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«Tra paura ed egoismi nazionali torna l’Europa delle frontiere. Dietro la “riduzione” di Schengen c’è il rischio di un continente di nuovo diviso. Così i Paesi “virtuosi” del Nord provano a relegare ai margini Italia e Grecia, in un Mediterraneo in fiamme». La Repubblica, 5 gennaio 2015

Era un simbolo, il ponte di Oresund. Un simbolo europeo. Cinquanta campate sopra il Baltico costate più di quattro miliardi, in parte anche di fondi Ue. Otto chilometri per collegare Svezia e Danimarca, saldare Copenhagen e Malmoe come fossero un’unica città. Era il sogno di unire ciò che la natura ha diviso, e di farlo in nome di una buona volontà umana superiore a qualsiasi sfida. Il miraggio è durato quindici anni. Ha retto tempeste e mareggiate. Ma non ha retto allo tsunami dell’immigrazione che sta sommergendo l’Europa e ridicolizzando il suo progetto di fratellanza.

Adesso Oresund, intasato dalle code alla improvvisata frontiera imposta dopo mezzo secolo tra Svezia e Danimarca, è diventato il simbolo delle paure e degli egoismi nazionali che riemergono come fantasmi dal nostro passato. Più del filo spinato piantato da Orban sulle frontiere ungheresi. Più delle migliaia di auto che nei giorni scorsi hanno aspettato ore al confine italo-francese. Più dei cani poliziotto che pattugliano i confini sloveni.

Stretta nella doppia morsa dell’immigrazione e del terrorismo, l’Europa deve fare i conti con l’istinto primordiale di cancellare se stessa e rifugiarsi dietro l’illusorio baluardo degli Stati-nazione. Il progetto che aveva preso il volo con la fine della grande paura della Guerra fredda, con il crollo del muro e il ritiro dell’Armata rossa, ora deve fare i conti con nuove minacce e nuove paure. Deve misurarsi con l’esercito, pacifico, disperato ma inarrestabile, dei profughi. E con quello, più piccolo ma ben più minaccioso, dei fanatici della Jihad. E la prima vittima di questa doppia offensiva è la libertà di circolazione. Che poi, a guardar bene, è la libertà di sentirci veramente europei.

La Svezia, sommersa da 160 mila profughi in un anno, proporzionalmente poco meno di quelli arrivati in Turchia in cinque anni, ha deciso di chiudere le frontiere con la Danimarca.

E la Danimarca, di riflesso, ha impiegato meno di tre ore per chiudere le sue frontiere con la Germania. Il colosso tedesco, che di rifugiati ne ha accolti un milione, per ora resiste. Ma avverte: «Schengen è in pericolo». E chiede a gran voce (e a ragione) «una soluzione europea». Già, ma quale?

Di fronte allo spettacolo del ponte di Oresund diventato frontiera sarebbe facile ironizzare sul fatto che questa volta, apparentemente, l’anello debole della solidarietà comunitaria si colloca tra i ricchi e progrediti Paesi del Nord Europa e non nel «ventre molle» del Continente, tradizionalmente rappresentato dal suo fianco Sud. Purtroppo non è così. E la chiusura del ponte tra Svezia e Danimarca rischia di essere l’innesco di una reazione a catena che ha per bersaglio ultimo l’Italia e gli altri Paesi di primo impatto dell’immigrazione.

Ci ha pensato subito il premier conservatore danese, Lars Løkke Rasmussen, a chiarire i termini della questione, così come vengono interpretati al Nord: «E’ evidente che l’Ue non è capace di proteggere le sue frontiere esterne, e così anche altri saranno presto obbligati a ripristinare i controlli di confine». Insomma, visto dal Baltico, il problema dell’Europa è ancora una volta la Grecia (e in parte l’Italia). È Atene che non riesce a frenare il flusso dei migranti in arrivo attraverso l’Egeo. È Atene che non appare in grado di identificare e fermare quanti arrivano sul suo territorio rimandando indietro coloro, e sono forse la maggioranza, che non hanno titoli per chiedere l’asilo politico. Il contagio, in fin dei conti, che si tratti di flussi migratori o di crisi finanziaria, viene sempre dal Sud.

Come ai tempi della crisi dei debiti sovrani, l’Europa si divide lungo una faglia che separa “virtuosi” e “peccatori”, con i primi ben decisi a far prevalere il rispetto delle regole sugli obblighi di solidarietà. La moneta unica va bene, ma i debiti restano nazionali e ciascuno deve ripianare il proprio. Le frontiere uniche vanno bene, ma gli immigrati illegali restano “nazionali” e ciascuno deve identificare e rimpatriare i propri.

E qui sta il vero, formidabile pericolo politico che minaccia i Paesi più esposti al flusso migratorio, come la Grecia o l’Italia. La libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea non è solo una conquista di altissimo valore simbolico. È anche, e soprattutto, uno straordinario fattore di sviluppo economico. Come dimostrano le lamentele degli imprenditori svedesi e danesi, l’Europa oggi non è in grado di reggere i costi indiretti che il ristabilimento delle frontiere nazionali comporterebbe e che sarebbero probabilmente superiori ai costi indotti dallo tsunami migratorio.

Per cui, se si afferma il principio che la colpa della situazione è dei Paesi di primo arrivo, alla fine il rischio è che Schengen si ricostituisca tagliandoli fuori.

Questa idea di una Schengen «ridotta », che esclude dalle proprie frontiere i Paesi deboli, come l’Italia e gli stati balcanici, è già stata apertamente ventilata dal governo olandese, che da gennaio ha assunto la presidenza di turno della Ue. Solo la Germania, per ora, ha impedito che la proposta venisse seriamente presa in considerazione. Ma se la reazione a catena dei controlli alle frontiere dovesse continuare nei prossimi mesi, come è probabile che accada, sarà difficile evitare che una riduzione «d’emergenza » dello spazio Schengen si imponga nei fatti. Garantendo la libera circolazione tra i Paesi virtuosi del Nord. E relegando l’Italia e la Grecia ai margini dell’Europa, verso un Meditteraneo in fiamme che minaccia più che mai di inghiottirci.

Errori di ieri e di oggi nei rapporti tra Unione europea (e Italia), Libia e il dramma dell'esodo Cercano un nuovo Gheddafi, che tolga le castagne dal fuoco.

Il manifesto, 13 dicembre 2015

Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.

Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario?
Kobler dichiara che siamo in ritardo, che «il tempo è scaduto». Come a dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti. Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità.

Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due…
È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di Tripoli e i «riconosciuti internazionalmente» filo-occidentali di Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i condizionamenti delle due «firmatarie» dell’intesa del 16 in Marocco. Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo.

Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a Derna e addirittura a Tobruk?
Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico.

Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico?
Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di cautela «non vogliamo una Libia-bis» di Matteo Renzi è certo apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e dei governi occidentali alla «mancata ricostruzione». L’interesse italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi «amici» in Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato ambasciatore degli Stati uniti in Libia. E’ una storia che rischia di compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere. Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 «perché Assad se ne deve andare». Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che hanno fatto in Libia.

Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per Seif Al Islam?
Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di «un Gheddafi». Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978 dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e miseria, per dichiarare la «guerra agli scafisti» (dagli effetti collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis.
È fondamentale un interlocutore — come facevamo con Gheddafi — che fermi anche in campi di concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto: formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di Seif Al Islam.

Francia e Germania, contro Roma e Atene, chiedono di "ridurre i flussi". Una bimba siriana, un neonato, un ragazzino di 12 anni: annegati sotto gli occhi di Frontex e dei guardiamarina turchi. Perché non li hanno salvati?»

Il manifesto, 9 dicembre 2015

Sei bambini sono morti ieri mattina su un gommone naufragato tra la città costiera turca di Cesme e l’isola greca di Chios. Il più piccolo era ancora in fasce e il più grande aveva 12 anni, così dice, seccamente, il dispaccio della guardia costiera turca che ha recuperato i loro corpi nelle buste nere che siamo stati abituati a vedere in naufragi simili a Lampedusa. Ma c’è qualcosa di strano in questa «tragedia dell’immigrazione» apparentemente uguale a tante altre che i dispacci non dicono. Altri 11 morti si contano alle Canarie, provenieti dal Sahara.

Il tratto di mare tra Cesme e Chios è di poco più di un miglio, 20 minuti di viaggio con il traghetto Erturk Lines per un costo medio di una famiglia di vacanzieri europei con auto al seguito di appena cento euro. Il dispaccio dell’agenzia di Stato turca Anadolu riferisce che sul gommone pieno di migranti all’improvviso hanno ceduto le doghe di legno di rinforzo del fondo del gommone, si sono spezzate, forse per il peso eccessivo o perché il gommone aveva imbarcato acqua appesantendosi ulteriormente.

Ma anche così ciò che non torna è che non ci sia stato un tempestivo intervento della guardia costiera o dell’unità di Frontex che proprio ieri mattina, dal Portogallo, ha iniziato a pattugliare quel tratto di mare fino all’isola più a nord di Lesbo.

È di appena due giorni fa la denuncia dell’ong internazionale Human Right Watch sulle incursioni di uomini vestiti di nero, mascherati in voltocon passamontagna e armati che «a bordo di motoscafi veloci dalla costa turca attaccano i barconi di rifugiati e migranti che cercano di raggiungere le isole greche dell’Egeo». Human Right Watch ha raccolto nove testimonianze tra i migranti dei barconi affondati in questo modo e tornati in Turchia, nella città di Izmir. Dicono che gli uomini neri mascherati si rivolgevano ai migranti in inglese — «Stop, stop», intimavano ai guidatori -, prendevano a manganellate i padri e le madri che imploravano pietà almeno per i loro figli e speronavano le imbarcazioni sovraccariche di persone, mandandole a picco. Bill Frelick, direttore del settore Rifugiati di Human Right Watch si chiede come è possibile che le unità di Frontex non intervengano e come può l’Unione europea far finata di niente di fronte a queste denunce invece di impegnarsi a far luce sulla vicenda.

In base ai dati dell’Unicef un migrante su cinque che quest’anno ha cercato di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la ricca Europa è un bambino. Ma quando si va al conteggio dei morti, la percentuale sale a un terzo: dei 3.563 naufraghi accertati di quest’anno nel Mediterraneo, mille erano bambini e minori. Mille Aylan Kurdi, il bambino di quattro anni la cui foto, riverso sulla spiaggia di un’isola greca, ha commosso il mondo intero. In quel pezzo di mare prima di questa ultima strage, altri 185 Aylan erano affogati nello stesso modo.

L’Europa è intervenuta, sì, dando 3,2 miliardi di euro alla Turchia perché, a differenza di quanto ha fatto finora, intervenga per arrestare il flusso dei migranti verso la Grecia. Il primo intervento è stato l’arresto di circa 3mila migranti, una settimana fa, nella città di Ayvacik, cioè a un tiro di schioppo da Cesme, luogo di partenza del gommone naufragato ieri.

Le autorità greche sono distratte dai problemi sul confine a nord, con la Macedonia, impegnate in un brutto braccio di ferro con il governo di Skopje che ha bloccato circa un migliaio di transitanti nella località di confine di Idomeni. Al freddo, senza cibo né servizi i migranti hanno più volte bloccato la ferrovia che collega il porto del Pireo e la sua enorme area industriale di multinazionali con i mercati del Nord Europa.

Fyrom, come si chiama ora l’ex Repubblica macedone, ha in ballo un duro contenzioso economico con Atene: la Grecia quest’estate per frenare la fuga di capitali legata alle paure della Grexit ha bloccato i trasferimenti di capitali, congelando nella «pancia» delle banche greche oltre 6 miliardi di euro di capitali macedoni. I migranti quindi sono usati come arma di ricatto per ottenere lo sblocco dei fondi. Il governo di Skopje però non è l’unico a usare i migranti che premono sulla rotta dei Balcani occidentali per altri scopi, invece di pensare ad aiutarli. Paesi terzi, come il Pakistan, si rifiutano di riaccogliere i «migranti economici» intercettati in Grecia senza un accordo con l’Europa (e relativi fondi)sui rimpatri.

Le renditions continuano a essere esigue sia dalla Grecia che dall’Italia (meno di 200 persone in tutto sono state imbarcate su voli di rientro, su 160 mila che avrebbero dovuto partire).

La Commissione europea, su iniziativa di Francia e Germania, sta mettendo sotto pressione Grecia e Italia affinché attuino i nuovi protocolli di schedatura di massa in funzione anti terrorismo oltre che per frenare l’ondata migratoria. È di ieri la minaccia della Commissione Junker all’Italia: intende aprire una procedura d’infrazione per non aver inserito nel sistema Eurodac il rilevamento delle impronte digitali nei controlli dei richiedenti asilo.

La procedura, salvo ripensamenti dell’ultim’ora, dovrebbe essere aperta già domani. Sempre che sia questo l’obiettivo e non un più invasivo controllo non solo dei migranti ma anche degli spostamenti e contatti dei cittadini europei. Schengen, con l’attuale welfare asimmetrico nei diversi paesi europei, può apparire insostenibile con una recessione che non passa

Dopo Parigi, l’Europa blinda le frontiere. I volontari della rotta balcanica dei migranti invece propongono una giornata europea di azione il 18 dicembre per «aprire le porte».

Una mobilitazione unitaria per dimostrare che c’è un modo diverso per sconfiggere la paura: togliere muri e barriere. Ai confini, nelle comunità, nelle nostre teste. Come hanno fatto i parigini la notte dell’attacco, accogliendo in casa chi scappava. E chi questa estate ha aperto le case e le auto ai migranti.

Parigi ha dato all’Europa la scusa per completare la blindatura delle frontiere, attuando decisioni prese ben prima dell’attacco. E per chiudere l’eccezione della rotta nei Balcani. La rotta balcanica non è stata un regalo della Merkel. E’ stata conquistata dalla marcia dei migranti, la più grande azione di disobbedienza civile nonviolenta in Europa da decenni. E’ stata sostenuta da un movimento nuovo e davvero europeo, capace di stare per mesi sul campo e di trarre dal volontariato forza e credibilità per l’azione politica.

Da questo movimento arriva il grido di allarme: reagire all’attacco di Parigi con la guerra, la militarizzazione, la chiusura delle frontiere, la limitazione delle libertà civili e democratiche è un regalo alla destra estrema. Che è in testa ai sondaggi in Francia, ha conquistato anche la Polonia, e si sente più forte - mentre ogni notte nell’Europa del nord viene dato alle fiamme un alloggio di migranti.

Non è tema per gli addetti antirazzisti, dicono i volontari dei Balcani. Riguarda tutti e tutte. Il rischio di una Europa che reagisce agli attacchi oscurantisti divenTando sempre più nera e forte. Il lusso della frammentazione non è più permesso, bisogna provare a unificare le lotte.

I diritti dei migranti, la pace e la giustizia sociale sono facce della stessa medaglia, visto che l’insicurezza sociale e l’ingiustizia globale alimentano l’ostilità verso lo straniero.

Il testo dell’appello per la proposta di giornata di mobilitazione in tutta Europa è molto breve.

«Attivisti greci, turchi, dei Balcani occidentali e di tutta Europa impegnati sulle rotte dei migranti si sono incontrati a Salonicco. E propongono a tutte le persone, i movimenti, le organizzazioni sociali, i sindacati che non vogliono vivere in un’Europa e in un mondo oscuro, ingiusto e antidemocratico di mobilitarsi e agire il 18 dicembre. “No ai muri. apriamo le porte”. Pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutti e tutte».

L’appello arriva da Salonicco, dove si è appena concluso un incontro organizzato per mettere in comunicazione i volontari della rotta balcanica, il movimento dei convogli da Austria e Germania con attivisti su altre rotte, organizzazioni di diversi paesi e numerose reti europee.

Doveva essere un momento di interscambio sui temi della accoglienza, fra movimenti nuovi e organizzazioni attive da tanti anni. Si è svolto nei giorni in cui a Idomeni la Macedonia ha iniziato a bloccare migliaia di persone, mentre agli abitanti di Bruxelles era vietato uscire di casa.

Quando per Madrid venne il tempo del terrore, in una sola notte un grande movimento rese chiaro che sulle risposte al terrorismo non ci sono larghe intese securitarie ma due campi opposti, quello della pace e quello della guerra. Anche oggi c’è bisogno di una risposta forte e popolare, visibile abbastanza da strappare le persone dalle lusinghe della destra e di dare coraggio agli europei buoni.

In questi giorni le manifestazioni previste per la giustizia climatica, aggiornate ai drammi di oggi, possono fare la differenza. Poi, insieme, confidiamo di riuscire a fare un 18 dicembre all’altezza della sfida. Le porte sono aperte.

«Così procede l'Europa, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolino addomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, verso nuove guerre e nuovi esodi».

Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2015

Gli attentati del 13novembre a Parigi sono stati perpetrati da assassini che hanno storie eprovenienze diverse, e sono tuttavia legati da esperienze comuni di foreignfighters, attratti dalla propaganda e dalle guerre dell’Isis. Molti di essi,intervistati, dicono di appartenere alla “generazione della guerra alterrorismo”: guerra scatenata da noi, cui gli affiliati dell’Isiscomincerebbero a rispondere spargendo sangue fin dentro l’Europa. Sempre dalloro punto di vista, a una guerra che ha ucciso migliaia di civili non si puòche rispondere con una guerra contro i civili europei.
L’Europa reagisce:“Siamo in guerra”. Un annuncio ovvio, la guerra è in corso da 14 anni. Quelche conta è capire come mai quest’ultima ha fallito e come combattere l’Isis.L’Europa reagisce anche con più controlli alle frontiere, e pure questo sarebbeovvio se non tendesse a mescolare rifugiati, richiedenti asilo e aspirantikamikaze, politica della migrazione e strategia antiterrorista.

L’unica guerra
ècontro i migranti

Alcunisostengono che fin dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 siamo alleprese, non solo in Europa, con una “guerra ai migranti”. Ma le fughe di massa ele migliaia di morti in mare e su terra sono il danno collaterale di una seriedi guerre che l'Occidente ha scatenato per ragioni geopolitiche in Afghanistan,Iraq, Libia, e prima ancora in ex Jugoslavia: regioni dove ha provocato, epresentato come soluzione, non la pacificazione che pretendeva ma il tracollodelle strutture statali e la loro settarizzazione, etnica o religiosa.L'Occidente ha acuito i conflitti appoggiando l'Arabia Saudita: è il casodello Yemen. In altri casi i profughi sono vittime di dittature che l'Unionefavorisce. La dittatura dell'Eritrea viene addirittura finanziata dall'Unione(e così per i paesi del “processo di Khartoum” di cui si è parlato al verticeeuropeo di La Valletta) nella speranza che il despota Afewerki trattenga ipropri fuggitivi, in galera o nei campi.

E qui che il discorsogeostrategico e la semantica dei rifugiati si congiungono. Il nome piùcorretto da dare a chi approda in Europa non dovrebbe più essere quello dimigranti, o ancor meno migranti illegali, ma di rifugiati: la percentuale deicittadini aventi diritto a protezione, sugli arrivi illegali via mare inEuropa, è stata quest'anno del 75 per cento, secondo l'Economist, soprattuttodalla Siria e altri Paesi in guerra o sotto dittatura. Ma dovremmo chiamarlicol nome che ha dato loro James A. Paul, ex direttore esecutivo del GlobalPolicy Forum a New York. I siriani, gli iracheni, i libici, gli afghani, sonoregime change refugees, rifugiati nati dalla cosiddetta esportazione dellademocrazia che ha caratterizzato il disordine unipolare a guida Usa nel dopo-guerrafredda. È un'espressione che i governi occidentali non useranno mai perché –spiega James Paul– “l’aggressiva bestia nazionalista dell'establishment deiPaesi ricchi non è disposta a imparare la lezione, e a prevedere la vampa diritorno scatenata da futuri interventi militari”.

La strategia militare del regimechange in Afghanistan, Iraq, Libia, ha prodotto caos e Stati falliti, finendocol dar vita e forza all'Isis. Ma l'esperimento è ricominciato tale e qualecon la grande illusione delle primavere arabe, illusione che a partire dal 2011ha ingenerato la campagna per abbattere in Siria Bashar al Assad, mentre l'Isise le forze siriane di al Qaeda hanno anzi ricevuto finanziamenti Usa. Lacampagna in Afghanistan è stata condotta con l'aiuto del Pakistan, quella inSiria con l'aiuto dell'Arabia Saudita e Qatar: sono gli Stati principali da cuiprovengono – fin dall'11 settembre 2001– i dirigenti sia di al Qaeda, siadell'Isis. Anche nello Yemen, la preoccupazione statunitense è stata dispalleggiare l'Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana. Il 28 settembre, duegiorni prima di intervenire militarmente in Siria, Vladimir Putin ha dettoall'assemblea dell'Onu: “Chiedo a tutti coloro che hanno creato questa situazione: vi rendete almeno conto ora di cosa avete fatto? Temo che ladomanda non riceverà risposta, perché i responsabili non hanno maiabbandonato la loro politica, basata sull'arroganza, l'eccezionalismo el'impunità”. È difficile dargli torto. Ancora non sappiamo l'esito della suacampagna in Siria. Ma l'egemonia Usa e il suo disordine unipolare sono falliti,lasciando in eredità caos e disperate fughe di popoli.

La nuova Europa
è peggio della vecchia

Al “grande gioco” che ha la Siria come epicentro andrebbero aggiunte le questionigeopolitiche interne all'Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003,l'Unione è divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede sestessa come vittima della storia ed è priva di complessi su guerra, pace eautoritarismo. Non che la prima sia aperta ai rifugiati. Ma c'è un vasto arco,a Est, che sembra ignaro della Carta Europea dei diritti o delle ConvenzioniOnu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce muri e impedisceogni passo avanti sulla questione. Nelle sue chiusure, l’Est dell’Unione sisente più che mai rafforzato, in questi giorni, dagli eventi parigini. Parlodella Polonia in prima linea – visto il peso politico che ha nell'Unione –e della Repubblica Ceca, della Slovacchia, dell'Ungheria, dei Baltici. Averallargato l'Unione a questi paesi, senza porre condizioni stringenti eridiscutere i rapporti dell'Europa con la Nato, si sta rivelando una sciagura.La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazionedei richiedenti asilo, ad accettare i piani di ricollocazione, a evitare laconfusione tra rifugiati e terroristi dell’Isis. Il governo slovacco accetta unsiriani, ma a condizione che siano cristiani. Affermazioni simili sono venutedal governo polacco precedente la vittoria di Jarosaw Kaczynski. L'Ungheriacostruisce muri e agita lo spauracchio di una società multietnica. Nei paesibaltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia laminoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali.

Ma il peggio ce lo hariservato Donald Tusk, già premier polacco, oggi presidente del Consiglioeuropeo, che ha pronunciato frasi indegne della carica che ricopre. Il 13ottobre, in una lettera ai colleghi del Consiglio europeo, ha scritto: “Lafacilità eccezionale con cui si entra in Europa costituisce uno dei principalipull factor” per migranti e profughi. Lo stesso argomento fu usato perl'operazione Mare Nostrum: salvava troppe persone e fu affossata per essersostituita da Frontex, che non fa più proattivamente Search and Rescue. Nellastessa lettera, Tusk ha auspicato un accordo con la Turchia sui rimpatri. È laparola d'ordine del momento (“la Turchia ci salverà, diventerà il nostro partnerprivilegiato”): questo proprio nel momento il cui Erdogan sta stabilendo unregime liberticida, colpendo i curdi in Siria e Iraq con la scusa di combatterel'Isis in nome della Nato.
Tusk fa capire chebisognerebbe dare qualcosa a Erdogan: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenerela formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Moscarifiuta”. Dovrebbe rifiutarla anche l'Unione, ma i suoi dirigenti non si pronunciano.In realtà, la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria.Il 22 ottobre, al Congres-so del Partito popolare europeo di Madrid, ilPresidente del Consiglio Ue ha rincarato la dose: “Dobbiamo smettere di farfinta che il grande flusso di migranti sia qualcosa che noi vogliamo, e chestiamo conducendo una politica intelligente di frontiere aperte. La verità èdiversa: abbiamo perso l'abilità di proteggere le nostre frontiere, la nostraapertura non è una scelta cosciente ma è la prova della nostra debolezza”.

Così procede l'Europa –fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza, distorcendo parole ecifre, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolinoaddomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, versonuove guerre e nuovi esodi

Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2015

Vorreiconcentrarmi su due temi generalmente poco trattati (e poco trattati per motivimolto precisi): il peso della geopolitica e delle guerre nella cosiddetta questionemigranti, e l'uso distorto che viene fatto delle parole, quando parliamo delleodierne fughe di massa. Guerre e semantica del rifugiato sono in stretto rapportofra loro.
Ladistorsione della realtà comincia con la stessa parola “migranti”, quindi conil sintagma “questione migranti”. Non c'è praticamente governo né forzapolitica che usi il vocabolo appropriato – “rifugiati” o “persone in fuga”, checorrisponde alla stragrande maggioranza degli arrivi – se si esclude AngelaMerkel. Forse perché conosce bene la storia tedesca del secolo scorso, laCancelliera impiega il termine corretto: Flüchtlinge, rifugiati. Si continua aparlare di migranti, perché così facendo si finge di non dover cambiare nulla esi evita di dire da cosa le persone scappano.
L’ondata diarrivi continua a essere ascritta a una propensione migratoria classica e ilsuo straordinario incremento è visto come un'eccezione, un'emergenza: si trattadi fermare l'onda innalzando dighe e spostando i flussi dei fuggitivi verso ipaesi d'origine, quali essi siano (meglio parlare di flussi che di singolepersone, come quando in economia si parla di fasce o strati della popolazione:dietro flussi e fasce i singoli individui cessano di essere più visibili).Anche onda o invasione sono parole da piazzisti di menzogne: l'arrivo di tantiprofughi e migranti cambierà il volto dell'Europa, ma secondo fonti citate dalGuardian il numero di migranti e profughi arrivati in Europa nei primi mesi del2015 costituisce appena lo 0,027% della popolazione totale dell'Unione. Lamaggior parte dei profughi – l'86% – è accolta da paesi in via di sviluppo, secondol'Unhcr.
Dai diritti garantiti ai diritti in prestito
Nella miaattività di parlamentare europea, constato come nelle varie decisioni dellaCommissione e del Consiglio europeo – specie sui rimpatri – stiano svanendotutti gli accenni al rispetto delle Convenzioni internazionali sui rifugiati,al diritto del mare che prescrive la ricerca e il soccorso dei naufraghi, alnecessario rispetto dei diritti iscritti nella Convenzione europea dei dirittiumani e nella Carta europea dei diritti fondamentali. Si giunge perfino aqualcosa di assolutamente inedito nel diritto interna
zionale:diritti incondizionati, che spettano alla persona umana quale che sia ilcontesto in cui essa vive – diritti inviolabili che la nostra Costituzione adesempio non concede ma “riconosce e garantisce” come preesistenti la stessaCarta – vengono d'un tratto concessi, e solo a determinate condizioni, comefossero dati in prestito.
È quanto hafatto capire Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea: “Noregistration, no rights” – senza registrazione, niente diritti. In altreparole, esistono diritti (a non subire violenze nelle registrazioni e nelprelievo delle impronte digitali, al non refoulement, al rispetto stesso dellavita) che vengono accordati sub condicione anziché riconosciuti e garantitisenza riserve. Tutto deve restare com'era ai tempi in cui le migrazioni eranoessenzialmente economiche, e la figura del profugo non era ancora preminente oera ben inserita negli schemi della guerra fredda. Le menti si paralizzano, ilperché del fenomeno non viene cercato deliberatamente, perché appena lo cerchie lo trovi è inevitabile che le nostre responsabilità vengano alla luce.
Troppo comodo chiamare tutti trafficanti
La stessaConvenzione Onu di Ginevra sullo statuto dei rifugiati impiega un linguaggioche andrebbe riformulato, ma ampliarlo significherebbe ammettere due cose: chesiamo davanti a una nuova realtà rispetto al 1951, quando fu siglata, e che leparole del trattato non sono più sufficienti. La Convenzione fu scritta aitempi della guerra fredda, in ricordo dell'occupazione nazista d'Europa, quandoi fuggitivi da regimi dittatoriali venivano molto facilmente accolti dal mondoche vedeva se stesso come obbligatoriamente libero (basti evocare i boat peoplein fuga dalle guerre del Vietnam e del Laos negli anni '70 e '80). È più chemai urgente rivedere la Convenzione, perché essa garantisce rifugio quandoesiste “il ben fondato timore di persecuzione a causa della propria razza,religione, nazionalità, partecipazione a determinati gruppi sociali o opinionipolitiche”. È ancora del tutto esclusa la fuga necessitata in misura crescentedal caos creato dalle guerre, dai disastrosi piani di riaggiustamento impostidal Fondo monetario ai Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, e inprospettiva dalle catastrofi climatiche che incombono.
Lestorpiature ricorrenti di altre parole sono diretta conseguenza di quest'originariadistorsione sulla figura del migrante-profugo. Si parla dalla scorsa primaveradi lotta allo smuggler, ovvero trafficante, perché ancora una volta ladistorsione semantica ha come scopo quello di occultare l'origine vera dellafuga verso l'Europa e l'occidente, e di giustificare la strategia di respingimentoalle frontiere, rinominata politica di rimpatrio perché il respingimento èproibito dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei dirittifondamentali. Non è un caso se nella lingua francese la parola refoulement,respingimento, ha un significato anche in psicanalisi: significa rimozione.
Lo smugglerè parola acchiappatutto (in Miti d’oggi, Barthes usa l'espressione“parola-mana”) dietro cui si celano figure di vario tipo. Può essere ilprofittatore che estorce denaro con la forza e la frode: è il trafficante. Mapuò anche essere il facilitatore della fuga, che si fa pagare e agiscenell'illegalità, ma con il consenso del fuggiasco. Il trafficante non sta ingenere nei barconi, accumula guadagni ben lontano dalle rotte di fuga. Quel chelo caratterizza, secondo le definizioni dell'Onu, è la violenza esercitatasulla persona, che contro la sua volontà diventa oggetto di traffico o ditratta. Anche lo smuggler-aiutante agisce illegalmente ma il suo ruolo è spessoquello di organizzatore delle fughe. La distinzione era chiara durante ilnazi-fascismo o nei paesi comunisti (soprattutto in Germania Est). NellaGermania nazista e poi in quella comunista i facilitatori venivano chiamati,dai paesi che si predisponevano all'accoglienza dei profughi , “ aiutanti nellafuga”, Fluchthelfer (in francese: passeur). Era il regime comunista tedesco adefinirli “trafficanti”, accusandoli di commettere reato.
Le domande giuste e la responsabilità
La maledizionedi oggi è che tutti vengono criminalizzati allo stesso modo perché il mondo cuisi tende è una sorta di globale amministrazione unica, che ideologicamenteesclude “fuoriuscite” e di conseguenza spazi di accoglienza. La guerra allosmuggler è presentata come
soluzioneprincipale per fermare gli esodi verso l'Europa e l'Occidente, fingendo diignorare che la figura del trafficante appare e si impone quando c'è un vuotodi legalità nelle possibilità di fuga. Non sono gli smuggler che incitano conla forza le persone a mettersi in cammino e scappare. Solo col loro aiuto èpossibile per il fuggiasco arrivare in Europa e chiedervi asilo – imboccandostrade impervie e spesso con documenti necessariamente falsi. Se non trova losmuggler, non resta lì dov'è. Trova il modo di procurarsi il primo mezzo dilocomozione disponibile: meno costoso, e ancora più insicuro dei già infidimezzi precedenti. Chi si rifiuta di aprire vie legali di fuga da guerre,dittature o disastri climatici, concentrandosi invece sulla guerraindiscriminata allo smuggler, contribuisce alla morte di persone umane e neporta la colpa.

Solo con leparole giuste possiamo capire il significato della presente fuga in massa dipopoli. Fuga da che? Da chi? Solo rispondendo a queste domande siamo in gradodi individuare quello che conta: le responsabilità primarie dell'esodo cuistiamo assistendo. Quelle responsabilità sono essenzialmente europee estatunitensi: alludo in particolare alla politica euro-americana inAfghanistan, Iraq, Libia, Siria, e prima ancora in ex Jugoslavia. Ponendo laquestione essenziale – fuga da che? entriamo nella seconda parte del miodiscorso: la parte geopolitica. La geopolitica delle guerre e delle dittature, eanche la geopolitica interna all'Unione europea.
L'illuminata politica dell'UE per "risolvere" la più vicina delle tragedie del secolo: paghiamo i negrieri per salvare gli schiavi.

Il manifesto, 13 novembre 2015

Al vertice di La Valletta tra i leader europei e africani ha vinto il cinismo globale. Noi vi diamo un miliardo e ottocento milioni di euro e voi ci tenete i migranti lontani dalle coste e dai confini della Ue. Non bastano, hanno rilanciato subito i leader africani, i quali si divideranno però la mancia, anche se nessuno sa di preciso come e quando. Qualche tempo fa, Angela Merkel, che pure aveva suscitato grande scalpore e simpatia dichiarando di aprire le porte della Germania ai profughi siriani, aveva fatto una proposta simile al governo turco, il quale ha risposto più o meno picche. Qual è il senso di questo mercanteggiamento sulla pelle di centinaia di migliaia di esseri umani?

Facciamo un passo indietro. Offrire un po’ di quattrini in cambio delle repressione dei migranti da parte dei paesi «di fuori» è prassi ventennale in Europa. L’allora ministro Dini propose nel 1995 di aprire campi di detenzione per «clandestini albanesi» in Albania. Un’idea così insensata che Tirana la lasciò subito cadere. I governi italiani hanno sempre stipulato trattati di riammissione con Tunisia, Libia ecc., per lo stesso «nobile» motivo e infischiandosene se, con Gheddafi e Ben Alì, i migranti venivano vessati, spogliati di tutto e fatti morire nel deserto. Dal 2000 in poi, la prassi è divenuta normale per l’Unione europea. Diciamo che da ieri la politica della Ue verso l’Africa ha gettato trionfalmente la maschera.

Salvini, Le Pen, Grillo, Pegida ecc. diranno che è troppo poco, ma in fondo ammetteranno che questa è la strada giusta. «Aiutiamoli a casa loro!» non era forse uno slogan di Bossi?

Ora, la realtà, secondo stime della World Bank, è che solo una quota minima di migranti sub-sahariani (il 30% del totale) sceglie di spostarsi verso l’Europa, mentre più della metà migrano verso altri paesi africani e una piccola quota in Asia In altre parole, anche l’Africa è soprattutto terra di immigrazione. Analogamente, gran parte dei rifugiati e profughi di guerra è ospitata non in Europa, ma in Turchia, Giordania, Libia o e così via. Come spiegare allora il vertice di La Valletta?

Si tratta di una sorta di esternalizzazione preventiva, il cui scopo è scaricare sui paesi africani il controllo sia dei loro migranti e profughi, sia di quelli, provenienti dall’Asia, che scegliessero le rotte africane dopo la chiusura delle frontiere mediterranee e balcaniche. E come? In sostanza, incarcerando migranti e profughi, in lager vecchi o nuovi, grazie alla carità pelosa della Ue, in attesa che la situazione in Tunisia, Libia (e Siria) si chiarisca, magari con qualche bombardamento o intervento limitato. D’altronde, niente di nuovo sotto il sole: è da una quindicina d’anni che paesi come il Marocco o la Tunisia allestiscono Cpt a vantaggio dell’Europa.

E così lo scenario che si disegna è quella di un continente di 480 milioni di abitanti che dice di andare in crisi per l’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone, che sigilla le frontiere nei già turbolenti Balcani provocando una crisi dopo l’altra tra Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia ecc., che si fa condizionare da nazisti o da gente alleata di Casa Pound, che dice di combattere i trafficanti per tener fuori migranti e profughi – e che soprattutto sta militarizzando il Mediterraneo, intasandolo di fregate e cannoniere, manco fossimo nel caos che ha preceduto la prima guerra mondiale.

Queste centinaia di migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra o della fame sono divenuti merce di scambio e ricatto politico tra maggioranze e opposizioni, tra governi europei e potenze emergenti, tra Ue e stati africani o asiatici. Un bambino morto su una spiaggia turca emoziona il mondo, ma l’emozione sfuma in pochi giorni e lascia lo spazio a queste tremende burocrazie europee e statali con le loro organizzazioni e nuove missioni dai nomi dementi, Frontex, Triton, Eunavfor Med e altre che inevitabilmente impareremo a conoscere. Tutte prive di senso rispetto al loro obiettivo sbandierato di salvare vite umane, ma tutte coerenti nel controllare, registrare e internare.

In questo panorama di sigle, dichiarazioni, accordi, leggi prive di senso, facce feroci di ministri e migliaia di poveri annegati, spicca il sorriso vacuo di Renzi. Certo l’Italia non è più sola. È davvero in buona compagnia.

«Contro rimpatri forzati e aiuti condizionati, le proposte delle Ong».

Il manifesto, 12 novembre 2015 (m.p.r.)

Le associazioni europee e africane che si occupano di migranti e di diritti umani, incluso quelle tunisine che hanno vinto il Nobel per la Pace, non sono state accreditate al vertice di La Valletta, pur avendolo chiesto insistentemente. Non possono neanche assistere al dibattito dentro il Mediterranean Conference Centre della capitale maltese tra i capi di Stato e di governo africani e europei chiamati a decidere misure di lungo termine che modificheranno nel profondo gli sviluppi delle rispettive società.

Tutti agli arresti domiciliari, senza libertà di muoversi, divisi i «buoni» dai «cattivi» in base alla nazionalità: così la tecnocrazia immagina la gestione del fenomeno migratorio. Vedremo gli esiti ma già la loro non ammissione, la dice lunga sulla democraticità delle procedure e pare normale solo in un’Europa trasformata in una grande «zona rossa». Anche perché le organizzazioni della società civile, sia laiche sia cattoliche, che ieri hanno comunque presentato le loro ragioni in conferenze stampa e convegni, rivolgono al summit di Malta sostanzialmente le stesse critiche di fondo: primo, il flusso di profughi non può essere arrestato con muri, fili spinati, guardie di frontiera, per quanto ipertecnologiche, o Hotspot. Secondo, per modificare le motivazioni della fuga di massa delle persone da carestie e guerre e ridare senso di convivenza anche all’Europa si deve adottare un «nuovo ordine mondiale umanitario».
La dizione è stata usata ieri dal Gran Cancelliere dell'Ordinedi Malta, Albrect Freiherr von Boeselager, presentando la conferenza Popoli in fuga dalla guerra: soccorso, assistenza, integrazione organizzata in preparazione del World Humanitarian Summit dell'Onu previsto a Istanbul a maggio. «La situazione per i migranti sta diventando sempre più disperata: con l'arrivo dell'inverno queste persone sono esposte a rischi maggiori per la loro salute. Erigere muri non servirà a gestire questo fenomeno», ha detto von Boeselager. E Sandro Gozi, sottosegretario agli Esteri di Palazzo Chigi, ha ammesso che «usare la parola emergenza per definire il fenomeno dei migranti significa o non capire la situazione o essere in mala fede o fare demagogia».
A trarre le conclusioni di questo ragionamento e a proporre altre strade d’intervento rispetto a quelle dei rimpatri forzati e degli aiuti ai paesi africani e mediorientali condizionati alla limitazione dei flussi di migranti, che sono i caposaldi della nuova politica di cooperazione studiata dai tecnocrati di Bruxelles, è un cartello di associazioni, ong e sindacati di cui fa parte anche l’Arci e la Cgil. Ieri i rappresentanti italiani di questo cartello hanno illustrato a Montecitorio la dichiarazione comune con cui contestano l’approccio del summit euro-africano sulla migrazione di Malta, che - dicono - sta esponendo l’Europa a un drammatico fallimento. In particolare, si legge ancora nella «chiamata urgente per i leader europei e africani», è inquietante che le negoziazioni bilaterali, che si tengono a La Valletta parallelamente all’agenda ufficiale del vertice siano nell’ombra, oscurate da una cappa di riserbo.
Un do ut des senza reale trasparenza, che lascia trasparire il mantenimento di logiche di corruzione molto diffuse nei rapporti post e neo coloniali. Anche secondo Lia Quartapelle, coordinatrice (renziana) dell’intergruppo parlamentare sulla cooperazione internazionale, la condizionalità degli aiuti ai paesi africani semmai deve riguardare il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, incoraggiando l’evoluzione dei regimi ora dittatoriali come l’Eritrea. Lo scopo degli aiuti - ripete Quartapelle - deve essere facilitare la rimozione delle cause che spingono tante persone a fuggire dalla loro terra. L’obiettivo della Ue è invece fermare la migrazione cosiddetta irregolare ma questo con interventi meramente repressivi o «dissuasori», senza offrire alternative concrete di accesso alla mobilità legale, in linea con i processi di Rabat e Khartoum, spiegano le ong.
«Sono state lacrime di coccodrillo quelle dei governanti europei sulla morte del piccolo Aylan Kurdi», sbotta Filippo Miraglia dell’Arci, che elenca le proposte da inviare al summit e al governo: accessi legali e corridoi umanitari, ripristinare le regole d’ingaggio di Mare Nostrum - rescue - per le missioni nel Mediterraneo, abolire le regole di Dublino «che producono clandestinità e nuove Gestapo negli hotspot», una legge europea sul diritto d’asilo, un piano di accoglienza europeo in modo da eliminare i campi profughi lungo le frontiere, abolire la Bossi-Fini. «Perché chi fugge da fame e carestia non è un criminale e ha lo stesso diritto di essere accolto di chi fugge dalla guerra».
«L’ex premier britannico, intervistato dalla Cnn, ammette una serie di errori. Dai dossier sulle armi di distruzione di massa al diffondersi del terrorismo islamico». Ma per i governanti non è vero che "chi rompe paga".

La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)

Londra. Dodici anni dopo la controversa invasione che è costata centinaia di migliaia o forse milioni di vite umane, e il posto di primo ministro a lui, Tony Blair dice: «I am sorry». L’ex leader laburista chiede scusa, anzi tre volte scusa: per gli errori dello spionaggio britannico che avevano attribuito a Saddam Hussein il possesso di armi di distruzione di massa (la ragione ufficiale per l’intervento militare del Regno Unito accanto agli Stati Uniti), per errori nella pianificazione della guerra e per la mancata comprensione di quelle che sarebbero state le conseguenze del conflitto, ovvero per l’instabilità che ha sconvolto l’Iraq e le regioni circostanti.

Di fatto Blair ammette la propria responsabilità anche per l’ascesa del fanatismo islamico, incluso il sorgere dell’Is, il sedicente Califfato dei jihadisti che oggi controlla parte dell’Iraq e della Siria. Ma l’ex premier continua a rifiutare di scusarsi per avere abbattuto Saddam. Un mea culpa parziale ma pur sempre clamoroso, fatto in una lunga intervista alla , la rete televisiva Usa di sole news, con una serie di dichiarazioni rimbalzate al di qua dell’Atlantico che ieri occupavano la prima pagina del Mail on Sunday, del Sunday Times e di altri giornali inglesi. Un rilievo comprensibile, considerato che è la prima volta che Blair chiede formalmente scusa e ammette sbagli nella organizzazione e gestione della guerra in Iraq, oltre che del dopoguerra.
Parole che fanno tanto più notizia dopo che, qualche giorno fa, proprio un quotidiano di Londra ha rivelato un memorandum segreto della Casa Bianca in cui Blair, un anno prima dell’entrata in guerra, si era di fatto impegnato con l’allora presidente americano George W. Bush a partecipare al conflitto come alleato degli Stati Uniti in qualunque caso e circostanza. Cioè indipendentemente dalle motivazioni ufficiali - il possesso di armi chimiche o biologiche - in seguito usate da Downing street per convincere il parlamento britannico e l’opinione pubblica del proprio paese ad approvare la guerra.
Tenuto conto che è poi emerso che Saddam Hussein non aveva armi di distruzione di massa, gli ha chiesto la , ritiene che la guerra in Iraq sia stata un errore? «Mi scuso per il fatto che l’intelligence da noi ricevuta al riguardo fosse sbagliata. E mi scuso per alcuni degli errori che abbiamo fatto nella pianificazione e, certamente, per il nostro errore nel non comprendere cosa sarebbe accaduto in Iraq una volta che Saddam fosse stato rimosso dal potere. Ma faccio fatica a scusarmi per avere rimosso Saddam».
E a una domanda successiva, sulla responsabilità della guerra in Iraq sul diffondersi dell’estremismo islamico anti-occidentale e in particolare all’ascesa dell’Isis, Blair risponde: «Penso ci siano elementi di verità in una simile visione. Non si può dire, naturalmente, che quelli di noi che hanno rimosso Saddam non hanno responsabilità per la situazione che si è creata (nella regione, ndr) nel 2015».
L’ex premier non accetta di essere chiamato un «criminale di guerra » per i morti e i danni materiali causati dal conflitto e rivendica il fatto di avere vinto un’elezione (la sua terza consecutiva) dopo la guerra; ma riconosce che l’Iraq è stato «un enorme problema politico» per lui.
In effetti è stato il problema che gli ha fatto perdere il posto, perché senza le polemiche sulla guerra difficilmente il suo vice Gordon Brown sarebbe riuscito a costringerlo a dimettersi nel 2007 per sostituirlo a Downing street: è verosimile che Blair sarebbe rimasto ancora al potere e avrebbe cercato di vincere una quarta elezione, contro il conservatore David Cameron, nel 2010. Come che sia, oltre a pesare sul giudizio della storia, il “mea culpa” di Blair potrebbe pesare sull’inchiesta ancora in corso sulla guerra in Iraq, affidata a una commissione indipendente britannica. Due precedenti inchieste governative avevano assolto Blair da ogni responsabilità e particolarmente dal sospetto di avere tramato insieme ai capi dei servizi segreti per gonfiare il dossier sui presunti armamenti di distruzione di massa in mano a Saddam. Ma 12 anni dopo l’Iraq continua a essere lo spettro che tormenta il laburista di maggiore successo elettorale della storia.
«I migranti rifiutano l’identificazione. E tra le tante domande senza risposta la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se chi sbarca col volto stravolto e occhi imploranti è profugo o migrante economico? Siria sì, Nigeria no».

La Repubblica, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)

Lampedusa. I primi quindici migranti sono già scappati. Identificati qui nell’ hotspot sperimentale di contrada Imbriacola, inseriti nel registro delle quote europee, trasferiti sulla terraferma, nell’hub di Villa Sikania a Siculiana (Agrigente) in attesa di essere inviati nel Paese di destinazione. Scappati. Via, a cercare il primo treno o a farsi prelevare dall’autista dell’organizzazione di trafficanti per l’ultima tratta del loro viaggio nel tentativo di raggiungere la destinazione scelta da loro. E non dall’Europa.

Esattamente come succedeva prima del 21 settembre, quando è partita la sperimentazione del primo dei sei hot spot chiesti dall’Europa per l’identificazione dei migranti che arrivano dal Canale di Sicilia: Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta,Taranto. E qui a Lampedusa l’atmosfera è già tesa. Non solo perché, come non accadeva più da tempo, gli ospiti in pochi giorni sono già oltre 600, impauriti dal diffondersi delle voci di meningite, già smentiti dai medici dopo gli esami a cui sono stati sottoposti una dozzina di migranti arrivati con sintomi preoccupanti.
C’è tensione perché nessuno sa come fare a mettere in pratica quelle che, sulla carta, sarebbero le direttive europee. «Come dovremmo fare a convincere questi migranti a lasciarsi identificare e a farsi prendere le impronte? Non possiamo obbligarli e lo sanno tutti che la maggior parte di loro non intende farlo neanche ora con la prospettiva delle quote, che per altro non sanno neanche cosa sono», dice uno degli operatori da 48 ore alle prese con un gruppo di 300 eritrei sbarcati da una delle navi che pattugliano il Canale di Sicilia.
Eritrei, ma soprattutto egiziani, nigeriani, senegalesi, marocchini, pachistani. Di siriani sui barconi che affrontano la traversata non se ne vedono più da settimane. Gli ultimi “arrivi” dirottati sui porti siciliani non partono neanche più dalla Libia. Le barche hanno ripreso a salpare dai porti egiziani, trasportano per lo più “migranti economici” che, difficilmente, nelle prime 48 ore in un hotspot potranno dimostrare di avere diritto a chiedere protezione internazionale. E che, quindi, in teoria dovrebbero essere respinti immediatamente. Ma come,e soprattutto quando? Se lo chiedono a Lampedusa dove, tra la gente, ha ripreso a serpeggiare il timore che, nel giro di pochi mesi, l’isola possa tornare a essere assediata da migliaia di persone vista l’oggettiva difficoltà ( anche in assenza di accordi bilaterali con i Paesi coinvolti) di organizzare rimpatri di massa.
«Hot spot, hub rischiano di rimanere parole vuote - dice il prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, da due anni impegnato personalmente nella trincea dell’accoglienza ai migranti - l’Europa deve avere chiaro che qua noi innanzitutto salviamo vite umane. Se si vuole caricare sulla prima linea anche questo lavoro, bisogna innanzitutto investire in risorse. Non si può chiedere all’Italia, alla Sicilia di fare hot spot a costo zero. Qualcuno lo sa cosa significa identificare queste persone? In un’ora se ne possono fare sei, sette. Con i numeri che abbiamo significa caricarci di centinaia di ore di lavoro senza alcuna certezza. E se, come spesso accade, i migranti si rifiutano di farsi prendere le impronte, gli operatori delle forze dell’ordine non hanno altro da fare che una cosa inutile e formale: farsi dire dal migrante il nome che vuole, annotarlo e poi, dopo 48 ore, lasciarlo libero.La legge non prevede altro, noi non abbiamo nessuno strumento per trattenerli. In teoria si dovrebbe arrivare alle espulsioni, in teoria».
Al momento, dunque, si naviga a vista. Al centro di accoglienza di contrada Imbriacola di Lampedusa, nelle due stanze approntate a tempo record dalla questura di Agrigento lavorano solo i poliziotti della scientifica. Così come avveniva prima. Del pool di esperti che dovrebbe arrivare da Frontex, da Europol, dall’Eso, non c’è ancora alcuna traccia. E tra le tante domande senza risposta che qui, e presto anche negli altri hot spot, ci si trova ad affrontare la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se questi uomini e donne che sbarcano con i volti stravolti e gli occhi imploranti sono profughi o migranti economici? Siria sì, Nigeria no.
Sarà anche per questo che adesso tutte le nigeriane che arrivano dicono di essere scappate da Boko Haram.
«Secondo le regole europee i rifugiati hanno diritto di scappare dalla guerra eppure una direttiva impedisce alle compagnie aeree di prenderli a bordo senza rischiare pesanti sanzioni».

Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2015 (m.p.r.)

Il mese scorso verrà ricordato come un momento di svolta nel dramma dei migranti in Europa. La Germania ha di fatto sospeso per i rifugiati siriani Dublino II, il trattato Ue che obbliga i richiedenti asilo a farsi registrare nel primo Paese in cui arrivano. Per di più si è impegnata a non mettere un tetto al numero dei rifugiati disposta ad accettare sfidando gli altri Paesi europei a fare un passo avanti. Da anni l’opinione pubblica vede rifugiati che muoiono in barconi sovraffollati e pericolanti che tentano di attraversare il Mediterraneo. Immagini del genere arriveranno ancora. I trafficanti di persone continueranno ancora a farsi pagare migliaia di dollari per imbarcare migranti disperati sulle loro carrette del mare.
Questo accade perché la principale ragione per cui i migranti scelgono le pericolose imbarcazioni, la Direttiva 51/2001/CE, non ha in vista emendamenti e non darà nemmeno adito ad un dibattito. La direttiva Ue è stata approvata nel 2001, stabilisce che i vettori - di compagnie aeree o navali - hanno la responsabilità di garantire che gli stranieri diretti verso l’Unione europea siano i possesso di documenti di viaggio validi. Qualora i viaggiatori arrivino nella Ue e vengano respinti, le compagnie aeree sono tenute a pagare il biglietto di ritorno in patria. Inoltre le compagnie aeree possono vedersi comminare un multa che va dai 3000 ai 5000 euro. Per evitare le sanzioni, le compagnie aeree sono diventate diligenti nell’impedire a chi non è provvisto di passaporto o visto d’ingresso di imbarcarsi sui loro aerei.
Pensata per combattere l’immigrazione clandestina, la direttiva sembra fare una eccezione per i richiedenti asilo: “l’applicazione di questa direttiva”, dispone l’articolo 3, “non modifica le obbligazioni derivanti dalla Convenzione di Ginevra per ciò che concerne lo status di rifugiati”. Ma il personale delle compagnie aeree non è qualificato per valutare lo status di chi sostiene di essere un rifugiato e le compagnie preferiscono sbagliare per eccesso di cautela. In pratica, la disposizione si riduce a poco più di una affermazione di principio senza conseguenze pratiche. Di conseguenza, grazie alla direttiva, l’Unione europea è riuscita a liberarsi della responsabilità di esaminare le richieste della maggior parte dei richiedenti asilo scaricandola sulle compagnie private.
La conseguenza è che il primo filtro invece di essere gestito da funzionari competenti è generalmente affidato agli impiegati dei check-in che dalle loro compagnie di appartenenza ricevono l’ordine di rifiutare l’imbarco a chiunque non dimostri in maniera inoppugnabile che ha il diritto di recarsi in un Paese europeo. Questo atteggiamento funge da deterrente – e spinge le persone nelle braccia delle carrette del mare. Le famiglie non hanno altre ragioni per pagare migliaia di euro per imbarcarsi su una trappola mortale galleggiante invece delle poche centinaia di euro che costerebbe un breve e comodo volo.
Se l'Europa vuole davvero impedire altri morti in Mediterraneo deve abrogare la direttiva o, quanto meno, sostituirla con disposizioni più umane e giuste. Tanto per cominciare la Ue i suoi Stati membri debbono assumersi la responsabilità di esaminare le richieste dei rifugiati invece di affidare questo compito alle compagnie aeree. La Ue deve anche eliminare le sanzioni a carico delle compagnie aeree che fanno entrare rifugiati in Europa. Infine, i costi del rimpatrio - laddove necessari - vanno suddivisi tra Stati membri e Ue. L’abolizione delle restrizioni sui viaggi aerei potrebbe potenzialmente far aumentare il numero di richiedenti asilo.
L’Europa dovrebbe essere in grado di fare fronte a tale incremento. La Germania sta già abolendo i tetti al numero di rifugiati che è disposta ad accogliere e promette di ridurre in maniera significativa i tempi di esame delle richieste di asilo. Altri Stati membri potrebbero seguire l’esempio introducendo procedure più rapide per l’esame delle richieste di asilo e, se necessario, per il rimpatrio. La Ue può sostenere i Paesi membri istituendo una infrastruttura europea con il compito fungere da primo filtro dei rifugiati – affidandola a funzionari pubblici esperti e non agli addetti al check-in degli aeroporti – e un fondo comune europeo per far fronte ai costi di rimpatrio.
Questo sistema moltiplicherebbe la documentazione, i controlli e la possibilità di seguire i casi: è più facile registrare e seguire gli spostamenti di chi arriva in un aeroporto che di coloro che sbarcano su spiagge deserte e fanno del loro meglio per non farsi individuare fino al raggiungimento della destinazione desiderata. In alternativa la Ue potrebbe creare strutture di accoglienza e controllo in Paesi sicuri fuori della Ue garantendo un viaggio senza rischi ai potenziali migranti – sebbene sia difficile individuare un Paese disposto a svolgere questo compito a beneficio dell’Unione Europea.
Se l'Europa desidera che non muoiano più migliaia di persone in Mediterraneo, non basta aspettare sulla spiaggia con le coperte o inviare imbarcazioni di salvataggio. Se l’Europa vuole che la gente smetta di annegare, deve consentire a questa gente di volare.
(Traduzione di Carlo Antonio Biscotto)

Dimi Reider è un giornalista e blogger israeliano, co-fondatore di

+972 Magazine. È anche un associate fellow del European Council on Fo re i g n Relations (ECFR), sul cui sito è pubblicata la version e integrale di questo articolo, uscito negli Usa sulla rivista Foreign Affairs

Una forte denuncia del comportamento dell'Ue di fronte al dramma e all'occasione storica dell'Esodo. «L’alternativa alla dissoluzione dell'Ue è l’abbandono dell’austerità e il varo di un piano per l’inserimento sociale e lavorativo di profughi, migranti e cittadini».

Il manifesto, 25 settembre 2015, con postilla

I governi dell’Unione euro­pea non ave­vano pre­vi­sto le con­se­guenze del caos e delle guerre che hanno gene­rato l’attuale flusso di pro­fu­ghi. Hanno pre­valso, ieri e oggi, cini­smo e irre­spon­sa­bi­lità. E gli ultimi ver­tici dell’Unione hanno preso o stanno per pren­dere tre deci­sioni mise­ra­bili: fare la guerra agli sca­fi­sti, pre­lu­dio all’estensione del fronte di guerra a tutta la Libia e oltre; ren­dere le fron­tiere esterne dell’Unione imper­mea­bili ai pro­fu­ghi (lo esige il pre­mier unghe­rese Orban); imporre quote obbli­ga­to­rie di pro­fu­ghi a tutti gli Stati mem­bri, come se ci fosse da spar­tirsi un carico di emis­sioni o di mate­riali inqui­nanti, e non per­sone al cul­mine delle loro sof­fe­renze. Ma l’accoglienza è un’altra cosa, richiede rispetto, dignità, diritti, e poi anche casa, lavoro, istru­zione e tutele, cose per cui la Com­mis­sione non pre­vede né stan­dard comuni né stan­zia­menti. La guerra agli sca­fi­sti libici è un alibi, un’infamia e un crimine.

E’ un alibi: si vuol far cre­dere che le maniere forti pos­sano sosti­tuire l’accoglienza che non c’è. E per ridi­men­sio­nare i flussi — e risol­vere la que­stione – si conta di acco­gliere i rifu­giati (quelli che pro­ven­gono da paesi “insi­curi”, in guerra) e di respin­gere i migranti (quelli che pro­ven­gono da paesi defi­niti “sicuri”). Anche Prodi ha ricor­dato che nes­suno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afgha­ni­stan o Kur­di­stan – è sicuro; e anche il mini­stero degli esteri avverte i turi­sti che tutti i paesi da cui pro­ven­gono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e vio­lenza per fug­gire dal loro paese è per­ché là non pos­sono più vivere.

E’ un’infamia, per­ché nasconde il fatto che se venis­sero appron­tati cor­ri­doi uma­ni­tari per per­met­tere a chi fugge di rag­giun­gere in sicu­rezza l’Europa, gli sca­fi­sti di mare e di terra non esi­ste­reb­bero e si sareb­bero evi­tate decine di migliaia di morti. E’ un cri­mine, per­ché fer­mare gli sca­fi­sti in Libia (nes­suno, però, ha pro­po­sto di bom­bar­dare quelli della Tur­chia, altret­tanto spie­tati), posto che sia fat­ti­bile, signi­fica ricac­ciare i pro­fu­ghi nel deserto, con­dan­nan­doli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti.

D’altronde gli hotspot pre­tesi da Jun­ker e Angela Mer­kel in cam­bio delle quote di rifu­giati da smi­stare in Europa sono la men­zo­gna con cui si intende dimez­zare il numero da acco­gliere, sba­raz­zan­dosi di coloro a cui non verrà rico­no­sciuto lo sta­tus di rifu­giati. Ma come si fa a rim­pa­triarne così tanti? E in paesi con cui non esi­stono accordi di rim­pa­trio e dove spesso non ci sono nem­meno auto­rità a cui ricon­se­gnarli? Appena sbar­cati, se non saranno impri­gio­nati o sop­pressi, ripren­de­ranno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta.

Evi­dente è la gara tra gli Stati dell’Unione per sca­ri­carsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nes­suno vuole accol­larsi. Ma la vera con­tro­par­tita delle quote è che chi non rien­tra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rim­pa­triato, dovrà far­sene carico il paese di arrivo: Ita­lia o Gre­cia; paesi che, anche se voles­sero, non potreb­bero cir­con­dare di filo spi­nato le pro­prie coste come l’Ungheria fa con i suoi con­fini. La Spa­gna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Gre­cia dell’ex mini­stro Avra­mo­pou­los, ai con­fini con la Tur­chia; Fran­cia e Regno Unito a Calais; la Bul­ga­ria ha schie­rato l’esercito; Ger­ma­nia, Austria, Slo­ve­nia, Croa­zia, Repub­blica Ceca e Fran­cia cer­cano di chiu­dere le fron­tiere… Così, anche se Angela Mer­kel lascia cre­dere di avere forze e mezzi per affron­tare la situa­zione, la solu­zione con cui ripro­pone la sua lea­der­ship sull’Unione ne asse­gna i van­taggi alla Ger­ma­nia e ne sca­rica i costi sui paesi più deboli ed espo­sti. Pro­prio come con l’euro.

San­zioni inci­sive, fino all’espulsione, con­tro gli Stati che rifiu­tano le quote — peral­tro già ora insuf­fi­cienti — sareb­bero altret­tanto rischiose per la coe­sione che accet­tare che cia­scuno vada per conto suo. Così, se il feroce brac­cio di ferro con la Gre­cia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione por­ta­trice di van­taggi e benes­sere per tutti i suoi mem­bri, la vicenda dei pro­fu­ghi sta dando il colpo di gra­zia all’unità di una aggre­ga­zione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza.

Tra­sfor­mare l’Europa in for­tezza signi­fica aval­lare e pro­muo­vere lo ster­mi­nio per mare e soprat­tutto per terra di chi cer­cherà ancora di fug­gire dal suo paese; mol­ti­pli­care ai con­fini del con­ti­nente caos e guerre che tra­ci­me­ranno in Europa: con altri pro­fu­ghi, ma anche con ter­ro­ri­smo e aspri con­flitti sociali; e con­se­gnare al raz­zi­smo il governo degli Stati dell’Unione sem­pre più divisi. Chiun­que sia a gestirli: destre, cen­tri o “sinistre”.

Ma si può acco­gliere cen­ti­naia di migliaia, e domani milioni di pro­fu­ghi senza un pro­gramma di inse­ri­mento sociale: casa, lavoro, red­dito, istru­zione e diritti per tutti? Si può “tenerli lì” per anni a far niente, in siste­ma­zioni di for­tuna (che in Ita­lia stanno arric­chendo migliaia di pro­fit­ta­tori) o in car­ceri come i Cie? Ne va innan­zi­tutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intol­le­ra­bile per tanti cit­ta­dini euro­pei che abi­tano e lavo­rano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza red­dito, abban­do­nati dallo Stato. E’ il modo migliore per ali­men­tare tra loro ran­core, rigetto e razzismo.

Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi afri­cani e medio­rien­tali e i loro abi­tanti, e soprat­tutto cerca di sba­raz­zarsi di quelli di loro che vogliono diven­tare, e già si sen­tono, cit­ta­dini euro­pei, è la nega­zione di tutto ciò che la Comu­nità, e poi l’Unione euro­pea, sem­bra­vano pro­met­tere con il richiamo ideale allo spi­rito di Ven­to­tene. L’alternativa a que­sto pro­cesso di dis­so­lu­zione non può essere che l’abbandono delle poli­ti­che di auste­rità e il varo di un grande piano euro­peo per l’inserimento sociale e lavo­ra­tivo sia di pro­fu­ghi e migranti che dei milioni di cit­ta­dini euro­pei oggi senza lavoro, senza casa, senza red­dito, senza futuro; affi­dan­done la gestione a quelle strut­ture dell’economia sociale e soli­dale che hanno dimo­strato di saperlo fare. Ma è anche la con­di­zione irri­nun­cia­bile per aiu­tare i pro­fu­ghi a costi­tuirsi in base sociale e punto di rife­ri­mento poli­tico per la ricon­qui­sta alla pace e alla demo­cra­zia dei loro paesi di ori­gine; per l’allargamento all’area medi­ter­ra­nea e nor­da­fri­cana di un’Unione euro­pea da rifon­dare dalle radici.

I con­te­nuti di quel piano non pos­sono che essere le misure e gli inve­sti­menti neces­sari per far fronte agli impe­gni sul clima da assu­mere alla pros­sima “Cop-21″ di Parigi, se si vuole che l’Europa fac­cia la sua parte per argi­nare una cata­strofe immi­nente. Sono misure in grado di dare lavoro, red­dito e siste­ma­zione a tutti: pro­fu­ghi, migranti e cit­ta­dini euro­pei. Un piano del genere, che ha una dimen­sione eco­no­mica, ma deve avere soprat­tutto un risvolto sociale e una arti­co­la­zione fon­data sull’attenzione alle per­sone e alle vicende indi­vi­duali di cia­scuno, non può essere dele­gato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logi­che del mer­cato. Deve nascere, rapi­da­mente, da un con­fronto tra tutte le forze sociali impe­gnate sul fronte del cam­bia­mento e tro­vare in un sog­getto attua­tore ade­guato. Che non può essere che la rete euro­pea dell’economia sociale e soli­dale. Per tra­dursi al più pre­sto in una piat­ta­forma poli­tica da pro­porre e soste­nere in alter­na­tiva alle scelte spie­tate e para­liz­zanti di que­sta Europa.

postilla

Non è la prima volta che Guido Viale (e molti degli intellettuali che hanno dato vita ad "Altra Europa con Tsipras") affrontano il tema del gigantesco trasferimenti di persone dal Sud del mondo all'Europa in connessione con la proposta di un "nuovo
New Deal" europeo. L'obiettivo della proposta non è solo quello di dare concreta ospitalità alle differenti forme e soggetti dell'Esodo del XXI secolo (persone in fuga per guerre guerreggiate, per lesione dei diretti umani, per miseria e carestie, persone che vedono l'Europa come una dimora transitoria oppure definitiva) ma è anche quella di trovare un impiego socialmente e umanamente utile alla gigantesca risorsa costituita dalla forza lavoro che affluisce verso l'Europa. e che è da ciechi, oltre che da miserabili, pensare di poter ridurre nella quantità. Certo, per immaginare e realizzare un simile programma occorrono due convinzioni pregiudiziali: (1) bisogna credere che il lavoro dell'uomo è una risorsa indispensabile per comprendere e trasformare il mondo; (2) bisogna aver appreso dai fatti che né il Mercato né uno Stato che del mercato sia lo strumento sono capaci di cimentarsi in una simile impresa.

«Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati».

La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così ne Gli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.

Si può fare di più. Una società civile matura deve essere capace di superare ogni ostacolo e appartenenza, deve saper compattarsi e reagire con forza, senza esitazione e senza distinguo. In Italia questo tipo di realtà di base esiste, il terreno è fertile, ma non può dare frutto se non è dissodato. Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati che lo separano dagli altri suoi componenti e quindi in qualche modo rinuncia a un pezzo della propria “sovranità” per condividere - con le altre associazioni, sindacati, parrocchie, comitati locali, partiti e chiunque lo voglia - la missione civile di dare tutta l’assistenza, l’aiuto e l’amicizia di cui ha bisogno chi arriva, disperato, impaurito, scosso, morto di fatica e distrutto nell’anima. Un’aggregazione dal basso che si faccia carico di creare le condizioni per realizzare quell’accoglienza che non può essere lasciata nelle mani di prefetti e sindaci proprio perché non passa solo da strutture e numeri ma richiede una comunità accogliente.
Nel piccolo l’associazione che rappresento, Slow Food insieme alla rete di Terra Madre, sta rispondendo a livello europeo, in particolare in Germania, Francia e Belgio. Perché se da un lato c’è un preoccupante stallo della politica, finora inadeguata, dall’altro c’è anche un diffuso senso di impotenza da parte di chi invece è motivato da un afflato solidale. Tante persone che, al contrario di chi è animato da intolleranza ignorante, vorrebbero fare qualcosa di utile e solidale ma non sanno come agire o a chi rivolgersi. È necessario, improrogabile, auspicabile creare situazioni di accoglienza stabili e durature, per stemperare gli attriti, offrire risposte, lavorare in direzione di un’integrazione civile e pacifica. Bisogna attivarsi.
Nel mio Piemonte, dove in un passato neanche tanto lontano fatto di migrazioni interne si leggeva sui portoni delle case “non si affitta ai meridionali”, sono già tanti gli esempi virtuosi. Associazioni, parrocchie che hanno risposto all’appello del Papa, comitati spontanei, semplici cittadini che si sono mossi, e bene. L’Arci, per esempio, si sta attivando con tenacia accanto alla Caritas attraverso uno straordinario impegno di volontari. Cito ancora, sempre a mo’ di esempio, soltanto il caso del Centro policulturale Baobab in via Cupa a Roma, che ha saputo mettere insieme tante diverse realtà, compreso il quartiere in cui si trova, per accogliere moltitudini di bambini che viaggiano soli e che devono raggiungere le loro famiglie già in Europa, riuscendo anche a coinvolgere i migranti nella gestione del centro stesso. Tanti pezzi di quella che si descrive come società civile si stanno mettendo insieme, in maniera magari disordinata ma spontanea e generosa.
Penso che da questo punto di vista, in considerazione anche della grande tradizione solidaristica della sinistra italiana, si possa ricostruire e far nascere, in un contesto straordinario, per così dire “interassociativo”, un nuovo soggetto che nobiliti la politica nella sua capacità di essere concreta quando è fatta e ispirata dal basso, dall’intraprendenza dei semplici cittadini.
C’è bisogno di concretezza assoluta, velocità nell’agire, totale apertura verso l’altro, vicino o lontano che sia. Dobbiamo affrontare un disastro? Una crisi? No. È il mondo che cambia, che sembra impazzire in fretta. È la nuova Grande Guerra in corso. Non siamo adeguati a rispondere costruttivamente, per come sono organizzate le nostre società. C’è bisogno di generare casi virtuosi che diventino regola, struttura, il definitivo attraversamento dei confini tra le persone dovuti alle ideologie annacquate e al rimbambimento generale e strategico che certi soggetti propugnano ogni giorno. E allora la crisi, la Grande Guerra sparsa per il mondo - come l’ha definita il Papa -, le emergenze, diventeranno subito occasione di riscatto per tutti. Per parafrasare De Amicis, dovremmo fare in modo che i “lidi non siano ignoti” e che non vi si “campi più d’angoscia”. Perché il sollievo che se ne guadagnerà, alla fine, non varrà soltanto per chi arriva, ma anche per gli “indigeni”, i quali hanno finalmente l’opportunità di dare un nuovo senso, o almeno un nuovo orizzonte politico, alle proprie vite.

Prosegue veloce l'erezione di barriere di cemento, acciaio, filospinato, soldati e cani attorno alla fortezza Europa. La Repubblica, 22 settembre 2015

Lubiana alza una barriera davanti alla Croazia. Caos profughi in Austria, oltre 24mila arrivi. Mattarella: “I fili spinati non servono, adesso decisioni forti”. Oggi nuovo vertice sulle quote
Per difendere i suoi muri anti-migranti, Viktor Orbán userà l’esercito sul confine meridionale. Anzi, farà di più: il Parlamento ungherese, con un voto a larghissima maggioranza, ha autorizzato i soldati all’uso delle armi pur di mantenere saldi le frontiere del paese. Lacrimogeni, idranti, proiettili di gomma, pistole lancia rete, bombe assordanti e accecanti accoglieranno chiunque cerchi di varcare la doppia barriera che blinda il paese da Croazia e Serbia. L’Ungheria ha fatto pubblicare sui giornali libanesi un chiaro avvertimento: non venite, siamo buoni ma inflessibili con gli illegali. Se vi becchiamo dentro i confini vi arrestiamo. E intanto la Slovenia ha iniziato ad alzare un muro al confine con la Croazia, all’altezza del valico di Bregana. L’obiettivo, fa sapere Zagabria, è di evitare che «i migranti entrino in modo indiscrimato nel Paese attraverso campi e boschi, invece di restare in attesa negli accampamenti alla frontiera».
Decisioni dure, di fronte a un fenomeno che non si può trattare da semplice emergenza: in due mesi sono transitate 120mila persone sulla rotta balcanica. Dal castello di Waterburg, nella Turingia tedesca, per il vertice di Arroiolos assieme ad altri 10 Capi di Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo spiega bene: «Siamo di fronte a fenomeni epocali di dimensioni immense che vanno affrontati con scelte lungimiranti. Ricorrere agli strumenti del passato non ha senso». La soluzione, dice, «non è la chiusura delle frontiere e il filo spinato». E invita i Paesi dell’Ue a concentrarsi sulle scelte che verranno fatte nelle prossime ore: «Si tratta di decisioni forti e importanti». «Il mondo è in marcia- aggiunge Mattarella - Moltitudini di uomini, donne e bambini si avviano verso l’Europa fuggendo dalla disperazione».
In vista del vertice di stamani al tavolo del Consiglio Interni, si sondano gli umori, ma l’Europa arriva spaccata sul ricollocamento di 120mila migranti, soluzione verso cui spinge la cancelliera Angela Merkel. Ci sono ancora delle resistenze. Soprattutto dal blocco dei paesi dell’est che davanti a questo dramma si sono mostrati più ostici a un compromesso. Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria restano contrarie ad accogliere una parte dei profughi. Ma sono anche pronte a cedere quando capiscono che chiunque faccia parte della grande comunità europea dovrà comunque versare il suo contributo in denaro (si parla di una “multa” di 6.500 euro per ogni profugo “rifiutato”). Lubiana è indecisa. Forse spaventata. Nell’attesa decide anche lei di avviare la costruzione di una barriera alla frontiera.
Il fronte, tuttavia, inizia ad incrinarsi e l’Ungheria finisce per restare sempre più isolata. Per il momento si limita a trasferire, con autobus scortati e treni blindati, tutti i rifugiati e i migranti che gli vengono consegnati alla frontiera dalla Croazia. Li accompagna ai confini con l’Austria che nei fatti è diventato il primo “hotspot” dell’Unione. Tra sabato e domenica ha dovuto accogliere 21.200 persone che ieri sono diventate 24 mila. Non tutto è semplice per i profughi. Molti sono reduci da mesi di viaggio. Si sono dovuti adattare. Improvvisano giacigli e cercano cibo dove lo trovano. Il centro medico universitario di Hannover ha segnalato 30 casi di intossicazione da funghi velenosi in una sola notte. Chi li ha raccolti aveva fame. Non li conosceva. Li ha visti sparpagliati nei boschi e li hacucinati. Sono finiti tutti in ospedale.
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SBARRAMENTI
«10 mila arrivi in solo giorno, volontari instancabili. Paradossi: l'estrema destra Fpoe vola nei sondaggi, lo spirito d'accoglienza anche. L’Austria, para­go­nata a Ita­lia e Gre­cia. 1500 sol­dati al con­fine con Unghe­ria e Slo­ve­nia svol­gono soprat­tutto fun­zioni uma­ni­ta­rie e logistiche».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

«Alle 5 porto 100 uova sode, 20 chili di feta e dolci di cioc­co­lata» posta sul sito Train of hope uno dei migliaia di volon­tari che pre­stano assi­stenza 24 ore su 24 alle sta­zioni di Vienna. «Ho rac­colto tende, sac­chi a pelo e imper­mea­bili, tante altre cose le ho com­prate» si legge invece su Soskon­voi, sono cose richie­ste con urgenza che ver­ranno por­tate lon­tano, a Bre­gona, al con­fine slo­veno e a Tovar­nik al con­fine tra Croa­zia e Unghe­ria. Lì l’iniziativa Soskon­voi diven­tata famosa per essere andata a pren­dere i rifu­giati in Unghe­ria ha attrez­zato un suo uffi­cio: sul posto manca tutto, rac­con­tano, acqua, cibo, riparo.

Alla fine, venerdì notte i rifu­giati intrap­po­lati oltre­ con­fine sono appro­dati alla fron­tiera austriaca orien­tale, a Nic­kel­sdorf e Hei­li­gen­kreuz, dopo la lunga dispe­rata odis­sea tra Croa­zia e Unghe­ria. 10mila in un giorno solo, alcuni a piedi. Gra­zie alla mobi­li­ta­zione con­ti­nua della società civile è stato pos­si­bile gestire l’accoglienza. Appro­dati. Solo sabato sera, attesi lì fin da venerdì, arrivo di pro­fu­ghi a Spiel­feld al con­fine slo­veno, dove sono stati attrez­zati in ogni dove posti letto per 4000 per­sone. Decine di auto­bus dell’esercito hanno por­tato i rifu­giati a Vienna, Sali­sburgo e Graz. Per molti c’erano subito i treni pronti in dire­zione Germania.

Il con­trollo ai con­fini, oggetto di con­tra­sto della coa­li­zione di governo tra social­de­mo­cra­tici (Spoe) e popo­lari (Oevp) avviene «a cam­pione», o «per niente», come ha accu­sato il mini­stro degli interni della Baviera. L’Austria, para­go­nata a Ita­lia e Gre­cia. I 1500 sol­dati austriaci schie­rati al con­fine con Unghe­ria e Slo­ve­nia svol­gono soprat­tutto fun­zioni uma­ni­ta­rie e logistiche.

A Graz, capo­luogo della Sti­ria, un’ora dal con­fine slo­veno, venerdì sera una fiac­co­lata di soli­da­rietà orga­niz­zata dai gio­vani socia­li­sti (Sj) e Ong ha attra­ver­sato la città: «Non solo di soli­da­rietà, ma con­tro l’odio, la discri­mi­na­zione e l’istigazione. Per l’estrema destra di H.C. Stra­che il soste­gno ai rifu­giati è una posi­zione di mino­ranza. Non è così, la mag­gio­ranza, prima silen­ziosa ha alzato la voce».

Una mani­fe­sta­zione con can­dele e fiac­cole ha attra­ver­sato venerdì anche Wie­ner Neu­stadt, capo­luogo della Bassa Austria. Sabato tutto il pome­rig­gio e sera con­certo in piazza per «rin­gra­ziare la popo­la­zione che aiuta i rifu­giati del cen­tro di acco­glienza di Trai­skir­chen». Dal canto suo la Fpoe, quasi scom­parsa dai tg, su mega­car­tel­loni annun­cia la «Oktoberrevolution» (rivoluzione d’ottobre, si rife­ri­sce all’11 otto­bre, ele­zioni di Vienna). Il movi­mento wel­come refu­gees gli con­trap­pone la «rivo­lu­zione di set­tem­bre», la soli­da­rietà con­creta lar­ga­mente diffusa.

Rivo­lu­zione di set­tem­bre o di otto­bre? Nei son­daggi pub­bli­cati dal set­ti­ma­nale Pro­fil sabato, su scala nazio­nale il 33%, un terzo della popo­la­zione, vote­rebbe per il par­tito di Stra­che, salito al primo posto. La Spoe del can­cel­liere Wer­ner Fay­mann, attuale primo par­tito segue col solo 23%, l’alleato di governo, i popo­lari al 21%, i Verdi al 14%. Nello stesso son­dag­gio però un 72% con­di­vide l’impegno della società civile verso i pro­fu­ghi, solo un 23% si sente rap­pre­sen­tato dalla xeno­foba Fpoe su que­sto argo­mento. Il suc­cesso di que­sta dimen­sione della Fpoe, più e oltre la xeno­fo­bia il son­dag­gio lo ricon­duce alla impo­po­la­rità per­du­rante della grande coa­li­zione for­te­mente divisa al suo interno, bloc­cata, con­si­de­rata inca­pace di deci­dere e agire. In un altro son­dag­gio l’85% della popo­la­zione si dichiara orgo­gliosa per il modo in cui l’Austria ha accolto i profughi.

Venerdì e sabato a Vienna, su invito del can­cel­liere Fay­mann si è svolto un mini­ver­tice di diri­genti di par­titi social­de­mo­cra­tici in vista del ver­tice euro­peo di mer­co­ledì, con il vice­can­cel­liere tede­sco Sig­mar Gabriel, il primo mini­stro sve­dese Ste­fan Loe­f­ven e Mar­tin Schulz. Riba­dita la neces­sità di inve­stire subito 5 miliardi per i campi pro­fu­ghi vicini alla Siria, e su scala euro­pea, la difesa del lavoro e il rilan­cio di un Europa sociale.

«Non si tratta solo di acco­gliere chi -dopo inter­mi­na­bili sof­fe­renze - arriva ai con­fini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non rie­sce a fug­gire e rischia la morte e la vio­la­zione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre fron­tiere non arri­verà mai».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

Lo scorso 11 set­tem­bre più di 250mila per­sone hanno mani­fe­stato a piedi scalzi in 71città ita­liane chie­dendo diritti e acco­glienza per i migranti e pro­fu­ghi, senza sé e senza ma. E’ stata prova di par­te­ci­pa­zione e di mobi­li­ta­zione straor­di­na­ria che ci con­se­gna la domanda di come far vivere nei pros­simi mesi un’azione di denun­cia poli­tica e di soli­da­rietà con­creta con i migranti. «La mar­cia delle donne e degli uomini scalzi non si fer­merà. Con­ti­nuerà anche dopo l’11 settembre».

Que­sto è stato detto nell’appello finale letto alla con­clu­sione della mani­fe­sta­zione a Vene­zia: «E’ una mar­cia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fon­data sulla pace. Una spe­ranza che vogliamo con­ti­nuare a difen­dere e per cui vogliamo lottare».

I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qual­che sus­sulto euro­peo, tra Ber­lino e Bru­xel­les, sull’onda dell’emozione della fuga dei pro­fu­ghi siriani, la Mer­kel ha annun­ciato che ora le fron­tiere si chiu­dono, i paesi dell’est euro­peo hanno riba­dito che non accet­te­ranno nes­suna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria fini­sce di costruire il muro, spara lacri­mo­geni e usa can­noni d’acqua con­tro i migranti, e la Fran­cia minac­cia nuovi raid aerei in Siria.

Invece sono altre le strade che andreb­bero seguite per cer­care di affron­tare un flusso di pro­fu­ghi - che ormai avrà carat­te­ri­sti­che di per­ma­nenza - verso l’Europa. Sem­pre nell’appello con­clu­sivo è stato affer­mato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Biso­gna creare un vero e pro­prio cor­ri­doio uma­ni­ta­rio per chi scappa dalla guerra e biso­gna isti­tuire un diritto di asilo euro­peo che superi l’anacronistico rego­la­mento di Dublino».

E pro­prio nella mani­fe­sta­zione con­clu­siva di Vene­zia, una dele­ga­zione della mani­fe­sta­zione di migranti e richie­denti asilo sono sim­bo­li­ca­mente saliti sul red car­pet della Mostra del cinema aprendo uno stri­scione davanti a foto­grafi e pub­blico in attesa delle star: huma­ni­ta­rian cor­ri­dors, now. E’ que­sta la prio­rità oggi. Que­sto il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di acco­gliere chi -dopo inter­mi­na­bili sof­fe­renze - arriva ai con­fini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non rie­sce a fug­gire e rischia la morte e la vio­la­zione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre fron­tiere non arri­verà mai.

Oggi i cor­ri­doi uma­ni­tari sono ine­lu­di­bili. Ne ser­vono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Medi­ter­ra­neo, assi­cu­rando in que­sto caso pas­saggi in mare sicuri. Ma su que­sta strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sen­tono e si bar­ca­me­nano tra quote per la ripar­ti­zione dei pro­fu­ghi - quote molto mode­ste e non accet­tate - nuovi hot spot da isti­tuire e che rischiano di pro­durre non mag­giori tutele ma altre discri­mi­na­zioni e nes­suna resi­pi­scenza sulla con­ven­zione di Dublino.

Al governo Renzi dob­biamo chie­dere di pren­dere una ini­zia­tiva che vada in que­sta dire­zione non solo in Europa, ma anche in Ita­lia: chiu­dendo i cen­tri di deten­zione, intro­du­cendo il diritto di voto alle ammi­ni­stra­tive per i migranti, isti­tuendo uni­la­te­ral­mente un cor­ri­doio uma­ni­ta­rio dalle coste meri­dio­nali del Medi­ter­ra­neo. Si tratta, dun­que, di rilan­ciare una mobilitazione.

La mar­cia delle donne e degli uomini scalzi - con tutto il suo carico sim­bo­lico e di con­cre­tezza nella forma della par­te­ci­pa­zione - ha dimo­strato che c’è una grande dispo­ni­bi­lità, che non va dispersa, ma raf­for­zata e svi­lup­pata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che fac­cia argine alla xeno­fo­bia e al raz­zi­smo e che sia da ariete con­tro tutti quei fili spi­nati e muri che si cer­cano di alzare in Europa ancora una volta.

C’è un primo appun­ta­mento: domani, 21 set­tem­bre mani­fe­ste­remo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Vil­lini 12) e davanti ai con­so­lati unghe­resi in Ita­lia (come a Milano, Vene­zia, Palermo, Trie­ste e altre città che si stanno aggiun­gendo) per dire basta ai muri e ai fili spi­nati, basta alla cri­mi­na­liz­za­zione dei pro­fu­ghi, basta all ipo­cri­sie euro­pee (qui info). Se c’è qual­cuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Vik­tor Orban.

La voce autorevole del giovane economista francese si aggiunge alle molte che ricordano l'utilità, per il miglioramento del livello di civiltà dell'Europa ma per la sua stessa sopravvivenza sociale, di accogliere le persone spinte dall'onda dell'esodo.

La Repubblica, 19 settembre 2015

LO SLANCIO di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo. Ma quanto meno ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.

Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.

Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.

L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.

Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).

Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.

Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Guido Viale, Piero Bevilacqua, Massimo Livi Bacci, ancora Guido Viale, Tonino Guerra e Alfonso Gianni.

«». Lavoce.info

Un passo per cambiare Dublino
Alcuni giorni fa, la Germania ha adottato una decisione generosa riguardo al problema dei profughi, offrendosi di dare asilo ai siriani, in deroga al regolamento di Dublino, in base al quale la responsabilità spetterebbe allo stato membro di primo ingresso nel territorio Ue. A seguito di questa scelta, il governo tedesco si è trovato a fronteggiare un flusso assai meno controllabile di quanto immaginato. Ha quindi fatto una temporanea marcia indietro, richiamando gli altri paesi membri alla propria responsabilità in relazione alla ripartizione dei profughi.È possibile che il risultato netto di tutta l’operazione sarà un semplice ritorno alla soluzione (insoddisfacente) concordata a fine luglio: non una ripartizione “obbligatoria” in base alle capacità economiche e agli sforzi già sostenuti da ciascuno stato, come originariamente proposto dalla Commissione Ue, ma la ricollocazione di poche decine di migliaia di profughi, a parziale sgravio di Italia e Grecia, sulla base della (scarsa) disponibilità dimostrata da alcuni stati soltanto.

In questo caso, non vi sarà alcuna variazione sostanziale del meccanismo imposto dal regolamento Dublino e il carico continuerà a gravare sui paesi membri di primo ingresso, senza che gli altri vedano motivi per abbandonare il loro atteggiamento defilato. Qualora invece si arrivi ad approvare la soluzione proposta dalla Commissione (con una vera ripartizione degli oneri) e il flusso conservi i ritmi attuali, è possibile che, nel volgere di un paio d’anni, si possa vedere una revisione della normativa Ue, col mantenimento di un diritto d’asilo esigibile senza limiti numerici per i soli soggetti personalmente perseguitati (i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951). Per quanti fuggano da una guerra, oggi titolari di un pieno diritto alla protezione sussidiaria non appena abbiano messo piede nel territorio della Ue, resterebbe lo strumento della protezione temporanea, concessa entro limiti fissati volta per volta.

Rifugiati giovani e determinati
Questa soluzione avrebbe il vantaggio di rendere prevedibile lo sforzo richiesto, togliendo argomenti a coloro che paventano invasioni incontrollate. Lo svantaggio sarebbe invece rappresentato dal rischio di un approccio poco generoso. Per evitare che l’atteggiamento degli Stati più tirchi paralizzi l’intera Ue, si dovrebbe accettare che l’Unione proceda a diverse velocità, lasciando che ciascuno stato stabilisca da sé il limite numerico che lo riguarda (la cosa è già prevista dall’articolo 25 della direttiva 2001/55/Ce). Il successo di un approccio generoso servirebbe a mandare un segnale a quei paesi membri che lo sono di meno. Ma è credibile che la generosità si traduca in un successo per lo stato che la pratica? Se guardiamo alla straordinaria capacità, dimostrata da moltissimi profughi, di affrontare fatiche e pericoli, questo è possibile: si tratta di favorire l’inserimento sociale e lavorativo di una popolazione giovane e fortemente motivata. E un’economia vecchia e spenta come quella europea non potrebbe che giovarsi di questa iniezione di motivazione.

Un ostacolo potrebbe essere costituito da un atteggiamento eccessivamente assistenziale, che si preoccupi solo di fornire alloggio e sostentamento ai profughi, con grandi oneri per le finanze pubbliche e scarsi incentivi all’inserimento lavorativo per i beneficiari. Per aggirarlo si dovrebbe superare il tradizionale timore di esporre l’istituto dell’asilo a un uso strumentale da parte di migranti economici, oggi oggetto di uno stigma generalizzato quanto ipocrita (non è forse una submigrazione economica quella che spinge i profughi siriani a muoversi da paesi di primo rifugio, nei quali non corrono più pericolo immediato, verso la Germania o la Francia?). Si dovrebbe anzi favorire in ogni modo l’accesso al lavoro dei richiedenti asilo (in questa direzione si muove il decreto legislativo 142/2015, appena pubblicato), in modo che i loro mezzi di sostentamento provengano, in misura prevalente, proprio dalla retribuzione di prestazioni lavorative.
Gli stati che soffrono di alti livelli di disoccupazione interna incontrerebbero naturalmente maggiori difficoltà nel percorrere questa strada. Ugualmente, essendo questi stati gli stessi nei quali in genere più fragili sono le strutture di welfare a disposizione dei cittadini più deboli, esistono ampi margini per far emergere una domanda di servizi alla persona, oggi inespressa, da parte di fasce della popolazione bisognose, non in grado di remunerarli: lo stato potrebbe allora fungere da sponsor per queste fasce, finanziando i servizi necessari.
Se si giungesse a constatare che l’afflusso di stranieri fortemente determinati a migliorare attivamente la propria condizione di vita può costituire un fattore di sviluppo economico per l’Unione Europea, si potrebbe provare a vedere sotto nuova, più coraggiosa, luce l’immigrazione puramente economica e a estendere all’immigrazione straniera molti dei meccanismi che oggi regolano quella comunitaria.

L’Europa si gioca la pro­pria cre­di­bi­lità. Non pos­siamo rima­nere impas­si­bili quando la morte incombe quo­ti­dia­na­mente sulle nostre spiagge, men­tre migliaia di fami­glie che fug­gono dalla guerra in Africa, Medio Oriente e Asia Cen­trale si ammas­sano nei porti, nelle sta­zioni, nei treni e nelle strade in attesa di una rispo­sta uma­ni­ta­ria da parte dell’Europa.

Siamo respon­sa­bili di fronte ai nostri cit­ta­dini che esi­gono da noi misure urgenti e pon­gono a nostra dispo­si­zione le risorse e i mezzi per faci­li­tare l’accoglienza. Siamo respon­sa­bili di fronte ai paesi limi­trofi che accol­gono rifu­giati molto oltre le pro­prie pos­si­bi­lità — solo in Libano ci sono 1,1 milioni di rifu­giati, ovvero il 25% della popo­la­zione del paese. Siamo respon­sa­bili di fronte all’idea stessa che ha fatto nascere l’Europa, fon­data sulle ceneri della Seconda Guerra Mon­diale, sulla ver­go­gna dell’olocausto e sulla scon­fitta dei fasci­smi, per assi­cu­rare un futuro di pace, pro­spe­rità e fra­ter­nità per le future gene­ra­zioni. Dob­biamo essere all’altezza della pro­messa fatta di fronte al nostro con­ti­nente in rovina: «Mai più».

La nostra mag­gior respon­sa­bi­lità è di fronte al genere umano. Se con­ti­nuiamo ad alzare muri, chiu­dere fron­tiere, lasciando il lavoro sporco ad altri stati per­ché siano loro a fare da gen­darmi delle nostre fron­tiere, che mes­sag­gio lan­ciamo al mondo? Che volto dell’Europa riflette que­sto Mare Medi­ter­ra­neo coperto da corpi senza vita?

Noi, le città euro­pee, siamo pronte a diven­tare luo­ghi d’accoglienza. Noi, le città euro­pee, vogliamo dare il ben­ve­nuto ai rifu­giati e alle rifu­giate. Sono gli Stati a rico­no­scere lo sta­tuto d’asilo, ma sono le città a dare soste­gno. Sono i muni­cipi lungo le fron­tiere, come le isole di Lam­pe­dusa, Kos e Lesbos, i primi a rice­vere i flussi delle per­sone rifu­giate; e sono i muni­cipi euro­pei che dovranno acco­gliere que­ste per­sone e garan­tir­gli di poter ini­ziare una vita, lon­tano dai peri­coli da cui sono riu­sciti a scappare.

Per ciò dispo­niamo di spa­zio, ser­vizi e, la cosa più impor­tante, della volontà dei cit­ta­dini di farlo. I nostri ser­vizi muni­ci­pali stanno già lavo­rando in piani di acco­glienza per assi­cu­rare pane, tetto e dignità a chi fugge dalla guerra e dalla fame. Manca solo l’aiuto degli Stati.

Come sostiene UNGHR, siamo di fronte alla più grande crisi di rifu­giati fin dalla fine della Seconda Guerra Mon­diale. Da Voi, governi degli Stati e dell’Unione Euro­pea, dipende che que­sta crisi uma­ni­ta­ria non si tra­sformi in una crisi di civiltà, una crisi dei valori fon­da­men­tali delle nostre demo­cra­zie. Durante anni, i governi euro­pei hanno desti­nato la mag­gio­ranza dei fondi per l’asilo e le poli­ti­che migra­to­rie a blin­dare le nostre fron­tiere, con­ver­tendo l’Europa in una fortezza.

Que­sta poli­tica sba­gliata è la causa del fatto che il Medi­ter­ra­neo si sia con­ver­tito in una tomba per migliaia di rifu­giati che pro­vano ad avvi­ci­narsi e con­di­vi­dere la nostra libertà. È venuto il momento di cam­biare le prio­rità: desti­nare i fondi neces­sari per garan­tire l’accoglienza dei rifu­giati in tran­sito, appog­giare con risorse le città che si sono offerte come luo­ghi di rifu­gio. Non è il momento delle parole e dei discorsi vuoti, è il momento di agire.

Ieri si è svolto a Bru­xel­les il sum­mit dei Mini­stri degli Interni e di Giu­sti­zia dei paesi mem­bri della Ue per discu­tere la crisi dei rifu­giati. Abbiamo chie­sto loro di non girare le spalle alle città, di ascol­tare il cla­more che si alza nelle nostre strade. Abbiamo biso­gno dell’appoggio e la coo­pe­ra­zione degli Stati, dell’Unione Euro­pea e delle isti­tu­zioni inter­na­zio­nali per assi­cu­rare l’accoglienza.

È tempo di costruire la sto­ria di un’Europa per la quale essere rico­no­sciuti dal resto dei popoli del mondo e ricor­dati dalle gene­ra­zioni che ver­ranno. Non lascia­teli soli, non lascia­teci sole.

Ada Colau sin­daca di Bar­cel­lona
Anne Hidalgo sin­daca di Parigi
Spy­ros Gali­nos sin­daco di Lesbo

Giusi Nico­lini sin­daca di Lampedusa

Hanno inol­tre ade­rito al mani­fe­sto Manuela Car­mena, sin­daca di Madrid; Xulio Fer­reiro, sin­daco di La Coruña; José María Gon­zá­lez, “Kichi”, sin­daco di Cadice; Mar­tiño Noriega, sin­daco di San­tiago de Com­po­stela, Pedro San­ti­steve, sin­daco di Saragozza.

Consiglio dei ministri degli Interni a Bruxelles. Le quote sfumano, i reticenti alzano la voce. Molti paesi seguono la Germania e ripristinano le frontiere. Aut aut a Italia e Grecia: hotspot e controlli nel paese di primo arrivo, poi (forse) la redistribuzione. Intanto c'è il via alla fase 2 della missione navale che permette attacchi agli scafisti. Il manifesto, 15 settembre 2015

La libera cir­co­la­zione rischia di venire tra­volta dal panico in cui sta cadendo la Ue in que­ste ore. I mini­stri degli Interni dei 28 paesi Ue met­tono la sor­dina sulle “quote obbli­ga­to­rie”, men­tre la Ger­ma­nia, dome­nica, seguita ieri da Austria, Slo­vac­chia, Repub­blica ceca e nel tardo pome­rig­gio anche dall’Olanda, ha sospeso Schen­gen rista­bi­lendo i con­trolli alle fron­tiere. Polo­nia e Bel­gio potreb­bero fare la stessa scelta nelle pros­sime ore. Il mini­stro degli Interni fran­cese, Ber­nard Caze­neuve, si piega alle richie­ste delle destre e afferma da Bru­xel­les che “sono già state dispo­si­zioni” per ripri­sti­nare i con­trolli alla fron­tiera con l’Italia “se si ripe­terà una situa­zione simile a quella di alcune set­ti­mane fa” (a Ven­ti­mi­glia), ma giu­dica “stu­pido” fare la stessa cosa al con­fine con la Ger­ma­nia. L’Ungheria da oggi impone lo stato d’emergenza, con l’arresto per chi entra ille­gal­mente, l’utilizzazione di con­tai­ners per ospi­tare i tri­bu­nali alla fron­tiera con la Ser­bia che giu­di­cano senza la pre­senza di inter­preti i pro­fu­ghi trat­tati come cri­mi­nali, richiusi in campi di detenzione.

La deci­sione più con­creta di ieri, presa in mat­ti­nata prima dell’incontro dei mini­stri degli Interni (e della Giu­sti­zia) a Bru­xel­les, è stato il varo della fase 2 della mis­sione navale EuNa­v­For­Med, che per­mette l’uso della forza con­tro gli sca­fi­sti. Le ope­ra­zioni dovreb­bero par­tire da ini­zio otto­bre. Per la redi­stri­bu­zione dei pro­fu­ghi, invece, i mini­stri degli Interni si riu­ni­scono di nuovo l’8–9 otto­bre, ma già si parla di “fles­si­bi­lità” nell’applicazione del ricol­lo­ca­mento dei 120mila del piano Junc­ker. Se i bloc­chi con­ti­nuano, dovrà venire con­vo­cato un ver­tice dei capi di stato e di governo, che rischia di san­cire la frat­tura che ormai mina la Ue.

Fran­cia e Ger­ma­nia, che cer­cano di man­te­nere una par­venza di unione anche se la deci­sione di Ber­lino di sospen­dere Schen­gen è stata accolta come una sberla da Parigi, chie­dono “imme­dia­ta­mente” l’apertura di hotspots in Ita­lia e Gre­cia (e Unghe­ria, ma Orban si autoe­sclude), e affer­mano che faranno un forte “pres­sing” sui part­ner. Per Fra­nçois Hol­lande, “far rispet­tare le fron­tiere esterne è la con­di­zione per poter acco­gliere degna­mente i rifu­giati”. Il mini­stro degli Interni della Baviera, Joa­chim Herr­mann, che non rispar­mia cri­ti­che a Mer­kel per aver inci­tato i pro­fu­ghi a venire in Ger­ma­nia, punta il dito con­tro Ita­lia e Gre­cia, paesi di primo arrivo, secondo lui respon­sa­bili del “caos”.

In pra­tica, riprende alla grande nella Ue lo sca­ri­ca­ba­rile dei pro­fu­ghi. Ange­lino Alfano chiede che “i rim­pa­tri” ven­gano orga­niz­zati da Fron­tex “con i soldi Ue”. Bru­xel­les pro­mette che “gli stati invie­ranno subito fun­zio­nari di col­le­ga­mento” per aiu­tare i paesi di primo arrivo a fare la distin­zione tra chi ha diritto all’asilo e chi deve venire espulso. Caze­neuve parla di “uma­nità e respon­sa­bi­lità”, spe­rando di con­vin­cere i reti­centi alla distri­bu­zione. Per il momento, c’è il pro­gramma pre­sen­tato a giu­gno, per la ricol­lo­ca­zione di 40mila per­sone (con offerte solo “volon­ta­rie” per ricol­lo­care 24mila per­sone già pre­senti in Ita­lia e 16mila che sono in Gre­cia), men­tre è sem­pre in alto mare il mec­ca­ni­smo di ripar­ti­zione per “quote” di altri 120mila. Nei fatti, gli arrivi delle ultime set­ti­mane ren­dono ormai cadu­che que­ste cifre, infe­riori di molto alla realtà. La Com­mis­sione ha messo nel cas­setto la minac­cia di multe per chi non par­te­cipa alla redistribuzione.

Le richie­ste dell’Onu, ancora riba­dite ieri, per “quote obbli­ga­to­rie” e gli appelli della Com­mis­sione a favore di una solu­zione “comune” rischiano di cadere nel vuoto, cosi’ come l’allarme del gruppo S&D: “la poli­tica comune di immi­gra­zione e asilo è l’unica strada per sal­vare l’Europa dalla disin­te­gra­zione”. La posi­zione tede­sca si è di fatto inde­bo­lita, con il vol­ta­fac­cia di Angela Mer­kel di dome­nica, anche se sem­bra fosse desti­nato a far pres­sione sull’est reti­cente. Il por­ta­voce di Mer­kel, Stef­fen Stei­bert, assi­cura che rimet­tere i con­trolli alle fron­tiere “era neces­sa­rio, ma nulla cam­bia” nella poli­tica di acco­glienza di Ber­lino. Per il mini­stro degli Interni, Tho­mas de Mai­zière, deve essere pero’ chiaro che “i richie­denti asilo devono accet­tare il fatto che non pos­sono sce­gliere il paese euro­peo a cui chie­dere pro­te­zione”. Per il mini­stro degli Esteri polacco, Rafal Trza­sko­w­ski, “l’Europa rischia una crisi isti­tu­zio­nale se impone quote obbli­ga­to­rie”, impe­gno ormai sfu­mato nei docu­menti di Bru­xel­les. Il fronte del “no” al piano Junc­ker sulla ridi­stri­bu­zione dei 120mila pro­fu­ghi si è ricom­pat­tato, Unghe­ria ormai fuori dalle regole Ue, con Repub­blica ceca, Slo­vac­chia, Polo­nia, Roma­nia (c’è anche la Dani­marca, ma il paese ha l’opt out su que­sti temi, come Gran Bre­ta­gna e Irlanda). In Fran­cia, l’ex pre­si­dente Nico­las Sar­kozy chiede uno sta­tuto spe­ciale per i rifu­giati di guerra, che dovreb­bero rien­trare in patria una volta tor­nata la pace (que­sta clau­sola in effetti esi­ste, ma è la Com­mis­sione a doverla attivare).

"La mossa di Angela Merkel è stata abile, e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei. Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff".

Il manifesto, settembre 2016

Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile - le ha restituito una popolarità che la sopraffazione della Grecia aveva compromesso - e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei - austriaci e tedeschi, ma anche e soprattutto ungheresi - di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici altri milioni di europei.

Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff. Dopo aver detto che accoglierà tutti, sono cominciati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e paesi insicuri e tra profughi e migranti economici; e le assicurazioni che si tratta di una misura “temporanea”. Ma intanto con quella decisione unilaterale ciascun governo si sente autorizzato ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro; o di istituire un mercato dei “diritti di espulsione”, così come ne esiste già uno per i diritti di emissione (di CO2): si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo?
Angela Merkel ha dato così un altro contributo a dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione che non sono nell’area Schengen e paesi Schengen non nell’Unione; paesi dell’Unione non nella Nato e paesi europei nella Nato ma non dell’Unione; paesi nell’Unione ma non nell’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Adesso, forse, ci saranno paesi dell’Unione esonerati – a pagamento o no – dalle quote di profughi. E quelli che li accoglieranno si sceglieranno le nazionalità più gradite?

L’accoglienza è destinata a diventare per l’Unione il problema maggiore: divide tra loro gli Stati membri impegnati a rimpallarsi le quote di profughi da ammettere; e fomenta al loro interno quello scontro sociale di cui si alimenta la xenofobia. Innanzitutto l’Unione non potrà avere una politica comune per accogliere profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza - casa, lavoro, reddito e sicurezza - a una quota crescente dei suoi cittadini. Quando il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 20 per cento, e in alcuni paesi il 50, è a un’intera generazione - anzi ormai a due - che vengono negate le forme basilari della cittadinanza. In queste condizioni è difficile pensare a una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia che si aprano loro le porte, sia che si punti su respingimenti inefficaci e spietati.

Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassano le destre razziste e xenofobe che lo fomentano, ma a cui le forze di governo non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto delle politiche di tagli alla spesa pubblica e di soffocamento dei diritti, dei redditi e della sicurezza del lavoro. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare radicalmente quelle di bilancio. Per questo l’arrivo di un numero crescente di profughi rappresenta il vero tallone d’Achille dell’austerity.

Ma la ragione vera della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi Governi hanno assistito ignavi, quando non vi hanno partecipato direttamente o non hanno addirittura preso l’iniziativa, a massacri e guerre scatenate ai confini dell’Europa: quasi che la cosa non li riguardasse, impegnati com’erano, e sono, a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Se a rappresentare la politica estera dell’Unione figure insignificanti non è solo perché quella materia ogni Governo vuole riservarla per sé. Il fatto è che - a parte gli accordi commerciali, soprattutto per procurarsi petrolio e metano - nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: quella che nel corso degli anni si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima – ma non l’unica – conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. Francia e Regno Unito stanno già pensando a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia: che hanno perso, creando un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.

Ora, che siano i vertici dell’Unione e dei suoi Governi a risolvere il problema creato da centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della propria sopravvivenza è del tutto irrealistico. L’Unione europea vorrebbe respingerne la maggioranza, ma non è in grado di farlo: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che sta già facendo pagare alle sue vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cerca di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria, o un contadino che sta morendo di fame e di sete – sì, anche di sete – in uno stato subsahariano fossero diversi, nelle loro motivazioni alla fuga, da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa, o di tutti e quattro.

Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno brutale, da molti governi, sono state per qualche giorno rovesciate e sconfitte dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada che porta a Vienna, o al loro arrivo nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena facendo tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Perché dietro a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che - senza distinguere tra profughi e migranti economici - hanno cercato e cercano di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui stampa e media non avevano dedicato in sei mesi un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini e dei suoi compagni di merende.

Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore di vedersi portare via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo: consapevole, a differenza di molti suoi governanti (in sei mesi di Presidenza europea Renzi non aveva rivolto una sola parola alla soluzione del problema dei profughi) che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori dove si insedieranno; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione, qui, dove sono arrivati, di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.

Ed è in questo improvviso melting pot, che si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono dovuti fuggire: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni per pacificarli; che elaborino in forme condivise i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento, attraverso i mille legami che ancora intrattengono con le comunità rimaste nei paesi di origine, per il loro riscatto. Una prospettiva che non può che fondarsi su una nuova visione dell’Europa, unita e non contrapposta alle popolazioni in fuga dai paesi in fiamme ai suoi confini vicini e lontani. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.

Q

Lo scrittore nigeriano, premio Nobel, parla della crisi dei migranti. “È un’eredità del colonialismo, ora però le tragedie dell’Africa sono sotto gli occhi del mondo. Come accade per le ragazze rapite da Boko Haram”.

La Repubblica, 13 settembre 2015
C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: ubuntu e’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia. Wole Soyinka, poeta e scrittore nigeriano, nel 1986 premio Nobel per la Letteratura, la usa spesso nel suo ultimo libro, “dell’Africa”, uno dei testi più importanti fra quelli presentati al Festivaletteratura di Mantova. Mentre sulle pagine dei giornali e alla tv si susseguono le immagini dei profughi che cercano di arrivare in Europa, e’ impossibile non iniziare una conversazione con Soyinka senza parlare di ubuntu .

Le sembra una parola appropriata per le giornate che stiamo vivendo?«È un’espressione che hanno spesso usato persone come Mandela e Desmond Tutu: volevano dire che qualunque persona sia in stato di necessità deve essere aiutata. Che la solidarietà è obbligatoria e che siamo tutti responsabili. Altrimenti perdiamo la nostra umanità. È una parola adeguata a queste giornate, a patto di metterla nella giusta prospettiva. È dovere dei paesi da cui i migranti fuggono, e mi riferisco in particolare a quelli africani, creare le condizioni sociali perché queste persone abbiano sempre meno motivi per scappare. Ed è dovere del mondo esterno capire che la relazione che ha avuto con l’Africa, il lascito del colonialismo è alla base delle migrazioni».

Cosa pensa della reazione dell’Europa di fronte ai profughi?
«Sono sorpreso che l’Europa non abbia capito prima quello che stava per accadere. Da tempo i rifugiati interni ai paesi dove si combatte erano milioni, era naturale che prima o poi la crisi si espandesse. Ora ci sono moltissime persone pronte ad affrontare una morte quasi certa per mare per la speranza di una vita migliore».

L’Europa manca dunque di prospettiva, di uno sguardo di lunga durata?
«Penso all’Africa, e Le rispondo che qualche volta è bello essere dimenticati, lasciati a risolvere i propri problemi: non si può sempre essere assistiti. Ma qualche volta l’attenzione serve. Le faccio un esempio: qualche anno fa il mondo si indignò per Amina, una donna che stava per essere lapidata per adulterio in Nigeria. Fu una cosa importante, perché anche quelli che fino a quel momento avevano fatto finta di nulla furono costretti ad ammettere che stava accadendo qualcosa di sbagliato».

Direbbe lo stesso del clamore suscitato dal rapimento delle ragazze di Chibok da parte di Boko Haram?
«Quella e’ una storia talmente grande che era impossibile da ignorare. Ha colpito tutti, perché ha richiamato alle sue responsabilità una società che non era stata in grado di proteggere delle ragazze nel luogo dove avrebbero dovuto essere più sicure, e un governo che non si è mosso in tempo. Ha costretto tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno, che io chiamo del bokoharamismo, che era lì davanti a tutti: la diffusione di un gruppo che è incapace di guardare all’essere umano se non attraverso le lenti strettissime della sua visione religiosa estremista. Abbiamo visto l’intolleranza crescere sotto i nostri occhi e la religione diventare uno scudo per fare quello che si voleva. Lo abbiamo visto nel silenzio totale delle autorità: nessuno e’ stato chiamato a rispondere del fatto che qualche anno fa gruppi di estremisti abbiano messo Abuja a ferro e fuoco per protestare contro un concorso di bellezza. Nessuno ha pagato. Chibok e’ stato il caso più brutale. Il messaggio era: “facciamo ciò che vogliamo con quello che di più caro avete”. Con i riflettori del mondo addosso il governo non ha più potuto far finta di niente».

A 500 giorni da quel rapimento in Nigeria qualcosa e’ cambiato?
«Sta cambiando. Mai abbastanza per me, ma qualcosa si sta muovendo. La gente non dice più le stesse cose di prima, i politici stanno più attenti a giocare la carta delle divisioni religiose. Tutto questo non è più possibile dopo Chibok, come non è più possibile ignorare il fatto che la diffusione dell’estremismo è un problema reale».

Wole Soyinka scrittore e poeta nigeriano premio Nobel per la Letteratura nel 1986

Come da copione, la Mar­cia delle donne e degli uomini scalzi di Vene­zia si con­clude sul tap­peto rosso della Mostra del cinema: per una volta a cal­carlo non sono le star del jet set ma Kaled, Samir, Niham e ideal­mente, con loro, i tanti rifu­giati che chie­dono acco­glienza in tutta Europa.

Qual­che migliaio di mani­fe­stanti, rigo­ro­sa­mente a piedi nudi, hanno attra­ver­sato il Lido: tante donne, ragazzi e ragazze, tra loro decine di migranti. Soprat­tutto dall’Africa: Nige­ria, Gam­bia, Sene­gal. Si vedono anche ban­diere del sin­da­cato: spic­cano quelle verdi della Cisl, ma ci sono pure iscritti della Uil, e una nutrita rap­pre­sen­tanza della Cgil, con in testa la segre­ta­ria Susanna Camusso.

Folto anche il drap­pello di poli­tici, ma se si eccet­tua il vignet­ti­sta Staino dell’Unità, della galas­sia ren­ziana non si vede nes­suno. In qual­che modo, si tratta di “ex”: l’ex segre­ta­rio di Sel Nichi Ven­dola, la ex mini­stra Livia Turco, gli ex pid­dini Ste­fano Fas­sina e Pippo Civati. Avvi­stato anche l’ex sin­daco di Padova ed ex mini­stro Fla­vio Zano­nato. A rias­su­mere la piat­ta­forma della mani­fe­sta­zione è Giu­lio Mar­con, di Sel, che con il regi­sta Andrea Segre, altri attori e arti­sti, un vasto arco di asso­cia­zioni, ha orga­niz­zato in pochi giorni le marce in tutta Ita­lia: «La prima urgenza — spiega — è quella di alle­stire cor­ri­doi uma­ni­tari sicuri e pro­tetti, a livello euro­peo. Si dovrebbe poter fare già nei paesi di ori­gine, o a pochi chi­lo­me­tri dalle coste, inter­cet­tando i bar­coni per sal­vare chi fugge. E acco­gliere tutti, innan­zi­tutto, cali­brando poi l’intervento a seconda che si tratti di rifu­giati o di migranti economici”.

Il tema main­stream, quello che nella ver­sione Mer­kel, o in quella di Sal­vini, impone una netta distin­zione tra chi acco­gliere e chi riman­dare a casa, qui non sem­bra porre dubbi: tutti con­cor­dano sulla neces­sità di non discri­mi­nare. Lo spie­gano Rita e Filo­mena, due gio­vani sorelle della Con­gre­ga­zione Char­les de Fou­cauld di Fermo, casa di acco­glienza per migranti: «Gli uomini sono tutti uguali, e non puoi sele­zio­nare. Poi anche chi fugge dalla fame, chi tenta di soprav­vi­vere con i pro­pri figli, è come se venisse da una guerra. Noi cer­chiamo di far inte­grare le per­sone che stanno da noi: adesso alcuni di loro stanno creando una coo­pe­ra­tiva con diversi mestieri».

«Da Vene­zia a Kobane, da Buda­pest a Bru­xel­les: #apie­di­scalzi #refu­gee­swel­come». «Io non sono un peri­colo, io sono in peri­colo». «Abbiamo biso­gno di docu­menti». Tanti gli slo­gan por­tati sui car­telli dai migranti, men­tre i cen­tri sociali del Nor­dest — tra loro Luca Casa­rini — scan­di­scono «La nostra Europa non ha con­fini, siamo tutti clan­de­stini», con la dop­pia ver­sione finale: «siamo tutti cit­ta­dini». A metà strada ven­gono messe a dispo­si­zione diverse baci­nelle di tem­pere colo­rate: chi vuole può bagnarsi i piedi e lasciare le pro­prie orme sul via­lone che porta al Casinò.

San­kung, un ragazzo del Gam­bia, spiega di essere ospite con altri 50 immi­grati in un albergo di Chiog­gia: le pro­ce­dure per vagliare le loro richie­ste di asilo sono len­tis­sime, così c’è chi è da oltre un anno in attesa. E visto che non hanno docu­menti, per il momento non pos­sono nean­che cer­carsi un lavoro rego­lare. Il gruppo è accom­pa­gnato da Elena Fava­retto, dell’associazione di volon­ta­riato Migran­tes: spiega che la com­mis­sione di Padova, che ha in carico le loro richie­ste, con­cede gli asili con il con­ta­gocce. Gian­luca Schia­von, del Prc, spiega che il suo par­tito sta spe­ri­men­tando l’accoglienza nelle sedi locali in diverse città.

Tra i bon­ghi e i canti dei migranti e le musi­che dif­fuse dal camion­cino dell’organizzazione, risuo­nano le parole dell’appello letto dall’attrice Otta­via Pic­colo: «Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi. Di chi ha biso­gno di met­tere il pro­prio corpo in peri­colo per poter spe­rare di vivere o di soprav­vi­vere. E’ dif­fi­cile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la migra­zione asso­luta richiede esat­ta­mente que­sto: spo­gliarsi com­ple­ta­mente della pro­pria iden­tità per poter spe­rare di tro­varne un’altra. Abban­do­nare tutto, met­tere il pro­prio corpo e quello dei tuoi figli den­tro ad una barca, ad un tir, ad un tun­nel e spe­rare che arrivi inte­gro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai biso­gno». In attesa del ver­tice Ue di lunedì, gli ita­liani e i migranti che hanno mar­ciato oggi in tutto il Paese spe­rano che si apra uno spi­ra­glio per una poli­tica comune dell’asilo e l’istituzione imme­diata di cor­ri­doi umanitari.

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. La Repubblica, 12 settembre 2015

LA REAZIONE nel complesso positiva della popolazione tedesca all’afflusso di rifugiati segna un’importante discontinuità con lo stato d’animo imperante nel Paese all’inizio degli anni ‘90. Dimostra che una leadership politica risoluta – di cui finora, con la Merkel, abbiamo sentito la mancanza – può condurre nel lungo periodo l’opinione pubblica e la società civile a manifestare il loro sostegno e la loro volontà di venire in aiuto a queste popolazioni.

L’asilo politico non è una questione di valori – le chiacchiere sul tema dei “valori” mi esasperano – ma un diritto, e un diritto fondamentale. Questo diritto non può essere garantito solo dai Governi. Dev’essere rispettato dalla popolazione nella sua interezza. I Governi possono non riuscire a far fronte alla sfida attuale, per scoraggiamento o per mancanza di sostegno da parte dei loro mezzi di informazione e dei loro cittadini. E a volte anche per calcoli meschini e per la pusillanimità dei partiti politici di fronte alla pigrizia, l’egoismo e la mancanza di una visione alta nella popolazione.

Per il momento, vediamo che i Paesi membri dell’Unione Europea non riescono, complessivamente, ad accordarsi su una linea d’azione comune. L’onesta proposta del presidente Hollande e della cancelliera Merkel non incontra consenso. Si tratta indubbiamente di un segnale allarmante e vergognoso, ma che la dice anche lunga sul reale stato politico di una comunità che non è diretta da un Parlamento e un Governo comuni, bensì da compromessi stipulati tra ventotto Governi nazionali.

Le diverse reazioni nazionali al problema urgentissimo che dovrebbe oggi vedere una risposta comune testimoniano anche realtà di cui bisogna tener conto: la differente anzianità di appartenenza all’Unione, le differenze economiche importanti – troppo importanti – fra Paesi membri, e soprattutto le differenti storie nazionali e le differenti culture politiche.

L’Europa, di fronte a questo disaccordo insormontabile sulla sfida politica e morale rappresentata dalla crisi migratoria, non deve fallire, col rischio di uscirne alla lunga devastata. E a tale scopo vedo solo una strada realistica: la Francia e la Germania devono prendere l’iniziativa e riunire i Paesi strettamente legati fra loro dall’euro e dalla crisi che attraversa questa moneta per proporre delle soluzioni comuni. La Francia e la Germania devono dimostrare che esiste un nocciolo duro dell’Europa in grado di agire e di andare avanti unito.

Un successo simile potrebbe portare anche, finalmente, a un cambiamento dell’atteggiamento del Governo tedesco, da cui dipende in toto un esito positivo, più a lungo termine, della crisi monetaria stessa. La Francia, se adottasse una linea di condotta energica sulla crisi dei profughi, oltre a restare fedele alla sua tradizione politica darebbe una spinta al Governo tedesco, in modo indiretto: non è solo questione di mostrarsi solidali con quelli che cercano asilo politico, perché una solidarietà di questo tipo è un dovere giuridico; una solidarietà finanziaria è anche una necessità politica in seno a una comunità monetaria che può sopravvivere solo con una politica fiscale, economica e sociale comune.
Traduzione di Fabio Galimberti

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