«Mentre al Brennero e su altri confini si alzano vergognose barriere, la Ue con il Migration compact cerca di spostare fuori dalle proprie frontiere controlli e concessione dei permessi per i profughi. Puntando sugli aiuti allo sviluppo. Che rischiano di finanziare governi autoritari e non fermano i flussi migratori».
Lavoce.info, newsletter 29 aprile 2016 (m.p.r.)
Il governo italiano ha preso l’iniziativa in Europa sul controverso tema delle migrazioni e dell’asilo, presentando un progetto, nelle intenzioni ambizioso anche se nei dettagli ancora molto vago, il . I commenti si sono appuntati quasi tutti sulle reazioni tedesche e sulla questione del finanziamento del programma, trascurando i contenuti o lasciando trasparire un consenso di fondo.
L’intento è chiaro e va nella direzione del senso comune: affidare ad altri i controlli, accogliere chi ne ha il diritto al di fuori dell’Europa, preservare l’Unione da scomodi obblighi umanitari, evitando i deplorevoli rimbalzi dei profughi all’interno dell’Unione Europea. Non per nulla, il modello a cui il testo s’ispira è quello del controverso accordo con la Turchia.
Il testo inizia parlando di un’Europa posta di fronte a fenomeni migratori “crescenti” e “senza precedenti”, in contrasto con dichiarazioni assai più pacate rilasciate anche nel recente passato dal presidente del Consiglio. Va ricordato ancora una volta: le migrazioni nell’Ue sono nel complesso stazionarie, intorno ai 51 milioni di persone compresi i 17 milioni di migranti intraeuropei, su circa 500 milioni di abitanti (Dossier immigrazione 2015). È aumentato soltanto il contingente molto più modesto, ma ingombrante, dei richiedenti asilo: 628mila domande nel 2014, comunque non molti rispetto ai numeri di Turchia, Libano, Giordania. L’86 per cento dei rifugiati mondiali continua a trovare scampo in paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Malgrado l’esordio, il assume una posizione meno rigida rispetto all’Agenda europea di un anno fa su un punto importante: l’apertura a nuovi ingressi legali in Europa anche per motivi di lavoro, in modo da offrire un’alternativa credibile agli arrivi illegali. Per il resto, tuttavia, i termini ricorrenti sono controllo dei confini, sicurezza, gestione dei flussi, rimpatri. Parole come diritti umani, protezione dei rifugiati sono pressoché assenti.
Il testo parla di gestione dell’asilo in loco secondo standard internazionali, ma evita di porre alcune serie questioni: come possono offrire una protezione umanitaria adeguata ai rifugiati stranieri paesi che non riescono a offrirla ai propri cittadini? E se lo faranno, grazie ai finanziamenti dell’Ue, come potranno controllare il risentimento di cittadini che riceveranno servizi assai più poveri di quelli forniti ai rifugiati? E come controlleranno i richiedenti asilo denegati, che prevedibilmente cercheranno di sottrarsi alle espulsioni?
Aiuto allo sviluppo o alla repressione?
Altri problemi riguardano le promesse di aiuto allo sviluppo. Sono sostanzialmente due. Il primo è il rischio di finanziare i governi autoritari e bellicosi che sono all’origine dei flussi di rifugiati, o comunque gravemente condizionati da corruzione e inefficienza. Il dubbio è che si intenda finanziare la repressione delle migrazioni e del diritto di asilo, più che lo sviluppo: una repressione più facile da attuare lontano dalle telecamere europee, dal controllo delle organizzazioni umanitarie e dai sussulti di umanità delle opinioni pubbliche occidentali.
Il secondo problema consiste nell’erronea persuasione che i migranti arrivino dai paesi più poveri e che lo sviluppo possa fermarli. È vero il contrario: le migrazioni sono processi selettivi, partono coloro che dispongono di risorse. Con lo sviluppo, aumentano le persone che trovano accesso al capitale economico, culturale e sociale necessario per partire. In una prima, non breve, fase, lo sviluppo quindi fa crescere e non diminuire il numero dei migranti. Solo nel lungo periodo si riducono le nuove partenze.
La promozione dello sviluppo è un obiettivo nobile, ma combinata con le pretese di controllo delle migrazioni finisce in un corto circuito. Del resto, nel mondo sanno bene che le rimesse degli emigranti forniscono aiuti ben più consistenti e tangibili delle promesse dei governi occidentali: le previsioni della Banca mondiale per il 2016 parlano di 610 miliardi di dollari inviati verso i paesi in via di sviluppo. La rincorsa del
Migration compact sarà ardua.
«Il passo che per secoli non era stato frontiera riscoprì la vita nel dopoguerra. Poi venne la stagione dei camion e quella dei transiti, di merci e di esseri umani, quando non si immaginava il ritorno delle barriere».
LaRepubblica, 30 aprile 2016 (c.m.c.)
Grüne Karte, chiedevano a mio padre. Dal finestrino della Giardinetta lui mostrava la carta verde dell’assicurazione e la Grenzpolizei gli faceva segno di passare. Dal sedile posteriore (avevo dieci anni) vedevo soltanto il cinturone di cuoio dell’agente e le ruvide braghe in lana cotta verde marcio. Si consumava così, con un frettoloso controllo di documenti, il passaggio al Brennerpass, alla fine degli anni Cinquanta. Con un brivido quasi afrodisiaco, si andava oltre, a comprare speck affumicato alla macelleria di Alois Flickinger, a Gries, un borgo di trenta case con campanile aguzzo. E poi Schüttelbrot, rhum, pane nero, mentine bianche. L’Austria per me aveva il profumo di quelle mentine. Con la stessa euforia, i “tedeschi” si calavano su Vipiteno (Sterzing) a fare incetta di bambole, gondolette di legno e vino da osteria nell’inverosimile bazar di Maria Bernmeister. Per loro l’Italia era odore di ragù e finanzieri meridionali gesticolanti. Arrivavano in sidecar o vecchi Maggiolino con gli occhi felici del nordico che entra nel Paese dei limoni.
La guerra era finita da non molto e uno su dieci di loro aveva una gamba sola o portava altri segni di invalidità. Gli attentati che nel nome della Heimat tiravano giù i tralicci del Sudtirolo non disturbavano gli affari dei bottegai sui due lati del passo. Per via dell’antiterrorismo, la frontiera era pattugliata dall’esercito, ma per noi il passaggio era una festa. Mio padre era ufficiale dell’Esercito e nelle settimane di ferie — d’estate o in inverno — soggiornava spesso con la famiglia negli alberghi militari, sistemati, lì come a Tarvisio, in ex caserme austroungariche. A Colle Isarco (Gossensass) fiumi di alpini uscivano con i muli in una scia di escrementi e anche in vacanza i militari di carriera vivevano un clima eccitante da Fortezza Bastiani. Certo, si andava a fare la spesa «di là», ma egualmente quella presenza armata era vissuta come necessaria per pattugliare il sacro spartiacque della Patria.
A pochi sembrava importare che per secoli il Brennero non fosse mai stato frontiera e che fino al novembre 1918 l’Austria avesse avuto il confine sul Garda. Brennero era il mio mondo e io lo vivevo inconsapevole di tutto. Del dramma delle opzioni e dei treni di ebrei che meno di quindici anni prima erano passati di lì diretti ad Auschwitz. Mia mamma mi aveva conciato con braghe corte di cuoio alla tirolese e un cappello da alpino verde scuro con penna di gallo e una quantità di stemmi colorati acquistati sui passi, dalla Svizzera alle Giulie. Andavo in gita al rifugio “Bicchiere” in fondo alla Val di Fleres, senza sapere che quel nome era la ridicola traduzione di Becker Hütte, e ogni domenica alle dieci aspettavo con ansia la banda degli Schützen ignaro del messaggio identitario implicito in quei tamburi e delle mie stesse radici (sono triestino) mitteleuropee.
I treni funzionavano meglio di oggi che c’è l’Europa unita. Lo scalo ferroviario del Brennero era un mondo. Locomotori esausti dopo la lunga salita da Fortezza. L’incontro con i rocciosi macchinisti delle Österreichische Bundesbahnen. Le case dei ferrovieri, personaggi mitici che mi portavano a funghi e sapevano come sconfinare senza farsi beccare dalla polizia, per mettere le mani sui porcini appena nati sotto il tappeto d’aghi degli abeti austriaci.
Un muratore enorme di nome Andreas Untertoller mi prendeva sulle ginocchia e mi parlava in un misto affascinante di tedesco e italiano. Il Brennero era il luogo dell’incontro e dello scambio.
Poi venne la stagione dei camion. I tubi di scarico annerivano la neve da novembre a marzo. Certe volte la fila cominciava a Mules, 25 chilometri prima. Il terrorismo era finito, a Bolzano si era instaurata una tesa non-belligeranza fra italiani e tirolesi, e io continuavo a sconfinare in allegria, stavolta con gli sci, per montagne intatte, senza impianti. A furia di soggiorni militari, avevo imparato ogni segreto delle valli. Le conoscevo meglio dei finanzieri. Si saliva con le pelli di foca per scendere a Obergurgl o raggiungere la Nürnberger Hütte in Stubaital. Chissà quante volte sarò passato sopra la mummia di Ötzi, padre di tutti i contrabbandieri, ancora sepolta nella neve. Imparai il tedesco in ospedale, a Vipiteno, dopo essermi rotto una gamba in un canalone. Sempre lì, sotto il Brennero.
La stagione dei nuovi muri era ancora lontana. L’Europa viveva la sua primavera, il confine non poteva che aprirsi di più, il Brennero era diventato una formalità. Nel luglio del 1989 sul treno per Innsbruck incontrai un viennese di nome Jozsef Barna, nato in Ungheria, dalla quale era scappato dopo la repressione sovietica del 1956.
Era un’altra storia di frontiera. Mi raccontò la sua fuga, la sua vita di immigrato che ce la fa. Guardò gli abeti in corsa fuori dal finestrino e disse: «La patria è quella che ti nutre, e io ho considerato subito l’Austria la mia nuova patria. Sono diventato austriaco. I nuovi immigrati non sono più così. Restano estranei». Pochi giorni prima la cortina di ferro era stata smantellata dai soldati ungheresi sulla stessa frontiera che lui aveva attraversato rischiando la pelle. Eppure il signor Barna era inquieto.
Con la guerra dei Balcani la macchina delle fughe si rimise in moto, e per il Brennerpass cominciarono a transitare bosniaci, kosovari, serbi. Molti si erano fermati in Italia, ma il sogno della maggioranza era il mondo tedesco. L’Austria fece il suo dovere, assorbì anche i ceceni in fuga dalla repressione di Putin. Per i nuovo arrivati era una pacchia. Assistenza statale, 2mila euro per le famiglie con tre figli, appartamento sovvenzionato. Lo slogan del sindaco di Vienna era « Humanität und Ordung »,umanità e ordine. Ma qualcosa nel meccanismo cominciava a incepparsi. La piccola Austria entrava in Schengen ma rischiava di non reggere all’urto. E l’inquietudine si trasformava in voti per i populisti di Jörg Haider.
Oggi il sistema scolastico di mezza Austria è collassato. Il 40 per cento dei bambini, immigrati o profughi, parla un tedesco che sarebbe inascoltabile al vecchio Jozsef. I nuovi arrivati sono osteggiati dagli immigrati di vecchia data, che spesso votano populista. Certe comunità, come i 30mila ceceni della Capitale, sono impossibili da integrare. Molti di essi vanno a combattere in Siria godendo dell’aiuto finanziario dello Stato austriaco. In alcuni quartieri si parla tutto meno che tedesco. Circolano bande divise per etnie; ceceni e afghani si affrontano col coltello. Il numero delle donne velate aumenta. Una femmina europea sola in certi quartieri ha problemi a entrare in un bar.
Dopo aver passato centinaia di volte questa frontiera, scusate se non me la sento di accusare l’Austria di troppa chiusura. Se Vienna ha sbagliato, è per troppa apertura. E noi Italiani — bravi a salvar vite ma meno bravi a integrare — dovremmo avere l’onestà di dire che questa grande fuga verso il Nord ci fa anche un po’ di comodo. Povero vecchio Brennero, non ti riconosco più. Troppa pressione. Ormai sono due anni che, quando prendo il mio treno transalpino per Monaco, vedo salire a bordo la polizia austriaca già a Rovereto, insieme a quella italiana. Questo già prima del clamoroso gesto di benvenuto di Angela Merkel nei confronti dei siriani.
Oggi, questa nuova barriera che nella primavera del 2016 taglia non solo l’Europa ma lo stesso Tirolo in due parti, fa assai più male del vecchio confine con la sbarra bianco-rossa. Oggi che sul confine ci somigliamo più di prima, oggi che dalle due parti governano lo stesso Globale, lo stesso spaesamento, le stesse tempeste finanziarie e migratorie, proprio oggi — in Austria come in Italia — sento diffondersi la pericolosa illusione che «chiudersi è meglio», alla maniera balcanica. E allora sento che c’era forse più Europa al tempo dei passaporti e della Grüne Karte.
Un esempio soft e un esempio hard con cui si guarda all'evento biblico dell'esodo dai paesi della miseria e del terrore: soggetti pericolosi per la "nostra" salute e per la "nostra" sicurezza, non uomini, donne e bambini che, come tutti, meritano d'essere difesi e curati.
Il Manifesto, 30 aprile 2016
UNA TESSERA SANITARIA
TRACCERA' I MIGRANTI
«Partiamo con il progetto tessere sanitarie ai migranti», ha annunciato la ministra della salute, Beatrice Lorenzin. La tessera – simile a una smartcard, con i dati sulla salute della persona, ma anche un software statistico che grazie a un algoritmo consentirà al medico in tempi stretti di valutare il rischio che un migrante ha di sviluppare particolari malattie infettive, fino a visite mirate per la determinazione dell’età dei ragazzi non accompagnati – rientra nel progetto Ue «Care», con l’Italia capofila con l’Istituto Nazionale Salute, Migrazioni e povertà (Inmp), e sarà consegnata da luglio negli Hotspot di Lampedusa e Trapani, oltre che in quelli degli altri paesi coinvolti (Grecia, Malta, Croazia, Slovenia).
«Tracceremo lo stato di salute di ogni singolo migrante che entra in Europa e garantiremo, allo stesso tempo, anche una maggiore sicurezza perché si introdurrà un elemento di tracciabilità delle persone in entrata», dice Lorenzin.
I migranti al di sotto dei 18 anni rappresentano circa il 30% degli arrivi. Molti di loro non sono accompagnati, capire quanti anni hanno gli adolescenti non è sempre facile.
«Fino ad oggi – spiega Gianfranco Costanzo, dell’Inmp, coordinatore del progetto Care – abbiamo utilizzato la radiografia del polso. Il nostro ministero della Salute ha messo a punto un metodo olistico multidisciplinare, approvato dalla Conferenza delle Regioni, che prevede una visita del pediatra auxologo e quella di un pediatra dell’età evolutiva. La loro valutazione incrociata, senza necessità di radiografie, permette una valutazione molto più precisa», aggiunge il coordinatore sottolineando che il progetto complessivo «è stato sviluppato per la tutela della salute del migrante. Un’attività che, se efficace, ha come conseguenza anche una maggiore tutela della salute della comunità di accoglienza», conclude Costanzo.
UN PIANO UE PER FERMARE I MIGRANTI.
CON «MISURE DRASTICHE»
L’Ue, in accordo con il nuovo governo libico sostenuto dall’Onu, sta preparando un piano per impedire «con misure drastiche» il flusso estivo di profughi dal Nord Africa attraverso la rotta mediterranea. Tra le misure, oltre alla creazione di «centri temporanei di raccolta per profughi e migranti» sul suolo libico, si menziona l’ipotesi di «aree di carcerazione». Lo rivela Der Spiegel online che ha visionato un documento di 17 pagine elaborato dal servizio europeo per l’azione esterna che sostiene l’attività dell’Alto rappresentante Ue. Sui centri raccolta e campi di detenzione, gli esperti Ue sottolineano la necessità di trattare con dignità e rispetto dei diritti dell’uomo i migranti e di prestare attenzione alle condizioni speciali di bambini e donne. Sul piano operativo si prospettano aiuti nella formazione di una guardia costiera e di una marina libica attraverso il supporto della missione marina antiscafisti Ue Sofia e nella costruzione delle infrastrutture di polizia e giustizia. Il documento evidenzia inoltre le difficoltà di individuare al momento interlocutori libici sicuri.
«L’Ue ha più volte detto di essere pronta a sostenere il governo libico in un certo numero di settori, incluso l’aiuto umanitario, la migrazione, la sicurezza. È stato ribadito anche all’ultimo consiglio Esteri. Il lavoro preparatorio è in atto, in particolare per sostenere la gestione delle frontiere, lottare contro la migrazione irregolare ed i trafficanti», così un portavoce dell’Unione europea, dopo la pubblicazione di Der Spiegel. «Il rispetto per i più alti standard dei diritti umani e delle leggi internazionali è al centro del nostro lavoro. E questo è il principale obiettivo del nostro lavoro preparatorio: dare sostegno alle autorità libiche affinché assicurino che la gestione di migranti e profughi in Libia sia in linea con questi standard, per assicurare loro condizioni dignitose – afferma il portavoce -. Continueremo a lavorare in stretto coordinamento con l’Unhcr e l’Oim per aiutare nella gestione dei flussi di migranti e richiedenti asilo».
«
Con l’aumento dei flussi scatta lo stato d’emergenza che bloccherà gli arrivi e rispedirà i profughi nei Paesi confinantiIl manifesto,
28aprile 2016 (c.m.c.)
Davanti al parlamento austriaco bambole stese per terra, simboleggiano le tante donne, uomini e bambini che la fortezza Europa ogni giorno condanna a morire. Le hanno portate lì insieme a bandiere rosse la Vsstöe e JG, le due maggiori organizzazioni giovanili socialiste furiose col loro partito, ultima di una valanghe di proteste contro il giro di vita del diritto d’asilo.
A Salisburgo gli attivisti del coordinamento per i diritti umani diritto si sono stesi sulla riva del fiume Salzach, ciascuno sotto un lenzuolo bianco. «Più si blinda, più morti si producono». Ma la logica del muro e della presunta emergenza immigrati non si ferma. Ieri sera il parlamento austriaco ha approvato il discusso pacchetto di emendamenti del diritto d’asilo. Durante le votazioni dalla galleria sono volati migliaia di volantini degli studenti del Vsstöe: «Non passate sopra i cadaveri, non è questo che vi farà rimanere a galla». La legge è passato con i voti dei partiti della coalizione di governo, socialdemocratici Spoe e popolari (Oevp) e il minuscolo Team Stronach. Verdi , Neos e quattro parlamentari Spoe contrari.
La xenofoba Fpoe che queste nuove misure ha sempre volute e propugnate, non contenta ha votato contro. Evidentemente ha già spostato la barra più in avanti. «E’ una legge placebo che ha solo un nuovo abito, a leggi già esistenti sono state aggiunte modifiche minimali» ha accusato Gernot Darmann del partito di H.C. Strache e della nuova star Norbert Hofer. Già adesso l’Austria sarebbe circondata da paesi terzi sicuri e quindi secondo le regole europee non avrebbe nessun obbligo di trattare domande d’asilo, ha ribadito il deputato di estrema destra. Cosa è cambiato? Intanto la nuova legge introduce l’asilo a tempo, che sarà dunque di tre anni e non più illimitato.
Dopo tre anni le condizioni del paese di provenienza verranno verificate per decidere se le ragioni d’asilo sussistono ancora. Può quindi scadere o a questo punto diventare illimitato. Una misura molto criticato dall’AMS, ufficio di collocamento lavoro perché mette una forte ipoteca sui programmi di integrazione e formazione appositamente approntati per il collocamento di rifugiati. Più difficile anche il ricongiungimento familiare, chi ha solo un permesso umanitario deve aspettare addirittura tre anni, e avere condizioni economiche adatte a mantenere la famiglia. Ma la parte più grave del pacchetto è il decreto che autorizza il governo di proclamare lo stato di emergenza per la ‘tutela della sicurezza e l’ordine pubblico’, una condizione particolare che permette di aggirare il diritto d’asilo.
Così un rifugiato che si presentasse al confine austriaco potrà essere respinto e rimandato indietro. Solo chi ce lo fa a trovarsi dentro il paese potrà chiedere asilo, cosa sempre più difficile visto i muri che crescono dal Brennero fino al confine orientale con la Ungheria. «Bisogna avere una visione complessiva del problema, voi lo riducete alla costruzione dei muri» ha detto Eva Glawischnig capogruppo dei Verdi accusando l’abolizione di fatto del diritto d’asilo e la violazione della costituzione «che non reggerà davanti alla Corte costituzionale».
Le forti critiche che hanno accompagnato l’iter della legge «Faymann sei Orban» si è beccato il cancelliere al congresso Spoe di Vienna, hanno costretto il governo di attenuarne alcuni aspetti, soprattutto anche la valenza temporale dell’emergenza, limitata a 6 mesi, prolungabile fino a due anni. Lo stato di emergenza però non c’è lo ha ammesso persino il cancelliere Faymann, si tratta di una misura preventiva, come quella della costruzione dei muri ai confini, nel caso si verificasse un afflusso eccezionale, perché non si ripeta l’esperienza dell’anno scorso quando decine di migliaia di rifugiati passavano i confini, incontrollati. Mesi di grazia. In quell’occasione ha dichiarato Norbert Hofer possibile futuro presidente dell’Austria lui avrebbe dimissionato il governo perché non ha tutelato gli austriaci.
Più di cinquanta grandi organizzazioni chiamate ad esaminarla hanno espresso un giudizio negativo sulla legge, dall’Unhcr alla conferenza dei vescovi, alla camera degli avvocati, l’istituto Ludwig Boltzmann per i diritti umani molte regioni e città, intere università oltre alla vasta galassia di associazioni e Ong. Unico giudizio positivo è venuto inaspettatamente dall’Oegb, la centrale sindacale austriaca e dalla camera del lavoro.
Il manifesto, 27 aprile 2016 (p.d.)
Diecimila minorenni. Se ne sono perse le tracce sul territorio europeo negli ultimi due anni e molti potrebbero essere finiti nelle mani di organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione. La notizia sembrerebbe inverosimile se i soggetti in questione non fossero migranti, categoria sistematicamente privata di alcuni dei diritti umani più basilari, anche dopo l’arrivo sui territori Ue.
A lanciare l’allarme sui bambini scomparsi è stata l’Europol, l’organismo di polizia a livello comunitario, che precisa che in Italia sarebbero 5mila. La questione è stata discussa giovedì scorso al Parlamento europeo durante una riunione della Commissione per le libertà civili a Bruxelles.
L’Europa si trova a far fronte a un’ondata di rifugiati senza precedenti nella sua storia recente e l’attuale impasse politica rischia di aggravare la situazione dei gruppi di migranti più vulnerabili, ovvero i più giovani. Oltre allo stress psicologico causato dalla separazione dalla propria famiglia, che avviene nel Paese di origine o in maniera accidentale nei luoghi di transito affollati come le frontiere o le stazioni ferroviarie, i bambini sono una categoria particolarmente a rischio di abusi in quanto vengono considerati dai trafficanti come veri e propri oggetti da smerciare sui mercati mondiali.
Tuttavia, non è solo il caso a far cadere i minori nelle mani dei criminali. Le condizioni di vita degradanti nei centri di accoglienza, la lunghezza insopportabile del processo burocratico per l’assegnazione dell’asilo e l’impossibilità di raggiungere il Paese europeo prescelto sono tutte ragioni che influiscono sulla scelta di molti giovani migranti di tentare la sorte e fuggire. La realtà è che esistono pochi dati certi riguardanti il destino di chi sceglie di seguire questa via. L’Ong per i diritti dei minori Save the Children stima che i bambini scomparsi in Europa siano addirittura 20mila, il doppio di quanto affermato dall’Europol.
Secondo i dati pubblicati dall’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 35% dei migranti arrivati nei territori dell’Unione Europea a partire dal primo gennaio 2016 è minorenne. Tra questi ci sono molti giovani che viaggiano senza un accompagnatore che si prenda cura di loro. Basti pensare che nel solo 2015 sono state oltre 85mila le richieste di asilo sporte da minorenni non accompagnati, una cifra triplicata rispetto al 2014. E se da un lato crescono in maniera esponenziale le cifre relative agli arrivi dei rifugiati in Europa, dall’altro aumenta anche il ricavo delle organizzazioni criminali specializzate nelle tratta di esseri umani.
L’Europol stima che il traffico di migranti clandestini abbia fruttato tra i 3 e i 6 miliardi di euro nel solo 2015. Un profitto destinato a «raddoppiare o a triplicare se la crisi dovesse proseguire nel 2016», veniva scritto in un rapporto ufficiale Europol pubblicato pochi mesi fa.
Un giro di vite contro gli scafisti e i criminali che gestiscono in maniera illegale i flussi di migranti è fondamentale, ha affermato davanti agli eurodeputati Dietrich Neumann, responsabile dei servizi corporate dell’Europol, poiché le organizzazioni che portano i migranti in Europa sono le stesse responsabili per la tratta degli esseri umani nei territori Ue. Nel database dell’agenzia finalizzata a combattere il crimine all’interno dell’Unione Europea ci sono oltre 40mila sospetti, di 100 nazionalità diverse. Tuttavia, le risorse attuali non bastano per combattere quello che, dati alla mano, è il mercato criminale con la maggiore crescita in Europa.
Non esiste ancora una proposta legislativa a livello comunitario per tentare di arginare questo fenomeno. L’incontro di giovedì scorso è servito anche a sondare il terreno per quanto riguarda le misure che possono essere adottate. Il democristiano olandese Jeroen Lenaers ha proposto di iniziare a registrare in maniera sistematica anche i migranti al di sotto dei 14 anni, cosa che al momento non avviene in Europa. Secondo Lenaers, in questo modo si eviterebbe che i minori possano scomparire del tutto dai radar dei Paesi membri dell’Ue.
Diverso invece l’approccio di Barbara Spinelli che ha puntato il dito contro i governi responsabili di trattamenti disumani nei confronti dei migranti, fattore che spinge sempre più giovani a una fuga disperata dai centri di accoglienza. In particolare, secondo Spinelli, la mancanza di cibo distribuito ai bambini è uno dei dati più preoccupanti. «A Chios a bambini di 6 mesi vengono dati 100 millilitri di latte al giorno» ha spiegato Spinelli, chiedendosi «se non sia il caso di considerare la riduzione drastica del latte dato a un neonato come una forma di tortura perseguibile come tale».
Anche Laura Ferrara, eurodeputata del Movimento 5 Stelle, ha espresso un parere critico nei confronti delle condizioni di vita nei centri di accoglienza per migranti. Secondo Ferrara, la mancanza di tutori volontari e la conseguente nomina del gestore del centro stesso come tutore temporaneo delinea un chiaro conflitto di interessi. D’altro canto, riferisce l’eurodeputata pentastellata, ci sono casi in cui un singolo tutore volontario è responsabile allo stesso tempo per 70 minori non accompagnati, il che rende «umanamente impossibile» riuscire a seguire con la dovuta attenzione ogni bambino.
Secondo numerose Ong che lavorano in questo campo, la creazione di una normativa europea comune servirebbe a permettere la condivisione delle informazioni riguardanti i minori scomparsi, consentendo dunque di allargare la ricerca di un giovane migrante scomparso a più Paesi.
Al momento invece la risoluzione del problema grava sui singoli governi, che raramente scelgono di unire i loro sforzi. Ad oggi, quindi, la certezza è una sola: l’Europa non è in grado di dire cosa sia successo a queste migliaia di bambini scomparsi sul suo territorio.
Il manifesto, 27 aprile 2016 (p.d.)
Presso la stazione ferroviaria di Liverpool Street, nell’East End londinese, da qualche anno sorge un piccolo memoriale in bronzo dell’artista Frank Meisler: cinque figure di bimbi con rispettivi bagagli, appena scesi dal treno e in attesa di qualcuno che li accolga. Sono i bambini del Kindertransport, il programma di evacuazione nel Regno Unito dei figli di famiglie ebree vittime della Shoah provenienti dal Reich organizzato da Sir Nicholas Swinton, lo Schindler britannico.
Tra loro vi era un piccolo cecoslovacco di 6 anni, Alfred Dubs. Che oggi è un Lord laburista responsabile delle politiche d’immigrazione e che si è fatto promotore di un emendamento all’Immigration bill discusso ai Comuni lunedì. L’emendamento, bipartisan e votato dalla camera alta, avrebbe costretto il governo a farsi carico di 3000 bambini siriani non accompagnati sparsi per i campi profughi d’Europa. Ma è stato sconfitto per un pugno di voti, 294 a 276, dopo una giornata di forti pressioni disciplinari esercitate dai capigruppo tory per sedare fastidiosi sussulti d’umanità nei deputati le cui coscienze rifiutavano di ammutolire in nome della realpolitik: in molti, piuttosto che votare contro il proprio partito, si sono astenuti.
La giustificazione del governo e dal ministro dell’interno Theresa May, è ormai ben nota ed è la medesima addotta per accelerare l’abbandono dell’operazione di soccorso nel Mediterraneo Mare Nostrum: entrambe avrebbero incoraggiato il cosiddetto «fattore di attrazione» (pull factor) alle percentuali di persone che scelgono di intraprendere il proprio viaggio verso una vita più umana. Ma arriva dopo una serie di contorsioni sull’argomento, tra cui l’annuncio, la scorsa settimana, che il governo avrebbe accolto 3000 bambini provenienti da campi profughi in Medio Oriente e non in Europa, nel tentativo, evidentemente poi riuscito, di dare un contentino alle coscienze più lacerate tra le sue file.
James Brokenshire, ministro per la sicurezza e l’immigrazione, ha detto che ogni risposta alla crisi «deve fare attenzione a non creare inavvertitamente una situazione in cui le famiglie trovino vantaggioso mandare avanti i bambini da soli o nelle mani di trafficanti, mettendo le loro vite a repentaglio tentando rischiose traversate via mare verso l’Europa.»
Alla fine solo 5 deputati conservatori hanno votato a favore, tra cui Geoffrey Cox, Tania Mathias e Stephen Philips. Per far passare il diniego, il governo ha fatto ricorso a quella che i detrattori hanno definito una «tattica disperata», la norma detta del financial privilege, che consente alla camera dei comuni di “disobbedire” alle prescrizioni dei Lords qualora un emendamento venga ritenuto economicamente oneroso per il cittadino.
Dunque più di settant’anni dopo aver dato una luminosa lezione al mondo in accoglienza e umanità, e di fronte alla crisi umanitaria più grave proprio dalla seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna decide di fare il contrario: sbatte la porta in faccia a 3000 di quei 10000 bambini identificati dall’Europol come dispersi nel vecchio continente durante la fuga dagli orrori della guerra in casa propria e che già sono (o rischiano di diventare) vittime di abuso di sostanze, lavoro minorile e violenze sessuali. E per farlo, imbocca senza imbarazzo un pertugio costituzionale abbastanza meschino.
Immediata e sdegnata la reazione delle Ong e di alcuni deputati Labour e Libdem propugnatori dell’emendamento: l’esito della votazione è stato accolto con una gragnuola di «vergogna» dai banchi dell’opposizione. Per Kirsty McNeill, di Save the Children, il voto è stato «profondamente deludente», il ministro-ombra per l’immigrazione, il laburista Keir Starmer, ha promesso battaglia: «Non possiamo voltare le spalle a questi vulnerabili bambini in Europa: la storia ci giudicherà per questo. La lotta continua» ha detto ai microfoni di Bbc Radio 4.
Se al posto del governo che nel 1939 decise di dare asilo ai bambini in fuga dalla delirante violenza del terzo Reich ci fosse stato quello guidato da David Cameron, Lord Dubs non sarebbe fra noi. Forte anche di questa consapevolezza il peer laburista ha riproposto ieri l’emendamento alla camera dei Lords – dove il governo è in minoranza – in una versione più soft, senza specificare la soglia dei 3000. Il secondo tentativo è stato approvato con una maggioranza schiacciante di 107, e alcuni deputati Tory potrebbero ora approvarlo nel prossimo passaggio ai Comuni.
La follia inumana dei respingimenti selezionati sulla base delle origini o delle ragioni dell'esodo, l'illusione di poter erigere barriere più alte dall'oceano della disperazione che avanza,. la necessità di un impegno più vasto da parte di chi ragiona.
Il manifesto, 26 aprile 2016
La prevedibile avanzata della destra nelle elezioni presidenziali austriache, in gran parte ascrivibile a una diffusa e fomentata fobia per i profughi, dovrebbe indurci a una riflessione.
Primo, il loro arrivo è inarrestabile e destinato a crescere per decenni. Secondo, spacca la società tra chi vuole respingerli e chi accoglierli lungo una faglia profonda che non coincide con i confini tra partiti, culture politiche e classi sociali, ma le attraversa. Terzo, mette in conflitto tra loro gli Stati membri dell’Unione europea trascinandola verso la dissoluzione. Quarto, taglia la regione che gravita intorno all’Europa tra chi rivendica il più elementare dei diritti umani, quello alla vita, che il paese da cui proviene non garantisce più, e chi glielo sta negando.
Di fronte a questi fatti occorrerebbe però farsi due ordini di domande che l’establishment che governa l’Unione europea non sembra porsi.
Innanzitutto, chi sono quei profughi, che cosa cercano, da dove vengono, che cosa li ha fatti fuggire dalle loro terre? Che cosa succederà se continuiamo a cercare di respingerli? E che cosa si deve fare se invece vogliamo accoglierli?
L’establishment cerca di nascondere l’incapacità di confrontarsi con queste domande dietro alla distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, contando di potersi sbarazzare della maggior parte di loro. Una “selezione” (di cupa memoria) effettuata distinguendo i rispettivi paesi di origine tra Stati insicuri, perché in guerra, e Stati sicuri, da cui non avrebbero il diritto di fuggire.
Ma nessuno degli Stati da cui proviene la maggior parte di quei profughi è sicuro: sono tutti attraversati da conflitti armati o preda di feroci dittature. Territori diventati invivibili per le devastazioni prodotte dalla guerra, o dallo sfruttamento inconsulto delle risorse, o da un disastro ambientale, o dai cambiamenti climatici che in Africa e Medio oriente fanno sentire i loro effetti molto più che da noi.
Guerre, conflitti armati, dittature e crisi ambientali si intrecciano; sono il deterioramento o il saccheggio delle risorse locali, in larga parte riconducibili all’operato di imprese occidentali o delle economie emergenti, ad aver scatenato quei conflitti, tenuto in piedi quelle dittature, provocato quella fuga. Per questo, in realtà, sono tutti profughi ambientali: una categoria destinata a dominare il panorama geopolitico dei prossimi decenni anche se che le convenzioni internazionali non la contemplano.
E’ ciò di cui non tengono conto i fautori del respingimento, oggi in grande avanzata in tutta Europa, anche perché le forze di governo dell’Unione ne fanno proprie le pretese per cercare di trattenere i loro elettori: l’indecente accordo con la Turchia ne è un esempio; la barriera al Brennero un altro. Dimostrando di non sapere che cosa fare per governare il problema non fanno che alimentare la paura tra gli elettori; il che li spinge ad accrescere le misure liberticide in una spirale senza fine. Ma in che condizione precipiterà l’Europa se continuerà a cercare di respingere verso i paesi di origine o di transito, cioè verso guerre, fame e feroci dittature, chi cerca di varcare i suoi confini?
Si renderà responsabile di uno sterminio – in mare, nei deserti o nelle prigioni di quei dittatori – di centinaia di migliaia e – chissà? – milioni di esseri umani. Nessuno potrà più dire “io non sapevo”, come al tempo dei nazisti: quelle cose la televisione ce le porta in casa tutti i giorni, anche se non nella dimensione e con la crudeltà con cui vengono perpetrate. I paesi che circondano l’Europa si trasformeranno così in teatri permanenti di guerra in cui per noi europei, in pace o in armi, sarà sempre più difficile andare. Altro che turismo, sviluppo economico, cooperazione internazionale e “aiutiamoli a casa loro”! L’Europa sarà sempre di più una fortezza protetta dal filo spinato, dove si finirà per sparare per difendere i confini: non solo quelli “esterni”, ma anche quelli tra Stato e Stato, perché le “infiltrazioni” avverranno comunque; e in massa.
Per gestire un regime di guerra continua, non contro un esercito, ma contro un popolo di disperati che cerca solo di salvarsi, i governi europei diventeranno sempre più autoritari e antidemocratici, impediranno con forza ogni contestazione e si metteranno in guerra anche con quella parte della propria popolazione – gli immigrati di prima, seconda e terza generazione – tra le cui fila crescerà il rancore di cui si alimenta il terrorismo. Con una popolazione destinata a invecchiare senza ricambio e senza incontri e scambi fecondi con altre culture, l’Europa si condanna così al declino politico, culturale ed economico: negando a figli e nipoti quel magro “benessere” che oggi pensa di difendere.
Certo, anche accogliere non è facile. Non basta la dedizione di decine di migliaia di volontari contro il feroce sfruttamento dei migranti da parte delle tante organizzazioni criminali a cui il governo italiano ha consegnato la loro gestione. Quei volontari sono l’avanguardia senza voce, perché coperta da quella cinica e roboante dei fautori dei respingimenti, di uno schieramento sociale alternativo che può contar già oggi su diversi milioni di sostenitori e migliaia di intellettuali, artisti e operatori cui non è stata ancora offerta la possibilità di tradurre il loro sentire in proposte politiche di ampio respiro.
Ma quelle proposte ci sono ed emergono sempre più in documenti che circolano da tempo in Europa: sono il rigetto delle politiche mortifere di austerity, la rivendicazione di un taglio agli artigli della finanza, il progetto di una svolta radicale verso la sostenibilità ambientale: energia, agricoltura, gestione delle risorse, edilizia, mobilità, istruzione. Sono i campi di una conversione ecologica in grado di creare lavoro vero, le cui finalità possano essere condivise liberamente e il cui carico venga redistributivo tra tutti coloro, sia disoccupati e occupati europei che profughi in arrivo, che vogliono contribuire a rendere l’Europa più accogliente e vivibile.
E’ una svolta che richiede di impegnarsi fin d’ora non solo nella sua progettazione, ma anche nella sua articolazione in mille iniziative locali, cominciando a verificarne la fattibilità, mobilitando le risorse offerte sia dal conflitto che dalla partecipazione, e coinvolgendo, possibilmente, i poteri locali. Ed è anche l’unica politica praticabile per promuovere la pacificazione nei paesi di provenienza dei profughi e una loro libera circolazione per renderli protagonisti una vera cooperazione internazionale dal basso. Contro chi fa del respingimento la sua bandiera occorre portare l’accoglienza al centro di uno schieramento sociale e politico alternativo che faccia appello sia alla ragione che al cuore. Non è un problema tra gli altri; è il centro dello scontro in atto.
L’Eurodeputata Barbara Spinelli analizza la sciagurata proposta che l'italiano Renzi ha inviato a Bruxelles: e ne segnala puntualmente i 10 punti più preoccupanti. In sintesi, «disinteresse totale sui diritti umani».
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2016 (p.d.)
La lettera inviata dal presidente del Consiglio Renzi al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unitamente all’allegato “Patto sulla migrazione”, denotano un’impressionante indifferenza alle obiezioni rivolte alle politiche comunitarie dall’Alto Commissariato dell’Onu sui rifugiati, da Human Rights Watch e da Amnesty International. Sono del tutto ignorati i sospetti d’illegalità che gravano sull’accordo tra Unione e Ankara, e le reali condizioni dei fuggitivi rimpatriati in Turchia, che il governo Erdogan respinge in gran numero (un migliaio negli ultimi 6-7 mesi, compresi bambini non accompagnati), nelle zone di guerra siriane da cui erano originariamente scappati.
Si continua a parlare di “crisi dei migranti”, quando è ormai evidente che siamo alle prese, da anni, con una crisi di rifugiati. O per meglio dire: di una crisi dell’Unione e della sua capacità di fronteggiare un afflusso di rifugiati pari allo 0,2% della sua popolazione. Del tutto assente, nella lettera della presidenza del Consiglio come nell’allegato non paper, qualsiasi accenno all’obbligo di rispettare i diritti della persona e il principio del non-refoulement, da parte degli Stati europei come dei Paesi terzi. Simile omissione non sorprende, se si considera il piano nel suo insieme. Anche se largamente contestato, l’accordo con la Turchia è presentato come ammirevole modello per una serie di accordi simili: un modello che secondo Renzi deve essere “ulteriormente sviluppato” ed esteso ad altri Paesi africani, e in particolare a quelli che sono parte del processo di Khartoum e di Rabat (tra cui Paesi dominati da dittatori come Eritrea o Sudan). Obiettivo: una grande trattativa euro-africana, con forti promesse di assistenza finanziaria, per i rimpatri dei rifugiati e la “gestione delle frontiere” da parte dei Paesi terzi, sia di transito che di origine. Ecco i 10 punti più preoccupanti della proposta italiana:
1) La disgregazione dello spazio Schengen sarebbe dovuta alla “sfida migratoria”, e non a precisi difetti dei successivi Piani di azione adottati da Commissione e Consiglio dell’Unione, rivelatisi incapaci di una politica di asilo rispettosa delle leggi europee e internazionali (Carta europea dei diritti fondamentali; Convenzione di Ginevra).
2) Nessuna menzione è fatta di altri punti di crisi geopolitica, a parte quello siriano. Nessun accenno alla guerra in Afghanistan, cui il governo italiano continua a partecipare senza render conto dell’evoluzione del conflitto. Nessun accenno al caos creato dall’intervento militare in Libia del 2011. Nessun accenno alla dittatura in Eritrea, da cui fuggono in migliaia.
3) Discutibile la valutazione della rotta Mediterraneo centro-occidentale, riattivatasi dopo la chiusura di quella balcanica. La rotta verso l’Italia è descritta come “prevalentemente composta da migranti economici”, senza che siano fornite cifre attendibili e operando distinzioni arbitrarie e sbagliate.
4) Nel proporre l’accordo Ue-Turchia come modello di un globale piano di rimpatri, il governo italiano invita a valutare una serie di caratteristiche dei Paesi di origine e di transito da cui partono i fuggitivi (trend economici e sociali, sicurezza, cambiamento climatico) ma non il rispetto dei diritti delle persone, e in particolare di chi sceglie di chiedere asilo fuggendo verso Paesi rispettosi di tali diritti.
5) Il grande Patto Unione-Paesi terzi africani contempla una cooperazione globale e indiscriminata, poliziesca e giudiziaria, concernente la gestione della sicurezza lungo i confini del Paesi terzi, la “comune” lotta ai trafficanti, al terrorismo, alla droga: mescolando quello che non può essere mescolato.
6) Lo scopo è solo quello di ridurre la cosiddetta migrazione irregolare, omettendo di ricordare come tutti i rifugiati siano per definizione migranti irregolari.
7) Nella cintura del Sahel (Nord Senegal, Sud Mauritania, Mali centrale, Nord Burkina Faso, Sud Algeria, Niger, Nord Nigeria, Sud Sudan, Ciad, Nord Eritrea) si propone una presenza poco definita di forze di stabilizzazione europee, che collaborino con i Paesi in questione nell’ambito della sicurezza sia esterna che interna, senza chiedere il rispetto delle leggi internazionali.
8) In Libia si torna a prospettare un ulteriore sviluppo dell’operazione Eunavfor Med Sophia, e si pone l'accento sulla necessità di aiutare il governo più che fragile a fronteggiare sfide radicalmente diverse come i trafficanti, il terrorismo, il “management dei flussi migratori”. Si vuol “stabilizzare la Libia” per meglio rimpatriarvi i rifugiati, come nell’accordo Berlusconi-Gheddafi del 2008.
9) La gestione del Migration Compact proposto dal governo Renzi è essenzialmente affidata alle nuove Guardie di frontiera dell’Unione. I compiti di Frontex vengono estesi, senza alcun accenno alle deficienze insite in un’Agenzia dell’Unione di natura poliziesca, che non si occupa, se non in casi di estrema necessità, della ricerca e soccorso dei fuggitivi minacciati da naufragi in mare, e che ha dimostrato di non esser congegnata in maniera tale da rispettare pienamente i diritti dei rifugiati, permettendo loro di appellarsi a meccanismi di garanzia giuridica e di ricorso in caso di respingimenti abusivi o collettivi.
10) In questo quadro, l’accenno alle vie d’immigrazione legale – e alle “opportunità” che essa rappresenta dal punto di vista economico e demografico – assume un significato preciso e altamente restrittivo. Le vie si apriranno solo nella misura in cui le imprese europee si mostreranno interessate all’impiego di manodopera proveniente da Paesi terzi. Il riferimento è a una decisione presa dal Consiglio europeo nel 1999: ben prima che nascesse in Europa la crisi odierna dei rifugiati. L’espediente è notevole: si torna agli anni 90, fingendo che il presente non esista.
«In Europa l’apprensione è stata generata dall’immagine di disorganizzazione e di mancanza di solidarietà tra gli Stati europei. Se i flussi fossero stati gestiti diversamente, si sarebbe evitata una paura crescente». Intervista di Maurizio Caprara a Filippo Grandi,
Corriere della Sera, 18 aprile 2016 (m.p.r.)
«I movimenti di popolazioni sono inevitabili. Respingere i migranti con le barriere è un’ingenuità». Così dice al Corriere il responsabile Onu, Filippo Grandi.
«Certo in Italia non è in corso un’invasione. E se si riescono a trovare gli strumenti europei per rispondere all’attuale flusso di profughi non ci sono motivi di apprensione», ha detto al Corriere della Sera Filippo Grandi, l’alto commissario dell’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, dopo essere intervenuto ieri all’assemblea generale della Commissione Trilaterale riunita a Roma. L’Unhcr, sigla di United Nations High Commissioner for Refugees, è una struttura dotata di antenne utili per farsi un’idea non improvvisata su che cosa si muove nel mondo, sugli spostamenti di massa: è costituita da 9.700 persone al lavoro in 126 Paesi per assistere 60 milioni di profughi. Grandi è il primo italiano a guidarla.
Lontano dai luoghi di impatto e concentrazione dei flussi, la realtà è davvero quella allarmante che si percepisce guardando alcune trasmissioni in tv o leggendo molte dichiarazioni politiche? E le risulta che nei primi tre mesi e mezzo del 2016 gli sbarchi in Italia abbiano aumentato gli arrivi di profughi e migranti del 55% rispetto al 2015?
«La nostra lettura è che al 15 aprile c’è stato l’11% in più di arrivi rispetto allo stesso periodo del 2015. Si è registrata un’intensificazione in gennaio e in marzo. Occorre vedere che cosa accadrà quando sarà passato più tempo dalla chiusura della rotta di passaggio dal Medio Oriente alla Turchia».
C’è chi teme più sbarchi di siriani. Ha senso temerlo?
«Per adesso verso l’Italia si è registrato un leggero aumento di arrivi di persone da tempo bloccate in Libia, per lo più africane. Bisognerà vedere se aumenteranno i siriani e altri da quella regione, in quel caso significherà che si è sviluppato un nuovo percorso dal Medio Oriente. Comunque sarà impossibile fermare questo fenomeno soltanto con strumenti di chiusura».
Perché?
«I movimenti di popolazioni, oggi, sono inevitabili. La tecnologia che noi abbiamo in Occidente per i nostri spostamenti è a disposizione anche di chi si muove da Paesi meno abbienti e dei trafficanti di esseri umani. Che si tratti di rifugiati o di migranti per ragioni economiche credere di respingerli con barriere è un po’ ingenuo. Capisco che dal punto di vista elettorale possa servire dirlo. Sul breve periodo. Ma il problema si ripresenterà».
E perché secondo lei non dovrebbe derivarne apprensione?
«In Europa, oltre che dalle propagande alle quali accennavo, l’apprensione è stata generata l’anno scorso dall’immagine di disorganizzazione e di mancanza di solidarietà tra gli Stati europei. Se i flussi fossero stati gestiti diversamente, si sarebbe evitata una paura crescente».
Le sembra mancata capacità di decidere o di agire?
«Le decisioni erano positive quando l’estate scorsa l’Europa, anche se non tutti i suoi Stati, ha stabilito di ricollocare al suo interno rifugiati venuti da fuori. Però poi la redistribuzione non è stata applicata. Così ci sono stati arrivi non coordinati in Germania, Svezia e Austria, con impressione di disordine. E si è avuto un imbottigliamento totale in Grecia, un Paese nel quale adesso si trovano oltre 50 mila persone in più e al quale andrebbero aumentati gli aiuti».
Ripartire i rifugiati in base a quote tra Stati dell’Unione Europea avrebbe ridotto le presenze in Italia, Paese che comunque per molti di loro non è la meta finale. Quali altri effetti avrebbe prodotto la «ricollocazione»?
«Si sarebbe dimostrato che il problema era gestibile. La scelta in seguito è stata di “esternalizzare” (come le aziende che assegnano a esterni servizi prima forniti dalle stesse imprese, ndr ) i confini europei. È il senso dell’accordo con la Turchia».
Quanto conta come fattore di attrazione di migranti il mercato nero del lavoro?
«Noi ci occupiamo di rifugiati, ma anche il resto è sotto i nostri occhi. Se organizzare meglio i flussi è una parte della risposta a questo fenomeno, farlo per i migranti economici è fondamentale. L’Europa ha bisogno della forza-lavoro derivata dalle emigrazioni. L’importante è offrire alternative organizzate ai canali attuali, e ciò darebbe una spallata ai movimenti irregolari. Per riuscirci però occorre agire su grandi numeri. Oggi si parla di invasione, ma in realtà…».
In realtà?
«…i migranti arrivano irregolarmente e quindi possono essere più facilmente sfruttati».
Quali sarebbero le strade adatte secondo lei?
«Il gesto di papa Francesco a Lesbo è stato eccellente. Prendendo con sé tre famiglie di rifugiati siriani ha dato l’esempio, e il suo non poteva non essere simbolico. Si darebbe un colpo a trafficanti e scafisti se nell’Ue e nel mondo si predisponessero per il 10% dei profughi siriani - circa 400 mila persone su oltre 4 milioni adesso raccolte in prevalenza in Libano, Giordania e Turchia - canali legali con ricongiungimenti familiari, borse di studio, visti umanitari privilegiando i più deboli. Poi occorre agire per fermare le guerre, anche se richiede tempo».
«Soluzione simile all’accordo con la Turchia. Palazzo Chigi convince le capitali dell’Unione». In sintesi: Prendere tutti i finanziamenti europei destinati all'Africa e affidarli a governi corrotti perché impediscano ai loro popoli di uscire dai confini, «anche grazie a soldi e tecnologia Ue». Una felice intuizione della coppia Merkel-Erdogan ripresa e sviluppata da Matteo Renzi. La Repubblica, 16 aprile 2016
Migration Compact, la proposta italiana per risolvere la crisi migranti che ieri Matteo Renzi ha inviato alle istituzioni europee. L’accoglienza a Bruxelles è stata buona e diversi governi, anche quelli dell’Est contrari ad una gestione comune dei flussi, sembrano d’accordo con l’approccio “contrattuale” proposto dall’Italia verso i paesi terzi, in particolare quelli africani: offrire soldi e aiuti in cambio di un impegno a bloccare le partenze verso l’Europa. L’Italia però preme, vuole che l’Unione segua questa strada molto rapidamente.
DIMENSIONE ESTERNA
La filosofia del Migration Compact è quella di concentrarsi su tutti i paesi terzi nello stesso modo con il quale un mese fa sono state chiuse le rotte dalla Turchia. Soldi in cambio di collaborazione. Altrimenti tutte le misure proposte fin qui dall’Unione, come la redistribuzione automatica dei richiedenti asilo tra i 28 o la guardia di confine e costiera Ue, non risolveranno la crisi. D’altra parte dalla Libia arrivano migranti economici, non richiedenti asilo, dunque non riallocabili negli altri paesi europei e destinati a restare da noi. Per questo secondo il governo occorre tamponare i flussi nei paesi di origine e transito in Africa.
AFRICA BONDS
Nelle 4 pagine del documento italiano prima vengono le offerte ai paesi africani. Innanzitutto, mettere in piedi un Fondo europeo per gli Investimenti nei paesi terzi nel quale stornare tutti i soldi che oggi l’Europa usa per l’Africa da destinare a opere socialmente utili. Secondo, creare gli Ue-Africa Bonds per aiutare i partner africani a investire in crescita e innovazione. Terzo, privilegiare la collaborazione sui migranti in tutti i programmi Ue in Africa e creare missioni regionali per gestire i flussi. Quarto, regolare i migranti economici con quote di ingresso destinate solo a chi conosce la lingua e ha frequentato corsi preparatori. Infine, compensare i costi dei paesi africani che adotteranno il diritto di asilo per gli stranieri.
STOP ALLE PARTENZE
In cambio di queste offerte nella logica del “ do ut des”, i paesi di origine e transito devono garantire controlli effettivi delle frontiere e una riduzione dei flussi verso l’Europa (anche grazie a soldi e tecnologia Ue). Rimpatri da parte dei paesi di transito di chi non ha diritto all’asilo (perché proveniente da una nazione sicura) anche grazie al finanziamento Ue di programmi di reinserimento di chi viene rimandato a casa. I paesi terzi devono essere poi aiutati a costruire un sistema e le infrastrutture per accogliere i migranti: tra questi chi avrà diritto all’asilo potrà entrare in Europa con uno schema di ripartizione tra i 28. Si chiede che la nuova Guardia di frontiera Ue finanzi i rimpatri dal paese di transito a quello di origine. L’Italia propone di istituire dei Common Eu migration Bonds, obbligazioni europee per coprire i costi (molto alti) del piano.
LIBIA
C’è infine un capitoletto nel quale si sottolinea la necessità di stabilizzare la Libia. Renzi nella lettera di accompagnamento del Migration Compact fa capire che proprio con Tripoli sarà necessario stringere un patto come quello tra Europa e Turchia.
RISPOSTA UE
Nei primi contatti informali è emerso che a molti governi piace la filosofia del piano italiano. Anche a quelli dell’Est (contrari all’accoglienza, favorevoli a spendere in Africa per sigillare le frontiere esterne). Inoltre Juncker e Mogherini stavano già lavorando in questa direzione e la speranza di Roma è che un consenso politico delle Cancellerie permetta loro di accelerare i tempi. Al governo non interessa che tutti i dettagli del Migration Compact si trasformino in iniziative Ue, ma vuole che lo schema di fondo sulla dimensione esterna dei flussi venga portato avanti in fretta, altrimenti le misure prese finora si dimostreranno inutili e l’Italia rischierebbe di trovarsi da sola alle prese con ondate di migranti in arrivo dalla Libia. Già lunedì Mogherini in Lussemburgo presenterà ai ministri degli Esteri e della Difesa una serie di iniziative immediate preparate prima della lettera italiana (per un piano strutturato sul quale sta già lavorando ci vorrà più tempo): ingresso in acque libiche della missione navale Ue contro gli scafisti o, se il premier Al Sarraj si dovesse opporre, cooperazione con la guardia costiera libica per la formazione del personale, missioni congiunte, scambio di informazioni, equipaggiamenti, ruolo dell’Unhcr nella gestione dei migranti. Inoltre sono in via di finalizzazione diversi accordi con i Paesi di origine e transito.
Due punti di vista su un problema cruciale dei nostri giorni (e degli anni futuri) che collimano, e che sono entrambi contro la corrente dominante. Articoli di Luca Kocci e intervista di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti.
Il manifesto, 14 aprile 2016
A LESBO, SOLIDALE
CON I MIGRANTI
di Luca Kocci
«Sabato prossimo mi recherò nell'isola di Lesbo, dove nei mesi scorsi sono transitati moltissimi profughi»
La notizia era già nota da qualche giorno, ma ieri mattina, al termine dell’udienza generale in piazza San Pietro – proprio mentre l’Austria costruisce un nuovo muro anti-immigrati al Brennero e la polizia macedone spara lacrimogeni contro i migranti a Idomeni –, papa Francesco ha voluto annunciarlo direttamente ai fedeli, spiegando anche i motivi della sua visita: ci andrò, ha detto, «per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi sia ai cittadini di Lesbo e a tutto il popolo greco, tanto generoso nell'accoglienza». Con Francesco ci saranno anche due importanti autorità della Chiesa ortodossa: il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo (che l’ha invitato, insieme al presidente greco Paulopolus), e l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Hieronimus II.
L’arrivo di Francesco è previsto sabato mattina all'aeroporto di Mitilene, dove ad accoglierlo ci sarà anche il premier greco Tsipras. Quindi il papa, Bartolomeo e Hieronimus, dopo un momento di preghiera ecumenica al porto, getteranno in mare una corona di fiori, in ricordo delle vittime e poi visiteranno il campo profughi. In serata il rientro in Vaticano.
Una visita lampo che ricorda quella effettuata a Lampedusa, nel luglio 2013, il primo viaggio del pontificato di Bergoglio: entrambe piccole isole nel cuore del Mediterraneo e dell’Egeo – «divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata», aveva detto Francesco durante la Via Crucis al Colosseo, il venerdì santo –, punti di approdo per tanti uomini e donne in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente, luoghi di accoglienza soprattutto grazie alla generosità degli abitanti, ambedue candidate al Nobel per la pace.
Una visita per esprimere «solidarietà» ai profughi e al popolo greco, ma anche per mettere sotto i riflettori il dramma delle migrazioni e sferzare l’Europa. «Il papa non fa degli atti di carattere direttamente politico, fa degli atti di carattere umano, morale e religioso estremamente significativi che richiamano però la responsabilità di ognuno – ha spiegato padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana –. Quindi, certamente è anche un invito ai politici ad agire nella ricerca delle soluzioni più umane, rispettose e solidali nei confronti delle persone che soffrono in questi grandi movimenti problematici del mondo di oggi».
Ancora più chiaro, e critico vero le politiche anti-immigrati dell'Ue, il cardinale Turkson, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, intervistato dalla Radio Vaticana: «Dare una grande somma di denaro alla Turchia affinché quest’ultima fermi l’arrivo dei profughi, serve per l’interesse di chi? Forse l’Europa ora sarà un po’ più tranquilla, ma quanto tempo durerà questa tranquillità? Se queste persone non riescono ad arrivare via mare, troveranno altre maniere. Per giungere ad una soluzione di lungo termine, invece, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per creare una situazione di pace».
IL SINDACO DI RIACE
«IL MIGRANTE E' UNA RISORSA
NON UN BUSINESS»
intervista di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti
a Mimmo Lucano
Intervista. L’accoglienza secondo il sindaco di Riace Mimmo Lucano: «I 35 euro al giorno che lo stato elargisce per l’ospitalità li investiamo per creare posti di lavoro»
La rivista statunitense Fortune lo ha classificato tra le «50 personalità più influenti del pianeta». Mimmo Lucano, sindaco di Riace dal 2004, è un uomo schivo che non si lascia ammaliare dalle luci della ribalta.
Sente più l’onore o il peso di questo riconoscimento? E che effetto fa, a un uomo riservato come lei, essere annoverato tra le personalità influenti del globo?
«La premessa è che non sono, né mi sento, potente piuttosto che influente. Qui a Riace abbiamo solo sperimentato un’idea che a me è connaturata sin dai tempi in cui militavo, negli anni’70, nel movimento studentesco. Volevamo un mondo libero e giusto e abbiamo provato a costruirlo in queste lande. Io faccio il mio lavoro di sindaco con normalità. La nostra la definisco l’utopia della normalità. Mai troveranno spazio ordinanze contro rom o lavavetri come accaduto altrove. Perché, come dico spesso, il migrante che arriva a Riace ha gli stessi diritti del sindaco. È un microcosmo che declina una Calabria solidale, dove i germi dell’umanità hanno attecchito. E questo è anzitutto un processo culturale che mi piace condividere con tutti e che deve partire da una consapevolezza, ovvero che fenomeni epocali, come le migrazioni cui stiamo assistendo, non si arresteranno finché non cesseranno le politiche predatorie del mondo occidentale».
Perché un laboratorio come quello di Riace, un esperimento di integrazione reale da perseguire e da emulare, è stato ignorato per anni, o è arrivato agli onori della cronaca con grande ritardo?
«Perché è più facile urlare, veicolando odio e disprezzo come fa Salvini che è onnipresente in tv. Le guerre tra poveri, le isterie xenofobe, le speculazioni fanno audience, mentre i casi di buona politica dell’immigrazione ne fanno molta meno. La nostra “utopia della normalità” non tira perché è più facile diffondere un discorso razzista che costruire ponti sociali e meticciati culturali. Anche le soluzioni semplicistiche, come combattere il traffico di esseri umani bombardando le carrette del mare come disse Renzi mesi fa, sono boutade che non risolvono i problemi, sono solo utili alla propaganda».
A Riace si accoglie il migrante e non lo si respinge, lo si inserisce nel tessuto sociale e non lo si rinchiude in un hot spot. Qui vivono stabilmente e lavorano 400 rifugiati. Che idea s’è fatto delle politiche europee in tema di immigrazione?
«A Riace non esistono linee di demarcazione, fili spinati, gabbie. C’è semplicemente un’integrazione diffusa dove aborriamo ogni forma di nazionalismo che è alla base dei fallimenti dell’Europa in tema di processi migratori. Pochi credevano che un borgo semideserto si potesse davvero rianimare, che le botteghe artigiane della tessitura della ginestra o della lavorazione della ceramica potessero davvero riaprire, che a Riace si potessero davvero organizzare asili e scuole multilingue per far crescere i figli dei migranti senza bandiere e barriere nazionali, etniche o religiose».
Il laboratorio Riace nasce e cresce nelle specificità della Locride. Come si concilia con la narrativa criminale in cui la Locride è confinata?
La Calabria è una terra stranissima, è la terra degli estremi e delle contraddizioni. Qui a Riace non ci sentiamo portatori di un’idea salvifica ma crediamo che sia la normalità la vera utopia rivoluzionaria. Le risorse che lo stato destina ai migranti le spendiamo al meglio. I 35 euro al giorno che lo stato elargisce per l’ospitalità di ogni migrante – un costo dimezzato rispetto a quello che comporterebbe la sua permanenza in un centro d’accoglienza – non li usiamo in modo assistenziale e parassitario, ma li investiamo per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E i migranti molte volte li usano come rimesse verso i loro paesi di origine. Perché qui nulla si spreca e mai si specula».
In altri contesti le risorse disponibili per l’accoglienza sono state accaparrate da mascalzoni che a volte hanno intrappolato i migranti in strutture indegne. In alcuni casi si sono persino infiltrate le mafie. Come fa un amministratore a distinguere i veri operatori dell’accoglienza dagli speculatori?
«Partendo da una presa di coscienza: che il migrante è una risorsa e non un business. Che non si lucra sulla disperazione della povera gente ma si lavora insieme a loro per il riscatto. Quel che in questi anni abbiamo provato a fare con il nostro ’albergo diffuso’, cioè l’assegnazione ai migranti delle case abbandonate, che è arrivato a disporre di ben 150 posti letto. Oppure con i laboratori artigianali, la raccolta differenziata dei rifiuti – che all’inizio i migranti facevano con gli asini, per inerpicarsi nei vicoli del borgo – e poi con le piccole imprese di agricoltura biologica».
Sabato prossimo parteciperà al convegno di Cassano allo Jonio su “Riduzione in schiavitù e l’alternativa di Riace”, organizzato dall’associazione “Combinato disposto” con Arci, Flai Cgil e il vescovo don Savino. Non teme che la schiavitù possa costituire un moderno modello di sviluppo e una diffusa disciplina del mercato del lavoro?
«Assolutamente sì. Qui nel Mezzogiorno i migranti vivono una condizione di schiavismo legalizzato. Ma non se ne esce rafforzando le politiche securitarie, impiantando uno stato di polizia o inasprendo le leggi ma solo estendendo le tutele e garantendo politiche di accoglienza».
Il papa è già stato a Lampedusa, sabato si recherà a Lesbo. Si aspetta che un giorno Bergoglio arrivi a Riace?
«È un mio sogno. Tra l’altro papa Francesco è legatissimo a Riace, quand’era vescovo di Buenos Aires ci accolse insieme alla comunità emigrata riacese. Il suo messaggio rivoluzionario è quello che più si avvicina al quell’universalismo dei diritti che qui, nel nostro piccolo borgo, cerchiamo di praticare giorno per giorno».
Medici senza frontiere denuncia le vergognose azioni compiute dalla polizia di frontiera macedone.
Il manifesto, 13 aprile 2016 (p.d.)
Bossoli di candelotti lacrimogeni sono stati trovati nell'erba davanti alla frontiera di Idomeni tra Grecia e Macedoni: sono le prove che la polizia di frontiera macedone, contrariamente a quanto continua a dire il governo di Skopje, domenica ha sparato contro un gruppo di migranti e richiedenti asilo che cercava di forzare il blocco in vigore da febbraio scorso. «Hanno sparato ad altezza bambino», ha confermato ieri da Roma anche il presidente di Medici senza Frontiere Loris De Filippi.
Il coordinatore greco di Msf Achilleas Tzemos ha denunciato già lunedì mattina l’uso di lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la piccola folla di migranti che tentava di superare la frontiera chiusa unilateralmente dalle autorità macedoni. Tre persone, ha detto Tzemos, hanno avuto bisogno di essere ospedalizzate ma le ong – Msf e anche Save the Children – hanno soccorso 200 persone intossicate e curato una trentina di feriti – 37 secondo il conto finale fatto ieri da De Filippi – tra i quali tre bambini sotto i dieci anni.
Il premier greco Alexis Tsipras ha accusato le autorità della ex repubblica macedone di aver deciso un’azione di forza «vergognosa» con gas e proiettili di gomma contro donne, bambini e comunque persone «che non rappresentavano alcuna minaccia all’ordine pubblico». E di "vergogna per la cultura europea", ha parlato l’Alto commissariato Onu per i rifugiati Unhcr.
I migranti accampati alla frontiera di Idomeni sono ormai oltre 12 mila. Da mesi vivono nelle tende piantate sui binari ferroviari o nei vagoni arrugginiti dei treni merci in attesa di un lasciapassare verso il nord-Europa che sembra disposto ad accoglierli. Ieri però, dopo i violenti scontri di domenica, circa 700 di loro hanno accettato di trasferirsi nei centri d’accoglienza greci del Pireo e di Skaramagas, riempiendo sette autobus messi a loro disposizione dal governo di Atene, anche se per loro è un po’ come aver estratto la carta del Gioco dell’Oca “torna indietro un giro”. Sono le regole del protocollo europeo Dublino III ha condannare i richiedenti asilo a questo percorso ad ostacoli per evitare di rimanere intrappolati nel primo paese europeo dove vengono registrati, in questo caso la Grecia, quando solo grazie alla registrazione possono accedere a un minimo di servizi di accoglienza.
A Idomeni invece non hanno né acqua, né luce e soltanto le ong come Msf e Save the Children cercano di fornire qualche aiuto medico e umanitario. Ci si nutre di speranza, a Idomeni, ma sta finendo anche quella. Domenica circa 3mila persone si sono messe in marcia verso i fili spinati e circa 250 hanno tentato di oltrepassarla.
Skopje si è lamentata che la polizia greca non ha mosso un dito quando è iniziata una sassaiola contro le guardie di frontiera macedoni ed è stato trascinato un vagone ferroviario verso la barriera. In realtà dopo che la portavoce del governo greco Olga Gerovasili lunedì ha parlato di "stranieri irresponsabili" che fomentavano incidenti dando volantini, sono stati fermati e identificati 17 tra volontari e manifestanti (tedeschi, austriaci, svedesi e portoghesi, due greci, un palestinese residente in Grecia e un siriano), tutti rilasciati ieri tranne un tedesco trovato in possesso di un coltello. Il governo di Atene comunque intende sgombrare almeno parte della tendopoli di Idomeni nelle prossime settimane.
«Vista da quassù l’Unione Europea non è mai sembrata tanto fragile, esposta alla minaccia di un infarto nel sistema di libertà materiali che restano il suo più grande successo e la sua legittimazione».
Corriere della Sera, 4 Aprile 2016 (m.p.r.).
A quasi 1.400 metri di altezza, il varco di frontiera del Brennero non è mai apparso un ingranaggio così delicato. Un controllo di pochi secondi sui mezzi che varcano la frontiera fra Italia e Austria può produrre un ingorgo infernale. Da metà aprile questo ingranaggio da oltre tremila veicoli l’ora in viaggio da Sud a Nord sembra destinato a incepparsi a causa dei controlli di Vienna contro l’ingresso di profughi e migranti. Scontri fra centri sociali e polizia austriaca.
Una donna con una pettorina gialla, la sua voce coperta dal frastuono del traffico, fa segno di non fermarsi. Bisogna correre, ogni secondo perduto in questo luogo è pericoloso. A quasi 1.400 metri di altezza fra le cime imbiancate dalla neve ritardataria di quest’anno, il varco di frontiera del Brennero non è mai apparso un ingranaggio così delicato. E vista da quassù l’Unione Europea non è mai sembrata tanto fragile, esposta alla minaccia di un infarto nel sistema di libertà materiali che restano il suo più grande successo e la sua legittimazione.
Un controllo di pochi secondi su ciascuno dei mezzi che varcano la frontiera fra l’Italia e l’Austria, moltiplicato per la dimensione del commercio fra le maggiori economie manifatturiere d’Europa, può produrre un ingorgo infernale. La donna in piedi sulla linea di frontiera porta sulla pettorina gialla la scritta «Ödw Security», un’azienda viennese che a contratto fornisce sistemi di sicurezza e vigilanza privata al servizio delle autorità austriache. Varcato il confine, superata la prima galleria, i Tir provenienti dall’Italia sono tenuti a uscire dall’autostrada A22 verso uno spiazzo sulla destra: in quel percorso viaggiano a velocità ridotta per poche centinaia di metri sotto gli occhi della donna in pettorina gialla, ma in pochi vengono realmente fermati. Funziona così, per il momento.
Da metà aprile questo ingranaggio da oltre tremila veicoli l’ora in viaggio da Sud a Nord, quasi uno al secondo, sembra destinato a incepparsi. A Vienna il governo di grande coalizione fra socialdemocratici e popolari e il governatore del Tirolo, Günther Platter, hanno annunciato che il confine con l’Italia verrà gestito un po’ come Vienna ha già fatto con i Paesi dei Balcani: barriere e verifiche capillari. L’insistenza con la quale questa promessa torna ormai ogni giorno è tale che non resterebbe molto della credibilità del governo, se il progetto venisse ancora una volta rinviato. Il 24 aprile gli austriaci vanno alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali e il candidato della Fpoe, il partito nazionalista anti-migranti, per ora è così forte nei sondaggi da poter tenere fuori dal ballottaggio tanto i popolari che i socialdemocratici. Il margine di manovra del premier Werner Faymann non è mai stato così limitato, dopo che l’anno scorso quasi 700 mila stranieri hanno attraversato il suo piccolo Paese e 200 mila sono rimasti.
Non che i timori degli austriaci per i prossimi mesi siano infondati. Da Roma il ministero dell’Interno, informalmente, stima che dalla tarda primavera ogni giorno cercheranno di varcare questo confine fra 2.500 e 3.000 stranieri senza permesso. E nelle riunioni riservate con i responsabili italiani dello snodo del Brennero, i rappresentanti austriaci hanno già illustrato le contromisure che pensano di far scattare al più tardi il 20 aprile: per le auto un vero e proprio posto di frontiera edificato in mezzo all’autostrada, con tanto di casamatta all’uscita della prima galleria in territorio austriaco; per il trasporto pesante, lo spiazzo a destra dove oggi si muove da sola l’addetta in pettorina gialla.
L’attrezzatura c’è già ed è in funzione: lungo la deviazione è stato montato uno scanner termico in grado di segnalare il calore del corpo di eventuali clandestini nascosti nei container. Un sistema simile funziona anche a Calais. Sul Brennero per il momento i controlli stanno procedendo a campione, in attesa di espandersi fra qualche settimana.
Il solo dettaglio che né il governo austriaco né quello italiano sono in grado di fornire riguarda le conseguenze per quella che fino ieri è stata la vita di milioni di europei. Anche solo un controllo di pochi secondi su ciascun mezzo di trasporto può renderla impossibile. Dal Brennero passano 40 mila mezzi al giorno in momenti normali, il doppio nelle fasi di grande traffico. Questa è l’arteria lungo la quale corre la gran parte dei 50 miliardi di euro di export italiano verso la Germania, il principale cliente del Paese. Fra le 5 di mattina e le 10 di sera di una giornata tranquilla attraversa questa frontiera da Sud un Tir ogni sette secondi e anche un minimo intralcio può allungare code di molti chilometri.
L’algebra del commercio nel cuore d’Europa sembra dunque del tutto incompatibile con i numeri dei sondaggi politici austriaci. Elmar Morandell, il titolare di una ditta di autotrasporto di Bolzano, stima che un’ora passata in più da un camionista sulla strada verso la Germania porti almeno 280 euro di oneri supplementari. La chiusura prevista da Vienna può costare almeno un milione di euro al giorno all’intero made in Italy, se i tempi di trasporto fra il Veneto e la Baviera si allungassero anche solo di mezz’ora per ogni convoglio.
Del resto, nessuno ha mai costruito l’Unione Europea e la sua moneta nell’idea di farle passare in uno scanner termico.
Nuova tappa della follia suicida dei governi europei
. Il manifesto, 3 aprile 2016 (p.d.)
Ogni rotta di fuga va chiusa, i confini blindati, anche con l’aiuto dell’esercito. Ormai ogni giorno il governo austriaco annuncia misure nuove sempre più restrittive contro il diritto di fuga e di asilo, a tutto campo. Le ultime sull’onda della conferenza dei ministri della difesa dell’Europa centrale, orientale e sudorientale (Cedc) che si è svolta a Vienna venerdì. Assenti anche stavolta Germania e Grecia, pare per propria scelta. In cambio c’erano i Paesi cosiddetti Visigrad, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria quelli che avevano rifiutato e bloccato ogni piano di ripartizione europea dei rifugiati. A questa conferenza invece l’accordo si è trovato: certo, si tratta di mandare soldati ai confini esterni dell’Ue «visto che Frontex non ce la fa» creando una nuova «mission civile e militare», ecco la proposta della conferenza, da mandare ora al confine greco ma anche in altri posti a secondo dove si sposta l’afflusso di profughi.
È quanto i convenuti hanno scritto in una lettera indirizzata a Federica Mogherini. Intanto, «visto che i confini esterni non vengono efficientemente tutelati», l’Austria agisce di nuovo da sola, «a breve metterà in sicurezza i suoi confini», ha detto la ministra degli interni Johanna Mikl-Leitner del partito popolare (Oevp) al quotidiano tedesco Die Welt. Concetto ribadito con determinazione anche dal ministro della difesa Hans Peter Doskozil, socialdemocratico (Spoe) al Muenchner Merkur, annunciando massicci controlli al Brennero con l’intervento di soldati. Priorità massima è «garantire stabilità e sicurezza» come se le masse di disperati che arrivano ai confini fossero un pericolo.
Colpisce la mutazione di Doskozil, ex funzionario di polizia che in autunno al confine tra Austria e Ungheria mostrò un forte impegno umanitario verso i profughi, da nuovo ministro della difesa (da due mesi) è divenuto hardliner di spicco assumendo posizioni che i socialdemocratici fino a tre mesi fa avevano sempre rifiutati. «I cittadini di certo capiranno, se ci saranno code», commentano Mikl Leitner e Doskozil in piena sintonia in riferimento all’intenso flusso di turisti sull’asse del Brennero. Il governo austriaco è convinto che con l’accordo con la Turchia si intensificherà la presenza di migranti sulla rotta mediterranea. «Sappiamo che nei prossimi giorni il tempo migliorerà e che centinaia di migliaia di persone si metteranno in cammino», dice Mikl-Leitner. «In Turchia al confine con la Grecia aspettano 700.000 persone, a Istanbul ci sono 400.000 persone pronte a mettersi in cammino verso la Bulgheria».
Non deve ripetersi quanto accaduto nel 2015, quando circa un milione di profughi attraversavano i confini austriaci , e circa 90 mila chiesero asilo sul posto, ribadisce il governo austriaco che per raggiungere lo scopo aveva fissato per questo anno un tetto massimo di accoglienza di 37.500 rifugiati. Un tetto che gli stessi giuristi commissionati dal governo hanno dichiarato come incostituzionale e violazione della convenzione europea dei diritti umani. Nel frattempo però blindata la rotta balcanica e inviando truppe al Brennero il problema giuridico del tetto massimo non si porrà più, perché non potrà più entrare nessuno. A pensare solo pochi mesi fa il cancelliere austriaco Werner Faymann, socialdemocratico, accusò Victor Orban di vicinanza al nazismo per la sua chiusura verso i rifugiati. «A chi soffre e fugge da situazioni disumane dobbiamo aprire i confini», disse. Un forte movimento civile esemplare sostenne e praticò la cultura dell’accoglienza. Metà gennaio la svolta di 360 gradi di Faymann arreso alla linea dei popolari.
Non vogliono comprendere che l'esodo è inarrestabile. Così, invece di attrezzare il resto del mondo a ospitare gli esuli e creare vie protette d'accesso, aumentano la repressione e incrementano la rabbia degli esclusi. Poi fingono di combattere il terrorismo che hanno alimentato: tanto, pagheranno gli innocenti.
LaRepubblica, 31 marzo 2016
DIFFICILE non vedere una forzatura nell’arrivo di Fayez el Serraj con i suoi ministri a Tripoli. Il premier guida un governo di unità nazionale che però di unitario ha ben poco. È sgradito alla fazione tripolina di ispirazione islamista, guidata da Khalifa Ghweil, che nei giorni scorsi aveva imposto la chiusura dello spazio aereo proprio per impedire l’atterraggio di Serraj. È ben lontano dall’ottenere il sostegno del Parlamento di Tobruk, anche se un centinaio di deputati sarebbero disposti a sostenerlo. In altre parole, sembra essere solo un governo voluto se non imposto dalle Nazioni Unite. E adesso la sua presenza pone domande e apre scenari di soluzione non facile.
LE OPERAZIONI MILITARI
La missione navale europea battezzata Sophia (inizialmente chiamata Eunavfor Med) prevede che le forze delle nazioni Ue intervengano nelle acque territoriali libiche (fase 2B) e poi anche sul terreno (fase 3) per contrastare gli scafisti e il traffico di esseri umani, a patto però che ci sia «il consenso dello Stato straniero interessato», o una richiesta delle Nazioni Unite. I governi europei sono propensi a richiedere che siano presenti entrambe le condizioni e in questo momento una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dia il via libera non sembra fuori portata. Ora dunque si pone un problema di altro genere: da chi deve essere “riconosciuto” il governo perché sia rappresentativo del paese costiero? Un riconoscimento dell’Onu di fatto metterebbe tutto il potere decisionale sulla missione europea nelle mani del Consiglio di Sicurezza.
LA NUOVA MISSIONE
Il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite darebbe al governo di Serraj un ruolo che va molto al di là del consenso e delle effettive capacità di controllo nel suo paese: la missione internazionale da mesi allo studio e le sue modalità dovrebbero essere concordate appunto con l’esecutivo appena arrivato. Ma per le nazioni disponibili a fare la propria parte, la debolezza del governo sul terreno è un problema serio. In teoria, il via libera dell’Onu apre la strada ad accordi che potrebbero portare anche a richieste di aiuti militari in tempi molto brevi, e soprattutto molto prima di una effettiva stabilizzazione della Libia.
LE NAZIONI EUROPEE
Gran Bretagna, Germania e Francia, paesi interessati ad arginare il flusso di immigrati irregolari e disponibili a far parte della missione, sembrano al momento tutt’altro che entusiaste dell’idea di una escalation dell’impegno, nonostante la “tirata d’orecchi” ricevuta nelle scorse settimane da Barack Obama. La situazione di disaccordo sul terreno, con la presenza di duecentomila miliziani armati divisi fra le diverse fazioni e l’ombra dei cinquemila fondamentalisti dell’Is che cercano di guadagnare terreno, lascia intuire che l’ipotesi di operazioni militari brevi e decisive debba lasciare spazio alle prospettive di un intervento lungo e costoso, in termini economici ma soprattutto di vite umane. Il governo Cameron, criticato ferocemente in questi giorni per il ruolo avuto da Londra nella deposizione di Gheddafi, per ora si limita a «non negare» che istruttori britannici sono già presenti in terra libica e a mandare l’incrociatore Enterprise per contrastare l’azione degli scafisti, dando disponibilità all’invio di motovedette della Guardia costiera ed elicotteri. Anche Berlino ha spedito i suoi tecnici per dare assistenza, ma fermandoli in Tunisia.
L’ITALIA
L’entusiasmo con cui il governo si è proposto alla guida di una missione internazionale sembra del tutto tramontato. La Farnesina sottolinea che bisogna offrire ai libici l’opportunità di costruire una pace, ampliando la base del consenso al governo Serraj, purché questo avvenga in tempi ragionevoli. Palazzo Chigi sembra disponibile solo a fornire assetti tecnologici (cioè sostanzialmente cacciabombardieri e droni da usare contro il sedicente Stato islamico), oltre a un numero limitato di truppe speciali. L’idea dello sbarco di un contingente numeroso non è presa in considerazione. Con i ricordi del passato coloniale, una presenza italiana troppo rilevante potrebbe avere l’effetto di far aderire anche le milizie “laiche” al fronte jihadista. Il problema è che gli Stati Uniti premono perché l’Italia dia seguito ai suoi proclami. E adesso persino una think tank come la Brookings ricorda all’Italia, con un report appena pubblicato, che è suo interesse contrastare l’influenza dell’Is in territorio libico.
La Repubblica, 24 marzo 2016 (m.p.r.)
Lesbo. «Benvenuto in Europa. Si tolga le stringhe delle scarpe e ce le consegni. Ci dia anche cintura e telefonino, per ora teniamo tutto noi. Declini le generalità, prenda le impronte digitali e poi si accomodi là». Dentro una baracca di poche decine di metri quadri, chiusa a chiave dall’esterno, assieme ad altri trenta compagni di sventura (compresa una anziana in carrozzella), circondata da reti metalliche e filo spinato e guardata a vista dalla polizia 24 ore su 24. Qassem, siriano di 39 anni scappato due settimane fa da Homs, si aspettava un’accoglienza diversa. «È Lesbo, vero? Ce l’ho fatta! » ha sussurrato all’alba sul molo di Mytilene a volontari e giornalisti quando è sbarcato in tuta rossa e infradito dalla guardacoste Andromeda che l’aveva intercettato su un gommone a trecento metri dalla costa. «Vado a Moria, faccio i documenti e poi parto per Atene», ha salutato con un sorriso mentre la polizia lo caricava a forza sul pullman.
Nessuno, purtroppo, ha fatto in tempo ad aggiornarlo sulle novità. Ue e Turchia hanno stretto un patto di ferro per alzare in questo braccio d’Egeo un muro anti-migranti. Lesbo, l’isola candidata al Nobel della pace, il paradiso dei volontari lodato da Angelina Jolie, è diventata un inferno da cui persino Unhcr e Medici senza frontiere (Msf) preferiscono scappare. E il campo di Moria (un «centro d’accoglienza chiuso», l’ha ribattezzato con un ossimoro involontario la Ue) «si è trasformato in una prigione per mille persone - dicono le due organizzazioni – dove noi da domenica non lavoriamo più».
«L’accordo con Ankara - ha messo nero su bianco Msf - potrebbe dar luogo a deportazioni ingiuste e disumane e noi non vogliamo esserne complici». E Qassem, che l’ha capito, ha affidato il racconto della sua delusione e del suo brusco impatto con l’Europa a un foglietto in stampatello girato a uno dei pochi osservatori umanitari rimasti nella mini - Guantanamo della Ue.
«Qui il mondo è cambiato in 72 ore - spiega sconsolato Michele Telaro, responsabile dei 180 uomini di Msf al lavoro sull’isola - Fino a domenica scorsa il campo era solo una tappa lungo il viaggio della speranza dei migranti. Si arrivava, si affrontavano le procedure di riconoscimento e si otteneva il documento provvisorio con cui, pagando i 50 euro del traghetto per Atene, si continuava la fuga da guerra e miseria». Ora Moria è diventata il capolinea di questo esodo biblico (un milione gli arrivi a Lesbo da inizio 2015, 4.219 i morti in mare). I 5mila profughi bloccati qui prima del D-Day del 20 marzo, il giorno in cui è entrato in vigore il patto con Ankara, sono stati trasferiti ad Atene. I mille arrivati da allora sono finiti sotto chiave nelle baracche del campo. «Spaventati e senza certezze sul futuro - dice Telaro - visto che nessuno qui, nemmeno noi e i legali, ha capito cosa prevede l’intesa con Erdogan». Unica certezza: il 4 aprile partiranno i respingimenti. «E se mi mettono su una nave per rimandarmi in Turchia, giuro che mi butto in mare», dice Yassim Al-Kufhir, ingegnere pakistano ospite di Afghan Hill, il campo gestito dai volontari a due passi Moria.
Spiros Gallinos, sindaco di Mytilene, è su tutte le furie: «È una situazione kafkiana - dice allargando le braccia - L’Europa ha fatto melina per un anno e mezzo, nascondendo la testa sotto la sabbia. Poi ci ha imposto in 24 ore una decisione senza istruzioni per l’uso». L’assurdo, aggiunge in camera caritatis, è che se parli con Bruxelles sono tutti contenti del successo dell’intesa. Chi puntava a fermare gli sbarchi - fregandosene dei dettagli umanitari – può in effetti fregarsi le mani. Salvagenti arancioni, casse d’acqua e coperte termiche ammucchiate sotto le tamerici della spiaggia a sud dell’aeroporto sono inutilizzati da tre giorni. «Fino a domenica qui sbarcavano almeno sei gommoni a notte - racconta Josè Alvarez, pompiere di Siviglia della Ong Proem-Aid che ha fatto l’alba scrutando l’orizzonte con il cannocchiale - Ora, zero. I gatti sono partiti a caccia dei topi». Tradotto: i guardiacoste greci e turchi e le navi Frontex - latitanti negli ultimi due anni – si sono svegliati e hanno alzato un muro invalicabile. Chi prova a passare viene bloccato e riportato a Dikili sull’altra sponda o nella prigione di Moria.
Isaac Perry, 23enne studente australiano che ha interrotto il sabbatico in Italia per venire a distribuire cibo ai profughi con la Starfish Foundation, ha una sua idea. «Le navi schierate, le incertezze sulle regole per i respingimenti e la metamorfosi di Moria hanno un senso chiaro: spaventare chi vuol tentare la sorte e sfidare lo stesso l’Egeo. I migranti leggono Facebook, il tam-tam funziona. E se non ne arrivano più è colpa (o merito, dipende da come la vedi) di questo terrorismo mediatico». Il risultato però «è che a Lesbo, dove fino a pochi giorni fa ero la persona più felice del mondo, adesso mi sembra di vivere un incubo».
Il suo timore è quello di tutti. Senza regole scritte e con l’esame delle richieste d’asilo ridotto a una farsa («mancano norme, avvocati e interpreti» dice Telaro), i respingimenti in Turchia rischiano di diventare una tragedia umanitaria per tutti, siriani compresi. «Ogni essere umano ha una sua storia - dice Lucia Mayer, 28enne infermiera di Zurigo arrivata qui con papà, mamma e marito - Al pronto soccorso di Afghan Hill ho curata decine di persone con il corpo coperto di cicatrici per la sola colpa di essere cristiani. Come si fa a rimandarli nell’inferno da cui sono venuti? E come si fa a sostenere che la Turchia è un paese sicuro?». Domande che la Ue - alle prese con bombe, populismi e un pugno di elezioni delicatissime - preferisce forse non farsi.
«Un tempo l’Italia aveva conoscenze sul MO che oggi tornerebbero estremamente utili. Ripartire da Nicola Calipari per sconfiggere il Califfo». Ma il lettore non cada in errore; l'autrice non parla solo di "servizi segreti", ma soprattutto di "intelligenza". Il manifesto, 24 marzo 2016, con postilla.
Prima al Qaeda, che continua a colpire in Africa, e ora lo Stato islamico di al Baghdadi in Europa. Il terrorismo è un’arma non convenzionale e non può essere sconfitta con bombardamenti o con i droni, anche i più sofisticati. Quando a colpire sono i terroristi della porta accanto e basta un taxista attento a segnalare un covo, che le forze di sicurezza belghe non avevano individuato, sorgono interrogativi tremendamente inquietanti. L’hanno detto tutti: la sicurezza belga è un colabrodo, peccato che Bruxelles ospiti, tra l’altro, la sede della Commissione europea e della Nato, obiettivi strategici quanto simbolici.
Per combattere il terrorismo non bastano nemmeno le forze di sicurezza, anche le più preparate non lo sono per far fronte a questo tipo di arma destabilizzante. Occorre una strategia fondata su una conoscenza approfondita dell’ideologia che costituisce il supporto ideale e la base di reclutamento e finanziamento dei terroristi. Un’ideologia che sublima il martirio come passaggio a una vita celeste fatta di godimenti terreni. È una logica che sfugge a una cultura materialistica, ma che attrae anche molti occidentali in cerca di valori non effimeri.
Chi può supplire a questa carenza di conoscenze interne a quel mondo? Solo un’intelligence che abbia come obiettivo quello di raccogliere informazioni non per giustificare un intervento militare o compiacere un governante ma per essere al servizio della sicurezza dei cittadini e dello stato.
La parte politica alla quale appartengo è sempre stata diffidente quando non ostile ai servizi segreti per il ruolo che hanno avuto nel nostro paese e che spesso ancora hanno.
Tuttavia c’è stata una parentesi nella nostra (nella mia) storia che ci ha fatto ricredere almeno sul ruolo di alcuni di loro: Nicola Calipari è stato fondamentale per la mia salvezza e quella di altri ostaggi, perché conosceva il terreno, sapeva come e con chi trattare, era consapevole che senza la conoscenza dell’intelligence non ci può essere una strategia politica.
Questa posizione va contro la logica dei fondamentalisti, dei guerrafondai, dei mercanti d’armi e di coloro che non sono interessati alla soluzione dei conflitti se non quando garantiscono il soddisfacimento dei loro interessi. E gli interessi dei vari paesi europei spesso non coincidono e per questo non sono d’accordo sull’avere un sistema di intelligence europeo. Ognuno vuole coltivare il proprio orticello e/o la ex-colonia, conquistare nuove riserve di materie prime o espandere il proprio mercato.
È un caso che Nicola Calipari sia stato assassinato dalle truppe americane e che la sua squadra – quella dei cosiddetti «calipariani» – sia stata messa fuori gioco? Eppure l’Italia aveva maturato in quel periodo una conoscenza del Medio Oriente che oggi sarebbe estremamente importante per agire politicamente e non solo militarmente su uno scenario che è molto vicino a noi. Lampedusa è più vicina alla Libia che all’Italia.
E questo ci riporta alla questione dei profughi. In questo caso forse non si tratta solo di ignoranza ma di malafede dei governanti europei: come si possono consegnare i profughi che fuggono dalla guerra e dal terrore imposto dal Califfato a un governo fondamentalista come quello di Erdogan che ha sostenuto (e sostiene) i loro carnefici. Erdogan che bombarda i kurdi del Rojava, donne e uomini che difendono un modello di società laico e democratico, gli unici in grado di contrastare lo Stato islamico sul terreno militare pur non disponendo di armi sofisticate.
Invece di aiutare i kurdi a ricostruire le città distrutte dai jihadisti l’Unione europea affida 6 miliardi di euro alla Turchia per sbarazzarsi dei profughi. Con gli stessi soldi quanti rifugiati avremmo potuto accogliere, inserire in Europa?
Certo sarebbero venute meno le speculazioni che si fanno magari in vista delle elezioni. Soprattutto da parte di chi accomuna i profughi (le prime vittime del terrorismo) ai kamikaze. Ma Bruxelles, se ancora ce ne fosse stato bisogno, ha dimostrato che i terroristi sono tra di noi. E non sono i più emarginati, disagiati, maltrattati. Al contrario: sono preparati e dispongono dei mezzi per farci saltare per aria.
postilla
Sgrena scrive, tra le molte altre cose sagge: «Occorre una strategia fondata su una conoscenza approfondita dell’ideologia che costituisce il supporto ideale e la base di reclutamento e finanziamento dei terroristi. Un’ideologia che sublima il martirio come passaggio a una vita celeste fatta di godimenti terreni. È una logica che sfugge a una cultura materialistica, ma che attrae anche molti occidentali in cerca di valori non effimeri». Questo è il punto, che alla maggior parte dei commentatori è del tutto sfuggito. I difensori delle magnifiche sorti e progressive dell'ideologia del neoliberismo dovrebbero cominciare a domandarsi quali "valori", quali ideali, quali speranza infine - in una visione di lunga gittata della propria vita- hanno e possono avere i coetanei degli assassini di Parigi e di Bruxelles? I sapienti della Mont Pelerin Society non hanno prodotto danni giganteschi solo sul terreno dell'economia e della società, ma anche, e profondissimi, su quello della vita interiore, della "ideologia".
L'ONU resta una istituzione molto più seria dell'Europa dei governi. Loro hanno compreso subito, come tutte le persone ragionevoli, che proseguire nella politica dei respingimenti, e per di più affidarla all'incredibile Erdogan era ed è una follia. E si comportano di conseguenza.
Il manifesto, 23 marzo 2016
L’accordo tra Unione europea e Turchia ha trasformato gli hotspot sulle isole greche in centri di detenzione per migranti, cosa che rende impossibile mantenere una presenza attiva al loro interno. Con queste motivazioni ieri l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ha annunciato la decisione di sospendere alcune delle attività svolte nelle strutture dove da domenica scorsa, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo con Ankara, vengono ammassati uomini, donne e bambini in arrivo dalla Turchia.
Ad annunciare la decisione, che suona come una sconfessione del patto voluto a tutti i costi da Bruxelles a spese di quanti fuggono dalla guerra e dai tagliagole di Daesh, è stata ieri da Ginevra la portavoce dell’organizzazione Melissa Fleming, spiegando che ormai i centri si sono trasformati in prigioni per i migranti. Non si tratta però di un abbandono. Le attività sospese riguardano il trasporto dei profughi da e per gli hotspot e, in alcuni casi, la distribuzione di coperte e vestiti, ma il personale Onu resterà per vigilare sul rispetto dei diritti dei rifugiati e per fornire loro informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo.
L’annuncio potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. Dopo l’Unhcr, anche Save the Children, organizzazione che si occupa della tutela dei minori, ha infatti reso noto di voler riconsiderare il lavoro svolto negli hotspot mentre già lunedì l’Ofra, l’ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi, unico organismo autorizzato a riconoscere per la Francia lo status di rifugiato, aveva fatto sapere che non parteciperà all’applicazione dell’accordo siglato con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan.
Salutato come un successo meno di una settimana fa, il patto con Ankara rischia adesso di trasformarsi nell’ennesima dimostrazione dell’incapacità dell’Europa e dei suoi leader. Anche se è presto per tracciare dei bilanci, gli sbarchi di profughi sulle isole greche non sono diminuiti: 1.662 da domenica, 934 dei quali a Lesbo (242 ieri) e 830 a Chio. Tutte persone di fronte alle quali i funzionari greci, che stando a quanto stabilito dall’accordo dovrebbero esaminare in pochi giorni le richiesto di asilo, non sanno come comportarsi rallentando così le procedure. Per sbloccare la situazione Frontex ha chiesto agli stati europei di inviare personale in aiuto a quello greco. Almeno 1.500 poliziotti e 50 esperti in riammissioni e rimpatri, ma si tratta di numeri del tutto insufficienti.
A pagare le conseguenze di questa situazione sono ovviamente i migranti. Se gli sbarchi continueranno con il ritmo di questi giorni si rischia il sovraffollamento degli hotspot con conseguenze facilmente immaginabili. E non bisognerà neanche aspettare tanto. Nell’hotspot di Chios, ad esempio, che ha una capacità d 1.100 posti, ci sono già 1.050 persone. E la stessa cosa potrebbe accadere presto anche a Lesbo, Samos e Leros, le tre isole dove si trovano gli altri hotspot greci (il quinto, a Kos, ancora non è stato aperto). E’ chiaro che in queste condizioni garantire ai migranti non solo il rispetto dei loro diritti, ma almeno un trattamento decente diventa un’impresa.
Ma non è tutto. Lo stesso scopo per cui Bruxelles è scesa a patti con Ankara, cioè mettere fine agli arrivi in Europa, potrebbe non essere raggiunto. Ad affermarlo è un’analisi condotta dall’European policy center, tra i principali think tank di Bruxelles, secondo la quale bloccare la via dell’Egeo non farà altro che spingere i migranti nelle mani dei trafficanti. L’Epc punta il dito soprattutto contro il principio cosiddetto dell’«uno a uno», secondo il quale per ogni siriano rimandato in Turchia perché entrato in Europa in maniera irregolare, un altro siriano viene mandato dalla Turchia in Europa. «C’è una forte probabilità – scrive infatti l’Epc – che il ritorno dei migranti irregolari verso la Turchia e l’attuazione dello schema uno a uno motiverà migranti e trafficanti a utilizzare altre vie possibili». Quattro le nuove rotte possibili: dalla Turchia verso la Bulgaria, dalla Libia all’Italia, dall’Albania all’Italia e, infine, dal Marocco fino in Spagna. Rotte ancora più pericolose della traversata del mar Egeo, dove solo quest’anno hanno perso la vita 488 migranti. E gestite dalle organizzazioni criminali, a ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia di Bruxelles quando afferma di voler togliere i profughi dalle mani dei trafficanti di uomini.
Intervista a Marco Martiniello, docente di sociologia a Liegi, esperto di multiculturalità. «Non tutti gli esclusi seguono la via del radicalismo, o passano alla violenza. Si può vivere pacificamente nel proprio estremismo». Il manifesto, 20 marzo 2016
«La radicalizzazione come perdita di senso di questa società materialista». Le ragioni della radicalizzazione vanno cercate nella storia migratoria delle varie comunità che compongono il tessuto sociale della società belga. Scopriremmo così che ci sono alcune comunità, come quella marocchina, più sensibile e vulnerabile di altre, ai fenomeni della radicalizzazione di stampo religioso. Secondo Marco Martiniello, passaporto italiano ma nato e cresciuto in Belgio, le ragioni di questi fenomeni vanno cercate anche nella perdita di senso della nostra società, votata al materialismo. Professore di sociologia all’Università di Liegi, esperto di politiche migratorie e delle tematiche legate ai fenomeni di razzismo e della multiculturalità, ha vissuto dieci anni nel quartiere di Molenbeek, di cui ne conosce il tessuto sociale e culturale.
Cos’è il radicalismo in una società multiculturale?
Abbiamo tanti esempi di radicalismo, come nel campo del tifo calcistico. Oggi lo vediamo associato all’islam, ma c’è anche un radicalismo cattolico, un radicalismo politico di estrema destra. Lo abbiamo visto in Francia e lo vediamo in Belgio, con esponenti di governo dichiaratamente fascisti. Parliamo di radicalismo quando si portano agli estremi la propria fede o la propria identità e il sentimento di appartenenza ad un gruppo.
Esiste un problema di identità nella società belga?
Nella storia del Belgio la costruzione dell’identità è sempre stata problematica. Con le ondate migratorie degli ultimi decenni, Bruxelles conta 150 nazionalità diverse, la questione si è complicata. Chi è arrivato qui ha dovuto fare i conti con un panorama identitario frammentato, che contrappone fiamminghi e walloni, all’interno del quale non ha trovato mezzi per potersi esprimere. Forse addirittura la costruzione identitaria nazionale belga si è costruita in opposizione agli immigrati. La questione è poi esplosa negli anni ’80, con la vittoria alle elezioni locali del Vlaams Blok, formazione di estrema destra, che ha politicizzato la questione dell’integrazione. Forse in questi episodi di discriminazione che vanno cercate le ragioni che spinge un giovane oggi al radicalismo.
Cosa spinge quindi un giovane belga-marocchino, che è belga prima che essere marocchino, a partire per un Paese come la Siria?
La spiegazione è complessa. C’è un panorama globale fatto di guerre, come quella siriana, c’è un sentimento di mancata appartenenza per una fascia della popolazione che è nata e cresciuta qui, c’è poi un oggettivo razzismo. Ma tutto ciò non basta a spiegare questi fenomeni e del perché in una famiglia un fratello parta in Siria, ed un altro lavora nell’amministrazione pubblica. Dobbiamo forse focalizzarci sulla perdita di senso di questa società materialista. C’è tanta gente che non riesce a dare senso alla propria vita. Per alcuni il senso viene dato dall’attaccamento viscerale, estremo e radicale alla squadra di calcio. Per altri è il fondamentalismo religioso.
Possiamo parlare dei fenomeni di radicalizzazione come dovuti alla sola esclusione sociale?
Si dobbiamo parlarne. Così come dobbiamo parlare dell’aspetto socio-economico, ma c’è anche dell’altro. Non tutti gli esclusi seguono la via del radicalismo, o passano poi ad azioni violente. Perché si può essere radicali nel pensiero e vivere pacificamente nel proprio estremismo. Saranno quindi i soggetti più fragili e vulnerabili, che poi in assenza di una rete sociale e familiare forte si lasciano andare a forme di estrema violenza. E questo spiega perché fra i giovani radicalizzati belgi partiti in Siria, la maggior parte sono della comunità marocchina. Poiché essa è molto destrutturata e frammentata. A differenza di quella turca, molto salda e coesa al suo interno. La radicalizzazione si potrebbe anche spiegare partendo dalla peculiare storia dell’immigrazione di ogni comunità. L’immigrazione marocchina, voluta dallo stato belga, non si credeva avrebbe avuto lungo respiro. Non c’è stata la volontà di mettere in campo una visione a lungo termine. C’è stata invece una chiara volontà di escludere questi cittadini dal romanzo nazionale. Tutto ciò può creare frustrazione ed odio. Ed in Italia vedo svilupparsi un atteggiamento simile. Dovremmo forse sostenere una politica capace di spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza.
«Bergoglio ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla capacità di praticare solidarietà».
La Repubblica, 19 marzo 2016 (m.p.r.)
Il futuro dell’Europa si gioca sempre di più sulla questione dei migranti, come mostra l’accordo con la Turchia finalmente raggiunto dopo ripetuti vertici dell’Unione europea. E le Chiese sono impegnate perché la bilancia penda dalla parte dell’accoglienza. È ormai in atto un coinvolgimento sempre più intenso di tanti cristiani - non da soli ma insieme a molti altri - in questioni sociali, dispute religiose, lotta al terrorismo, confronti elettorali, problemi politici e trattative diplomatiche che si intrecciano sempre più strettamente intorno al nodo immigrazioni.
Il cardinale Marx e il vescovo evangelico di Berlino hanno stigmatizzato il “linguaggio d’odio” usato dall’Afd, partito vicino all’ideologia xenofoba di Pegida, che ha raccolto molti consensi nelle recenti elezioni tedesche. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha raccomandato una preparazione spirituale all’ormai prossima Pasqua ortodossa che passi per un concreto soccorso ai profughi. Qualche giorno fa l’arcivescovo di Bologna ha sollecitato la costruzione di una grande moschea nella sua città e questa settimana i vescovi francesi hanno dedicato la loro assemblea generale ai rapporti con l’Islam. Il Consiglio permanente della Cei, che si è occupato di accoglienza ai profughi «senza discriminazione di nazionalità», ha dichiarato che «l’immigrazione porta con sé un contributo di ricchezza per tutto il Paese» e a Skopje il cardinale Parolin ha ribadito che l’Europa deve affrontare l’emergenza dei migranti con maggior solidarietà e meno individualismo.
Nel giro di pochi giorni, infine, papa Francesco, ha elogiato i «corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Chiese evangelica, valdese e metodista per evitare i «viaggi della morte» a chi giunge in Europa; ha lanciato un appello perché «le nazioni e i governanti aprono i cuori e le porte» a quanti «stanno vivendo una drammatica situazione d’esilio»; e ha richiamato l’attenzione delle future classi dirigenti sui rifugiati «tragicamente costretti ad abbandonare le loro case, privati della loro terra e della loro libertà».
Tante iniziative e tanti interventi, non coordinati tra loro, danno l’idea di un orientamento sempre più diffuso e radicato, malgrado divisioni e resistenze (come in Europa Orientale dove è forte l’ostilità verso gli immigrati). Emerge, indirettamente, un progetto sul futuro dell’Europa. È quello che Francesco ha cominciato a tracciare scegliendo Lampedusa per il suo primo viaggio da papa. Di recente, ha criticato severamente l’Europa per una gestione dei processi migratori senza visione e strategia.
Bergoglio ha più volte paragonato il Vecchio Continente ad una nonna che deve tornare ad essere madre o ad una donna sterile che può generare sebbene in tarda età. E si è detto sicuro che «l’Europa alla fine sorriderà ai migranti », anche grazie alla forza che viene dalla memoria di «grandi personaggi dimenticati» della sua storia come Adenauer, Schuman, De Gasperi. Proprio al piano Schuman, che fu all’origine del primo nucleo della Comunità europea, fa non a caso riferimento l’ultimo numero de La Civiltà cattolica - i cui articoli sono concordati con la Segreteria di Stato vaticana - per affermare che sospendere o, peggio, abbandonare il trattato di Schengen sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea significa contraddirne i principi fondamentali.
Il Papa che «non si immischia in politica» - come ha detto tornando dal Messico - è oggi il principale ispiratore di un “partito dell’accoglienza” destinato ad avere un peso politico crescente. È una politica molto lontana dall’iniziativa messa in atto nel 2003 per inserire riferimenti alle «radici cristiane» del Vecchio Continente in una Costituzione europea destinata tra l’altro a non entrare mai in vigore. Non a caso, nel 2014 Francesco ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla sua capacità di praticare o meno la solidarietà.
Quella di oggi non è la politica tradizionalmente praticata dai cattolici: non è infatti scolasticamente desunta da principi supremi ma empiricamente ispirata dalle attese degli ultimi, non è ecclesiasticamente organizzata ma laicamente disorganizzata, non è chiusa in un recinto confessionale ma aperta a «tutti gli uomini di buona volontà». Ma è, anch’essa, politica. Un’Europa solidale verso gli immigrati sarà, infatti, «più facilmente immune dai tanti estremismi». Il “partito dell’accoglienza” può avere cioè un ruolo nella battaglia tra il centro e le estreme - o tra i partiti democratici e quelli che non lo sono - che nei Paesi europei, come ha scritto Garton Ash su Repubblica, sta sempre più spesso prendendo il posto del tradizionale confronto tra destra e sinistra.
Un altro successo della demenziale politica dell'UE e dei governi che la costituiscono: oltre alla carcerazione dei profughi nei lager turchi, oltre all'affidamento al gaulaiter di Ankara delle barriere contro i miseri della terra, assestare un altro colpo alla Grecia di Tsipras. Tombola! Il Fatto quotidiano, 19 marzo 2016
Spetterà alla disastrataGrecia l’onere di far fronte praticamente alla crisi umanitaria dei profughi. L’accordo con la Turchiasiglato ieri dall’Unione europea richiede, per essere applicato, un ulterioresforzo da parte di Atene sia in termini di impiego di forze umane che diprocedure, non solo burocratiche.
“Il governo dovrà affrontare una quantitàenorme di lavoro a partire da oggi, specialmente per quanto riguarda ilcapitolo dell’accordo che prevede il trasferimento dei profughi dalle isolegreche alla terraferma e quindi il loro rientro in Turchia, qualora verràprovato che gli stessi siano arrivati via mare dalle coste turche”, dice conuna smorfia scettica Nikos Kostandaras, vice direttore del quotidiano nazionalepiù autorevole, Ekhatimerini. L’accordo, che si basa sul collocamento oricollocamento nei campi profughi turchi di qualsiasi rifugiato arrivato in Greciadalla Turchia, comporta infatti un surplus considerevole di lavoro
legale e tecnico
per le autorità
greche fin dai
prossimi giorni.
Lo scoglio
più difficile da
superare in
tempi brevi, è la
revisione delle
procedure per
il diritto di asilo, apartire dal
riconoscimento della Turchia come “paese terzo sicuro”, che consentirebbeall’Unione europea di far sì che i richiedenti asilo possano essere rispostatiin Turchia. Ma la Ue ha dovuto smussare la parte dell’accordo che riguarda proprio il ricollocamento in Turchiadei migranti – già abbozzato il 7 marzo scorso – perché considerato illegale daparte dell’Onu e della sua agenzia per i rifugiati, Unhcr, che assieme ad altreorganizzazioni umanitarie internazionali ed europee l’ aveva bocciato in quanto“deportazione di massa”. Questo aggiustamento richiede però allo stato greco unulteriore sforzo: la legislazione dovrebbe anche cambiare in modo che ledomande di asilo siano evase entro alcuni giorni e non mesi, come nel casoodierno. Allo stesso tempo, la Grecia dovrà prendere tutti i rifugiati emigranti attualmente sulle sue isole, Lesvos e Kos, circa 8 mila, e portarlinei campi della zona continentale, che però non sono sufficienti a conteneretutti.
Nei giorni scorsi sonoiniziati i lavori per l’allestimento di nuovi campi, anche nella zona nord occidentaledel Paese, al confine con l’Albania. Tale operazione deve avvenire pri ma chel'accordo con la Turchia entri in vigore. Dopo aver fatto questo, il governogreco dovrà istituire un sistema per registrare eventuali nuovi arrivati sulleisole ed esaminare le loro richieste di asilo. Ogni richiedente dovrà essere intervistatodai poliziotti di frontiera europei (a Lesvos la maggior parte è costituita da agentitedeschi) di Frontex come parte del processo e ogni richiesta esaminataseparatamente dalle altre. Chi si vedrà respinta la domanda avrà il diritto dipresentare ricorso.
Ciò comporta un forte coinvolgimento dellamagistratura e la presenza di centinaia di funzionari pubblici e altropersonale di stanza sulle due isole, per esempio traduttori, personale disicurezza e funzionari dell'agenzia delle frontiere dell’Ue, la già attivaFrontex. Inoltre dovranno essere presenti osservatori turchi. “I migranti cheda domani raggiungeranno le isole greche dalla Turchia devono essererimpatriati a partire dal 4 aprile”, ha dichiarato un funzionario turco. Forseall’inizio, per mostrare che l’accordo è applicabile, le cose andranno comedevono andare. Ma, considerati i tanti problemi del Paese, per quanto?
«Lo scambio. Niente di umanitario. Occhi chiusi sul destino dei profughi. Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea». Qualcuno prima o poi pagherà per l'ennesimo crimine dell' Europa ai danni dei più miseri del mondo.
Il manifesto, 19 marzo 2016
Sull’accordo di ieri tra Consiglio d’Europa e Turchia bisogna reprimere un senso opprimente di vergogna. I 28 statisti che governano questo continente di 506 milioni di abitanti hanno negoziato con Davutoglu (cioè con il suo padrone Erdogan) il seguente accordo: l’Europa accetterà 72.000 profughi e ne rimanderà altrettanti dalla Grecia in Turchia. In cambio Ankara ottiene per il momento 3 milioni di Euro per progetti sui migranti (i termini qui sono vaghi per occultare le promesse europee di altro denaro), l’avvio della procedura di ammissione della Turchia alla Ue e una facilitazione, anch’essa vaga, dei visti d’ingresso dei cittadini turchi in Europa.
Davotoglu ha avuto la faccia tosta di definire questo accordo non un mercanteggiamento ma una questione di «valori». Certo, basta dividere i 3 miliardi ottenuti dalla Turchia per 72.000 e otteniamo poco più di 40.000 euro a persona. Ecco il valore di migranti e profughi per Ankara. E che cosa ne faranno Erdogan e Davutoglu del gruzzoletto? Pasti caldi e comodi alloggi per tutti o magari, con i quattrini risparmiati sui rifugiati, un po’ di armi e di bombe? Bisognerà chiederlo ai curdi.
Ma accusare la sola Turchia di speculare sull’umanità alla deriva tra Egeo e Macedonia sarebbe ingiusto. Perché i veri mercanti di uomini sono gli stati europei. Come ha scritto ieri la Tageszeitung, 72.000 sono solo gli stranieri arrivati in un anno a Berlino. Una cifra irrisoria se proiettata sull’intero continente. Un numero che non risolve nulla, che lascia le cose come stanno e che serve solo ad alleggerire il peso dell’accoglienza che si è scaricato negli ultimi mesi sulla Grecia. Ora, orde di funzionari, poliziotti e guardie di confine europee invaderanno le isole dell’Egeo per “selezionare” gli stranieri buoni da quelli “illegali”. Per uno che entra, uno deve uscire. È la roulette russa del profugo.
L’ipocrisia europea ha toccato in questo caso cime abissali. Poiché una recente sentenza della Corte di giustizia prescrive che un profugo possa essere espulso in uno stato terzo solo se questo è “sicuro”.
Paese “sicuro”, cioè non specializzato in torture, ecco che alla Grecia basterà riconoscere alla Turchia questa qualifica e, voilà, i giochi sono fatti. La Turchia uno stato “sicuro”? Quella che rade al suolo le sue città abitate dai curdi? Quella che manganella manifestanti a tutto spiano? Quella che chiude i giornali non allineati al regime di Erdogan?
L’accordo di ieri non ha nulla a che fare con l’umanità, di cui ha parlato qualche tempo fa Frau Merkel. È la risposta miserabile della Ue alle paranoie di Hollande, all’eccezionalismo high brow di Cameron, alle pretese fascistizzanti di Orban, del governo ultra-reazionario di Varsavia, dell’estrema destra tedesca e di tutti gli altri cultori del filo spinato. E anche delle istituzioni finanziarie che ora, se l’emergenza di Idomeni finirà, potranno dedicarsi a spennare ancora un po’ Atene. E probabilmente della Nato, di cui la Turchia è membro irrinunciabile.
Che fine faranno i 72.000 rimandati in Turchia e tutti gli altri che dovevano essere ricollocati da mesi e vagano tra Sicilia, Calais e chissà dove? Che ne sarà di quelli che arriveranno ora, con la stagione calda, e che sicuramente la Turchia farà passare per spillare ancora quattrini agli europei? Renzi ha dichiarato che la questione dei migranti si risolve in Africa. Bisognerà dirlo agli afghani, agli iracheni e a tutti gli altri che non sono africani, non sono riconosciuti come profughi ed errano in quell’enorme campo minato che si stende tra Istanbul e Kabul, passando per Damasco e Baghdad. Con l’accordo di ieri l’Europa ha chiuso gli occhi sul loro destino.
Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea.
Nonostante gli scettici, dunque, per alcuni problemi e per alcuni gruppi di persone la cui vita è toccata pesantemente da quei problemi, la rappresentanza non elettorale, che fa centro sulla figura dello speaker di fama, può essere rilevante.
La Repubblica 18 marzo 2016
L’ALTO Commissariato dell’Onu per i rifugiati ha nominato sua inviata speciale Angelina Jolie, dando un riconoscimento autorevole al suo impegno a rappresentare cause umanitarie globali; un servizio volontario che l’attrice americana porta avanti da anni. Non votata né scelta dai rifugiati che rappresenta, l’attrice è stata incaricata da un’autorità di indubbia autorevolezza morale e simbolica a mettere la sua persona e la sua fama al servizio di milioni. Accettando l’incarico, l’attrice ha sottolineato di parlare a nome dei sessanta milioni di rifugiati che vanno ogni giorno nel mondo alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere. Ha detto di parlare soprattutto per quelli che provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, che scappano dalla guerra civile in Siria e che premono, spesso respinti con la forza, alle frontiere dei Paesi europei. Angelina Jolie si fa rappresentante senza alcun mandato elettorale e con la forza della sua celebrità, che ha il potere di avere e fare audience, si rivolge ai «governi di tutto il mondo» spronandoli a «dimostrare leadership» e ad «analizzare la situazione e capire esattamente quello che i loro Paesi possono fare, quanti rifugiati possono assistere».
La rappresentanza di problemi (claim-making representation) è da alcuni anni un fenomeno sempre più ricorrente. Basato su un semplice concetto: l’informazione e Internet in particolare hanno il potere di unificare l’opinione dell’umanità al di là dei confini nazionali, e di fare pressione su chi deve prendere decisioni. Parlare per chi non ha voce scuotendo la sensibilità di milioni (fare audience) con lo scopo di risolvere o almeno di mantenere un problema grave sempre sotto i riflettori. Per impedire che chi non ha voce scompaia dai radar del pubblico.
Il primo caso dirompente di questa rappresentanza non elettorale, eppure molto politica, è stato quello di Bono. Nel corso della campagna 2004 “
Make Poverty History” il cantante degli U2 dichiarò: «rappresento molte persone che non hanno voce alcuna... non mi hanno chiesto di rappresentarle. È impudente da parte mia, ma spero che siano contente che lo faccia».
In tutte le società ci sono persone che non sono state elette né scelte da nessuno e che a volte rivendicano di essere “rappresentanti politici” di qualcuno che soffre per una condizione di ingiustizia ma non ha voce nelle istituzioni, spesso nemmeno tramite la rappresentanza elettorale tradizionale. Anche tra i cittadini di uno Stato il voto non riesce a dare garanzia che la voce di alcuni non sia ignorata, che i problemi di tutti siano considerati, che alcune questioni non siano iniquamente considerate inferiori ad altre, che magari hanno rappresentanti di interessi forti e agguerriti. I gruppi forti hanno anch’essi i loro rappresentanti non eletti che incidono sulle scelte dei Paesi, ma proprio per la loro forza non hanno bisogno di ricorrere all’espediente della risonanza (anzi, spesso, per essere incisivi non vogliono essere visti né ricevere l’attenzione del pubblico). Sono i perdenti della rappresentanza tradizionale che hanno bisogno di ricorrere a forme nuove di rappresentanza.
Il declino delle ideologie classiste, l’indebolimento dei confini nazionali nel sollevare questioni e determinare decisioni condizionate vieppiù dalle multinazionali, la cronica disaffezione dei cittadini dei Paesi democratici verso i partiti politici (veicolo classico di rappresentanza idologica e simbolica oltre che elettorale), infine la prepotente affermazione di problemi transnazionali e globali che nessuno Stato ha il potere di risolvere da solo: tutto questo fa della rappresentanza di persone che nessuno ha eletto un fenomeno sempre più importante.
Certo, c’è un deficit istituzionale e di legittimità democratica in queste forme di patrocinio volontario transnazionale. Come ha riconosciuto Bono, è un «impudenza» dichiararsi rappresentante di qualcuno senza che quel qualcuno nemmeno lo conosca e, forse, non condivida neppure le sue idee. E impudente ma è una scelta che può avere successo e che, soprattutto, può aprire un nuovo processo rappresentativo, capace di mobilitare le opinioni di milioni di persone, fino a costringere chi ha la funzione di decidere a non girare le spalle. Nonostante gli scettici, dunque, per alcuni problemi e per alcuni gruppi di persone la cui vita è toccata pesantemete da quei problemi, la rappresenza non elettorale, che fa centro sulla figura dello speaker di fama, può essere rilevante. In un mondo che su questioni sempre più importanti non conosce confini, avere forme di rappresentanza capaci di giungere all’opinione pubblica che sta oltre i confini nazionali è sempre più necessario.
«La foto della piccola
Bayan nata in un campo di confine sta lì a ricordarci l'allargamento necessario della cittadinanza europea, come la foto del piccolo Aylan sta lì a ricordarci quale perdita di umanità comporta restringerla con i muri, i fili spinati e le forze dell’ordine». Internazionale, 14 marzo 2016
Un bambino di nome Aylan è morto sulla spiaggia di Bodrum lo scorso agosto. Una bambina di nome Bayan è nata pochi giorni fa nel campo profughi di Idomeni. Le rispettive fotografie sono già passate alla storia come simboli quintessenziali della condizione straziante in cui versano i migranti e della condizione penosa in cui versa la cosiddetta Unione europea, che sulle politiche per i migranti non cessa di disunirsi.
Della prima foto, lo ricorderete, si disse e si scrisse tutto e il contrario di tutto: che squarciava un brandello di realtà e che era abuso di minore, che scuoteva le coscienze e che era sciacallaggio mediatico, che forniva alibi alle nostre colpe e che poteva indurci a riscattarle, che alimentava la catena mediatica del voyeurismo e che la spezzava. Aveva ragione chi l’aveva scattata e chi l’aveva divulgata: quella foto aveva la forza dell’unicità e del perturbante, e fu capace di spostare la percezione dei migranti, da una massa indistinta e aliena alla singolarità delle vite innocenti spezzate; rimbalzò sulle decisioni politiche di Angela Merkel, mosse file di cittadini austriaci ad accogliere i profughi alla frontiera.
Della secondo foto, nessuno ha messo in dubbio la legittimità: è una nascita, non una morte; apre la speranza, non stende la cappa del lutto; celebra la vita, pur nelle condizioni di degrado estremo di un campo pieno di fango e di fame. Ma questa seconda foto non riscatta la prima: la raddoppia. L’una e l’altra, insieme, ci obbligano a pensare un impensato, il cambiamento della condizione umana che si sta verificando ai confini fra l’umanità che è legittimata a esistere e quella che non lo è.
Che cosa succede a una civiltà quando i due eventi decisivi della condizione umana, la nascita e la morte, accadono nella cornice di una condizione destinata da quella stessa civiltà a essere meno che umana, sub-umana, dis-umana? Quali corde profonde di empatia toccano, o dovrebbero toccare, quelle foto? Quali amputazioni provocano, se quelle corde non arrivano a toccarle? Quali confini mostrano, e quali spezzano? Il corpo del piccolo Aylan fu riportato dal padre nella sua terra d’origine per essere seppellito e compianto. La neonata di Idomeni a quale terra appartiene? Dov’è nata, in quale terra potrà tornare se e quando avrà desiderio di ritrovare la sua origine? Quale ius soli o quale ius sanguinis ne regolerà l’attribuzione sociale? Sulla sua carta d’identità ci sarà scritto che è nata a Idomeni, con la numerazione della tenda al posto della via e del numero civico?
Sui confini europei si combatte, oggi, una guerra di sfondamento che ha i caratteri di una mutazione della specie: non ne usciremo come eravamo, ne usciremo – se ne usciremo – inevitabilmente cambiati, alterati, letteralmente, da popolazioni che ci ostiniamo a considerare altre da noi e a volere allontanare, o appunto confinare, recintare, mettere al bando nei campi. Ma se il bando, gesto istitutivo dello stato d’eccezione, colpisce gli adulti, nulla può sulla nascita. Si nasce anche in un campo, si viene al mondo violando qualunque bando. Questa nascita dunque si fa beffa dei confini, e ne mostra non la potenza ma la porosità: l’umano spunta, imprevisto, proprio laddove lo si vorrebbe tener fuori. La vita si prende la rivincita sul suo controllo biopolitico, e l’esistenza si mostra nella sua eccedenza rispetto alla cittadinanza.
Etienne Balibar ha scritto qualche tempo fa che i migranti sono il motore dell’allargamento reale dell’Europa, quello che si produce da sé senza aspettare di essere sancito dai trattati, e la base impellente dell’allargamento necessario della cittadinanza europea. La foto della piccola nata in un campo di confine sta lì a ricordarcelo, come la foto del piccolo Aylan sta lì a ricordarci quale perdita di umanità comporta restringerla con i muri, i fili spinati e le forze dell’ordine. Le foto di altri bambini, militanti precoci di una guerra che li trascina in prima linea, ce li mostrano tutti con un cartello in mano: “open the border”, c’è scritto sopra.
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Una donna lava una bambina appena nata nel campo di Idomeni, al confine tra la Grecia e la Macedonia, il 6 marzo 2016. (Iker Pastor, Anadolu Agency/Getty Images) |