Era un simbolo, il ponte di Oresund. Un simbolo europeo. Cinquanta campate sopra il Baltico costate più di quattro miliardi, in parte anche di fondi Ue. Otto chilometri per collegare Svezia e Danimarca, saldare Copenhagen e Malmoe come fossero un’unica città. Era il sogno di unire ciò che la natura ha diviso, e di farlo in nome di una buona volontà umana superiore a qualsiasi sfida. Il miraggio è durato quindici anni. Ha retto tempeste e mareggiate. Ma non ha retto allo tsunami dell’immigrazione che sta sommergendo l’Europa e ridicolizzando il suo progetto di fratellanza.
Adesso Oresund, intasato dalle code alla improvvisata frontiera imposta dopo mezzo secolo tra Svezia e Danimarca, è diventato il simbolo delle paure e degli egoismi nazionali che riemergono come fantasmi dal nostro passato. Più del filo spinato piantato da Orban sulle frontiere ungheresi. Più delle migliaia di auto che nei giorni scorsi hanno aspettato ore al confine italo-francese. Più dei cani poliziotto che pattugliano i confini sloveni.
Stretta nella doppia morsa dell’immigrazione e del terrorismo, l’Europa deve fare i conti con l’istinto primordiale di cancellare se stessa e rifugiarsi dietro l’illusorio baluardo degli Stati-nazione. Il progetto che aveva preso il volo con la fine della grande paura della Guerra fredda, con il crollo del muro e il ritiro dell’Armata rossa, ora deve fare i conti con nuove minacce e nuove paure. Deve misurarsi con l’esercito, pacifico, disperato ma inarrestabile, dei profughi. E con quello, più piccolo ma ben più minaccioso, dei fanatici della Jihad. E la prima vittima di questa doppia offensiva è la libertà di circolazione. Che poi, a guardar bene, è la libertà di sentirci veramente europei.
La Svezia, sommersa da 160 mila profughi in un anno, proporzionalmente poco meno di quelli arrivati in Turchia in cinque anni, ha deciso di chiudere le frontiere con la Danimarca.
E la Danimarca, di riflesso, ha impiegato meno di tre ore per chiudere le sue frontiere con la Germania. Il colosso tedesco, che di rifugiati ne ha accolti un milione, per ora resiste. Ma avverte: «Schengen è in pericolo». E chiede a gran voce (e a ragione) «una soluzione europea». Già, ma quale?
Di fronte allo spettacolo del ponte di Oresund diventato frontiera sarebbe facile ironizzare sul fatto che questa volta, apparentemente, l’anello debole della solidarietà comunitaria si colloca tra i ricchi e progrediti Paesi del Nord Europa e non nel «ventre molle» del Continente, tradizionalmente rappresentato dal suo fianco Sud. Purtroppo non è così. E la chiusura del ponte tra Svezia e Danimarca rischia di essere l’innesco di una reazione a catena che ha per bersaglio ultimo l’Italia e gli altri Paesi di primo impatto dell’immigrazione.
Ci ha pensato subito il premier conservatore danese, Lars Løkke Rasmussen, a chiarire i termini della questione, così come vengono interpretati al Nord: «E’ evidente che l’Ue non è capace di proteggere le sue frontiere esterne, e così anche altri saranno presto obbligati a ripristinare i controlli di confine». Insomma, visto dal Baltico, il problema dell’Europa è ancora una volta la Grecia (e in parte l’Italia). È Atene che non riesce a frenare il flusso dei migranti in arrivo attraverso l’Egeo. È Atene che non appare in grado di identificare e fermare quanti arrivano sul suo territorio rimandando indietro coloro, e sono forse la maggioranza, che non hanno titoli per chiedere l’asilo politico. Il contagio, in fin dei conti, che si tratti di flussi migratori o di crisi finanziaria, viene sempre dal Sud.
Come ai tempi della crisi dei debiti sovrani, l’Europa si divide lungo una faglia che separa “virtuosi” e “peccatori”, con i primi ben decisi a far prevalere il rispetto delle regole sugli obblighi di solidarietà. La moneta unica va bene, ma i debiti restano nazionali e ciascuno deve ripianare il proprio. Le frontiere uniche vanno bene, ma gli immigrati illegali restano “nazionali” e ciascuno deve identificare e rimpatriare i propri.
E qui sta il vero, formidabile pericolo politico che minaccia i Paesi più esposti al flusso migratorio, come la Grecia o l’Italia. La libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea non è solo una conquista di altissimo valore simbolico. È anche, e soprattutto, uno straordinario fattore di sviluppo economico. Come dimostrano le lamentele degli imprenditori svedesi e danesi, l’Europa oggi non è in grado di reggere i costi indiretti che il ristabilimento delle frontiere nazionali comporterebbe e che sarebbero probabilmente superiori ai costi indotti dallo tsunami migratorio.
Per cui, se si afferma il principio che la colpa della situazione è dei Paesi di primo arrivo, alla fine il rischio è che Schengen si ricostituisca tagliandoli fuori.
Questa idea di una Schengen «ridotta », che esclude dalle proprie frontiere i Paesi deboli, come l’Italia e gli stati balcanici, è già stata apertamente ventilata dal governo olandese, che da gennaio ha assunto la presidenza di turno della Ue. Solo la Germania, per ora, ha impedito che la proposta venisse seriamente presa in considerazione. Ma se la reazione a catena dei controlli alle frontiere dovesse continuare nei prossimi mesi, come è probabile che accada, sarà difficile evitare che una riduzione «d’emergenza » dello spazio Schengen si imponga nei fatti. Garantendo la libera circolazione tra i Paesi virtuosi del Nord. E relegando l’Italia e la Grecia ai margini dell’Europa, verso un Meditteraneo in fiamme che minaccia più che mai di inghiottirci.
Il manifesto, 13 dicembre 2015
Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.
Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario?
Kobler dichiara che siamo in ritardo, che «il tempo è scaduto». Come a dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti. Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità.
Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due…
È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di Tripoli e i «riconosciuti internazionalmente» filo-occidentali di Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i condizionamenti delle due «firmatarie» dell’intesa del 16 in Marocco. Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo.
Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a Derna e addirittura a Tobruk?
Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico.
Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico?
Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di cautela «non vogliamo una Libia-bis» di Matteo Renzi è certo apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e dei governi occidentali alla «mancata ricostruzione». L’interesse italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi «amici» in Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato ambasciatore degli Stati uniti in Libia. E’ una storia che rischia di compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere. Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 «perché Assad se ne deve andare». Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che hanno fatto in Libia.
Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per Seif Al Islam?
Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di «un Gheddafi». Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978 dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e miseria, per dichiarare la «guerra agli scafisti» (dagli effetti collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis.
È fondamentale un interlocutore — come facevamo con Gheddafi — che fermi anche in campi di concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto: formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di Seif Al Islam.
Il manifesto, 9 dicembre 2015
Sei bambini sono morti ieri mattina su un gommone naufragato tra la città costiera turca di Cesme e l’isola greca di Chios. Il più piccolo era ancora in fasce e il più grande aveva 12 anni, così dice, seccamente, il dispaccio della guardia costiera turca che ha recuperato i loro corpi nelle buste nere che siamo stati abituati a vedere in naufragi simili a Lampedusa. Ma c’è qualcosa di strano in questa «tragedia dell’immigrazione» apparentemente uguale a tante altre che i dispacci non dicono. Altri 11 morti si contano alle Canarie, provenieti dal Sahara.
Il tratto di mare tra Cesme e Chios è di poco più di un miglio, 20 minuti di viaggio con il traghetto Erturk Lines per un costo medio di una famiglia di vacanzieri europei con auto al seguito di appena cento euro. Il dispaccio dell’agenzia di Stato turca Anadolu riferisce che sul gommone pieno di migranti all’improvviso hanno ceduto le doghe di legno di rinforzo del fondo del gommone, si sono spezzate, forse per il peso eccessivo o perché il gommone aveva imbarcato acqua appesantendosi ulteriormente.
Ma anche così ciò che non torna è che non ci sia stato un tempestivo intervento della guardia costiera o dell’unità di Frontex che proprio ieri mattina, dal Portogallo, ha iniziato a pattugliare quel tratto di mare fino all’isola più a nord di Lesbo.
È di appena due giorni fa la denuncia dell’ong internazionale Human Right Watch sulle incursioni di uomini vestiti di nero, mascherati in voltocon passamontagna e armati che «a bordo di motoscafi veloci dalla costa turca attaccano i barconi di rifugiati e migranti che cercano di raggiungere le isole greche dell’Egeo». Human Right Watch ha raccolto nove testimonianze tra i migranti dei barconi affondati in questo modo e tornati in Turchia, nella città di Izmir. Dicono che gli uomini neri mascherati si rivolgevano ai migranti in inglese — «Stop, stop», intimavano ai guidatori -, prendevano a manganellate i padri e le madri che imploravano pietà almeno per i loro figli e speronavano le imbarcazioni sovraccariche di persone, mandandole a picco. Bill Frelick, direttore del settore Rifugiati di Human Right Watch si chiede come è possibile che le unità di Frontex non intervengano e come può l’Unione europea far finata di niente di fronte a queste denunce invece di impegnarsi a far luce sulla vicenda.
In base ai dati dell’Unicef un migrante su cinque che quest’anno ha cercato di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la ricca Europa è un bambino. Ma quando si va al conteggio dei morti, la percentuale sale a un terzo: dei 3.563 naufraghi accertati di quest’anno nel Mediterraneo, mille erano bambini e minori. Mille Aylan Kurdi, il bambino di quattro anni la cui foto, riverso sulla spiaggia di un’isola greca, ha commosso il mondo intero. In quel pezzo di mare prima di questa ultima strage, altri 185 Aylan erano affogati nello stesso modo.
L’Europa è intervenuta, sì, dando 3,2 miliardi di euro alla Turchia perché, a differenza di quanto ha fatto finora, intervenga per arrestare il flusso dei migranti verso la Grecia. Il primo intervento è stato l’arresto di circa 3mila migranti, una settimana fa, nella città di Ayvacik, cioè a un tiro di schioppo da Cesme, luogo di partenza del gommone naufragato ieri.
Le autorità greche sono distratte dai problemi sul confine a nord, con la Macedonia, impegnate in un brutto braccio di ferro con il governo di Skopje che ha bloccato circa un migliaio di transitanti nella località di confine di Idomeni. Al freddo, senza cibo né servizi i migranti hanno più volte bloccato la ferrovia che collega il porto del Pireo e la sua enorme area industriale di multinazionali con i mercati del Nord Europa.
Fyrom, come si chiama ora l’ex Repubblica macedone, ha in ballo un duro contenzioso economico con Atene: la Grecia quest’estate per frenare la fuga di capitali legata alle paure della Grexit ha bloccato i trasferimenti di capitali, congelando nella «pancia» delle banche greche oltre 6 miliardi di euro di capitali macedoni. I migranti quindi sono usati come arma di ricatto per ottenere lo sblocco dei fondi. Il governo di Skopje però non è l’unico a usare i migranti che premono sulla rotta dei Balcani occidentali per altri scopi, invece di pensare ad aiutarli. Paesi terzi, come il Pakistan, si rifiutano di riaccogliere i «migranti economici» intercettati in Grecia senza un accordo con l’Europa (e relativi fondi)sui rimpatri.
Le renditions continuano a essere esigue sia dalla Grecia che dall’Italia (meno di 200 persone in tutto sono state imbarcate su voli di rientro, su 160 mila che avrebbero dovuto partire).
La Commissione europea, su iniziativa di Francia e Germania, sta mettendo sotto pressione Grecia e Italia affinché attuino i nuovi protocolli di schedatura di massa in funzione anti terrorismo oltre che per frenare l’ondata migratoria. È di ieri la minaccia della Commissione Junker all’Italia: intende aprire una procedura d’infrazione per non aver inserito nel sistema Eurodac il rilevamento delle impronte digitali nei controlli dei richiedenti asilo.
La procedura, salvo ripensamenti dell’ultim’ora, dovrebbe essere aperta già domani. Sempre che sia questo l’obiettivo e non un più invasivo controllo non solo dei migranti ma anche degli spostamenti e contatti dei cittadini europei. Schengen, con l’attuale welfare asimmetrico nei diversi paesi europei, può apparire insostenibile con una recessione che non passa
Una mobilitazione unitaria per dimostrare che c’è un modo diverso per sconfiggere la paura: togliere muri e barriere. Ai confini, nelle comunità, nelle nostre teste. Come hanno fatto i parigini la notte dell’attacco, accogliendo in casa chi scappava. E chi questa estate ha aperto le case e le auto ai migranti.
Parigi ha dato all’Europa la scusa per completare la blindatura delle frontiere, attuando decisioni prese ben prima dell’attacco. E per chiudere l’eccezione della rotta nei Balcani. La rotta balcanica non è stata un regalo della Merkel. E’ stata conquistata dalla marcia dei migranti, la più grande azione di disobbedienza civile nonviolenta in Europa da decenni. E’ stata sostenuta da un movimento nuovo e davvero europeo, capace di stare per mesi sul campo e di trarre dal volontariato forza e credibilità per l’azione politica.
Da questo movimento arriva il grido di allarme: reagire all’attacco di Parigi con la guerra, la militarizzazione, la chiusura delle frontiere, la limitazione delle libertà civili e democratiche è un regalo alla destra estrema. Che è in testa ai sondaggi in Francia, ha conquistato anche la Polonia, e si sente più forte - mentre ogni notte nell’Europa del nord viene dato alle fiamme un alloggio di migranti.
Non è tema per gli addetti antirazzisti, dicono i volontari dei Balcani. Riguarda tutti e tutte. Il rischio di una Europa che reagisce agli attacchi oscurantisti divenTando sempre più nera e forte. Il lusso della frammentazione non è più permesso, bisogna provare a unificare le lotte.
I diritti dei migranti, la pace e la giustizia sociale sono facce della stessa medaglia, visto che l’insicurezza sociale e l’ingiustizia globale alimentano l’ostilità verso lo straniero.
Il testo dell’appello per la proposta di giornata di mobilitazione in tutta Europa è molto breve.
«Attivisti greci, turchi, dei Balcani occidentali e di tutta Europa impegnati sulle rotte dei migranti si sono incontrati a Salonicco. E propongono a tutte le persone, i movimenti, le organizzazioni sociali, i sindacati che non vogliono vivere in un’Europa e in un mondo oscuro, ingiusto e antidemocratico di mobilitarsi e agire il 18 dicembre. “No ai muri. apriamo le porte”. Pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutti e tutte».
L’appello arriva da Salonicco, dove si è appena concluso un incontro organizzato per mettere in comunicazione i volontari della rotta balcanica, il movimento dei convogli da Austria e Germania con attivisti su altre rotte, organizzazioni di diversi paesi e numerose reti europee.
Doveva essere un momento di interscambio sui temi della accoglienza, fra movimenti nuovi e organizzazioni attive da tanti anni. Si è svolto nei giorni in cui a Idomeni la Macedonia ha iniziato a bloccare migliaia di persone, mentre agli abitanti di Bruxelles era vietato uscire di casa.
Quando per Madrid venne il tempo del terrore, in una sola notte un grande movimento rese chiaro che sulle risposte al terrorismo non ci sono larghe intese securitarie ma due campi opposti, quello della pace e quello della guerra. Anche oggi c’è bisogno di una risposta forte e popolare, visibile abbastanza da strappare le persone dalle lusinghe della destra e di dare coraggio agli europei buoni.
In questi giorni le manifestazioni previste per la giustizia climatica, aggiornate ai drammi di oggi, possono fare la differenza. Poi, insieme, confidiamo di riuscire a fare un 18 dicembre all’altezza della sfida. Le porte sono aperte.
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2015
L’unica guerra
La nuova Europa
è peggio della vecchia
Al “grande gioco” che ha la Siria come epicentro andrebbero aggiunte le questionigeopolitiche interne all'Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003,l'Unione è divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede sestessa come vittima della storia ed è priva di complessi su guerra, pace eautoritarismo. Non che la prima sia aperta ai rifugiati. Ma c'è un vasto arco,a Est, che sembra ignaro della Carta Europea dei diritti o delle ConvenzioniOnu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce muri e impedisceogni passo avanti sulla questione. Nelle sue chiusure, l’Est dell’Unione sisente più che mai rafforzato, in questi giorni, dagli eventi parigini. Parlodella Polonia in prima linea – visto il peso politico che ha nell'Unione –e della Repubblica Ceca, della Slovacchia, dell'Ungheria, dei Baltici. Averallargato l'Unione a questi paesi, senza porre condizioni stringenti eridiscutere i rapporti dell'Europa con la Nato, si sta rivelando una sciagura.La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazionedei richiedenti asilo, ad accettare i piani di ricollocazione, a evitare laconfusione tra rifugiati e terroristi dell’Isis. Il governo slovacco accetta unsiriani, ma a condizione che siano cristiani. Affermazioni simili sono venutedal governo polacco precedente la vittoria di Jarosaw Kaczynski. L'Ungheriacostruisce muri e agita lo spauracchio di una società multietnica. Nei paesibaltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia laminoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali.
Così procede l'Europa –fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza, distorcendo parole ecifre, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolinoaddomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, versonuove guerre e nuovi esodi
Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2015
Il manifesto, 13 novembre 2015
Facciamo un passo indietro. Offrire un po’ di quattrini in cambio delle repressione dei migranti da parte dei paesi «di fuori» è prassi ventennale in Europa. L’allora ministro Dini propose nel 1995 di aprire campi di detenzione per «clandestini albanesi» in Albania. Un’idea così insensata che Tirana la lasciò subito cadere. I governi italiani hanno sempre stipulato trattati di riammissione con Tunisia, Libia ecc., per lo stesso «nobile» motivo e infischiandosene se, con Gheddafi e Ben Alì, i migranti venivano vessati, spogliati di tutto e fatti morire nel deserto. Dal 2000 in poi, la prassi è divenuta normale per l’Unione europea. Diciamo che da ieri la politica della Ue verso l’Africa ha gettato trionfalmente la maschera.
Salvini, Le Pen, Grillo, Pegida ecc. diranno che è troppo poco, ma in fondo ammetteranno che questa è la strada giusta. «Aiutiamoli a casa loro!» non era forse uno slogan di Bossi?
Ora, la realtà, secondo stime della World Bank, è che solo una quota minima di migranti sub-sahariani (il 30% del totale) sceglie di spostarsi verso l’Europa, mentre più della metà migrano verso altri paesi africani e una piccola quota in Asia In altre parole, anche l’Africa è soprattutto terra di immigrazione. Analogamente, gran parte dei rifugiati e profughi di guerra è ospitata non in Europa, ma in Turchia, Giordania, Libia o e così via. Come spiegare allora il vertice di La Valletta?
Si tratta di una sorta di esternalizzazione preventiva, il cui scopo è scaricare sui paesi africani il controllo sia dei loro migranti e profughi, sia di quelli, provenienti dall’Asia, che scegliessero le rotte africane dopo la chiusura delle frontiere mediterranee e balcaniche. E come? In sostanza, incarcerando migranti e profughi, in lager vecchi o nuovi, grazie alla carità pelosa della Ue, in attesa che la situazione in Tunisia, Libia (e Siria) si chiarisca, magari con qualche bombardamento o intervento limitato. D’altronde, niente di nuovo sotto il sole: è da una quindicina d’anni che paesi come il Marocco o la Tunisia allestiscono Cpt a vantaggio dell’Europa.
E così lo scenario che si disegna è quella di un continente di 480 milioni di abitanti che dice di andare in crisi per l’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone, che sigilla le frontiere nei già turbolenti Balcani provocando una crisi dopo l’altra tra Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia ecc., che si fa condizionare da nazisti o da gente alleata di Casa Pound, che dice di combattere i trafficanti per tener fuori migranti e profughi – e che soprattutto sta militarizzando il Mediterraneo, intasandolo di fregate e cannoniere, manco fossimo nel caos che ha preceduto la prima guerra mondiale.
Queste centinaia di migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra o della fame sono divenuti merce di scambio e ricatto politico tra maggioranze e opposizioni, tra governi europei e potenze emergenti, tra Ue e stati africani o asiatici. Un bambino morto su una spiaggia turca emoziona il mondo, ma l’emozione sfuma in pochi giorni e lascia lo spazio a queste tremende burocrazie europee e statali con le loro organizzazioni e nuove missioni dai nomi dementi, Frontex, Triton, Eunavfor Med e altre che inevitabilmente impareremo a conoscere. Tutte prive di senso rispetto al loro obiettivo sbandierato di salvare vite umane, ma tutte coerenti nel controllare, registrare e internare.
In questo panorama di sigle, dichiarazioni, accordi, leggi prive di senso, facce feroci di ministri e migliaia di poveri annegati, spicca il sorriso vacuo di Renzi. Certo l’Italia non è più sola. È davvero in buona compagnia.
Il manifesto, 12 novembre 2015 (m.p.r.)
Le associazioni europee e africane che si occupano di migranti e di diritti umani, incluso quelle tunisine che hanno vinto il Nobel per la Pace, non sono state accreditate al vertice di La Valletta, pur avendolo chiesto insistentemente. Non possono neanche assistere al dibattito dentro il Mediterranean Conference Centre della capitale maltese tra i capi di Stato e di governo africani e europei chiamati a decidere misure di lungo termine che modificheranno nel profondo gli sviluppi delle rispettive società.
La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)
Londra. Dodici anni dopo la controversa invasione che è costata centinaia di migliaia o forse milioni di vite umane, e il posto di primo ministro a lui, Tony Blair dice: «I am sorry». L’ex leader laburista chiede scusa, anzi tre volte scusa: per gli errori dello spionaggio britannico che avevano attribuito a Saddam Hussein il possesso di armi di distruzione di massa (la ragione ufficiale per l’intervento militare del Regno Unito accanto agli Stati Uniti), per errori nella pianificazione della guerra e per la mancata comprensione di quelle che sarebbero state le conseguenze del conflitto, ovvero per l’instabilità che ha sconvolto l’Iraq e le regioni circostanti.
La Repubblica, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)
Lampedusa. I primi quindici migranti sono già scappati. Identificati qui nell’ hotspot sperimentale di contrada Imbriacola, inseriti nel registro delle quote europee, trasferiti sulla terraferma, nell’hub di Villa Sikania a Siculiana (Agrigente) in attesa di essere inviati nel Paese di destinazione. Scappati. Via, a cercare il primo treno o a farsi prelevare dall’autista dell’organizzazione di trafficanti per l’ultima tratta del loro viaggio nel tentativo di raggiungere la destinazione scelta da loro. E non dall’Europa.
Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2015 (m.p.r.)
Dimi Reider è un giornalista e blogger israeliano, co-fondatore di
+972 Magazine. È anche un associate fellow del European Council on Fo re i g n Relations (ECFR), sul cui sito è pubblicata la version e integrale di questo articolo, uscito negli Usa sulla rivista Foreign Affairs
Il manifesto, 25 settembre 2015, con postilla
E’ un alibi: si vuol far credere che le maniere forti possano sostituire l’accoglienza che non c’è. E per ridimensionare i flussi — e risolvere la questione – si conta di accogliere i rifugiati (quelli che provengono da paesi “insicuri”, in guerra) e di respingere i migranti (quelli che provengono da paesi definiti “sicuri”). Anche Prodi ha ricordato che nessuno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afghanistan o Kurdistan – è sicuro; e anche il ministero degli esteri avverte i turisti che tutti i paesi da cui provengono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e violenza per fuggire dal loro paese è perché là non possono più vivere.
E’ un’infamia, perché nasconde il fatto che se venissero approntati corridoi umanitari per permettere a chi fugge di raggiungere in sicurezza l’Europa, gli scafisti di mare e di terra non esisterebbero e si sarebbero evitate decine di migliaia di morti. E’ un crimine, perché fermare gli scafisti in Libia (nessuno, però, ha proposto di bombardare quelli della Turchia, altrettanto spietati), posto che sia fattibile, significa ricacciare i profughi nel deserto, condannandoli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti.
D’altronde gli hotspot pretesi da Junker e Angela Merkel in cambio delle quote di rifugiati da smistare in Europa sono la menzogna con cui si intende dimezzare il numero da accogliere, sbarazzandosi di coloro a cui non verrà riconosciuto lo status di rifugiati. Ma come si fa a rimpatriarne così tanti? E in paesi con cui non esistono accordi di rimpatrio e dove spesso non ci sono nemmeno autorità a cui riconsegnarli? Appena sbarcati, se non saranno imprigionati o soppressi, riprenderanno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta.
Evidente è la gara tra gli Stati dell’Unione per scaricarsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nessuno vuole accollarsi. Ma la vera contropartita delle quote è che chi non rientra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rimpatriato, dovrà farsene carico il paese di arrivo: Italia o Grecia; paesi che, anche se volessero, non potrebbero circondare di filo spinato le proprie coste come l’Ungheria fa con i suoi confini. La Spagna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Grecia dell’ex ministro Avramopoulos, ai confini con la Turchia; Francia e Regno Unito a Calais; la Bulgaria ha schierato l’esercito; Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Francia cercano di chiudere le frontiere… Così, anche se Angela Merkel lascia credere di avere forze e mezzi per affrontare la situazione, la soluzione con cui ripropone la sua leadership sull’Unione ne assegna i vantaggi alla Germania e ne scarica i costi sui paesi più deboli ed esposti. Proprio come con l’euro.
Sanzioni incisive, fino all’espulsione, contro gli Stati che rifiutano le quote — peraltro già ora insufficienti — sarebbero altrettanto rischiose per la coesione che accettare che ciascuno vada per conto suo. Così, se il feroce braccio di ferro con la Grecia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione portatrice di vantaggi e benessere per tutti i suoi membri, la vicenda dei profughi sta dando il colpo di grazia all’unità di una aggregazione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza.
Trasformare l’Europa in fortezza significa avallare e promuovere lo sterminio per mare e soprattutto per terra di chi cercherà ancora di fuggire dal suo paese; moltiplicare ai confini del continente caos e guerre che tracimeranno in Europa: con altri profughi, ma anche con terrorismo e aspri conflitti sociali; e consegnare al razzismo il governo degli Stati dell’Unione sempre più divisi. Chiunque sia a gestirli: destre, centri o “sinistre”.
Ma si può accogliere centinaia di migliaia, e domani milioni di profughi senza un programma di inserimento sociale: casa, lavoro, reddito, istruzione e diritti per tutti? Si può “tenerli lì” per anni a far niente, in sistemazioni di fortuna (che in Italia stanno arricchendo migliaia di profittatori) o in carceri come i Cie? Ne va innanzitutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intollerabile per tanti cittadini europei che abitano e lavorano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza reddito, abbandonati dallo Stato. E’ il modo migliore per alimentare tra loro rancore, rigetto e razzismo.
Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi africani e mediorientali e i loro abitanti, e soprattutto cerca di sbarazzarsi di quelli di loro che vogliono diventare, e già si sentono, cittadini europei, è la negazione di tutto ciò che la Comunità, e poi l’Unione europea, sembravano promettere con il richiamo ideale allo spirito di Ventotene. L’alternativa a questo processo di dissoluzione non può essere che l’abbandono delle politiche di austerità e il varo di un grande piano europeo per l’inserimento sociale e lavorativo sia di profughi e migranti che dei milioni di cittadini europei oggi senza lavoro, senza casa, senza reddito, senza futuro; affidandone la gestione a quelle strutture dell’economia sociale e solidale che hanno dimostrato di saperlo fare. Ma è anche la condizione irrinunciabile per aiutare i profughi a costituirsi in base sociale e punto di riferimento politico per la riconquista alla pace e alla democrazia dei loro paesi di origine; per l’allargamento all’area mediterranea e nordafricana di un’Unione europea da rifondare dalle radici.
I contenuti di quel piano non possono che essere le misure e gli investimenti necessari per far fronte agli impegni sul clima da assumere alla prossima “Cop-21″ di Parigi, se si vuole che l’Europa faccia la sua parte per arginare una catastrofe imminente. Sono misure in grado di dare lavoro, reddito e sistemazione a tutti: profughi, migranti e cittadini europei. Un piano del genere, che ha una dimensione economica, ma deve avere soprattutto un risvolto sociale e una articolazione fondata sull’attenzione alle persone e alle vicende individuali di ciascuno, non può essere delegato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logiche del mercato. Deve nascere, rapidamente, da un confronto tra tutte le forze sociali impegnate sul fronte del cambiamento e trovare in un soggetto attuatore adeguato. Che non può essere che la rete europea dell’economia sociale e solidale. Per tradursi al più presto in una piattaforma politica da proporre e sostenere in alternativa alle scelte spietate e paralizzanti di questa Europa.
postilla
Non è la prima volta che Guido Viale (e molti degli intellettuali che hanno dato vita ad "Altra Europa con Tsipras") affrontano il tema del gigantesco trasferimenti di persone dal Sud del mondo all'Europa in connessione con la proposta di un "nuovo New Deal" europeo. L'obiettivo della proposta non è solo quello di dare concreta ospitalità alle differenti forme e soggetti dell'Esodo del XXI secolo (persone in fuga per guerre guerreggiate, per lesione dei diretti umani, per miseria e carestie, persone che vedono l'Europa come una dimora transitoria oppure definitiva) ma è anche quella di trovare un impiego socialmente e umanamente utile alla gigantesca risorsa costituita dalla forza lavoro che affluisce verso l'Europa. e che è da ciechi, oltre che da miserabili, pensare di poter ridurre nella quantità. Certo, per immaginare e realizzare un simile programma occorrono due convinzioni pregiudiziali: (1) bisogna credere che il lavoro dell'uomo è una risorsa indispensabile per comprendere e trasformare il mondo; (2) bisogna aver appreso dai fatti che né il Mercato né uno Stato che del mercato sia lo strumento sono capaci di cimentarsi in una simile impresa.
La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così ne Gli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
«Alle 5 porto 100 uova sode, 20 chili di feta e dolci di cioccolata» posta sul sito Train of hope uno dei migliaia di volontari che prestano assistenza 24 ore su 24 alle stazioni di Vienna. «Ho raccolto tende, sacchi a pelo e impermeabili, tante altre cose le ho comprate» si legge invece su Soskonvoi, sono cose richieste con urgenza che verranno portate lontano, a Bregona, al confine sloveno e a Tovarnik al confine tra Croazia e Ungheria. Lì l’iniziativa Soskonvoi diventata famosa per essere andata a prendere i rifugiati in Ungheria ha attrezzato un suo ufficio: sul posto manca tutto, raccontano, acqua, cibo, riparo.
Alla fine, venerdì notte i rifugiati intrappolati oltre confine sono approdati alla frontiera austriaca orientale, a Nickelsdorf e Heiligenkreuz, dopo la lunga disperata odissea tra Croazia e Ungheria. 10mila in un giorno solo, alcuni a piedi. Grazie alla mobilitazione continua della società civile è stato possibile gestire l’accoglienza. Approdati. Solo sabato sera, attesi lì fin da venerdì, arrivo di profughi a Spielfeld al confine sloveno, dove sono stati attrezzati in ogni dove posti letto per 4000 persone. Decine di autobus dell’esercito hanno portato i rifugiati a Vienna, Salisburgo e Graz. Per molti c’erano subito i treni pronti in direzione Germania.
Il controllo ai confini, oggetto di contrasto della coalizione di governo tra socialdemocratici (Spoe) e popolari (Oevp) avviene «a campione», o «per niente», come ha accusato il ministro degli interni della Baviera. L’Austria, paragonata a Italia e Grecia. I 1500 soldati austriaci schierati al confine con Ungheria e Slovenia svolgono soprattutto funzioni umanitarie e logistiche.
A Graz, capoluogo della Stiria, un’ora dal confine sloveno, venerdì sera una fiaccolata di solidarietà organizzata dai giovani socialisti (Sj) e Ong ha attraversato la città: «Non solo di solidarietà, ma contro l’odio, la discriminazione e l’istigazione. Per l’estrema destra di H.C. Strache il sostegno ai rifugiati è una posizione di minoranza. Non è così, la maggioranza, prima silenziosa ha alzato la voce».
Una manifestazione con candele e fiaccole ha attraversato venerdì anche Wiener Neustadt, capoluogo della Bassa Austria. Sabato tutto il pomeriggio e sera concerto in piazza per «ringraziare la popolazione che aiuta i rifugiati del centro di accoglienza di Traiskirchen». Dal canto suo la Fpoe, quasi scomparsa dai tg, su megacartelloni annuncia la «Oktoberrevolution» (rivoluzione d’ottobre, si riferisce all’11 ottobre, elezioni di Vienna). Il movimento welcome refugees gli contrappone la «rivoluzione di settembre», la solidarietà concreta largamente diffusa.
Rivoluzione di settembre o di ottobre? Nei sondaggi pubblicati dal settimanale Profil sabato, su scala nazionale il 33%, un terzo della popolazione, voterebbe per il partito di Strache, salito al primo posto. La Spoe del cancelliere Werner Faymann, attuale primo partito segue col solo 23%, l’alleato di governo, i popolari al 21%, i Verdi al 14%. Nello stesso sondaggio però un 72% condivide l’impegno della società civile verso i profughi, solo un 23% si sente rappresentato dalla xenofoba Fpoe su questo argomento. Il successo di questa dimensione della Fpoe, più e oltre la xenofobia il sondaggio lo riconduce alla impopolarità perdurante della grande coalizione fortemente divisa al suo interno, bloccata, considerata incapace di decidere e agire. In un altro sondaggio l’85% della popolazione si dichiara orgogliosa per il modo in cui l’Austria ha accolto i profughi.
Venerdì e sabato a Vienna, su invito del cancelliere Faymann si è svolto un minivertice di dirigenti di partiti socialdemocratici in vista del vertice europeo di mercoledì, con il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, il primo ministro svedese Stefan Loefven e Martin Schulz. Ribadita la necessità di investire subito 5 miliardi per i campi profughi vicini alla Siria, e su scala europea, la difesa del lavoro e il rilancio di un Europa sociale.
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo scorso 11 settembre più di 250mila persone hanno manifestato a piedi scalzi in 71città italiane chiedendo diritti e accoglienza per i migranti e profughi, senza sé e senza ma. E’ stata prova di partecipazione e di mobilitazione straordinaria che ci consegna la domanda di come far vivere nei prossimi mesi un’azione di denuncia politica e di solidarietà concreta con i migranti. «La marcia delle donne e degli uomini scalzi non si fermerà. Continuerà anche dopo l’11 settembre».
Questo è stato detto nell’appello finale letto alla conclusione della manifestazione a Venezia: «E’ una marcia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fondata sulla pace. Una speranza che vogliamo continuare a difendere e per cui vogliamo lottare».
I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qualche sussulto europeo, tra Berlino e Bruxelles, sull’onda dell’emozione della fuga dei profughi siriani, la Merkel ha annunciato che ora le frontiere si chiudono, i paesi dell’est europeo hanno ribadito che non accetteranno nessuna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria finisce di costruire il muro, spara lacrimogeni e usa cannoni d’acqua contro i migranti, e la Francia minaccia nuovi raid aerei in Siria.
Invece sono altre le strade che andrebbero seguite per cercare di affrontare un flusso di profughi - che ormai avrà caratteristiche di permanenza - verso l’Europa. Sempre nell’appello conclusivo è stato affermato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Bisogna creare un vero e proprio corridoio umanitario per chi scappa dalla guerra e bisogna istituire un diritto di asilo europeo che superi l’anacronistico regolamento di Dublino».
E proprio nella manifestazione conclusiva di Venezia, una delegazione della manifestazione di migranti e richiedenti asilo sono simbolicamente saliti sul red carpet della Mostra del cinema aprendo uno striscione davanti a fotografi e pubblico in attesa delle star: humanitarian corridors, now. E’ questa la priorità oggi. Questo il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di accogliere chi -dopo interminabili sofferenze - arriva ai confini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non riesce a fuggire e rischia la morte e la violazione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre frontiere non arriverà mai.
Oggi i corridoi umanitari sono ineludibili. Ne servono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Mediterraneo, assicurando in questo caso passaggi in mare sicuri. Ma su questa strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sentono e si barcamenano tra quote per la ripartizione dei profughi - quote molto modeste e non accettate - nuovi hot spot da istituire e che rischiano di produrre non maggiori tutele ma altre discriminazioni e nessuna resipiscenza sulla convenzione di Dublino.
Al governo Renzi dobbiamo chiedere di prendere una iniziativa che vada in questa direzione non solo in Europa, ma anche in Italia: chiudendo i centri di detenzione, introducendo il diritto di voto alle amministrative per i migranti, istituendo unilateralmente un corridoio umanitario dalle coste meridionali del Mediterraneo. Si tratta, dunque, di rilanciare una mobilitazione.
La marcia delle donne e degli uomini scalzi - con tutto il suo carico simbolico e di concretezza nella forma della partecipazione - ha dimostrato che c’è una grande disponibilità, che non va dispersa, ma rafforzata e sviluppata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che faccia argine alla xenofobia e al razzismo e che sia da ariete contro tutti quei fili spinati e muri che si cercano di alzare in Europa ancora una volta.
C’è un primo appuntamento: domani, 21 settembre manifesteremo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Villini 12) e davanti ai consolati ungheresi in Italia (come a Milano, Venezia, Palermo, Trieste e altre città che si stanno aggiungendo) per dire basta ai muri e ai fili spinati, basta alla criminalizzazione dei profughi, basta all ipocrisie europee (qui info). Se c’è qualcuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Viktor Orban.
La Repubblica, 19 settembre 2015
LO SLANCIO di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo. Ma quanto meno ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.
Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.
Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.
L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.
Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).
Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.
Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
«». Lavoce.info
Un passo per cambiare Dublino
Alcuni giorni fa, la Germania ha adottato una decisione generosa riguardo al problema dei profughi, offrendosi di dare asilo ai siriani, in deroga al regolamento di Dublino, in base al quale la responsabilità spetterebbe allo stato membro di primo ingresso nel territorio Ue. A seguito di questa scelta, il governo tedesco si è trovato a fronteggiare un flusso assai meno controllabile di quanto immaginato. Ha quindi fatto una temporanea marcia indietro, richiamando gli altri paesi membri alla propria responsabilità in relazione alla ripartizione dei profughi.È possibile che il risultato netto di tutta l’operazione sarà un semplice ritorno alla soluzione (insoddisfacente) concordata a fine luglio: non una ripartizione “obbligatoria” in base alle capacità economiche e agli sforzi già sostenuti da ciascuno stato, come originariamente proposto dalla Commissione Ue, ma la ricollocazione di poche decine di migliaia di profughi, a parziale sgravio di Italia e Grecia, sulla base della (scarsa) disponibilità dimostrata da alcuni stati soltanto.
Rifugiati giovani e determinati
Questa soluzione avrebbe il vantaggio di rendere prevedibile lo sforzo richiesto, togliendo argomenti a coloro che paventano invasioni incontrollate. Lo svantaggio sarebbe invece rappresentato dal rischio di un approccio poco generoso. Per evitare che l’atteggiamento degli Stati più tirchi paralizzi l’intera Ue, si dovrebbe accettare che l’Unione proceda a diverse velocità, lasciando che ciascuno stato stabilisca da sé il limite numerico che lo riguarda (la cosa è già prevista dall’articolo 25 della direttiva 2001/55/Ce). Il successo di un approccio generoso servirebbe a mandare un segnale a quei paesi membri che lo sono di meno. Ma è credibile che la generosità si traduca in un successo per lo stato che la pratica? Se guardiamo alla straordinaria capacità, dimostrata da moltissimi profughi, di affrontare fatiche e pericoli, questo è possibile: si tratta di favorire l’inserimento sociale e lavorativo di una popolazione giovane e fortemente motivata. E un’economia vecchia e spenta come quella europea non potrebbe che giovarsi di questa iniezione di motivazione.
L’Europa si gioca la propria credibilità. Non possiamo rimanere impassibili quando la morte incombe quotidianamente sulle nostre spiagge, mentre migliaia di famiglie che fuggono dalla guerra in Africa, Medio Oriente e Asia Centrale si ammassano nei porti, nelle stazioni, nei treni e nelle strade in attesa di una risposta umanitaria da parte dell’Europa.
Siamo responsabili di fronte ai nostri cittadini che esigono da noi misure urgenti e pongono a nostra disposizione le risorse e i mezzi per facilitare l’accoglienza. Siamo responsabili di fronte ai paesi limitrofi che accolgono rifugiati molto oltre le proprie possibilità — solo in Libano ci sono 1,1 milioni di rifugiati, ovvero il 25% della popolazione del paese. Siamo responsabili di fronte all’idea stessa che ha fatto nascere l’Europa, fondata sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, sulla vergogna dell’olocausto e sulla sconfitta dei fascismi, per assicurare un futuro di pace, prosperità e fraternità per le future generazioni. Dobbiamo essere all’altezza della promessa fatta di fronte al nostro continente in rovina: «Mai più».
La nostra maggior responsabilità è di fronte al genere umano. Se continuiamo ad alzare muri, chiudere frontiere, lasciando il lavoro sporco ad altri stati perché siano loro a fare da gendarmi delle nostre frontiere, che messaggio lanciamo al mondo? Che volto dell’Europa riflette questo Mare Mediterraneo coperto da corpi senza vita?
Noi, le città europee, siamo pronte a diventare luoghi d’accoglienza. Noi, le città europee, vogliamo dare il benvenuto ai rifugiati e alle rifugiate. Sono gli Stati a riconoscere lo statuto d’asilo, ma sono le città a dare sostegno. Sono i municipi lungo le frontiere, come le isole di Lampedusa, Kos e Lesbos, i primi a ricevere i flussi delle persone rifugiate; e sono i municipi europei che dovranno accogliere queste persone e garantirgli di poter iniziare una vita, lontano dai pericoli da cui sono riusciti a scappare.
Per ciò disponiamo di spazio, servizi e, la cosa più importante, della volontà dei cittadini di farlo. I nostri servizi municipali stanno già lavorando in piani di accoglienza per assicurare pane, tetto e dignità a chi fugge dalla guerra e dalla fame. Manca solo l’aiuto degli Stati.
Come sostiene UNGHR, siamo di fronte alla più grande crisi di rifugiati fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Da Voi, governi degli Stati e dell’Unione Europea, dipende che questa crisi umanitaria non si trasformi in una crisi di civiltà, una crisi dei valori fondamentali delle nostre democrazie. Durante anni, i governi europei hanno destinato la maggioranza dei fondi per l’asilo e le politiche migratorie a blindare le nostre frontiere, convertendo l’Europa in una fortezza.
Questa politica sbagliata è la causa del fatto che il Mediterraneo si sia convertito in una tomba per migliaia di rifugiati che provano ad avvicinarsi e condividere la nostra libertà. È venuto il momento di cambiare le priorità: destinare i fondi necessari per garantire l’accoglienza dei rifugiati in transito, appoggiare con risorse le città che si sono offerte come luoghi di rifugio. Non è il momento delle parole e dei discorsi vuoti, è il momento di agire.
Ieri si è svolto a Bruxelles il summit dei Ministri degli Interni e di Giustizia dei paesi membri della Ue per discutere la crisi dei rifugiati. Abbiamo chiesto loro di non girare le spalle alle città, di ascoltare il clamore che si alza nelle nostre strade. Abbiamo bisogno dell’appoggio e la cooperazione degli Stati, dell’Unione Europea e delle istituzioni internazionali per assicurare l’accoglienza.
È tempo di costruire la storia di un’Europa per la quale essere riconosciuti dal resto dei popoli del mondo e ricordati dalle generazioni che verranno. Non lasciateli soli, non lasciateci sole.
Ada Colau sindaca di Barcellona
Anne Hidalgo sindaca di Parigi
Spyros Galinos sindaco di Lesbo
Hanno inoltre aderito al manifesto Manuela Carmena, sindaca di Madrid; Xulio Ferreiro, sindaco di La Coruña; José María González, “Kichi”, sindaco di Cadice; Martiño Noriega, sindaco di Santiago de Compostela, Pedro Santisteve, sindaco di Saragozza.
La libera circolazione rischia di venire travolta dal panico in cui sta cadendo la Ue in queste ore. I ministri degli Interni dei 28 paesi Ue mettono la sordina sulle “quote obbligatorie”, mentre la Germania, domenica, seguita ieri da Austria, Slovacchia, Repubblica ceca e nel tardo pomeriggio anche dall’Olanda, ha sospeso Schengen ristabilendo i controlli alle frontiere. Polonia e Belgio potrebbero fare la stessa scelta nelle prossime ore. Il ministro degli Interni francese, Bernard Cazeneuve, si piega alle richieste delle destre e afferma da Bruxelles che “sono già state disposizioni” per ripristinare i controlli alla frontiera con l’Italia “se si ripeterà una situazione simile a quella di alcune settimane fa” (a Ventimiglia), ma giudica “stupido” fare la stessa cosa al confine con la Germania. L’Ungheria da oggi impone lo stato d’emergenza, con l’arresto per chi entra illegalmente, l’utilizzazione di containers per ospitare i tribunali alla frontiera con la Serbia che giudicano senza la presenza di interpreti i profughi trattati come criminali, richiusi in campi di detenzione.
La decisione più concreta di ieri, presa in mattinata prima dell’incontro dei ministri degli Interni (e della Giustizia) a Bruxelles, è stato il varo della fase 2 della missione navale EuNavForMed, che permette l’uso della forza contro gli scafisti. Le operazioni dovrebbero partire da inizio ottobre. Per la redistribuzione dei profughi, invece, i ministri degli Interni si riuniscono di nuovo l’8–9 ottobre, ma già si parla di “flessibilità” nell’applicazione del ricollocamento dei 120mila del piano Juncker. Se i blocchi continuano, dovrà venire convocato un vertice dei capi di stato e di governo, che rischia di sancire la frattura che ormai mina la Ue.
Francia e Germania, che cercano di mantenere una parvenza di unione anche se la decisione di Berlino di sospendere Schengen è stata accolta come una sberla da Parigi, chiedono “immediatamente” l’apertura di hotspots in Italia e Grecia (e Ungheria, ma Orban si autoesclude), e affermano che faranno un forte “pressing” sui partner. Per François Hollande, “far rispettare le frontiere esterne è la condizione per poter accogliere degnamente i rifugiati”. Il ministro degli Interni della Baviera, Joachim Herrmann, che non risparmia critiche a Merkel per aver incitato i profughi a venire in Germania, punta il dito contro Italia e Grecia, paesi di primo arrivo, secondo lui responsabili del “caos”.
In pratica, riprende alla grande nella Ue lo scaricabarile dei profughi. Angelino Alfano chiede che “i rimpatri” vengano organizzati da Frontex “con i soldi Ue”. Bruxelles promette che “gli stati invieranno subito funzionari di collegamento” per aiutare i paesi di primo arrivo a fare la distinzione tra chi ha diritto all’asilo e chi deve venire espulso. Cazeneuve parla di “umanità e responsabilità”, sperando di convincere i reticenti alla distribuzione. Per il momento, c’è il programma presentato a giugno, per la ricollocazione di 40mila persone (con offerte solo “volontarie” per ricollocare 24mila persone già presenti in Italia e 16mila che sono in Grecia), mentre è sempre in alto mare il meccanismo di ripartizione per “quote” di altri 120mila. Nei fatti, gli arrivi delle ultime settimane rendono ormai caduche queste cifre, inferiori di molto alla realtà. La Commissione ha messo nel cassetto la minaccia di multe per chi non partecipa alla redistribuzione.
Le richieste dell’Onu, ancora ribadite ieri, per “quote obbligatorie” e gli appelli della Commissione a favore di una soluzione “comune” rischiano di cadere nel vuoto, cosi’ come l’allarme del gruppo S&D: “la politica comune di immigrazione e asilo è l’unica strada per salvare l’Europa dalla disintegrazione”. La posizione tedesca si è di fatto indebolita, con il voltafaccia di Angela Merkel di domenica, anche se sembra fosse destinato a far pressione sull’est reticente. Il portavoce di Merkel, Steffen Steibert, assicura che rimettere i controlli alle frontiere “era necessario, ma nulla cambia” nella politica di accoglienza di Berlino. Per il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, deve essere pero’ chiaro che “i richiedenti asilo devono accettare il fatto che non possono scegliere il paese europeo a cui chiedere protezione”. Per il ministro degli Esteri polacco, Rafal Trzaskowski, “l’Europa rischia una crisi istituzionale se impone quote obbligatorie”, impegno ormai sfumato nei documenti di Bruxelles. Il fronte del “no” al piano Juncker sulla ridistribuzione dei 120mila profughi si è ricompattato, Ungheria ormai fuori dalle regole Ue, con Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia, Romania (c’è anche la Danimarca, ma il paese ha l’opt out su questi temi, come Gran Bretagna e Irlanda). In Francia, l’ex presidente Nicolas Sarkozy chiede uno statuto speciale per i rifugiati di guerra, che dovrebbero rientrare in patria una volta tornata la pace (questa clausola in effetti esiste, ma è la Commissione a doverla attivare).
Il manifesto, settembre 2016
L’accoglienza è destinata a diventare per l’Unione il problema maggiore: divide tra loro gli Stati membri impegnati a rimpallarsi le quote di profughi da ammettere; e fomenta al loro interno quello scontro sociale di cui si alimenta la xenofobia. Innanzitutto l’Unione non potrà avere una politica comune per accogliere profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza - casa, lavoro, reddito e sicurezza - a una quota crescente dei suoi cittadini. Quando il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 20 per cento, e in alcuni paesi il 50, è a un’intera generazione - anzi ormai a due - che vengono negate le forme basilari della cittadinanza. In queste condizioni è difficile pensare a una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia che si aprano loro le porte, sia che si punti su respingimenti inefficaci e spietati.
Ma la ragione vera della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi Governi hanno assistito ignavi, quando non vi hanno partecipato direttamente o non hanno addirittura preso l’iniziativa, a massacri e guerre scatenate ai confini dell’Europa: quasi che la cosa non li riguardasse, impegnati com’erano, e sono, a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Se a rappresentare la politica estera dell’Unione figure insignificanti non è solo perché quella materia ogni Governo vuole riservarla per sé. Il fatto è che - a parte gli accordi commerciali, soprattutto per procurarsi petrolio e metano - nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: quella che nel corso degli anni si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima – ma non l’unica – conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. Francia e Regno Unito stanno già pensando a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia: che hanno perso, creando un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora, che siano i vertici dell’Unione e dei suoi Governi a risolvere il problema creato da centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della propria sopravvivenza è del tutto irrealistico. L’Unione europea vorrebbe respingerne la maggioranza, ma non è in grado di farlo: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che sta già facendo pagare alle sue vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cerca di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria, o un contadino che sta morendo di fame e di sete – sì, anche di sete – in uno stato subsahariano fossero diversi, nelle loro motivazioni alla fuga, da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa, o di tutti e quattro.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno brutale, da molti governi, sono state per qualche giorno rovesciate e sconfitte dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada che porta a Vienna, o al loro arrivo nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena facendo tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Perché dietro a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che - senza distinguere tra profughi e migranti economici - hanno cercato e cercano di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui stampa e media non avevano dedicato in sei mesi un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini e dei suoi compagni di merende.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore di vedersi portare via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo: consapevole, a differenza di molti suoi governanti (in sei mesi di Presidenza europea Renzi non aveva rivolto una sola parola alla soluzione del problema dei profughi) che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori dove si insedieranno; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione, qui, dove sono arrivati, di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.
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La Repubblica, 13 settembre 2015
C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: ubuntu e’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia. Wole Soyinka, poeta e scrittore nigeriano, nel 1986 premio Nobel per la Letteratura, la usa spesso nel suo ultimo libro, “dell’Africa”, uno dei testi più importanti fra quelli presentati al Festivaletteratura di Mantova. Mentre sulle pagine dei giornali e alla tv si susseguono le immagini dei profughi che cercano di arrivare in Europa, e’ impossibile non iniziare una conversazione con Soyinka senza parlare di ubuntu .
Le sembra una parola appropriata per le giornate che stiamo vivendo?«È un’espressione che hanno spesso usato persone come Mandela e Desmond Tutu: volevano dire che qualunque persona sia in stato di necessità deve essere aiutata. Che la solidarietà è obbligatoria e che siamo tutti responsabili. Altrimenti perdiamo la nostra umanità. È una parola adeguata a queste giornate, a patto di metterla nella giusta prospettiva. È dovere dei paesi da cui i migranti fuggono, e mi riferisco in particolare a quelli africani, creare le condizioni sociali perché queste persone abbiano sempre meno motivi per scappare. Ed è dovere del mondo esterno capire che la relazione che ha avuto con l’Africa, il lascito del colonialismo è alla base delle migrazioni».
Cosa pensa della reazione dell’Europa di fronte ai profughi?
«Sono sorpreso che l’Europa non abbia capito prima quello che stava per accadere. Da tempo i rifugiati interni ai paesi dove si combatte erano milioni, era naturale che prima o poi la crisi si espandesse. Ora ci sono moltissime persone pronte ad affrontare una morte quasi certa per mare per la speranza di una vita migliore».
L’Europa manca dunque di prospettiva, di uno sguardo di lunga durata?
«Penso all’Africa, e Le rispondo che qualche volta è bello essere dimenticati, lasciati a risolvere i propri problemi: non si può sempre essere assistiti. Ma qualche volta l’attenzione serve. Le faccio un esempio: qualche anno fa il mondo si indignò per Amina, una donna che stava per essere lapidata per adulterio in Nigeria. Fu una cosa importante, perché anche quelli che fino a quel momento avevano fatto finta di nulla furono costretti ad ammettere che stava accadendo qualcosa di sbagliato».
Direbbe lo stesso del clamore suscitato dal rapimento delle ragazze di Chibok da parte di Boko Haram?
«Quella e’ una storia talmente grande che era impossibile da ignorare. Ha colpito tutti, perché ha richiamato alle sue responsabilità una società che non era stata in grado di proteggere delle ragazze nel luogo dove avrebbero dovuto essere più sicure, e un governo che non si è mosso in tempo. Ha costretto tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno, che io chiamo del bokoharamismo, che era lì davanti a tutti: la diffusione di un gruppo che è incapace di guardare all’essere umano se non attraverso le lenti strettissime della sua visione religiosa estremista. Abbiamo visto l’intolleranza crescere sotto i nostri occhi e la religione diventare uno scudo per fare quello che si voleva. Lo abbiamo visto nel silenzio totale delle autorità: nessuno e’ stato chiamato a rispondere del fatto che qualche anno fa gruppi di estremisti abbiano messo Abuja a ferro e fuoco per protestare contro un concorso di bellezza. Nessuno ha pagato. Chibok e’ stato il caso più brutale. Il messaggio era: “facciamo ciò che vogliamo con quello che di più caro avete”. Con i riflettori del mondo addosso il governo non ha più potuto far finta di niente».
A 500 giorni da quel rapimento in Nigeria qualcosa e’ cambiato?
«Sta cambiando. Mai abbastanza per me, ma qualcosa si sta muovendo. La gente non dice più le stesse cose di prima, i politici stanno più attenti a giocare la carta delle divisioni religiose. Tutto questo non è più possibile dopo Chibok, come non è più possibile ignorare il fatto che la diffusione dell’estremismo è un problema reale».
Wole Soyinka scrittore e poeta nigeriano premio Nobel per la Letteratura nel 1986
Qualche migliaio di manifestanti, rigorosamente a piedi nudi, hanno attraversato il Lido: tante donne, ragazzi e ragazze, tra loro decine di migranti. Soprattutto dall’Africa: Nigeria, Gambia, Senegal. Si vedono anche bandiere del sindacato: spiccano quelle verdi della Cisl, ma ci sono pure iscritti della Uil, e una nutrita rappresentanza della Cgil, con in testa la segretaria Susanna Camusso.
Folto anche il drappello di politici, ma se si eccettua il vignettista Staino dell’Unità, della galassia renziana non si vede nessuno. In qualche modo, si tratta di “ex”: l’ex segretario di Sel Nichi Vendola, la ex ministra Livia Turco, gli ex piddini Stefano Fassina e Pippo Civati. Avvistato anche l’ex sindaco di Padova ed ex ministro Flavio Zanonato. A riassumere la piattaforma della manifestazione è Giulio Marcon, di Sel, che con il regista Andrea Segre, altri attori e artisti, un vasto arco di associazioni, ha organizzato in pochi giorni le marce in tutta Italia: «La prima urgenza — spiega — è quella di allestire corridoi umanitari sicuri e protetti, a livello europeo. Si dovrebbe poter fare già nei paesi di origine, o a pochi chilometri dalle coste, intercettando i barconi per salvare chi fugge. E accogliere tutti, innanzitutto, calibrando poi l’intervento a seconda che si tratti di rifugiati o di migranti economici”.
Il tema mainstream, quello che nella versione Merkel, o in quella di Salvini, impone una netta distinzione tra chi accogliere e chi rimandare a casa, qui non sembra porre dubbi: tutti concordano sulla necessità di non discriminare. Lo spiegano Rita e Filomena, due giovani sorelle della Congregazione Charles de Foucauld di Fermo, casa di accoglienza per migranti: «Gli uomini sono tutti uguali, e non puoi selezionare. Poi anche chi fugge dalla fame, chi tenta di sopravvivere con i propri figli, è come se venisse da una guerra. Noi cerchiamo di far integrare le persone che stanno da noi: adesso alcuni di loro stanno creando una cooperativa con diversi mestieri».
«Da Venezia a Kobane, da Budapest a Bruxelles: #apiediscalzi #refugeeswelcome». «Io non sono un pericolo, io sono in pericolo». «Abbiamo bisogno di documenti». Tanti gli slogan portati sui cartelli dai migranti, mentre i centri sociali del Nordest — tra loro Luca Casarini — scandiscono «La nostra Europa non ha confini, siamo tutti clandestini», con la doppia versione finale: «siamo tutti cittadini». A metà strada vengono messe a disposizione diverse bacinelle di tempere colorate: chi vuole può bagnarsi i piedi e lasciare le proprie orme sul vialone che porta al Casinò.
Sankung, un ragazzo del Gambia, spiega di essere ospite con altri 50 immigrati in un albergo di Chioggia: le procedure per vagliare le loro richieste di asilo sono lentissime, così c’è chi è da oltre un anno in attesa. E visto che non hanno documenti, per il momento non possono neanche cercarsi un lavoro regolare. Il gruppo è accompagnato da Elena Favaretto, dell’associazione di volontariato Migrantes: spiega che la commissione di Padova, che ha in carico le loro richieste, concede gli asili con il contagocce. Gianluca Schiavon, del Prc, spiega che il suo partito sta sperimentando l’accoglienza nelle sedi locali in diverse città.
Tra i bonghi e i canti dei migranti e le musiche diffuse dal camioncino dell’organizzazione, risuonano le parole dell’appello letto dall’attrice Ottavia Piccolo: «Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi. Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere. E’ difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno». In attesa del vertice Ue di lunedì, gli italiani e i migranti che hanno marciato oggi in tutto il Paese sperano che si apra uno spiraglio per una politica comune dell’asilo e l’istituzione immediata di corridoi umanitari.
. La Repubblica, 12 settembre 2015
LA REAZIONE nel complesso positiva della popolazione tedesca all’afflusso di rifugiati segna un’importante discontinuità con lo stato d’animo imperante nel Paese all’inizio degli anni ‘90. Dimostra che una leadership politica risoluta – di cui finora, con la Merkel, abbiamo sentito la mancanza – può condurre nel lungo periodo l’opinione pubblica e la società civile a manifestare il loro sostegno e la loro volontà di venire in aiuto a queste popolazioni.
L’asilo politico non è una questione di valori – le chiacchiere sul tema dei “valori” mi esasperano – ma un diritto, e un diritto fondamentale. Questo diritto non può essere garantito solo dai Governi. Dev’essere rispettato dalla popolazione nella sua interezza. I Governi possono non riuscire a far fronte alla sfida attuale, per scoraggiamento o per mancanza di sostegno da parte dei loro mezzi di informazione e dei loro cittadini. E a volte anche per calcoli meschini e per la pusillanimità dei partiti politici di fronte alla pigrizia, l’egoismo e la mancanza di una visione alta nella popolazione.
Per il momento, vediamo che i Paesi membri dell’Unione Europea non riescono, complessivamente, ad accordarsi su una linea d’azione comune. L’onesta proposta del presidente Hollande e della cancelliera Merkel non incontra consenso. Si tratta indubbiamente di un segnale allarmante e vergognoso, ma che la dice anche lunga sul reale stato politico di una comunità che non è diretta da un Parlamento e un Governo comuni, bensì da compromessi stipulati tra ventotto Governi nazionali.
Le diverse reazioni nazionali al problema urgentissimo che dovrebbe oggi vedere una risposta comune testimoniano anche realtà di cui bisogna tener conto: la differente anzianità di appartenenza all’Unione, le differenze economiche importanti – troppo importanti – fra Paesi membri, e soprattutto le differenti storie nazionali e le differenti culture politiche.
L’Europa, di fronte a questo disaccordo insormontabile sulla sfida politica e morale rappresentata dalla crisi migratoria, non deve fallire, col rischio di uscirne alla lunga devastata. E a tale scopo vedo solo una strada realistica: la Francia e la Germania devono prendere l’iniziativa e riunire i Paesi strettamente legati fra loro dall’euro e dalla crisi che attraversa questa moneta per proporre delle soluzioni comuni. La Francia e la Germania devono dimostrare che esiste un nocciolo duro dell’Europa in grado di agire e di andare avanti unito.
Un successo simile potrebbe portare anche, finalmente, a un cambiamento dell’atteggiamento del Governo tedesco, da cui dipende in toto un esito positivo, più a lungo termine, della crisi monetaria stessa. La Francia, se adottasse una linea di condotta energica sulla crisi dei profughi, oltre a restare fedele alla sua tradizione politica darebbe una spinta al Governo tedesco, in modo indiretto: non è solo questione di mostrarsi solidali con quelli che cercano asilo politico, perché una solidarietà di questo tipo è un dovere giuridico; una solidarietà finanziaria è anche una necessità politica in seno a una comunità monetaria che può sopravvivere solo con una politica fiscale, economica e sociale comune.
Traduzione di Fabio Galimberti