il manifesto che il giornale, per ragioni di spazio, ha dovuto ridurre. I sottotitoli sono nostri. 12 marzo 2016
Cedere ad Erdogan:"un assalto frontale ai caposaldi della democrazia"
Corriere della sera, 10 marzo 2016
«Non esistono muri in mare, per chi chiede aiuto». L’Europa può decidere di sbriciolarsi, barricarsi, disseminare i suoi confini terrestri di filo spinato, per cercare di fermare i profughi, ma in mare vige un’altra legge. Un imperativo morale: «Io non lascio indietro nessuno, neppure un cane» assicura il capo di stato maggiore della Marina Militare italiana, ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Che parla fuori di metafora, perché, quando diresse per 72 ore consecutive, alla fine del 2014, le operazioni di salvataggio dei 400 passeggeri del traghetto Norman Atlantic, in fiamme nel canale di Sicilia, mantenne gli elicotteri in verticale sulla nave, nonostante il fumo e le fiamme, finché non furono evacuati dal ponte anche gli ultimi esseri viventi: tre cani.
E proprio a uno di loro, il più grosso, l’ammiraglio e la coautrice Daniela Morelli hanno dato voce nel loro libro S.O.S Uomo in mare (Giunti Editore) per descrivere quelle notti e quei giorni di paura a bordo del traghetto sempre più rovente, sempre più inclinato, nel mare grosso.
La figura peggiore è quella degli umani che litigano per accaparrarsi i primi giubbotti di salvataggio.
«Quando c’è pericolo, molti perdono i freni inibitori. Per questo ordinai subito di calare a bordo un team di soccorritori che ristabilisse l’ordine. C’erano giubbotti per tutti. Pure per i cani».
Perché il libro, in cui si parla anche dell’operazione Mare Nostrum e del calvario dei profughi, esce in una collana per ragazzi?
«Perché non vorrei che le nuove generazioni crescessero pensando che sia giusto o normale abbandonare al suo destino chi fugge dalla guerra, e che si possano respingere e lasciar affogare masse di disperati».
Intanto però a Bruxelles si discute di confini marittimi e di blocchi.
«Non lo so. Noi blocchiamo soltanto i trafficanti di armi, uomini e droga. Ne abbiamo arrestati seicento con Mare Nostrum, una cinquantina con Mare Sicuro. Non esistono muri in mare per chi sta affogare. Non abbandoniamo neanche i morti. Tra poche settimane, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, la Marina Militare procederà al recupero, da una profondità di 375 metri, dell’intero peschereccio carico di immigrati naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile dell’anno scorso. Nella pancia di quella nave sono intrappolati ancora almeno 300 o 400 corpi, stando alle testimonianze dei pochi superstiti».
Erano i passeggeri di terza classe?
«Sì, quelli che avevano pagato ai trafficanti 800 dollari a testa per finire rinchiusi nella stiva, fra le esalazioni di Co2, e a contatto con quel miscuglio di acqua e gasolio, sul fondo, che ustiona atrocemente la pelle. Ci volevano 1.000 o 1.500 dollari per un posto migliore, sul barcone. Abbiamo già recuperato 169 salme dal fondo del mare, altre 52 le avevamo ritrovate nell’immediato. Ora ci prepariamo a riportarle in superficie tutte. Per tutte è previsto l’analisi del Dna, a tutte deve essere data la possibilità di essere identificate e restituite alle famiglie».
Dopo più di un anno in mare?
«A 375 metri di profondità, il buio, il freddo, la pressione dell’acqua e la scarsità di fauna contribuiscono alla conservazione dei corpi. Il presidente del Consiglio, Renzi, ci ha dato l’incarico di recuperarli tutti. E lo faremo, a qualunque costo, con robot e sistemi pilotati a distanza».
Da Mare Nostrum a Mare Sicuro, a Eunavfor Med: con i nomi, cambiano gli obiettivi delle missioni?
«I pilastri operativi di Mare Sicuro sono il ripristino dell’uso legittimo del mare, la protezione della sicurezza e degli interessi nazionali, come le piattaforme petrolifere, da possibili attacchi terroristici. Ma anche dei pescherecci italiani e dei mezzi di soccorso: è già accaduto che una nave della Capitaneria di porto fosse attaccata dagli scafisti ai quali aveva sequestrato il barcone. Eunavfor è un’iniziativa europea voluta dall’Italia, ed è servita come bastione per il controllo delle acque internazionali, le ispezioni dei mercantili. Un incremento degli obiettivi può venire dalla decisione dell’Unione Europea di passare a una nuova fase e di operare in acque libiche».
Lei che ne pensa?
«Sono valutazioni politiche in cui non entro. Noi abbiamo in zona la portaerei e nave ospedale Cavour , che ha tutte le capacità di comando e controllo delle operazioni, concepita per interventi di protezione civile. E poi il vecchio portaelicotteri Garibaldi ».
L’anno scorso si era lamentato dell’insufficienza della flotta, delle navi obsolete.
«Ed è servito. Nel 2020 avremo i primi pattugliatori polivalenti d’altura: 136 metri di lunghezza, una piattaforma innovativa che permette di cambiare rapidamente configurazione d’impiego, per antipirateria, sorveglianza, ripristino di comunicazioni, elettricità, acqua potabile, in caso di calamità naturali».
Il primo ministro greco Alexis Tsipras ha chiesto all’Europa di aiutare la Grecia ad affrontare la crisi dei rifugiati in corso. ” La Grecia chiederà che tutti i paesi rispettino il trattato europeo e che ci siano sanzioni per coloro che non lo fanno”, ha detto Tsipras al presidente del Consiglio dell’Unione europea Donald Tusk, Venerdì. “Siamo in un momento cruciale per il futuro dell’Europa. Non buttiamo le persone in mare, rischiando la vita dei bambini”
Sono le 11:25 di Mercoledì mattina, quando di buon umore, ma visibilmente esausto Alexis Tsipras riceve il giornalista della BILD al “Megaro Maximou”, la residenza ufficiale del Primo Ministro. La sua stretta di mano è morbida, il suo sorriso grande. Tsipras dice: “Sono felice che tu sia qui.” Nel suo ufficio è appeso alla parete una moderna opera d’arte con colori vivaci, dal titolo “contraddizioni” dell’artista Dimosthenis Kokkinides. “Volevo che qui ci fosse un’atmosfera aperto. In particolare è importante per me aprire le finestre”
Da fuori si sente la musica di una cappella della Guardia Nazionale. Mentre Tsipras ascolta la prima domanda dell’intervista, le sue dita si muovono sul tavolo a tempo con la musica.
BILD: Signor Primo Ministro, prima la crisi del debito e ora il ruolo principale nel dramma dei rifugiati, la Grecia è sotto una maledizione?
Alexis Tsipras : la posizione della Grecia è sia una benedizione che una maledizione per soli motivi geografici.Le persone sono felici di visitare il nostro paese in vacanza. Ma è anche una regione sensibile e delicata dove tre continenti si intersecano. Sin dai tempi antichi la Grecia è stata teatro di guerre e conflitti.Ora, nella crisi dei profughi, siamo il primo paese di arrivo e siamo quindi di fronte alla più grande delle sfide.Come con la crisi finanziaria, adesso è importante per noi e per l’intera Europa mostrare solidarietà e risolvere i problemi insieme.
B: Si parla di regole. Ma, come nella crisi del debito, la domanda sorge spontanea: perché la Grecia non segue le regole? Secondo l’accordo di Dublino, il primo Stato UE attraverso in cui un immigrato entra l’UE è responsabile della procedura di asilo.
Tsipras : Ancora una volta, non è possibile confrontare la crisi del debito con la crisi dei rifugiati. Per quanto riguarda la crisi del debito è interessato, abbiamo dissanguato e mantenere sanguinamento oggi, al fine di rispettare le regole. Ma la crisi dei rifugiati non può essere risolto dalla sola Grecia. Non abbiamo deliberatamente violato le regole.Siamo semplicemente sopraffatti dal compito. Non abbiamo alcun problema con la protezione delle nostre frontiere terrestri.La nostra costa, tuttavia, è più di 10.000 chilometri. Inoltre, se individuiamo una barca nella nostra acqua territoriale che è in pericolo, siamo obbligati – secondo il diritto internazionale – a trasportarla in un luogo sicuro a terra. Immaginate che ci sono isole con 150 abitanti, in cui improvvisamente 1.500 rifugiati arrivano in un solo giorno. Cosa dovremmo fare con queste persone? Si tratta di un onere insostenibile per la Grecia. E ‘solo a causa della nostra posizione geografica e nient’altro.
B: Tuttavia, l’impressione che si pone la Grecia si occupa principalmente con agitando i rifugiati fino al nord Europa il più velocemente possibile.
Tsipras: Dovete capire la mentalità dei rifugiati. Hanno visto le loro case bombardate e hanno rischiato la vita per fuggire e venire in Grecia, che è la porta verso l’Europa. Ma per i rifugiati, La Mecca si trova più a nord! Sanno che c’è una crisi in Grecia e che non troveranno un lavoro qui. Come possiamo evitare che la gente vada avanti? Non abbiamo il diritto di farlo.Non possiamo bloccare queste persone, ciò violerebbe gli accordi internazionali. Tutto quello che possiamo fare è aiutare a salvare queste persone in mare, prenderci cura di loro e registrarli. Poi vogliono continuare. Un processo di reinsediamento è quindi l’unica soluzione.
B: Se il confine marittimo può, infatti, non essere protetto, è allora davvero possibile per i confini della Grecia diventare la frontiera esterne dell’UE?
Tsipras : L’UE non consiste solo dell’Europa centrale. Ci sono anche paesi come la Spagna, l’Italia, la Grecia che hanno frontiere marittime. E ‘vero che dobbiamo essere ancora più efficace nella protezione dei confini. Ma vede, abbiamo già fatto enormi progressi nel processo di registrazione e nella creazione di hotspot. Ora stiamo realizzando al cento per cento in queste aree.
B: Lungo il percorso dei Balcani, ci sono nuovi sviluppi ora e i confini sono chiusi. I giornali europei sono intitolati: “La Grecia ha perso il controllo sui rifugiati”. È corretto?
Tsipras: Quello che alcuni paesi hanno concordato e deciso è contro tutte le regole e contro tutta l’Europa. Riteniamo che sia un’azione non amichevole. E ‘inaccettabile che, dopo che una decisione è presa in un vertice UE, alcuni paesi si incontrino e decidano semplicemente di chiudere le loro frontiere Questi paesi danneggiano gravemente l’Europa.
B: Quindi, è la situazione fuori controllo?
Tsipras: La situazione è difficile, ma non è fuori controllo. La Grecia è l’unico paese che rispetta gli impegni. Abbiamo già 30.000 rifugiati qui, sulla terraferma e le isole, e siamo in grado di ospitare 20.000 persone in più. Abbiamo realizzato oltre il 100% dei nostri impegni, mentre altri non hanno nemmeno raggiunto il 10% e preferiscono criticarci. Ma le dirò questo francamente, se molti rifugiati continuano ad arrivare dalla Turchia e le frontiere dei Balcani restano praticamente chiuse, allora la situazione diventa molto critica per noi.
B: La Grecia diventerà il ‘Libano dell’Europa’?
Tsipras: E ‘certamente una crisi umanitaria. I rifugiati vogliono continuare da qui al nord, ma non sono in grado. Voglio essere molto chiaro: abbiamo bisogno di fornire a queste persone sistemazione adeguata qui. La Grecia deve difendere il volto umano dell’Europa, non importa quanti rifugiati stiano arrivando. Ma chiediamo una distribuzione equa. La Grecia non può trasformarsi in un magazzino permanente di anime umane che non vogliono rimanere qui.
B: Ha paura che l’Europa potrebbe finalmente sacrificare la Grecia ed escludere il paese dalla zona di Schengen?
Tsipras: No, non ho paura, perché difendiamo i valori fondamentali dell’Europa. Alla fine, saranno coloro che hanno sollevato recinzioni di filo spinato, che hanno allontanato i rifugiati con la violenza e che hanno trasformato i loro paesi in fortezze che saranno isolati in Europa. Noi, al contrario, siamo in alleanza con i paesi che mostrano solidarietà. E questi sono paesi con i quali abbiamo avuto grossi problemi durante la crisi finanziaria.
B: Ma ancora una volta: Che cosa succede se la Germania dovesse chiudere le frontiere?Tsipras: paesi come l’Austria e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia hanno già chiuso i loro confini. Questo è successo senza che la Germania avesse preso tale misura. Pertanto, la situazione di emergenza già esiste.
B: Il vertice UE con la Turchia avrà luogo lunedi. La Turchia non è in grado di ridurre il numero di rifugiati, o non vuole ridurli?
Tsipras: La Turchia deve assumere un pesante fardello. Ci sono più di 1,5 milioni di rifugiati nel paese. Se collaboriamo con la Turchia, saremo in grado di controllare il problema. I rifugiati non vengono a nuoto verso di noi. Arrivano in barche e indossano giubbotti di salvataggio, fabbricati in Turchia. Questa è un’industria di miliardi di dollari. Dobbiamo combattere i trafficanti e affrontare il problema alla radice.
B: la Turchia chiede un accordo di liberalizzazione dei visti in cambio dei suoi sforzi. La Grecia chiede una riduzione del debito nella crisi dei rifugiati?
Tsipras: I negoziati per la crisi del debito non sono legati alla crisi dei rifugiati. Ma quello che voglio dire circa la crisi del debito è questo: abbiamo firmato un programma in luglio e ci atteniamo ad esso. Il problema rimane il FMI. Ulteriori richieste continuano ad arrivare dal Fondo monetario internazionale che non hanno nulla a che fare con l’accordo iniziale. L’UE deve chiedere al Fondo monetario internazionale di rispettare l’accordo. Tutto questo non ha nulla a che fare con la crisi dei rifugiati. Noi non abbiamo il tempo di rinviare nulla in relazione al problema dei rifugiati.Abbiamo bisogno di solidarietà. E ne abbiamo bisogno ora.
(Traduzione di Daniela Sansone)
Un appello che invitiamo a firmare per non essere corresponsabili del massacro in atto alle porte della Fortezza Europa, e all'interno stesso delle sue mura. Il manifesto, 8 marzo 2016
Noi, cittadini dei paesi membri dell’Unione europea, della zona Schengen, dei Balcani e del Mediterraneo, del Medioriente e di altre regioni del mondo che condividono le nostre preoccupazioni, lanciamo un appello d’emergenza ai nostri concittadini, ai governi, ai rappresentanti nei parlamenti nazionali e al Parlamento europeo, oltre che alla Corte europea dei diritti dell’uomo e all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati:
Bisogna salvare e accogliere i rifugiati dal Medioriente
Da anni, i migranti del sud del Mediterraneo che fuggono dalla miseria, dalla guerra e dalla repressione annegano o si scontrano contro le barriere. Quando riescono ad attraversare, dopo essere stati vittime delle filiere di trafficanti, vengono respinti, messi in carcere o obbligati a vivere nella clandestinità da stati che li designano come dei «pericoli» e come dei «nemici». Tuttavia, coraggiosamente, si ostinano e si aiutano a vicenda per salvare le loro vite e ritrovate un avvenire.
Ma dopo che le guerre in Medioriente e soprattutto in Siria si sono trasformate in massacro di massa senza una prevedibile fine, la situazione ha cambiato dimensione. Popolazioni intere, prese in ostaggio tra i belligeranti, bombardate, affamate, terrorizzate, sono gettate in un esodo pericoloso che, a costo di migliaia di morti supplementari, precipita uomini, donne e bambini verso i paesi vicini e bussa alle porte dell’Europa.
Siamo di fronte a una grande catastrofe umanitaria. Ci mette di fronte a una responsabilità storica da cui non possiamo sfuggire.
L’incapacità dei governi di tutti i paesi a mettere fine alle cause dell’esodo (quando non contribuiscono ad aggravarlo) non li esonera dal dovere di soccorrere e di accogliere i rifugiati rispettando i loro diritti fondamentali, che con il diritto d’asilo sono inscritti nelle dichiarazioni e convenzioni che fondano il diritto internazionale.
A parte alcune eccezioni – l’iniziativa esemplare della Germania, non ancora sospesa a tutt’oggi, di aprire le porte ai rifugiati siriani; lo sforzo gigantesco della Grecia per salvare, accogliere e scortare migliaia di naufraghi che ogni giorno sbarcano sulle sue rive, mentre l’economia del paese è crollata in un’austerità devastatrice; la buona volontà dimostrata dal Portogallo per raccogliere una parte dei rifugiati che stazionano in Grecia – i governi europei si sono rifiutati di valutare con realismo la situazione, di spiegarla alle opinioni pubbliche e di organizzare la solidarietà superando gli egoismi nazionali. Al contrario, da est a ovest e da nord a sud, hanno respinto il piano a minima di ripartizione dei rifugiati elaborato dalla Commissione o hanno cercato di sabotarlo. Peggio ancora, hanno scelto la repressione, la stigmatizzazione, la violenza contro i rifugiati e i migranti in generale. La situazione della «giungla» di Calais, a cui adesso fa seguito lo smantellamento forzato, senza tener conto né dello spirito né della lettera di un sentenza giudiziaria, ne è l’illutrazione scandalosa, ma non è la sola.
All’opposto, sono i semplici cittadini d’Europa e d’altrove – pescatori e abitanti di Lampedusa e di Lesbos, militanti di associazioni di soccorso ai rifugiati e delle reti di sostegno ai migranti – che hanno salvato l’onore e mostrato la strada per una soluzione.
Ma si scontrano tuttavia con la mancanza di mezzi, l’ostilità a volte violenta dei poteri pubblici, e devono far fronte, come gli stessi rifugiati e migranti, alla rapida crescita di un fronte europeo della xenofobia, che va da organizzazione violente, apertamente razziste o neo-fasciste, fino a dei leader politici «rispettabili» e a governi sempre più preda dell’autoritarismo, del nazionalismo e della demagogia. Due Europe totalmente incompatibili si fanno cosi’ fronte, tra le quali bisogna ormai scegliere.
Questa tendenza xenofoba, ad un tempo micidiale per gli stranieri e rovinosa per l’avvenire del continente europeo come terra di libertà, deve immediatamente rovesciarsi.
Nel mondo ci sono 60 milioni di rifugiati, il Libano e la Giordania ne accolgono un milione coscuno (rispettivamente il 20% e il 12% delle loro popolazioni), la Turchia 2 milioni (3%). Il milione di rifugiati arrivati nel 2015 in Europa (una delle più ricche regioni del mondo, malgrado la crisi) rappresenta solo lo 0,2% della popolazione ! Non soltanto i paesi europei, presi nel loro insieme, hanno i mezzi per accogliere i rifugiati e trattarli in modo dignitoso, ma hanno il dovere di farlo per poter continuare a fare riferimento ai diritti dell’uomo come fondamento della loro costituzione politica. E’ anche nel loro interesse, se vogliono cominciare a ricreare, con tutti i paesi dello spazio mediterraneo che da millenni condividono la stessa storia e le stesse eredità culturali, le condizioni di una pacificazione e di una vera sicurezza collettiva. E’ questa la condizione per far indetreggiare al di là dell’orizzonte lo spettro di una nuova epoca di discriminazioni organizzate e di eliminazione di esseri umani «indesiderabili».
Nessuno può dire quando e in quali proporzioni i rifugiati rientreranno «a casa loro» e non si deve neppure sotto-stimare la difficoltà del problema da risolvere, le resistenze che suscita, gli ostacoli, persino i rischi, che comporta. Ma nessuno deve neppure ignorare la volontà di accoglienza delle popolazioni e la volontà di integrazione dei rifugiati. Nessuno ha il diritto di definire insolubile il problema, per meglio sfuggirvi.
Ampie misure d’emergenza vanno prese quindi immediatamente
Il dovere di assistenza ai rifugiati del Medioriente e dell’Africa nel quadro di una situazione d’emergenza deve venire proclamato e messo in atto dalle istanze dirigenti della Ue e declinato in tutti gli stati membri. Deve ricevere l’approvazione delle Nazioni unite e fare oggetto di una concertazione permanente con gli stati democratici di tutta la regione.
Forze civili e militari devono venire impegnate, non per fare una guerriglia marittima contro i passeurs, ma per portare soccorso ai migranti e fermare lo scandalo degli annegati. E’ solo in questo quadro che potrà essere possibile reprimere i traffici e condannare le complicità di cui godono. La proibizione dell’accesso legale è difatti all’origine delle pratiche mafiose, non il contrario.
Il fardello dei paesi di prima accoglienza, in particolare la Grecia, deve essere immediatamente alleggerito. Il loro contributo all’interesse comune deve venire riconosciuto. Il loro isolamento deve venire denunciato e ribaltato in solidarietà attiva.
La zona di libera circolazione di Schengen deve essere preservata, ma gli accordi di Dublino che prevedono il rinvio dei migranti verso il paese d’entrata devono venire sospesi e rinegoziati. L’Ue deve fare pressione sui paesi del Danubio e balcanici perché riaprano le frontiere, e negoziare con la Turchia perché cessi di utilizzare i rifugiati come alibi politico-militare e moneta di scambio.
Contemporaneamente, devono venire messi a disposizione mezzi di trasporto aerei e marittimi per trasferire tutti i rifugiati recensiti come tali nei paesi del «nord» dell’Europa che possono oggettivamenti ricerverli, invece di lasciare che si intasino in un piccolo paese che rischia di diventare un immenso campo di ritenzione per conto dei vicini.
A più lungo termine, l’Europa – che deve far fronte a una grande sfida, di quelle che cambiano il corso della storia dei popoli – deve elaborare un piano democraticamente controllato di aiuto a chi è sfuggito al massacro e a coloro che portano loro soccorso: non soltanto delle quote di accoglienza, ma aiuti sociali per la scuola, per la costruzione di case decenti, quindi un finanziamento speciale e disposizioni legali che garantiscano nuovi diritti per inserire degnamente e pacificamente le popolazioni sfollate nei paesi d’accoglienza.
Non c’è altra aternativa: ospitalità e diritto d’asilo, o la barbarie!
Primi firmatari
Michel Agier (Francia), Horst Arenz (Germania), Athéna Athanasiou (Grecia), Chryssanthi Avlami (Grecia), Walter Baier (Austria), Etienne Balibar (France), Marie Bouazzi (Tunisia), Hamit Bozarslan (Francia, Turchia), Judith Butler (Stati uniti), Marie-Claire Caloz-Tschopp (Svizzera), Dario Ciprut (Svizzera), Edouard Delruelle (Belgio), Matthieu De Nanteuil (Belgio), Wolfgang-Fritz Haug (Germania), Ahmet Insel (Turchia), Nicolas Klotz (Francia), Justine Lacroix (Belgio), Amanda Latimer (Gran Bretagna), Camille Louis (Francia), Giacomo Marramao (Italia), Roger Martelli (Francia), Sandro Mezzadra (Italia), Judith Revel, Toni Negri (Francia), Maria Nikolakaki (Grecia), Josep Ramoneda (Spagna), Vicky Skoumbi (Grecia), Barbara Spinelli (Italia), Etienne Tassin (Francia), Hans Venema (Olanda), Marie-Christine Vergiat (Francia), Frieder Otto Wolf (Germania).
Per firmare:
baier@transform-network.net
netbaier@transform-network.net
La Repubblica, 29 febbraio 2016
DOPO averne visto le conseguenze su migliaia di persone in fuga, gli europei vedono il fumo nero della guerra da vicino. È ormai ad una spanna d’acqua, di là del mare dei morti cantato da Virgilio e da Gianfranco Rosi. S’affaccia ad una spanna di terra da noi, in quei Paesi dell’Europa orientale in cui ribollono gli spiriti animali del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui esiti fatali stanno scritti in tutti i sussidiari. Non solo in Ucraina, ma in Polonia, Ungheria, Slovacchia e oltre. Le nazioni “cattoliche” che per secoli il papato credeva diventassero un cuscinetto fra ortodossie e protestantesimi, i Paesi che Wojtyla sognava fossero modelli di nuovi regimi di cristianità, le chiese che hanno conservato la fede fino al martirio nella cattività sovietica, sono oggi invece il punto di approdo della spirale soffocante della guerra. Ed interpellano sia gli europei recalcitranti alla long- term vision, sia il cristianesimo sordo alla conversione, sia l’unico leader globale che viva in questo continente: un immigrato argentino che si fa chiamare Francesco.
La spirale si disegna chiara sulle carte. Dal corso del Niger una striscia di guerre civili e/o di religione chiamate eufemisticamente “terrorismo” generano statualità inedite, travolge gli equilibri fra musulmani di diversa confessione, devasta le chiese siriache che i cristiani latini avrebbero sterminato secoli fa, profana i luoghi dello spirito. Le rotte desertiche dei mistici fra l’Africa e il Mediterraneo sono vie di morte a doppio senso. Il Sinai dove fu detto “non uccidere” vede azioni feroci e innominabili. Nel cielo d’Arabia non ci sono sapienti a leggere le stelle, ma vittime che scrutano la scia dei caccia. Attorno e dentro la terra dove scorre latte e miele ci sono muri e coltelli a posporre la pace. Il concilio pan-ortodosso che il patriarca Bartholomeos ha avuto la grazia e la fede di convocare non può riunirsi a Costantinopoli, ma deve andare a Creta per le tensioni che richiamano la storia delle relazioni fra l’ex sultano e l’ex zar. Le piste d’Abramo, padre di chi va e di chi crede al cammino, sono percorse da Suv carichi di trafficanti e assassini. La Siria che diede ai cristiani il nome di “quelli della Via” è liquefatta.
Ma la nube cupa della guerra non si ferma lì. Risale dal Mar Nero verso l’oriente cristiano; passa sui confini della “unione” di Brest e dell’Ucraina post-sovietica; s’incunea nel cuore di quella cintura “cattolica”, nell’Ungheria di Viktor Orbán e nei movimenti della Polonia di Beata Szydlo, e passa dai gruppi neonazisti in Slovacchia, si frantuma nella xenofobia urbana tedesca, e ancora oltre verso ovest. E sa che, se non lo farà Francesco, non sarà denunciata né da élite impari a compiti ben più semplici né da cristiani attratti dal potere. Dopo la generazione di Schumann, Adenauer e De Gasperi, che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico, dopo quella di Delors, Kohl e Prodi, che parlavano in europeo e pensavano in ecumenico, la generazione nuova degli europeisti — al netto del consenso sul piano Renzi spiegato ieri da Scalfari — non c’è, e Mario Draghi parla e pensa nella lingua della solitudine.
Davanti a questo paesaggio sta Francesco: un anziano latino americano che con tre pennellate — la cultura dello scarto, la globalizzazione dell’indifferenza, la guerra a capitoli — ha denudato l’impotenza culturale di un’Europa che non sa leggere la realtà in modo convincente, unificante, pacificante. E che dunque è condannata alla diffidenza, alla disunione e in prospettiva alla guerra. Cittadino del sud del mondo, Bergoglio guarda all’Europa con distacco; la sua formidabile segreteria di Stato inanella successi sbalorditivi, ma su tutt’altri quadranti; l’episcopato europeo è totalmente inerte davanti ai compiti che la storia gli assegna. Ma il Papa, i suoi diplomatici e i vescovi non potranno non misurarsi col “cuore nero” dell’Europa che si manifesta ad est.
Francesco in ogni caso dovrà farlo nel viaggio in Polonia di questa estate per la giornata della gioventù, che non può essere solo un trionfo giubilare celebrato a un passo dai cancelli di Auschwitz-Birkenau, ma un incontro con la generazione che se perde l’Europa ritroverà la guerra.
Forse il Papa ha già incominciato a prendere posizione nell’ormai famoso dictum su Trump. In una frase secca — «chi pensa a costruire muri non è cristiano » — Francesco ha preso le distanze non solo da un provocatore reazionario, ma anche da tutta quella politica che in Europa tenta di catturare “voti facili” dividendo fra chi ha paura e chi fa paura o negando valor al sapere che è il diaframma necessario fra la paura e le decisioni.
Presi in una accelerazione ecumenica improvvisa — fra il giubileo del Vaticano II, il concilio panortodosso, il centenario della Riforma — i cristiani d’Europa possono fornire a questo continente malato solo la loro conversione e la loro comunione: non per conquistare qualcosa restando identici, ma per non perdere l’anima. Un continente secolarizzato e pensante ne coglierebbe il valore, ne spererebbe l’adempiersi: ma può darsi che questo continente sia solo secolarizzato, e dunque indifferente a quel “cuore nero” che è l’antipodo di Ventotene.
«La Grecia rischia di diventare uno Stato abbandonato e chiuso dove i migranti in arrivo non trovano più possibilità di uscire In Siria milioni di persone sono intrappolate e vittime di violenze. Ma c’è di peggio, situazioni quasi invisibili: Sud Sudan e Centrafrica». La Repubblica, 23 febbraio 2016
Il manifesto, 20 febbraio 2016
«Io non l’ho voluto!», grida dio — nel grande dramma Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus – davanti al mondo intero che si autodistrugge in guerra.
«Noi non l’abbiamo voluto!», grideranno i capi di governo a Bruxelles, Berlino, Londra, Parigi, Roma e nelle altri capitali europee, quando fatalmente l’Unione europea andrà alla fine in pezzi. Ma a quel punto, chi avrà voluto e che cosa davvero avrà determinato questo esito?
Prima di abbozzare una risposta, converrà ricordare ai Salvini, ai Farage, ai Grillo e a tutti gli altri agitatori della domenica che sono stati settanta i milioni di morti della seconda guerra mondiale e i più di venti della prima ad aver spinto nella direzione di un’unificazione europea – e questo dopo tre secoli di conflitti incessanti in cui tutti si battevano contro tutti.
L’Europa non ha nulla da insegnare in tema di pace, solidarietà e diritti, perché è stata sino a settant’anni fa il continente più mortifero della storia. E oggi ricomincia a contorcersi in conflitti, chiusure, minacce e ripicche come se avesse dimenticato tutto.
Intendiamoci. Magari un accordo dell’ultimo minuto con Cameron si troverà. Ma i nodi continueranno a venire al pettine, perché le ragioni della crisi sono sistemiche, e non dipendono solo dall’avventatezza del premier inglese, che è lanciato nel risiko del Brexit per ragioni di esclusiva politica interna. La ragione fondamentale è che la Ue manca di qualsiasi progetto politico-sociale comune, e che tutti i suoi membri sono vincolati a logiche locali, ai piccoli dividendi politici nazionali, in una fase di stagnazione e incertezza economica che radicalizza ogni scelta. In questo senso Cameron, indubbiamente uno statista mediocre, non è più responsabile di Merkel, Hollande e tutti gli altri, compreso il nostro gioviale primo ministro.
Consideriamo la questione dei profughi. Se la Ue avesse uno straccio di politica estera comune, e soprattutto non dipendente dalle pulsioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande o da quelle anti-russe degli Usa, si sarebbe posta da anni la questione dei profughi e non improvvisamente, nell’agosto 2015, come ha fatto Merkel. Non si affiderebbe in tutto e per tutto a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli, oltre a 3 miliardi di euro, mano libera contro i curdi e in Siria. E soprattutto avrebbe affrontato la questione umana e sociale dei profughi, dalla Siria e da altri paesi in guerra, in modo solidale, distribuendo equamente gli oneri dell’accoglienza ai vari paesi e lavorando a un’integrazione sociale degli stranieri che, nel lungo periodo, avrebbe sicuramente giovato alla sua economia.
E invece no. Debole con i forti e fortissima con i deboli, concede a Cameron un referendum che a suo tempo ha rifiutato alla Grecia. Abbozza una ricollocazione dei profughi che fallisce clamorosamente. E ora deve digerire la chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria e altri stati balcanici, ciò che si ripercuoterà a catena in tutto il continente. Invece di creare un piano di sicurezza sociale per tutti i membri si appresta a concedere all’iperliberista Cameron una riduzione dei benefici per i migranti Ue in Inghilterra. Nel frattempo, ricominciano gli sbarchi in Sicilia, con altri annegati, e la buona stagione è alle porte. Intanto, la situazione in Siria e Libia è sempre più esplosiva.
A quasi settant’anni dai primi trattati europei, questa è la realtà del vecchio continente. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana in Europa?
Bruxelles. Mentre nelle acque di fronte ad Agrigento si consuma una nuova tragedia, sui migranti in Europa si continua a litigare. Di fronte all’emergenza sempre più pressante e al rischio della polverizzazione di Schengen, i leader europei hanno passato due giorni e due notti a Bruxelles per discutere di Brexit. Di rifugiati solo una discussione nella notte tra giovedì e venerdì, inconcludente e segnata dai litigi. Si aspetta marzo, si spera di convincere la Turchia a bloccare le partenze verso la Grecia (Ankara ha già ricevuto tre miliardi per la gestione dei profughi siriani) e si attende tra poche settimane che la Commissione presenti il piano per modificare in modo permanente ed efficace le regole europee per ripartire tra i Ventotto i migranti e salvare Schengen. Ma ancora una volta spetterà ai governi accettare il sistema e stando al clima respirato a Bruxelles la svolta non sembra vicina. Non per niente Juncker rinvia la proposta da dicembre. Ma ora non può più aspettare visto che senza una soluzione a maggio Schengen rischia di saltare.
Ieri l’Austria ha sfidato Bruxelles attuando la decisione di accettare solo 80 richiedenti asilo al giorno. Un piano che la Commissione l’altro ieri aveva definito illegale. Il Cancelliere Faymann nel chiuso del summit europeo ha spiegato ai colleghi di avere fatto il possibile (ha accolto circa 120mila profughi) e di non avere alternative al tetto agli ingressi: «Se tutti accettassero i nostri stessi numeri potremmo distribuire due milioni di rifugiati». L’austriaco si è ritrovato isolato al tavolo, ma molti leader della Vecchia Europa pur temendo ripercussioni per Schengen e danni economici dalla chiusura del Brennero hanno in parte compreso le sue ragioni, dettate dall’egoismo dei paesi dell’Est che costruiscono muri e rifiutano di ospitare i migranti arrivati negli altri paesi.
L’altra notte Renzi ha minacciato i governi dell’ex blocco sovietico di tagliare loro i fondi europei se non cambieranno linea. Minaccia in passato spesa anche dalla Merkel. Ma ieri il governo ungherese ha tirato dritto: «Quello di Renzi è un ricatto politico», le parole del portavoce di Orban. «Renzi non può ricattare nessuno», ha aggiunto il ministro polacco Konrad Szymanski. Con loro in Italia si schiera Salvini, mentre la presidente della Camera Laura Boldrini appoggia il premier: «Non si sta in una famiglia solo quando fa comodo». L’Ungheria poi ha annunciato una nuova mossa unilaterale: domani chiuderà le tre frontiere ferroviarie con la Croazia. La Slovenia lunedì conferirà più poteri all’esercito nel controllo dei confini. Ma il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, ha diffidato i partner da ulteriori misure dannose per la Germania: «Alla lunga ci sarebbero conseguenze». La Merkel intanto ha ottenuto un vertice tra i Ventotto e la Turchia ai primi di marzo.
In attesa che la Grecia controlli a pieno le sue frontiere e che arrivi il piano Juncker, la Cancelliera ritiene che la collaborazione di Ankara nel bloccare le partenze dalle sue coste sia cruciale. Tsipras ha invece bloccato l’accordo per evitare il Brexit se non avrà garanzie che la Grecia non sarà sigillata fuori da Schengen. Hollande, criticato perché non sostiene la ripartizione dei migranti, ha detto che la Francia farà la sua parte quando le frontiere esterne torneranno sotto controllo. In fondo anche il presidente francese vuole «salvare Schengen».
Più di trecento miliardi spalmati su sei anni. È questa la torta dei fondi europei che Matteo Renzi - rilanciando una minaccia già brandita da Berlino vuole togliere ai paesi dell’Europa orientale che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. E ancora, i baltici, altrettanto contrari all’idea di una gestione comune dei migranti, di una ripartizione tra i Ventotto di chi fugge in Europa per trovare riparo da guerra e terrorismo. Sono loro che hanno portato Schengen sull’orlo del collasso bloccando da mesi qualsiasi decisione comunitaria. Che hanno costretto paesi come Austria, Germania e Svezia, inizialmente accoglienti con tutti i profughi, a chiudere le porte e a ripristinare i controlli alle frontiere precipitando l’Unione in uno stallo figlio di un pericoloso tutti contro tutti. E poco importa che anche Francia e Spagna siano scettiche verso le riallocazioni: se il problema fosse stato risolto subito avrebbero accettato il sistema.
UNANIMITÀ
La minaccia ad Orban&Co sui fondi piace a molte capitali della Vecchia Europa, ma non è facile da portare alle estreme conseguenze. Il bilancio pluriennale dell’Unione viene infatti approvato all’unanimità su proposta della Commissione ed è difficile immaginare che i leader dell’ex blocco sovietico decidano spontaneamente di tagliarsi i soldi nel 2019, quando l’Ue inizierà a negoziare le prospettive finanziarie 2021-2027. Più verosimile pensare un blitz immediato, visto che i governi ogni anno all’interno del bilancio pluriennale (quello attuale copre il periodo 2014-2020) decidono le spese per i 12 mesi successivi. In questo caso a maggioranza qualificata. Ma appare comunque improbabile che i leader dell’Est non riescano a mettere insieme una minoranza di blocco in grado di fermare la rappresaglia congelando il bilancio. Dunque quella sui fondi può essere considerata una minaccia più politica che reale, anche se nasconde una grande verità su quanto le capitali dell’Est siano europeiste nell’incassare gli ingenti aiuti di Bruxelles e quanto si rivelino egoiste nel non accettare la ripartizione dei migranti ora stipati in pochi paesi.
CONTRIBUTORI
Il bilancio 2014-2020 dell’Unione conta 970 miliardi. Circa 300 tornano ai governi sotto forma di aiuti. Si tratta dei fondi strutturali, di coesione (riservati alle nazioni dell’ultimo allargamento), dei sussidi all’agricoltura, al sociale e di altre decine di programmi europei. Il più grande contributore netto al bilancio comunitario è la Germania, che ad esempio nel 2014 ha avuto un saldo passivo verso l’Unione di 15,5 miliardi. Seguono Francia, che tra dare e avere ha perso 7,1 miliardi, Gran Bretagna (4,9), Olanda (4,7) e Italia (4,4), che nell’ultimo negoziato condotto da Monti nel 2013 ha migliorato di due miliardi il saldo.
BENEFICIARI
Tra i paesi dell’Europa pre-allargamento chi è beneficiario netto dei fondi Ue sono Grecia e Portogallo e per cifre irrisorie Irlanda, Malta e Cipro. La parte del leone nel prendere la fanno però i paesi dell’Est. Come la Polonia, nazione governata dalla destra populista di Kaczynski e Szydlo, contraria all’accoglienza. Peccato che nel 2014 Varsavia abbia registrato un saldo attivo di 13,7 miliardi nel rapporto tra dare e avere con Bruxelles. Il tipico esempio di nazione accusata di accettare la solidarietà a senso unico. Una cifra pari al 3,47% del Prodotto interno lordo con la quale Varsavia sta ammodernando economia e infrastrutture. Tra l’altro nel periodo 2014-2020 può ricevere 228 milioni Ue per i migranti. Altro campione di incassi è l’Ungheria del liberticida Viktor Orban: 5,6 miliardi di attivo nel 2014, pari addirittura al 5,64% del Pil nazionale. E tra l’altro gli ungheresi hanno a disposizione 93 milioni europei per gestire i profughi. Prende bene anche la Repubblica Ceca: 3 miliardi all’anno pari al 2% del Pil. Vengono poi Bulgaria (1,8 miliardi, 4,4% del Pil), Lituania (1,5 miliardi, 4,3% del Pil) e Lettonia (799 milioni, il 3,35% del Pil). Anche gli altri paesi dell’Est, con cifre inferiori, sostengono le loro economie grazie ai fondi europei. Gli stessi paesi che da mesi voltano le spalle alle nazioni che non riescono da sole a gestire i profughi in arrivo dalla Siria. E che ora sono allo stremo.
a Repubblica, 17 febbraio 2016
«I quattro paesi di Visegrad sono il nuovo Asse. Il nemico è Angela Merkel, simbolo forte dell’Europa liberale ». Lo dice Agnes Heller, filosofa ungherese che è stata il massimo esponente della Scuola di Budapest e rimane la leader storica dell’intellighenzia critica del centro-est europeo.
Questi no all’Europa raccolgono ampi consensi in patria: che cosa sta succedendo nel centro-est dell’Europa?
«Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia ricordano il vecchio Asse. Non sono uniti da valori ma dall’identificare un nemico comune: il cuore della Ue, soprattutto la Germania, contro cui sono in guerra per imporre le loro ideologie illiberali e prendere la guida dell’Europa insieme a forze a loro affini. È una sfida lanciata a liberal, progressisti, conservatori, a tutti i veri europei».
Il no ai migranti non è l’obiettivo principale?
«È piuttosto strumento della loro guerra: criminalizzano migranti e profughi per criminalizzare Angela Merkel che, dicono, accogliendoli sul suolo europeo distrugge la loro idea d’Europa. È guerra tra diverse parti dell’ex impero sovietico e le democrazie dell’Europa occidentale e meridionale. Vincerà chi avrà il controllo della Ue».
Merkel primo bersaglio, dunque: perché?
«Perché è e rimane il personaggio più forte, centrale, dell’Unione europea. Nella partita in corso, lei è come il Re negli scacchi. Devono riuscire a darle scacco per trasformare la Ue in una “Europa delle patrie” rette da sistemi illiberali nazionali, di cui Orbàn e i suoi migliori alleati, i governanti polacchi, parlano. Scacco al re, anzi regina in questo caso, nel nome di nazionalismo e onnipotenza degli Stati nazionali, il vero male del Ventesimo secolo, a mio modo di vedere».
Ma sono comunque popolarissimi in patria: perché?
«Perché gli elettori da noi sono frustrati e depressi, sebbene non manchi chi scende in piazza per protestare contro questi governi antiliberali. È sempre facile in Europa orientale, dove esistono persino opposizioni a destra di Orbán o del PiS polacco, giocare la carta del nazionalismo, dire che occorre resistere ai diktat in arrivo da fuori. Il potere è così forte da creare oligarchi che poi lo sostengono».
I cittadini condividono dunque il no alla solidarietà europea dei loro politici?
«Purtroppo, giocando la carta della resistenza nazionalista contro presunti ricatti di Bruxelles o Berlino, hanno distrutto il principio stesso della solidarietà, legame e valore fondamentali dell’Europa. Vogliono tutto dalla Ue, ma non danno nulla in cambio. La gente dimentica gli ingenti aiuti e investimenti europei. E l’egoismo degli Stati nazionali, definiti da Nietzsche “bruti che si servono da sé”, distrugge i valori costitutivi europei. Ma in patria slogan e propaganda convincono ».
Quanto è pericoloso tutto questo?
«Molto, perché le democrazie occidentali si stanno mostrando deboli a fronte di questi semi-dittatori. Germania, Francia, Italia, in quanto Stati liberali, non sono portati ad assumere linee dure o sanzioni. Se resteranno deboli, l’Asse e i suoi potenziali seguaci potranno davvero mettere a rischio la Ue e i suoi principi»
L’Europa democratica dovrebbe reagire più duramente?
«Non so come dovrebbe reagire, ma so che deve mostrarsi forte. Difendere i suoi valori. E capire la serietà della sfida illiberale di cui Orbán è l’ideatore: lui invita tutti a non sentirsi più innanzitutto europei. Nel futuro non temo certo guerre europee, ma sostengo che il virus illiberale e demagogico potrà diffondersi e minare le fondamenta democratiche dell’Europa, contando sulla capacità di condizionare l’elettorato con un messaggio forte e populista».
Sbilanciamoci.info, Newsletter n. 461, 16 febbraio 2016
Alzate le barriere contro i migranti, o alzeremo quelle tra i paesi europei. E’, in estrema sintesi, il messaggio contenuto nel dossier sullo stato dei lavori previsti dall’Agenda sulle migrazioni, redatto dalla Commissione europea diffuso mercoledì 10 febbraio. Un documento in cui si mette in discussione uno dei pilastri dell’Unione Europea, ossia la libera circolazione: la Commissione minaccia infatti di bloccare Schengen per due anni qualora la Grecia, uno dei paesi in cui la pressione migratoria è attualmente più forte, non si adegui ai dettami europei.
Ad Atene la Commissione europea rivolge le critiche più forti, sollecitando maggiori controlli alle frontiere per evitare che i migranti si spostino verso gli altri paesi europei.Non è una richiesta astratta: entro tre mesi Tsipras dovrà presentare un piano per il controllo dei confini, facilitando anche il lavoro dei funzionari Frontex già presenti, e di quelli che secondo la Commissione dovrebbero ancora arrivare. All’interno del piano la Grecia dovrebbe, secondo le richieste europee, predisporre delle strutture di “accoglienza” dei richiedenti asilo che, sfuggiti ai controlli ellenici, si sono già spostati in altri paesi europei, Germania e Svezia in testa: il trasferimento dei migranti risponderebbe alla restaurazione, in Grecia, del regolamento Dublino, finora bloccato da alcune sentenze emesse nel 2011 dalla Corte europea dei diritti umani, a causa delle indegne condizioni di accoglienza riscontrate in territorio ellenico.
Date le gravi difficoltà economiche in cui versa la Grecia, l’Unione prevede un’assistenza in collaborazione con il sostegno operativo dell’Unhcr: la Commissione ha infatti già approvato lo stanziamento di 80 milioni di euro per sostenere le capacità di accoglienza del paese, portandole di 50.000 posti. Una missione “umanitaria” che ha, paradossalmente, l’obiettivo di allontanare persone in difficoltà dal territorio europeo, in un paese da anni stretto nella morsa della crisi, messo in ginocchio da pesanti misure di austerity e con il tasso di disoccupazione al 25%.
Se la Grecia non dovesse dar seguito ai punti sollevati dalla Commissione, il rischio concreto è la reintroduzione delle frontiere interne per un periodo di due anni.
Anche l’Italia viene bacchettata sui controlli, in particolare in relazione alla questionehotspots: solo due dei sei previsti sono attivi. Proprio per superare i problemi amministrativi e i ritardi legati alla scelta dei siti, la Commissione mette a disposizione una squadra mobile europea, per la rapida creazione di una nuova struttura nella Sicilia orientale. La pressione sugli hotspots va di pari passo con la necessità, tutta europea, di procedere alle registrazioni e conseguentemente a riallocazioni o rimpatri -sempre in base alla discutibile divisione tra migranti economici e profughi, arbitrariamente decisa dalle istituzioni europee- e di evitare che i migranti si spostino negli altri paesi membri. E’ in quest’ottica che la Commissione sottolinea la possibilità di usare la forza per effettuare i rilievi dattiloscopici, e arrivare così all’obiettivo europeo: pur riconoscendo un incremento della registrazione delle impronte digitali – dall’8% nel settembre 2015 al 78% nel gennaio 2016 in Grecia, e dal 36% del settembre 2015 all’87% nel mese di gennaio 2016 in Italia – l’Unione sollecita il raggiungimento del 100% dei rilievi entro il summit europeo previsto per marzo. Ed è sulle deportazioni che l’Europa insiste particolarmente: gli oltre 14mila rimpatri forzati effettuati dall’Italia nel 2015, e la partecipazione a 11 voliorganizzati da Frontex, non sarebbero sufficienti, secondo la Commissione, a fronte di oltre 160mila arrivi registrati lo scorso anno. E’ in quest’ottica che l’Europa chiede di intervenire sulla legge nazionale, allungando i tempi di trattenimento, non considerando gli attuali 90 giorni idonei alla chiusura delle pratiche per i rimpatri. Una pressione esplicita ad ampliare (di nuovo!) quel sistema dei centri di identificazione ed espulsione che nel nostro paese ha dato luogo a gravi violazioni dei diritti umani, a numerose proteste delle persone detenute e a un business sconfinato spesso nell’uso improprio di risorse pubbliche.
Se a Grecia e Italia viene rimproverato di non alzare muri abbastanza alti per evitare l’ingresso dei migranti in Europa, gli altri stati membri vengono richiamati sull’unico punto in cui l’Unione poteva effettivamente fare la differenza in merito all’accoglienza, ossia le ricollocazioni. Un aspetto che è stato a lungo discusso nelle diverse sedi istituzionali, senza però tradursi in una soluzione concreta. A dirlo sono i numeri: dei 160mila migranti che i paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene.
Sollecitando l’applicazione di processi di “responsabilità e solidarietà” tra paesi membri, la Commissione ha comunque definito ancora una volta la posizione dell’Europa rispetto ai migranti: “Deve essere chiaro alle persone che arrivano nell’Unione – si legge nel dossier -che se necessitano di protezione la riceveranno, ma non potranno decidere dove. E se non sono qualificate per riceverla, saranno rimpatriate”.
Il tema dell’accoglienza non è praticamente nominato: e questo nonostante ilcatastrofico panorama internazionale non accenni alcun miglioramento. Solo considerando il conflitto siriano in corso da cinque anni, sarebbero 470.000 i civili morti a causa della guerra e delle sue conseguenze, come la mancanza di cure mediche, cibo e acqua; l’11,5% della popolazione siriana è rimasto ucciso o ferito dall’inizio, nel marzo 2011, della guerra; l’aspettativa di vita è calata dai 70 anni del 2010 ai 55 del 2015 (dati diffusi dal Centro siriano per la ricerca politica -Scpr). Per quanto riguarda i viaggi verso l’Europa, le stragi non sembrano diminuire: lunedì scorso ventisette persone – tre le quali undici bambini – hanno perso la vita nel naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano, provando a raggiungere l’isola greca di Lesbo dalle coste turche. Un altro naufragio al largo della Turchia ha provocato la morte di altre undici persone.
Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.
Un vero e proprio ricatto, considerando i pesanti problemi economici che potrebbero derivare dall’abbandono di Schengen.
«La Repubblica, 15 febbraio 2016 (m.p.r.)
La Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)
Roma. Una barriera per bloccare gli ingressi incontrollati. Una carreggiata della strada su cui far sfilare i rifugiati. Una serie di container per ospitare i gendarmi, incaricati di controllare i documenti di chi passa. L’Austria sceglie la linea dura e annuncia la “chiusura” del Brennero: la frontiera con l’Italia.
Il manifesto, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)
Scene raccapriccianti: decine di migliaia di siriani in fuga da Aleppo dove infuria la guerra sbattono contro la frontiera turca sbarrata per decisione del governo di Ankara. E ora la Turchia vuole costruire un muro - l’ennesimo - nell’unico tratto di frontiera a nord di Aleppo non sotto il controllo dell’Isis.
I 3 miliardi di euro concessi dall’Unione europea alla Turchia per bloccare i profughi non potevano trovare davvero un migliore impiego! L’unico intervento deciso dalla Unione europea per i profughi ha avuto l’esito che si poteva facilmente immaginare.
Il sultano Erdogan, dopo aver foraggiato l’Isis con soldi, armi e combattenti in arrivo dal Golfo e dall’occidente e aver contrabbandato il petrolio estratto nello «stato islamico», per poi aderire alla coalizione anti-Isis ad obtorto collo – non poteva sottrarsi essendo membro della Nato – ma solo per bombardare i kurdi, ora può finire l’opera, riducendo i profughi a topi in trappola, con i soldi dell’Unione europea.
Si continuano a creare mostri che sfuggono di mano, l’elenco è lungo da Osama bin Laden fino ad al Baghdadi.
È paradossale che l’Europa offra ora sostegno politico e finanziario ad Ankara, dopo aver continuamente rinviato l’entrata della Turchia nella Ue a causa della violazione dei diritti umani, proprio nel momento in cui il regime autoritario di Erdogan mostra il peggio di sé (è il Paese con il maggior numero di giornalisti in carcere, alcuni dei quali rischiano la pena di morte), ha ripreso il massacro dei kurdi e non solo in Turchia, ha ingaggiato un braccio di ferro con la Russia - trovando uno zelante contendente in Putin -, vuole costruire un muro in Siria con il miraggio di occupare una fascia di sicurezza oltre frontiera.
Una scelta scellerata che ricadrà sulle nostre coscienze – se ce ne sono rimaste – perché non tutti i profughi potranno morire di fame e di stenti, non tutti i bambini potranno essere lasciati annegare in mare, il fascismo che serpeggia in Europa e nel MediO Oriente finirà per provocare una ribellione che travolgerà i benpensanti, gli indifferenti e i razzisti.
A quel punto l’Europa, se ancora esisterà, dovrà scegliere da che parte stare, se diventare un luogo di accoglienza e di convivenza di popoli con culture diverse o arroccarsi in un fortino nel deserto (le previsioni climatiche già vanno in questo senso) in attesa dell’arrivo dei tartari. Che arriveranno dopo aver abbattuto tutti i muri. Allora forse chi sopravviverà riproverà quella sensazione vissuta nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino. Un evento storico irripetibile, che però non ha lasciato traccia.
Il manifesto, 5 febbraio 2016
«L’apostasia delle proprie radici giudaico-cristiane è la causa di tanti mali della società di oggi»: queste parole di Massimo Gandolfini, leader del family day, rivelano la vera ratio di quell’adunata: riproporre la famiglia come fonte e supporto del potere patriarcale e di tutti gli autoritarismi della nostra società con una chiamata alle armi in difesa della perduta purezza dell’Occidente. Il cattolicesimo degli organizzatori, tornato in piazza con il preciso intento di offuscare i contenuti dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, è quello stesso cristianesimo oggi brandito come una clava contro i migranti musulmani dai governi ungherese, polacco e ceco, dagli hooligans svedesi che danno la caccia ai ragazzini di colore e dai tanti partiti nazionalisti e razzisti che stanno prendendo il sopravvento in tutti i paesi d’Europa.
Quel sopravvento si alimenta di un cedimento dei governi dei principali paesi europei alle loro pressioni; un cedimento che ormai mette in forse la sopravvivenza stessa dell’Unione. Solo qualcuno, e solo ora, comincia a prenderne atto. Gli altri no:“Ecco come salvare le banche”, titolano i giornali; ma di come salvare i profughi che annegano o muoiono di fame, di sete e di freddo non parla nessuno: nemmeno quelli che pure raccontanole atroci condizioni a cui l’Europa sta condannando milioni di vittime di guerre, rapine e devastazioni ambientali prodotte in gran parte dalle sue politiche o dalla sua indifferenza. Eppure bisogna cominciare a chiedersi come far fronte a questa offensiva, perché le linee di resistenza sono ormai in rotta.
Una cosa deve essere chiara: per quanto dure possano farsi le politiche di riduzione delle libertà costituzionali e dei diritti sociali adottate dai governi europei, nessuno di loro risolverà il problema dei profughi, perché la politica dei respingimenti è senza futuro. Impraticabile è l’idea di accogliere solo i profughi di guerra (che sono comunque moltissimi) perché tutti gli altri (i cosiddetti migranti economici) sono nelle loro stesse condizioni: altrimenti non affronterebbero un viaggio dove rischiano non solo la morte propria e delle loro famiglie, ma anche la prospettiva, di cui sono perfettamente al corrente, di venir imbottigliati lungo il percorso o rispediti in uno dei paesi che hanno attraversato; ma anche perché i paesi da cui fuggono sono sempre di più in balia di nuove guerre che le politiche di respingimento non fanno che attizzare.
La “purezza” etnica dell’Europa sembra ormai messa in mano alla Turchia: una dittatura feroce - in guerra con una parte cospicua del suo popolo e dei suoi vicini, che non ha esitato e non esiterà a sostenere la ferocia dell’Isis o di altri suoi emuli - a cui l’Europa assegna il compito di trattenere in veri e propri Lager i disperati che non vuole accogliere sul proprio suolo e quelli, immeritevoli di accoglienza, che vuole cacciare. Non ci si rende conto di mettere così in mano a quel paese, insieme ai profughi, un’arma di ricatto e di controllo su tutte le politiche europee del futuro. Ma quei profughi sono già troppi anche per la Turchia, come lo sono per Libano e Giordania; e, anche se un ministro belga si è già spinto a chiedere al Governo Greco di fare affogare i profughi che cercano di raggiungere le sue isole, non c’è morte nel deserto o naufragio in mare in grado di “smaltire i flussi” di coloro che continueranno a cercare di sfondare le mura della fortezza Europa. Vero è che la dissoluzione di Schengen lascia ormai intravvedere che a tener lontani i profughi dal cuore dell’Europa saranno tra poco chiamati i paesi di arrivo: Grecia, Italia e, forse, Spagna. Sempre al Governo Greco è stata, tra l’altro, prospettata la costruzione di un campo di concentramento per 400mila profughi (il ministro competente ha risposto che questo lo facevano i nazisti). Coloro che invocano l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea non mettono mai in conto questa prospettiva.
C’è un’alternativa a tutto ciò (e al molto altro che ne consegue)? E’ una domanda di buon senso a cui non risponde certo la finta prospettiva di accogliere i profughi (ma come? e quanti?) e respingere i migranti; senza naturalmente spiegare come fare la “selezione” né tantomeno dove “metterli” e a chi “restituirli”: quasi fossero “pezzi” (Stuecke) e non esseri umani come noi, e assai più infelici di noi. No. A breve tempo non c’è alternativa né una forza sociale o politica in grado di prospettarla. Meglio quindi adottare fin d’ora in una posizione di resistenza, cercando di ricostruire quell’alternativa attraverso dei passaggi legati tra loro:
Innanzitutto non stancarsi di indignarsi e di manifestare la nostra indignazione per il cinismo con cui il problema viene affrontato: è un modo per arginare il razzismo. Dall’indignazione è iniziato in altri paesi il cammino della riscossa. Ci ripetiamo che bisogna unire le forze, collegare i movimenti, unificare gli obiettivi; ma la base dell’unità è un sentire comune e pubblico.
Poi bisogna fare attenzione alle parole. Poco per volta ci abituiamo a parlare della vita e della morte di milioni di persone, di uomini, donne, bambini, trattandoli come un problema, un ingombro, un “fattore di squilibrio”, una sciagura. Ed è per queste vie che si insinua il razzismo.
Poi vengono le buone pratiche. Migliaia e migliaia di persone si adoperano ogni giorno e in ogni modo per rendere meno atroce la vita di chi arriva nei nostri paesi. E’ la base, che si può ancora allargare, indispensabile per rovesciare la situazione.
Poi ci sono le mobilitazioni per i diritti: lavoro, sanità, scuola, territorio, costituzione, contro la guerra. Sono momenti importanti di unità, ma senza un collegamento con la difesa dei profughi rischiano di lasciar campo libero all’avversario.
La ragione è dalla nostra parte: senza un massiccio apporto di profughi e migranti l’Europa perde abitanti e forze di lavoro, invecchia, imbocca la strada di una stagnazione (che non è certo la decrescita felice). Ce ne vorrebbero almeno tre milioni all’anno solo per mantenere la popolazione europea in equilibrio. L’incapacità di accoglierli è una conseguenza delle politiche di austerity: le stesse che hanno creato milioni di disoccupati tra i cittadini europei. La lotta contro la disoccupazione e quella per l’accoglienza non si contraddicono (non sono gli uni che portano via “il posto” agli altri).
Dare un futuro a milioni di profughi e restituire lavoro reddito e dignità a milioni di europei disoccupati non è compito da affidareal mercato o solo a un grande piano statale. Richiede migliaia di progetti diffusi sul territorio, con un obiettivo comune che non può che essere la conversione ecologica, per riportare il pianeta, l’Europa e ogni singola comunità entro i limiti della sostenibilità. Progetti articolati attraverso milioni di piani personalizzati di inserimento sociale: una cosa che può essere affrontata solo da quelle organizzazioni del terzo settore (non tutte) che si riconoscono in quel comune sentire che è la solidarietà. Questo tema è stato posto nel Forum dell’economia sociale e solidale promosso dal GUE-NGL (e di fatto, da Podemos), riunito per la prima volta a Bruxelles il 28 gennaio. Adesso si tratta di andare avanti.
«» Tanto, pagano gli altri. La Repubblica
Il punto chiave della bozza resa pubblica ieri da Tusk a Bruxelles, frutto di mesi di negoziati con il governo Cameron, è la concessione di un “freno d’emergenza” per 4 anni ai benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni familiari, alloggi popolari) agli immigrati comunitari: quello che voleva Downing street, come misura per rallentare un’immigrazione europea che cresce al ritmo di 300 mila arrivi l’anno. Ma le modalità del provvedimento sono da definire e i benefici andrebbero “gradualmente” ripristinati. C’è insomma ancora da discutere, su questo come sugli altri punti dell’accordo (sovranità dei Parlamenti nazionali, integrazione europea, protezione dei diritti dei paesi fuori dall’eurozona).
«Progressi concreti, che mi permetterebbero di battermi per restare in Europa - commenta Cameron - con la mano sul cuore sento di avere ottenuto quanto avevo promesso». In Inghilterra tuttavia i pareri discordano. Per il Guardian si tratta di «concessioni parziali». Per il Financial Times è «un fragile accordo». Il Telegraph cita nel titolo le parole di un deputato Tory euroscettico: «La Ue dà uno schiaffo in faccia al Regno Unito». Per Farage, leader Ukip, è un patto «davvero patetico ». E il capo del Labour, Jeremy Corbyn, favorevole a restare nella Ue (pur senza entusiasmo), accusa il premier di «correre dietro agli euroscettici». Cameron si difende così: «Gli immigrati non avranno più accesso immediato al welfare britannico, la sterlina non sarà discriminata rispetto all’euro, il nostro Parlamento potrà respingere le idee pazze di Bruxelles ».
LA STRAGE DEI BAMBINI
NAUFRAGIO NELL’EGEO
ALLARME DELL’UNICEF
di Pietro Del Re
«Genocidio dell’infanzia”. Europol: 10 mila minori arrivati e scomparsi. “Germania, 400 mila espulsioni»
Gli agenti in tenuta antisommossa fanno cordone, mani pronte a impugnare manganelli, taser o pistole, coi furgoni Mercedes giallieblu creano un muro tra le due parti della piazza. Una signora dell’ufficio stampa della polizia informa noi giornalisti: «Il pogrom notturno l’hanno organizzato online, come un flashmob, l’ordine era “aggredire bambini rifugiati”».
«Tranquillo, organizziamo ronde civiche, siamo in contatto con gli amici, i tedeschi di Pegida e le forze sane da voi», mi dice Olof, corpulento e sorridente riservista dell’esercito. Alto, testa rasata come i suoi amici, uno di loro torna da un negozio vicino, busta di plastica piena di lattine di birra. «Siamo decisi, noi europei sani, cristiani e bianchi dobbiamo fare in fretta. Blitzkrieg, e insieme come si coordinano loro aggredendo le nostre donne a Capodanno da Colonia a Helsinki, da Goeteborg a Zurigo. Glie la faremo vedere, siamo tutti ben addestrati per il servizio militare obbligatorio».
No al razzismo, gridano i pochi controdimostranti che la polizia protegge col muro di furgoni e agenti pronti al peggio. «Bisogna dar lezioni e salvare l’Europa bianca, come quando a scuola pestammo in classe un marocchino cleptomane, rubava a tutti. Il preside ci accusò di razzismo, ecco dove ci portano i socialisti». Kalle, magro e rasato accanto a noi, annuisce: «Guarda i comunisti che ci contestano, meriterebbero una lezione, non capiscono che anche le loro donne rischiano per gli stupratori musulmani». Ore 14,40, il flashmob si scioglie cantando “ Du gamla, du fria”, il dolce inno nazionale, con le loro voci suona duro e ostile.
Europei brava gente. «C’è da temere per il nostro futuro, se siamo quelli che sembriamo essere oggi».
La Repubblica, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)
Stretti nella morsa della crisi migratoria e della minaccia terroristica - spesso assurdamente presentate come due facce della stessa medaglia - c’è da temere non tanto per il futuro dell’Unione Europea: che fosse un guscio vuoto, senz’anima né orgoglio, era già evidente prima di questa doppia sfida. In questione è ora il carattere delle nostre democrazie. Nessuna esclusa. Più precisamente: che ne è dei valori di libertà e di tolleranza ricamati nelle nostre costituzioni e fieramente esibiti al mondo come paradigma di civiltà?
"Governi in ordine sparso, caos su Schengen in attesa della riunione dei ministri degli Interni che oggi ad Amsterdam cercheranno di mettere ordine alla crisi migranti. Italia, Germania, Olanda, Belgio, Portogallo e Bulgaria sono contro la sospensione del trattato Linea dura da Ungheria, Polonia e Slovacchia". La Repubblica, 25 gennaio 2016
In questi giorni tra le capitali sono girate ipotesi minacciose, come quella di espellere la Grecia da Schengen - smentita ieri dalla Commissione europea e dal ministro tedesco Steinmeier - o di chiudere tutte le frontiere interne all’Europa per due anni.
Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, dopo l’apertura ai profughi della Merkel ha proposto la redistribuzione tra i 28 di 160mila richiedenti asilo e ha preso forma la politica Ue sui migranti: hotspot alle frontiere esterne (Italia e Grecia) per registrare chi arriva. Riallocamento di coloro che hanno diritto all’asilo. Rimpatrio tramite Frontex di chi non ha titoli per rimanere. Creazione di una guardia di frontiera (di terra e mare) per aiutare i paesi che non riescono a sorvegliare i confini dell’Unione, anche contro la loro volontà (ipotesi che non piace ad esempio a Malta). 3 miliardi alla Turchia per bloccare le partenze e gestire i rifugiati sul suo territorio.
Ma qualcosa è andato storto. L’Ungheria alza il muro, i paesi dell’Est frenano e quelli dell’Europa centrale vengono invasi da 900mila migranti che dalla Turchia sbarcano in Grecia per imboccare la rotta balcanica. Anche i più generosi, come Germania, Svezia e Austria insieme a Danimarca, Francia e Croazia, ripristinano i controlli sospendendo Schengen. Il piano Juncker non funziona, vengono riallocate solo 331 persone. La Grecia è un colabrodo. La Turchia in attesa dei soldi Ue non ferma i barconi. Diventa un tutti contro tutti.
ISTITUZIONI UE
Juncker ha proposto soluzioni coraggiose, ma diversi governi gli rimproverano di non essere riuscito a farle applicare. Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, si è schierato con l’Est perdendo credibilità.
ITALIA
Renzi ha incassato una vittoria politica quando l’Europa si è fatta carico della crisi e appoggia Juncker su Dublino e Schengen. Ma oggi è in rotta con Berlino per aver ritardato l’apertura degli hotspot, chiedendo che prima funzionassero i ricollocamenti, e lasciando partire verso Nord i migranti. Quindi la sfida alla Merkel: bloccare i soldi alla Turchia in attesa di flessibilità sui conti.
GERMANIA
Dopo aver aperto le porte, la Merkel è assediata dalla destra del suo partito e dai bavaresi della Csu. La sua leadership vacilla. Sostiene gli sforzi di Juncker. Ma intanto ha dovuto chiudere le frontiere. È contraria all’espulsione della Grecia da Schengen e vuole evitare la chiusura delle frontiere per 2 anni cara ai falchi.
FRANCIA
Hollande dopo gli attentati di Parigi è assediato da Marine Le Pen e resta freddo sulle riallocazioni.
GRAN BRETAGNA
Cameron nella corsa verso il referendum sulla Brexit si chiude: il suo Paese non è dentro Schengen e ha ostacolato ogni decisione dei partner europei.
BENELUX
Belgio, Olanda e Lussemburgo appoggiano Juncker. Favorevoli anche svedesi (con i tedeschi i più generosi nell’accoglienza) e finlandesi. Con loro Portogallo, Bulgaria, Romania e Malta.
GRECIA
Atene non controlla le frontiere, Tsipras è favorevole a qualsiasi forma di europeizzazione della crisi ma intanto torna sul banco degli imputati. Frontex aiuta i greci a controllare il confine verso la Mecedonia. Se venisse sigillata fuori da Schengen, per Atene sarebbe crisi umanitaria.
AUSTRIA
Dopo avere aiutato i migranti, anche Vienna ha chiuso le frontiere. Ha messo la quota a 37mila rifugiati nel 2016 e sostiene l’espulsione della Grecia da Schengen. Vienna resta però favorevole a una soluzione Ue della crisi.
VISEGRAD E BALTICI
Oltre all’Ungheria di Orban, anche la Polonia di Beata Szydlo e Jaroslaw Kaczynski è contraria a qualsiasi forma di solidarietà. Con loro lo slovacco Robert Fico. Tra i baltici contro qualsiasi accordo sui migranti la lituana Grybauskaite. Finora hanno boicottato ogni intesa europea.
GLI SCENARI
Oggi ad Amsterdam la riunione dei ministri degli Interni: si cerca una tregua e il tentativo sarà di costruire un tavolo permanente governi-Commissione per coordinare le prossime mosse ed evitare nuove chiusure unilaterali delle frontiere, decidendo tutti insieme eventuali valichi da bloccare in caso di crisi. Sarebbe un primo passo verso il summit del 18 febbraio tra i leader dove Juncker dovrebbe presentare le modifiche di Dublino inizialmente previste per marzo: rendere automatiche (e si spera efficaci) le regole ora emergenziali su hotspot, redistribuzione e rimpatri. È questa la chiave per evitare lo sgretolamento di Schengen, abolire la regola per cui ogni paese deve accogliere i rifugiati che entrano nella Ue tramite le sue frontiere e rendere comunitaria la politica migratoria. Il tempo scade a maggio, quando non sarà più possibile rinnovare la chiusura delle frontiere e se allora non ci sarà una soluzione la crisi ognuno andrà per la sua strada e la situazione diventerà ingestibile con il rischio di implosione della stessa Unione.
BRACCIALETTO ROSSO
Non solo case segnalate con la porta rossa, per gli immigrati che trovano ospitalità in alcune città della Gran Bretagna. Il quotidianoGuardian ha scoperto che i rifugiati accolti vengono anche obbligati a indossare dei braccialetti di plastica rossa, con l’obiettivo di renderli identificabili [come i nazisti: Stella di Davide per gli ebrei n.d.r.]
I ladri di Monaco, Europa. «Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere». Il manifesto, 23 gennaio 2016
Infine, forse, entrano in Austria, da dove sono spediti in Germania, cioè in Baviera. E quale è la prima mossa dei bavaresi, costretti a farli entrare da Angela Merkel? Sequestrare beni e contanti superiori a 750 Euro, «per finanziare la loro accoglienza».
Il manifesto, 20 gennaio 2016
L’Europa è arrivata oramai a un bivio e sta imboccando, ogni giorno di più, la strada sbagliata, quella che porta al suo disfacimento.
È quanto suggeriscono le recenti notizie riguardanti la sospensione di Schengen da parte di un numero crescente di Paesi. Dopo Scandinavia, Danimarca e Germania, anche l’Austria e la Slovenia hanno espresso la volontà di chiudere le frontiere interne, ripristinando i controlli e quindi impedendo la libera circolazione, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea.
Se guardiamo alla dinamica dei flussi di profughi negli ultimi due anni e a quel che succede in Medio Oriente e in Africa, non c’è ragione per pensare che l’arrivo di persone in cerca di protezione possa diminuire. La sospensione di Schengen potrebbe quindi essere talmente lunga da diventare pressoché definitiva, e non straordinaria come prevede il Trattato Europeo.
L’intenzione dichiarata dai governi di Germania e Austria di «filtrare» i profughi, consentendo il passaggio solo a quelli intenzionati a fermarsi nei loro Paesi e respingendo chi vuole arrivare più a nord, ad esempio in Svezia, è contraria alla legislazione europea e al regolamento Dublino, che dimostra sempre di più la sua inadeguatezza. Infatti, il regolamento Dublino obbliga lo stato di primo approdo a farsi carico di esaminare la domanda d’asilo del richiedente e della relativa accoglienza. Se un richiedente arriva alla frontiera con uno qualsiasi dei Paesi dell’Ue è questo che deve farsene carico, oppure, se dimostra con prove solide che la responsabilità spetti a un altro membro dell’UE, rimandarlo a quest’ultimo. Non è chiaro quindi verso quale Paese e secondo quali regole Austria e Germania respingerebbero i profughi intenzionati a proseguire il loro viaggio in Europa.
La logica della selezione alle frontiere tra chi l’Europa considera «profughi» meritevoli di protezione e chi è considerato «migrante economico» da respingere risponde all’approccio hotspot promosso dalle istituzioni europee. Cosi come avviene negli hotspot di Grecia ed Italia, anche alle frontiere austriache e slovene si decide il destino delle persone senza rispettare la procedura prevista dalle direttive.
La scelta di selezionare i profughi, combinata alla sospensione di Schengen, produrranno molte difficoltà anche ai cittadini e alle cittadine europee, e molte controversie tra Paesi, oltre che tante ingiustizie nei confronti dei richiedenti asilo.
Ma non sarà certo l’egoismo di Austria e Slovenia o il razzismo di Stato a fermare chi vuole mettersi in salvo insieme alla propria famiglia. I motivi delle fughe si moltiplicano. Le stragi terroristiche si moltiplicano in tante parti del mondo, così come è successo nel cuore del nostro continente.
Gli stessi governi europei, mentre discutono di come fermare Daesh e il terrorismo, impegnano uomini, mezzi e ingenti risorse per impedire che le persone in fuga possano arrivare in Europa a chiedere protezione.
La conseguenza è che alle stragi di civili provocate dal terrorismo e dalla ‘guerra’ al terrorismo, si aggiungono quelle causate dalle politiche di gestione delle frontiere: quasi 60 morti solo nei primi giorni di gennaio.
Come se non bastasse, i governi adesso puntano anche a lucrare su chi fugge dalle guerre. La Svizzera e la Danimarca sembrano intenzionate a chiedere ai rifugiati di pagare per essere accolti. Dopo i trafficanti, arrivano i governi a taglieggiare i rifugiati!
Un’ulteriore lesione dei diritti umani, che getta benzina sul fuoco del razzismo dilagante e che contribuisce alla demolizione dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Nota redatta per l’associazione
Primalepersone in vista del prossimo Forum dell’economia sociale e solidale in programma a Bruxelles il 28.gennaio 2016
Poiché considero la questione dei profughi centrale per il futuro nostro e dell’Europa, cerco di chiarire e riassumere qui per punti le posizioni che sono andato definendo approfondendo il problema nel corso dell’ultimo anno e mezzo.
1. Migrazioni ed esodo, problema centrale
2. Insensate le politiche di respingimento
Dove respingerli? Rigettarli tra le braccia dell’Isis, o di suoi emuli, ormai presenti in quasi tutti i paesi da cui si originano quei flussi, accrescendo del pari le loro forze sia là che, per solidarietà, tra gli immigrati nei paesi europei? Non farebbe che moltiplicare sia i fronti di guerra fuori e dentro i confini dell’Europa, sia nuove e più consistenti migrazioni.
Stringere accordi con i governi dei paesi di origine perché li riaccolgano o li trattengono in patria? Non sono disposti a farlo nemmeno a caro prezzo (e il prezzo è comunque destinato a salire, e di molto, mentre i paesi europei meno esposti non sono assolutamente disposti a condividerlo). Lo ha dimostrato il vertice di La Valletta e lo dimostra la fragilità del cinico patto stretto dalla Commissione europea con Erdogan sotto la supervisione di Angela Merkel.
Costruire e gestire più o meno direttamente (anche se sotto il velo di un coinvolgimento dei governi locali) dei campi di concentramento – e, in buna misura, di sterminio – in cui rinchiudere tutte le persone in fuga o sbandate che cercano di effettuare o stanno intraprendendo un viaggio verso l’Europa? Quei campi raggiungerebbero presto dimensioni smisurate, e sempre più difficili da gestire.
3. Catastrofiche conseguenze delle politiche attuali
Ma l’esito più probabile di una politica di respingimento è quello di scaricare sui paesi di primo accesso che non possono erigere barriere fisiche ai confini (sostanzialmente Grecia e Italia) tutto il peso dei nuovi arrivi, chiudendo nei loro confronti le frontiere interne del resto d’Europa. Inutile dire che questo porterebbe rapidamente alla saturazione delle capacità di accoglienza (per quanto sommaria e mal gestita) di questi due paesi; ma anche delle loro capacità di respingimento: i rimpatri diventerebbero ben presto “affar loro”, mentre gli altri paesi membri “se ne lavano le mani”, come sta già succedendo con le ridotte quote di riallocazioni definite dalla Commissione europea.
E’ ciò che di fatto sta già succedendo con il cosiddetto “decreto di espulsione differita”: si abbandonano per strada senza soldi, senza documenti, senza riferimenti, senza la conoscenza della lingua, persone a cui è stato ingiunto di lasciare il paese a loro spese entro una settimana E’ come consegnarli alla clandestinità, alla criminalità, allo stupro, alla disperazione e alle mafie.
Ma se è ancora possibile fare questo giochetto con alcune centinaia di profughi, è evidente che non lo sarà più con le decine di migliaia che arriveranno. L’Italia non ha una politica su questa questione, perché nonostante le (molto recenti) uscite di Renzi sul tema, non ha mai posto il problema in sede Europea nella sua dimensione e drammaticità effettive. Ma una prospettiva del genere corrisponde alla dissoluzione dell’Unione.
4. Una prospettiva diversa
Per colmare questo vuoto demografico l’Europa dovrebbe “importare”, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali. Peraltro, fino al 2008, arrivava in Europa un milione di nuovi migranti economici all’anno, cioè quanti sono stati i profughi quest’anno.
Sono le politiche di austerità che, oltre a creare in Europa milioni di nuovi disoccupati, hanno trasformato in un problema l’assorbimento di nuove forze di lavoro proveniente da altri paesi. D’altronde, tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, UK compreso, avevano assorbito circa 20 milioni di profughi e di immigrati: 10 milioni dall’Est e 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa e dal Maghreb. La minaccia di un sovraffollamento è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide.
5. Servono politiche radicalmente diverse
6. Il mercato non può, serve l'intervento del Terzo settore
In Italia abbiamo ottimi esempi di questo lavoro, ma anche clamorose prove della sua degenerazione in organizzazioni come quelle di Buzzi (mero strumento o braccio armato della corruzione e della criminalità che alligna nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione pubblica). Il 28 gennaio di questo mese si terrò a Bruxelles il primo Forum europeo dell’economia sociale e solidale (SSE). E’ stato proposto che, tra le altre cose, venga messo all’ordine del giorno il ruolo che la SSE può e deve assumere nei confronti del problema profughi, lanciando un grande piano europeo per creare lavoro nei settori decisivi ai fini della conversione ecologica (agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, mobilità, riassetto del territorio e assistenza alle persone).
Un piano da affidare alle imprese – esistenti o da costituire – della SSE, in modo che l’inserimento lavorativo venga accompagnato da programmi personalizzati di inclusione sociale. Questa proposta è stata ascoltata con interesse ma non è stata sviluppata in modo adeguato. Nonostante tutto, nella maggioranza dei paesi europei, per lo meno nell’ambito della cosiddetta sinistra che fa capo al GUE, promotore del Forum, la centralità del problema dei profughi non viene ancora avvertita con l’urgenza che meriterebbe. Aggiungo che un piano di questo genere potrebbe avere un risvolto di grande interesse anche nell’ambito delle politiche di cosiddetto rientro, di cui parlerò in seguito.
7. Le condizioni per invertire la tendenza all'esoto
Ma il problema centrale è quello di creare dei circuiti in base ai quali agli arrivi possano corrispondere, anche se in misura minore, ma non irrilevante, dei ritorni volontari e delle motivazioni forti per farlo. Occorre considerare l’Europa e i paesi africani, ma anche quelli mediorientali, da cui provengono oggi i profughi e i migranti come un’unica grande area attraversata da interscambi non solo economici (necessariamente squilibrati per molto tempo ancora), ma anche culturali, sociali e civici.
Quei confini dell’Europa che l’Unione vorrebbe allargare riducendo i paesi di origine dei flussi migratori in avamposti della sua trasformazione in fortezza, occorre invece riuscire a farli percepire e vivere, innanzitutto nella coscienza dei cittadini europei, dei profughi e dei migranti di prima, seconda e terza generazione, come il perimetro di una nuova comunità euromediterranea ed euroafricana. Ma come? Dire che occorre “bonificare l’Africa” per fermare quei flussi è davvero troppo poco.
8. "Aiutiamoli a casa loro": ma come?
Il secondo modo è quello invocato da Salvini (ma, ahimè, sostenuto anche dalla Merkel) per cui stanziamenti anche molto più consistenti, posto che si trovino, vanno destinati prioritariamente a trattenere (e internare) profughi e migranti in strutture appositamente costituite nei paesi di origine o di transito dei flussi. Che ciò significhi nient’altro che dichiarare guerra ai migranti si è già detto.
Il terzo modo è tutto da costruire perché mira a rendere le comunità espatriate in Europa, cioè i profughi e i migranti (di prima, ma anche seconda e terza generazione) protagonisti di una politica di ricostruzione di un tessuto sociale ed economico in grado di offrire delle prospettive di maggior benessere anche agli abitanti dei paesi di origine. Profughi e migranti sono in gran parte la componente più istruita, più giovane, più intraprendente (quelli che hanno avuto la forza e l’iniziativa di affrontare un viaggio così pericoloso) della popolazione da cui provengono: un apporto che l’economia, la cultura e le società dell’Europa potrebbero valorizzare molto, mentre oggi lo svalutano, lo disprezzano e lo degradano.
Ma soprattutto sono una risorsa strategica per la costruzione di una grande comunità euroafricana ed euromediterranea. Sono persone che ancora intrattengono forti legami con le loro comunità di origine, o che possono facilmente riattivarli; che in Europa possono costruirsi o affinare delle competenze, delle conoscenze, delle professionalità, delle esperienze da mettere a disposizione dei loro paesi di origine con grande vantaggio per tutti, qualora se ne creino le condizioni. Non solo per reinserirsi nei loro paesi di origine, andando a occupare posizioni già esistenti, ma per creare opportunità e modalità di produzione di reddito e di ricchezza completamente nuove.
9. Condizione di base: riconoscimento politico delle comunitá espatriate
Prima ancora di pensare ai finanziamenti, o anche a progetti di cooperazione allo sviluppo - in gran parte pensati e progettati dall’esterno - occorre lavorare con le comunità di profughi e migranti nella prospettiva di aiutarli a rendersi attori e protagonisti di un nuovo processo di integrazione delle economie e delle società dei paesi di origine e di quelli di arrivo. Non credo che esistano alternative a una prospettiva del genere che non siano quelle prospettate nella prima parte di queste note; anche se realizzarla, soprattutto nel clima di ostilità crescente nei confronti degli immigrati chestiamo vivendo, sarà sempre più difficile.
I sottotitoli sono di eddyburg
Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il primo luglio del 2000, il ponte di Oresund ha unito ciò che la fine dell'era glaciale aveva diviso: cioè Svezia e Danimarca. Sedici chilometri, sette anni di lavoro, 14 euro di pedaggio (oggi), quel ponte è diventato il simbolo di un'Europa ricca e pacifica che si poteva attraversare in auto, senza confini, grazie all'accordo di Schengen che giusto l'anno prima aveva raccolto nuovi membri, contando tutti gli Stati dell'Unione europea tranne Irlanda e Gran Bretagna. Alla mezzanotte di domenica 3 gennaio 2016, la Svezia ha deciso di ripristinare almeno per un mese i controlli sul ponte di Oresund, con una sospensione temporanea di Schengen.