loader
menu
© 2024 Eddyburg

il manifesto che il giornale, per ragioni di spazio, ha dovuto ridurre. I sottotitoli sono nostri. 12 marzo 2016

Per anni l’Eurobarometro ha indicato negli italiani uno dei popoli più “europeisti” e favorevoli all’ulteriore integrazione dell’Unione. Ma diverse indagini mostravano anche che gli italiani sono tra i meno informati sulle istituzioni e le politiche dell'UE. E’ una caratteristica della vita politica italiana: meno se ne sa e più ci si appassiona.
Questo fenomeno ha toccato il grottesco nelle risposte date a una recente indagine pubblicata dal quotidiano Repubblica sull’atteggiamento verso il trattato di Schengen in quattro paesi europei. Ora, con una completa inversione di marcia, i più favorevoli al ritorno ai confini nazionali (e i più contrari all’UE) risulterebbero di gran lunga gli italiani.
Un risultato in parte dovuto al modo bislacco in cui sono state poste le domande: nessuno ha spiegato agli intervistati che l’abolizione di Schengen avrebbe effetti tra loro molto diversi: per gli altri paesi europei sarebbe la soluzione “ideale” per tenere i profughi lontani dai loro territori; per noi significherebbe farsi carico di tutti gli arrivi, senza la possibilità di condividerne l’onere con il resto dell’Europa.
Ma tant’è: una diffusa avversione per i profughi si mescola ormai in modo inestricabile con l’avversione per l’Europa, chiamata in causa dai nostri governanti, a volte anche a sproposito, per giustificare tutte le sofferenze e le malversazioni inflitte ai propri concittadini. Schengen è un’istituzione europea; quindi al diavolo anche lei…
E’ una ventata di feroce stupidità che non si ferma ai valichi del Brennero e Ventimiglia. Investe ormai in forme altrettanto irrazionali tutta l’Europa, dove nessuno di coloro che vogliono respingere i profughi costi quel che costi ha la minima idea di che cosa ciò comporti.
Eppure è chiaro che il filo spinato e l’esercito messo lì a presidiarlo (la nuova “cortina di ferro”) sono una soluzione di poco respiro, che rischia di provocare una strage di proporzioni mai viste, di respingere tra le braccia dei loro macellai i profughi che cercavano di sfuggirgli, di trasformare il controllo dei confini in una guerra vera e propria contro gli abitanti più infelici del nostro pianeta e di rendere impraticabile per anni, per tutti i cittadini europei, i paesi di cui oggi non vogliamo accogliere i fuggiaschi.
Ma anche di suscitare delle reazioni incontenibili tra gli immigrati di prima, seconda e terza generazione, loro connazionali, già presenti in Europa e in larga parte già cittadini europei. In un campo sotto assedio come questo, in cui ogni Stato va per conto, suo cercando di scaricare sui vicini gli oneri che non vuole accollarsi, pensare che si possa continuare a fare la stessa vita che si è fatta finora, e forse anche a migliorarla, è pura follia. Forse i politici che spingono in questa direzione lo sanno (non è detto), ma contano di ricavarne dei vantaggi per loro. Ma il popolo che li segue, e che ne pagherà le conseguenze, non lo immagina di certo.

Cedere ad Erdogan:"un assalto frontale ai caposaldi della democrazia"

Alle forze anti-profughi e anti-Europa, in grande avanzata in tutti i paesi membri dell’Unione, e già vincenti in diversi di essi, si è da tempo accodato di fatto l’establishment che oggi governa l’Europa e la maggior parte dei suoi Stati, in una stupida gara a chi propone le misure più feroci e impraticabili. Così, dopo la favola della lotta agli scafisti, che si tradurrebbe in una vera e propria guerra ai profughi, e che per questo non è stata ancora intrapresa, e dopo l’illusione di poter distinguere tra profughi e migranti, per far credere di potersi liberare di almeno la metà dei nuovi arrivati rimandandoli nessuno sa dove né come, l’ultima misura senza senso è stata promossa da Angela Merkel.
E’ il tentativo di “esternalizzare” nella Turchia di Erdogan la gestione di quei flussi che l’Europa non sa e non vuole accogliere, sperando così di tener insieme la sopravvivenza dell’Unione europea e la politica di austerity che ne ha innescato la crisi; e che è anche la causa del fatto che l’Europa non ha una politica in grado di trasformare i nuovi arrivati da problema in opportunità. Si vorrebbe remunerare non solo con un pacco di miliardi ceduti senza alcun controllo, ma soprattutto con l’avallo alla soppressione di ogni istanza di libertà, di pacificazione e di vita democratica, una Turchia sempre più fascistizzata e impegnata direttamente nella guerra ai Kurdi e in Siria e nel sostegno alle forze dell’integralismo islamista.
Ma è un espediente senza futuro anche questo, che infatti stenta a concretizzarsi sia per il continuo “rilancio” da parte di Erdogan, sia, soprattutto, perché finirebbe per mettergli in mano le chiavi delle politiche dell’Unione; il che è come dissolverla. Per questo la rincorsa delle destre razziste e nazionaliste da parte della governance europea non fermerà né la loro avanzata, che anzi non fa che rafforzare, né l’acutizzarsi delle guerre e della pressione dei profughi ai confini diretti o indiretti dell’Unione. Per quanto apprezzabili possano essere i tentativi di Frau Merkel di salvaguardare un principio di umanità nell’accoglienza dei profughi, la soluzione escogitata assume l’aspetto di un assalto frontale ai caposaldi della democrazia.


Un'alternativa globale all'esodo
Ora, nonostante che la storia stia imboccando una svolta così pericolosa, occorre più che mai definire e farsi carico di un’alternativa globale che abbia la sua chiave di volta in un diverso atteggiamento verso i profughi; perché è intorno a questo nodo che si avviluppano tutti gli altri problemi con cui l’Europa e i suoi popoli devono confrontarsi: innanzitutto quello della lotta al razzismo, all’autoritarismo, per la democrazia: una democrazia sostanziale e partecipata e non solo formale.
Poi quello delle guerre in cui l’Europa si lascia trascinare passo dopo passo in forme sempre più inestricabili, moltiplicando la spesa a scopo distruttivo, la devastazione di interi paesi e la pressione di nuovi profughi ai suoi confini.
Poi le politiche di austerity che, nonostante che Draghi continui a inondare le banche di quei miliardi che sta negando al welfare e all’occupazione, hanno ormai dimostrato quanti danni stiano infliggendo a tutta la popolazione europea, compresa quella degli Stati che contavano di poterne beneficiare.
Poi quella delle politiche ambientali e, in particolare della lotta ai mutamenti climatici: soltanto un grande piano di conversione ecologica dell’apparato produttivo, a partire da energia, mobilità, agricoltura e alimentazione, edilizia e riassetto dei territori, può garantire sia la difesa degli equilibri ambientali del pianeta che la restituzione di ruolo, lavoro, reddito e dignità ai tanti profughi alla ricerca di un futuro per sé e per il loro paese di origine (molti dei nuovi arrivati vi faranno ritorno se, e non appena se ne presenterà la possibilità), ma anche ai tanti cittadini europei, soprattutto giovani, oggi privati del loro futuro.
Non ultimo, il riequilibrio demografico e culturale di un’Europa che ha assoluto bisogno dell’apporto di forze fresche: non solo per compensare il progressivo invecchiamento e la drastica riduzione della sua popolazione, ma anche per risollevarsi, attraverso un incontro autentico con culture e persone diverse, dalla sclerosi in cui l’ha sospinta la dittatura del pensiero unico, che non contempla alternative all’attuale miseria materiale e spirituale.
L’arrivo di tanti profughi (meno, comunque, finora, di quelli che fino a pochi anni fa arrivavano in Europa come “migranti economici” e vi trovavano lavoro), viene presentato dalle forze razziste, a cui quelle dell’establishment al governo dell’Unione si sono accodate, come un’invasione. E verrà percepita sempre come tale se tutti gli sforzi saranno concentrati nel respingerli, o nell’isolarli, o nel tenerli inoperosi trattandoli come parassiti.
Ma accolti con generosità, aiutati a trovare un ruolo e a difendere la propria dignità, ascoltati con attenzione, con la disponibilità a imparare dalla loro vicenda e dalla loro miseria almeno tanto quanto possiamo essere capaci di insegnare noi a loro, lo “tsunami” dei profughi può rivelarsi invece una corrente favorevole, in grado di trasportare l’Europa verso una nuova solidarietà tra i suoi membri e con i suoi vicini.

Intervistato da Elisabetta Rosaspina l'ammiraglio De Giorgi afferma:«Non esistono muri in mare, per chi chiede aiuto», e si comporta di conseguenza, sebbene la consegna sia il respingimento dei profughi verso l'inferno dal quale fuggono. Ma in terra può essere diverso?

Corriere della sera, 10 marzo 2016

«Non esistono muri in mare, per chi chiede aiuto». L’Europa può decidere di sbriciolarsi, barricarsi, disseminare i suoi confini terrestri di filo spinato, per cercare di fermare i profughi, ma in mare vige un’altra legge. Un imperativo morale: «Io non lascio indietro nessuno, neppure un cane» assicura il capo di stato maggiore della Marina Militare italiana, ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Che parla fuori di metafora, perché, quando diresse per 72 ore consecutive, alla fine del 2014, le operazioni di salvataggio dei 400 passeggeri del traghetto Norman Atlantic, in fiamme nel canale di Sicilia, mantenne gli elicotteri in verticale sulla nave, nonostante il fumo e le fiamme, finché non furono evacuati dal ponte anche gli ultimi esseri viventi: tre cani.

E proprio a uno di loro, il più grosso, l’ammiraglio e la coautrice Daniela Morelli hanno dato voce nel loro libro S.O.S Uomo in mare (Giunti Editore) per descrivere quelle notti e quei giorni di paura a bordo del traghetto sempre più rovente, sempre più inclinato, nel mare grosso.

La figura peggiore è quella degli umani che litigano per accaparrarsi i primi giubbotti di salvataggio.

«Quando c’è pericolo, molti perdono i freni inibitori. Per questo ordinai subito di calare a bordo un team di soccorritori che ristabilisse l’ordine. C’erano giubbotti per tutti. Pure per i cani».

Perché il libro, in cui si parla anche dell’operazione Mare Nostrum e del calvario dei profughi, esce in una collana per ragazzi?
«Perché non vorrei che le nuove generazioni crescessero pensando che sia giusto o normale abbandonare al suo destino chi fugge dalla guerra, e che si possano respingere e lasciar affogare masse di disperati».

Intanto però a Bruxelles si discute di confini marittimi e di blocchi.
«Non lo so. Noi blocchiamo soltanto i trafficanti di armi, uomini e droga. Ne abbiamo arrestati seicento con Mare Nostrum, una cinquantina con Mare Sicuro. Non esistono muri in mare per chi sta affogare. Non abbandoniamo neanche i morti. Tra poche settimane, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, la Marina Militare procederà al recupero, da una profondità di 375 metri, dell’intero peschereccio carico di immigrati naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile dell’anno scorso. Nella pancia di quella nave sono intrappolati ancora almeno 300 o 400 corpi, stando alle testimonianze dei pochi superstiti».

Erano i passeggeri di terza classe?
«Sì, quelli che avevano pagato ai trafficanti 800 dollari a testa per finire rinchiusi nella stiva, fra le esalazioni di Co2, e a contatto con quel miscuglio di acqua e gasolio, sul fondo, che ustiona atrocemente la pelle. Ci volevano 1.000 o 1.500 dollari per un posto migliore, sul barcone. Abbiamo già recuperato 169 salme dal fondo del mare, altre 52 le avevamo ritrovate nell’immediato. Ora ci prepariamo a riportarle in superficie tutte. Per tutte è previsto l’analisi del Dna, a tutte deve essere data la possibilità di essere identificate e restituite alle famiglie».

Dopo più di un anno in mare?
«A 375 metri di profondità, il buio, il freddo, la pressione dell’acqua e la scarsità di fauna contribuiscono alla conservazione dei corpi. Il presidente del Consiglio, Renzi, ci ha dato l’incarico di recuperarli tutti. E lo faremo, a qualunque costo, con robot e sistemi pilotati a distanza».

Da Mare Nostrum a Mare Sicuro, a Eunavfor Med: con i nomi, cambiano gli obiettivi delle missioni?
«I pilastri operativi di Mare Sicuro sono il ripristino dell’uso legittimo del mare, la protezione della sicurezza e degli interessi nazionali, come le piattaforme petrolifere, da possibili attacchi terroristici. Ma anche dei pescherecci italiani e dei mezzi di soccorso: è già accaduto che una nave della Capitaneria di porto fosse attaccata dagli scafisti ai quali aveva sequestrato il barcone. Eunavfor è un’iniziativa europea voluta dall’Italia, ed è servita come bastione per il controllo delle acque internazionali, le ispezioni dei mercantili. Un incremento degli obiettivi può venire dalla decisione dell’Unione Europea di passare a una nuova fase e di operare in acque libiche».

Lei che ne pensa?
«Sono valutazioni politiche in cui non entro. Noi abbiamo in zona la portaerei e nave ospedale Cavour , che ha tutte le capacità di comando e controllo delle operazioni, concepita per interventi di protezione civile. E poi il vecchio portaelicotteri Garibaldi ».

L’anno scorso si era lamentato dell’insufficienza della flotta, delle navi obsolete.
«Ed è servito. Nel 2020 avremo i primi pattugliatori polivalenti d’altura: 136 metri di lunghezza, una piattaforma innovativa che permette di cambiare rapidamente configurazione d’impiego, per antipirateria, sorveglianza, ripristino di comunicazioni, elettricità, acqua potabile, in caso di calamità naturali».

Le domande ciniche fino all'inciviltà del giornale tedesco Bild, e le risposte tranquillamente umane di Alexis Tsipra rivelano la drammaticità della situazione e l'efferatezza dell'UE e degli stati europei.EA. lista di discussione, 9 marzo 2016

Il primo ministro greco Alexis Tsipras ha chiesto all’Europa di aiutare la Grecia ad affrontare la crisi dei rifugiati in corso. ” La Grecia chiederà che tutti i paesi rispettino il trattato europeo e che ci siano sanzioni per coloro che non lo fanno”, ha detto Tsipras al presidente del Consiglio dell’Unione europea Donald Tusk, Venerdì. “Siamo in un momento cruciale per il futuro dell’Europa. Non buttiamo le persone in mare, rischiando la vita dei bambini”

Sono le 11:25 di Mercoledì mattina, quando di buon umore, ma visibilmente esausto Alexis Tsipras riceve il giornalista della BILD al “Megaro Maximou”, la residenza ufficiale del Primo Ministro. La sua stretta di mano è morbida, il suo sorriso grande. Tsipras dice: “Sono felice che tu sia qui.” Nel suo ufficio è appeso alla parete una moderna opera d’arte con colori vivaci, dal titolo “contraddizioni” dell’artista Dimosthenis Kokkinides. “Volevo che qui ci fosse un’atmosfera aperto. In particolare è importante per me aprire le finestre”

Da fuori si sente la musica di una cappella della Guardia Nazionale. Mentre Tsipras ascolta la prima domanda dell’intervista, le sue dita si muovono sul tavolo a tempo con la musica.

BILD: Signor Primo Ministro, prima la crisi del debito e ora il ruolo principale nel dramma dei rifugiati, la Grecia è sotto una maledizione?
Alexis Tsipras : la posizione della Grecia è sia una benedizione che una maledizione per soli motivi geografici.Le persone sono felici di visitare il nostro paese in vacanza. Ma è anche una regione sensibile e delicata dove tre continenti si intersecano. Sin dai tempi antichi la Grecia è stata teatro di guerre e conflitti.Ora, nella crisi dei profughi, siamo il primo paese di arrivo e siamo quindi di fronte alla più grande delle sfide.Come con la crisi finanziaria, adesso è importante per noi e per l’intera Europa mostrare solidarietà e risolvere i problemi insieme.

B: Cosa è peggio per voi: la crisi del debito o la crisi dei rifugiati?
Alexis Tsipras: Non dobbiamo confondere queste due crisi. Tuttavia, credo che la crisi dei rifugiati sia ancora più pericolosa per l’Europa, perché minaccia l’esistenza di tutta l’UE. Se i nostri valori condivisi sono ora in discussione da alcuni [leader] e se le regole improvvisamente si applicano solo per alcuni paesi, questo non è più una comunità. Dobbiamo resistere con forza a questo sviluppo.

B: Si parla di regole. Ma, come nella crisi del debito, la domanda sorge spontanea: perché la Grecia non segue le regole? Secondo l’accordo di Dublino, il primo Stato UE attraverso in cui un immigrato entra l’UE è responsabile della procedura di asilo.
Tsipras : Ancora una volta, non è possibile confrontare la crisi del debito con la crisi dei rifugiati. Per quanto riguarda la crisi del debito è interessato, abbiamo dissanguato e mantenere sanguinamento oggi, al fine di rispettare le regole. Ma la crisi dei rifugiati non può essere risolto dalla sola Grecia. Non abbiamo deliberatamente violato le regole.Siamo semplicemente sopraffatti dal compito. Non abbiamo alcun problema con la protezione delle nostre frontiere terrestri.La nostra costa, tuttavia, è più di 10.000 chilometri. Inoltre, se individuiamo una barca nella nostra acqua territoriale che è in pericolo, siamo obbligati – secondo il diritto internazionale – a trasportarla in un luogo sicuro a terra. Immaginate che ci sono isole con 150 abitanti, in cui improvvisamente 1.500 rifugiati arrivano in un solo giorno. Cosa dovremmo fare con queste persone? Si tratta di un onere insostenibile per la Grecia. E ‘solo a causa della nostra posizione geografica e nient’altro.

B: Tuttavia, l’impressione che si pone la Grecia si occupa principalmente con agitando i rifugiati fino al nord Europa il più velocemente possibile.
Tsipras: Dovete capire la mentalità dei rifugiati. Hanno visto le loro case bombardate e hanno rischiato la vita per fuggire e venire in Grecia, che è la porta verso l’Europa. Ma per i rifugiati, La Mecca si trova più a nord! Sanno che c’è una crisi in Grecia e che non troveranno un lavoro qui. Come possiamo evitare che la gente vada avanti? Non abbiamo il diritto di farlo.Non possiamo bloccare queste persone, ciò violerebbe gli accordi internazionali. Tutto quello che possiamo fare è aiutare a salvare queste persone in mare, prenderci cura di loro e registrarli. Poi vogliono continuare. Un processo di reinsediamento è quindi l’unica soluzione.

B: Se il confine marittimo può, infatti, non essere protetto, è allora davvero possibile per i confini della Grecia diventare la frontiera esterne dell’UE?
Tsipras : L’UE non consiste solo dell’Europa centrale. Ci sono anche paesi come la Spagna, l’Italia, la Grecia che hanno frontiere marittime. E ‘vero che dobbiamo essere ancora più efficace nella protezione dei confini. Ma vede, abbiamo già fatto enormi progressi nel processo di registrazione e nella creazione di hotspot. Ora stiamo realizzando al cento per cento in queste aree.

B: Lungo il percorso dei Balcani, ci sono nuovi sviluppi ora e i confini sono chiusi. I giornali europei sono intitolati: “La Grecia ha perso il controllo sui rifugiati”. È corretto?
Tsipras: Quello che alcuni paesi hanno concordato e deciso è contro tutte le regole e contro tutta l’Europa. Riteniamo che sia un’azione non amichevole. E ‘inaccettabile che, dopo che una decisione è presa in un vertice UE, alcuni paesi si incontrino e decidano semplicemente di chiudere le loro frontiere Questi paesi danneggiano gravemente l’Europa.

B: Quindi, è la situazione fuori controllo?
Tsipras: La situazione è difficile, ma non è fuori controllo. La Grecia è l’unico paese che rispetta gli impegni. Abbiamo già 30.000 rifugiati qui, sulla terraferma e le isole, e siamo in grado di ospitare 20.000 persone in più. Abbiamo realizzato oltre il 100% dei nostri impegni, mentre altri non hanno nemmeno raggiunto il 10% e preferiscono criticarci. Ma le dirò questo francamente, se molti rifugiati continuano ad arrivare dalla Turchia e le frontiere dei Balcani restano praticamente chiuse, allora la situazione diventa molto critica per noi.

B: La Grecia diventerà il ‘Libano dell’Europa’?
Tsipras: E ‘certamente una crisi umanitaria. I rifugiati vogliono continuare da qui al nord, ma non sono in grado. Voglio essere molto chiaro: abbiamo bisogno di fornire a queste persone sistemazione adeguata qui. La Grecia deve difendere il volto umano dell’Europa, non importa quanti rifugiati stiano arrivando. Ma chiediamo una distribuzione equa. La Grecia non può trasformarsi in un magazzino permanente di anime umane che non vogliono rimanere qui.

B: Ha paura che l’Europa potrebbe finalmente sacrificare la Grecia ed escludere il paese dalla zona di Schengen?
Tsipras: No, non ho paura, perché difendiamo i valori fondamentali dell’Europa. Alla fine, saranno coloro che hanno sollevato recinzioni di filo spinato, che hanno allontanato i rifugiati con la violenza e che hanno trasformato i loro paesi in fortezze che saranno isolati in Europa. Noi, al contrario, siamo in alleanza con i paesi che mostrano solidarietà. E questi sono paesi con i quali abbiamo avuto grossi problemi durante la crisi finanziaria.

B: Che cosa accadrebbe alla Grecia, se il resto d’Europa, tra cui la Germania, chiudesse le frontiere?
Tsipras : la Germania ha gestito questa crisi in modo efficace e ha agito con umanità. Sono quindi convinto che la Germania, in particolare, dovrà difendere questi valori europei. Ci troviamo di fronte alla più grande migrazione di popoli dopo la seconda guerra mondiale. Per risolvere questa crisi, dobbiamo fare in modo che la pace venga stabilita in Siria. Allo stesso tempo, dobbiamo cercare di limitare le ondate di profughi dalla Turchia verso l’Europa. E ‘anche importante che il reinsediamento dei rifugiati in Europa finalmente funzioni.

B: Ma ancora una volta: Che cosa succede se la Germania dovesse chiudere le frontiere?Tsipras: paesi come l’Austria e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia hanno già chiuso i loro confini. Questo è successo senza che la Germania avesse preso tale misura. Pertanto, la situazione di emergenza già esiste.

B: Angela Merkel è stato l’avversaria più chiara nella crisi finanziaria. Ma ora lei è improvvisamente lodata dalla Grecia. Che è successo?
Tsipras : E ‘vero che il Cancelliere ha mantenuto una dura posizione politica durante la crisi del debito. Ma ora, nella crisi dei rifugiati, ha adottato un approccio umano e ha dimostrato la sua guida. Se il Cancelliere avesse agito come Orban, l’Europa sarebbe già divisa e avrebbe quindi fallito. Non sempre siamo d’accordo l’una con l’altro, ma abbiamo un rapporto molto sincero e vi è rispetto reciproco. Sono d’accordo con il Cancelliere Merkel quando dice che, alla fine, l’Europa può diventare ancora più forte a causa della crisi dei rifugiati.

B: Il vertice UE con la Turchia avrà luogo lunedi. La Turchia non è in grado di ridurre il numero di rifugiati, o non vuole ridurli?
Tsipras: La Turchia deve assumere un pesante fardello. Ci sono più di 1,5 milioni di rifugiati nel paese. Se collaboriamo con la Turchia, saremo in grado di controllare il problema. I rifugiati non vengono a nuoto verso di noi. Arrivano in barche e indossano giubbotti di salvataggio, fabbricati in Turchia. Questa è un’industria di miliardi di dollari. Dobbiamo combattere i trafficanti e affrontare il problema alla radice.

B: la Turchia chiede un accordo di liberalizzazione dei visti in cambio dei suoi sforzi. La Grecia chiede una riduzione del debito nella crisi dei rifugiati?
Tsipras: I negoziati per la crisi del debito non sono legati alla crisi dei rifugiati. Ma quello che voglio dire circa la crisi del debito è questo: abbiamo firmato un programma in luglio e ci atteniamo ad esso. Il problema rimane il FMI. Ulteriori richieste continuano ad arrivare dal Fondo monetario internazionale che non hanno nulla a che fare con l’accordo iniziale. L’UE deve chiedere al Fondo monetario internazionale di rispettare l’accordo. Tutto questo non ha nulla a che fare con la crisi dei rifugiati. Noi non abbiamo il tempo di rinviare nulla in relazione al problema dei rifugiati.Abbiamo bisogno di solidarietà. E ne abbiamo bisogno ora.

(Traduzione di Daniela Sansone)

Un appello che invitiamo a firmare per non essere corresponsabili del massacro in atto alle porte della Fortezza Europa, e all'interno stesso delle sue mura. Il manifesto, 8 marzo 2016

L’incapacità dei governi di tutti i paesi a mettere fine alle cause dell’esodo (quando non contribuiscono ad aggravarlo) non li esonera dal dovere di soccorrere e di accogliere i profughi rispettando i loro diritti fondamentali, che con il diritto d’asilo sono inscritti nelle dichiarazioni e convenzioni che fondano il diritto internazionale

Noi, cittadini dei paesi membri dell’Unione europea, della zona Schengen, dei Balcani e del Mediterraneo, del Medioriente e di altre regioni del mondo che condividono le nostre preoccupazioni, lanciamo un appello d’emergenza ai nostri concittadini, ai governi, ai rappresentanti nei parlamenti nazionali e al Parlamento europeo, oltre che alla Corte europea dei diritti dell’uomo e all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati:

Bisogna salvare e accogliere i rifugiati dal Medioriente

Da anni, i migranti del sud del Mediterraneo che fuggono dalla miseria, dalla guerra e dalla repressione annegano o si scontrano contro le barriere. Quando riescono ad attraversare, dopo essere stati vittime delle filiere di trafficanti, vengono respinti, messi in carcere o obbligati a vivere nella clandestinità da stati che li designano come dei «pericoli» e come dei «nemici». Tuttavia, coraggiosamente, si ostinano e si aiutano a vicenda per salvare le loro vite e ritrovate un avvenire.

Ma dopo che le guerre in Medioriente e soprattutto in Siria si sono trasformate in massacro di massa senza una prevedibile fine, la situazione ha cambiato dimensione. Popolazioni intere, prese in ostaggio tra i belligeranti, bombardate, affamate, terrorizzate, sono gettate in un esodo pericoloso che, a costo di migliaia di morti supplementari, precipita uomini, donne e bambini verso i paesi vicini e bussa alle porte dell’Europa.

Siamo di fronte a una grande catastrofe umanitaria. Ci mette di fronte a una responsabilità storica da cui non possiamo sfuggire.

L’incapacità dei governi di tutti i paesi a mettere fine alle cause dell’esodo (quando non contribuiscono ad aggravarlo) non li esonera dal dovere di soccorrere e di accogliere i rifugiati rispettando i loro diritti fondamentali, che con il diritto d’asilo sono inscritti nelle dichiarazioni e convenzioni che fondano il diritto internazionale.

A parte alcune eccezioni – l’iniziativa esemplare della Germania, non ancora sospesa a tutt’oggi, di aprire le porte ai rifugiati siriani; lo sforzo gigantesco della Grecia per salvare, accogliere e scortare migliaia di naufraghi che ogni giorno sbarcano sulle sue rive, mentre l’economia del paese è crollata in un’austerità devastatrice; la buona volontà dimostrata dal Portogallo per raccogliere una parte dei rifugiati che stazionano in Grecia – i governi europei si sono rifiutati di valutare con realismo la situazione, di spiegarla alle opinioni pubbliche e di organizzare la solidarietà superando gli egoismi nazionali. Al contrario, da est a ovest e da nord a sud, hanno respinto il piano a minima di ripartizione dei rifugiati elaborato dalla Commissione o hanno cercato di sabotarlo. Peggio ancora, hanno scelto la repressione, la stigmatizzazione, la violenza contro i rifugiati e i migranti in generale. La situazione della «giungla» di Calais, a cui adesso fa seguito lo smantellamento forzato, senza tener conto né dello spirito né della lettera di un sentenza giudiziaria, ne è l’illutrazione scandalosa, ma non è la sola.

All’opposto, sono i semplici cittadini d’Europa e d’altrove – pescatori e abitanti di Lampedusa e di Lesbos, militanti di associazioni di soccorso ai rifugiati e delle reti di sostegno ai migranti – che hanno salvato l’onore e mostrato la strada per una soluzione.

Ma si scontrano tuttavia con la mancanza di mezzi, l’ostilità a volte violenta dei poteri pubblici, e devono far fronte, come gli stessi rifugiati e migranti, alla rapida crescita di un fronte europeo della xenofobia, che va da organizzazione violente, apertamente razziste o neo-fasciste, fino a dei leader politici «rispettabili» e a governi sempre più preda dell’autoritarismo, del nazionalismo e della demagogia. Due Europe totalmente incompatibili si fanno cosi’ fronte, tra le quali bisogna ormai scegliere.

Questa tendenza xenofoba, ad un tempo micidiale per gli stranieri e rovinosa per l’avvenire del continente europeo come terra di libertà, deve immediatamente rovesciarsi.

Nel mondo ci sono 60 milioni di rifugiati, il Libano e la Giordania ne accolgono un milione coscuno (rispettivamente il 20% e il 12% delle loro popolazioni), la Turchia 2 milioni (3%). Il milione di rifugiati arrivati nel 2015 in Europa (una delle più ricche regioni del mondo, malgrado la crisi) rappresenta solo lo 0,2% della popolazione ! Non soltanto i paesi europei, presi nel loro insieme, hanno i mezzi per accogliere i rifugiati e trattarli in modo dignitoso, ma hanno il dovere di farlo per poter continuare a fare riferimento ai diritti dell’uomo come fondamento della loro costituzione politica. E’ anche nel loro interesse, se vogliono cominciare a ricreare, con tutti i paesi dello spazio mediterraneo che da millenni condividono la stessa storia e le stesse eredità culturali, le condizioni di una pacificazione e di una vera sicurezza collettiva. E’ questa la condizione per far indetreggiare al di là dell’orizzonte lo spettro di una nuova epoca di discriminazioni organizzate e di eliminazione di esseri umani «indesiderabili».

Nessuno può dire quando e in quali proporzioni i rifugiati rientreranno «a casa loro» e non si deve neppure sotto-stimare la difficoltà del problema da risolvere, le resistenze che suscita, gli ostacoli, persino i rischi, che comporta. Ma nessuno deve neppure ignorare la volontà di accoglienza delle popolazioni e la volontà di integrazione dei rifugiati. Nessuno ha il diritto di definire insolubile il problema, per meglio sfuggirvi.

Ampie misure d’emergenza vanno prese quindi immediatamente

Il dovere di assistenza ai rifugiati del Medioriente e dell’Africa nel quadro di una situazione d’emergenza deve venire proclamato e messo in atto dalle istanze dirigenti della Ue e declinato in tutti gli stati membri. Deve ricevere l’approvazione delle Nazioni unite e fare oggetto di una concertazione permanente con gli stati democratici di tutta la regione.

Forze civili e militari devono venire impegnate, non per fare una guerriglia marittima contro i passeurs, ma per portare soccorso ai migranti e fermare lo scandalo degli annegati. E’ solo in questo quadro che potrà essere possibile reprimere i traffici e condannare le complicità di cui godono. La proibizione dell’accesso legale è difatti all’origine delle pratiche mafiose, non il contrario.

Il fardello dei paesi di prima accoglienza, in particolare la Grecia, deve essere immediatamente alleggerito. Il loro contributo all’interesse comune deve venire riconosciuto. Il loro isolamento deve venire denunciato e ribaltato in solidarietà attiva.

La zona di libera circolazione di Schengen deve essere preservata, ma gli accordi di Dublino che prevedono il rinvio dei migranti verso il paese d’entrata devono venire sospesi e rinegoziati. L’Ue deve fare pressione sui paesi del Danubio e balcanici perché riaprano le frontiere, e negoziare con la Turchia perché cessi di utilizzare i rifugiati come alibi politico-militare e moneta di scambio.

Contemporaneamente, devono venire messi a disposizione mezzi di trasporto aerei e marittimi per trasferire tutti i rifugiati recensiti come tali nei paesi del «nord» dell’Europa che possono oggettivamenti ricerverli, invece di lasciare che si intasino in un piccolo paese che rischia di diventare un immenso campo di ritenzione per conto dei vicini.

A più lungo termine, l’Europa – che deve far fronte a una grande sfida, di quelle che cambiano il corso della storia dei popoli – deve elaborare un piano democraticamente controllato di aiuto a chi è sfuggito al massacro e a coloro che portano loro soccorso: non soltanto delle quote di accoglienza, ma aiuti sociali per la scuola, per la costruzione di case decenti, quindi un finanziamento speciale e disposizioni legali che garantiscano nuovi diritti per inserire degnamente e pacificamente le popolazioni sfollate nei paesi d’accoglienza.

Non c’è altra aternativa: ospitalità e diritto d’asilo, o la barbarie!

Primi firmatari
Michel Agier (Francia), Horst Arenz (Germania), Athéna Athanasiou (Grecia), Chryssanthi Avlami (Grecia), Walter Baier (Austria), Etienne Balibar (France), Marie Bouazzi (Tunisia), Hamit Bozarslan (Francia, Turchia), Judith Butler (Stati uniti), Marie-Claire Caloz-Tschopp (Svizzera), Dario Ciprut (Svizzera), Edouard Delruelle (Belgio), Matthieu De Nanteuil (Belgio), Wolfgang-Fritz Haug (Germania), Ahmet Insel (Turchia), Nicolas Klotz (Francia), Justine Lacroix (Belgio), Amanda Latimer (Gran Bretagna), Camille Louis (Francia), Giacomo Marramao (Italia), Roger Martelli (Francia), Sandro Mezzadra (Italia), Judith Revel, Toni Negri (Francia), Maria Nikolakaki (Grecia), Josep Ramoneda (Spagna), Vicky Skoumbi (Grecia), Barbara Spinelli (Italia), Etienne Tassin (Francia), Hans Venema (Olanda), Marie-Christine Vergiat (Francia), Frieder Otto Wolf (Germania).

Per firmare:
baier@transform-network.net
netbaier@transform-network.net

La drammatica contraddizione tra il messaggio di papa Francesco e «quei Paesi dell’Europa orientale in cui ribollono gli spiriti animali del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui esiti fatali stanno scritti in tutti i sussidiari».

La Repubblica, 29 febbraio 2016

DOPO averne visto le conseguenze su migliaia di persone in fuga, gli europei vedono il fumo nero della guerra da vicino. È ormai ad una spanna d’acqua, di là del mare dei morti cantato da Virgilio e da Gianfranco Rosi. S’affaccia ad una spanna di terra da noi, in quei Paesi dell’Europa orientale in cui ribollono gli spiriti animali del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui esiti fatali stanno scritti in tutti i sussidiari. Non solo in Ucraina, ma in Polonia, Ungheria, Slovacchia e oltre. Le nazioni “cattoliche” che per secoli il papato credeva diventassero un cuscinetto fra ortodossie e protestantesimi, i Paesi che Wojtyla sognava fossero modelli di nuovi regimi di cristianità, le chiese che hanno conservato la fede fino al martirio nella cattività sovietica, sono oggi invece il punto di approdo della spirale soffocante della guerra. Ed interpellano sia gli europei recalcitranti alla long- term vision, sia il cristianesimo sordo alla conversione, sia l’unico leader globale che viva in questo continente: un immigrato argentino che si fa chiamare Francesco.

La spirale si disegna chiara sulle carte. Dal corso del Niger una striscia di guerre civili e/o di religione chiamate eufemisticamente “terrorismo” generano statualità inedite, travolge gli equilibri fra musulmani di diversa confessione, devasta le chiese siriache che i cristiani latini avrebbero sterminato secoli fa, profana i luoghi dello spirito. Le rotte desertiche dei mistici fra l’Africa e il Mediterraneo sono vie di morte a doppio senso. Il Sinai dove fu detto “non uccidere” vede azioni feroci e innominabili. Nel cielo d’Arabia non ci sono sapienti a leggere le stelle, ma vittime che scrutano la scia dei caccia. Attorno e dentro la terra dove scorre latte e miele ci sono muri e coltelli a posporre la pace. Il concilio pan-ortodosso che il patriarca Bartholomeos ha avuto la grazia e la fede di convocare non può riunirsi a Costantinopoli, ma deve andare a Creta per le tensioni che richiamano la storia delle relazioni fra l’ex sultano e l’ex zar. Le piste d’Abramo, padre di chi va e di chi crede al cammino, sono percorse da Suv carichi di trafficanti e assassini. La Siria che diede ai cristiani il nome di “quelli della Via” è liquefatta.

Ma la nube cupa della guerra non si ferma lì. Risale dal Mar Nero verso l’oriente cristiano; passa sui confini della “unione” di Brest e dell’Ucraina post-sovietica; s’incunea nel cuore di quella cintura “cattolica”, nell’Ungheria di Viktor Orbán e nei movimenti della Polonia di Beata Szydlo, e passa dai gruppi neonazisti in Slovacchia, si frantuma nella xenofobia urbana tedesca, e ancora oltre verso ovest. E sa che, se non lo farà Francesco, non sarà denunciata né da élite impari a compiti ben più semplici né da cristiani attratti dal potere. Dopo la generazione di Schumann, Adenauer e De Gasperi, che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico, dopo quella di Delors, Kohl e Prodi, che parlavano in europeo e pensavano in ecumenico, la generazione nuova degli europeisti — al netto del consenso sul piano Renzi spiegato ieri da Scalfari — non c’è, e Mario Draghi parla e pensa nella lingua della solitudine.

Davanti a questo paesaggio sta Francesco: un anziano latino americano che con tre pennellate — la cultura dello scarto, la globalizzazione dell’indifferenza, la guerra a capitoli — ha denudato l’impotenza culturale di un’Europa che non sa leggere la realtà in modo convincente, unificante, pacificante. E che dunque è condannata alla diffidenza, alla disunione e in prospettiva alla guerra. Cittadino del sud del mondo, Bergoglio guarda all’Europa con distacco; la sua formidabile segreteria di Stato inanella successi sbalorditivi, ma su tutt’altri quadranti; l’episcopato europeo è totalmente inerte davanti ai compiti che la storia gli assegna. Ma il Papa, i suoi diplomatici e i vescovi non potranno non misurarsi col “cuore nero” dell’Europa che si manifesta ad est.

Francesco in ogni caso dovrà farlo nel viaggio in Polonia di questa estate per la giornata della gioventù, che non può essere solo un trionfo giubilare celebrato a un passo dai cancelli di Auschwitz-Birkenau, ma un incontro con la generazione che se perde l’Europa ritroverà la guerra.

Forse il Papa ha già incominciato a prendere posizione nell’ormai famoso dictum su Trump. In una frase secca — «chi pensa a costruire muri non è cristiano » — Francesco ha preso le distanze non solo da un provocatore reazionario, ma anche da tutta quella politica che in Europa tenta di catturare “voti facili” dividendo fra chi ha paura e chi fa paura o negando valor al sapere che è il diaframma necessario fra la paura e le decisioni.

Presi in una accelerazione ecumenica improvvisa — fra il giubileo del Vaticano II, il concilio panortodosso, il centenario della Riforma — i cristiani d’Europa possono fornire a questo continente malato solo la loro conversione e la loro comunione: non per conquistare qualcosa restando identici, ma per non perdere l’anima. Un continente secolarizzato e pensante ne coglierebbe il valore, ne spererebbe l’adempiersi: ma può darsi che questo continente sia solo secolarizzato, e dunque indifferente a quel “cuore nero” che è l’antipodo di Ventotene.

«La Grecia rischia di diventare uno Stato abbandonato e chiuso dove i migranti in arrivo non trovano più possibilità di uscire In Siria milioni di persone sono intrappolate e vittime di violenze. Ma c’è di peggio, situazioni quasi invisibili: Sud Sudan e Centrafrica». La Repubblica, 23 febbraio 2016

«Nell’emergenza rifugiati l’Europa sta perdendo se stessa. I bambini morti nel mare Egeo sono uno scandalo che chiama in causa la mancanza di solidarietà di un continente intero, in cui crescono barriere ed egoismi». Filippo Grandi, 58enne milanese, da gennaio è il nuovo Alto commissario Onu per i rifugiati. Sul suo tavolo a Ginevra, giacciono i dossier più “caldi” dai fronti di crisi, a partire dalla Siria («Oggi una trappola dalla quale è quasi impossibile fuggire») e Turchia («paese in prima linea, che ospita oltre due milioni e mezzo di siriani»).

Commissario si aspettava di più dall’ultimo Consiglio europeo?
«L’Europa ha preso degli impegni che non sta mantenendo. Gli hotspot per l’identificazione di chi arriva non sono ancora pienamente in funzione. I ricollocamenti tra i vari paesi Ue dei rifugiati arrivati in Italia e Grecia sono ancora fermi. I rimpatri di chi non ha diritto all’asilo non funzionano. L’Europa è diventata un’autostrada e questo disordine allarma l’opinione pubblica ».

È preoccupato dal crescere dei muri alle frontiere dei paesi europei?
«Cominciamo a vedere sempre più sbarramenti che temiamo molto: l’Austria che fissa quote massime di ingressi, la Macedonia che respinge gli afghani. Sono cresciuto in un continente di frontiere chiuse, ora rischiamo di tornarci. L’Europa sta abdicando a un ruolo di guida internazionale e sta mettendo in discussione il suo stesso progetto originario. Invece nessuna guerra è troppo lontana da noi da non riguardarci. I rifugiati sono degli ambasciatori che stanno lì a ricordarcelo. I muri sono preoccupanti, anche perché rischiamo di isolare interi paesi».

Come Grecia e Italia?
«Soprattutto la Grecia. Domani (oggi, ndr) sarò ad Atene per una grossa operazione umanitaria dell’Unhcr. La Grecia rischia di diventare uno Stato isolato, in cui i rifugiati restano chiusi senza possibilità di uscire. L’Italia è un paese di frontiera: se riprenderà con forza la rotta del Mediterraneo centrale, il rischio è di diventare un “ricevitore” di migranti, senza grandi sbocchi esterni».

È giusto rivedere il trattato di Dublino?
«Che lo Stato competente alla domanda d’asilo sia quello in cui il rifugiato ha fatto il proprio ingresso nell’Unione europea è un modello vecchio che va indubbiamente superato».

Per arginare i flussi di migranti, la Ue fa bene a puntare sulla Turchia?
«La Turchia è una degli Stati chiave di questa crisi. Non a caso è il paese che oggi ospita il numero più alto di rifugiati al mondo: due milioni e mezzo di siriani, più qualche migliaio di afgani e iracheni. Insomma, Ankara sta facendo la sua parte. Il piano d’azione Ue concordato a novembre va nella direzione giusta: controllo delle coste e delle partenze verso la Grecia, in cambio di tre miliardi di euro di fondi da destinare a progetti d’accoglienza per i rifugiati. E poi nuove vie legali d’uscita dal paese».

Ci spieghi meglio.
«Bisogna prevedere la possibilità per migliaia di profughi di lasciare la Turchia, ma anche altri paesi di transito come la Giordania e il Libano, e raggiungere in sicurezza gli Stati Ue dove riceveranno asilo».

Che ne è di questo piano?
«Non è ancora stato attuato. È urgente accelerare, anche perché intanto la Turchia ha quasi chiuso la sua frontiera con la Siria ».

Qual è la situazione degli sfollati in Siria?
«Ci sono milioni di persone intrappolate. Certo le situazioni sono le più diverse, ma tutti sono ugualmente vittime di violenze inaudite. Le loro possibilità di fuggire sono minime. Senza un cessate il fuoco, poco si può fare. Ma c’è di peggio, ci sono situazioni quasi invisibili: parlo per esempio dei rifugiati della Repubblica Centrafricana o del Sud Sudan che neppure arrivano da noi, ma si fermano nei paesi limitrofi».

Questa ondata di migranti allarma l’opinione pubblica europea.
«Il disordine dell’attuale gestione giustifica questo allarme. La mancanza di coordinamento e solidarietà dà forza a chi vuole alzare le barriere».

C’è chi soffia sulle paure?
«In Europa ci sono parti politiche che stanno volutamente impaurendo i cittadini. E questo è gravemente irresponsabile. Altri per fortuna fanno il contrario ».
La Germania?
«Senza la leadership tedesca, oggi l’Europa sarebbe ancora più chiusa. L’ho detto al telefono ad Angela Merkel. Ho molta ammirazione per lei, anche perché rischia l’isolamento. E un paese non può fare tutto da solo ».

Cosa ha pensato quando ha letto del coinvolgimento di alcuni rifugiati nelle violenze di Colonia?
«Chiunque vive in un paese deve rispettarne le leggi, altrimenti deve essere perseguito, ma attenzione a generalizzare ».

Non c’è comunque un problema di integrazione di queste masse di rifugiati?
«Due giorni fa ero in Germania. I tedeschi fanno grandi sforzi, ma l’integrazione costa molto. Una cosa è certa: una gestione ordinata dei profughi è la migliore ricetta per rassicurare l’opinione pubblica».

«Profughi. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana?»

Il manifesto, 20 febbraio 2016

«Io non l’ho voluto!», grida dio — nel grande dramma Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus – davanti al mondo intero che si autodistrugge in guerra.

«Noi non l’abbiamo voluto!», grideranno i capi di governo a Bruxelles, Berlino, Londra, Parigi, Roma e nelle altri capitali europee, quando fatalmente l’Unione europea andrà alla fine in pezzi. Ma a quel punto, chi avrà voluto e che cosa davvero avrà determinato questo esito?

Prima di abbozzare una risposta, converrà ricordare ai Salvini, ai Farage, ai Grillo e a tutti gli altri agitatori della domenica che sono stati settanta i milioni di morti della seconda guerra mondiale e i più di venti della prima ad aver spinto nella direzione di un’unificazione europea – e questo dopo tre secoli di conflitti incessanti in cui tutti si battevano contro tutti.

L’Europa non ha nulla da insegnare in tema di pace, solidarietà e diritti, perché è stata sino a settant’anni fa il continente più mortifero della storia. E oggi ricomincia a contorcersi in conflitti, chiusure, minacce e ripicche come se avesse dimenticato tutto.

Intendiamoci. Magari un accordo dell’ultimo minuto con Cameron si troverà. Ma i nodi continueranno a venire al pettine, perché le ragioni della crisi sono sistemiche, e non dipendono solo dall’avventatezza del premier inglese, che è lanciato nel risiko del Brexit per ragioni di esclusiva politica interna. La ragione fondamentale è che la Ue manca di qualsiasi progetto politico-sociale comune, e che tutti i suoi membri sono vincolati a logiche locali, ai piccoli dividendi politici nazionali, in una fase di stagnazione e incertezza economica che radicalizza ogni scelta. In questo senso Cameron, indubbiamente uno statista mediocre, non è più responsabile di Merkel, Hollande e tutti gli altri, compreso il nostro gioviale primo ministro.

Consideriamo la questione dei profughi. Se la Ue avesse uno straccio di politica estera comune, e soprattutto non dipendente dalle pulsioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande o da quelle anti-russe degli Usa, si sarebbe posta da anni la questione dei profughi e non improvvisamente, nell’agosto 2015, come ha fatto Merkel. Non si affiderebbe in tutto e per tutto a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli, oltre a 3 miliardi di euro, mano libera contro i curdi e in Siria. E soprattutto avrebbe affrontato la questione umana e sociale dei profughi, dalla Siria e da altri paesi in guerra, in modo solidale, distribuendo equamente gli oneri dell’accoglienza ai vari paesi e lavorando a un’integrazione sociale degli stranieri che, nel lungo periodo, avrebbe sicuramente giovato alla sua economia.

E invece no. Debole con i forti e fortissima con i deboli, concede a Cameron un referendum che a suo tempo ha rifiutato alla Grecia. Abbozza una ricollocazione dei profughi che fallisce clamorosamente. E ora deve digerire la chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria e altri stati balcanici, ciò che si ripercuoterà a catena in tutto il continente. Invece di creare un piano di sicurezza sociale per tutti i membri si appresta a concedere all’iperliberista Cameron una riduzione dei benefici per i migranti Ue in Inghilterra. Nel frattempo, ricominciano gli sbarchi in Sicilia, con altri annegati, e la buona stagione è alle porte. Intanto, la situazione in Siria e Libia è sempre più esplosiva.

A quasi settant’anni dai primi trattati europei, questa è la realtà del vecchio continente. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana in Europa?

Mentre l'UK ottiene di ridurre benefici sociali ai suoi immigrati, gli Stati dell'Est (Ungheria e Polonia in testa) continuano nella loro pretesa criminale di respingere i migranti in mare o negli inferni dai quali fuggono. Ma l'Unione europea non sa decidere, e continua a destinare le risorse proprio a quei paesi. Articoli di A. Bonanni e A. D'Argenio La Repubblica, 20 febbraio 2016

BREXIT, C’È L’ACCORDO
TRA LONDRA E LA UE
di Andrea Bonanni

Compromesso sui tagli al welfare: saranno ridotti solo per sette anni. Sancita la doppia velocità sull’integrazione Confermata l’uniformità delle condizioni per le banche. Cameron: “Ho dato al Regno Unito uno status speciale”
Alla fine si è trovato l’accordo. La Gran Bretagna ottiene una dichiarazione congiunta dei leader europei che riconoscono il suo «statuto speciale», come dice trionfalmente David Cameron, e il diritto a tenersi fuori da ogni ulteriore integrazione. È la formalizzazione di una condizione da separati in casa che dovrebbe consentire di evitare il divorzio vero del Regno Unito dall’ Ue, divorzio su cui i cittadini britannici saranno chiamati a pronunciarsi con un referendum. L’intesa faticosamente cucita in due giorni di vertice «è un buon compromesso », assicurano sia Metteo Renzi sia Angela Merkel. La dichiarazione congiunta dei capi di governo, che avrà valore di accordo internazionale e sarà depositata alle Nazioni Unite, ma non richiederà ratifiche da parte dei Parlamenti nazionali, verte principalmente su tre punti.

Primo: tagli ai social benefits per i cittadini europei che andranno a lavorare nel Regno Unito. Questi dovranno aspettare quattro anni prima di accedere pienamente alle facilitazioni del welfare state britannico. L’eccezione al principio della parità dei diritti sociali concessa a Londra in via temporanea durerà per cinque anni con due possibili rinnovi di un anno (Cameron chiedeva in tutto 13 anni). Chi arriverà in Gran Bretagna per cercare lavoro, se dopo sei mesi non lo avrà trovato potrà essere rimpatriato. Inoltre i figli dei lavoratori stranieri che non risiedono nel Regno Unito potranno beneficiare di assegni familiari ridotti e adeguati al reddito medio del Paese dove vivono.

Secondo: integrazione differenziata. Viene riconosciuto esplicitamente che la Gran Bretagna non è vincolata al principio di una «Unione sempre più integrata», che è scritto nei Trattati. Non dovrà entrare nella moneta unica o nello spazio Schengen. Conserverà il diritto a gestire in piena autonomia la propria sicurezza interna. Viene esentata anche da ogni ulteriore integrazione in materia di giustizia.

Terzo: tutela della zona “non euro”. Si riconosce che la Ue è una Unione con diversi sitemi monetari. Viene dichiarato esplicitamente che i Paesi fuori dalla zona euro non hanno diritto di veto sulle decisioni prese dall’Eurozona, anche se possono impugnarle davanti al Consiglio europeo. Sulla questione delle banche si riconosce che, al di fuori dell’Eurozona, la vigilanza bancaria resta affidata agli organismi di supervisione nazionali. La Gran Bretagna dovrà però accettare le regole europee fissate dall’Eba sul funzionamento dei mercati finanziari. Le eventuali differenze nell’applicazione di queste regole, dipendenti dalle scelte delle autorità nazionali di vigilanza, non dovranno alterare l’uniformità del mercato finanziario europeo. Le banche, le assicurazioni e le società finanziarie della City non potranno dunque avere vantaggi competitivi rispetto alle concorrenti continentali. Ma potranno operare in euro pur restando sottoposte alla normativa britannica e senza dover dipendere dalla Bce.

Al termine del vertice, Cameron si è presentato trionfante davanti ai giornalisti. Ha sostenuto di aver ottenuto tutti i suoi principali obiettivi e che si batterà «anima e corpo» per la permanenza nella Ue «perchè questo è nell’interesse del Regno Unito». «Non faremo mai parte dell’euro, nè di un super stato europeo: non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna », ha affermato con i toni di chi già si impegna nella campagna referendaria.

Il sollievo per la conclusione positiva del negoziato nasce anche dalle difficoltà che i leader hano dovuto superare. La giornata di ieri è passata in un lungo, estenuante stallo, con l‘Europa in ostaggio di due veti incrociati. Da una parte i britannici, che restavano ostinatamente fermi alle loro richieste iniziali, senza negoziare veramente con i loro partner europei. Dall’altra la Grecia di Alexis Tsipras che, incrociando la crisi inglese con quella dei rifugiati, minacciava di mettere il veto su qualsiasi conclusione se non avesse avuto rassicurazioni formali che la Ue non avrebbe aiutato a chiudere la sua frontiera con la Macedonia, da cui passano i migranti diretti verso il Nord Europa.

Il premier britannico doveva dimostrare di aver negoziato duramente per convincere la propria opinione pubblica che le concessioni ottenute sono il massimo possibile. Ma allo stesso tempo non poteva permettersi di uscire dal vertice senza una decisione che desse in qualche modo soddisfazione alle sue richieste. Non potendo sbandierare una “vittoria” a Bruxelles, il premier sarebbe infatti stato costretto ad allinearsi all’ala del suo partito che è già schierata per un Brexit. Ma questa sarebbe stata verosimilmente anche la fine della sua carriera politica.

Drammatizzare il più possibile, dunque, ma senza rompere: è stato questo il difficile gioco di equilibrismo della delegazione inglese per tutta la durata del vertice. In attesa che i britannici abbandonassero l’ostruzionismo e si mettessero seriamente a negoziare, molti leader europei sono rientrati in albergo per schiacciare un pisolino. La cancelliera Merkel ne ha perfino approfittato per lasciare il palazzo del Consiglio e andare nella vicina Place Jourdan per assaggiare un cartoccio di patatine fritte al celebre chiosco della Maison Antoine. Hollande si è preso il tempo per concedere un’intervista- fiume alla radio francese recitando la parte del negoziatore inflessibile.

Alle nove di sera, finalmente, Cameron ha dato il via libera all’ultima bozza di compromesso, che i leader hanno dovuto leggere di gran fretta. Anche Tsipras ha ricevuto le rassicurazioni che chiedeva. Il gioco dei veti incrociati è caduto. La parola, ora, passa agli elettori britannici.
AUSTRIA E UNGHERIASFIDANO BRUXELLES
SU PROFUGHI E QUOTE IL VERTICE È UN FLOP
di Alberto D'Argenio

Bruxelles. Mentre nelle acque di fronte ad Agrigento si consuma una nuova tragedia, sui migranti in Europa si continua a litigare. Di fronte all’emergenza sempre più pressante e al rischio della polverizzazione di Schengen, i leader europei hanno passato due giorni e due notti a Bruxelles per discutere di Brexit. Di rifugiati solo una discussione nella notte tra giovedì e venerdì, inconcludente e segnata dai litigi. Si aspetta marzo, si spera di convincere la Turchia a bloccare le partenze verso la Grecia (Ankara ha già ricevuto tre miliardi per la gestione dei profughi siriani) e si attende tra poche settimane che la Commissione presenti il piano per modificare in modo permanente ed efficace le regole europee per ripartire tra i Ventotto i migranti e salvare Schengen. Ma ancora una volta spetterà ai governi accettare il sistema e stando al clima respirato a Bruxelles la svolta non sembra vicina. Non per niente Juncker rinvia la proposta da dicembre. Ma ora non può più aspettare visto che senza una soluzione a maggio Schengen rischia di saltare.

Ieri l’Austria ha sfidato Bruxelles attuando la decisione di accettare solo 80 richiedenti asilo al giorno. Un piano che la Commissione l’altro ieri aveva definito illegale. Il Cancelliere Faymann nel chiuso del summit europeo ha spiegato ai colleghi di avere fatto il possibile (ha accolto circa 120mila profughi) e di non avere alternative al tetto agli ingressi: «Se tutti accettassero i nostri stessi numeri potremmo distribuire due milioni di rifugiati». L’austriaco si è ritrovato isolato al tavolo, ma molti leader della Vecchia Europa pur temendo ripercussioni per Schengen e danni economici dalla chiusura del Brennero hanno in parte compreso le sue ragioni, dettate dall’egoismo dei paesi dell’Est che costruiscono muri e rifiutano di ospitare i migranti arrivati negli altri paesi.

L’altra notte Renzi ha minacciato i governi dell’ex blocco sovietico di tagliare loro i fondi europei se non cambieranno linea. Minaccia in passato spesa anche dalla Merkel. Ma ieri il governo ungherese ha tirato dritto: «Quello di Renzi è un ricatto politico», le parole del portavoce di Orban. «Renzi non può ricattare nessuno», ha aggiunto il ministro polacco Konrad Szymanski. Con loro in Italia si schiera Salvini, mentre la presidente della Camera Laura Boldrini appoggia il premier: «Non si sta in una famiglia solo quando fa comodo». L’Ungheria poi ha annunciato una nuova mossa unilaterale: domani chiuderà le tre frontiere ferroviarie con la Croazia. La Slovenia lunedì conferirà più poteri all’esercito nel controllo dei confini. Ma il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, ha diffidato i partner da ulteriori misure dannose per la Germania: «Alla lunga ci sarebbero conseguenze». La Merkel intanto ha ottenuto un vertice tra i Ventotto e la Turchia ai primi di marzo.

In attesa che la Grecia controlli a pieno le sue frontiere e che arrivi il piano Juncker, la Cancelliera ritiene che la collaborazione di Ankara nel bloccare le partenze dalle sue coste sia cruciale. Tsipras ha invece bloccato l’accordo per evitare il Brexit se non avrà garanzie che la Grecia non sarà sigillata fuori da Schengen. Hollande, criticato perché non sostiene la ripartizione dei migranti, ha detto che la Francia farà la sua parte quando le frontiere esterne torneranno sotto controllo. In fondo anche il presidente francese vuole «salvare Schengen».


QUELLA TORTA DA 300 MILIARDI
CHE HA SPACCATO L’EUROPA
Sono i fondi erogati in sei anni che l’Unione gira soprattutto ai Paesi dell’Est da sempre in prima linea contro l’accoglienza

Più di trecento miliardi spalmati su sei anni. È questa la torta dei fondi europei che Matteo Renzi - rilanciando una minaccia già brandita da Berlino vuole togliere ai paesi dell’Europa orientale che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. E ancora, i baltici, altrettanto contrari all’idea di una gestione comune dei migranti, di una ripartizione tra i Ventotto di chi fugge in Europa per trovare riparo da guerra e terrorismo. Sono loro che hanno portato Schengen sull’orlo del collasso bloccando da mesi qualsiasi decisione comunitaria. Che hanno costretto paesi come Austria, Germania e Svezia, inizialmente accoglienti con tutti i profughi, a chiudere le porte e a ripristinare i controlli alle frontiere precipitando l’Unione in uno stallo figlio di un pericoloso tutti contro tutti. E poco importa che anche Francia e Spagna siano scettiche verso le riallocazioni: se il problema fosse stato risolto subito avrebbero accettato il sistema.

UNANIMITÀ
La minaccia ad Orban&Co sui fondi piace a molte capitali della Vecchia Europa, ma non è facile da portare alle estreme conseguenze. Il bilancio pluriennale dell’Unione viene infatti approvato all’unanimità su proposta della Commissione ed è difficile immaginare che i leader dell’ex blocco sovietico decidano spontaneamente di tagliarsi i soldi nel 2019, quando l’Ue inizierà a negoziare le prospettive finanziarie 2021-2027. Più verosimile pensare un blitz immediato, visto che i governi ogni anno all’interno del bilancio pluriennale (quello attuale copre il periodo 2014-2020) decidono le spese per i 12 mesi successivi. In questo caso a maggioranza qualificata. Ma appare comunque improbabile che i leader dell’Est non riescano a mettere insieme una minoranza di blocco in grado di fermare la rappresaglia congelando il bilancio. Dunque quella sui fondi può essere considerata una minaccia più politica che reale, anche se nasconde una grande verità su quanto le capitali dell’Est siano europeiste nell’incassare gli ingenti aiuti di Bruxelles e quanto si rivelino egoiste nel non accettare la ripartizione dei migranti ora stipati in pochi paesi.

CONTRIBUTORI
Il bilancio 2014-2020 dell’Unione conta 970 miliardi. Circa 300 tornano ai governi sotto forma di aiuti. Si tratta dei fondi strutturali, di coesione (riservati alle nazioni dell’ultimo allargamento), dei sussidi all’agricoltura, al sociale e di altre decine di programmi europei. Il più grande contributore netto al bilancio comunitario è la Germania, che ad esempio nel 2014 ha avuto un saldo passivo verso l’Unione di 15,5 miliardi. Seguono Francia, che tra dare e avere ha perso 7,1 miliardi, Gran Bretagna (4,9), Olanda (4,7) e Italia (4,4), che nell’ultimo negoziato condotto da Monti nel 2013 ha migliorato di due miliardi il saldo.

BENEFICIARI
Tra i paesi dell’Europa pre-allargamento chi è beneficiario netto dei fondi Ue sono Grecia e Portogallo e per cifre irrisorie Irlanda, Malta e Cipro. La parte del leone nel prendere la fanno però i paesi dell’Est. Come la Polonia, nazione governata dalla destra populista di Kaczynski e Szydlo, contraria all’accoglienza. Peccato che nel 2014 Varsavia abbia registrato un saldo attivo di 13,7 miliardi nel rapporto tra dare e avere con Bruxelles. Il tipico esempio di nazione accusata di accettare la solidarietà a senso unico. Una cifra pari al 3,47% del Prodotto interno lordo con la quale Varsavia sta ammodernando economia e infrastrutture. Tra l’altro nel periodo 2014-2020 può ricevere 228 milioni Ue per i migranti. Altro campione di incassi è l’Ungheria del liberticida Viktor Orban: 5,6 miliardi di attivo nel 2014, pari addirittura al 5,64% del Pil nazionale. E tra l’altro gli ungheresi hanno a disposizione 93 milioni europei per gestire i profughi. Prende bene anche la Repubblica Ceca: 3 miliardi all’anno pari al 2% del Pil. Vengono poi Bulgaria (1,8 miliardi, 4,4% del Pil), Lituania (1,5 miliardi, 4,3% del Pil) e Lettonia (799 milioni, il 3,35% del Pil). Anche gli altri paesi dell’Est, con cifre inferiori, sostengono le loro economie grazie ai fondi europei. Gli stessi paesi che da mesi voltano le spalle alle nazioni che non riescono da sole a gestire i profughi in arrivo dalla Siria. E che ora sono allo stremo.

Le barricate minacciate da Zaia riecheggiano le mura promesse da Trump. Eppure la regione che Zaia governa ha conosciuto ondate di emigrazioni che non erano dovute alle guerre ma alla miseria: i veneti erano "migranti economici"come si dice oggi per respingerli. La Repubblica, 19 febbraio 2016


«Non accoglieremo nuovi immigrati: il Veneto ha già fatto troppo. Da noi non c’è più posto». Luca Zaia boccia il nuovo piano d’accoglienza da 150mila posti del Viminale: «Il governo invece di gestire i flussi di rifugiati – attacca il governatore veneto – si è ridotto a fare il tour operator. Smista e basta».

Il Veneto è dunque pronto alle barricate contro i nuovi ingressi?
«Sia chiaro, oggi l’11% della popolazione veneta è straniero: circa 514mila migranti. Abbiamo avuto i flussi di albanesi, di romeni e via via di tutti gli altri. Su un punto non ci sono dubbi: è vigliacco non accogliere chi fugge dalla morte. Ma i dati ci dicono che due immigrati su tre alla fine non ricevono lo status di rifugiato. Stiamo riempiendo il nostro territorio di stranieri che non hanno diritto all’ospitalità, mentre i rifugiati veri li lasciamo per strada ».

Ci spieghi meglio.
«Chi non ha diritto all’asilo fa ricorso al giudice e intanto rimane. I rimpatri sono quasi impossibili, vista la mancanza di accordi di riammissione con i Paesi principali di partenza. E intanto cosa succede a chi ottiene lo status di rifugiato? Semplice: le cooperative lo mettono in strada visto che non vale più i 35 euro giornalieri. I sindaci non sanno più come fare. E il governo non fa nulla ».

È colpa del governo se sbarcano migliaia di rifugiati nel nostro Paese?
«Se arrivano non è certo colpa del governo, ma è nella gestione dei flussi che non sta facendo niente. Dovrebbe poi farsi sentire di più in Europa».

Invece?
«Invece siamo davanti a un governo che pesa poco o nulla a livello internazionale. E a un comportamento inaccettabile dell’Unione europea, che ci ha lasciati soli. Io dico che andrebbe revocato il premio Nobel per la Pace all’Europa».

Cosa andrebbe fatto per arginare i flussi di migranti, allora?
«Bisognerebbe aprire campi di accoglienza internazionali nel Nord Africa, dove ciascuno, anche la mia Regione, farebbe la sua parte».

Insomma, da parte vostra non ci sarà un posto in più per l’accoglienza dei profughi?
«Ripeto: solidarietà a chi fugge dalle guerre, senza se e senza ma. Non a queste condizioni, però. Noi già facciamo il nostro, non siamo disposti a ulteriori sforzi».

Rinasce il fronte del No delle regioni a guida centrodestra?

«Non è questione di colore politico. Bisogna osservare quello che sta succedendo nei nostri territori. Pronti a rivoltarsi, come sta accadendo in Germania contro la Merkel».

a Repubblica, 17 febbraio 2016

«I quattro paesi di Visegrad sono il nuovo Asse. Il nemico è Angela Merkel, simbolo forte dell’Europa liberale ». Lo dice Agnes Heller, filosofa ungherese che è stata il massimo esponente della Scuola di Budapest e rimane la leader storica dell’intellighenzia critica del centro-est europeo.

Questi no all’Europa raccolgono ampi consensi in patria: che cosa sta succedendo nel centro-est dell’Europa?
«Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia ricordano il vecchio Asse. Non sono uniti da valori ma dall’identificare un nemico comune: il cuore della Ue, soprattutto la Germania, contro cui sono in guerra per imporre le loro ideologie illiberali e prendere la guida dell’Europa insieme a forze a loro affini. È una sfida lanciata a liberal, progressisti, conservatori, a tutti i veri europei».

Il no ai migranti non è l’obiettivo principale?
«È piuttosto strumento della loro guerra: criminalizzano migranti e profughi per criminalizzare Angela Merkel che, dicono, accogliendoli sul suolo europeo distrugge la loro idea d’Europa. È guerra tra diverse parti dell’ex impero sovietico e le democrazie dell’Europa occidentale e meridionale. Vincerà chi avrà il controllo della Ue».

Merkel primo bersaglio, dunque: perché?
«Perché è e rimane il personaggio più forte, centrale, dell’Unione europea. Nella partita in corso, lei è come il Re negli scacchi. Devono riuscire a darle scacco per trasformare la Ue in una “Europa delle patrie” rette da sistemi illiberali nazionali, di cui Orbàn e i suoi migliori alleati, i governanti polacchi, parlano. Scacco al re, anzi regina in questo caso, nel nome di nazionalismo e onnipotenza degli Stati nazionali, il vero male del Ventesimo secolo, a mio modo di vedere».

Ma sono comunque popolarissimi in patria: perché?
«Perché gli elettori da noi sono frustrati e depressi, sebbene non manchi chi scende in piazza per protestare contro questi governi antiliberali. È sempre facile in Europa orientale, dove esistono persino opposizioni a destra di Orbán o del PiS polacco, giocare la carta del nazionalismo, dire che occorre resistere ai diktat in arrivo da fuori. Il potere è così forte da creare oligarchi che poi lo sostengono».

I cittadini condividono dunque il no alla solidarietà europea dei loro politici?
«Purtroppo, giocando la carta della resistenza nazionalista contro presunti ricatti di Bruxelles o Berlino, hanno distrutto il principio stesso della solidarietà, legame e valore fondamentali dell’Europa. Vogliono tutto dalla Ue, ma non danno nulla in cambio. La gente dimentica gli ingenti aiuti e investimenti europei. E l’egoismo degli Stati nazionali, definiti da Nietzsche “bruti che si servono da sé”, distrugge i valori costitutivi europei. Ma in patria slogan e propaganda convincono ».

Quanto è pericoloso tutto questo?
«Molto, perché le democrazie occidentali si stanno mostrando deboli a fronte di questi semi-dittatori. Germania, Francia, Italia, in quanto Stati liberali, non sono portati ad assumere linee dure o sanzioni. Se resteranno deboli, l’Asse e i suoi potenziali seguaci potranno davvero mettere a rischio la Ue e i suoi principi»

L’Europa democratica dovrebbe reagire più duramente?
«Non so come dovrebbe reagire, ma so che deve mostrarsi forte. Difendere i suoi valori. E capire la serietà della sfida illiberale di cui Orbán è l’ideatore: lui invita tutti a non sentirsi più innanzitutto europei. Nel futuro non temo certo guerre europee, ma sostengo che il virus illiberale e demagogico potrà diffondersi e minare le fondamenta democratiche dell’Europa, contando sulla capacità di condizionare l’elettorato con un messaggio forte e populista».

Sbilanciamoci.info, Newsletter n. 461, 16 febbraio 2016

Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.

Alzate le barriere contro i migranti, o alzeremo quelle tra i paesi europei. E’, in estrema sintesi, il messaggio contenuto nel dossier sullo stato dei lavori previsti dall’Agenda sulle migrazioni, redatto dalla Commissione europea diffuso mercoledì 10 febbraio. Un documento in cui si mette in discussione uno dei pilastri dell’Unione Europea, ossia la libera circolazione: la Commissione minaccia infatti di bloccare Schengen per due anni qualora la Grecia, uno dei paesi in cui la pressione migratoria è attualmente più forte, non si adegui ai dettami europei.

Ad Atene la Commissione europea rivolge le critiche più forti, sollecitando maggiori controlli alle frontiere per evitare che i migranti si spostino verso gli altri paesi europei.Non è una richiesta astratta: entro tre mesi Tsipras dovrà presentare un piano per il controllo dei confini, facilitando anche il lavoro dei funzionari Frontex già presenti, e di quelli che secondo la Commissione dovrebbero ancora arrivare. All’interno del piano la Grecia dovrebbe, secondo le richieste europee, predisporre delle strutture di “accoglienza” dei richiedenti asilo che, sfuggiti ai controlli ellenici, si sono già spostati in altri paesi europei, Germania e Svezia in testa: il trasferimento dei migranti risponderebbe alla restaurazione, in Grecia, del regolamento Dublino, finora bloccato da alcune sentenze emesse nel 2011 dalla Corte europea dei diritti umani, a causa delle indegne condizioni di accoglienza riscontrate in territorio ellenico.

Date le gravi difficoltà economiche in cui versa la Grecia, l’Unione prevede un’assistenza in collaborazione con il sostegno operativo dell’Unhcr: la Commissione ha infatti già approvato lo stanziamento di 80 milioni di euro per sostenere le capacità di accoglienza del paese, portandole di 50.000 posti. Una missione “umanitaria” che ha, paradossalmente, l’obiettivo di allontanare persone in difficoltà dal territorio europeo, in un paese da anni stretto nella morsa della crisi, messo in ginocchio da pesanti misure di austerity e con il tasso di disoccupazione al 25%.

Se la Grecia non dovesse dar seguito ai punti sollevati dalla Commissione, il rischio concreto è la reintroduzione delle frontiere interne per un periodo di due anni.

Anche l’Italia viene bacchettata sui controlli, in particolare in relazione alla questionehotspots: solo due dei sei previsti sono attivi. Proprio per superare i problemi amministrativi e i ritardi legati alla scelta dei siti, la Commissione mette a disposizione una squadra mobile europea, per la rapida creazione di una nuova struttura nella Sicilia orientale. La pressione sugli hotspots va di pari passo con la necessità, tutta europea, di procedere alle registrazioni e conseguentemente a riallocazioni o rimpatri -sempre in base alla discutibile divisione tra migranti economici e profughi, arbitrariamente decisa dalle istituzioni europee- e di evitare che i migranti si spostino negli altri paesi membri. E’ in quest’ottica che la Commissione sottolinea la possibilità di usare la forza per effettuare i rilievi dattiloscopici, e arrivare così all’obiettivo europeo: pur riconoscendo un incremento della registrazione delle impronte digitali – dall’8% nel settembre 2015 al 78% nel gennaio 2016 in Grecia, e dal 36% del settembre 2015 all’87% nel mese di gennaio 2016 in Italia – l’Unione sollecita il raggiungimento del 100% dei rilievi entro il summit europeo previsto per marzo. Ed è sulle deportazioni che l’Europa insiste particolarmente: gli oltre 14mila rimpatri forzati effettuati dall’Italia nel 2015, e la partecipazione a 11 voliorganizzati da Frontex, non sarebbero sufficienti, secondo la Commissione, a fronte di oltre 160mila arrivi registrati lo scorso anno. E’ in quest’ottica che l’Europa chiede di intervenire sulla legge nazionale, allungando i tempi di trattenimento, non considerando gli attuali 90 giorni idonei alla chiusura delle pratiche per i rimpatri. Una pressione esplicita ad ampliare (di nuovo!) quel sistema dei centri di identificazione ed espulsione che nel nostro paese ha dato luogo a gravi violazioni dei diritti umani, a numerose proteste delle persone detenute e a un business sconfinato spesso nell’uso improprio di risorse pubbliche.

Se a Grecia e Italia viene rimproverato di non alzare muri abbastanza alti per evitare l’ingresso dei migranti in Europa, gli altri stati membri vengono richiamati sull’unico punto in cui l’Unione poteva effettivamente fare la differenza in merito all’accoglienza, ossia le ricollocazioni. Un aspetto che è stato a lungo discusso nelle diverse sedi istituzionali, senza però tradursi in una soluzione concreta. A dirlo sono i numeri: dei 160mila migranti che i paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene.

Sollecitando l’applicazione di processi di “responsabilità e solidarietà” tra paesi membri, la Commissione ha comunque definito ancora una volta la posizione dell’Europa rispetto ai migranti: “Deve essere chiaro alle persone che arrivano nell’Unione – si legge nel dossier -che se necessitano di protezione la riceveranno, ma non potranno decidere dove. E se non sono qualificate per riceverla, saranno rimpatriate”.

Il tema dell’accoglienza non è praticamente nominato: e questo nonostante ilcatastrofico panorama internazionale non accenni alcun miglioramento. Solo considerando il conflitto siriano in corso da cinque anni, sarebbero 470.000 i civili morti a causa della guerra e delle sue conseguenze, come la mancanza di cure mediche, cibo e acqua; l’11,5% della popolazione siriana è rimasto ucciso o ferito dall’inizio, nel marzo 2011, della guerra; l’aspettativa di vita è calata dai 70 anni del 2010 ai 55 del 2015 (dati diffusi dal Centro siriano per la ricerca politica -Scpr). Per quanto riguarda i viaggi verso l’Europa, le stragi non sembrano diminuire: lunedì scorso ventisette persone – tre le quali undici bambini – hanno perso la vita nel naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano, provando a raggiungere l’isola greca di Lesbo dalle coste turche. Un altro naufragio al largo della Turchia ha provocato la morte di altre undici persone.

Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.

Un vero e proprio ricatto, considerando i pesanti problemi economici che potrebbero derivare dall’abbandono di Schengen.

«La Repubblica, 15 febbraio 2016 (m.p.r.)

Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo - nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano - il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente.
Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini. Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture - l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo - sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “evoluzione” indipendente dalla struttura madre.
È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “ stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi.
Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti.
La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono - nella migliori delle ipotesi - evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein.
E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga - le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti - perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?
Muri sempre più vicini, ragione e umanità sempre piùlontane «L’annuncio di Vienna nel giorno del vertice fra Renzi e il premier austriaco».

La Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Roma. Una barriera per bloccare gli ingressi incontrollati. Una carreggiata della strada su cui far sfilare i rifugiati. Una serie di container per ospitare i gendarmi, incaricati di controllare i documenti di chi passa. L’Austria sceglie la linea dura e annuncia la “chiusura” del Brennero: la frontiera con l’Italia.

Insomma, stando alla stampa austriaca, entro otto-dieci settimane al massimo al Brennero potrebbe nascere un nuovo “muro” per il controllo dei migranti. Che la situazione sia seria, lo conferma il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz. Parlando in Macedonia, Kurz annuncia che il suo Paese ha quasi raggiunto il numero massimo di rifugiati che prevede di accogliere entro l’anno: il limite dei 37.500 migranti sarà raggiunto «entro un mese» e a quel punto Vienna chiuderà ai profughi le proprie frontiere. Lo studio della nuova barriera è stato realizzato dalla polizia del Tirolo e dai responsabili del confine di Spielfeld (tra Austria e Slovenia), dove già è presente un “muro”. Le recinzioni con l’Italia saranno costruite per evitare la fuga incontrollata sia sull’autostrada che sui treni. Il capo della polizia del Tirolo, Helmut Tomac, aggiunge anche che «sarebbe importante negoziare con Roma per allestire una zona cuscinetto intermedia ».
In risposta, i tre governatori di Bolzano, Trento e Innsbruck annunciano una riunione d’urgenza per lunedì prossimo: «Un eventuale blocco - sostiene il governatore altoatesino Arno Kompatscher, che in serata ha ricevuto anche una telefonata di Renzi - sarebbe per noi un fatto estremamente negativo. La caduta delle barriere al Brennero era stata infatti una pietra miliare nella riunificazione delle parti separate del Tirolo».
La notizia della possibile chiusura del confine cade nello stesso giorno in cui a Roma il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, incontra il cancelliere austriaco Werner Faymann. «Non crediamo che la solidarietà europea si verificherà dall’oggi al domani. Per questo - afferma Faymann - nel frattempo dobbiamo controllare i confini. L’anno scorso l’Austria ha accolto 90mila richiedenti asilo: circa l’1% degli abitanti. Adesso il nostro valore massimo è 37mila. Per i prossimi cinque anni accetteremo un numero pari all’1,5% della popolazione. Sui valichi di confine ci prepariamo così a controllare i migranti». Insomma, una parziale conferma dell’annunciata barriera.
Altro fronte caldo è quello greco. Su Atene è piombato ieri l’ultimatum del Consiglio Ue: avrà tre mesi di tempo per sanare le «gravi carenze» riscontrate nella gestione delle frontiere esterne, attraverso le quali nel 2015 sono entrati 880mila migranti. Pena la possibilità per gli altri Paesi, soprattutto Germania e Austria, di ripristinare da metà maggio i controlli ai confini interni per un massimo di due anni. Nelle raccomandazioni adottate a Bruxelles si legge che, di fronte a flussi di migranti «senza precedenti, l’intero funzionamento dell’area Schengen è in serio pericolo. Le difficoltà affrontate dalla Grecia hanno un impatto sull’Ue nel suo insieme ». Il rischio è che, con il ripristino dei controlli da parte di alcuni Stati, nasca la cosiddetta “mini-Schengen”, che isolerebbe la Grecia dal resto dell’Unione. «L’Europa con i muri non esiste », è l’amara constatazione del premier greco, Alexis Tsipras, che durante l’incontro di ieri con la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha messo in guardia dai movimenti di estrema destra, che potrebbero rafforzarsi «se l’Unione non cambia marcia».

Il manifesto, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)

Scene raccapriccianti: decine di migliaia di siriani in fuga da Aleppo dove infuria la guerra sbattono contro la frontiera turca sbarrata per decisione del governo di Ankara. E ora la Turchia vuole costruire un muro - l’ennesimo - nell’unico tratto di frontiera a nord di Aleppo non sotto il controllo dell’Isis.

I 3 miliardi di euro concessi dall’Unione europea alla Turchia per bloccare i profughi non potevano trovare davvero un migliore impiego! L’unico intervento deciso dalla Unione europea per i profughi ha avuto l’esito che si poteva facilmente immaginare.

Il sultano Erdogan, dopo aver foraggiato l’Isis con soldi, armi e combattenti in arrivo dal Golfo e dall’occidente e aver contrabbandato il petrolio estratto nello «stato islamico», per poi aderire alla coalizione anti-Isis ad obtorto collo – non poteva sottrarsi essendo membro della Nato – ma solo per bombardare i kurdi, ora può finire l’opera, riducendo i profughi a topi in trappola, con i soldi dell’Unione europea.

Purché serva a lavarsene le mani l’ipocrisia dell’Europa non ha limiti. Chiude gli occhi di fronte ai drammi più atroci, di cui è stata artefice, per non assumersi le responsabilità. Il fallimento del tentativo di negoziato di Ginevra è anche questo. Ma questi tentativi sono falliti sul nascere perché escludono i protagonisti del teatro di guerra e persino coloro, gli unici, che hanno individuato una strada per combattere il fascismo fanatico dell’Isis, i kurdi.

Si continuano a creare mostri che sfuggono di mano, l’elenco è lungo da Osama bin Laden fino ad al Baghdadi.

È paradossale che l’Europa offra ora sostegno politico e finanziario ad Ankara, dopo aver continuamente rinviato l’entrata della Turchia nella Ue a causa della violazione dei diritti umani, proprio nel momento in cui il regime autoritario di Erdogan mostra il peggio di sé (è il Paese con il maggior numero di giornalisti in carcere, alcuni dei quali rischiano la pena di morte), ha ripreso il massacro dei kurdi e non solo in Turchia, ha ingaggiato un braccio di ferro con la Russia - trovando uno zelante contendente in Putin -, vuole costruire un muro in Siria con il miraggio di occupare una fascia di sicurezza oltre frontiera.

Una scelta scellerata che ricadrà sulle nostre coscienze – se ce ne sono rimaste – perché non tutti i profughi potranno morire di fame e di stenti, non tutti i bambini potranno essere lasciati annegare in mare, il fascismo che serpeggia in Europa e nel MediO Oriente finirà per provocare una ribellione che travolgerà i benpensanti, gli indifferenti e i razzisti.

A quel punto l’Europa, se ancora esisterà, dovrà scegliere da che parte stare, se diventare un luogo di accoglienza e di convivenza di popoli con culture diverse o arroccarsi in un fortino nel deserto (le previsioni climatiche già vanno in questo senso) in attesa dell’arrivo dei tartari. Che arriveranno dopo aver abbattuto tutti i muri. Allora forse chi sopravviverà riproverà quella sensazione vissuta nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino. Un evento storico irripetibile, che però non ha lasciato traccia.

«L’integralismo cattolico che brandisce il cristianesimo come una clava contro i migranti musulmani. E il cedimento dei governi europei che mette in forse la stessa sopravvivenza dell’Unione».

Il manifesto, 5 febbraio 2016

«L’apostasia delle proprie radici giudaico-cristiane è la causa di tanti mali della società di oggi»: queste parole di Massimo Gandolfini, leader del family day, rivelano la vera ratio di quell’adunata: riproporre la famiglia come fonte e supporto del potere patriarcale e di tutti gli autoritarismi della nostra società con una chiamata alle armi in difesa della perduta purezza dell’Occidente. Il cattolicesimo degli organizzatori, tornato in piazza con il preciso intento di offuscare i contenuti dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, è quello stesso cristianesimo oggi brandito come una clava contro i migranti musulmani dai governi ungherese, polacco e ceco, dagli hooligans svedesi che danno la caccia ai ragazzini di colore e dai tanti partiti nazionalisti e razzisti che stanno prendendo il sopravvento in tutti i paesi d’Europa.

Quel sopravvento si alimenta di un cedimento dei governi dei principali paesi europei alle loro pressioni; un cedimento che ormai mette in forse la sopravvivenza stessa dell’Unione. Solo qualcuno, e solo ora, comincia a prenderne atto. Gli altri no:“Ecco come salvare le banche”, titolano i giornali; ma di come salvare i profughi che annegano o muoiono di fame, di sete e di freddo non parla nessuno: nemmeno quelli che pure raccontanole atroci condizioni a cui l’Europa sta condannando milioni di vittime di guerre, rapine e devastazioni ambientali prodotte in gran parte dalle sue politiche o dalla sua indifferenza. Eppure bisogna cominciare a chiedersi come far fronte a questa offensiva, perché le linee di resistenza sono ormai in rotta.

Una cosa deve essere chiara: per quanto dure possano farsi le politiche di riduzione delle libertà costituzionali e dei diritti sociali adottate dai governi europei, nessuno di loro risolverà il problema dei profughi, perché la politica dei respingimenti è senza futuro. Impraticabile è l’idea di accogliere solo i profughi di guerra (che sono comunque moltissimi) perché tutti gli altri (i cosiddetti migranti economici) sono nelle loro stesse condizioni: altrimenti non affronterebbero un viaggio dove rischiano non solo la morte propria e delle loro famiglie, ma anche la prospettiva, di cui sono perfettamente al corrente, di venir imbottigliati lungo il percorso o rispediti in uno dei paesi che hanno attraversato; ma anche perché i paesi da cui fuggono sono sempre di più in balia di nuove guerre che le politiche di respingimento non fanno che attizzare.

La “purezza” etnica dell’Europa sembra ormai messa in mano alla Turchia: una dittatura feroce - in guerra con una parte cospicua del suo popolo e dei suoi vicini, che non ha esitato e non esiterà a sostenere la ferocia dell’Isis o di altri suoi emuli - a cui l’Europa assegna il compito di trattenere in veri e propri Lager i disperati che non vuole accogliere sul proprio suolo e quelli, immeritevoli di accoglienza, che vuole cacciare. Non ci si rende conto di mettere così in mano a quel paese, insieme ai profughi, un’arma di ricatto e di controllo su tutte le politiche europee del futuro. Ma quei profughi sono già troppi anche per la Turchia, come lo sono per Libano e Giordania; e, anche se un ministro belga si è già spinto a chiedere al Governo Greco di fare affogare i profughi che cercano di raggiungere le sue isole, non c’è morte nel deserto o naufragio in mare in grado di “smaltire i flussi” di coloro che continueranno a cercare di sfondare le mura della fortezza Europa. Vero è che la dissoluzione di Schengen lascia ormai intravvedere che a tener lontani i profughi dal cuore dell’Europa saranno tra poco chiamati i paesi di arrivo: Grecia, Italia e, forse, Spagna. Sempre al Governo Greco è stata, tra l’altro, prospettata la costruzione di un campo di concentramento per 400mila profughi (il ministro competente ha risposto che questo lo facevano i nazisti). Coloro che invocano l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea non mettono mai in conto questa prospettiva.

C’è un’alternativa a tutto ciò (e al molto altro che ne consegue)? E’ una domanda di buon senso a cui non risponde certo la finta prospettiva di accogliere i profughi (ma come? e quanti?) e respingere i migranti; senza naturalmente spiegare come fare la “selezione” né tantomeno dove “metterli” e a chi “restituirli”: quasi fossero “pezzi” (Stuecke) e non esseri umani come noi, e assai più infelici di noi. No. A breve tempo non c’è alternativa né una forza sociale o politica in grado di prospettarla. Meglio quindi adottare fin d’ora in una posizione di resistenza, cercando di ricostruire quell’alternativa attraverso dei passaggi legati tra loro:

Innanzitutto non stancarsi di indignarsi e di manifestare la nostra indignazione per il cinismo con cui il problema viene affrontato: è un modo per arginare il razzismo. Dall’indignazione è iniziato in altri paesi il cammino della riscossa. Ci ripetiamo che bisogna unire le forze, collegare i movimenti, unificare gli obiettivi; ma la base dell’unità è un sentire comune e pubblico.

Poi bisogna fare attenzione alle parole. Poco per volta ci abituiamo a parlare della vita e della morte di milioni di persone, di uomini, donne, bambini, trattandoli come un problema, un ingombro, un “fattore di squilibrio”, una sciagura. Ed è per queste vie che si insinua il razzismo.

Poi vengono le buone pratiche. Migliaia e migliaia di persone si adoperano ogni giorno e in ogni modo per rendere meno atroce la vita di chi arriva nei nostri paesi. E’ la base, che si può ancora allargare, indispensabile per rovesciare la situazione.

Poi ci sono le mobilitazioni per i diritti: lavoro, sanità, scuola, territorio, costituzione, contro la guerra. Sono momenti importanti di unità, ma senza un collegamento con la difesa dei profughi rischiano di lasciar campo libero all’avversario.

La ragione è dalla nostra parte: senza un massiccio apporto di profughi e migranti l’Europa perde abitanti e forze di lavoro, invecchia, imbocca la strada di una stagnazione (che non è certo la decrescita felice). Ce ne vorrebbero almeno tre milioni all’anno solo per mantenere la popolazione europea in equilibrio. L’incapacità di accoglierli è una conseguenza delle politiche di austerity: le stesse che hanno creato milioni di disoccupati tra i cittadini europei. La lotta contro la disoccupazione e quella per l’accoglienza non si contraddicono (non sono gli uni che portano via “il posto” agli altri).

Dare un futuro a milioni di profughi e restituire lavoro reddito e dignità a milioni di europei disoccupati non è compito da affidareal mercato o solo a un grande piano statale. Richiede migliaia di progetti diffusi sul territorio, con un obiettivo comune che non può che essere la conversione ecologica, per riportare il pianeta, l’Europa e ogni singola comunità entro i limiti della sostenibilità. Progetti articolati attraverso milioni di piani personalizzati di inserimento sociale: una cosa che può essere affrontata solo da quelle organizzazioni del terzo settore (non tutte) che si riconoscono in quel comune sentire che è la solidarietà. Questo tema è stato posto nel Forum dell’economia sociale e solidale promosso dal GUE-NGL (e di fatto, da Podemos), riunito per la prima volta a Bruxelles il 28 gennaio. Adesso si tratta di andare avanti.

«» Tanto, pagano gli altri. La Repubblica

«Essere o non essere insieme in Europa», twitta il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, «questo è il problema». La sua bozza di accordo rappresenta un passo per fare restare la Gran Bretagna nella Ue, ma non è la soluzione definitiva del dilemma. Se il primo ministro David Cameron la accoglie come un «progresso sostanziale », l’ala euroscettica del suo stesso partito conservatore la definisce «uno schiaffo», mentre Nigel Farage, leader dei populisti antieuropei dell’Ukip, la considera addirittura «patetica». Reazione scontata da parte dei nemici dell’Unione, che tuttavia apre una nuova fase di incertezza. Continuando a negoziare per ottenere di più prima del summit europeo del 18-19 febbraio che dovrebbe approvare ufficialmente l’intesa, il premier britannico sarà preso tra due fuochi: quello dei suoi oppositori interni che non si accontenteranno di nulla e quello di Polonia e altri paesi dell’Europa dell’est secondo cui la Ue gli ha concesso già troppo. Se Cameron riuscirà nell’impresa potrà poi convocare per giugno il referendum sull’Unione Europea schierandosi per il sì all’Europa, con ragionevoli speranze di farcela. Altrimenti la trattativa si prolungherà, il referendum potrebbe farsi in settembre e il risultato diventerebbe più imprevedibile.

Il punto chiave della bozza resa pubblica ieri da Tusk a Bruxelles, frutto di mesi di negoziati con il governo Cameron, è la concessione di un “freno d’emergenza” per 4 anni ai benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni familiari, alloggi popolari) agli immigrati comunitari: quello che voleva Downing street, come misura per rallentare un’immigrazione europea che cresce al ritmo di 300 mila arrivi l’anno. Ma le modalità del provvedimento sono da definire e i benefici andrebbero “gradualmente” ripristinati. C’è insomma ancora da discutere, su questo come sugli altri punti dell’accordo (sovranità dei Parlamenti nazionali, integrazione europea, protezione dei diritti dei paesi fuori dall’eurozona).

«Progressi concreti, che mi permetterebbero di battermi per restare in Europa - commenta Cameron - con la mano sul cuore sento di avere ottenuto quanto avevo promesso». In Inghilterra tuttavia i pareri discordano. Per il Guardian si tratta di «concessioni parziali». Per il Financial Times è «un fragile accordo». Il Telegraph cita nel titolo le parole di un deputato Tory euroscettico: «La Ue dà uno schiaffo in faccia al Regno Unito». Per Farage, leader Ukip, è un patto «davvero patetico ». E il capo del Labour, Jeremy Corbyn, favorevole a restare nella Ue (pur senza entusiasmo), accusa il premier di «correre dietro agli euroscettici». Cameron si difende così: «Gli immigrati non avranno più accesso immediato al welfare britannico, la sterlina non sarà discriminata rispetto all’euro, il nostro Parlamento potrà respingere le idee pazze di Bruxelles ».

Giorno dopo giorno la barbarie dei popoli della Fortezza Europa prepara la notte in cui le moltitudini represse nella loro miseria non lascerà vivo uno di noi, Articoli di Del Re e Tarquini. La Repubblica, 31 gennaio 2016




LA STRAGE DEI BAMBINI
NAUFRAGIO NELL’EGEO
ALLARME DELL’UNICEF
di Pietro Del Re

«Genocidio dell’infanzia”. Europol: 10 mila minori arrivati e scomparsi. “Germania, 400 mila espulsioni»

ROMA. Dopo la strage di ieri, il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, è tornato a chiedere corridoi umanitari sicuri: «Davanti al genocidio in mare di bambini l’Italia si sta colpevolmente assuefacendo. La Ue batta un colpo, è una questione che riguarda tutti. Affondano come su Titanic di carta».
Dalla Germania è arrivata la notizia pubblicata da Die Welt secondo cui - stando a un documento interno della Cdu - Berlino si preparerebbe a espellere 400 mila richiedenti asilo nel 2016.
Un ennesimo naufragio nel braccio di mare tra Grecia e Turchia ha provocato un’altra strage di migranti. I morti di quest’ultima tragedia dell’Egeo sarebbero almeno 39, di cui almeno 5 bambini. Ma secondo le autorità di Ankara il bilancio potrebbe aggravarsi ulteriormente, perché in serata non era ancora stato recuperato il relitto del barcone di 17 metri, affondato poco dopo esser salpato dalle coste di Canakkale, diretto verso l’isola di Lesbo. L’imbarcazione s’è infranta andando a sbattere contro gli scogli e si teme che diverse persone siano rimaste intrappolate nella stiva. La guardia costiera ha potuto soccorrere 75 persone e sta cercando di ripescare una donna con il suo bimbo di tre mesi, trascinati dalla corrente verso il largo.
Secondo la stampa turca sul barcone viaggiavano migranti provenienti da Siria, Afghanistan e Birmania. Un portavoce della polizia ha invece dichiarato che un cittadino turco è stato arrestato con l’accusa di aver organizzato la traversata verso la Grecia. Tre giorni fa, in un altro naufragio avevano perso la vita 10 bambini.

Tutte vittime che vanno ad aggiungersi alle tremila persone che nel 2015 hanno perso la vita tentando di raggiungere le isole di Kos e Lesbos partendo dalle coste turche. In questa strage senza fine nel solo mese di gennaio sono annegati nell’Egeo oltre 50 bambini. Più di 80mila sono i migranti salvati in mare dalla guardia costiera dei due Paesi. Ma l’emergenza non finisce con il viaggio: Europol lancia l’allarme dei bimbi scomparsi. «Ne stiamo cercando più di 10mila, 5mila solo in Italia: sono migranti minorenni non accompagnati». Molti potrebbero essersi ricongiunti con le famiglie, ma su tanti si stende l’ombra dei trafficanti.

Sempre ieri, le due motovedette della Guardia costiera italiana impegnate in quel tratto di mare hanno soccorso 3 gommoni salvando 31 migranti e hanno recuperati 15 persone abbandonate all’addiaccio su una scogliera. Tra loro c’erano quattro donne e cinque bambini di meno di quattro anni.


GLI SKINHEAD IN PIAZZA
CACCIA AI RAGAZZINI
“BASTA STRANIERI IN SVEZIA”

di Aldo Tarquini
STOCCOLMA. l minuto di silenzio per Alexandra Nezher, la 22enne svedese pugnalata a morte da un 15enne somalo, scatta alle 13,30 in punto a Norrmalmstorg splendida piazza del centro di Stoccolma. Tacciono tutti sull’attenti, molti giovani testa rasata e giubbotti neri con le due lettere ‘HH’, Heil Hitler, operai anziani, qualche famiglia giovane e signore in cappotto di cammello. Erano un migliaio, non tanti, ma qui fa impressione. Poche ore prima, nella notte, un centinaio di loro, squadre di giovani incappucciati, si sono scatenati nel pogrom a Sergelstorget, la spianata col Palazzo della Cultura voluto da Olof Palme sopra il grande incrocio della metro. Pestaggi, grida e slogan, città terrorizzata. «Puniamo i ragazzini maschi di strada marocchini, le nostre donne non si toccano ». Botte coi tirapugni anche alla polizia, ma qui gli agenti rispondono duro: quattro arresti, e la Saepo (lo MI5 svedese) indaga sulla galassia nera.
Weekend di tensione nella Londra del Nord. «Alexandra, ti dedichiamo un minuto di silenzio, tu di origini libanesi ma integrata e svedese come noi sei la nostra eroina, al tuo assassino e ai suoi amici non daremo pace», dice un’oratrice degli Sveriges Demokraterna, i populisti numero uno in alcuni sondaggi. Il vento gonfia striscioni e cartelli: «Merkel, Loefven (il premier socialista svedese, ndr), Juncker, traditori dei popoli europei», «Basta con gli assassini». Poi il comizio riprende, richieste dure: «Non siamo razzisti se chiediamo di buttar fuori quei criminali islamici, i razzisti furono e sono Hitler, Breivik e oggi i terroristi dell’Is». Sul lato nordovest della piazza pochi giovani di sinistra gridano slogan antifascisti. «Mi piacerebbe dare una lezione a quei comunisti, come l’altra notte coi marocchini”, mi dice un ragazzo biondo.

Gli agenti in tenuta antisommossa fanno cordone, mani pronte a impugnare manganelli, taser o pistole, coi furgoni Mercedes giallieblu creano un muro tra le due parti della piazza. Una signora dell’ufficio stampa della polizia informa noi giornalisti: «Il pogrom notturno l’hanno organizzato online, come un flashmob, l’ordine era “aggredire bambini rifugiati”».

«Tranquillo, organizziamo ronde civiche, siamo in contatto con gli amici, i tedeschi di Pegida e le forze sane da voi», mi dice Olof, corpulento e sorridente riservista dell’esercito. Alto, testa rasata come i suoi amici, uno di loro torna da un negozio vicino, busta di plastica piena di lattine di birra. «Siamo decisi, noi europei sani, cristiani e bianchi dobbiamo fare in fretta. Blitzkrieg, e insieme come si coordinano loro aggredendo le nostre donne a Capodanno da Colonia a Helsinki, da Goeteborg a Zurigo. Glie la faremo vedere, siamo tutti ben addestrati per il servizio militare obbligatorio».

No al razzismo, gridano i pochi controdimostranti che la polizia protegge col muro di furgoni e agenti pronti al peggio. «Bisogna dar lezioni e salvare l’Europa bianca, come quando a scuola pestammo in classe un marocchino cleptomane, rubava a tutti. Il preside ci accusò di razzismo, ecco dove ci portano i socialisti». Kalle, magro e rasato accanto a noi, annuisce: «Guarda i comunisti che ci contestano, meriterebbero una lezione, non capiscono che anche le loro donne rischiano per gli stupratori musulmani». Ore 14,40, il flashmob si scioglie cantando “ Du gamla, du fria”, il dolce inno nazionale, con le loro voci suona duro e ostile.

Europei brava gente. «C’è da temere per il nostro futuro, se siamo quelli che sembriamo essere oggi».

La Repubblica, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

Stretti nella morsa della crisi migratoria e della minaccia terroristica - spesso assurdamente presentate come due facce della stessa medaglia - c’è da temere non tanto per il futuro dell’Unione Europea: che fosse un guscio vuoto, senz’anima né orgoglio, era già evidente prima di questa doppia sfida. In questione è ora il carattere delle nostre democrazie. Nessuna esclusa. Più precisamente: che ne è dei valori di libertà e di tolleranza ricamati nelle nostre costituzioni e fieramente esibiti al mondo come paradigma di civiltà?

È la cronaca che ci impone questa dolorosa interrogazione. Ieri il governo di Stoccolma ha annunciato che rispedirà in patria - una patria ridotta a cumulo di macerie - ottantamila richiedenti asilo. Eppure la Svezia è una delle più solide democrazie continentali, che ha sempre generosamente accolto migranti d’ogni colore. E dove fino allo scorso anno il centrodestra affrontava in campagna elettorale la questione migratoria con lo slogan “Aprite i vostri cuori!”. Oggi non salterebbe in mente nemmeno alla sinistra.
La pulsione xenofoba, particolarmente diffusa tra Mar Baltico e Mar Nero - la fascia continentale più sfidata da imponenti flussi migratori - investe persino le due maggiori democrazie continentali: Francia e Germania.
A Parigi, un governo di sinistra, nel finora malriuscito tentativo di sottrarre consensi al Fronte Nazionale, si spinge a rivedere la Costituzione in senso securitario sull’onda emotiva delle stragi del 13 novembre. Le dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira - contro la proposta revoca della nazionalità ai cittadini con doppio passaporto, nati in Francia e colpevoli di terrorismo - sono un’eccezione che non modificherà la regola.
A Berlino, dopo i fatti di Colonia i sondaggi danno Alternativa per la Germania ben oltre il 10 per cento: nel prossimo Bundestag avremo per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale una forte destra ipernazionalista e antieuropea. Con cui la signora Merkel, sotto tiro nel suo stesso partito per l’iniziale apertura ai migranti, dovrà fare necessariamente i conti. In tutta Europa vige ormai la prassi dello scaricamigrante, secondo una rigorosa direttrice Nord-Sud. Chi sta più a Settentrione cerca di bloccare il migrante - per quattro quinti profughi in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan e altre zone di guerra - per rispedirlo al vicino meridionale.
Un quarto di secolo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino risorgono barriere fisiche e informali, dal filo spinato ai cordoni di polizia ed esercito. Schengen è di fatto sospesa in una mezza dozzina di Paesi. L’Unione Europea rischia di trasformarsi in arcipelago di ghetti. Incomunicanti e ostili. In alcune cancellerie europee si dibatte su come trasformare la Grecia in gigantesco campo profughi, cacciandola dal sistema Schengen visto che non siamo (ancora) riusciti ad espellerla dall’eurozona. Qualcuno propone di affondare le barche dei migranti.
Dovunque latita una strategia di medio periodo e si preferisce trattare questo dramma quasi fosse un’emergenza, non per quello che è: parte decisiva della nostra vita di qui al futuro prevedibile.
Nessun leader politico pare disposto a considerare un’alternativa razionale all’attuale deriva securitaria. Per esempio selezionare nei Paesi di frontiera con l’Unione Europea, a cominciare dalla Turchia, chi ha diritto ad essere accolto come rifugiato in casa nostra e chi invece non può aspirarvi. Ricevendo civilmente i primi e remunerando adeguatamente i paesi esterni all’Ue che dovranno continuare a ospitare diversi milioni di donne, bambini e uomini. I quali non hanno più casa loro e difficilmente ne avranno un’altra.
Nelle prossime settimane il clima è destinato a peggiorare. Sta infatti per scattare, salvo ripensamenti improbabili, la nuova spedizione militare franco-britannica-americana, con qualche partecipazione italiana, in quel che resta della Libia. Obiettivo: sradicarvi lo Stato Islamico. Il quale non aspetta di meglio per ostentarsi campione della resistenza libica contro i crociati occidentali. E per scatenare le sue cellule europee contro gli “invasori”. Gettando nuova benzina sul fuoco delle xenofobie nostrane, in un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali.
La storia dimostra che l’angoscia collettiva è un mostro difficilmente addomesticabile. Ma rinunciare a combatterlo, per chi si professa democratico e liberale, equivale al suicidio politico. Quello cui si sta dedicando con ammirevole acribia buona parte della sinistra europea.

"Governi in ordine sparso, caos su Schengen in attesa della riunione dei ministri degli Interni che oggi ad Amsterdam cercheranno di mettere ordine alla crisi migranti. Italia, Germania, Olanda, Belgio, Portogallo e Bulgaria sono contro la sospensione del trattato Linea dura da Ungheria, Polonia e Slovacchia". La Repubblica, 25 gennaio 2016

In questi giorni tra le capitali sono girate ipotesi minacciose, come quella di espellere la Grecia da Schengen - smentita ieri dalla Commissione europea e dal ministro tedesco Steinmeier - o di chiudere tutte le frontiere interne all’Europa per due anni.

Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, dopo l’apertura ai profughi della Merkel ha proposto la redistribuzione tra i 28 di 160mila richiedenti asilo e ha preso forma la politica Ue sui migranti: hotspot alle frontiere esterne (Italia e Grecia) per registrare chi arriva. Riallocamento di coloro che hanno diritto all’asilo. Rimpatrio tramite Frontex di chi non ha titoli per rimanere. Creazione di una guardia di frontiera (di terra e mare) per aiutare i paesi che non riescono a sorvegliare i confini dell’Unione, anche contro la loro volontà (ipotesi che non piace ad esempio a Malta). 3 miliardi alla Turchia per bloccare le partenze e gestire i rifugiati sul suo territorio.

Ma qualcosa è andato storto. L’Ungheria alza il muro, i paesi dell’Est frenano e quelli dell’Europa centrale vengono invasi da 900mila migranti che dalla Turchia sbarcano in Grecia per imboccare la rotta balcanica. Anche i più generosi, come Germania, Svezia e Austria insieme a Danimarca, Francia e Croazia, ripristinano i controlli sospendendo Schengen. Il piano Juncker non funziona, vengono riallocate solo 331 persone. La Grecia è un colabrodo. La Turchia in attesa dei soldi Ue non ferma i barconi. Diventa un tutti contro tutti.

ISTITUZIONI UE
Juncker ha proposto soluzioni coraggiose, ma diversi governi gli rimproverano di non essere riuscito a farle applicare. Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, si è schierato con l’Est perdendo credibilità.

ITALIA
Renzi ha incassato una vittoria politica quando l’Europa si è fatta carico della crisi e appoggia Juncker su Dublino e Schengen. Ma oggi è in rotta con Berlino per aver ritardato l’apertura degli hotspot, chiedendo che prima funzionassero i ricollocamenti, e lasciando partire verso Nord i migranti. Quindi la sfida alla Merkel: bloccare i soldi alla Turchia in attesa di flessibilità sui conti.

GERMANIA
Dopo aver aperto le porte, la Merkel è assediata dalla destra del suo partito e dai bavaresi della Csu. La sua leadership vacilla. Sostiene gli sforzi di Juncker. Ma intanto ha dovuto chiudere le frontiere. È contraria all’espulsione della Grecia da Schengen e vuole evitare la chiusura delle frontiere per 2 anni cara ai falchi.

FRANCIA
Hollande dopo gli attentati di Parigi è assediato da Marine Le Pen e resta freddo sulle riallocazioni.

GRAN BRETAGNA
Cameron nella corsa verso il referendum sulla Brexit si chiude: il suo Paese non è dentro Schengen e ha ostacolato ogni decisione dei partner europei.

BENELUX
Belgio, Olanda e Lussemburgo appoggiano Juncker. Favorevoli anche svedesi (con i tedeschi i più generosi nell’accoglienza) e finlandesi. Con loro Portogallo, Bulgaria, Romania e Malta.

GRECIA
Atene non controlla le frontiere, Tsipras è favorevole a qualsiasi forma di europeizzazione della crisi ma intanto torna sul banco degli imputati. Frontex aiuta i greci a controllare il confine verso la Mecedonia. Se venisse sigillata fuori da Schengen, per Atene sarebbe crisi umanitaria.

AUSTRIA
Dopo avere aiutato i migranti, anche Vienna ha chiuso le frontiere. Ha messo la quota a 37mila rifugiati nel 2016 e sostiene l’espulsione della Grecia da Schengen. Vienna resta però favorevole a una soluzione Ue della crisi.

VISEGRAD E BALTICI
Oltre all’Ungheria di Orban, anche la Polonia di Beata Szydlo e Jaroslaw Kaczynski è contraria a qualsiasi forma di solidarietà. Con loro lo slovacco Robert Fico. Tra i baltici contro qualsiasi accordo sui migranti la lituana Grybauskaite. Finora hanno boicottato ogni intesa europea.

GLI SCENARI
Oggi ad Amsterdam la riunione dei ministri degli Interni: si cerca una tregua e il tentativo sarà di costruire un tavolo permanente governi-Commissione per coordinare le prossime mosse ed evitare nuove chiusure unilaterali delle frontiere, decidendo tutti insieme eventuali valichi da bloccare in caso di crisi. Sarebbe un primo passo verso il summit del 18 febbraio tra i leader dove Juncker dovrebbe presentare le modifiche di Dublino inizialmente previste per marzo: rendere automatiche (e si spera efficaci) le regole ora emergenziali su hotspot, redistribuzione e rimpatri. È questa la chiave per evitare lo sgretolamento di Schengen, abolire la regola per cui ogni paese deve accogliere i rifugiati che entrano nella Ue tramite le sue frontiere e rendere comunitaria la politica migratoria. Il tempo scade a maggio, quando non sarà più possibile rinnovare la chiusura delle frontiere e se allora non ci sarà una soluzione la crisi ognuno andrà per la sua strada e la situazione diventerà ingestibile con il rischio di implosione della stessa Unione.

BRACCIALETTO ROSSO
Non solo case segnalate con la porta rossa, per gli immigrati che trovano ospitalità in alcune città della Gran Bretagna. Il quotidianoGuardian ha scoperto che i rifugiati accolti vengono anche obbligati a indossare dei braccialetti di plastica rossa, con l’obiettivo di renderli identificabili [come i nazisti: Stella di Davide per gli ebrei n.d.r.]

I ladri di Monaco, Europa. «Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere». Il manifesto, 23 gennaio 2016

Infine, forse, entrano in Austria, da dove sono spediti in Germania, cioè in Baviera. E quale è la prima mossa dei bavaresi, costretti a farli entrare da Angela Merkel? Sequestrare beni e contanti superiori a 750 Euro, «per finanziare la loro accoglienza».

Prima di maledire il governo bavarese, è utile qualche considerazione microeconomica, anzi di economia domestica. Per un viaggio del genere, una famiglia tipo, in cui lavora solo il capofamiglia, di quanto denaro avrà potuto disporre, in dollari?

Tenendo conto che il reddito pro capite in Siria non arriva a 2000 dollari (nel 2007, prima della guerra), meno di un ventesimo di quello tedesco o austriaco, è difficile immaginare più di un migliaio o due, cucito nelle fodere, ma solo se stiamo parlando di professionisti o commercianti. Il resto, se ce l’avevano, se ne sarà andato, sicuramente, a ungere miliziani e doganieri, non solo in Turchia, e a comprarsi da mangiare. E poi, ci saranno anche qualche gioiello di famiglia, un orologio, un cellulare e magari un tablet.
Sequestrare a questa gente i valori oltre 750 Euro è una cosa schifosa. La Danimarca ha fatto scuola. Ma non è solo schifosa, è insensata. Se si sfogliano i quotidiani economici europei si troveranno spesso, ma solo nelle pagine interne, analisi sulla necessità dei migranti per un continente che non cresce e la cui popolazione invecchia. In altri termini, il welfare europeo – o meglio i conti pubblici europei – hanno bisogno di gente che sostenga la domanda e paghi le tasse.

È il punto di vista dell’economia di mercato, fatto proprio da Merkel, a cui interessano fino a un certo punto le giaculatorie identitarie. Nulla di filantropico, per carità. Si parla della stessa tecnopolitica transnazionale che non ha voluto far fallire la Grecia, ma solo per comprarle a poco prezzo gli asset, insomma per succhiarle un po’ di sangue.

Torniamo alla famiglia siriana. Perché imporre il balzello d’ingresso, se poi, trovato un lavoro, anche misero, il capofamiglia e la moglie (lui facendo il lavapiatti, anche se in Siria magari era un dentista, e lei riparando giacche) cominceranno a finanziare il welfare bavarese? La risposta è in un concetto del sociologo algerino Sayad, «la doppia pena del migrante».

Loro non sono come noi e, se vogliono vivere tra noi, devono pagare pegno. Non solo stranieri, ma anche tenuti sotto il tallone. E di che pegno si tratta? I danesi, che hanno introdotto il sequestro d’ingresso, lo hanno detto chiaramente. Sappiamo che è una misura priva di qualsiasi significato economico, ma così li scoraggiamo. Tra l’altro, la Danimarca partecipa attivamente ai bombardamenti della Siria – cioè prima dice di bombardare l’Isis per sconfiggere il fondamentalismo e poi impone i balzelli a chi scappa dall’Isis. Un miracolo di logica.

D’altronde, nella vicenda dei profughi non c’è alcuna logica, tanto meno europea. Ogni stato, in base alla sua specifica xenofobia o paura del populismo, erige i suoi muri, chiude le sue frontiere, impone i suoi balzelli. Non esiste uno straccio di politica comune delle migrazioni, né di autorità capace di realizzarla, come mostra la vicenda dei ricollocamentii dei migranti approdati in Italia e Grecia. Una politica unitaria non esiste, perché l’Europa è solo un’espressione finanziaria, per citare un famigerato motto di Metternich sull’Italia.

Così, innalzare le barriere interne, come stanno facendo stati xenofobi o paranoici, significa compromettere quel po’ di libertà, di cosmopolitismo infra-europeo facilitato dalla libera circolazione delle merci.

Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere.
L'Unione europea, dominata ideologia e della prassi del neoliberismo, somma nelle sue azioni tutte le efferatezze possibili, a cominciare dal trattamento dei profughi, e fa svanire il sogno di un'Eropa unita perché civile.

Il manifesto, 20 gennaio 2016

L’Europa è arrivata oramai a un bivio e sta imboccando, ogni giorno di più, la strada sbagliata, quella che porta al suo disfacimento.

È quanto suggeriscono le recenti notizie riguardanti la sospensione di Schengen da parte di un numero crescente di Paesi. Dopo Scandinavia, Danimarca e Germania, anche l’Austria e la Slovenia hanno espresso la volontà di chiudere le frontiere interne, ripristinando i controlli e quindi impedendo la libera circolazione, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea.

Se guardiamo alla dinamica dei flussi di profughi negli ultimi due anni e a quel che succede in Medio Oriente e in Africa, non c’è ragione per pensare che l’arrivo di persone in cerca di protezione possa diminuire. La sospensione di Schengen potrebbe quindi essere talmente lunga da diventare pressoché definitiva, e non straordinaria come prevede il Trattato Europeo.

L’intenzione dichiarata dai governi di Germania e Austria di «filtrare» i profughi, consentendo il passaggio solo a quelli intenzionati a fermarsi nei loro Paesi e respingendo chi vuole arrivare più a nord, ad esempio in Svezia, è contraria alla legislazione europea e al regolamento Dublino, che dimostra sempre di più la sua inadeguatezza. Infatti, il regolamento Dublino obbliga lo stato di primo approdo a farsi carico di esaminare la domanda d’asilo del richiedente e della relativa accoglienza. Se un richiedente arriva alla frontiera con uno qualsiasi dei Paesi dell’Ue è questo che deve farsene carico, oppure, se dimostra con prove solide che la responsabilità spetti a un altro membro dell’UE, rimandarlo a quest’ultimo. Non è chiaro quindi verso quale Paese e secondo quali regole Austria e Germania respingerebbero i profughi intenzionati a proseguire il loro viaggio in Europa.

La logica della selezione alle frontiere tra chi l’Europa considera «profughi» meritevoli di protezione e chi è considerato «migrante economico» da respingere risponde all’approccio hotspot promosso dalle istituzioni europee. Cosi come avviene negli hotspot di Grecia ed Italia, anche alle frontiere austriache e slovene si decide il destino delle persone senza rispettare la procedura prevista dalle direttive.

La scelta di selezionare i profughi, combinata alla sospensione di Schengen, produrranno molte difficoltà anche ai cittadini e alle cittadine europee, e molte controversie tra Paesi, oltre che tante ingiustizie nei confronti dei richiedenti asilo.

Ma non sarà certo l’egoismo di Austria e Slovenia o il razzismo di Stato a fermare chi vuole mettersi in salvo insieme alla propria famiglia. I motivi delle fughe si moltiplicano. Le stragi terroristiche si moltiplicano in tante parti del mondo, così come è successo nel cuore del nostro continente.

Gli stessi governi europei, mentre discutono di come fermare Daesh e il terrorismo, impegnano uomini, mezzi e ingenti risorse per impedire che le persone in fuga possano arrivare in Europa a chiedere protezione.

La conseguenza è che alle stragi di civili provocate dal terrorismo e dalla ‘guerra’ al terrorismo, si aggiungono quelle causate dalle politiche di gestione delle frontiere: quasi 60 morti solo nei primi giorni di gennaio.

Come se non bastasse, i governi adesso puntano anche a lucrare su chi fugge dalle guerre. La Svizzera e la Danimarca sembrano intenzionate a chiedere ai rifugiati di pagare per essere accolti. Dopo i trafficanti, arrivano i governi a taglieggiare i rifugiati!

Un’ulteriore lesione dei diritti umani, che getta benzina sul fuoco del razzismo dilagante e che contribuisce alla demolizione dei valori fondanti dell’Unione Europea.

«». Le politiche degli stati europei e dell'UE produrranno catastrofi sociali devastanti per tutti i paesi coinvolti. Una puntuale analisi della tremenda realtà e la presentazione delle cose da fare, con la massima urgenza e determinazione.


Nota redatta per l’associazione

Primalepersone in vista del prossimo Forum dell’economia sociale e solidale in programma a Bruxelles il 28.gennaio 2016

Poiché considero la questione dei profughi centrale per il futuro nostro e dell’Europa, cerco di chiarire e riassumere qui per punti le posizioni che sono andato definendo approfondendo il problema nel corso dell’ultimo anno e mezzo.

1. Migrazioni ed esodo, problema centrale

Migrazioni ed esodo di profughi sospinti in larghissima maggioranza dalla guerra o dalla fame – all’origine delle quali c’è quasi sempre un deterioramento ambientale o una contesa per il petrolio, che è il principale responsabile della crisi ambientale in corso – sono la questione principale intorno a cui si svilupperà il conflitto sociale, la lotta politica e il destino stesso dell’assetto istituzionale dell’Italia, dell’Europa e del mondo (su questo tema l’Unione europea, che aveva resistito compatta a politiche micidiali di austerity, si sta ora dividendo profondamente. Cosa che mette all’ordine del giorno una sua eventuale rifondazione su basi radicalmente cambiate; ma non necessariamente più favorevoli a ciò che molti di noi vorrebbero che fosse).

2. Insensate le politiche di respingimento

Le politiche di respingimento, sia quelle effettuate in maniera brutale, con guerre, campi di concentramento o lasciando annegare sempre più persone, sia quelle affidate ai cosiddetti rimpatri, non hanno avvenire. E non per mancanza di appoggio da parte di un’opinione pubblica largamente manipolata e di popolazioni infastidite o incattivite, che già sono e saranno sempre più favorevoli a questa scelta. Bensì per una ragione pratica. Perché, anche a prescindere dalle sue implicazioni etiche, il respingimento non è una soluzione praticabile.

Dove respingerli? Rigettarli tra le braccia dell’Isis, o di suoi emuli, ormai presenti in quasi tutti i paesi da cui si originano quei flussi, accrescendo del pari le loro forze sia là che, per solidarietà, tra gli immigrati nei paesi europei? Non farebbe che moltiplicare sia i fronti di guerra fuori e dentro i confini dell’Europa, sia nuove e più consistenti migrazioni.

Stringere accordi con i governi dei paesi di origine perché li riaccolgano o li trattengono in patria? Non sono disposti a farlo nemmeno a caro prezzo (e il prezzo è comunque destinato a salire, e di molto, mentre i paesi europei meno esposti non sono assolutamente disposti a condividerlo). Lo ha dimostrato il vertice di La Valletta e lo dimostra la fragilità del cinico patto stretto dalla Commissione europea con Erdogan sotto la supervisione di Angela Merkel.

Costruire e gestire più o meno direttamente (anche se sotto il velo di un coinvolgimento dei governi locali) dei campi di concentramento – e, in buna misura, di sterminio – in cui rinchiudere tutte le persone in fuga o sbandate che cercano di effettuare o stanno intraprendendo un viaggio verso l’Europa? Quei campi raggiungerebbero presto dimensioni smisurate, e sempre più difficili da gestire.

3. Catastrofiche conseguenze delle politiche attuali

La prima conseguenza di queste politiche sarebbe comunque un irrigidimento autoritario e razzista di tutti i governi dell’Unione Europea, posto che questa sopravviva a scelte del genere, cosa che non credo. La seconda conseguenza sarebbe l’instaurazione di fatto di un controllo paramilitare dell’UE o di alcuni dei suoi Stati membri su tutti o gran parte dei paesi di origine o di transito di quei flussi, per lo meno in Africa; il che, per l’Europa, vorrebbe dire portarsi la guerra in casa.

Ma l’esito più probabile di una politica di respingimento è quello di scaricare sui paesi di primo accesso che non possono erigere barriere fisiche ai confini (sostanzialmente Grecia e Italia) tutto il peso dei nuovi arrivi, chiudendo nei loro confronti le frontiere interne del resto d’Europa. Inutile dire che questo porterebbe rapidamente alla saturazione delle capacità di accoglienza (per quanto sommaria e mal gestita) di questi due paesi; ma anche delle loro capacità di respingimento: i rimpatri diventerebbero ben presto “affar loro”, mentre gli altri paesi membri “se ne lavano le mani”, come sta già succedendo con le ridotte quote di riallocazioni definite dalla Commissione europea.

E’ ciò che di fatto sta già succedendo con il cosiddetto “decreto di espulsione differita”: si abbandonano per strada senza soldi, senza documenti, senza riferimenti, senza la conoscenza della lingua, persone a cui è stato ingiunto di lasciare il paese a loro spese entro una settimana E’ come consegnarli alla clandestinità, alla criminalità, allo stupro, alla disperazione e alle mafie.

Ma se è ancora possibile fare questo giochetto con alcune centinaia di profughi, è evidente che non lo sarà più con le decine di migliaia che arriveranno. L’Italia non ha una politica su questa questione, perché nonostante le (molto recenti) uscite di Renzi sul tema, non ha mai posto il problema in sede Europea nella sua dimensione e drammaticità effettive. Ma una prospettiva del genere corrisponde alla dissoluzione dell’Unione.

4. Una prospettiva diversa

Vediamo ora le cose in un’altra prospettiva. Di qui al 2050 l’Europa, senza immigrazione, avrà perso 100 milioni di abitanti: un quinto della sua popolazione attuale. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi. Il che vuol dire un peso insopportabile su chi lavora e una drammatica stagnazione economica (che non è la decrescita felice). Il maggior dinamismo dell’economia statunitense, infatti, è riconducibile, più che alle politiche economiche adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale, in linea di principio tutti o quasi illegali, e perciò più facilmente sfruttabili; ma proprio per questo di fatto tollerati sia a destra che a sinistra.

Per colmare questo vuoto demografico l’Europa dovrebbe “importare”, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali. Peraltro, fino al 2008, arrivava in Europa un milione di nuovi migranti economici all’anno, cioè quanti sono stati i profughi quest’anno.

Sono le politiche di austerità che, oltre a creare in Europa milioni di nuovi disoccupati, hanno trasformato in un problema l’assorbimento di nuove forze di lavoro proveniente da altri paesi. D’altronde, tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, UK compreso, avevano assorbito circa 20 milioni di profughi e di immigrati: 10 milioni dall’Est e 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa e dal Maghreb. La minaccia di un sovraffollamento è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide.

5. Servono politiche radicalmente diverse

Naturalmente, per accogliere una massa così sterminata di profughi e migranti i paesi europei dovrebbero attrezzarsi con politiche sociali ed economiche radicalmente diverse da quelle attuali; le stesse, peraltro, necessarie per assorbire la disoccupazione endogena e il disagio sociale (leggi povertà) create dall’austerità. Ne deriverebbe comunque uno sconvolgimento di tutti gli assetti sociali, in particolare della vita quotidiana di tutti i cittadini europei; il che richiede una svolta nel modo di pensare il “diverso da noi” che la cultura dominante non è assolutamente in grado di produrre, ma che sarebbe urgente elaborare, mettere alla prova e promuovere, se non vogliamo accettare senza contrastarla la deriva autoritaria, razzista, guerrafondaia e, in ultima analisi, votata allo sterminio, implicita nelle politiche di respingimento adottate, ancorché sotto la veste di varie quanto ipocrite coperture umanitarie, da tutte le autorità europee.

6. Il mercato non può, serve l'intervento del Terzo settore

E’ evidente che né il mercato né gli Stati sono in grado di assorbire – e includere – un numero così alto di nuovi arrivati. Bisogna ricorrere ad altri strumenti perché non c’è solo da trovare casa e lavoro per milioni di persone, ma soprattutto da promuovere il loro inserimento nel tessuto sociale con progetti personalizzati, in modo che non siano di peso per l’economia nel suo insieme, ma anzi vengano valorizzati come una risorsa aggiuntiva (e indispensabile) e non suscitino quei sentimenti di ripulsa che oggi la loro presenza non programmata, ma soprattutto la loro inattività e il loro isolamento, provocano tra la popolazione. Progetti personalizzati di questo tipo sono l’ambito privilegiato delle attività del terzo settore (quello che in Europa viene chiamata economia sociale e solidale).

In Italia abbiamo ottimi esempi di questo lavoro, ma anche clamorose prove della sua degenerazione in organizzazioni come quelle di Buzzi (mero strumento o braccio armato della corruzione e della criminalità che alligna nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione pubblica). Il 28 gennaio di questo mese si terrò a Bruxelles il primo Forum europeo dell’economia sociale e solidale (SSE). E’ stato proposto che, tra le altre cose, venga messo all’ordine del giorno il ruolo che la SSE può e deve assumere nei confronti del problema profughi, lanciando un grande piano europeo per creare lavoro nei settori decisivi ai fini della conversione ecologica (agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, mobilità, riassetto del territorio e assistenza alle persone).

Un piano da affidare alle imprese – esistenti o da costituire – della SSE, in modo che l’inserimento lavorativo venga accompagnato da programmi personalizzati di inclusione sociale. Questa proposta è stata ascoltata con interesse ma non è stata sviluppata in modo adeguato. Nonostante tutto, nella maggioranza dei paesi europei, per lo meno nell’ambito della cosiddetta sinistra che fa capo al GUE, promotore del Forum, la centralità del problema dei profughi non viene ancora avvertita con l’urgenza che meriterebbe. Aggiungo che un piano di questo genere potrebbe avere un risvolto di grande interesse anche nell’ambito delle politiche di cosiddetto rientro, di cui parlerò in seguito.

7. Le condizioni per invertire la tendenza all'esoto

Questo non vuol dire ovviamente accettare l’irreversibilità dei processi migratori verso l’Europa, anche se nel breve periodo non vedo alternative all’accoglienza se non nella moltiplicazione delle stragi affidate al mare, alla fame e alle intemperie. La prospettiva di creare le condizioni per ridurre le spinte all’emigrazione dai paesi colpiti dalla miseria e dalla guerra non deve essere abbandonata. Il che vuol dire innanzitutto battersi e mobilitarsi per evitare il moltiplicarsi delle guerre, “umanitarie” o no, nei paesi che oggi ne sono investiti e in quelli che rischiano di esserlo domani.

Ma il problema centrale è quello di creare dei circuiti in base ai quali agli arrivi possano corrispondere, anche se in misura minore, ma non irrilevante, dei ritorni volontari e delle motivazioni forti per farlo. Occorre considerare l’Europa e i paesi africani, ma anche quelli mediorientali, da cui provengono oggi i profughi e i migranti come un’unica grande area attraversata da interscambi non solo economici (necessariamente squilibrati per molto tempo ancora), ma anche culturali, sociali e civici.

Quei confini dell’Europa che l’Unione vorrebbe allargare riducendo i paesi di origine dei flussi migratori in avamposti della sua trasformazione in fortezza, occorre invece riuscire a farli percepire e vivere, innanzitutto nella coscienza dei cittadini europei, dei profughi e dei migranti di prima, seconda e terza generazione, come il perimetro di una nuova comunità euromediterranea ed euroafricana. Ma come? Dire che occorre “bonificare l’Africa” per fermare quei flussi è davvero troppo poco.

8. "Aiutiamoli a casa loro": ma come?

8. Possiamo interpretare lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” in tre modi
.
Il primo è quello delle politiche di cooperazione allo sviluppo attuali, peraltro sempre più tirchie (non solo da parte italiana) quanto a stanziamenti, e destinate in larghissima parte (non solo da parte italiana) a far ingrassare imprese europee con finalità predatorie, a corrompere le classi dominanti locali (o addirittura a crearle e farle esistere come classi predatorie; “compradore” si diceva una volta) e a disperdere il resto in mille rivoli scarsamente efficaci. Anche quando i progetti di cooperazione sono ben fatti e ben condotti (non è la maggioranza dei casi, ma ci sono anche quelli; e a volte le ragioni del loro fallimento vanno ricercate nelle scelte di chi li governa, aprendo e chiudendo senza alcuna logica che non sia l’interesse personale i rubinetti dei finanziamenti), quei progetti sono comunque sempre iniziative di nicchia, che non incidono sulla dimensione effettiva dei problemi che stanno alla radice dell’esodo, e soprattutto non si confrontano con la dimensione del disastro ecologico che i cambiamenti climatici stanno già provocando in molti paesi dell’Africa e del Medioriente.

Il secondo modo è quello invocato da Salvini (ma, ahimè, sostenuto anche dalla Merkel) per cui stanziamenti anche molto più consistenti, posto che si trovino, vanno destinati prioritariamente a trattenere (e internare) profughi e migranti in strutture appositamente costituite nei paesi di origine o di transito dei flussi. Che ciò significhi nient’altro che dichiarare guerra ai migranti si è già detto.

Il terzo modo è tutto da costruire perché mira a rendere le comunità espatriate in Europa, cioè i profughi e i migranti (di prima, ma anche seconda e terza generazione) protagonisti di una politica di ricostruzione di un tessuto sociale ed economico in grado di offrire delle prospettive di maggior benessere anche agli abitanti dei paesi di origine. Profughi e migranti sono in gran parte la componente più istruita, più giovane, più intraprendente (quelli che hanno avuto la forza e l’iniziativa di affrontare un viaggio così pericoloso) della popolazione da cui provengono: un apporto che l’economia, la cultura e le società dell’Europa potrebbero valorizzare molto, mentre oggi lo svalutano, lo disprezzano e lo degradano.

Ma soprattutto sono una risorsa strategica per la costruzione di una grande comunità euroafricana ed euromediterranea. Sono persone che ancora intrattengono forti legami con le loro comunità di origine, o che possono facilmente riattivarli; che in Europa possono costruirsi o affinare delle competenze, delle conoscenze, delle professionalità, delle esperienze da mettere a disposizione dei loro paesi di origine con grande vantaggio per tutti, qualora se ne creino le condizioni. Non solo per reinserirsi nei loro paesi di origine, andando a occupare posizioni già esistenti, ma per creare opportunità e modalità di produzione di reddito e di ricchezza completamente nuove.

9. Condizione di base: riconoscimento politico delle comunitá espatriate

Condizione indispensabile perché ciò avvenga è che le comunità nazionali espatriate presenti in Europa possano organizzarsi, anche politicamente, siano libere di muoversi, siano aiutate a fare esperienza non solo di lavoro, ma anche di relazioni sociali nuove nei paesi e nei territori che le ospitano. Perché solo così si può innescare un circuito che renda desiderabile e praticabile un ritorno in patria anche mentre nuove leve la stanno abbandonando per mettersi anche loro alla prova dell’emigrazione.

Prima ancora di pensare ai finanziamenti, o anche a progetti di cooperazione allo sviluppo - in gran parte pensati e progettati dall’esterno - occorre lavorare con le comunità di profughi e migranti nella prospettiva di aiutarli a rendersi attori e protagonisti di un nuovo processo di integrazione delle economie e delle società dei paesi di origine e di quelli di arrivo. Non credo che esistano alternative a una prospettiva del genere che non siano quelle prospettate nella prima parte di queste note; anche se realizzarla, soprattutto nel clima di ostilità crescente nei confronti degli immigrati chestiamo vivendo, sarà sempre più difficile.

I sottotitoli sono di eddyburg

«L’allarme di Bruxelles Il commissario europeo Avramopoulos avverte: “Rinunciare alla libera circolazione è la fine del progetto europeo».

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il primo luglio del 2000, il ponte di Oresund ha unito ciò che la fine dell'era glaciale aveva diviso: cioè Svezia e Danimarca. Sedici chilometri, sette anni di lavoro, 14 euro di pedaggio (oggi), quel ponte è diventato il simbolo di un'Europa ricca e pacifica che si poteva attraversare in auto, senza confini, grazie all'accordo di Schengen che giusto l'anno prima aveva raccolto nuovi membri, contando tutti gli Stati dell'Unione europea tranne Irlanda e Gran Bretagna. Alla mezzanotte di domenica 3 gennaio 2016, la Svezia ha deciso di ripristinare almeno per un mese i controlli sul ponte di Oresund, con una sospensione temporanea di Schengen.

«Difenderemo Schengen a spada tratta, sapendo che oggi è in pericolo: se crolla la libera circolazione è la fine del progetto europeo», ha detto ieri in audizione davanti al Parlamento europeo il commissario Affari Interni, Dimitri Avramopoulos. Ma i partiti della destra antieuropea hanno scelto quell'accordo come bersaglio su cui scaricare le tensioni dovute alla crisi dei rifugiati. E ne chiedono la sospensione. Nrl 2015 Eurobarometro ha rilevato che per gli europei la libertà di movimento è il risultato più apprezzato dell'Unione europea subito dopo la pace. Eppure, oggi, in tanti, soprattutto a destra, chiedono il ritorno delle frontiere. Colpa anche delle idee confuse su che cosa è Schengen e su cosa sta succedendo.
Schengen è un villaggio di 4000 anime in Lussemburgo. Lì, nel 1985, finiscono le frontiere interne all'Unione europea, o almeno tra alcuni dei Paesi fondatori (Belgio, Francia, Olanda, Lussemburgo, Germania): è un accordo tra governi, verrà assorbito nella legislazione europea solo nel 1999. Dopo il primo accordo, che ha compiuto 30 anni a giugno, ne arriva un altro, Schengen II, nel 1990: una politica comune per i visti e rafforzati i controlli alle frontiere, elemento questo cruciale per il dibattito di oggi. Se si lascia circolare tutti liberamente dentro, bisogna essere più chiari su chi ha diritto di entrare nella zona senza barriere. Nasce l'idea di “Fortezza Europa”, al cui interno però si può muoversi senza visti, soltanto con un documento di riconoscimento che certifica l'appartenenza a uno dei Paese Schengen (oggi 22 membri dell'Unione, quattro esterni).
Con l'ondata di richiedenti asilo arrivata nel 2015, tutto questo sembra a rischio. Ma le prime tensioni risalgono al 2011, l'anno delle primavere arabe: il governo Berlusconi riconosce ai tunisini un permesso temporaneo di soggiorno che, nella grande maggioranza dei casi, viene usato per raggiungere la Francia. L'allora governo conservatore di Nicolas Sarkozy nega che un semplice permesso di soggiorno sia sufficiente per muoversi liberamente e minaccia di rispedire in Italia i tunisini. Il ministro dell'Interno dell'epoca, Roberto Maroni, «Allora la Francia esca da Schengen».
Anche la Danimarca, tra settembre e ottobre 2011, rafforza i controlli alle frontiere. La Commissione europea decide allora di modificare l’accordo di Schengen, stabilendo a quali condizioni uno Stato membro può imporre limiti alla libertà di circolazione, modifiche in vigore dal 2013 che sono state utilizzate nella crisi dei rifugiati, come ricostruisce un paper del Ceps, What is happening to Schengen? , di Elspeth Guild, Eveln Browner, Kees Groenendijk e Sergio Carrera.
La sospensione di Schengen è ora prevista e regolata. Si può chiedere in base all'articolo 25 che stabilisce il ritorno dei controlli immediato e senza preavviso in caso di minacce alla sicurezza interna o all'attuazione delle politiche di uno Stato membro. I limiti hanno durata di dieci giorni e possono essere prorogati per 20 giorni, senza superare i due mesi. C'è anche l'articolo 26 che prevede blocchi alla circolazione per minacce serie e durature relative al controllo dei confini esterni dell'area Schengen. Però richiede allo Stato che ne fa richiesta procedure più complesse per dimostrare la minaccia che deve riguardare l'area nel suo complesso. Molto più facile usare l'articolo 25, come fanno tutti.
Di solito queste limitazioni venivano usate per i grandi eventi (come il G8 de L’Aquila del 2009). Poi è iniziata la crisi dei rifugiati e il 13 settembre 2015, la Germania ha iniziato a picconare Schengen, quando ha deciso di arginare l'assalto dei richiedenti asilo dovuto alla decisione improvvisa di Angela Merkel di sospendere per i profughi siriani l’applicazione del trattato di Dublino 2 (che attribuisce la gestione dei rifugiati al primo Paese in cui arrivano e presentano la domanda di asilo). A catena seguono l'Austria, il 15 settembre, e la Slovenia il 16, che reintroducono controlli. A novembre si aggiunge la Svezia, seguita dopo pochi giorni dalla Norvegia, entrambe adducono come motivazione il flusso ingestibile di migranti. La Francia aveva già previsto un aumento dei controlli per il vertice sul clima Cop 21, poi sono arrivati gli attentati di Parigi che hanno portato a un vero ripristino delle frontiere (in vigore fino alla fine di febbraio).
Tutti i Paesi che in questo momento hanno ripristinato i controlli aboliti dall’accordo di Schengen, citano come motivo i migranti o, più esplicitamente (come fa la Svezia), i richiedenti asilo. C'è un problema giuridico: anche il ripristino temporaneo delle frontiere non autorizza in alcun modo i Paesi europei a venire meno ai propri impegni verso la concessione di asilo. Che non sono regolati dalla Convenzione di Ginvera del 1951, recepita dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Quando nel 2013 l'accordo di Schengen è stato modificato per regolarne le sospensioni, è stato scritto all'articolo 3 che non c'è possibilità alcuna di deroga. È addirittura vietato aumentare i controlli di polizia all'interno della propria frontiera, un modo surrettizio di ripristinare il confine.
Finora la Commissione europea, che deve valutare la fondatezza giuridica delle limitazioni a Schengen, ha fatto finta che fosse tutto a posto. Ma diventa sempre più difficile sostenere che i diritti dei rifugiati sono garantiti mentre vengono ripristinate le frontiere proprio per scoraggiarne l'arrivo. Quindi Schengen sta morendo e le frontiere sono destinate a tornare stabili? Lo spirito dietro l'accordo del 1985 non sembra svanito del tutto. Anche i Paesi europei che hanno alzato più barriere, come l'Ungheria di Viktor Orbàn, non hanno sfidato direttamente Schengen, ma hanno cercato di infilarsi nelle sue pieghe, rispettandone almeno la forma. E la scelta del Consiglio europeo di costruire un sistema europeo di confini e di guardia costiera, come evoluzione dell'agenzia Frontex, è un tentativo di conservare il metodo originario, aperti dentro e chiusi fuori. Schengen è vivo, ma senza qualche evoluzione le sue falle diventeranno sempre più evidenti.
© 2024 Eddyburg