urbane che, in un contesto vulnerabile, possono poi esplodere in una guerra aperta, soprattutto se delle potenze straniere cercano di trarre vantaggio dalla situazione per raggiungere i loro scopi.
E’ questo il caso della Siria: alle origini della guerra che la sta devastando ci sono anni di siccità che avevano strappato un milione e mezzo di contadini dalle loro terre, facendoli confluire verso città già sovraffollate. Qui, in una fase di radicalizzazione e internazionalizzazione del conflitto, l’obiettivo principale dello Stato islamico è stato quello di accaparrarsi le risorse strategiche del paese: in particolare i pozzi petrolifere e soprattutto le risorse idriche attraverso il controllo delle dighe. Tornando a una visione di insieme, le seguenti carte dell’Africa centrale e settentrionale – prese dalla relazione di Grammenos Mastrojeni al convegno Il secolo dei profughi ambientali?, Milano, 24.9.2016 – mostrano come ci sia una sovrapposizione quasi completa tra le aree segnate da degrado ambientale (1), i paesi coinvolti in una guerra o in un conflitto armato (2), le aree colpite da una carestia (3) e le zone da cui proviene la maggioranza dei flussi migratori (4); a riprova di quanto sia difficile distinguere i profughi di guerra da quelli cacciati da un disastro ambientale. E’ sbagliato considerare questi conflitti questioni puramente regionali. Il peggioramento dell’ambiente globale e l’allargamento delle aree gravemente colpite dai cambiamenti climatici provocano un conflitto crescente tra i paesi sviluppati e la moltitudine dei profughi che cercano la sopravvivenza in paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici. Un documento prodotto dal Pentagono già nel 2004 così prospettava il futuro che ci attende: Le prossime guerre saranno combattute per ragioni di sopravvivenza.
Nei prossimi 20 anni diventerà evidente un sensibile calo della capacità del pianeta di sostenere la popolazione esistente. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie, finché gli abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si trasformeranno in “fortezze virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi dalle loro terre sommerse o non più in grado di produrre cibo per mancanza di acqua. Ondate di profughi in arrivo via mare creeranno gravi problemi. Rivolte e conflitti finiranno per spezzare l’Africa e l’India. I Governi incapaci di garantire le risorse di base e i servizi essenziali e di difendere i propri confini verranno spazzati via dal caos e dal terrorismo. Ma quanto sono i migranti o profughi ambientali? Global Estimates calcola che dal 2008 a oggi siano stati circa 28,5 milioni ogni anno. Un’altra fonte sostiene che solo nel 2015 ci siano stati 27,8 milioni di displaced persons, 19,2 dei quali a causa di calamità naturali e 8,6 a causa di conflitti e violenza; L’OIM prevede 250 milioni di profughi ambientali al 2050. Significativo il numero dei profughi provocati da progetti di sviluppo: in Cina, tra il 1950 e il 2015 circa 80 milioni. In India 65 milioni, di cui solo il 17 per cento sono stati ricollocati in modo più o meno appropriato. Ecco alcune cifre di spostamenti provocati da progetti di sviluppo ed eventi organizzati dall’uomo.
Questi dati sono ricavati dal libro Crisi ambientale e migrazioni forzate, prodotto dall’associazione A Sud, Roma, 2016).
Dighe
- Three Gorges dam (China): 1,2 million
- Danjiangkou dam (China): 340.000
- Narmada (India): 3.200 dams, 250.000
- Upper Krishna dam (India): 176 villages, 93.200 families, 300.000
- Shuikou and Yantan dam (Cina): 180.000
- Itaparica dam (Brasile): 40.000
- Kedung Ombo dam (Indonesia): 32.000
- Nangbeto dam (Togo): 10.600
Eventi
- Olimpic games Seul (1988): 720.000
- Olimpic games Bejing (2008): more than 1 million
- Expo Shangai (2010): 400.000
- Santo Domingo: 500 year from Discovery of America (1992): 180.000
Le politiche dell'Unione europea
Quali sono le politiche dell’Unione Europea nei confronti dei profughi? Schematizzando molto per motivi di tempo si può dire quanto segue: L’Europa deve riuscire a respingere il maggior numero possibile di profughi. Lo fa distinguendo tra profughi che hanno il diritto di chiedere asilo in base alla Convenzione di Ginevra perché fuggono guerre o persecuzioni, e “migranti economici”, che non hanno quel diritto e devono essere rimpatriati. I profughi ambientali rientrano in questa seconda categoria.
La selezione tra profughi di guerra e migranti economici viene effettuata negli sulla base dei paesi di origine, classificati in sicuri e non sicuri. Paesi come Afghanistan, Mali, Niger, Nigeria, Sudan, Etiopia sono considerati sicuri e i profughi di quei paesi sono considerati migranti economici e sono costretti al rimpatrio. Per promuoverlo vengono stipulati degli accordi con i loro Stati di origine a cui sono versati miliardi di euro in cambio di questa riconsegna. Ma vengono anche dotati di armamento militare o strumenti di sorveglianza e recentemente, come viene prospettato per il Niger, si progetta il trasferimento in loco di un contingente militare per bloccare i flussi. Respingere i profughi tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento delle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili per tutti i loro paesi, come lo sono oggi gran parte della Libia e i territori in mano allo Stato islamico.
Costituire l’Europa in fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché l’intero continente sarà sempre di più circondato da guerre e bande armate. Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o immigrati regolarizzati. Ostilità che si è già rivelata origine di un terrorismo stragista autoctono e non importato, ma anche di una crescente estraneità e di un crescente rancore di intere comunità che genereranno nuovi conflitti interni su basi etniche o pseudoreligiose.
L’alternativa a queste politiche deve essere comunque elaborata dal basso, dalla cittadinanza attiva e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità autoctone che quelle migranti. Non può essere definita in partenza, ma alcuni dei suoi capisaldi possono essere enunciati fin da ora. Si tratta di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello europeo, che per ora può essere valorizzato solo come strumento di mobilitazione e di condizionamento dei Governi, cercando i necessari collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:
I sette pilastri di una risposta ragionevole
Primo: Politiche di austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei dato che l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di vecchi, è inevitabile. Così si rischia di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. E’ appena il caso di ricordare che il milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a mala pena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono corridoi umanitari di ingresso e soprattutto politiche inclusive, costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto dello sfruttamento e della schiavizzazione dei profughi e dei migranti non regolarizzati in forme tradizionali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione e manutenzione dell’usato, cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno anche nei paesi di origine ed essere il motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Un programma e dei progetti del genere non possono essere affidati né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né solo a programmi governativi. Abbinando accoglienza e lavoro, inclusione e produzione, soltanto l’economia sociale e solidale è adatta a concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Le persone fuggite da guerre e disastri per lo più desiderano ritornare nei loro paesi se solo il degrado sociale e ambientale venisse invertito. Sono queste le premesse per la costituzione di una grande comunità euromediterranea. Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno acquisito in Europa.
Sesto: Per questo le loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa in campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in quegli stessi territori.
Settimo: Premessa obbligata è una battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella ibridazione dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è dovuto solo alla paura (di una loro propensione a delinquere o del terrorismo). Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e culture di cui si teme che possano mettere in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. E’ questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve essere il nostro impegno.