Internazionale (a.b.)
A un anno esatto dal lancio della campagna “Ero straniero, l’umanità che fa bene” per una legge d’iniziativa popolare di riforma della legge sull’immigrazione in Italia, il 19 aprile a Roma le stesse associazioni hanno lanciato la campagna “Welcoming Europe, per un’Europa che accoglie”, un’iniziativa di cittadini europei per chiedere alla Commissione europea di scrivere una legge comune europea sull’immigrazione e sull’asilo in particolare su tre punti: la creazione di canali umanitari per i rifugiati attraverso lo strumento della sponsorship, la protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e di violenze e la depenalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per le organizzazioni umanitarie che aiutano i migranti non a scopo di lucro.
L’obiettivo è raccogliere un milione di firme in un anno in almeno sette paesi europei. La proposta è stata registrata alla Commissione europea nel dicembre 2017 ed è stata approvata il 14 febbraio 2018. Tra i promotori dell’iniziativa ci sono: Radicali italiani, Arci, Asgi, Arci, Action Aid, A buon diritto, Cild, Oxfam, Fcei, Casa della carità, Cnca, Agenzia scalabriniana per la cooperazione e lo sviluppo, Legambiente, Baobab experience.
Oltre che in Italia, si sono costituiti comitati promotori in Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria.
I tre punti della proposta
Canali umanitari, protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e depenalizzazione della solidarietà sono i tre pilastri della proposta. Una volta che le firme saranno raccolte la proposta sarà presentata alla Commissione europea, che dovrà a sua volta scrivere e promuovere una norma europea da sottoporre all’approvazione del parlamento e del consiglio. La commissione non è obbligata a tener conto dell’iniziativa dei cittadini.
«La prima proposta riguarda i richiedenti asilo, chiediamo che sia introdotta la sponsorship privata. Chiediamo cioè d’introdurre la possibilità, sulla scia dei corridoi umanitari realizzati in Italia, di avere un finanziamento per le sponsorship private», spiega Claudia Favilli, docente di diritto europeo all’università di Firenze e socia dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «I privati, le associazioni, le organizzazioni possono farsi carico dell’accoglienza di rifugiati e del percorso di d’integrazione dei rifugiati, come nel modello canadese», continua. Al momento non è previsto in nessuna legislazione, il caso dei corridoi umanitari promossi in Italia dalla Comunità di sant’Egidio, dalla diaconia Valdese e dalla Cei sono stati un’eccezione. «Si tratta di mettere a sistema l’esperienza sperimentata con i corridoi umanitar», conclude Favilli.
In Italia non viene distinto
chi favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro
e chi compie questo reato a scopo umanitario
La seconda proposta prevede che le vittime di violenza e di sfruttamento lavorativo, anche se irregolari, siano tutelate se decidono di denunciare i datori di lavoro. «La proposta prevede che ci sia un sistema strutturato di garanzie a tutela di queste persone che vogliono denunciare il lavoro nero. Questo infatti è il motivo per cui molte persone non denunciano, perché sono ricattabili, hanno paura di essere espulse», afferma Favilli.
Il terzo punto riguarda la criminalizzazione della solidarietà: «Chiediamo che sia modificata la direttiva 2002 numero 90 dell’Unione europea che obbliga gli stati a prevedere sanzioni per l’ingresso irregolare in Europa. La direttiva è formulata in un modo molto generico e quindi non qualifica in nessun modo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per scopi umanitari».
Questo ha fatto sì che 24 stati europei prevedono sanzioni anche per chi aiuta i migranti irregolari a scopo umanitario. “In Italia non viene distinto che favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro e chi, lateralmente alla sua attività umanitaria, può compiere questo reato”, afferma Favilli.
Solo quattro stati europei, tra cui la Germania, hanno declinato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina distinguendo tra chi lo compie a scopo di lucro e chi lo compie mentre sta svolgendo un’attività umanitaria. «In Italia per esempio anche gli umanitari possono essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, salvo poi dover dimostrare che hanno agito in uno stato di necessità cioè per salvare la vita a qualcuno o evitare un danno grave», continua Favilli.
postilla
È sconcertante che la civiltà ruropea, dopo aver promosso e favorito i diritti universali degli appartenenti all'umanità, rifiuti di riconoscere questi diritti a chi proviene dalla sponda meridionale del Maditerraneo. Il significato di questo reiterato rigetto ha una sola, terrorizzante, spiegazione: il germe del razzismo è così profondamente penetrato nel sangue degli europei da farli deventare tutti identici ai nazisti di Hitler. (a.b.)
il manifesto,
Colledel Monginevro, 1.900 metri di quota, a metà strada tra Briançon eBardonecchia. È su questa linea di frontiera che oggi batte il cuore nerod’Europa. È qui che la Francia di Emmanuel Macron ha perso il suo onore, el’Europa di Junker e di Merkel la sua anima (quel poco che ne rimaneva). In unpaio di mesi, in un crescendo di arroganza e disumanità, i gendarmi francesiche sigillano il confine hanno messo in scena uno spettacolo che per crudeltàricorda altri tempi e altri luoghi.
Èappunto a Bardonecchia che si è verificata l’irruzione di cinque agenti armatidella polizia di dogana francese nei locali destinati all’accoglienza e alsostegno ai migranti gestiti dall’associazione Rainbow4Africa, per imporre conla forza a un giovane nero con regolare permesso in transito da Parigi a Romadi sottoporsi a un umiliante esame delle urine, dopo aver spadroneggiato,minacciato e umiliato i presenti.
Davantia quello stesso locale, a febbraio, ancora loro, gli agenti di dogana francesi,avevano scaricato come fosse spazzatura il corpo di Beauty, trent’anni, incintadi sette mesi e un linfoma allo stadio terminale che le impediva il respiro.Aveva i documenti in regola, lei, ma non Destiny, il marito, così l’implacabilepattuglia l’aveva fatta scendere dal pullman che da Clavier Oulx porta allaterra promessa, quella dove lo jus soli avrebbe permesso al loro figlio dinascere europeo, e incurante delle condizioni disperate l’aveva abbandonata aterra, al gelo.
Ciavevano dovuto pensare i volontari di Reinbow4Africa a portarla di corsaall’ospedale e di lì alla clinica Sant’Anna di Torino, dove un’equipe medicaeccezionale per competenza e umanità riuscirà a salvare almeno il bambino, chenascerà di 700 grammi e si chiamerà Israel.
Semprelì, il 10 di marzo, su quella frontiera maledetta, sempre loro, i maledettiflic di dogana, avevano intercettato l’auto di Benoit Ducos, guida alpina evolontario umanitario che aveva appena salvato una donna incinta di nove mesisul sentiero innevato. E avevano provveduto a incriminarlo per un reato diumanità che (nel mondo alla rovescia di questo diritto innaturale) potrebbecostargli cinque anni. È un uomo solare Benoit Ducos, ha lo sguardo chiaro delgiusto. «Ho fatto solo una cosa naturale», ha detto. Non così coloro chel’hanno perseguito, duri, brutali, sordi a ogni richiamo a una qualche sia purgenerica idea di solidarietà: così li descrive chi li ha visti all’opera.
Èimpossibile pensare che dietro questi comportamenti reiterati non ci sia unordine dall’alto. Che dietro la vergogna del Monginevro non ci sia l’infamiadell’Eliseo, e la firma di quell’Emmanuel Macron che a parole si presenta comecampione di europeismo e di libertà, comprensivo delle ragioni dell’Italia ecritico della sua solitudine sul tema migranti, ma che nei fatti alza muri comeun Orbán qualunque. Ma è anche necessario aggiungere che al fondo di ognicatena di comando ci sta un uomo, che quell’ordine lo esegue. E che chi nellaneve dei 1.900 metri ha vessato, offeso, esposto alla malattia e alla mortealtri esseri umani, perseguitato i soccorritori e angariato i fragili, portaper intero la responsabilità della propria abiezione.
Nonsempre è così. Ci sono tempi in cui bene e male in fondo non si rivelano nellaloro netta opposizione. E ce ne sono altri – questo è uno di quelli – in cuiinvece gli opposti si polarizzano.
“Giusti”e “demoni” appaiono nella loro netta opposizione, divisi dal filo di rasoiodella scelta. Che sia la guida alpina che salva mettendo la propria professioneal servizio dell’umanità o all’opposto il procuratore della repubblica cheincrimina chi salva, in mare o sui monti. Che sia il medico che si prodiga persalvare una vita o all’opposto un agente che se ne frega e forse si compiacenell’ostacolarne il soccorso. L’antitesi è oggi squadernata davanti a noi. E aognuno è chiesto di scegliere.
È un bene che oggi in tanti, spinti persino da un qualche senso diorgoglio nazionale, si schierino con i nostri “giusti”, e chiedano di farpagare ai francesi la loro ingiustizia. Così come è necessario che le nostreautorità chiedano conto a quelle francesi delle violazioni gravi commesse.Meglio sarà se, da questa lezione, si imparerà a comportarsi da giusti quandotoccherà a noi – a ognuno di noi, nei territori o in Parlamento – testimoniarela propria appartenenza alla schiera eletta di chi la giustizia e l’umanità lesa e le
Avvenire,
«La denuncia della onlus Rainbow4Africa: i cinque gendarmi della dogana hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test della urine. «Grave ingerenza»©
Cinque agenti delle dogane francesi hanno fatto irruzione armati nella sala della stazione di Bardonecchia, al confine tra Italia e Francia, e hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test delle urine. A denunciare lo sconfinamento è la Rainbow4Africa, onulus che assiste i migranti che tentano di varcare la frontiera delle Alpi per raggiungere la Francia
Sull'operazione, che ha provocato una violenta polemica politica, la Farnesina ha chiesto spiegazioni al governo francese e ha convocato l'ambasciatore di Parigi a Roma, Christian Masset. "Attendiamo a breve risposte chiare, prima di intraprendere qualsiasi eventuale azione", dicono al ministero degli Esteri.
Intanto è arrivata una prima reazione dalla Francia. "Al fine di evitare qualsiasi incidente in futuro, le autorità francesi sono a disposizione di quelle italiane per chiarire il quadro giuridico e operativo nel quale i doganieri francesi possono intervenire sul territorio italiano in virtù di un accordo (sugli uffici di controlli transfrontalieri) del 1990 in condizioni di rispetto della legge e delle persone". Lo rende noto un comunicato del ministro francese dei conti pubblici, Gérald Darmanin, cui fanno capo i doganieri, sulla vicenda di Bardonecchia.
Rainbow4Africa: grave ingerenza
È stata una "grave ingerenza nell'operato delle Ong e delle istituzioni italiane", si legge in una nota diffusa a tarda sera, in cui Rainbow4Africa ha ricordato che "un presidio sanitario è un luogo neutro, rispettato anche nei luoghi di guerra".
I fatti: poco dopo le 19 di venerdì, i douaniers sono entrati nella saletta gestita dal Comune di Bardonecchia dove dall'inizio dell'inverno operano i volontari della Ong torinese e hanno prelevato un migrante giunto da un treno appena arrivato in stazione. Poi hanno intimato ai volontari di fargli usare il bagno per costringerlo a sottoporsi alle analisi delle urine. I volontari presenti hanno provato a chiedere spiegazioni, ma inutilmente.
Di "atto di forza" ha parlato il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, che si è detto "arrabbiato e amareggiato": "Non contesto che gli agenti francesi possano svolgere attività di controllo in territorio italiano in base al diritto internazionale ma non in un luogo deputato alla mediazione culturale, questo denota un po' di confusione". Per il primo cittadino si tratta di "istituzioni che hanno bisogno di mettersi in mostra" mentre la collaborazione tra le amministrazioni locali sui due lati del confine "è ottima".
Sulla porta della sala, teatro del blitz, vicino alla stazione di Bardonecchia c'è un cartello firmato dallo stesso sindaco che spiega come gli unici autorizzati ad entrare siano i volontari e il personale della struttura.
Bardonecchia sulla rotta dei migranti
Da alcuni mesi Bardonecchia, località sciistica della Valle di Susa, si trova al centro della rotta dei migranti che, abbandonata la via di Ventimiglia, tentano di raggiungere la Francia nonostante la neve e il gelo. Nella sala della stazione di Bardonecchia, oltre ai volontari operano i mediatori culturali e gli avvocati di Asgi, associazione studi giuridici immigrazione. "Riteniamo questi atti delle ignobili provocazioni", ha detto il presidente di Rainbow4Africa, Paolo Narcisi, "abbiamo fiducia nell'operato delle istituzioni e della giustizia italiana, che sono state investite della responsabilità di attuare i passi necessari verso la Francia. Il nostro unico interesse rimane assicurare rispetto dei diritti umani dei migranti".
Per l'avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi, "quanto accaduto è una gravissima violazione non solo di quel sistema dei diritti umani che dovrebbe contraddistinguere l'Europa, ma anche una violazione dei principi basilari della dignità umana, intollerabile nei confronti di persone venute per richiedere protezione. Si valuterà pertanto ogni possibile azione per contrastare simili comportamenti".
Di «episodio allucinante» parla anche l'avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. «Ci sono degli accordi tra le polizie di frontiera - ricorda il legale - che prevedono la possibilità di controlli. Questi, però, devono avvenire anche con la presenza degli agenti del Paese in cui avviene l'operazione. Un conto è un controllo, un conto una vera e propria irruzione - continua Trucco -. A quanto risulta le modalità sono state brutali, in un luogo in cui le persone ottengono accoglienza e assistenza. Il ragazzo bloccato è stato costretto a sottoporsi all'esame delle urine, un esame che deve per forza avere alle spalle un'ipotesi di reato. A quanto si apprende, in questo caso l'ipotesi di reato sarebbe inesistente. La persona è stata rilasciata».
La protesta politica
Intanto sulla vicenda monta anche la protesta della politica. Per Giuseppe Civati (Possibile) il blitz è stato «un'arrogante intimidazione», mentre Augusta Montaruli, deputata di Fratelli d'Italia, parla di «comportamento gravissimo» da parte degli agenti di frontiera francesi. E l'ex-presidente del Consiglio, Enrico Letta, rilancia su Twitter: «Irruzione polizia francese a Bardonecchia ennesimo errore su questione migranti. Poi in Europa si stupiscono dell'esito elettorale in Italia!».
Cosa dice il diritto internazionale
"Il diritto internazionale riconosce ogni Paese sovrano sul suo territorio, ma ammette che un altro Paese possa agire su tale territorio previa autorizzazione - spiega Edoardo Greppi, docente di Diritto internazionale all'Università di Torino - cosa che in questo caso non è avvenuto. Cosa strana, aggiungo io, giacché le polizie di frontiera hanno rapporti praticamente quotidiani. Ora bisogna capire perché questo è avvenuto, inoltre per un'indagine ad personam minima che non ha portato a nulla. È giusto che l'Italia si esprima su questa vicenda, ma con toni non bellicosi come ho sentito in queste ore, anche per non pregiudicare i rapporti con la Francia in un momento in cui il presidente Macron si è detto più volte, pubblicamente, disponibile a rivedere le norme e i dettati europei su questa materia riconoscendo all'Italia una primarietà legata alla sua stessa natura geografica".
il Fatto quotidiano, 31 aprile 2018. Italia bugiarda. Non è la Libia il criminale che rigetta i profughi nelle grinfie dei loro torturatori o nelle fiamme degli inferni da cui fuggono, ma il nostro governo e l'EU
«Il caso Open Arms - Il nostro governo si comporta con i libici come con un protettorato, ma rifiuta di assumersi le proprie responsabilità»
È ora di fare chiarezza sulla politica italiana e dell’Unione europea concernente i rifugiati provenienti dalla Libia. I fatti, innanzitutto.
La zona libica di ricerca e soccorsi in mare (zona Sar) è un’invenzione di comodo: dal dicembre scorso non esiste più. Lo ha confermato l’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), e lo ha ammesso tra le righe il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, rispondendo il 26 marzo a una mia domanda nella Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo: “Non considero come acquisita la zona Sar della Libia. Ci fu una dichiarazione unilaterale nell’estate 2017 che creò una certa situazione che non riesco per la verità a qualificare”. La risposta è volutamente evasiva e il motivo delle ambiguità europee è evidente: la zona Sar lungo le coste libiche fu proclamata per ridurre drasticamente le attività delle navi Ong e per scaricare sulla Libia (governo provvisorio e milizie) la responsabilità giuridica connessa al rimpatrio e alla detenzione sempre più cruenta dei migranti in fuga verso l’Europa. Sotto forma di finzione tale responsabilità libica deve continuare a esistere, e infatti la Commissione si è guardata dal far proprie le ammissioni del direttore di Frontex.
Quel che invece appare sicuro è il ruolo italiano – e dell’Unione – nella gestione dell’area chiamata tuttora, abusivamente, zona Sar della Libia. Se ne è avuta certezza definitiva in occasione del sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms. Nel decreto di convalida della confisca, il giudice per le indagini preliminari di Catania ha detto come stanno le cose in maniera difficilmente equivocabile: “La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici” (il corsivo è mio). L’affermazione è cruciale, perché per la prima volta si dice che è l’Italia a coordinare le cosiddette guardie costiere libiche (il più delle volte miliziani ed ex trafficanti non controllabili). Le indagini giudiziarie sulle attività di ProActiva OpenArms diventano a questo punto non tanto secondarie quanto pretestuose. La vera questione riguarda l’attività del governo italiano e le intese tra quest’ultimo e il governo di Accordo Nazionale nonché le milizie libiche, intese appoggiate dall’Unione europea.
Ne consegue che l’Italia ha una responsabilità diretta nella decisione di respingere migranti e richiedenti asilo verso la Libia o altri paesi africani, e di esporli a grave rischio umanitario. Come sostiene Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Sembra fuori discussione il fatto che le azioni poste in atto dall’Italia, intervenendo con propri mezzi, uomini e risorse, anche se al di fuori del territorio nazionale, costituiscano esercizio della propria giurisdizione con tutte le conseguenze che ne conseguono, in primis il fatto che l’Italia risponde alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo”. Si ripetono così i respingimenti che già una volta, nel caso Hirsi del 2012, spinsero la Corte europea per i diritti umani a condannare l’Italia di Berlusconi: per i respingimenti collettivi operati nel 2009 e per aver esposto i rimpatriati forzati al “rischio serio di trattamenti inumani e degradanti”. Vero è che le autorità italiane si limitano oggi a “gestire” le guardie costiere libiche anziché intervenire di persona, ma il coordinamento fa capo a loro.
La via scelta dalle autorità italiane e da quelle dell’Unione è quella di perseguire gli operatori umanitari che si assumono l’onere di portare le persone soccorse in mare non nei luoghi “più vicini” bensì in luoghi sicuri (place of safety), come prescritto dalla Convenzione Sar del 1979. È una scelta – quella italiana – fatta in violazione del diritto internazionale, come affermato da 29 accademici europei in un appello che chiede al Consiglio di sicurezza dell’Onu di occuparsi del caso Italia-Libia.
Una denuncia simile era già venuta il 1 marzo dal relatore speciale Onu sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, Nils Melzer: “Gli Stati devono smettere di fondare le proprie politiche migratorie sulla deterrenza, la criminalizzazione e la discriminazione. Devono consentire ai migranti di chiedere protezione internazionale e di presentare appello giudiziario o amministrativo contro ogni decisione concernente la loro detenzione o deportazione”.
Il ruolo dell’Italia sta divenendo sempre più oscuro, anche alla luce del caso, denunciato lo scorso 27 marzo dal Libya Observer, secondo cui le autorità libiche avrebbero delegato un cittadino italiano appartenente alla Missione di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia (Eubam Libia) a rappresentare ufficialmente la Libia in una conferenza internazionale. Questo in violazione della sovranità e dell’indipendenza della Libia, secondo la denuncia presentata dal delegato libico presso l’Organizzazione mondiale delle dogane Yousef Ibrahim al ministero degli Esteri di Tripoli, al direttore generale delle dogane e all’incaricato d’affari libico a Bruxelles.
Il governo italiano si sta comportando come se la Libia fosse un suo governatorato (la storia si ripete, e non è una farsa), ma senza assumersi responsabilità rispetto alla legge internazionale e allo specifico divieto del refoulement e dei trattamenti inumani.
L
e non vi è bastata la donna morta con il suo tumore addosso mentre veniva trattenuta sul confine perché scavallarlo fino ad arrivare al primo ospedale sarebbe stato contro le regole; se non vi basta la guardia alpina colpevole di avere salvato una famiglia surgelata, con bambini piccoli e la madre in gravidanza, pescata sulle alpi; se non vi basta la nave della ONG Proactiva open arms tenuta sotto sequestro come se fosse il ferrarino di qualche boss di ‘ndrangheta mentre quella porzione di Mediterraneo in cui la ONG operava rimane sguarnita, a disposizione dei rastrellamenti degli schiavisti libici travestiti da guardia costiera; se non vi basta l’Europa che dispiega tutta la propria forza giudiziaria per Carles Puigdemont mentre chissà come se la godono i responsabili della Thyssenkrupp a cui il mandato d’arresto europeo ha fatto poco più del solletico nonostante la tragedia accaduta in Italia in cui sono morti sette operai ma pare che non interessi poi troppo a nessuno.
Se non vi basta tutto questo allora sappiate che una delle tante (brutte) facce di questa Europa, che si sta già preparando per richiamare l’Italia poiché qui si andrebbe in pensione troppo bene e troppo presto, ha la forma del muro di cemento, alto tre metri e lungo più di ottocento chilometri, che la Turchia del presidente Tayyp Erdogan ha piazzato sul proprio confine per tappare gli esuli che provano a scappare dalla Siria. Sappiate che sono stati regalati dall’Unione europea anche i mezzi militari Cobra II che sparano contro chi tenta di avvicinarsi (anche se è un provare a mettersi in salvo) e che contravvengono tutti i faldoni di diritto umanitario di cui l’Europa si fregia e intanto se ne frega.
È il lato oscuro ma prevedibile di un’Europa che ancora una volta si dimostra inflessibile con i disperati (che siano pensionati greci, lavoratori anziani italiani o profughi siriani) mentre continua a perdonarsi una certa mollezza con il dispotico turco così come con le multinazionali. È l’Europa “dei popoli” sempre più Europa “dei pochi” che riduce tutto a un freddo conto economico come un commercialista che vorrebbe mettere a bilancio la paura, l’amore, l’esser soli e il tentativo di sopravvivere. È l’Europa contro cui tutti promettono di alzare la voce e invece continua indisturbata a interpretare i grumi peggiori.
L'articolo è tratto da questa pagina raggiungibile qui
Avvenire
Il Rapporto globale sulle crisi alimentari, diffuso ieri, ci sbatte in faccia un’amara realtà: la fame nel mondo continua ad essere una piaga irrisolta e, anzi, sta aumentando in maniera preoccupante. Al punto che ben 124 milioni di persone (l’equivalente di due Italie!) vivono in una situazione che necessita di «un’azione umanitaria urgente». Stiamo parlando di un fenomeno di portata globale, che dovrebbe essere – come fu negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso – almeno oggetto di mobilitazione nella società civile e nella Chiesa, per diventare priorità nell’azione politica. Oggi, invece, sulla fame nel mondo grava un silenzio mediatico pressoché assordante. Come scriveva nel lontano 1952 Josué de Castro, l’autore di Geopolitica della fame, «gli individui si vergognano così tanto di sapere che un gran numero dei loro simili muore a causa della mancanza di cibo che coprono questo scandalo col silenzio totale».
I dati sono così eloquenti nella loro drammaticità che dovrebbero scuoterci, non foss’altro a motivo del fatto che è evidente come un peggioramento delle condizioni di vita nei Paesi più poveri alimenti ulteriormente il flusso migratorio.
Se, infatti, sino a qualche anno fa – anche sull’onda dell’impegno per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio – la curva dei denutriti nel mondo andava lentamente calando, negli ultimi tempi si è assistito ad una pericolosa inversione: erano 80 milioni le persone nella trappola della fame del 2015, oggi sono un terzo in più. Solo nel 2017 sono aumentate del 15% rispetto all’anno precedente. Se le cose non cambiano, la situazione peggiorerà ulteriormente. Specie per l’Africa, il continente che, da questo punto di vista, appare più vulnerabile.
Colpa dell’aumento della popolazione? No, non è la demografia il cuore del problema, con buona pace dei neo-malthusiani. Serve un surplus di tecnologia? Male non farebbe, per aumentare la redditività dei raccolti. Ma, ancora una volta, non è questa la chiave decisiva. I dati dicono (e non da oggi) che i fattori decisivi, quando si parla di fame, sono le guerre e i cambiamenti climatici.
In entrambi i casi, siamo in presenza di emergenze figlie di comportamenti umani da cambiare radicalmente e non il risultato di fatalità da accettare passivamente. Sì, perché ormai sappiamo che anche i cambiamenti climatici sono in buona misura frutto di un’altra guerra, quella alla natura e ai suoi equilibri, all’ecosistema in cui l’uomo è inserito. Una guerra che sta prendendo una deriva che sa di follia.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha così commentato il Rapporto: «Sta a noi ora agire per rispondere ai bisogni di chi affronta ogni giorno la maledizione della fame e per affrontarne le cause alla radice». Già: servono interventi seri e organici, non (soltanto) sacchi di viveri da inviare quando in tv compaiono immagini strappalacrime di africani scheletriti.
Anche papa Francesco, qualche mese fa, in un messaggio alla Fao, aveva chiesto interventi radicali, partendo dal mutamento profondo degli stili di vita e delle politiche perché «fame e malnutrizione non sono fenomeni strutturali di alcune aree, ma sono la condizione di un generale sottosviluppo causato dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi».
Ebbene, il monito vale per tutti: per i Paesi (occidentali ma non solo: è la Cina il primo inquinatore al mondo) che, sull’onda del consumismo, bruciano risorse ambientali come se un certo modello di mal-sviluppo fosse reversibile e privo di conseguenze.
Vale per chi, con le armi, fa affari d’oro sulla pelle dei poveri: aziende e governi del Nord del mondo (europei, Italia inclusa), ma anche – come ha denunciato di recente la rivista “Africa” – molti Paesi africani che hanno iniziato a produrre le proprie armi. autonomamente, con «aziende che sono cresciute fino a diventare veri colossi» dell’industria della guerra.
S
I media hanno largamente ripreso e discusso la notizia di una la nave e una Ong spagnola, che anche eddyburg aveva ripreso, la Proactiva Open Arms, che ha raccolto dei profughi nelle acque del mediterraneo, per lo più fuggitivi dai lager libici, lasciandoli sbarcare sulle coste della Sicilia. Ricordiamo il fatto: la nave di una Ong (organizzazione non governativa) spagnola, la “ProActiva Open Arms”, ha raccolto 218 migranti che tentavano di sfuggire dall’inferno di fame, miseria e terrore che aveva reso impossibile vivere nelle terre dei loro avi. La nave spagnola si era rifiutata di consegnare i profughi alla guardia costiera libica, per l’ottima ragione che – come è noto ormai a tutto il mondo – il governo dell’antica colonia italiana usa rinchiudere i profughi in campi di concentramento trattandolo molto peggio di come nei paesi schiavistici i padroni trattano le donne e gli uomini di cui sono venuti in possesso.
La nave spagnola, che aveva compiuto l’opera (che è difficile non definire caritatevole), ormeggiata nel porto siciliano di Pozzallo (Ragusa), è stata sequestrata dalla Procura della Repubblica di Catania. L’Ansa informa che l'approdo in Italia è al centro dell'inchiesta «per la mancata consegna alle motovedette libiche intervenute sul luogo del soccorso o a Malta e che il fermo della nave è stato eseguito su indagini della squadra mobile di Ragusa e del Servizio centrale operativo».
Ma la nave è solo un oggetto: non soffre troppo dall’essere sequestrata. Non è così per le persone che hanno concorso nelle operazioni di salvataggio. Essi sono oggetto di accuse molto gravi secondo gli incivili codici italiani: “associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina”, “violazione della legge e di accordi internazionali”. I profughi salvati (molti dei quali fuggivano proprio dai lager libici dove le autorità italiane avrebbero voluto rispedirli) hanno raccontato poi ai soccorritori delle "torture che avevano subito in Libia e di come i trafficanti hanno estorto le loro famiglie a pagare in cambio della loro liberazione".
I Kapò italiani non sono soddisfatti di ciò che è accaduto. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ormai famoso armigero della vasta truppa di quanti vogliono cancellare, nei fatti, il diritto delle persone a muoversi sulla terra, minaccia ricorsi e ritorsioni. Vedremo il loro esito Nel conflitto tra legalità e giustizia, di questi tempi, i net, i power, i precari, gli affamati, raramente vedono trionfare la giustizia.
Qualche giornale, nel raccontare questa storia sostiene che a essere tolleranti e ad aiutare i profughi si premiano i trafficanti che li taglieggiano. Giusta osservazione. Infatti c’è chi sostiene (a partire da Barbara Spinelli per finire con noi di eddyburg), che occorrerebbe che l’Europa, o i suoi stati, realizzassero dei corridoi protetti che rendessero umanamente sopportabile un esodo che non è contrastabile se non con una politica di lunga durata, esattamente opposta a quelle che l’esodo del XXI secolo ha provocato. Non ci è capitato di leggere analoghe valutazioni sulla stampa italiana. Ci dispiace.
Avvenire,
Secondo la Fao, dal 1990 al 2017 gli affamati nel mondo sono scesi da un miliardo a 815 milioni. Ma nello stesso periodo in Africa sono cresciuti da 182 a 243 milioni. Eppure, l’Africa è il continente con la maggior concentrazione di terre coltivabili. Di solito gli analisti attribuiscono la fame in Africa alla crescita della popolazione, alle calamità naturali, ai conflitti armati. Ma dimenticano la responsabilità della politica internazionale che ha trasformato l’Africa in un continente dipendente dalle importazioni di cibo, e pertanto sottomesso alle bizzarrie del mercato internazionale che nell’ultimo decennio ha registrato una tendenza al rialzo nel prezzo dei cereali.
Negli anni 80 del Novecento, la crisi dei debiti sovrani forzò molti Paesi africani ad adottare i programmi di aggiustamento strutturale imposti dalle istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale) che in ambito agricolo chiedevano di privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi del Fondo monetario era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini.
Detto fatto le importazioni alimentari crebbero del 3,4% all’anno, in gran parte cereali. In quegli stessi anni, in Africa gli investimenti pubblici in agricoltura erano paragonabili a quelli dell’America Latina, ma poi c’è stata la divaricazione: mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa.
Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In altre parole l’Africa è stata ridotta al pari di Haiti dove la produzione agricola è stata letteralmente distrutta dal cibo importato dall’Europa e Stati Uniti che, quando serve, possono truccare i prezzi grazie ai contributi alle esportazioni messi a disposizione dai rispettivi governi.
Lo affermò anche Bill Clinton, già presidente degli Stati Uniti, dopo il terremoto del 2010. I sostenitori delle politiche di aggiustamento strutturale hanno sempre buttato acqua sul fuoco sostenendo che i contraccolpi provocati dalle maggiori importazioni e dal taglio degli investimenti pubblici sarebbero stati compensati dagli investimenti privati. Ma il neoliberismo, che veniva presentato come il salvatore dell’umanità, in realtà si è rivelato un incubo con effetti sociali drammatici. Nonostante il boom delle estrazioni minerarie avvenuto fra il 2002 e il 2014, metà della popolazione africana vive ancora in povertà, il 35% addirittura in condizione di povertà assoluta, ossia incapace di soddisfare perfino i bisogni fondamentali.
Il Rapporto della Banca Mondiale, Poverty in a rising Africa, mostra che fra il 1990 e il 2012 il numero di africani in povertà estrema è aumentato di 100 milioni fino a raggiungere la cifra odierna di 389 milioni. Per ammissione generale i poveri del mondo saranno sempre più concentrati in Africa. Ciò nonostante vasti tratti di terra arabile rimangano inutilizzati a causa dello scarso impegno pubblico in agricoltura. Ma la soluzione offerta dalle istituzioni finanziarie internazionali è l’apertura agli investimenti da parte delle multinazionali dell’agroindustria.
La Banca Mondiale segnala un interesse crescente per le terre agricole africane da parte delle imprese straniere, soprattutto dopo l’impennata dei prezzi dei cereali avvenuta fra il 2007 e il 2008. Nel 2009 in tutto il mondo sono stati firmati accordi per la concessione di 56 milioni di ettari dei terra, un’enormità rispetto agli anni precedenti quando le richieste difficilmente superavano i 4 milioni all’anno. Il 70% dei contratti firmati riguarda l’Africa dove il latifondo straniero cresce ovunque. Valga come esempio il caso Feronia, un’impresa con base in Canada, ma posseduta da istituzioni finanziarie afferenti a vari governi europei, che nella Repubblica democratica del Congo possiede oltre 100mila ettari di piantagioni di palma da olio. O il caso Agro EcoEnergy, un’impresa svedese che in Tanzania possiede 20mila ettari per la coltivazione di canna da zucchero destinata alla produzione di bioetanolo.
I difensori del latifondo sostengono che gli investimenti stranieri hanno impatti locali positivi come la creazione di posti di lavoro e la costruzione di infrastrutture.Ma la riduzione di terre a disposizione delle popolazioni locali provoca ovunque conflitti e disuguaglianze crescenti. Difficilmente le comunità locali sono consultate prima di procedere alla concessione delle terre, mentre succede spesso che siano espropriate senza indennizzo e deportate con la forza altrove. Etiopia docet. Di sicuro non sarà il land grabbing a salvare l’Africa dalla povertà e dalla fame, ma la direzione indicata dal lavoro svolto da tante Ong che cercano di accrescere la produttività dei piccoli contadini attraverso un paziente lavoro di educazione e di promozione sociale. Del resto i poveri lo sanno: i soli su cui possono contare sono loro stessi, per cui sapere, solidarietà e vincoli comunitari sono le strade per uscire tutti insieme dalla miseria.
Avvenire,
«La Fondazione Migrantes presenta quattro proposte per superare l’attuale crisi del diritto d’asilo in Europa e lancia l'appello per un nuovo Regolamento di Dublino»
Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Ma davvero i quattro verbi-azione promossi da Papa Francesco spingono e guidano le scelte politiche dell’Europa e dell’Italia sul tema delle migrazioni? Se lo chiede la Fondazione Migrantes che a Ferrara ha presentato per il secondo anno consecutivo il suo “Rapporto Asilo 2018” lo studio dedicato al mondo dei richiedenti asilo e rifugiati. L’interrogativo al quale si cerca di rispondere fa da sfondo all’intero studio fatto di cifre, dati ed esperienze. Ma anche di proposte: una "road map" per un'Europa più accogliente.
In Italia, per la prima volta il numero delle domande d’asilo supera il numero degli arrivi
Per la prima volta in Italia, sottolinea il rapporto della Fondazione, nel 2017, le domande d’asilo hanno superato il numero degli arrivi via mare. Un anno fa il contatore degli arrivi nel nostro Paese si è fermato a 119.369 persone, il 34% in meno rispetto alle 181.436 del 2016 (erano state 153.842 nel 2015). Il primo Paese di provenienza si conferma la Nigeria, seguita da Guinea, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea.Secondo dati del ministero dell’Interno, nel 2017 hanno chiesto protezione in Italia circa 130 mila persone. Nel 2016 i richiedenti asilo erano stati 123.600, e 83.970 nel 2015.
Sempre secondo dati del Viminale, nel 2017 sono stati esaminati circa 80 mila richiedenti asilo. È stata accordata protezione a oltre 30 mila di essi.Ma una larga maggioranza, poco sotto il 60%, si sono visti respingere la loro domanda. A fine 2017 erano in accoglienza in Italia 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti.
La rotta del Mediterraneo e il triste record di vittime
Sulle "rotte" precarie e sempre più chiuse del Mediterraneo orientale, centrale e occidentale, nel 2017 hanno raggiunto via mare l'Europa 171.694 migranti e rifugiati. Erano stati 363.504 nel 2016 e ben 1.011.712 nel 2015. Gli arrivi sono aumentati solo nel Mediterraneo occidentale. Sul "pericolo Mare nostrum", Migrantes rileva che nelle acque del Mediterraneo, "la 'frontierà più letale del mondo", il triennio ha registrato un triste record di vittime nel 2016, 5.143, contro le 3.771 del 2015. Nel 2017 il dato è sceso a 3.119; ma rispetto al 2016 è aumentata,sia pure di poco, l'incidenza dei morti sul totale di coloro che si sono imbarcati: oggi perdono la vita nelle acque del Mare Nostrum (stime per difetto) quasi due persone ogni 100 partite, mentre nel 2016 il dato era di poco più di una su 100.
Le proposte
Il rapporto si conclude con quattro proposte inedite per superare l’attuale crisi (un vero e proprio «vicolo cieco») del diritto d’asilo in Europa: se accolte, queste proposte avrebbero positive ricadute sull’intera società del vecchio continente, oltre che, naturalmente, sui percorsi di integrazione degli stessi rifugiati: 1) un nuovo regolamento “di Dublino” finalmente aderente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati; 2) il rifiuto dei concetti di “Paese terzo sicuro” e di “Paese di primo asilo”, ad oggi solo proposti dall’UE ma in insanabile contrasto con la tradizione giuridica europea in materia di asilo; 3) l’introduzione di un regolamento UE che disciplini il “reinsediamento” dei rifugiati da Paesi terzi prevedendo per gli Stati membri obblighi chiari; 4) un’estensione della protezione sussidiaria,ancorandola alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Per un sapere che allontani la paura
Nell’Introduzione al rapporto don Giovanni De Robertis, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, e Mariacristina Molfetta, co-curatrice del Rapporto, si rivolgono ai lettori: «L’augurio è che questo testo possa contribuire a costruire un sapere fondato rispetto a chi è in fuga,a chi arriva nel nostro continente e nel nostro Paese, e che possa esserci d’aiuto a “restare umani”, ad aprire la mente e il cuore allontanando diffidenza e paura».
L'articolo è tratto da "Avvenire" ed è raggiungibile qui
La Stampa, 12 febbraio 2018.Esodo, un libro che non si può non leggere. (i.b.)
Stiamo in guardia! Verità nuove si annunciano in questa parte del mondo corrosa dalla miseria con la lentezza di una malattia. Non facciamo i gradassi con le nostre armate luccicanti e il drenaggio dei migranti «a casa loro». Arrivo in Niger, Paese chiave del passaggio della Migrazione, per raccontare il luogo dove l’Italia sta per mandare 470 soldati. Ho provato, semplicemente, a rovesciare il punto di vista sulla «tragedia statistica» dell’Africa e guardare dal punto di vista degli africani. Op! tutto quello che da noi appare certo, il flusso che si ferma, i governi locali che, era ora! collaborano, il denaro europeo che assicura rimpatri «dignitosi», spariscono. I soldati americani, francesi, italiani così indispensabili alla lotta ai lanzichenecchi islamisti diventano invasori che si ritagliano, arroganti, coloniali fette di sovranità. Tutto è il contrario, dunque, e diventa una grande finzione.
Intanto specchiandosi nella tragedia della migrazione i giovani del Sahel hanno preso coscienza delle loro ingiustizie e non le accettano più. I migranti come miccia, come lievito di rivoluzione, i ragazzi, quando scenderanno in piazza, avranno con sé ogni diritto. Nulla del nostro blaterare sulla sicurezza e le necessità della geopolitica li interesserà, non leggeranno i nostri articoli, non ascolteranno i nostri discorsi di bottegai dell’umanesimo. Le nostre idee, ahimè!, le saluteranno sputandoci sopra.
Discussione di fantasmi
Il dibattito infervorato su come fermare i migranti e rispedirli a casa, visto da questa parte, è una discussione di fantasmi, le ambizioni di bloccare la migrazione, drenandola nel Sahel, sono comiche. Tra qualche mese, forse, saremo qui a raccontare folle in tumulto che danno l’assalto ai Palazzi di cleptocrazie nauseabonde su cui abbiamo puntato carte truccate. Ricordate il 2011? I ragazzi di Tunisi, di Tripoli, di Hama? Una Primavera del Sahel che ci lascerà, un’altra volta, senza parole, umiliati dalla nostra cecità. Gli uomini, i giovani che vivono qui non sono logori, sono sfiniti. Prima di questo viaggio pensavo che il problema fosse che abbiamo cessato di dare. Ai poveri, ai migranti. Torno convinto che non sappiamo più dare. Ed è peggio.
Niamey, la capitale: una distesa di tuguri vivi e decomposti, folle di sciancati, di senzatutto vagabondano come polvere che non vale nulla. Ti immergi dentro, sempre, anche dopo anni di viaggi qui, con occidentale sgomento. In verticale, come una bestemmia, si alzano i palazzi lussuosi di innumerevoli banche e delle sedi del governo. I binari di una ferrovia nuova di zecca, costata miliardi di franchi Cfa, fanno da spartitraffico. Nel viaggio di prova il treno si è rovesciato. Hanno riprovato: un altro disastro. L’hanno costruita male. Mi sussurrano un nome potente in Africa e non solo: «Bolloré», come se fosse una formula di cattivo augurio.
A un semaforo un mendicante cieco guidato da un ragazzo, pacato, mi incalza con i suoi occhi opachi: dammi qualcosa «Non ho monete locali, solo centesimi di euro: valgono troppo poco nessuna banca te li cambierebbe». «Dammeli, dammeli, c’è Cobrà che li cambia». Si perché per Cobrà , il serpente, nulla è troppo piccolo. Cambia, guadagnandoci la metà, a medicanti e facchini degli alberghi i centesimi occidentali, fa mucchio e poi va in banca dove lo accolgono come un finanziere. La infinita ingegnosità della miseria. La piazza delle manifestazioni: è un «tabà», un luogo in cui i giovani si incontrano, tessono sogni, discutono. Un ragazzo mi mostra i grandi ritratti dipinti sui muri dei presidenti dei cinque Paesi del Sahel. Sono riuniti a Niamey per «rendere sicura la regione». Sembrano già identikit di ricercati su cui si sfogherà la rabbia della gente. Un ragazzo mi dice: la sicurezza è un bel concetto. Importante. ma se non hai da mangiare che ti importa della sicurezza?».
I 43 ministri
Il governo, che non ha più soldi nemmeno per gli stipendi, ha imposto tasse ai più poveri del mondo: lo Stato è povero, pagate voi! Ci sono quarantatré ministri in Niger. Ognuno di loro ripaga armate di parenti e portaborse con incarichi, missioni, commende. Attingendo ai fondi dello Stato, ai contratti con l’estero, ai soldi dati per fermare i migranti. Non lo sapete? Suvvia.
Prestiamo attenzione ai rumori sempre più forti. A Niamey si scende in piazza da settimane, il potere risponde con arresti di leader e giornalisti che raccontano. In Ciad ci sono già i primi morti. Ho incontrato gente diversa, non è più rassegnata, non ha più quella apparenza di colpevoli che hanno le vittime. I presidenti-padroni, i nostri soci, indifferenti, vengono in Europa a raccogliere sorrisi riconoscenti. È gente che non ha nulla da proporre ai propri popoli, vuol solo rubare, il male eterno dell’Africa che traffica con noi, complici consapevoli.
Intanto su, ad Agadez e nelle città del deserto, migliaia di migranti sopravvivono, attendono che torni il tempo buono del viaggio, i passeur lucidano i veicoli e predispongono nuove piste sicure da percorrere con i gps, lanciati a cento all’ora verso la Libia. Aggireranno i controlli: di gendarmi che hanno bisogno delle loro mance per sostituire stipendi da fame e in continuo ritardo.
È chiaro che noi occidentali siamo qui a combattere per i nostri soli interessi. Questa parte del mondo perde le proprie povere viscere. Bisognerebbe ricucire, e presto: non c’è un secondo da perdere. Costoro sono condannati. Ma noi spediamo inutili soldati e paghiamo i grandi ladri vestiti di eleganti boubou.
Saliamo ad Agadez, per l’ennesima volta: con fatica, senza speranze, sapendo che Agadez è una ricapitolazione di quanto accadrà ed è accaduto.
Ah, il vecchio aereo dei palestinesi! È sempre lì, il vecchio Fokker ad elica con la sua scomodità e la sua austerità, simbolo appropriato della preparazione alle dure gioie del raccontare luoghi come questi. Tutto vi assume una sobrietà accogliente mentre sorvola il Sahel. Il grande bricco con cui servono il tè, i racconti dell’equipaggio: vengono da Gaza e da Hebron.
Una volta Agadez mi piaceva: le fragili, eterne architetture di sabbia che annunciano il deserto, c’era un calore di partenza, di viaggio e di orizzonte libero. Adesso ci vedo solo una città di miseria e di agonia; è rimasta la luce che regna indisturbata. Il resto è solo povertà, stratificata, dura come una crosta che copre uomini e cose. Il miracolo degli alberi è macchiato da sudice sagome che ondeggiano al vento. Credevo fossero grossi corvi appollaiati. Invece sono lembi di sacchetti di plastica neri.
Un uomo con una ascia preistorica fa a pezzi un tronco abbattuto: altri secoli di vita miracolosa che andranno in cenere. Tra gonfi mucchi di immondizia e rigagnoli puzzolenti tre vecchi dalla barba bianca: immobili. Nulla si muove. Nulla è urgente. Tutto è crudele.
Agadez viveva di turismo: è finito nel 2006 con la rivolta dei tuareg. Poi è venuto l’oro, scoperto nelle montagne intorno. Il governo ha vietato ai cercatori privati di avvicinarsi e vende le concessioni alle grandi compagnie straniere. Le imprese dell’uranio hanno appena licenziato 700 persone. Erano rimasti i migranti, l’oro nero come li chiamavano: trecentomila almeno nel 2016. A luglio, dopo gli accordi con l’Europa, è diventata un’attività illegale e si è pressoché fermata. Si calcola che Agadez abbia perso 65 milioni di euro. Ecco. Non è rimasto niente. Attorno alla città, sulle montagne, si moltiplicano i gruppi armati. Non sono jihadisti, ma banditi che assalgono viaggiatori e camion. Diventeranno, al momento giusto, reclute della guerra santa.
Nascosto nel turbante
Le delegazioni europee che vengono qui, giulive, per controllare come funziona bene il controllo, dovrebbero farsi accompagnare nel quartiere di Obitara. Dove ci sono i «ghetti», li chiamano così. Durante la stagione delle piogge diventa palude, non c’è la corrente elettrica e nemmeno l’acqua. In grandi cortili circondati da muri di fango secco tengono i migranti. Scoprirebbero che ce ne sono almeno quaranta di questi luoghi infernali, e zeppi di gente. I passeur si fanno dare i soldi dalle famiglie, le ragazze quasi tutte nigeriane si prostituiscono per pagare.
Ci vado di notte, mi nascondo dietro un turbante da tuareg. Una discesa tra le ombre da cui spiritualmente non si torna più indietro come chi scendeva nell’Ade. Attraverso la città senza illuminazione in moto. Piccoli fuochi accendono il buio, bruciano le immondizie. Le luci dei telefonini illuminano i volti di ragazzi riuniti, a mazzi, agli angoli delle strade. Dopo il tramonto Agadez diventa un villaggio, solo le voci dei cani nella notte chiara. Nei cortili dei ghetti mi muovo inciampando. Puzza di escrementi, di cibo guasto, di umori umani. Aleggia dalle stanze un rumore indefinito fatto di rauchi ronfi, di gemiti oscuri, del raschiare di latta, quasi un battere arterioso. Entro e cala il silenzio. Volti duri, assonnati, reclinati cui il buio conferisce un’aria spettrale. Tacciono enigmaticamente. Ho paura di vedere questi visi serrarsi, facendosi lisci come muri. Questa è la gente che abbiamo fatto sparire ma senza annullarla, come il prestigiatore con una carta del mazzo: è lì, attende, ci inchioda alle nostre responsabilità.
Sidi il passeur ha deciso: «Giovedì ricomincio, vado a Dirkou, a nord ci sono migliaia di migranti in attesa, riallaccio i miei contatti, in Libia, in Senegal, in Gambia. Non posso più aspettare. Si riparte». Aveva smesso quando hanno arrestato i primi passeur e sequestrato i veicoli. Mi fa vedere il formulario con cui aveva chiesto i fondi di riconversione promessi dalla Unione europea: 2000 euro per avviare un commercio, un’attività agricola, allevare bestiame. Lui ne guadagnava con i migranti settemila la settimana. Alla voce professione è scritto: passeur di migranti. Hanno fatto la domanda in mille. Non è arrivato finora un centesimo. E i soldi? Si sono fermati a Niamey. Forse sono serviti a pagare gli stipendi arretrati ai funzionari. «Anche i poliziotti hanno bisogno di soldi, li pago perché mi avvertano quando è prevista una retata, così nascondo i miei migranti e tutto fila liscio. Ma con i viaggi il denaro tornerà a girare. I soldati francesi a Madamà, il posto di frontiera sul confine libico? Ci sono passato decine di volte, avevo i pick up carichi, mi guardavano e non dicevano niente… Forse eran lì per altro. Adesso ci vanno gli italiani? Tutto è cambiato? Fratello, voi buttate via soldi, dammi retta. Chi ci passa più a Madamà? C’è una pista magnifica tra due montagne che aggira la città, i libici aspettano lì adesso. I prezzi con tutto questo bordello sono alle stelle, si guadagnerà bene».
Ieri notte ad Agadez c’è stata una retata, hanno catturato molti migranti. Il guineiano è contento perché adesso avrà molto lavoro, guadagnerà bene. Era un migrante. Ha due volte attraversato l’oceano in piroga dalla Mauritania alla Spagna. Un sopravvissuto. Adesso lavora all’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni che ha un campo ad Agadez. Non nel senso che ne è un dipendente: nel senso che la utilizza. Compra dai migranti in attesa di rimpatrio molte cose. «Sapete, hanno con sé cose interessanti da comprare a poco prezzo, incredibile dopo il viaggio che hanno fatto fino qui: orologi telefonini. Guarda questi sandali, belli no? Cuoio magnifico, li ho comprati da un migrante. Hanno bisogno di soldi per ritentare, hanno fatto debiti per partire che dovrebbero pagare se tornano a casa. Non lo sapete? Possono farlo solo se arrivano in Europa, da voi, a costo di crepare. Io li faccio uscire dal campo, diciamo che dentro ho dei contatti, le famiglie mi mandano i soldi. Escono, si nascondono, possono ritentare».
Riparto. L’aereo palestinese è in ritardo, cinque ore. Un soldato nigerino, l’elmetto in testa mitra scarponi da deserto, tutto nuovo, corre a perdifiato verso la pista lanciando urla terribili. Un gruppo di caprette ha adocchiato una lisca di erba vicino alla pista. Ridiventato pastore il soldato le fa fuggire. Sta atterrando un nero, lucente trasporto americano.
Americani in assetto da guerra si dispongono a raggiera, i fucili puntati in tutte le direzioni. Un grande bulldozer infila i denti di ferro nella pancia dell’aereo ed estrae una piccola cassa di legno. Caricano la cassa su un camion aperto che potrebbe portare un carro armato. Si forma un convoglio di autoblinde che sfuma nella calura del deserto verso la base. L’aereo che non ha nemmeno spento i motori riparte nella luce… lente, immense nubi di polvere scivolano sulla città.
Tratto da Informazione Corretta che l'ha a sua volta ripreso dalla Stampa del 12/02/2018, pag.1-3.
Nigrizia, 9 febbratio 2018. Un chiaro messaggio di 20 associazioni del mondo cattolico ai partiti che si presentano alle elezioni del 4 marzo. Non sarà difficile rispondere: difficile sarà mantenere le promesse
Gli enti cattolici impegnati a vario titolo nell’ambito delle migrazioni sentono la necessità di aprire uno spazio di confronto in cui dare voce alle esigenze di convivenza civile e di giustizia sociale che individuano come prioritarie, per il bene di tanti uomini e donne di cui si impegnano a promuovere i diritti e la dignità.
Nell’orizzonte di un welfare che metta sempre più al centro una visione di comunità civile inclusiva e solidale, le migrazioni pongono questioni cruciali e non rimandabili e che riguardano tutti indipendentemente dalla provenienza.
I diversi schieramenti politici che si presentano al prossimo appuntamento elettorale sono chiamati ad esprimersi su come intendono affrontare tali questioni. La crisi dei migranti che attraversa oggi l’Europa mette chiaramente in luce una crisi profonda dei valori comuni su cui l’Unione si dice fondata.
La questione delle migrazioni sembra essere diventata un banco di prova importante delle politiche europee e nazionali. In tale contesto il fenomeno migratorio è cruciale per il futuro dell’Italia e occupa spazi sempre più rilevanti all’interno del dibattito pubblico e, lo sarà ancor di più in vista delle prossime scadenze elettorali. Per questo, riteniamo fondamentale creare occasioni di confronto schiette e costruttive, grazie alle quali gli schieramenti politici che si candidano a governare il Paese possano prendere impegni chiari e precisi nei confronti dell’opinione pubblica.
In quest’ottica, il presupposto è quello di uscire dalla logica emergenziale per ripensare il fenomeno migratorio con progettualità. In questo quadro abbiamo comunque la certezza che nel Paese, quando si parla di immigrazione, esista un ampio bisogno di riflessione, azione e cambiamento che anima tanti cittadini. La campagna Ero straniero - L’umanità che fa bene, lanciata in aprile per cambiare la legge Bossi-Fini e conclusasi a ottobre con oltre 90 mila firme raccolte, lo ha confermato: esiste una forte domanda di informazione, di senso e di risposte concrete. A formularla è un numero crescente di cittadini che ha capito quanto sia cruciale per tutti affrontare il tema in maniera diversa.
Sulla base delle nostre esperienze sul campo, ispirandoci ai costanti appelli di Papa Francesco ad Accogliere, Proteggere, Promuovere, Integrare i migranti e i rifugiati, e richiamando i 20 punti proposti dal Dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale del Vaticano per la stesura del Global Compact - l’accordo sui migranti e sui rifugiati che verrà adottato dalle Nazioni Unite nel 2018 -, abbiamo elaborato sette proposte per altrettanti ambiti nei quali è cruciale intervenire al più presto. Sono sette sfide che, citando proprio questo importante documento, vanno affrontate non solo per contribuire alla “protezione della dignità, dei diritti, e della libertà di tutti i soggetti di mobilità umana”, ma anche per “costruire una casa comune, inclusiva e sostenibile per tutti”.
Agenda sulle migrazioni, 7 punti specifici:
1.Riforma della legge sulla cittadinanzaDa troppi anni il nostro Paese non adegua la sua legislazione sull’acquisizione della cittadinanza al mutato contesto sociale e troppi cittadini di fatto non sono riconosciuti tali dall’ordinamento. Varare un provvedimento che sani queste contraddizioni non è più rimandabile.
2. Nuove modalità di ingresso in ItaliaServe un nuovo quadro giuridico per accogliere quanti arrivano nel nostro Paese senza costringerli a chiedere asilo. A fronte di flussi migratori che gli esperti definiscono sempre più come misti, creare una divisione politica tra richiedenti asilo e “migranti economici” è difficile, anacronistico e inefficace. Bisogna andare oltre. Chiediamo una rapida riattivazione dei canali ordinari di ingresso che ormai da anni sono pressoché completamente chiusi, con l’inevitabile conseguenza di favorire gli ingressi e la permanenza irregolari. Per entrare in Italia secondo la legge servono modalità più flessibili e decisamente più efficienti, a cominciare da un immediato ritorno del decreto flussi, per arrivare fino a proposte più ampie e organiche di modifica del testo unico sull’immigrazione: permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione, attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari e reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta).
3. Regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”Gli stranieri irregolari, seguendo i modelli di Spagna e Germania, dovrebbero avere la possibilità di essere regolarizzati su base individuale, qualora dimostrino di avere un lavoro, di avere legami familiari comprovati oppure di non avere più relazioni col paese d’origine. Si tratterebbe di un permesso di soggiorno per comprovata integrazione, rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso attesa occupazione”. Infine, il permesso di soggiorno per richiesta asilo si potrebbe trasformare in permesso di soggiorno per comprovata integrazione anche nel caso del richiedente asilo diniegato in via definitiva che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.
4.Abrogazione del reato di clandestinità
Il reato di immigrazione clandestina, che è ingiusto, inefficace e controproducente, è ancora in vigore: va cancellato al più presto, abrogando l’articolo 10-bis del decreto legislativo 26 luglio 1998, n. 286.
5. Ampliamento della rete SPRARLo squilibrio a favore dei Cas, i Centri di Accoglienza Straordinaria, è ancora troppo forte e a risentirne è la qualità dell’accoglienza. L’obiettivo deve essere riunificare nello SPRAR l’intero sistema, che deve tornare sotto un effettivo controllo pubblico, che deve prevedere l’inserimento dell’accoglienza tra le ordinarie funzioni amministrative degli enti locali e che deve aumentare in maniera sostanziale e rapida il numero di posti totali.
6. Valorizzazione e diffusione delle buone praticheSiamo ormai da tempo sommersi da casi di cattiva accoglienza. Esistono, sono purtroppo numerosi e non bisogna mai smettere di denunciarli con forza e rapidità, senza il minimo timore. C’è però anche un’altra faccia dell’accoglienza dei migranti, meno esposta e ben più positiva. Va raccontata il più possibile, proprio attraverso un osservatorio capace di individuare e diffondere le buone pratiche, affinché vengano il più possibile replicate.
7. Effettiva partecipazione alla vita democraticaSi prevede l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Acli, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS Onlus),Associazione Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica, Centro Astalli, Centro Missionario Francescano Onlus (Ordine dei Frati Minori Conventuali), CNCA, Missionari Comboniani, Comunità Sant'Egidio, Conferenza Istituti Missionari Italiani, Federazione Salesiani per il Sociale, Fondazione Casa della carità, Fondazione Somaschi, GiOC - Gioventù Operaia Cristiana, Istituto Sturzo, Movimento dei Focolari Italia, Paxchristi, Vides Italia.
Il testo è ripreso dalla rivista online Nigrizia, ed è raggiungibile su questa pagina
Internazionale
Addis Abeba, Etiopia, dicembre 2013. È mezzanotte passata. L’aereo in arrivo dall’Arabia Saudita trasporta alcuni lavoratori che sono stati espulsi in fretta e furia. Erano partiti dall’Etiopia per svolgere lavori di ogni tipo in questa monarchia resa ricchissima dal petrolio. I lavoratori migranti etiopi scendono dall’aereo. Hanno dei sacchetti di plastica con dentro i loro oggetti. Non sembra che il duro lavoro in Arabia Saudita li abbia arricchiti. Alcuni sono scalzi. L’aria è rigida. Devono avere freddo con le loro camicie e i loro pantaloni, con i piedi nudi sulla dura terra.
Qual era stato il motivo della loro espulsione? Le autorità saudite avevano dichiarato che si trattava di migranti entrati nel paese senza documenti. Avevano attraversato il pericoloso golfo di Aden su imbarcazioni di fortuna. L’Arabia Saudita accoglie questi migranti, anche quelli senza documenti, soprattutto perché offrono il loro lavoro a prezzi molto bassi, e in condizioni molto dure. A intervalli regolari, il governo di Riyadh se la prende con questi lavoratori irregolari arrestandoli in pubblico, rinchiudendoli in campi d’espulsione e poi rispedendoli nel paese d’origine.
Tra il giugno e il dicembre 2017 le autorità saudite hanno detenuto 250mila cittadini stranieri e rispedito a casa 96mila etiopi. Quando il governo saudita vuole essere particolarmente crudele, trasporta gli etiopi sul confine tra l’Arabia Saudita e lo Yemen e li lascia dalla parte yemenita. Lo Yemen, che è ancora bersagliato quasi quotidianamente dai bombardamenti sauditi, non è il luogo migliore per accogliere degli etiopi disperati.
Le autorità che permettono a migranti senza documenti di entrare nel paese per poi umiliarli con questo genere di pubbliche espulsioni, di fatto ricattano i lavoratori consentendo ai trafficanti di esseri umani e ai datori di lavoro di mantenere i salari ai livelli più bassi possibile. Non c’è nessuno con cui lamentarsi.
Gli etiopi continuano ad andare in Arabia Saudita a causa della grave crisi del loro paese. Tra i sei e i nove milioni di etiopi hanno avuto bisogno di aiuti alimentari di qualche tipo nel 2017, visto che gravi siccità e povertà hanno contribuito a creare una situazione di quasi carestia. Nell’Etiopia sudorientale, da dove provengono molti dei migranti, la siccità ha decimato le mandrie di bestiame e ridotto la produzione agricola. Si tratta della stessa area nella quale l’Etiopia accoglie 894mila profughi provenienti da Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan. Questi rifugiati arrivano qui spinti dalla fame e dalle guerre. Solo nel 2017 sono arrivati in Etiopia 106mila profughi, la maggior parte dal Sud Sudan (sono 420mila i cittadini di questo paese oggi in Etiopia). Un paese che accoglie quasi un milione di profughi, a sua volta in grave crisi, ne spedisce forse un milione nella penisola araba (nella sola Arabia Saudita sono mezzo milione). Questo movimento circolare di profughi è uno degli elementi che definisce oggi il nostro pianeta.
Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine delle persone scalze. I lavoratori etiopi affermano di essere quotidianamente maltrattati in Arabia Saudita, che si tratti di violenza sessuale sulle donne che lavorano come domestiche, di violenze fisiche su ogni tipo di lavoratori e di molestie della polizia. La cosa è diventata normale. È così che vivono ormai.
La dura realtà
All’inizio dell’anno sono andato a Dhaka, in Bangladesh, e ho visitato la Drik Gallery III, dove ho potuto vedere la mostra fotografica di Shahidul Alam dedicata ai migranti che dal Bangladesh raggiungono la Malesia. Le foto mostrano la speranza negli occhi dei migranti e il grande senso di delusione quando la vita si rivela, per molti di loro, diversa da quella che gli era stata promessa. Le fotografie di Alam sono scintillanti e la sua personale compassione fa emergere i sentimenti con grande sincerità dagli uomini e dalle donne che fotografa.
Alam mi ha dato il suo libro, The best years of my life (I migliori anni della mia vita), che raccoglie le foto che ho visto nella galleria, accompagnate da un suo testo commovente. Il libro racconta il viaggio di migranti del Bangladesh che, alla ricerca di un sogno, raggiungono i campi e le fabbriche della Malesia, dove lavorano per salari bassi e sono ingannati dai trafficanti, dai funzionari e dagli altri migranti. La speranza di guadagnare abbastanza da aiutare le loro famiglie rimaste a casa spinge i migranti a sacrifici indescrivibili. Sahanaz Parben ha un figlio di undici anni che la chiama zia: a malapena la conosce. I figli di Babu Biswas lo hanno visto, brevemente, tre volte in dieci anni. “Stanno bene”, dice l’uomo.
Lo status legale di questi migranti è spesso poco chiaro. Ed è proprio il loro fragile status che li obbliga ad accettare paghe misere. Ma il denaro dei migranti “illegali” non è illegale. In Bangladesh è il benvenuto. Sono circa nove milioni (secondo la Banca mondiale) gli emigrati del Bangladesh che spediscono a casa 15 miliardi di dollari. Su una media di cinque anni, si tratta del 10 per cento del prodotto interno lordo (pil) del Bangladesh.
Non è una percentuale alta come quella della Liberia, dove circa un quarto del pil proviene dalle rimesse dei lavoratori migranti. Queste economie crollerebbero senza le piccole somme di denaro che milioni di lavoratori spediscono e che costituiscono buona parte della valuta estera che arriva in questi paesi.
Vale la pena notare che gli investimenti esteri (ide) che arrivano in Bangladesh rappresentano appena lo 0,9 per cento del suo pil. Le rimesse dei lavoratori hanno un peso decisamente più importante sull’economia rispetto agli ide provenienti da banche e aziende straniere. Eppure, come rileva Alam, il governo del Bangladesh tratta con disprezzo i migranti.
L’alto commissario Mohammed Hafiz sembra una persona abbastanza per bene. Ma ha sostanzialmente rinunciato a fare il suo dovere. “Che posso fare?”, dice. Hanno ragione gli attivisti. Parimala Narayanasamy, del Coordinamento d’azione e ricerca sugli aiuti e la mobilità (Caram), spiega ad Alam che “i governi dei paesi di provenienza dovrebbero dire pubblicamente e chiaramente che se ci sono paesi che hanno bisogno di lavoratori, sono i paesi d’origine dei lavoratori stessi a dover fissare termini e condizioni”. Ma è esattamente quello che non viene fatto, né da parte del governo del Bangladesh né da parte dell’Etiopia, i quali invece trattano i banchieri e i dirigenti d’azienda stranieri come eroi, e da criminali i loro concittadini che spediscono quantità di denaro molto più consistenti.
All’aeroporto internazionale Shahjalal di Dhaka, ricarico il mio telefono. Due uomini vengono da me e mi chiedono di usare il mio caricatore. Sono diretti nel golfo Arabo. Non ho il caricatore giusto per il loro telefono. Una donna viene da me, mi porge la sua carta d’imbarco e mi chiede a che ora è previsto il suo volo per Abu Dhabi. Al suo arrivo l’accoglierà il suo datore di lavoro. Cerca il biglietto nella sua borsa, dove sono contenuti pochissimi oggetti. Uno dei due uomini le chiede se ha un caricatore. Lei non ce l’ha. Si sorridono a vicenda. Hanno moltissimo un comune. Troveranno un modo di aiutarsi a vicenda. È così che fanno questi lavoratori. Si aiutano a vicenda e aiutano le loro famiglie. E tutti li considerano una seccatura.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Abbiamo ripreso questo articolo dall', che l'ha a sua volta preso e tradotto da Alternet.
Internazionale
Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.
Il grande cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia. La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.
Con le prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.
Pericolo
Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.
A quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.
Il rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La stessa accusa era stata rivolta alle organizzazioni non governative (ong) che fanno operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel 2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in transito che dormono per strada.
Nonostante tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione, una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières, “sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi, giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno. “Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.
Molti volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.
Dal Mediterraneo alle Alpi
I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti. Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos Méditerranée e Msf che lo ha soccorso al largo della Libia e su cui ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in Europa.
“Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada, quindi ha deciso di attraversare la frontiera.
Alcuni amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.
A partire dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve: “Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li aspetta la gendarmeria francese”.
I respinti
La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri – Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.
Il pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del giorno e della notte.
“Negli ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.
La diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa: un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona che passava in macchina”, racconta Rozzi.
La traversata
Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e di bottigliette d’acqua.
Poi fa colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione: prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita. Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.
Soffia un vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista che svolta a sinistra.
C’è un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno detto quelli del Soccorso alpino.
Quando mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi. Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi, manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée. Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.
Appena il tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le 14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve. I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare. Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono. Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore dopo, per riprendere la strada verso Névache.
Briançon come Lampedusa
Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache, trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia caserma abbandonata del soccorso alpino.
C’è un metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista, intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”, ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono riportati alcuni articoli della costituzione francese.
la Stampa
È spuntato fuori alla fine l’europeismo di Emmanuel Macron: tanto atteso, così sperato. Basta con i piccoli e furbi colpi mediatici e le iniziative personali, dove giocava tutto sul rapporto personale con il Putin o il Trump di turno. No, ieri il presidente francese ha convocato e gestito, con un piglio rassicurante, un minivertice europeo sul problema dell’immigrazione, sotto lo sguardo compiacente di Angela Merkel. Ed è riuscito a imporre una delle sue idee, la creazione di hotspot, centri di accoglienza in Ciad e nel Niger, due Paesi africani sulla rotta dei migranti, così da distinguere prima di un viaggio disumano attraverso il deserto fra i rifugiati in fuga dalla guerra (che possono essere accolti in Europa) e gli immigrati economici. Che, invece, diventeranno clandestini e basta.
All’Eliseo, intorno a Macron, si sono riuniti, oltre alla Merkel, il premier spagnolo Mariano Rajoy e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni (e Macron, in conferenza stampa, si è rivolto a più riprese a lui con un sorriso, ricordando anche l’accordo per uno sviluppo economico concluso dall’Italia con 14 Comuni libici, sulla strada dei migranti, come esempio di questa nuova cooperazione alla sorgente del problema). E poi, oltre alla rappresentante della Ue per gli Affari esteri Federica Mogherini, erano presenti alcuni dei protagonisti di questa nuova politica (costruttiva) anti-migranti: il presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli Fayez al-Sarraj e i presidenti di Ciad e Niger, rispettivamente Idriss Deby e Mahamadou Issoufou. Lo statista del Niger ha ricordato come da lui alcuni «hotspot», sotto l’egida dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), esistano già.
Ecco, Macron ha annunciato un accordo tra tutti i partecipanti per l’apertura di più centri fra Niger e Ciad «in zone sicure e ancora sotto la supervisione dell’Unhcr». Sarà l’Alto commissariato a valutare chi potrà continuare. Ha aggiunto che ci sarà anche «un’azione in loco in materia di cooperazione e di giustizia» e «talvolta pure una presenza militare per evitare il gonfiarsi dei flussi verso la Libia». Già nelle settimane scorse il presidente francese aveva messo sul tavolo questa possibilità con l’idea di realizzarla anche in Libia. In seguito, però, Macron aveva accantonato quest’ultima possibilità, per questioni di sicurezza, anche Ciad e Niger avevano nicchiato e non poco. Ieri è riuscito a far passare la pillola, quando insieme alla Merkel e agli altri partner ha promesso un potenziamento della cooperazione allo sviluppo nei due Paesi. Già nelle prossime settimane si inizierà a lavorare concretamente sulle proposte di Parigi, con una task force ad hoc. Si farà un primo punto su quanto realizzato in un vertice in Spagna a fine ottobre nello stesso formato di quello di ieri.
La cancelliera, nella conferenza stampa finale, ha ricordato come sia «indispensabile la distinzione fra chi può accedere allo status di rifugiato e i migranti economici». Sono stati proprio i tedeschi a insistere affinché il seguente passaggio fosse inserito nella dichiarazione finale: «I migranti illegali, che non possono pretendere alcuna forma di protezione internazionale, devono essere ricondotti nei loro Paesi d’origine, nella sicurezza, l’ordine e la dignità, di preferenza su base volontaria». Le elezioni presidenziali si avvicinano in Germania. E per la Merkel era importante mostrare un certo «pugno duro», accanto a un Macron consenziente. È stata comunque la cancelliera a mettere il dito su una piaga, assente dalle discussioni ieri a Parigi: il «sistema Dublino», per cui la domanda d’asilo deve essere presentata nel primo Paese europeo d’arrivo (penalizza Stati come l’Italia, in prima linea). «Questo sistema non funziona, perché in Europa non c’è una reale solidarietà, dobbiamo trovare un’altra soluzione», ha detto la Merkel. Macron sorrideva, senza commentare. La Francia è uno dei maggiori oppositori a rimetterci mano.
Avvenire,o, in cambio di un po' di petrolio
«Il piano dell'Italia, svelato dall'agenzia Reuters: 44 milioni per affidare il centro di coordinamento e soccorso a Tripoli. Summit di Bruxelles, Gentiloni: riforma Dublino ancora lontana»
Avanti tutta per fermare i flussi del Mediterraneo. Malgrado le critiche e le denunce, con tanto di filmati, di Amnesty e di diverse Ong sui salvataggi della guardia costiera libica, Roma ha deciso di affidare a Tripoli il coordinamento dei soccorsi in mare. Il piano, secondo quanto rivela l’agenzia Reuters, prevede entro tre anni di affidare alla Guardia costiera libica la responsabilità di intercettare e soccorrere i migranti in un braccio di mare che comprende circa il 10% del Mediterraneo. L’Italia destinerà circa 44 milioni di euro per espandere la capacità libica, equipaggiando la guardia costiera e consentendole di creare in proprio un centro di coordinamento dei salvataggi e una vasta zona marittima di Search and rescue (ricerca e soccorso, ndr.)
A sei anni dalla caduta di Muammar Gheddafi e con oltre 600mila personeche hanno attraversato il Mediterraneo negli ultimi quattro anni, la Libia continua ad essere divisa tra due governi rivali e con territori (incluse spiagge e porti) in mano a gruppi armati. L’intento dell’Italia e dell’Europa è quello di fermare le imbarcazioni dei migranti. Ma le Ong puntano il dito sulla modalità. Le forze libiche, sostengono le organizzazioni non governative, non sono in grado di gestire in sicurezza i salvataggi e citano, al riguardo, quanto avvenuto a inizio novembre con la morte di una cinquantina di migranti, annegati durante un’operazione di soccorso.
Ad oggi, l’Italia ha fornito alla Libia quattro motovedette e addestrato circa 250 uomini. Anche se in mare, sostengono le Ong, sono oltre 2mila gli uomini chiamati a intercettare e a soccorrere le imbarcazioni dei migranti che prendono il largo dalle coste libiche.
Intanto la strategia italiana, in linea con le grandi priorità della cosiddetta "dimensione esterna" della politica migratoria (quella cioè al di fuori dei confini europei) va avanti con il totale appoggio e sostegno dell’Ue. Lo ha confermato anche ieri il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, al termine del summit di Bruxelles. «L’iniziativa italiana di quest’anno è stata apprezzata in modo molto rilevante, ed è importante che lo sia dai leader dei Governi dei più diversi orientamenti e famiglie politiche, c’è un riconoscimento unanime dei passi fatti per la lotta contro i trafficanti di esseri umani».
Ma se da una parte ci sono le imbarcazioni in mare da fermare, dall’altra si guarda anche ai campi di detenzione in Libia. Quei centri di dolore e sofferenza per migliaia di persone intrappolate, finite nell’inferno libico dopo essere fuggite dal proprio paese in cerca di una vita migliore. Centri che tutti vogliono "svuotare". Anche Bruxelles. I numeri dei rimpatri volontari assistiti di migranti dalla Libia sono «oltre dieci volte quelli dell’anno scorso», ha confermato Gentiloni. «Proseguendo questa azione – ha aggiunto – nel corso di alcuni mesi i campi gestiti ufficialmente inLibia potranno essere quasi completamente svuotati».
Rimangono però le criticità sul ricollocamento dei migranti da Italia e Grecia e il Regolamento di Dublino. Lo scoglio, cioè sulla cosiddetta "dimensione interna", nei confini dei Paesi europei. Il nodo resta sempre quello del blocco dei Paesi Visegrad (Polonia-Repubblica Ceca-Slovacchia-Ungheria). «Su questo – ammette Gentiloni – non siamo riusciti a superare le resistenze che restano dei Paesi che rifiutano la decisione di obbligatorietà delle quote». Sulla redistribuzione dei migranti, insomma, le distanze restano. «Non siamo a un’intesa e neppure alla vigilia di un’intesa sulla riforma del regolamento di Dublino» ha concluso il premier italiano. La strada da percorrere resta ancora lunga.
Nigrizia,The Guardian e Huffington raccontano del mercato degli organi umani, resi disponibili da chi non può chiedere un prezzo: li offrono gratis i poveracci, compresi i fuggitivi in cerca di rifugio
Vai all'articolo di Nigrizia, raggiungibile da qui
il manifesto, la Stampa
L’attenzione sui rapporti perversi tra l’Italia di Minniti, Gentiloni (e Mattarella) e la Libia dei torturatori, stupratori, assassini è un dato costante della stampa italiana di questi giorni. Così,
il manifesto (il più sensibile, nella stampa “laica” al tema dei migranti e della loro sorte) segnala un’accentuazione dei rapporti criminogeni tra Roma e l’ex colonia degli anni di Giolitti e quelli di Mussolini.
Adriana Pollice racconta su l’odissea della nave Acquarius della Ong Sos Mediterranèe: «I volontari dell’Aquarius, all’arrivo in porto, hanno messo sotto accusa l’Italia e il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma per come sono state gestite le operazioni in mare. Venerdì all’alba l’Aquarius ha individuato un primo gommone in pericolo in acque internazionali, a 25 miglia dalla costa, a est di Tripoli, e poi un secondo gommone ma ha ricevuto l’ordine da Roma di restare in stand-by, il coordinamento delle operazioni era stato assunto dalla marina libica. «La nostra proposta di assistenza è stata declinata dalla Guardia costiera libica – ha spiegato Nicola Stalla, coordinatore dei soccorsi di Sos Méditerranée -. Durante le quattro ore di stand-by le condizioni meteo sono peggiorate, il gommone poteva rompersi e affondare da un momento all’altro». Sophie Beau, vicepresidente dell’Ong, spiega: «I nostri team sono stati costretti a osservare impotenti operazioni che conducono a rimandare indietro persone che fuggono da campi che i sopravvissuti descrivono come un inferno. Non possiamo accettare di vedere esseri umani morire in mare né di vederli ripartire verso la Libia quando la loro imbarcazione è intercettata dalla Guardia costiera libica».
Il 29 novembre se ne discuterà nel vertice tra Unione europea e Unione africana che si apre a Abidjan, Ne riferiremo i prossimi giorni.
Apocalisse umanitaria
Sempre su il manifesto Nina Valoti ricorda la dimensione del problema «Nel mondo ci sono 65,6 milioni di profughi in fuga da guerre, violenza, soprusi, povertà. Vent’anni fa erano quasi la metà: 33,9 milioni. Ma paradossalmente aumentano le spese in sicurezza per le frontiere: ben 16 miliardi e 700 milioni con un trend di crescita annua stimato nell’8 per cento». Non si tratta di invenzioni giornalistiche: sono dati contenuti nel quindicesimo rapporto “Diritti globali” che spiegano benissimo il titolo scelto quest’anno: «Apocalisse umanitaria».
«Se da anni il dramma globale dei migranti ha infatti come epicentro il Mediterraneo, quest’anno sono state le politiche e gli accordi del nostro governo con la Libia a creare un elemento nuovo e ancor più preoccupante: la criminalizzazione delle organizzazioni non governative e la quasi totale negazione dell’asilo politico, definito giustamente «chimera»: solo il 5 per cento delle domande del 2016 sono state accolte a pieno titolo in Italia.
«Una apocalisse umanitaria incombente anche perché le guerre sono proliferate – spiega Sergio Segio ideatore e curatore del volume con la sua associazione SocietàINformazione – e hanno due caratteristiche inedite: la percentuale delle vittime civili aumenta sempre più fino a toccare il 95 per cento, mentre nella seconda guerra mondiale era del 50 per cento, e i conflitti tendono a non chiudersi mai come dimostrano i casi della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan per non parlare di Libia e Somalia».
Un quadro che rende ancora più urgente «costruire un mutamento di paradigma che deve partire dal sistema di sviluppo coinvolgendo però il maggior numero di individui – osserva Segio – il tempo per cambiare rotta è adesso, diversamente il futuro rischia di essere un buco nero in cui la governance cieca continuerà a tenere in piedi il castello di carte dominato dalla finanza».
Come da tradizione il Rapporto, sostenuto dalla Cgil e da una galassia di associazioni, si basa «sull’idea di interdipendenza dei diritti nell’epoca della globalizzazione» e mette dunque in rapporto economia, lavoro, diritti umani e ambiente.
I capitoli sui migranti dunque si legano a quelli sulla «crescita economica elusiva» «al tempo degli algoritmi», «il disordine globale», «la dolosa obsolescenza del pianeta» più il nuovo capitolo «In comune» che racconta «reti e pratiche dal basso» per dimostrare che «cambiare è possibile» alternando storie vicine come il Baobab di Roma con altre lontane, come la Coopamare in Brasile, cooperativa di raccoglitori di immondizia.
Il tema dominante però è quello dei migranti e le sue conseguenze, prima fra tutte «l’odio sociale nella società dell’esclusione». «Il tratto caratteristico dell’ultimo periodo è certamente la crisi della cittadinanza – commenta Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid Italia – non si discute più, tutto viene deciso in modo opaco e così accade anche per la crisi migratoria. In Italia per gestire questo fenomeno ci sono 12mila microbandi sull’accoglienza senza nemmeno un database nazionale. Noi cerchiamo invece di investire su competenze e dialogo per cambiare le cose».
«Siamo davanti ad un genocidio nell’indifferenza anche da buona parte del mondo progressista perfino davanti alla tortura – sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – . La questione si lega agli spazi di agibilità delle Ong: non è possibile che proprio dall’Italia sia partita l’idea che chi vuole salvare vite umane sia cacciato della legalità, queste visioni securitarie fanno impallidire quanto successe a noi nel 2002: l’allora ministro Castelli ci fece cacciare dalle carceri perché sosteneva avessimo legami con gli anarco-insurrezionalisti, ma a nostra difesa si mobilitò anche la destra. Ora le Ong sono praticamente sole».
«Ormai il diritto penale è usato per ridurre l’agibilità delle Ong – gli fa eco Francesco Martone, portavoce della rete «In difesa di» – per reagire dobbiamo proteggere tutti coloro che fanno sentire la loro voce nel mondo a partire dagli attivisti a rischio, specie in America latina».
«Condividiamo questa avventura che consideriamo di grande importanza anche per il futuro – ha concluso la presentazione del volume di ieri pomeriggio il padrone di casa Fausto Durante, responsabile delle politiche internazionali della Cgil – . Nel mondo del lavoro in tutto il mondo i diritti calano, noi vogliamo invece che siano in capo alle persone e che siano riconosciuti per legge: per questo in Italia abbiamo presentato la Carta universale dei diritti»
La posizione del governo italiano
Per il governo Gentiloni-Minniti la posizione è chiarissima, e ne dà testimonianza il resoconto della questione Acqarius, da cui siamo partiti. Intervenire per ricacciare nei lager libici quanti tentano di fuggirne è la priorità. Ma barriere e campi di contenimento dei fuggiaschi vanno realizzati dovunque.
La Stampa, (29 novembre) informa che «dall’Italia 50 milioni verranno regalati al Niger per rinforzare le sue frontiere in chiave anti migranti, precisando che nell’accordo firmato dal premier Gentiloni a Roma si stabilisce che «il contributo sarà scaglionato in quattro tranche condizionate al raggiungimento di obiettivi per sorvegliare i confini con la Libia»: se non trattenete i fuggiaschi nel vostro inferno non vi paghiamo più. «L’intesa rientra in una cornice più complessa «L’accordo firmato oggi rafforza la frontiera sud della Libia e di conseguenza la frontiera esterna dell’Europa», fa notare Alfano, sempre su . «Il Niger è infatti un Paese di transito della rotta transahariana che parte dall’Africa occidentale e arriva in Libia. «La logica di questi accordi è che i migranti vanno fermati o alla partenza o lungo il percorso, ma non sulle rive del Mediterraneo», spiega una fonte di governo. Ed è anche in quest’ottica che il primo marzo è stata riaperta la nostra ambasciata a Niamey. «Il governo tiene a chiarire però che i versamenti italiani sono condizionati ai risultati conseguiti: «Con questi 50 milioni il Niger potrà istituire unità speciali di controllo delle frontiere, costruire e ristrutturare posti di frontiera e costruire un nuovo centro di accoglienza per i migranti», chiarisce il ministro degli Esteri. Non è chiaro se l’accordo preveda anche che i lavori per la costruzione delle barriere e dei campi di concentramento saranno affidati a ditte italiane.
LINK/IESTA
«No, non ci stanno invadendo: l’Italia resta una delledestinazioni meno ambite. Non ci rubano ricchezza: con la differenza tracontributi versati e percepiti si pagano le pensioni di 600mila italiani. Esiccome siamo un Paese sempre più anziano, per salvare il nostro welfare neservirebbero di più»
Sono un rifugiato,ma non l’ho scelto io. Preferirei stare nel mio Paese». Aweis è nato inSomalia, da qualche anno vive a Roma. In Africa era una giovane promessa delcalcio, aveva una vita da privilegiato. «Stavo bene, con la mia famiglia e imiei amici. Giocavo a pallone ed ero proprietario di alcuni negozi di musica.Un’esistenza migliore di quella che ho oggi in Italia».
Poi è dovuto fuggire. Un giorno in Somalia è arrivato Al Shabaab, un gruppo terroristico di matrice islamica. «Sono come l’Isis», racconta Aweis. «Hanno vietato il calcio e non hanno più permesso di ascoltare musica. Volevano che lavorassi con loro, ma mi sono rifiutato. E così hanno deciso di uccidermi». Una mattina un commando di una decina di persone si presenta casa sua, lo cercano. Per fortuna Aweis è fuori. Si limitano devastare il suo appartamento. «Mi madre mi ha chiamato e mi ha detto: “figlio mio, non tornare più a casa”». La lunga odissea del ragazzo inizia in questo momento. Prima si nasconde in un villaggio somalo, poi prova a rifugiarsi in Kenya. Qui rimane tre mesi, ma senza lavoro né documenti è costretto a scappare ancora. Prova in Uganda, poi in Sudan, ovunque gli stessi problemi. Alla fine, per disperazione, cerca la strada dell’Europa. La rotta verso nord lo porta in Libia, dove il suo dramma si trasforma in un incubo. «Sono quasi morto, non basterebbe un giorno per raccontare quello che ho vissuto». Dopo alcuni mesi trattenuto dai libici, il viaggio nel Mediterraneo diventa l’unica salvezza. I soldi per salire sul gommone, le incognite della traversata. «C’erano uomini, donne, anche un bambino. Eravamo tutti pronti a rischiare la vita. Non avevamo scelta: attraversando il mare in quelle condizioni sapevamo che probabilmente non ce l’avremmo fatta, ma rimanendo in Libia avevamo la certezza di morire». L’arrivo in Europa, la fuga in Olanda. Arrestato come clandestino Aweis viene riportato a Roma. «Oggi ho trovato un lavoro - racconta - dormo a casa mia, pago l’affitto. Ho degli amici, sto bene, ma vorrei riabbracciare la mia famiglia». Il giovane somalo parla piano, scandisce le parole. «Lo so che siamo ospiti nel vostro Paese - continua - A volte diamo fastidio, l'Italia ha già i suoi problemi. Ma sono qui solo perché sono obbligato, se dipendesse da me sarei già tornato in Patria».
È una storia sorprendente, lontana mille miglia da troppi stereotipi. Aweis è stato chiamato a raccontare la sua vicenda anche per questo. Un incontro organizzato a Roma da alcune associazioni per riflettere sul fenomeno migratorio da una diversa prospettiva. C’è la fondazione Italianieuropei e l’associazione romana di studi e solidarietà. Si ragiona sui problemi, ma anche sui vantaggi economici e sociali portati all’Italia dai migranti. La serata ha un titolo paradossale: “E se davvero tornassero tutti a casa loro?”. «È una provocazione ed è un bene che rimanga tale» sorride Padre Giovanni La Manna, alla guida dell’associazione Elpis e già presidente del centro Astalli.
«Sulle migrazioni vale la pena riflettere, conoscere a fondo di cosa si sta parlando». La percezione degli italiani è spesso sbagliata, quasi sempre c’è poca consapevolezza dell’argomento. La realtà rischia di essere molto diversa da come viene rappresentata. «Forse perché in Italia si parla tanto dei migranti - spiega Leonardo Becchetti, docente di Economia politica all'università di Roma Tor Vergata - ma non parlano mai i migranti». Questioni economiche e sociali lasciano spazio a una verità sorprendente: «In Italia avremmo bisogno di molti più migranti di quelli che già ci sono». L’immagine distorta del fenomeno viene corretta da alcuni dati. Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti. Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea. Senza considerare, racconta Becchetti, che l’Italia è una delle ultime mete scelte da chi scappa. Per i profughi siriani, ad esempio, rappresenta solo la quindicesima destinazione. Nessuna invasione, insomma. Del resto tra i dieci paesi con più profughi, l’unica realtà europea è Malta. Ai primi posti ci sono Libano, Giordania e diversi paesi africani.
Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti. Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea
Soprattutto, non c’è alcuna catastrofe demografica in vista. Il nostro è un Paese in declino. Nel 2015 il saldo negativo tra nati e morti ha portato alla scomparsa di 140mila italiani. Eppure questo dato non è stato neppure lontanamente riequilibrato dall’arrivo di immigrati (nonostante il 2015 sia stato uno degli anni in cui si sono registrati più sbarchi sulle nostre coste). Il professor Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano. Dati alla mano, anche lui inquadra alcune verità poco conosciute sulle migrazioni. Anzitutto è necessario avere un’idea globale del fenomeno. Negli ultimi anni il trend sta rallentando, eppure la popolazione mondiale continua a crescere. Su questo pianeta non siamo mai stati così numerosi. Eravamo 1,6 miliardi di persone all’inizio del secolo scorso, agli inizi del 2000 siamo arrivati a 6,1 miliardi. A metà del nostro secolo arriveremo a 9,5 miliardi. Intanto la popolazione invecchia. Nel mondo non ci sono mai stati così tanti anziani. Né si è mai registrato un numero così alto di stranieri: ormai 250 milioni di persone vivono in un’area diversa dal proprio paese d’origine. Eppure, ecco la sorpresa, non è l’Africa il continente con maggiore mobilità internazionale, ma l’Asia. Del resto i flussi migratori, contrariamente a quanto si crede, nella maggior parte dei casi non partono dai paesi più poveri, ma da quelli con un certo grado di sviluppo economico e sociale. Senza considerare che spesso si consumano all’interno degli stessi territori.
All'interno del quadro globale di trasformazioni c’è l’Italia. Uno dei paesi più anziani del mondo, dove la denatalità sta raggiungendo livelli sempre più preoccupanti. «Siamo in una fase di riduzione demografica - spiega Rosina - Un declino, nonostante l’afflusso dell’immigrazione». Le prospettive a breve termine sono inquietanti. Mentre continua ad aumentare la popolazione anziana inattiva, da qui al 2031 perderemo 1,4 milioni di giovani under35. Ma anche 4,2 milioni di persone tra i 25 e i 54 anni. Forza lavoro che scompare, rendendo sempre più insostenibile il nostro welfare: dalle pensioni alla sanità pubblica. «Ormai - insiste Rosina - siamo davanti a squilibri demografici che faremo fatica a gestire e metteranno in crisi la capacità di crescere del nostro Paese». E allora, che fare? Ancora una volta diventa necessario affrontare il fenomeno con realismo. Chiudere le frontiere non è una soluzione praticabile, porterebbe a un sicuro declino economico e demografico. Ma anche accogliere tutti i migranti che chiedono di entrare in Italia è impossibile. Le disuguaglianze e le tensioni sociali derivate sarebbero insostenibili, portando a un’uguale situazione di declino. Ecco allora una terza strada. «Capire e gestire il fenomeno» spiega Rosina. L’accoglienza è necessaria, ma deve avere un limite nella capacità di integrazione. «Se vogliamo continuare a crescere, l’unica soluzione è questa».
VOAAfrique.com, 23 novembre 2017. «Il Rwanda pronto ad accogliere 30mila migranti africani venduti come schiavi in Libia».
A la suite de la diffusion le 14 novembre par la chaîne de télévision américaine CNN d'images montrant "un marché aux esclaves" où étaient vendus aux enchères des migrants noirs d'Afrique subsaharienne, le président de la commission de l'Union Africaine (UA), Moussa Faki Mahamat, a appelé à l'aide les pays du continent."Le Rwanda, comme le reste du monde, a été horrifié par la tragédie actuellement en cours en Libye où des hommes, des femmes et des enfants africains qui étaient sur la route de l'exil, ont été arrêtés et transformés en esclaves", a dit Mme Mushikiwabo. "Etant donné la philosophie politique du Rwanda et notre propre histoire, nous ne pouvons pas rester silencieux quand des êtres humains sont maltraités et vendus aux enchères comme du bétail", a-t-elle ajouté.
Le Rwanda a été le théâtre en 1994 d'un génocide qui a fait quelque 800.000 morts, en majorité membre de la communauté tutsie.Cette pratique "relève de la traite des êtres humains, c'est un crime contre l'Humanité", a déclaré le président français Emmanuel Macron à l'issue d'une rencontre avec son homologue guinéen Alpha Condé.
La France a qualifié mercredi de "crimes contre l'Humanité" les ventes de migrants africains comme esclaves en Libye et demandé une réunion "expresse" du Conseil de sécurité des Nations unies sur ce sujet. Cette pratique "relève de la traite des êtres humains, c'est un crime contre l'Humanité", a déclaré le président français Emmanuel Macron à l'issue d'une rencontre avec son homologue guinéen Alpha Condé.
HuffPost, ed. francese, 20 novembre 2017. Ecco un esempio dei modi e dei prezzi con cui sono venduti nel mondo gli schiavi prodotti dagli alleati dell'Italia di Marco Minniti, Paolo Gentiloni, Sergio Mattarella (e Renzi, Bersani, Fanceschini e via enumerando)Qui il link al testo originale, con le impressionanti testimonianze filmate
LIBYE - Un millier de personnes ont manifesté ce samedi 18 novembre à Paris contre des cas d'esclavage en Libye dénoncés cette semaine dans un documentaire choc de la chaîne américaine CNN, selon la préfecture de police de Paris.
Dans le documentaire, on voit notamment, sur une image de mauvaise qualité prise par un téléphone portable, deux jeunes hommes. Le son est celui d'une voix mettant aux enchères "des garçons grands et forts pour le travail de ferme. 400... 700..." avant que la journaliste n'explique: "ces hommes sont vendus pour 1200 dinars libyens, soit 400 dollars chacun"
Les manifestants ont répondu à l'appel de plusieurs associations, et notamment d'un Collectif Contre l'Esclavage et les Camps de Concentration en Libye (CECCL), créé en réaction à la diffusion du reportage de CNN, selon un photographe de l'AFP. Le 16 novembre, l'ex-délégué interministériel Claudy Siar avait appelé à un rassemblementdevant l'ambassade de Libye à Paris ce samedi. Son appel a été partagé plus 4000 fois depuis.
Brandissant des pancartes "non à l'esclavage en Libye", ils étaient rassemblés vers 1dans l'ouest de Paris, avenue Foch, non loin de la place de l'Étoile où étaient positionnées des forces de l'ordre, a constaté un photographe de l'AFP. Les manifestants ont alors indiqué vouloir se rendre vers le consulat de Libye. C'est à ce moment, que le rassemblement qui avait débuté dans le calme, aurait dégénéré. Un drapeau de la Libye a notamment été brûlé.
La préfecture de police a dénoncé dans un communiqué le caractère illégal du rassemblement, dont les organisateurs devront, selon elle, être identifiés afin "que des procédures soient engagées aux fins de poursuites adaptées". "Sans qu'aucune déclaration n'ait été faite, plusieurs associations ont organisé une manifestation et un cortège depuis l'ambassade de Libye jusqu'en direction du second site diplomatique de ce pays", dans l'ouest de Paris, a-t-elle indiqué dans ce communiqué, tout en précisant qu'"aucune dégradation n'a été commise".
Le président en exercice de l'Union africaine (UA), le Guinéen Alpha Condé, et le gouvernement sénégalais notamment ont fait part cette semaine de leur indignation face à la vente des migrants-esclaves, tout comme le président nigérien Mahamadou Issoufou, qui a demandé à ce que le sujet soit mis à l'ordre du jour du sommet Union africaine-Union européenne des 29 et 30 novembre à Abidjan.
The Funambulist
In calce a questo articolo, ripreso dalla rivista "The Funambulist", riportiamo anche l'articolo orginale "Eight Ways to Build a Border Wall", con le immagini dei prototipi, comparso sul New York Time l'8 novembre 2017. (i.b)
The Funambulist, 10 novembre 2017
THE NEW YORK TIMES AND THE U.S. BORDER WALL: A LOVE STORY
di Lèopold Lambert
The New York Times’ radical reasonableness offers us a clear vision of the ways one can continuously adapt its position to the political context as to be in position of respectful negotiation with the status quo. On Tuesday (November 8, 2017), the newspaper published an article entitled “Eight Ways to Build a Border Wall” that presents the eight prototypes recently built on the southern United States national border which mark the beginning of the construction promised by the current president.
|
Dettagli degli otto prototipi dei muri. Fonte: New York Times |
The article unapologetically associates veneer drone footage to comparative shots of the prototypes with titles such as “Concrete or No Concrete,” “Opaque or Transparent,” or “Tube or No Tube?” that we would more eagerly associate with a kitchen-customizing multiple-choice form on a home improvement website, than with a serious examination of the political instrumentalization of architecture’s violence. In presenting a wall project it opposed during the 2016 presidential campaign in the sensational form of a commercial brochure with which US citizens are invited to shop, the NYT brings a tremendous legitimacy to this political project. Rather than examining the very ideological and societal axioms of such a project or insisting on the shattering fact that 10,000 people died attempting to cross this border (killed by heat stroke, dehydration, or by US militias), this article instead analyzes exclusively the “how” of the Wall in the usual adjustment to the new status quo.
The NYT is, of course, not the only newspaper in the world that holds such a position of continuous readjustment to what they like to think as “the center.” Europe itself counts many equivalents that contributed to the political shift that has seen left-wing political parties of these last twenty years ponder how to solve the “immigration problem,” a question drafted and imposed by right-wing movements that succeeded to impose their invariable axiom — “there is an immigration problem” — without being challenged in its core. In a state like the US, built on settler colonialism and that currently provides very little in terms of welfare for the bodies present on its territory, we can be candidly surprised that such a political axiom would be so ubiquitously accepted. And yet, the current US president has been elected after having particularly pushed forward one of the most literalist aspects of his program, which happens to be an architectural project: the materialization and militarization of a line on a map (a concept inherent to the settler colonial politics practiced on both sides of it) that represents a border with the state of Mexico fixed in this location only since 1884. Something that was rarely mentioned during the 2016 US presidential campaign was that the wall that would militarize the border was not a new idea and already existed over 1,000 kilometers of border after the Georges W. Bush administration undertook its construction in 2006.
Back then, the NYT had proposed to thirteen architects to take part in a “reflection” on the design of this wall reported under the name “A Fence With More Beauty, Fewer Barbs” (in 2008, I had already written about it in an article entitled admittedly-not-so-subtly “How Far Can the Bullshit Go?”). Some architecture offices had declined the offer because “they felt it was purely a political issue,” but others, such as renowned Californian architect, Eric Owen Moss, had answered the call and proceeded to propose an architectural design for this “more beautiful” wall. In his report of the challenge in the NYT (June 18, 2006), William L. Hamilton had written the following: “Eric Owen Moss, an architect in Los Angeles, was more specific with his border as beacon of light. In his design, a strolling, landscaped arcade of lighted glass columns would invite a social exchange in the evening, much like the “paseo,” popular in Hispanic culture. ‘Make something between cultures, which leads to a third,’ Mr. Moss said. ‘Celebrate the amalgamation of the two’.”
It is easy to critique Moss’ position, his romanticist and essentialist rhetoric, and his office’s grotesque design. Similarly, the title of the challenge itself (whether it was introduced to architects under this name or not) has the capacity to mobilize a wide outrage for its radical candidness — in March 2016, during the US presidential campaign, a proposal for a design competition, entitled more soberly “Build the Border Wall?” and its relay in the mainstream architecture platform Archdaily, had triggered (legitimately) infuriated reactions from a certain amount of architects. Of course, beauty has the potential to normalize violent architectures and, in this regard, one can think of the (true or fictitious) story graffiti-artist Banksy told about his experience of painting on the Israeli Apartheid Wall: when an old Palestinian man allegedly told him that he was making the Wall beautiful, Banksy thanked him, to what the old man replied: “We don’t want it to be beautiful, we hate this wall. Go home.” Yet, we should not emphasize the importance of beauty’s normalizing capacities; after all, the architectures of the Israeli apartheid are unanimously recognized as ugly, but such a qualification never compromised their existence.
We nevertheless ought to focus on the other projects sent as a response to the NYT design challenge to realize that the most problematic characteristics of such a call are less to be found in the transformation of the wall from ugly to beautiful, than in its transformation from inert to productive. In his report, Hamilton had written, “Four of the five who submitted designs proposed making the boundary a point of innovative integration, not traditional division — something that could be seen, from both sides, as a horizon of opportunity, not as a barrier.” From James Corner’s “solar energy-collecting strip that would produce what he described as a ‘productive, sustainable enterprise zone’ that attracted industry from the north and created employment for the south” to Calvin Tsao’s “enterprise zone […] as a series of small, developing cities,” we can see how the productivity and usefulness are regarded as mitigating the violence of the border when, in fact, they make it more durable by creating new dependencies on its existence. They also reproduce the North/South exploitative relationships at a local scale involving a border porosity for some (as well as goods and capitals) while making it impermeable for others as Alex Rivera potently illustrates in his 2008 film Sleep Dealer about the maquiladoras of a near future.
After having written my not-so-subtle article in 2008, I remember subsequently debating about this question with US architect and professor Ronald Rael, who, back then, was already engaged in the research work that has been recently published in the form of a book entitled Borderwall as Architecture: A Manifesto for the U.S.-Mexico Boundary (University of California Press, 2017). Although Rael’s approach to the wall is drastically more complex and critical than the capitalist and technocratic “solutions” offered by the architects cited above, part of his design hypotheses regarding the Wall are also attempting to make it more productive, as well as to “institutionalize through models and drawings, events that are already occurring on the wall”. In an interview given for another NYT article, he aptly expresses the contradiction in which he finds himself: “[Rael] makes the argument that we should view the nearly 700 miles of wall as an opportunity for economic and social development along the border — while at the same time encouraging its conceptual and physical dismantling” (Allison Arieff for the New York Times, March 10, 2017). This contradiction is the same than the one analyzed by Eyal Weizman in “The Best of All Possible Walls” (The Least of All Possible Evils, Verso, 2011) when he describes the legal action of some Palestinian lawyers and activists in the Israeli High Court of Justice in Jerusalem arguing for alternative routes for the Israeli Apartheid Wall during its construction in 2004. Weizman’s entire book is dedicated to what he calls “humanitarian violence” in its subtitle: “Humanitarian Violence from Arendt to Gaza.” We can try to define this violence as the consequence of actions undertaken in an effort to mitigate a given violence but, in their compromising negotiation with that it claims to be fighting against, ends up bringing a greater legitimacy and inertia to it than if these actions had not been initiated in the first place.
The NYT’s editorial line could not be more at odds with this concept and, as such, provides one of its most illustrative examples. It is however important to observe that the fundamental difference between the NYT’s positioning and that of the Palestinian lawyers and activists that Weizman describes in their legal attempts to slightly divert the Apartheid Wall’s route in order to locally save the access of farmers to their fields and the junction of houses with the rest of Palestinian towns, is to be found in the fact that Palestinians are the first concerned by the Wall and, as such, have a legitimacy to recognize the inertia of the status quo and negotiate with it even if it brings more weight to it. On the contrary, the NYT represents the interests of a significant part of the US establishment that can afford to live with the political program of the current president when they do not benefit from it one way or another. Its negotiation with this political reality can therefore not act as the catalyst for reform that it would like to embody; on the contrary, it rather produces the profound and durable legitimization of it.
New York Times
EIGHT WAYS TO BUILD A BORDER WALL
di JenniferMedina, Josh Haner, Josh Williams and Quoctrung Bui
They all stand neatly in a row: eight large panels on a barren dirt patch just a few hundred yards from the San Diego border with Mexico. Unveiled in late October, these are the prototypes for the border wall President Trump has vowed to erect on the southern border. Later this year, the federal government will test the panels for strength and effectiveness.
|
Gli otto prototipi dei muri. Fonte: The New York Times |
These prototypes make clear that a border wall is not simple: It can vary considerably in material, shape and cost. And while it is far from clear that Congress will pay for a wall or that any of these designs will be built at wider scale, they are real-life renderings of a promise that fueled much of Mr. Trump’s campaign.
Six contractors have made bids on the wall, and the specific details of their plans are not public. But they allowed us to visit the prototypes, and we asked border security experts and engineers what they saw in each design and what challenges each wall may face.
Every expert agreed on one thing: Finding a design that would work for the entire length of the border would be extremely hard, if not impossible. And many caution that such a wall may never happen.
Concrete or No Concrete?
The prototypes include plain concrete walls and ones made of a combination of materials, what the government described as “other than concrete.” The term is intentionally vague, a signal to contractors to be creative and bring a design that U.S. Customs and Border Protection had not considered.
Any barrier must be able to withstand at least 30 minutes of force from a “sledgehammer, car jack, pick axe, chisel, battery-operated impact tools, battery-operated cutting tools, oxy/acetylene torch or other similar hand-held tools,” according to the instructions for the prototypes.
Some “other than concrete” prototypes incorporate steel, which can be relatively easy to cut with a torch, while pure concrete is not. A hollow steel pipe whose walls are half an inch thick could easily be cut in less than an hour, according to Michael D. Engelhardt, professor of structural engineering at the University of Texas at Austin.
Steel is also malleable. Mr. Engelhardt said that a small hydraulic arm (similar to the “Jaws of Life” used to pry open a crumpled car) could easily be used to make an opening in such a wall: “The equipment is small (could likely fit in a backpack), inexpensive, widely available and can generate many tons of force.”
“Steel can rust really quickly,” said Curtis Patterson, a structural engineer based in San Diego who visited the prototypes with a team of Times journalists. He pointed to several rust spots that had already appeared on one of the prototypes, less than a month after construction.
But some envision the mixed-material walls as having more technological capabilities. They might be called smart walls: walls that incorporate radar, acoustics and other types of surveillance embedded in the infrastructure. One of the contractors bidding on the wall is ELTA North America, an Israeli defense contractor that specializes in radar and communication equipment.
“My sense is they will select multiple awards for these types of infrastructure,” said Jayson Ahern, a former acting commissioner of Customs and Border Protection who was involved in the construction of a border fence during the George W. Bush administration. “Some will be for technology, some for when they just need a wall.”
Opaque or Transparent?
David Aguilar, a former deputy commissioner of Customs and Border Protection, said that with concerns over officer safety, it is critical that border patrol agents have good situational awareness: “It can be done visually or it could be done with technology, but in a high-activity area, it is difficult to discern legal activity versus illegal. In urban areas, you’re going to need that transparency. In terms of attempted intrusion, you want to see people coming toward the border so that they can respond.”
Michael Evangelista-Ysasaga, the chief executive of Penna Group, which has contracted with the government before but whose prototype bid was rejected, said: “A see-through border wall allows them to know when they are facing threats on the other side, which Border Patrol has long preferred on their wish list. They didn’t want a solid wall. Going through was never the real threat. The real threat is going over or under.”
“Big” and “Beautiful”?
Mr. Trump campaigned on a “big, fat, beautiful wall,” so it’s unsurprising that looks play a role in the border wall guidelines. The official proposal request says that the U.S.-facing side of the wall should be “aesthetically pleasing.” But standing in front of the prototypes, Mr. Patterson winced when he considered the aesthetics of a potential wall. “I don’t know if there’s a way to make these beautiful — unless you get murals painted on them,” he said with a chuckle. “You want something that blends in, that you wouldn’t be offended to look at from your backyard. Some of the steel looks like something you’d find in a prison. The brick facade is more like something you’d see on a freeway.”
The only wall that actually has a brick facade is the prototype from Texas Sterling Construction. But in keeping with the guidelines, the pattern appears only on the U.S.-facing side. What Mexico gets to see is a bare concrete wall lined with barbed wire.
It turns out that barbed wire presents its own problems. Mr. Evangelista-Ysasaga said that his company often uses razor wire in prisons and that animals routinely get stuck. For humans, hair and clothing could get tangled in it. Having such wire along the border would be “really inhumane,” he said. “You’re going to read about a whole family dead on a Sunday morning. It’s going to be a human rights nightmare in the international world.”
Precast or Filled On-Site?
The engineers and contractors agree that concrete walls aren’t the most complicated of structures to deal with. For them, the big question is: Do you make walls on-site or precast them? Lengthy wall segments in very remote regions can make pouring concrete on-site expensive and logistically difficult.
Most experts thought that precasting — making the concrete panels elsewhere and then shipping them to the border — was the most practical choice. “Rather than build from Point A to Point B, the wall route could be divided into segments, say 100 miles apart,” said Daniel Abrams, a professor of structural engineering at the University of Illinois at Urbana-Champaign.
Tube or No Tube?
Border patrol officials have repeatedly said that they want to construct a wall that would be effectively impossible to scale — that it should be “physically imposing,” measure between 18 and 30 feet high and include “anti-climbing features.”
Many of the contractors added a rounded tube at the top of their prototypes; they believe it will make it far less likely that anyone could reach the top. “It makes it impossible to straddle or use to get a rope ladder across because there is nothing to hook onto,” Deputy Chief Patrol Agent Roy D. Villareal said.
The prototype is also supposed to prevent tunneling at least six feet underground. Both rudimentary and sophisticated tunnels, primarily used to bring drugs into the United States, have been a persistent problem in the San Diego area. Border Patrol officials would not provide any details about what the barriers looked like below the surface, saying only that many went “well beyond” the six-foot minimum.
Up to Environmental Challenges?
There are several environmental concerns the government must also consider, including water flows, earthquake fault lines and wildlife along the border. “The hydrologic flows are also critically important, so a solid wall is going to be useless — it cannot be applied and should not be applied in some areas,” Mr. Aguilar said.
Mr. Patterson, who routinely considers fault lines in the structures he designs in San Diego, said that the lighter the wall is, “the better off it will be during an earthquake.”
During construction of the current 650-mile border fence mandated by the 2006 Secure Fence Act, Mr. Ahern said that every mile of the southern border had to be carefully inspected. Officials had to assess potential environmental threats to the wall like monsoons and earthquakes as well as potential threats the wall posed to the environment like wildlife.
“It’s one thing to do a 30-by-30 prototype in California, but it’s a whole different story when you’re in the other 1,900 miles of the border,” he said.
And Then There’s the Bill
Nearly every expert we spoke to said the cost of a wall could be insurmountable: Congress has not authorized any funding, and Mexican officials have insisted their country will not pay. Cost estimates have varied widely, but an internal report from the Department of Homeland Security pegged it at $21.6 billion.
“It’s not like buying 100 cars, where you have a fixed price,” Mr. Ahern said. “There’s an awful lot of wild cards that people won’t actually know about until they get into the field. Clearly that was our experience before.
“A wall is not a single solution. It is one element of border security.”
There may be no future for any of these walls. And because they sit in a remote industrial section near the border, they are unlikely to become roadside attractions. If nothing else, they stand, for now, as emblems of the administration’s ambitions.