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La disintegrazione dell'autorità pubblica è una delle cause principale dei flussi dall'Africa e dal Medio Oriente. «Non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade». Le idee del filosofo sloveno per un programma paneuropeo che tenga conto della realtà.

La Repubblica, 11 settembre 2015

NEL suo saggio “La morte e il morire” Elisabeth Kübler- Ross proponeva il famoso schema delle cinque fasi con le quali reagiamo alla notizia di avere una malattia terminale, ovvero negazione, rabbia, negoziazione (la speranza di poter rimandare in qualche modo il fatto), depressione, accettazione.

La reazione dell’opinione pubblica e delle autorità dell’Europa occidentale al flusso di rifugiati proveniente da Africa e Medio Oriente non è una mescolanza alquanto simile di reazioni disparate? C’è (sempre meno) la negazione: «Non si tratta di un fenomeno così serio, basta ignorarlo ». C’è la rabbia: «I rifugiati sono una minaccia per il nostro stile di vita, tra di loro si nascondono fondamentalisti musulmani, dovrebbero essere fermati a tutti i costi». C’è la negoziazione: «Va bene, stabiliamo delle quote e diamo un sostegno economico per realizzare campi profughi nei loro stessi Paesi». C’è la depressione: «Siamo perduti, l’Europa si sta trasformando nell’Europastan ». Unica assente è l’accettazione che, in questo caso, avrebbe voluto dire mettere a punto un piano pan-europeo coerente che prevedesse le modalità con le quali affrontare il flusso di rifugiati.

La prima cosa da fare è rammentare che la maggior parte dei rifugiati proviene da “stati falliti”, stati nei quali l’autorità pubblica è più o meno inerte, quanto meno in ampie zone (Siria, Libano, Iraq, Libia, Somalia, Congo). Questa disintegrazione del potere statale non è un fenomeno locale, bensì la conseguenza di pratiche economiche e politiche internazionali, e in alcuni casi, come in Libia e Iraq, è la conseguenza diretta degli interventi occidentali. L’ascesa degli “stati falliti” non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Oltre a ciò, si dovrebbe tenere presente che i semi degli “stati falliti” mediorientali vanno fatti risalire all’arbitrario disegno dei confini dopo la Prima guerra mondiale a opera di Regno Unito e Francia: in definitiva, unendo i sunniti in Siria e in Iraq, l’Is sta rimettendo insieme ciò che fu diviso dalle potenze coloniali.

I rifugiati non stanno semplicemente scappando dalla loro patria lacerata dalla guerra: coltivano anche un sogno preciso. I rifugiati nel sud dell’Italia non vogliono trattenersi lì: la maggior parte di loro vuole vivere nei Paesi scandinavi. Alle migliaia di rifugiati accampati intorno a Calais non piace l’idea di restare in Francia: sono disposti a rischiare la vita pur di entrare nel Regno Unito. Le decine di migliaia di rifugiati nei Balcani vogliono raggiungere almeno la Germania. Tutti costoro manifestano apertamente questo loro sogno come un diritto incondizionato, chiedendo alle autorità europee non soltanto cibo adeguato e assistenza medica, ma anche i mezzi di trasporto necessari per raggiungere le destinazioni scelte. In questa loro richiesta impossibile c’è qualcosa di enigmaticamente utopistico, come se l’Europa avesse il dovere di realizzare il loro sogno.

Si può osservare qui quanto sia paradossale questa utopia: proprio quando la gente si ritrova in povertà, in difficoltà, in pericolo, e ci si aspetterebbe che si accontentasse di un minimo di sicurezza e di benessere, l’utopia assoluta esplode. I rifugiati devono imparare la dura lezione: “La Norvegia non esiste”. Anche in Norvegia. Dovranno dunque imparare a censurare i loro sogni: invece di inseguirli nella realtà, dovrebbero concentrarsi e cercare di cambiare la realtà.

A questo proposito, è indispensabile essere molto chiari: si deve abbandonare una volta per tutto il concetto secondo cui la tutela di uno specifico stile di vita personale è inquadrabile di per sé in una categoria proto-fascista o razzista. Se non abbandoneremo questo concetto, spianeremo la strada all’ondata dei populisti contrari all’immigrazione che monta in tutta Europa. Si dovrebbe evitare di cadere nella trappola del gioco liberale del “quanta tolleranza siamo in grado di permetterci?”. È necessario dunque allargare la prospettiva: i rifugiati sono il prezzo da pagare per l’economia globale. Nel nostro mondo globale, i prodotti circolano liberamente, ma non così le persone, e nascono nuove forme di apartheid. L’argomento dei muri permeabili, del rischio di essere invasi dagli stranieri, è intrinseco e immanente al capitalismo globale. È un indice di ciò che c’è di falso al riguardo della globalizzazione capitalista. È come se i rifugiati volessero estendere la libera circolazione globale dai prodotti agli individui.

Se le grandi migrazioni sono un fenomeno costante della storia umana, è anche vero che nella storia moderna esse sono dovute per lo più alle espansioni coloniali: prima della colonizzazione, i Paesi del Terzo Mondo erano formati in maggioranza da comunità locali autosufficienti e relativamente isolate. È stata l’occupazione coloniale a far deragliare il loro tradizionale stile di vita e a portare di nuovo a migrazioni su vasta scala (anche tramite il mercato degli schiavi). L’ondata migratoria in corso in Europa non è un’eccezione. In Sudafrica oltre un milione di rifugiati provenienti dallo Zimbabwe è aggredito dai poveri locali che li accusano di rubare loro i posti di lavoro. Di sicuro ci saranno altre migrazioni, non soltanto a causa di conflitti armati, ma anche perché ci saranno altri “stati canaglia”, altre crisi economiche, altri disastri naturali, il cambiamento del clima e così via.

La lezione più importante da apprendere, dunque, è che il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade. La sovranità nazionale dovrà essere ridefinita radicalmente e si dovranno inventare nuovi livelli di cooperazione globale. Nella civile accoglienza dei rifugiati in Austria e in Germania dovremmo vedere un barlume di speranza, ma siamo ancora molto lontani dall’approccio pan-europeo.

Prima di tutto l’Europa dovrà riaffermare il suo impegno a fornire i mezzi per una decorosa sopravvivenza dei rifugiati. E qui non si dovrebbero fare compromessi: le grandi migrazioni sono il nostro futuro, e l’unica alternativa a questo impegno è una nuova barbarie (quello che alcuni chiamano “scontro di civiltà”).

Secondo, in conseguenza di tale impegno l’Europa dovrà necessariamente organizzarsi, e imporre regole e regolamenti chiari. Dovrebbe arrivare a realizzare un controllo governativo del flusso dei rifugiati tramite un vasto network amministrativo che abbracci tutta l’Unione europea (per evitare barbarie locali come quelle delle autorità ungheresi e slovacche). Ai rifugiati occorrerà dare garanzie circa la loro sicurezza, ma si dovrà anche far capire che dovranno accettare il Paese nel quale saranno destinati dalle autorità europee, e che dovranno rispettare le leggi e le usanze degli stati europei: non ci sarà tolleranza alcuna per le violenze perpetrate per motivi religiosi, di genere, o etnici, per nessuno, e non ci sarà il diritto di imporre agli altri il proprio stile di vita o la propria fede, dovendo prevalere il rispetto di ogni libertà dell’individuo, qualora questi intenda abbandonare i propri usi. Se una donna sceglierà di coprirsi il volto, la sua scelta dovrà essere rispettata, ma se sceglierà di non farlo, dovrà essere garantita anche la sua libertà di non farlo. È vero: questo insieme di regole sotto sotto privilegia lo stile di vita dell’Europa occidentale, ma è il prezzo dell’ospitalità europea.

Queste regole dovrebbero essere enunciate chiaramente e chiaramente fatte rispettare, anche con misure repressive, se necessario (tanto nei confronti dei fondamentalisti stranieri, quanto dei nostri stessi razzisti contrari all’immigrazione).

Terzo, si dovrà escogitare un nuovo tipo di intervento internazionale oltre a quello militare e quello economico, che si sottragga alle trappole del neocolonialismo. Potremmo pensare a forze di pace dell’Onu addette a tenere sotto controllo la situazione in Libia, Siria o Congo? I casi di Iraq, Siria e Libia dimostrano come il tipo sbagliato di intervento (in Iraq e in Libia) e così pure viceversa il non-intervento (in Siria, dove dietro la facciata del non-intervento di fatto sono presenti e attive varie potenze straniere, dalla Russia all’Arabia Saudita) possono portare al medesimo punto morto.

Quarto, il compito più difficile e importante è un radicale cambiamento economico che dovrebbe cancellare una volta per tutte le condizioni che creano il fenomeno dei rifugiati. La causa ultima dell’ondata di rifugiati è il capitalismo globale odierno stesso, con i suoi giochetti geopolitici. Se non cambieremo drasticamente le cose, presto ai rifugiati dall’Africa si uniranno i migranti greci e di altri Paesi europei.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Ecco perché sono insensati, iniqui e controproducenti i respingimenti e le invasioni militari, e perché invece l'unica proposta ragionevole è un'ospitalità completa, utile per l'oggi e soprattutto per il domani.

Ilmanifesto, 18 agosto 2015 (versione integrale, con postilla)

Profughi e migranti sono due categorie di persone che oggi distingue solo chi vorrebbe ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare, hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame, schiavitù sapendo bene che con quel viaggio, che spesso dura anche diversi anni, avrebbero continuato a rischiare la vita e la loro integrità.

I profughi e i migranti che partono dalla Libia per raggiungere Lampedusa o le coste della Sicilia non sono libici: vengono dalla Siria, o dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Niger o da altri paesi subsahariani sconvolti da guerre, dittature o da entrambe le cose. I profughi e i migranti che partono dalla Turchia per raggiungere un’isola greca o il resto dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non sono turchi (solo qualche curdo lo è per caso): sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha ancora proposto di invadere la Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo prima che si imbarchino, come si sta invece proponendo di fare in Libia, fingendo che questa sia la strada per risolvere il “problema profughi”.
Perché non si concepisce niente altro che la guerra per affrontare un problema creato dalle guerre: guerre che l’Europa, o qualcuno dei sui Stati membri, ha contribuito a scatenare; o a cui ha assistito compiacente; o a cui ha partecipato con propri contingenti. Meno che mai ci si propone di andare a “risolvere” le situazioni siriana, o irachena, o afghana, già compromesse dalle “nostre” guerre, come si pensa invece di “sbloccare” quella libica.
Bombardare i porti della Libia, o occuparne la costa per bloccare quell’esodo, non è, nella mente di chi ne propone o ne invoca la realizzazione, o ne attende con impazienza l’autorizzazione, niente altro che il rimpianto di Gheddafi: degli affari che si facevano con lui e con il suo petrolio e del compito di aguzzino di profughi e migranti che gli era stato affidato con tanto di trattati, di finanziamenti e di “assistenza tecnica”. Dopo aver però contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo contando - e sbagliando – sul fatto che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima.
Già solo questo abbaglio, insieme agli altri che lo hanno preceduto, seguito o accompagnato – in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella Repubblica centroafricana – dovrebbe indurci non a diffidare soltanto, ma a opporci con tutte le nostre forze, delle proposte e ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile.

Ma coloro che propongono un intervento militare in Libia, o mettono al centro del “problema profughi” la lotta agli scafisti,non sanno bene che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenzedalla Libia non farebbe che riversarne quel flusso sugli altri paesi della costa sud del Mediterraneo, tra cui la Tunisia, redendo anche lì ancora più instabile la situazione. Ma soprattutto non dicono – e forse non pensano: il pensiero non è il loro forte – che cosa ci si propone con interventi del genere. Ma capirlo non è difficile: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, composto ormai da milioni di persone, in quei deserti che sono una via obbligata delle loro fughe, e che hanno già inghiottitomolte più vittime di più di quante non ne abbia annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, come si è cominciato a fare con il cosiddetto processo di Khartum, a qualche feroce dittatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. E’ il risvolto micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia che corre da tempo in bocca ai nemici giurati dei profughi: “aiutiamoli a casa loro”.

Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune che dobbiamo costruire insieme a loro. Non c’è alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura, o per entrambe le cose. Il primo passo da compiere è prenderne atto. Smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, pensando così di combattere o neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre.

Certo, 50.000 profughi (quanti ne sono rimasti di tutti quelli che sono sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60 milioni di abitanti, o 500mila (quanti ne ha ricevuti l’anno scorso l’Unione Europea) su 500 milioni di abitanti non sono molti. Ma come si vede, soprattutto per il modo in cui vengono “gestiti”, cioè maltrattati, sono già sufficienti a creare allarmi e insofferenze insostenibili. Ma non bisogna dimenticare che quelli di quest’anno e degli ultimi anni non sono che l’avanguardia di altri milioni di profughi stipati nei campi del Medioriente e del Maghreb, o in arrivo lungo le rotte desertiche dai paesi subsahariani, che non possono – e non vogliono – restare dove sono. Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si sentono già cittadini europei, anche se non per questo dimenticano il loro paese di origine e il desiderio di farvi ritorno quando se ne presenteranno di nuovo le condizioni.

L’Unione europea, in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali del grande capitale tedesco ha concentrato le sue politiche e i suoi impegni nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese della popolazione e nel garantire che le sue grandi banche uscissero comunque indenni dalla crisi. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra, di caos permanente, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di migranti, senza più futuro nei loro paesi,è la prima e più diretta conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai una politica feroce quanto vana di respingimenti, a mettere fine a questo stato di cose che le istituzioni dell’Unionenon riescono più a governare né all’esterno né all’interno dei suoi confini.

A riprendere le fila di quei conflitti, e di quello che si sta producendo a causa degli sbarchi e degli arrivi, non può che essere un nuovo protagonismo di quelle persone in fuga nella definizione di una prospettiva di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo, solo se saranno messe in condizione di organizzarsi e di contare come interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati da tempo sul suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e a impegnarsi direttamente per alleviare le loro sofferenze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione.

Bisogna “accoglierli tutti”, come ha raccomandato più di un anno fa Luigi Manconi in un libretto che ne condensa l’esperienza di combattente per i diritti umani; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto decente, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavorare e di guadagnare.

Ma non sono troppi, in un paese e in un continente che non riesce a garantire queste cose, e soprattutto lavoro e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di austerity in vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non riescono e non vogliono più a garantire queste cose a una quota crescente dei suoi cittadini e per questo scatenano la cosiddetta “guerra tra i poveri”.
Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se solo investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per dare lavoro a tutti e riconvertire, nei temi necessari per evitare un disastro irreversibile e di dimensioni planetarie, tutto il suo apparato economico e produttivo, e le sue politiche, in direzione della sostenibilità ambientale. Il lavoro, se ben orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la perpetuazione di un già ora insopportabile status quo, ma uno sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno, delle forze autoritarie e scopertamente razziste che crescono indicando nei profughi, ma anche in tutti gli immigrati, nei loro figli e nei loro nipoti, il nemico da combattere. E se non direttamente di quelle forze, certamente delle loro politiche fatte proprie da tutte le altre.

Così il problema creato dai profughi, non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché o non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una potente leva per scardinarle a favore del progetto di un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna possibilità di essere realizzati. E’ a noi italiani, e ai greci, che tocca dare inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo.

postilla

Il testo integrale, che qui pubblichiamo alle ore 19,00 del 18 agosto 2015, è consistentemente più ampio di quello pubblicato sul manifesto, e che abbiamo ripreso stamattina: 8900 battute invece di 3600. La riduzione del testo nell'edizione del manifesto è dovuta evidentemente alle ovvie ragioni di spazio che un quotidiano cartaceo ha e che eddyburg non ha. Lo pubblichiamo integrale anche perché ci sembra di grande interesse per altri temi che ci stanno particolarmente a cuore, cui l'articolo direttamente o indirettamente rinvia, quali il New Deal del XXI secolo, e la nuova concezione del lavoro che è necessario introdurre nella nostra società.

«la sociologa americana non ha dubbi: “In passato ci sono state fasi di grandi migrazioni ma mai così. Per troppo tempo la Sinistra ha sottovalutato il problema”». E per troppo tempo, più ancora, il Primo mondo che ci nutre e ci coccola lo ha fatto saccheggiando, espropriando e ammazzando quelli del Terzo mondo. La Repubblica, 26 giugno 2015

Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta». Saskia Sassen, economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità».

Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare un piano condiviso?

«Negli ultimi decenni i Paesi europei — ma lo stesso vale per gli Stati Uniti — hanno seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finché hanno avuto bisogno di lavoratori a basso costo. Perché servivano a risolvere un problema interno all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati né dei governi dei Paesi da cui i migranti oggi scappano, né di programmare una politica migratoria sostenibile ed efficace».

Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?

«È difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria resta impraticabile».

L’Europa, invece, si chiude. La Francia respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria innalza un muro sul confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune per fronteggiare l’emergenza.

«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».

Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?

«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e da zone decorose».

Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia. Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?

«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole...».

E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?

«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».

Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari…

«Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la maggioranza dei migranti che stanno approdando in Europa vive già in una condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi di queste settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale sempre più persone saranno costrette a muoversi, proprio perché espulse dall’economia globale. E quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la propria vita».

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