«Il manifesto, 31 maggio 2016
Anche l’altalena di dichiarazioni e smentite sulle richieste alla Grecia è prova di confusione: vorrebbero strangolarla, ma non vanno a fondo per paura, con la minaccia del Brexit alle porte, di innescare fughe a valanga. Ma otto anni di austerity hanno reso un problema insolubile, in un continente che perde tre milioni di abitanti all’anno, anche l’arrivo di un milione di profughi: tanti quanti erano i «migranti economici» che arrivavano ogni anno in Europa.
E si sistemavano, prima che i cordoni della borsa venissero stretti con il fiscal compact. Ma il campanello di allarme sono state le elezioni austriache. L’elettorato si è spaccato: metà per i respingimenti, metà per l’accoglienza. Con i due partiti che avevano governato il paese per settant’anni dissolti nello spazio di pochi mesi. In questo esito i partiti che, insieme o alternandosi, hanno governato finora i rispettivi paesi e l’Unione, impediti a schierarsi con gli uni, per non esserne divorati, e incapaci di dare una risposta agli altri, per la ristrettezza mentale che li divora, hanno letto il proprio futuro. Così si cercano di barcamenanarsi anche su questo terreno, mentre migliaia di profughi continuano a morire, a perdersi, a soffrire.
Angela Merkel si è adoperata per imporre un accordo con la Turchia che dovrebbe liberare la Germania e i suoi vassalli dall’«incubo dei profughi» lungo la rotta dei Balcani. Ma accortasi che Erdogan la teneva ormai al guinzaglio, ha accennato a una marcia indietro. Lo stesso ha fatto Schulz, dichiarando che l’Unione non abolirà mai i visti di ingresso finché la Turchia non rispetterà “tutte” le regole della democrazia (ma non ne sta rispettando nessuna); in compenso è sicuro che i profughi rispediti a Erdogan sono trattati molto bene (lo avrebbe constatato di persona, in una visita ad hoc). Alfano progetta hot spot galleggianti per rispedire subito in Libia i naufraghi raccolti in mare, proprio mentre è evidente che in Libia, come in tutti gli Stati africani con cui sono stati conclusi o si vuol concludere accordi di rimpatrio, quei profughi vengono massacrati, torturati e rapinati in ogni modo. Il tutto sullo sfondo dello «strepitoso» (parole sue) migration compact messo a punto da Renzi, che non propone altro che l’estensione del vacillante accordo con la Turchia a tutti i paesi di origine o transito dei profughi in arrivo dall’Africa; a un costo dieci volte superiore a quello che i governi dell’Ue già rifiutano di pagare alla Turchia; mentre nessuno accetta di rilocalizzare i profughi sbarcati in Grecia e in Italia, contando di scaricare sui due paesi il peso dei nuovi arrivi presenti e futuri.
È ora di dire che la questione dei profughi non è un’emergenza; ma non, come sostiene Renzi, perché il numero degli sbarchi di quest’anno non è eccezionale (ma lo è il numero dei morti, che già era intollerabile gli anni scorsi). Ma, al contrario, perché non è un fenomeno temporaneo, ma è destinato a durare per decenni con pari se non maggiore intensità. Ma non è un problema italiano; riguarda tutta l’Unione europea. Che o si attrezza per accogliere tutti i nuovi arrivati, senza distinguere tra profughi e migranti economici, per inserirli nel tessuto sociale e nel sistema economico con una svolta di 360 gradi nelle politiche fiscali, e imboccando definitivamente la strada della conversione ecologica; oppure si dissolverà insieme ai partiti che l’hanno governata finora, spalancando la strada alle forze che vogliono trasformarla non solo in una fortezza verso l’esterno, ma anche in una caserma all’interno. Oppure alle forze, ancora tutte da costruire, daraccogliere intorno alle migliaia di volontari che hanno capito l’importanza della posta in gioco, e che sanno che alle politiche di accoglienza non ci sono alternative; perché i respingimenti sono sì un crimine contro l’umanità, ma sono anche impraticabili.
Il manifesto, 28 maggio 2016
La questione dei profughi è salita di livello, sbarcando in Giappone, al tavolo del G7, come questione centrale per il futuro del pianeta. Non poteva andare diversa- mente. L'Austria ha mostrato una popolazione spaccata esattamente a metà tra chi vuole respingerli e chi accoglierli: una divisione che ta- glia verticalmente partiti, culture, religioni, classi sociali e divide tra loro gli Stati in tutta l'Europa. Una fotografia di umori presenti in tutti i paesi europei.
All'altro capo dell'Atlantico, Donald Trump ha fatto del respingimento dei migranti presenti e futuri il cavallo di battaglia della sua irresistibile ascesa. La democrazia, il pro- getto o l'esercizio di un autogoverno dei popoli, sono stati dissolti e risucchiati dalla concentrazione dei poteri nelle mani dell'alta finanza, e questo ha spalancato le porte della politica, ridotta a mera rappresentazione, alla sollecitazione degli umori più viscerali. La paura e lo schifo per il diverso, e il senso di superiorità che ciascuno a suo modo ne può ricavare, sono la compensazione che il potere riserva ai suoi sudditi, a fronte delle frustrazioni che infligge loro.
Intanto, all'altro estremo della scala sociale in cima alla quale è seduta l'élite del G7, si moltiplicano gli imbarchi dalle coste della Libia, i naufragi, i morti, i salvataggi e gli sbarchi; mentre lo sgombero del campo di Idomeni, ancora più cinico e spietato di quello in corso a Calais, lascia vedere quel che i Governi europei si ripromettevano dall'accordo appena concluso, e già vacillante, con la Turchia: la possibilità "lavarsi le mani" (dei profughi) per occuparsi di ciò che gli è più caro: i loro bilanci.
Ma non sarà così. Solo ora quei governi cominciano a capire che quella dei profughi non è un'"emergenza" temporanea, ma è destinata a durare per decenni a venire. Poi vedono. che, proprio per la sua visceralità, la questione sta cannibalizzando tutti gli altri temi, mettendo fuori gioco schieramenti e politiche di sempre, come è successo in Austria. Infine, forse, cominciano anche a rendersi conto che non sanno assolutamente come affrontarla. Solo Renzi, perché questo è il suo modo di governare, sembra contento di sé; e arriva a definire "strepitosa" la sua proposta di un Migration compact con cui cercare di nascondere quello che l'Europa si appresta fare: scaricare sull'Italia (e sulla Grecia; e la gestione e lo sgombero di Idomeni mostrano come) il peso di quei flussi che nessun accordo con paesi terzi riuscirà mai a trattenere. D'altronde, accordi per fermarli erano già stati conclu- si con la Libia, quando ancora esisteva, e il Sudan; e avevano già fatto fiasco, ma anche provocato morti, violenze e sofferenze senza fine alle vittime predestinate.
Che cosa prevede allora di nuovo il Migration compact? Niente altro che l'estensione di accordi analoghi a tutti i paesi dell'Africa centrale e mediterranea da cui provengono i flussi che alimenta-no la cosiddetta rotta mediterranea, il cui punto di approdo è l'Italia. Quei paesi, però, oggi sono quasi tutti stremati da conflitti armati interni o da feroci dittature; ma anche da crisi ambientali prodotte dal saccheggio delle loro risorse da parte di multinazionali occidentali e cinesi (e in buona parte europee), e dai cambiamenti climatici in corso. Non avranno mai forze economiche e militari sufficienti a farsi carico del ruolo di carceriere in conto terzi che l'Unione europea cerca di affidare alla Turchia. A questo dovranno comunque provvedere in prima persona, anche se in forma mascherata, i governi europei, aiutando quel che esiste dei governi locali a rinchiudere in campi di concentramento i profughi che vorrebbero fuggire dal loro paese; e promuovendone, non si sa come, "sviluppo" e occupazione (quella che l'Europa non riesce più a garantire nemmeno entro i suoi confini), perché nessuno abbia più interesse a emigrare, con un piano che vale 10 volte i sei miliardi promessi alla Turchia. Ma a parte la difficoltà di reperire quei fondi da governi europei sempre più alle prese con i loro bilanci, a quali forze affidare un compito impegnativo come "promuovere lo sviluppo"? Qui il progetto di Renzi raggiunge il grottesco: gli unici soggetti che cita come esempio sono Eni e Edf: due delle tante multinazionali responsabili dei danni ambientali e sociali che stanno costringendo milioni di persone ad lasciare i loro paesi.
Eppure i soggetti potenziali di un'inversione radicale delle politiche di devastazione di quegli habitat ci sono; e sono qui tra noi. Sono gran parte dei migranti già insediati da tempo sul territorio europeo e soprattutto i profughi che l'hanno raggiunto da poco o cercheranno di raggiungerlo in futuro. Sono giovani, spesso istruiti, sono comunque la componente più ricca di iniziativa (altrimenti non avrebbero intrapreso quel viaggio) delle comunità che hanno lasciato, e che molto spesso ne hanno finanziato il viaggio. Sono, in tutti i sensi, e soprattutto in quello culturale, le forze che, se accolte e inserite nel tessuto sociale dell'Europa, invece di costringerle all'inoperosità, di disprezzarli e di perseguitarli, come stiamo facendo, potrebbero esser non solo i protagonisti, insieme ai lavoratori e ai disoccupati europei più colpiti dall'austerity, di una rivitalizzazione della società e dell'economia europee; ma anche, grazie alle relazioni e alle competenze acquisite in Europa e ai rapporti che intrattengono con le loro comunità di origine, il vettore di una rinascita economica e innanzitutto della pacificazione dei loro paesi.
«L'Espresso, 27 maggio 2016
Il corteo in solidarietà di Yusupha, il giovane cambiano ferito da un boss di Ballarò“Chi ci talii?, Che guardi?”. I nuovi boss di Ballarò non tolleravano neppure le occhiate. Figurarsi il rifiuto di “dare qualcosa per i carcerati”. Oppure una manifestazione antirazzista “nella loro zona”.
Ma alla fine i commercianti del Bangladesh hanno detto basta per primi. Denunciando il pizzo e le continue aggressioni dei mafiosi. Proprio in occasione del 23 maggio, anniversario della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta. “Tentato omicidio, estorsione, incendio, rapina, violenza privata e lesioni personali” sono i reati contestati al clan Rubino. “Una storia senza precedenti, per la prima volta la denuncia collettiva vede coinvolti un cospicuo numero di migranti che da tempo vive a Palermo”, commenta AddioPizzo .
Come nasce la rivolta
San Giovanni a Teduccio, periferia Est di Napoli, è tra le zone più a rischio. Il degrado è ovunque. E l'abbandono scolastico è alto. Eppure c'è chi resiste e prova a dare un'alternativa ai ragazzi. Per salvarli dalla strada. E dai clan. Sos Scuola è il progetto che in questi giorni darà nuova vita all'istituto del quartiere, raro esempio di condivisione della zona
Darawsha ci racconta un crescendo di aggressioni e sparatorie in tutto il centro storico, da almeno sei mesi. Stanchi di subire, lo scorso primo aprile oltre cento commercianti hanno consegnato al sindaco una lettera di protesta. La maggior parte di loro erano migranti. “Per me quello che è successo è normale. Invece diventa straordinario”, ripete. “Se subisco un’ingiustizia vado a denunciare”. Racconta di una “criminalità orizzontale” sempre più aggressiva: “Una cosa è chiedere due euro, altro invece è puntare la pistola ai bambini”.
“Rissa tra extracomunitari”
Un proiettile che trapassa la testa, un’emorragia cerebrale e giorni di coma. Il tutto per aver litigato col boss del quartiere. Lo scorso 4 aprile il giovane Yusupha Susso, gambiano , rimane sull’asfalto del centro con la testa coperta di sangue. Mentre passeggia con altri ragazzi africani, incrocia il boss. Scatta una lite. L’uomo va a prendere una pistola, ritorna e spara.
“Rissa tra extracomunitari”, hanno titolato inizialmente giornali e blog. Invece è una ritorsione mafiosa. L’aggressore fa infatti parte della famiglia Rubino, ovvero gli arrestati nell’operazione antipizzo. “Un balordo ha sparato alla testa a un ragazzo solo perché si era ribellato alla sua prepotenza in stile mafioso”, si legge nel documento del comitato che ha organizzato la manifestazione di solidarietà col gambiano. che ora fortunatamente è in buona salute. “Si chiama Yusupha, ma si sarebbe potuto chiamare Giuseppe, Calogero o Salvatore, e tornava da un pomeriggio trascorso a riqualificare un campetto di calcio abbandonato nel quartiere di Ballarò e destinato a tutti i giovani del territorio”.
L’emozione suscitata dal ferimento è enorme. Yusupha è molto conosciuto, è impegnato in attività di volontariato e lavora anche come interprete per le istituzioni. Si arriva alla manifestazione del 9 aprile e l’atmosfera è carica di tensione. Come reagirà il quartiere? I mafiosi provano a impedire il corteo. Sfilare sotto i loro balconi è un gesto di sfida plateale. Tolto un momento di contestazione, tutto si svolge senza incidenti. Migranti e palermitani insieme hanno scelto la strada della rivolta. “Non spegni il sole se gli spari addosso”, hanno scritto su uno striscione retto tra gli altri dal sindaco Leoluca Orlando.
"Questo non è l'inferno"
Fulvio Vassallo Paleologo, già docente di diritto d’asilo all’Università di Palermo, invita a non semplificare: “I fatti che vengono alla luce sono conseguenza di uno scontro in corso che attraversa le comunità. Non si deve accentuare una contrapposizione su base etnica, né ghettizzare un intero territorio pieno di contraddizioni ma anche di grandi potenzialità”.
Fausto Melluso la pensa come lui. È uno degli animatori del circolo Arci “Porcorosso”, che fa animazione sociale proprio a Ballarò. “Qui non è l’inferno, questo è un posto incredibilmente migliore di altri, ma è anche un concentrato di problemi sociali. E non è un ghetto, perché migranti e palermitani di diversa estrazione vivono insieme”. Chi si confronta con il quartiere evidenzia con orgoglio le sue contraddizioni. A una miseria culturale che sfiora il nichilismo, con la violenza mafiosa, si contrappone il coraggio di chi denuncia, pur partendo da una condizione di svantaggio. “I migranti sono più ricattabili, ma hanno avuto una fiducia nello Stato che non si vede in altre categorie”, conclude Melluso.
Otto anni di gesti antimafiosi
Quello di Palermo non è il primo gesto antimafioso dei migranti. Eppure non è rimasta memoria di questi atti di eroismo. Nel settembre 2008, la comunità africana di Castel Volturno si ribellò alla camorra dopo a una strage che uccise sei migranti innocenti. L’unico sopravvissuto, un ghanese, testimoniò contro i casalesi.
Quattro mesi dopo, a Rosarno, dopo un ferimento a colpi di pistola, gli africani in massa testimoniarono e fecero arrestare il killer. Evento rarissimo per quel territorio. Anche perché si trattava di un pericoloso affiliato ai clan locali.
Poi, nel gennaio 2010, la seconda rivolta degli africani, con echi in tutto il mondo, cui seguì una violenta reazione di parte della popolazione locale. Tutti i neri presenti nella zona furono costretti ad andare via. Sempre nel 2010, due indiani di Locri denunciarono di essere stati vittime di aggressioni razziste da parte di una banda di giovani calabresi. Un mafioso finì in carcere. Poi, come segno di riconoscenza e di pace verso la città, gli indiani ristrutturarono gratuitamente la cappella del cimitero.
Ancora in Calabria, a San Gregorio, provincia di Vibo Valentia, la comunità romena fu presa di mira dal figlio del boss Mancuso, uno dei più potenti della ‘ndrangheta. Per gioco pestarono un migrante con un mattone fino a lasciarlo in una possa di sangue. Era il luglio del 2013. Alla fine il giovane boss fu condannato con l’aggravante dell’odio razziale. Gli stranieri, però, lasciarono in paese.
Queste storie dimostrano che tanti migranti non sono legati alla subcultura mafiosa e denunciano. Ma, finita l’emozione del momento, chi protegge il loro coraggio?
« La Repubblica, 26 maggio 2016 (c.m.c.)
I Paesi europei stanno accettando e integrando i migranti nelle loro società. Dunque la mia domanda è: perché non più siriani? E, parimenti, perché non più iracheni, afgani o somali? È per una questione di razzismo? È perché si sospetta che siano un rischio per il terrorismo? Oppure non sono considerati del tutto capaci o qualificati? Queste sono domande a cui i leader europei devono iniziare a rispondere per poter superare l’emergenza profughi.
L’Europa è ben consapevole delle conseguenze a livello strutturale, con un drammatico declino demografico in Germania, Italia e Spagna, giusto per nominarne alcuni. Nel 2014, i Paesi europei hanno accolto e integrato con successo circa 2,3 milioni di profughi, riunendoli alle loro famiglie e offrendo permessi di lavoro e un’istruzione. In effetti, il Regno Unito è stato il Paese migliore nell’integrazione dei migranti, accogliendone 568.000 solo nel 2014, provenienti anche dagli Stati Uniti, dall’India, dalla Cina e dal Brasile. Ma quanti dalla Siria? Quasi nessuno. Persino il mio Paese, l’Italia, ha integrato più di 200.000 persone nel 2014. Eppure molti europei continuano a negare l’accoglienza a rifugiati e migranti causati dall’“emergenza” lungo i confini meridionali del continente.
Abbiamo bisogno di più immigrati, di tutti i tipi. Non di meno.
Una volta che i rifugiati raggiungono l’Europa, deve esserci una politica d’integrazione efficace che eviti errori passati. Bisogna investire negli alloggi, nell’educazione, nella formazione linguistica e professionale per evitare una futura alienazione o privazione. L’Europa non può permettersi di continuare il suo approccio scoordinato e miseramente inadeguato alla realtà dell’immigrazione. Il nostro fallimento nel gestire efficacemente l’ingresso e l’insediamento di rifugiati e migranti ha aggravato il problema, creando una grave crisi politica.
Nell’assenza di un piano generale per la gestione e la distribuzione dei richiedenti asilo, le nazioni europee sono andate nel panico. Molte di loro hanno installato rigidi controlli di frontiera, alla ricerca di capri espiatori.
La Grecia, che ha attraversato una lunga fase di tensione economica prima dell’attuale crisi, è stata presa di mira per aver fallito nell’identificazione e nell’alloggiamento dei rifugiati. È assurdo pretendere che il Paese si faccia carico di questo fardello da solo. L’Ue ha garantito 509 milioni di euro per il programma nazionale della Grecia (2014-2020), oltre a degli aiuti addizionali per un totale di 264 milioni, per aiutare il Paese a gestire l’afflusso di migranti. Tuttavia, alcuni stati membri non hanno pagato la loro parte. Questa mancanza di solidarietà sta aggravando la crisi e fa sì che la Grecia non abbia le risorse necessarie per identificare ogni migrante e per determinarne il diritto d’asilo. Questo processo d’identificazione richiede più operatori sociali, interpreti e giudici, che l’Europa ha promesso ma a cui non ha ancora provveduto.
Se è vero che c’è stata una mancanza di leadership in questa situazione, è altrettanto vero che alcuni interventi positivi sono stati fatti. Ad esempio, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha coraggiosamente aperto le porte ai rifugiati (o, per dirla con le sue stesse parole, si è semplicemente rifiutata di chiudere le porte). È stata accusata e criticata per “aver scelto i rifugiati”, favorendo in particolare quelli siriani per la loro tendenza a venire formati e istruiti meglio. Perlomeno ha mantenuto aperto il confine tedesco per identificare i nuovi arrivi, e vorrei incoraggiare altri stati dell’Unione Europea a seguire lo stesso esempio.
In Italia possiamo essere orgogliosi delle vite salvate grazie all’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo. Il programma ha salvato più di 140.000 persone in meno di un anno, prima che fosse ufficialmente chiuso alla fine del 2014. Stiamo continuando con le operazioni di ricerca e salvataggio su una scala molto più ridotta, grazie all’impegno della Guardia costiera italiana, delle associazioni di pescatori e delle Ong.
Una missione appropriata nel Mediterraneo dovrebbe comprendere un programma attivo di ricerca e salvataggio, seguendo il fortunato esempio di Mare Nostrum, al fine di affrontare i prossimi mesi e anni di questa crisi. Il pensiero di perdere vite in mare è assolutamente inaccettabile.
Le istituzioni europee hanno bisogno di migliorare le loro capacità di previsione per identificare i segnali d’allarme d’instabilità politica e di potenziali conflitti, e prendere iniziative adeguate per aiutare gli stati vulnerabili prima che un altro esodo di massa inizi. Un Paese a rischio è l’Algeria, caratterizzato da un conflitto sociale esteso, un sistema politico chiuso e una corruzione dilagante. Non c’è alcun successore vivente al presidente Abdelaziz Bouteflika. Considerando tutto il disordine in Libia e negli altri Paesi vicini, è lecito descrivere l’Algeria come una bomba pronta a esplodere. L’Europa non sta facendo abbastanza per prevedere e impedire un potenziale scoppio e le inevitabili conseguenze sulle migrazioni che ci sarebbero per il nostro continente.
Ci sono innumerevoli complicazioni riguardanti la crisi odierna, incluso le modalità di separazione dei rifugiati dai migranti economici. È una distinzione tanto importante quanto non sempre facile da fare. Prima di tutto, la maggior parte di queste persone arriva qui senza documenti. Uno potrebbe dire di provenire dall’Eritrea, per esempio, ma come si potrebbe stabilire se questo sia vero oppure no? In secondo luogo, come dovrebbe essere classificata questa persona, come un rifugiato o come un migrante economico? È indubbiamente molto difficile.
Possiamo costruire un sistema più razionale per affrontare le varie sfide, ma solo se prima plachiamo l’isterismo che sta colpendo l’Europa. Milioni di persone stanno sfuggendo alla guerra, alla repressione, alla tortura e alle minacce di morte. Prima di tutto, la politica dei profughi deve salvaguardare le vite umane.
È un problema globale e non limitato al Mediterraneo. Aiuta a riflettere sulle situazioni negli altri Paesi: la Tunisia ha accolto un milione di libici in una popolazione di circa undici milioni di abitanti; il Libano ha accolto più di un milione di siriani in una popolazione di circa quattro milioni di abitanti. Come può l’Europa non dimostrare lo stesso spirito generoso nel dare il benvenuto a coloro che fuggono da questi orrori?
LA “DEBOLEZZA” ITALIANA
«I flussi non si fermano — avvertono dal Viminale — attendiamo tra oggi e domani oltre 3mila migranti». Non solo. Stando all’Oim, in Libia ce ne sono più di 700mila. Il nostro paese ha cominciato a stipulare accordi di riammissione nel 1996, ma non li ha con i principali paesi d’origine. Basta guardare le nazionalità: tra i 34.236 migranti arrivati via mare dal primo gennaio al 24 maggio 2016, il 14% si dichiara nigeriano, l’11% eritreo, seguono Gambia, Somalia, Costa d’Avorio, Guinea, Mali, Senegal, Sudan, Egitto. Insomma tra le prime dieci nazionalità, l’Italia vanta accordi di riammissione solo con due: Egitto e Nigeria.
IL SOCCORSO UE SULLE ESPULSIONI
Il Migration compact prevede che sia la Ue con la sua forza a trattare con gli Stati africani: finanziamenti in cambio di accordi di rimpatrio dei migranti. «Che sia l’Europa a trattare è un passo avanti — ragiona Soda — soprattutto per l’Italia, che sarà un po’ meno sola». Insomma via libera su questo punto. Non a caso sulla proposta italiana arriva anche il sostegno del direttore generale dell’Oim, William Swing.
I CENTRI D’ACCOGLIENZA
Altro cardine è l’apertura di centri di accoglienza, finanziati dall’Ue, nei paesi di transito, dove intercettare i flussi prima che arrivino in Europa. Qui si farebbe lo screening tra migranti economici e persone bisognose di protezione internazionale. Insomma, il viaggio dei rifugiati terminerà in questi centri e da lì si presenterà domanda d’asilo. «Questo piano ci preoccupa — sostiene Soda — chi gestirà i centri? Con quali standard? Di campi profughi in Africa già ce ne sono troppi. Perché aprirne altri? Il più grande del mondo è a Dadaab e il governo kenyano vorrebbe chiuderlo. La vera scommessa sono i reinsediamenti».
I RE-INSEDIAMENTI
Con i re-insediamenti i paesi Ue vanno a “prendersi” chi ha diritto all’asilo direttamente nei paesi d’origine o di transito e lo portano in sicurezza sul proprio territorio. Il reinsediamento, previsto dal Migration compact, è già nell’accordo Ue-Ankara: dal 4 aprile al 13 maggio 2016 sono 177 i siriani reinsediati dalla Turchia in altro Stato Ue. Ma per il resto il meccanismo non funziona. «Se si aprissero davvero nuovi campi nei paesi di transito africani — ragiona Soda — centinaia di migliaia di persone ci si ammasserebbero in poco tempo con la speranza di raggiungere l’Europa. Per gestirli e alleggerirli la Ue dovrebbe essere pronta a reinsediamenti di ampia scala. Se no, questi campi sarebbero solo nuove città di disperati».
«». Sbilanciamoci.info, 24 maggio 2016 (c.m.c.)
Partiamo da qui. La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano trasversalmente tutte le culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore.
Il razzismo attecchisce del resto facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici crisi in corso: quella economico-sociale (i cui effetti stentano a dissolversi), quella politica e quella internazionale. La tentazione di cercare un rifugio nell’egoismo, nella difesa del proprio particulare o, al più, di quello di una comunità locale o nazionale scelta per definire artificiosamente un’identità sociale di cui, evidentemente, si sente la mancanza, sta riemergendo in modo diffuso. Tanto che non solo un europarlamentare può permettersi di definire i rom come “la feccia della società” nel corso di una trasmissione televisiva popolare, ma viene sommerso dagli applausi di buona parte del pubblico presente in studio.
Gli attentati di Parigi e Bruxelles hanno gettato dunque legna su un fuoco d’intolleranza, di ostilità e di razzismo che non aveva alcun bisogno di essere alimentato. In questo clima si colloca la crisi umanitaria che dai lontani conflitti in Siria, Iraq, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Nigeria e Sudan (solo per citarne alcuni) conduce nelle città europee migliaia di uomini, donne e bambini, ammesso che riescano a evitare le navi militari e a superare i muri e i recinti di filo spinato che intenderebbero respingerli dalla Fortezza Europa.
Oggi l’attenzione è tutta rivolta alla Grecia (875mila persone accolte nel solo 2015), ma 153mila persone sono giunte nello stesso anno via mare in Italia (erano state più di 170mila nel 2014): più del doppio di quelle 62.692 persone che nel 2011 indussero il Governo Berlusconi a proclamare la cosiddetta “emergenza Nord-Africa”. Tra queste, 16.478 sono i minori e 12.360 i minori non accompagnati. Al 30 gennaio 2016 il sistema polimorfo di accoglienza pubblico aveva in carico 104.750 persone, in maggioranza ospitate nei Centri di Accoglienza Straordinari (che il Ministero dell’Interno definisce “strutture temporanee”, ma che tali non sono).
Il varo di un Piano Nazionale per la gestione dell’impatto migratorio, sancito in sede di Conferenza Unificata tra Stato-Regioni ed Enti locali nel 2014, il dibattito sviluppato in Parlamento e nel Consiglio Europeo sull’Agenda europea sulla migrazione e quello, molto spesso fazioso, dei media sui “costi dell’accoglienza” esacerbato dall’avvio dell’indagine “Mafia Capitale”, hanno ancora una volta sbilanciato l’attenzione, l’operato e le risorse pubbliche nazionali e comunitarie sul versante delle attività di gestione e controllo dei flussi migratori, di soccorso in mare e della prima accoglienza, continuando a lasciare in secondo piano gli interventi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa di quei 5 milioni di persone straniere (un milione di minori) che vivono ormai stabilmente nel nostro Paese.
Gli sforzi indubbiamente compiuti per rafforzare il sistema di accoglienza (da una capienza di circa 22mila posti nel 2013 si è passati ai più di 100mila attuali) hanno replicato alcune delle storture già presenti negli anni precedenti. Ad oggi la risposta istituzionale sembra priva di quella lungimiranza che sarebbe necessaria per gestire un fenomeno sociale, storico e strutturale che l’attuale crisi umanitaria ha reso più complesso da gestire.
Il Manifesto, 20 maggio 2016 (p.d.)
Richieste di asilo esaminate in pochi minuti. Minori trattenuti illegalmente e migranti, tra i quali anche soggetti considerati vulnerabili, espulsi dal sistema di accoglienza e abbandonati al loro destino. Pensati per selezionare i migranti al loro arrivo in Italia, gli hotspot si sono trasformati velocemente in luoghi di produzione di illegalità e emarginazione. Da settembre a oggi, secondo quanto denunciato nel rapporto «Hotspot, il diritto negato» presentato ieri da Oxfam Italia, nelle sole strutture di Pozzallo e Lampedusa sarebbero state respinte più di 4.000 persone. In teoria una volta rigettata la richiesta di asilo dovrebbero lasciare l’Italia entro sette giorni, dopo aver raggiunto a proprie spese l’aeroporto romano di Fiumicino e aver acquistato un biglietto per il paese di origine. Ma senza soldi e soprattutto senza documenti validi né assistenza, rischiano di finire in mano alle organizzazioni criminali e di essere sfruttati come manodopera nei campi o, per quanto riguarda le donne, avviate alla prostituzione. «Queste persone non possono che andare a ingrossare le file degli irregolari, costrette in alloggi di fortuna e senza nessuna prospettiva», è scritto nel rapporto.
La creazione degli hotspot è prevista nell’agenzia europea sulle migrazioni del 13 maggio 2015, senza però un preciso quadro legale all’interno del quale queste strutture devono operare. Sulla carta le richieste di asilo dovrebbero essere esaminate nell’arco di pochi giorni, mentre i migranti economici, considerati irregolari, dovrebbero essere rimpatriati anche con la collaborazione di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Stando a quanto denuncia il rapporto, però, una fase delicata come l’interrogatorio dei migranti, dal quale dipende l’accettazione o meno della richiesta di asilo e quindi il loro futuro, avvererebbe in maniera a dir poco spiccia e soprattutto senza informare adeguatamente le persone dei loro diritti. «Nessun ente di tutela è presente in questa fase, non Unhcr, non Easo, nessuno che possa garantire in modo imparziale che la volontà dei migranti venga realmente compresa e correttamente registrata», prosegue Oxfam.
Nel rapporto vengono riportate anche alcune testimonianze di migranti. «Io avevo detto che ero scappato dal mio paese per gli scontri che ci sono…, c’è la guerra, volevano farmi combattere contro i miei connazionali», racconta ad esempio M., 23 anni, originario del Ghana. «Ma poi due giorni dopo mi hanno dato il foglio (il decreto di respingimento, nda) e via». Storia analoga anche quella di B., 22 anni, del Gambia. «Quando mi hanno intervistato io ho detto “Asylum! Asylum!”, l’ho detto lo giuro. Ma poi mi hanno messo con gli altri, nigeriani, del Togo del Mali e ci hanno dato il foglio».
Nel tentativo di mettere un argine a questa situazione Oxfam, insieme a Borderline Sicilia e alla Diaconia Valdese, ha dato vita al progetto OpenEurope che si propone di assistere quanti sono stati respinti. Dal 9 maggio un camper con a bordo un avvocato, un mediatore culturale e un operatore addetto all’accoglienza contatta i migranti aiutandoli a presentare il ricorso contro il decreto di respingimento e a preparare la richiesta di asilo, avviandoli verso le strutture di accoglienza. I soggetti più vulnerabili, come donne sole, incinte ma anche minori non accompagnati, disabili e persone con problemi psichici possono invece contare su un appartamento in provincia di Siracusa messo a disposizione dalla Diaconia Valdese.
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
Non dovrebbero esserci più dubbi sul fatto che l’Europa che abbiamo conosciuto e sognato non c’è più. Confini, filo spinato, respingimenti stanno dando l’impressione che la causa della crisi sia la recente esplosione dell’immigrazione. Ma non è così. Il principale fattore di crisi è precedente e riguarda l’evoluzione e la gestione dell’unificazione europea.
Il processo è stato sviluppato come un crescendo rossiniano. Si è partiti da un nucleo originario di pochissimi paesi con livelli di vita abbastanza simili, ci si è progressivamente allargati ad un’area crescente di paesi con livelli di vita sempre più differenziati. Se nell’Europa a sei il rapporto tra Pil per abitante del paese più povero (Italia) e Pil del paese più ricco era di 1 a 2,7, esso è diventato di 1 a 5 con l’ingresso di Spagna e Portogallo, poi di 1 a 12 nel 1995 (paese più povero la Lettonia) fino ad arrivare ad 1 a 20 nel 2007 (paese più povero la Bulgaria).
Il numero di paesi è cresciuto di cinque volte, le disuguaglianze interne di sette volte, le aspettative si sono sempre più divaricate: i paesi più ricchi contavano sui nuovi mercati di sbocco e su manodopera a costi più bassi, quelli più poveri su crescita e benessere a livelli “europei”.
Tutto questo allora non sembrava irrealistico perché, proprio fino al 2007, le economie crescevano: dal 2000 al 2007 i paesi del centro nord hanno visto crescere il reddito procapite del 12%, quelli del sud del 9%, quelli provenienti dall’est sovietico, che erano entrati con redditi di appena un quarto, sono crescite del 44%.
Il loro sogno, insomma sembrava potersi realizzare. Ma nel 2008 si è verificato un primo fattore imprevisto: è iniziata quella crisi che si trascina fino ad oggi e che in Europa si è tradotta in una stagnazione-recessione differenziata: la crescita dei paesi dell’est è crollata all’8%, quella del centro nord si è azzerata, i paesi del sud hanno perso addirittura l’11%. La crisi, così, ha vanificato i sogni ed aumentato le disuguaglianze.
Un fenomeno di questa portata avrebbe richiesto una politica economica solidale con un intervento pubblico consistente, si è fatta invece una politica di austerità e di egoismi nazionali. Da qui la rinascita di nazionalismi e populismi prima e la nascita di tre linee di frattura tra paesi ricchi del centro nord, paesi dell’area orientale e paesi del sud mediterraneo. La crisi economica è la prima frattura dell’Europa, è, quindi, un problema a sé che prescinde dall’esplosione delle migrazioni.
Queste sono sopraggiunte dopo, si sono inserite nelle linee di frattura ricordate, debbono, quindi, essere esaminate separatamente. La nuova grande migrazione del ventunesimo secolo riguarda ambedue i continenti più ricchi del mondo, quello americano e quello europeo. In questo scenario globale l’Europa è diventata la terra promessa per una lunghissima teoria di popoli che si snodano dall’Asia (Afghanistan, Pakistan…), attraversano tutto il medio oriente (Siria, Irak..) arrivano all’intero, immenso, continente africano.
Si tratta di una migrazione senza precedenti causata da fughe da guerre e da fame, incentivata dalla nuova conoscenza del mondo prodotta dalla rete, sostenuta da una nuova ed inattesa coscienza del diritto di emigrare e di essere accolti. Una nuova generazione di migranti, di diverse etnie e generazioni, unite da una nuova consapevolezza della loro condizione di vittime di politiche economiche e militari occidentali preme senza sosta ai confini del mondo sviluppato con una potenza quantitativa e qualitativa inarrestabili.
Questo fenomeno, in Europa, si somma alla crisi economica, ne accentua le linee di frattura e ci pone davanti ad drammatico bivio: cercare di giorno in giorno di arginarne gli effetti con politiche di emergenza permanente o prendere il toro per le corna ed impostare una strategia di lungo periodo adeguata alla gravità della situazione.
Partiamo intanto da una constatazione. L’esodo che stiamo vivendo presenta una differenza rispetto a quello del continente americano perché qui le conseguenze si scaricano tutte sull’Europa, ma le cause non sono generate dalla sola Europa. Le politiche di sfruttamento delle risorse, le guerre che hanno destabilizzato paesi ed intere aree, sono state promosse dagli Usa, accettate dall’Europa ed avallate dall’Onu ed hanno generato una nuova divisione del mondo. Se fino a pochi decenni fa si poteva parlare di “paesi sviluppati”, “paesi emergenti” e “paesi fermi” e si poteva ipotizzare una mobilità dei paesi da un gruppo all’altro, oggi ai tre gruppi citati se ne è aggiunto un altro, quello dei “paesi declinanti” come Siria ed Irak e questi nuovi blocchi appaiono come sclerotizzati ed immodificabili. La conseguenza è che i “paesi declinanti” ed i “paesi fermi” sanno di essere tagliati fuori e per sempre da ogni speranza di futuro.
Questa suddivisione appare inaccettabile in tempi di globalizzazione economica e delle informazioni ed è proprio la consapevolezza di essere tagliati fuori da ogni possibile futuro sviluppo che sta determinando i ritmi senza precedenti dell’esodo dal medio oriente e dall’Africa. Il problema tocca l’Europa, ma è di carattere globale.
Serve perciò una politica all’altezza dei tempi e delle dimensioni che si fondi su tre pilastri capaci di unificare le risposte all’emergenza a quelle più strutturali. Gestire i flussi distribuendoli tra paesi, riequilibrare le disuguaglianze tra aree, arrestare i focolai di guerre diffusi sono tre azioni che debbono far parte di un’unica strategia. Si tratta di un sogno, di un progetto utopistico, difficile? Si anzi difficilissimo ai limiti dell’impossibile.
Si tratta di un progetto che richiederebbe una sessione straordinaria dell’Europa prima e dell’Onu dopo che affronti il problema delle nuove migrazioni, che vari un grande piano euro mediterraneo di pacificazione, di riequilibrio e di sviluppo. Si tratta di realizzare ingenti investimenti e di trasferire risorse dai paesi più ricchi verso le aree ferme ed in declino. Si tratta, però, di cose che nessuno ci costringe oggi a fare. Possiamo continuare a trastullarci col nostro declinante benessere materiale, a resistere ed ostacolare gli arrivi, a palleggiarceli come merci infette che nessuno vuole, a spostare il problema sempre oltre e sempre dopo. Possiamo anche farlo fino a quando non esploderanno le nostre miserie culturali ed umane.
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano oggi nel nostro paese provengono da paesi del Nord Africa e dell’Africa occidentale. Ed è proprio a quel continente che il governo ha deciso di rivolgersi organizzando la prima conferenza ministeriale Italia-Africa, che ha riunito ieri a Roma i ministri degli Esteri di oltre 50 paesi. «Per ora non ci sono emergenze – ha detto il ministro Paolo Gentiloni introducendo i lavori – ma proprio per questo dobbiamo lavorare, adesso che abbiamo lo spazio e la possibilità, per mettere in campo una strategia prima che cominci una situazione di maggiore emergenza».
La strategia prescelta è quel migration compact già presentato poche settimane fa a Bruxelles e che prevede finanziamenti destinati a progetti di cooperazione utili a contenere le partenze. Per ora si parla di dieci miliardi di euro da investire in Tunisia, Senegal, Ghana, Niger, Egitto, Nigeria e Costa d’Avorio. E come primo passo, ieri l’Italia ha cancellato la parte di debito che il Ciad ha nei suoi confronti. «Paesi sicuri, destinatari dei rimpatri e con i quali si possono fare accordi bilaterali. Altro discorso sono i paesi in guerra, gli stati falliti. E con quelli è molto difficile avere rapporti di questo tipo», ha aggiunto Gentiloni.
Non si tratta, però, di un regalo, visto che anche i paesi beneficeranno dei finanziamenti europei dovranno fare la loro parte. In particolare quello che Roma – e presto l’Europa – chiede è un impegno nel rafforzare i controlli ai confini, maggiore cooperazione nei rimpatri degli irregolari e una gestione nei rispettivi territori dei flussi migratori, distinguendo così fin da subito tra richiedenti asilo e migranti economici. In pratica la riproposizione, seppure in termini diversi, dell’accordo siglato il 18 marzo scorso con la Turchia.
Oggi Renzi illustrerà il piano al premier olandese Mark Rutte, presidente di turno dell’Ue, in visita a Roma, e lunedì se ne parlerà al vertice dei ministri degli Esteri dei 28. Ma l’Italia chiederà al Consiglio europeo in programma a giugno di allestire un «piano operativo» e di «ampio respiro», in modo da poter partire quanto prima con dei progetti pilota. Non è a prima volta che l’Europa cerca di coinvolgere l’Africa nella gestione dei migranti. A novembre dell’anno scorso si tenne a La Valletta un vertice Ue-Unione africana proprio su questo tema, ma con scarso successo. Bruxelles mise sul piatto aiuti per 1,8 miliardi di euro per quei paesi disposti a collaborare per impedire le partenze, senza però ricevere le risposte sperate. Troppi pochi soldi (specie se paragonati ai 3 miliardi di euro destinati alla Turchia dei quali già si cominciava a parlare), ma soprattutto nessuna disponibilità ad aprire campi dove trattenere i migranti. L’esperienza ha spinto Roma a lavorare su un approccio diverso, che puntasse davvero allo sviluppo delle economie locali. Una scelta che sembra aver fatto breccia nei ministri riuniti a Roma. «Dobbiamo rafforzare il processo di industrializzazione in Africa e offrire opportunità di lavoro per dare uno sbocco ai giovani», ha commentato ieri la presidente dell’Unione africana, Nkosozana Damlini Zuma. «Se noi riuscissimo a valorizzare le nostre risorse naturali e minerali del 50 per cento potremmo creare ben 7 milioni di posti di lavoro ogni anno».
Oltre che per mettere fine agli sbarchi di migranti, la partita che sta giocando con l’Africa è fondamentale per Renzi anche per un altro motivo. L’Italia si è infatti candidata a un seggio come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il 2017/18. Si vota il 28 giugno e per essere eletti bisogna conquistare i due terzi dei voti dell’Assemblea generale. Chiaro, quindi, che per Renzi è fondamentale avere dalla propria parte se non tutti almeno la maggioranza dei 54 stati africani.
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
Siamo un gruppo di insegnanti del Liceo «Leonardo da Vinci» di Trento.
Da anni insieme ai nostri studenti ogni 27 gennaio siamo soliti commemorare, con un ricco programma di iniziative, la giornata della Memoria; da anni gruppi di nostri alunni partecipano ai viaggi del cosiddetto «treno della memoria» e più recentemente alcune nostre classi hanno avuto la possibilità di visitare le città bosniache martoriate dalla guerra; da anni, come avviene in molte altre scuole italiane, la maggior parte degli insegnanti trentini s’impegna a promuovere i valori della pace e della convivenza tra i popoli e le culture.
Anche per questo oggi più che mai, come uomini e donne, come cittadini e cittadine che portano la responsabilità di formare altri all’essere uomini ed all’essere donne e a vivere consapevolmente la propria cittadinanza, sentiamo il dovere di affermare con forza che è inutile celebrare Giornate della memoria, organizzare viaggi per non dimenticare, onorare con corone di fiori le decine di migliaia di migranti sepolti in mare se, poi, di fronte alla disperata richiesta di aiuto di chi non ha più niente l’unica risposta che sappiamo dare è la costruzione di muri!
Eppure non abbiamo nemmeno bisogno di immaginare le conseguenze della demonizzazione e dell’esclusione di chi è debole e diverso, perché l’abbiamo già vissute e ne trasmettiamo il ricordo alle nuove generazioni attraverso l’insegnamento della storia, della filosofia, della letteratura del secolo scorso.
Ci suonano dunque gratuitamente ipocrite le Convenzioni che pure sono state firmate, le Agenzie che pure sono state create; ci sembra indecoroso lo spettacolo che le istituzioni europee e i rappresentanti dei singoli stati nazionali dell’Unione stanno offrendo in questi mesi; ci sembra del tutto rimossa la nostra storia nazionale, che, da Sud a Nord, è storia passata di migrazione economica di povera gente ed è storia presente di migrazione economica di giovani diplomati, laureati, ricercatori; ci sembra infine tradito e vilipeso l’articolo 10 della nostra Costituzione che sancisce il diritto di asilo per lo straniero cui «sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».
Con questa lettera intendiamo esprimere in modo fermo il nostro dissenso nei confronti delle irresponsabili politiche migratorie europee. Troviamo poi semplicemente immorale il recente accordo stipulato con la Turchia, in nome del quale si riconsegnano donne, uomini e bambini ad un paese fino a ieri giustamente accusato di primeggiare in violazioni del diritto internazionale e della stessa Convenzione europea dei diritti umani ed oggi con incredibile cinismo riabilitato, al solo fine di liberarsi dell’impegno e della responsabilità dell’accoglienza. Ed ancora ci tocca vedere filo spinato e soldati in assetto di guerra a presidiare confini e centri di raccolta: immagini che pensavamo sepolte nel passato, masse di profughi accampate in condizioni disumane, come per esempio ad Idomeni, sul confine tra Grecia e Macedonia, o a Lesbo, dove persone giunte prive di tutto sono detenute al pari di criminali, perché certo un reato, e gravissimo, lo commettono ogni giorno ed è quello di voler vivere! Questa Europa non ci piace, non ci rappresenta, non la vogliamo (…). C’è un’Europa, invece, cui guardiamo con fierezza e commozione ed è quella che cerca di dare concreta attuazione ai principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che perdura e resiste in tantissimi suoi cittadini.
Noi, persone comuni, non ci rassegniamo a tacere ed a voce alta chiediamo che tutta l’Europa si faccia terra ospitale, capace di condurci tutti insieme lontano dalle strade buie del nostro recente passato, sognando e credendo possibili altri percorsi non ancora tracciati.
L’Europa che vogliamo è quella disposta a restituire questa umanità dolente alla vita. Una vita dignitosa.
In memoria di Giulio Regeni.
Allocati Valeria, Arman Enrico, Armani Sara, Bertoli Elena, Bertolini Giuliana, Callovi Loredana, Carapella Antonio, Conci Alberto, Corradini Manuela, D’Acunto Pietro, D’Alonzo Nicolino, De Tomas Francesca, Eghenter Novella, Flessati Sabrina, Gemmati Raffaella, Maiolino Francesco, Marchese Agata, Maroni Luisa, Mastropierro Francesca, Nicolini Lorena, Nicolini Nicoletta, Oss Giorgio, Pascotto Sabrina, Pasquali Antonella, Paternoster Stefano, Pellegrini Massimo, Perini Paola, Piombo Federica, Ricupati Vita, Romanato Roberta, Tecilla Melania, Tomasi Chiara
«Per arrivare in Europa, ogni migrante ha pagato fra i 3.200 e i 6.500 dollari alle organizzazioni criminali. Organizzazioni che sono una "multinazionale del crimine" che coinvolge uomini originari di più di 100 Paesi. Nessun legame sistematico fra terrorismo e migrazioni, ma cresce il rischio di foreign fighter di ritorno»
Il business dei migranti fa dei trafficanti di esseri umani una vera e propria multinazionale del crimine. Il bottino complessivo si aggira, solo per il 2015, fra i cinque e i sei miliardi di dollari. Per arrivare, in condizioni spesso disperate, in Europa, ogni migrante ha pagato fra i 3.200 e i 6.500 dollari alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di migranti. Che sono vulnerabili di sfruttamento sessuale o lavorativo, usati come mezzi per ripagare il loro debito con i trafficanti.
Traffico che coinvolge uomini originari di più di 100 paesi e può contare su una struttura formata da una serie di capi che coordinano le attività lungo le rotte migratorie, “manager” che gestiscono le attività sul posto attraverso contatti personali e facilitatori di più basso livello.
Da loro passa il 90% del flusso di migranti che provano ad entrare nel vecchio continente: è questo il “core business” della multinazionale dei trafficanti di uomini. Fatta, di solito, di gente con una storia criminale alle spalle. E se dai dati snocciolati da Interpol non emerge alcun legame sistematico fra il terrorismo e le migrazioni, il rapporto segnala un “rischio crescente” di foreign fighter che possono unirsi al flusso migratorio per rientrare nell’Unione Europea.
Le partenze dal Nord Africa, intanto, non accennano a fermarsi. La Guardia Costiera ha soccorso la scorsa notte, 40 miglia a nord delle coste libiche, 200 persone – tra loro 45 donne e 11 minori – che erano a bordo di un barcone diretto verso l’Italia. Ricevuto l’allarme, la centrale operativa di Roma della Guardia Costiera ha localizzato il natante ed ha inviato la propria nave Peluso in soccorso dei migranti.
Il Manifesto, 17 maggio 2016 (p.d.)
A Yasser un rene lo hanno preso al Cairo. In cambio ha avuto 3mila dollari, briciole per sopravvivere nella fuga dalla Siria in guerra. Era scappato poco prima da Homs, per ritrovarsi senza soldi in Egitto: «Non avevo denaro, non riuscivo a trovare un lavoro. La mia sola scelta era vendere il rene sinistro. La peggiore decisione della mia vita».
A raccogliere la storia di Yasser è il Syrian Independent Media Group (Simg), ombrello di agenzie indipendenti che raccontano la guerra civile siriana e i suoi effetti: le morti in mare, i bambini schiavi, le donne abusate. E il traffico di organi, un fenomeno che si diffonde pericolosamente sia in Siria che nei paesi di arrivo dei rifugiati. I profughi, disperati, vendono cornee e reni. Dietro stanno reti criminali che operano localmente per trasferire gli organi nel più vasto mercato mondiale.
Difficile dare numeri certi. Hussein Nofal, capo del dipartimento di medicina forense all’Università di Damasco, ci prova: 18-20mila siriani hanno venduto un organo negli ultimi quattro anni. La maggior parte di loro vive nei campi profughi in Libano e Turchia, nelle zone siriane di confine e nelle province di Aleppo e Idlib, dove il territorio è controllato dai gruppi islamisti. I prezzi, aggiunge Nofal, variano: se il rene viene venduto in Turchia, si riescono ad ottenere anche 10mila dollari; in Iraq non più di mille.
A volte è la capitale siriana il centro di smistamento: a Damasco non è raro trovare sui muri poster che invitano a donare organi per curare malati in fin di vita, riporta il Simg. La migliore delle coperture per il mercato nero, difficilmente tracciabile dalle autorità perché per la legge siriana la donazione di organi è del tutto legale. Succede, però, che i trafficanti vengano individuati: circa venti denunce sono finite davanti alle corti di Damasco negli ultimi anni, casi mai visti prima della guerra civile.
Ancora peggiore è la situazione dove non esiste più un’autorità riconosciuta, dove lo Stato si è eclissato: «Un dermatologo mi ha chiesto di vendere gli organi dei prigionieri pro-governativi a Idlib – racconta il dottor, Awran (il nome è inventato) – Diceva che tanto sarebbero stati comunque giustiziati». Il denaro ricavato dalla vendita, aggiunge il medico, sarebbero serviti all’acquisto di equipaggiamento medico e al sostegno dei gruppi armati di opposizione: «La zona in cui lavoravo era controllata dallo Stato Islamico. Lì ho visto molti cadaveri a cui mancavano gli organi interni, soprattutto il fegato e il rene sinistro. Una volta ne ho visto uno a cui mancava la vescica».
L’ennesimo dramma nel dramma: un popolo costretto alla diaspora, sfruttato da trafficanti di uomini e relegato nell’oblio dai governi occidentali. L’assenza di risorse per l’accoglienza e l’astrattezza di una soluzione politica che non sia schiava degli interessi esterni mettono i rifugiati all’angolo, obbligandoli a rischiare la vita e la dignità per sopravvivere alla miseria.
Eppure in Europa, dove le potenze internazionali si incontrano per discutere la questione siriana, non si parla della vita quotidiana dei rifugiati. Il negoziato di Ginevra, in teoria, dovrebbe ripartire dopo il 20 maggio ma le precondizioni continuano a pesare sul dialogo. Per smussarle oggi a Vienna si incontreranno i 17 paesi dell’International Syria Support Group. Capitanati da Stati Uniti e Russia, i governi europei, quelli del Golfo, la Turchia, l’Iran e la Cina sono chiamati a gettare le basi per cessate il fuoco più ampi e stabili e quindi per la discussione sulla transizione politica.
Gli ostacoli restano gli stessi – il futuro del presidente Assad e le opposizioni legittimate a prendere parte al negoziato – così come rimane uguale l’approccio occidentale alla conferenza di pace: dentro i salafiti di Ahrar al-Sham, alleati militari di al Qaeda, e fuori i kurdi di Rojava, di nuovo esclusi dal tavolo di Ginevra.
La Repubblica, 16 maggio 2016
Qui la chiamano ormai la «Grande Madre». Lei, Agnese Ciulla, 44 anni, madre lo è davvero: di una bimba di 8 anni e un ragazzino di 14. Ma da tre anni, da quando il sindaco Leoluca Orlando l’ha nominata assessore alle Attività sociali, di figli ne ha tanti quanti il mare ne porta. Al momento sono 480, tutti minorenni e migranti che la procura le ha affidato nominandola tutore. Ovvero, la responsabile dei ragazzi al posto dei genitori: dall’iscrizione scolastica all’autorizzazione delle cure mediche è lei a occuparsene. L’11 maggio la Grande Madre è diventata nonna: la “figlia” Blessing, 16 anni, nigeriana, ha dato alla luce Sabina Pirit, concepita chissà dove al di là del Mediterraneo. La Grande Madre ieri mattina è corsa dalla nipotina ricoverata per precauzione in Neonatologia: «Che emozione vederla anche se soltanto da dietro un vetro».
Poi, nonostante la figlia, quella vera, reclamasse un po’ del suo tempo, è tornata per qualche ora in ufficio a firmare le centinaia di carte che l’attendevano: anche venerdì una nave ha scaricato al porto di Palermo il suo carico umano: 173 migranti, 15 minori.
Assessore Ciulla, 480 figli sono tanti. Cosa vuol dire per lei che madre lo è per davvero prendersi cura di loro?
«Significa ricacciare le lacrime ed essere concreti: ci sono le iscrizioni a scuola, le richiesta di asilo politico. Ma anche le malattie da curare. Dal 2012 ho assistito ad almeno 40 sbarchi. Comincio a occuparmi dei minori mentre sono ancora in viaggio. Il mio compito è trovare loro un tetto. Certo, quando li vedo sbarcare in fila indiana, i volti scavati, con il terrore negli occhi, mi si stringe il cuore».
Più di una volta al porto insieme ai ragazzi ha accolto anche le bare di chi durante la traversata non ce l’aveva fatta. Cosa ha provato?
«Orrore, ma soprattutto rabbia per una politica internazionale che alza muri invece di favorire la mobilità umana internazionale che è un diritto. Come stupirsi poi dei tanti minorenni che arrivano devastati sotto il profilo psicologico? Uno dei ragazzi sotto la mia tutela è stato ricoverato per mesi in un reparto di Neuropsichiatria infantile. I minori migranti che dipendono da me hanno quasi tutti tra i 15 e i 16 anni e sono stati strappati all’abbraccio delle famiglie».
Di ragazze madri come la giovane Blessing ce ne sono tante?
«No, Sabina Pirit è la prima neonata. Ma le ragazze eritree, somale e nigeriana che sbarcano in Sicilia sono sempre di più. E molte, che hanno subito violenza sessuale mentre erano in Libia, sono incinte».
Cosa fa in questi casi?
«Firmo l’autorizzazione per le interruzioni di gravidanza, l’ho già fatto quattro volte. Da tutrice, da donna e da madre».
Qual è stato il “figlio” che l’ha coinvolta di più?
«Tanti casi mi hanno emozionata. I., per esempio: arrivato dal Gambia, a Palermo abbiamo scoperto che aveva la leucemia. Sta ancora combattendo con la malattia. Molti ragazzi li vedo una volta sola, qualcuno mai. Ma la sera rimboccando le coperte ai miei figli, spero di avere dato a questi ragazzi almeno una possibilità”.
Cosa fa concretamente per aiutarli?
«Ci occupiamo della loro istruzione cercando di inserirli a scuola e comunque a tutti proviamo di insegnare bene l’italiano: abbiamo firmato una convenzione con l’Università. Poi gli uffici comunali predispongono un programma di formazione per ciascuno di loro”.
Ci sono storie a lieto fine?
«Sì, per fortuna. Come quella di Munir, tunisino: ha imparato il mestiere di meccanico e adesso che è diventato maggiorenne ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. S, invece, ha un futuro come mediatore culturale: è uno dei pochissimi che a Palermo parla la lingua dell’Africa occidentale, il mandingo. E poi c’è Junior, ivoriano, la sua storia è il sogno di molti: è diventato calciatore del Perugia. Vorrei davvero poter essere la madre che hanno dovuto lasciare, ma quasi 500 destini nelle mani di una persona sola — nonostante siano in tanti ad aiutarmi — sono troppi. Ecco perché, insieme al giudice tutelare, stiamo lavorando all’elenco dei tutori chiedendo la collaborazione di volontari».
Il manifesto, 14 maggio 2016
Un hotspot per piccoli migranti. La fedeltà alle rigide regole imposte da Bruxelles e l’egoismo di alcune regioni possono portare anche a questo, un mega centro lungo la costa di Pozzallo, in provincia di Ragusa, occupato prevalentemente da minori non accompagnati. Giovani e giovanissimi che in questi giorni rappresentano la maggioranza della popolazione della struttura siciliana, 120 sugli attuali 140 migranti reclusi.
Gli hotspot sono il prezzo imposto dall’Unione europea a Italia e Grecia per la crisi dei migranti degli ultimi due anni e mezzo. L’idea di creare nuove strutture dove contenere l’ondata di migranti in arrivo venne alla Francia l’anno scorso e fu subito fatta propria dai leader dei 28 paesi membri. Chi arriva in Italia viene identificato e selezionato, dividendo i migranti economici dai rifugiati. L’anno scorso a Pozzallo sono sbarcati in 15 mila, un decimo esatto del totale degli arrivi del 2015. Dal 1 gennaio al 12 maggio di quest’anno, invece, ci sono stati 17 sbarchi, per un totale di 5.221 migranti, 4.505 uomini, 716 donne, 878 minori non accompagnati e 150 accompagnati. La maggior parte proviene dalla Nigeria (929), Gambia (515) Senegal (438), Eritrea (434), Guinea (439), Mali (326) e Marocco (237).
Quello che era il centro di prima accoglienza il 19 gennaio di quest’anno è diventato il terzo hotspot italiano (su cinque). Viaggio di sola andata, probabilmente, visto che oggi appare davvero difficile un ritorno alle origini. E non senza problemi. A dicembre del 2015 Medici senza frontiere ha messo fine a ogni intervento nella struttura denunciando «le condizioni precarie e poco dignitose» in cui venivano accolti migranti e rifugiati dopo gli sbarchi. Il 27 aprile scorso un’altra organizzazione, Terre des Hommes, ha denunciato invece le condizioni di sovraffollamento del centro, tali da rendere «non possibile garantire un’attenzione specifica ai migranti più vulnerabili come mamme con bambini, donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati». E a marzo anche l’hotspot di Pozzallo, insieme a quelli d Lampedusa e Trapani, è finito in un dossier presentato al Senato da alcune associazioni riunite nel Tavolo nazionale asilo, tra cui Consiglio italiano rifugiati, Arci, Comunità di Sant’Egidio e Caritas, in cui si parla di «respingimenti arbitrari» e di «negazione dell’accesso alla procedura d’asilo e l’uso della forza per l’identificazione» delle persone.
In questi giorni nell’hotspot la situazione è decisamente più calma, anche se non mancano le proteste, che riguardano soprattutto il cibo e la mancanza di posti sufficienti ad accogliere donne immigrate, ma anche il timore di molti migranti di essere rispediti nei paesi di origine. «Noi vogliano restare qui», dicono i cartelli scritti a penna e mostrati alle telecamere da molti giovani insieme alle ciabatte rotte. «We want to learn», vogliamo imparare, ripetono affollandosi contro le sbarre di ferro che circondano il centro. Cosa particolarmente positiva è la presenza di molte organizzazione umanitarie: Unhcr, Save the Children, Oim e Terre des Hommes lavorano all’interno dell’hotspot, mentre Emergency interviene soprattutto al momento degli sbarchi. Molti migranti e rifugiati presentano i segni delle violenze subite durante il viaggio verso l’Europa, soprattutto in Libia durante le settimane passate in attesa dell’imbarco. E non mancano i casi di donne che denunciano agli operatori di essere state vittime di violenza sessuale da parte di trafficanti di uomini.
Nonostante sia una struttura chiusa, ai piccoli migranti viene concesso un permesso per uscire almeno per qualche ora. Verso sera è facile vederli mentre in gruppi fanno ritorno al centro. Prima di lasciarli entrare gli agenti e i militari che presidiano l’ingresso controllano i fogli identificativi rilasciati dalle prefetture e li perquisiscono. «Ma noi dall’Italia non vogliamo andarcene», fanno in tempo a ripetere prima che il cancello si chiuda alle loro spalle.
Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)
Un edificio (a forma di mezzaluna) comunque contemporaneo e di rappresentanza: della «politica di benvenuto» del governo; della gestione sussidiaria del flusso dei migranti, esattamente come in Italia; dei limiti strutturali nell’accoglienza senza l’integrazione.
Quattro hangar dismessi “arredati” con letti a castello e pareti mobili dall’esercito tedesco. Da ottobre sono affidati a Tamaja, un’azienda privata. Gestisce la vita quotidiana di 1.461 rifugiati siriani, iracheni, afghani e bosniaci con il futuro organizzato quanto incerto. Loro sono più che disponibili (ma fuori dal “recinto”) a raccontare il passato.
«La via dei Balcani? È chiusa ma se si hanno le conoscenze giuste si passa dappertutto. Basta pagare. Finora ho speso quasi 7.000 euro per attraversare i confini» racconta Hekmat, 25 anni, libanese. «La mafia turca controlla e gestisce tutto. La polizia di Erdogan si gira dall’altra parte. Sono complici: in queste condizioni denunciare è impossibile oltre che pericoloso». Poi mostra le carte con i timbri del Landesamt für Gesundheit und Soziales (Lageso), l’ufficio sociale dello Stato di Berlino che si occupa dell’emergenza profughi. Sono quattro fogli zeppi di numeri e tabelle: certificano il canone di affitto “calmierato” (393 euro a persona al mese) e la garanzia di pagamento del Land. Ma non è sufficiente. «Quando rispondiamo agli annunci immobiliari, chiedono subito la nazionalità. E appena scoprono che non siamo tedeschi, la conversazione finisce. “Ci dispiace: preferiamo affittare ai locali” è la risposta ormai scontata».
Così la possibilità di alloggio al di fuori degli hangar di Tempelhof resta davvero sulla carta. Proprio come il lavoro, bandito per i primi sei mesi di permanenza a Berlino: un miraggio anche dopo. «Bisogna saper parlare almeno un po’ tedesco. Per questo frequentiamo il corso d’integrazione» riassume allargando le braccia un egiziano 40enne che ne dimostra dieci in più. Ha superato mezza dozzina di frontiere per raggiungere prima la Grecia e quindi la Germania, risalendo a tappe l’Italia, eppure fatica a oltrepassare i confini dell’inflessibile burocrazia della Bundesrepublik. «Non capisco qual è il problema: invece di darci 100 euro al mese per piccole spese personali potrebbero permetterci di lavorare. Sarebbe meglio per tutti» ragiona a voce alta. Mentre corre il paragone con i greci «più poveri dei tedeschi, ma meno complicati e sempre pronti a dare una mano».
Non è passato per il “muro” di Idomeni sul confine macedone né ha assistito alle “esercitazioni” dell’esercito di Tsipras nel cielo del campo-profughi. Per lui esiste solo Patrasso, «dove ci sono le navi che portano in Puglia». Da lì ha raggiunto Amburgo in quattro giorni, alla ricerca dell’unico contatto tedesco per finire a Tempelhof insieme a siriani, iracheni, afghani.
«Ci hanno messo tutti insieme. Uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Dormiamo in “stanze” di circa 15 metri quadrati: 12 persone a modulo. Le donne single stanno insieme alle famiglie» aggiunge un altro rifugiato che si definisce semplicemente “arabo”. Il suo viaggio è durato 14 giorni: dal Nord Africa alla Turchia, dalla Grecia all’Ungheria, dall’Austria alla Germania.
«Al confine con la Baviera sono salito a bordo dei bus che ci ha mandato… Angela Merkel». Non è esattamente così, ma il nome della cancelliera è davvero l’unica parola in grado di strappare un mezzo sorriso. «È una grande donna» scandice Hekmat che battezza Mutti «il capo dell’Europa».
Tuttavia la politica delle porte aperte a Tempelhof vale solo previa prenotazione. «Scaricando i moduli di Tamaja da Internet» fanno sapere ai check-point che filtrano gli ingressi agli hangar. Non sono ammesse visite a sorpresa né lo scatto di fotografie alla porta d’entrata. «Motivi di sicurezza» taglia corto la security in formato bodyguard. Controlla il via-vai degli ospiti che devono esibire l’unico documento riconosciuto, una tessera magnetica con foto fornita a ogni profugo.
E i custodi dell’aeroporto non perdono di vista un attimo anche chi prova ad aggirare la “dogana” passando per le due piste in disuso, confondendosi tra skater, pattinatori, ciclisti e runner. La privacy degli ospiti è garantita pure all’esterno: davanti ai vecchi gate dell’aeroporto un muro di transenne fa il paio con la rete di recinzione distante 200 metri dall’edificio.
Così per sapere cosa succede a Tempelhof non resta che affidarsi (e fidarsi) della legenda fornita da Tamaja. L’hangar n.1 ospita il «centro medico» gestito dal personale dell’ospedale Vivantes. Nei giorni dispari è attiva la clinica pediatrica, mentre il servizio di ginecologia viene assicurato dai dottori del San Giuseppe. Le emergenze sono gestite dal servizio «H24» affidato ai volontari del Johanniter: un dottore, un mediatore e due paramedici sono il “pronto soccorso”.
Scuola, istruzione, educazione dei bambini competono a Tamaja, alla filiale tedesca di Save the Children e al circolo giovanile Cabuwazi con sede a Kreuzberg. Poi ci sono gli assistenti sociali (uno per hangar) e il «servizio di orientamento» burocratico (dalle informazioni sul permesso di soggiorno temporaneo all’assistenza nella procedura di richiesta dell’asilo). Le associazioni Daf e Startcon curano i corsi di lingua con la supervisione dei docenti della Volkshochschule (la scuola di lingua statale) e di German Now, mentre a coordinare le attività didattiche ci pensano i consulenti dell’associazione Trialog.
A Tempelhof c’è anche l’ufficio-reclami: aperto dalle 19 alle 21, ufficialmente per vagliare i «suggerimenti» anonimi degli ospiti da imbucare negli appositi box di colore verde. Si aggiunge il supporto della galassia di associazioni e volontari con sede nel quartiere: da Tempelhof Hilft a Thf Welcome, fino alle parrocchie e alle moschee. Mediatori fondamentali, quasi quanto i traduttori.
«All’inizio la security non parlava una parola di arabo, poi hanno assunto personale bilingue. Da allora va un po’ meglio: almeno adesso capiamo cosa dicono» spiega un rifugiato siriano. Poco distante sette afghani si riposano sul ciglio dell’aiuola davanti all’hangar 3. Parlano persiano eccetto l’unico pashtun del gruppo che comunque si adatta alla conversazione in farsi.
Tuttavia è in perfetto inglese (con accento britannico) che uno traduce l’Odissea che li ha portati a Berlino: «Siamo scappati da Kabul. In Afghanistan la guerra continua come prima, anche se ora dicono che è tutto sotto controllo. L’unica differenza è che il presidente Karzaj, più corrotto dei talebani, è amico di Usa e Europa. Siamo venuti in Germania perché è l’unico Paese che non ci ha chiuso le porte». I persiani apprezzano l’ospitalità tedesca, ma sono consapevoli che il futuro è più che incerto.
«Siamo qui già da sei mesi: per ora non ci sono possibilità di lavoro. L’unica novità è stata il trasferimento di hangar: quello dove dormivamo prima era da ristrutturare».
Intanto fuori da Tempelhof spuntano i primi bambini che tornano da scuola accompagnati dai genitori. Una mamma con l’hijab spinge il passeggino lungo il marciapiede che costeggia la strada principale. Un bimbo sorveglia il fratellino che gattona tra cemento e erba. Altri ospiti si mettono in coda davanti all’ascensore esterno che conduce alla stazione della metropolitana di Platz der Luftbrücke dove ha sede, tra l’altro, la centrale di Polizia del Land di Berlino.
Per ora, si godono l’unica libertà conquistata. Quella di movimento.
Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)
Sotto la voce «sorveglianza delle frontiere» entrambi intendono le barriere che hanno bloccato i profughi lungo la rotta balcanica. Ma un flusso, o una parte di esso, tornerà a imboccare la via del Mediterraneo, dove il filo spinato non serve; per fermarli occorre mobilitare una flotta e fare la guerra agli scafisti. Per politiche migratorie intendono invece accordi come quello indecente con la Turchia (sei miliardi) estesi, come propone Renzi, ai paesi dell’Africa da cui partono quei flussi o che ne vengono attraversati. Quei paesi sono tanti e molto più poveri della Turchia; perciò servirebbero molti più miliardi per convincere i rispettivi governi a riprendersi quei “loro” profughi in fuga per salvare la pelle: ribattezzati però “migranti economici” per negar loro il diritto alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra. L’offerta di un miliardo e otto fatta lo scorso novembre al vertice di Malta era stata non solo respinta, ma anche sbeffeggiata.
È per questo, e per quel “bene pubblico comune” che sono le politiche migratorie, cioè per tener lontani i profughi, che occorrerebbe mobilitare le risorse, che non ci sono, destinate alla lotta contro i cambiamenti climatici. Proposta grottesca, se non contenesse un fondo di verità: una cosa che accomuna cambiamenti climatici e profughi infatti c’è: questi non sono “migranti economici” da “rimpatriare” in una “patria” che non hanno più; sono tutti profughi ambientali, cacciati dalla devastazione prodotta innanzitutto, ma non solo, da cambiamenti climatici ormai in pieno corso e da guerre generate da quella devastazione.
E non solo in Siria; con diverse modalità, sono in corso o in incubazione anche in tanti paesi di origine di quei flussi: per accaparrarsi o difendere con le armi risorse sempre più scarse; l’avanzo di quello che le multinazionali occidentali o cinesi lasciano alle popolazioni locali. Il disastro in Siria anticipa un destino comune: «Considerata la terribile siccità che l’ha preceduta, nel futuro prossimo la guerra civile e internazionale in corso in Siria sarà definita ‘la prima guerra figlia del cambiamento climatico’ – scrive l’economista cileno Andrea Rodrigo Rivas su L’altra pagina, aprile 2016 – Prima dello scoppio della guerra, e molto prima della comparsa dell’Isis, la Siria ha attraversato la peggiore siccità prolungata da quando ebbe inizio la civiltà agricola nella Mezzaluna fertile…una siccità devastante che ha trasformato in deserto il 60% del suo territorio. La rovina delle colture e la morte della maggior parte dell’allevamento hanno ridotto sul lastrico milioni di contadini costretti a emigrare verso le città, alla ricerca di un lavoro…
Così, nelle città siriane, crebbero velocemente occupazioni illegali, sovrappopolazione, mancanza di infrastrutture, disoccupazione e delinquenza… Anche nel Sahel – continua Rivas – siccità, degrado dell’habitat e negligenza dei governi sono all’origine della violenza armata. Le siccità prima avvenivano ogni 10 anni, ora ogni 2… Nel lago Ciad, principale bacino idrico del continente Africano, tra il 1963 e il 1998 l’acqua è diminuita del 95 per cento. È una delle principali ragioni della povertà nel nord della Nigeria e dell’auge di Boko Haram… La Siria e il Mali – conclude – sono un anticipo di ciò che probabilmente avverrà su una scala molto maggiore nel corso di questo secolo».
Questo ci dovrebbe indurre a guardare meglio le tante barriere anti-profughi – fisiche, politiche, amministrative e militari – ormai al centro dello scontro politico in Europa: non sono un espediente temporaneo per far fronte a un’emergenza che l’Europa non era preparata ad affrontare. Sono, consapevoli o meno che ne siano i suoi promotori di destra o estrema destra, ma anche delle maggioranze al governo che si accodano alle loro pretese nella speranza di non perdere elettori, la risposta che l’Europa (ma anche gli Stati Uniti, l’Australia o il Giappone) dà ai problemi creati dai cambiamenti climatici. Non una lotta con il tempo per cambiare sistema energetico e modello economico, ma la chiusura nei propri confini come in una fortezza assediata; lasciando che i paesi al di fuori vadano in malora; e contando su quelle barriere per proteggerci dal loro contagio.
È l’inizio di una difesa armata dei confini che alimenterà guerre sempre più feroci sia al di là di essi che al loro interno: una previsione che il Pentagono aveva già fatto oltre dieci anni fa. Ma a questa “politica estera” fallimentare (i cambiamenti climatici non si fermano con filo spinato e Hot spot e meno che mai con le guerre: colpiranno sempre di più anche l’Europa) corrisponderà una “politica interna” altrettanto feroce e vessatoria: non solo contro l’”invasione” dei profughi, ma anche contro i cittadini europei. T
utti, ad eccezione di quell’1 o 10% che dai disastri economici o ambientali trae crescenti benefici. Non importa se a vincere le elezioni sarà Angela Merkel o l’AfD, o se a governare l’Austria siano Socialdemocratici e Popolari o Norbert Hofer, se poi le politiche verso i profughi sono le stesse. A quelle politiche corrisponderà sempre di più un “tallone di ferro” sui cittadini europei. Anche la costituzione di Renzi, consapevole o meno che ne sia, serve a predisporre le basi di governi autoritari e feroci necessari per gestire un paese-fortezza, dove non ci sarà più posto per quel nostro stile di vita “non negoziabile”. Perché un paese-fortezza è condannato irrevocabilmente al declino economico, alla sclerosi culturale e all’invecchiamento, soprattutto in Europa. E in queste condizioni non si realizzerà né si promuoverà mai quella conversione ecologica indispensabile per evitare che tutto il pianeta precipiti in un completo disastro.
Ma l’Italia ha un problema in più: protesa come un ponte in mezzo al Mediterraneo, è esposta al ruolo di ultimo avamposto dei flussi provenienti dall’Africa e dal Medioriente, come succede oggi a Libia e Turchia, assai più che a restare membro a tutti gli effetti della fortezza Europa. I cui veri confini sono ormai al Brennero, al Gottardo e a Ventimiglia, o a Idumeni, molto più di quanto possano essere negli Hot spot di Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo o Lesbo. Infatti i respingimenti dei cosiddetti migranti economici sono lasciati a Italia e Grecia; la distribuzione delle “quote””di profughi tra i paesi membri non funziona e già si parla di “compensare” la loro mancata ricezione con un’indennità economica da corrispondere allo Stato che dovrà farsene carico. Proprio come con la Turchia.
Una ragione in più per riconoscere nelle politiche verso i profughi l’orizzonte entro cui si misureranno, in Italia e in Europa, la lotta politica e il conflitto sociale dei prossimi decenni. L’Italia affronta già oggi la questione mettendo per strada – e affidando alle mafie – migliaia di profughi a cui non viene riconosciuta la protezione e alimentando così un giustificato allarme su cui ingrassano i Salvini. Per combattere questa prospettiva occorre opporsi ai respingimenti, promuovere una svolta politica radicale il cui nucleo forte non può essere costituito che dalle reti già oggi impegnate nell’accoglienza e nell’inserimento sociale dei profughi. Sono loro il vero antagonista delle politiche di respingimento e di tutto ciò che ne segue: l’avanguardia di un fronte sociale completamente nuovo che intorno a questo impegno deve saper costruire il progetto di una società dell’accoglienza per tutti: profughi e cittadini europei. In cui conversione ecologica, per fermare i cambiamenti climatici, e cooperazione internazionale, per aiutare i nuovi arrivati a farsi protagonisti della rinascita dei loro paesi di origine e, insieme a noi, di tutta l’Europa, trovino un punto di sutura autentico tra «politiche climatiche e politiche migratorie».
La Repubblica, 13 maggio 2016
Damien Careme è arrivato a Lampedusa con un cd pieno di filmati. A Giusi Nicolini e ad Enrico Ioculano, a Spyros Galinos e Ada Colau, collegati in videoconferenza, ha mostrato come ha fatto a rendere dignitosa la vita nel campo di rifugiati di Calais. E sul molo Favaloro, dalla gente di Lampedusa, impegnata proprio quella notte nell’assistenza a 120 migranti appena sbarcati, ha “imparato” come si fa il primo soccorso.
Lampedusa, Pozzallo, Riace, Ventimiglia, Calais, Lesbo, Barcellona. Eccola la rete dell’accoglienza dei sindaci di frontiera, un patto di reciproca assistenza siglato dai primi cittadini delle zone di confine come risposta di chi lavora nella difficile trincea di questa migrazione epocale all’Europa che alza i muri. Un patto che verrà rilanciato oggi a Pozzallo dal Festival Sabir sulle migrazioni che si concluderà domenica con una grande marcia per dire “no ai muri, sì all’accoglienza”.
La “rete” lanciata da Lampedusa conta già più adesioni di quel che si pensava. «Basta pensare che tra i firmatari del patto c’è anche Barcellona — dice Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa — Anche se in Spagna non stanno affrontando la nostra emergenza, hanno ugualmente deciso di stanziare un contributo di 300 mila euro per le Ong che lavorano da noi. E hanno dato la disponibilità a mandare esperti di ambiente a Lesbo per aiutare nello smaltimento della enorme quantità di rifiuti lasciati dalle centinaia di sbarchi degli ultimi mesi».
La prima e la seconda accoglienza, due realtà difficili al momento non comunicanti in Italia. È anche sul meccanismo di redistribuzione dei migranti che i primi cittadini in trincea vogliono incidere. A Ventimiglia, dove la tensione si è finalmente allentata dopo mesi in cui centinaia di migranti in condizioni drammatiche hanno vissuto accampati per strada o sugli scogli, il sindaco Ioculano dice: «Noi vogliamo essere riconosciuti come interlocutori privilegiati dalle istituzioni. Faccio un esempio. I prefetti convocano ai tavoli i sindaci dei capoluoghi. Ma loro cosa ne sanno? Una gestione a monte dei flussi e un impegno diretto delle amministrazioni locali per la distribuzione dei migranti è fondamentale. Non è possibile che, solo perché ai bandi delle prefetture risponde questo o quell’altro, ci siano comuni che non ospitano nessuno e comuni con troppi migranti ». A Riace, ad esempio, i migranti non sbarcano ma si fermano. E il sindaco Mimmo Lucano che Fortune ha incluso tra i 50 uomini più potenti del mondo, spiega: «L’Europa si esprime a parole. Per noi parlano le realtà che abbiamo costruito. E dimostrano che scegliere le ragioni dell’umanità è più gratificante ma anche più conveniente. Io l’ho fatto da questo luogo semi abbandonato da cui tutti andavano via e che ora ha ritrovato la speranza disintegrando le barriere dell’odio e del pregiudizio».
Nella rete i sindaci sperano molto anche per risolvere il problema dei minori non accompagnati. «A Pozzallo non abbiamo più dove metterli — dice Luigi Ammatuna — potremmo redigere una mappa delle disponibilità e garantire loro una sistemazione adeguata».
. Altraeconomia, 11 maggio 2016, con postilla
Il progetto “concreto” avrebbe dovuto riguardare il nostro Paese e il modello di gestione-accoglienza dei richiedenti asilo, ritenuto incapace di garantire standard di efficienza. Dal momento che “non abbiamo alternative perché attorno a noi tutto è chiuso -ha spiegato Gabanelli- proviamo a rigirarla, facciamola noi l’accoglienza, gestione pubblica, l’Europa ci paga e poi ogni Paese si prende la sua quota, già formata e identificata”. Per “chiuso” s’intende il contesto europeo, valico del Brennero compreso, come fa notare durante la trasmissione il segretario provinciale del sindacato di polizia COISP. La fonte prescelta però è la stessa sigla che non più tardi di un mese fa aveva spacciato un naufragio per un complotto, oltre ad essersi resa protagonista di picchetti vergognosi organizzati a Genova contro la memoria di Carlo Giuliani o manifestazioni sotto l’ufficio di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo ucciso a Ferrara da alcuni poliziotti nel settembre 2005.
Al di là delle fonti, la questione di Report è spiccia: “Dove metterli (i migranti, ndr)?”. Per rendere appetibile la ricetta di un’Italia “hotspot” comunitario, la trasmissione ha mescolato ingredienti risolutivi: i siti ideali dove stoccare la merce saranno “resort […] confiscati alla mafia, ex ospedali, e […] l’immenso patrimonio delle caserme”, che del resto in Italia sono “centinaia”.
“Ipotizzando l’accoglienza di circa 200mila persone l’anno, occorre identificare 400 luoghi”. Calcoli alla mano, sempre secondo la redazione di Report, la svolta accogliente si costruirebbe in buona parte su quattrocento caserme (e ospedali e resort), oggi dismesse e domani già adibite a efficaci contenitori di 500 persone in media. Quando Gabanelli illustra l’idea in studio, parte una simulazione al computer delle stanze riadattate dei centri militari. Qui i letti a castello, qui i bagni separati, qui i banchi di scuola d’italiano dove poter insegnare i valori della “democrazia europea”.
Al capitolo “personale”, Report ipotizza l’assunzione “a tempo pieno” di 25mila tra “insegnanti, formatori, psicologi” per un costo annuo di 750 milioni di euro. 30mila euro lordi a testa all’interno di un’organizzazione capace di assicurare risultati nel campo della “maggiore percezione di sicurezza” e “maggiore disponibilità sociale”.
Ma il vero punto debole della proposta centralizzata di Report sta nel fatto che durante la trasmissione non è mai stata citata la gestione pubblica dell’accoglienza che nel nostro Paese già esiste dal 2002 e che si fonda sul protagonismo degli enti locali: si tratta del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) che dipende dal Viminale e che nel 2014 ha garantito oltre 20mila posti grazie al coinvolgimento di 381 enti locali, in buona parte Comuni, accogliendo così 22.961 migranti.
Lo SPRAR è l’alternativa diffusa all’approccio emergenziale e centralizzato che fa capo alle prefetture, e che ancora oggi caratterizza il modello italiano nel 72% dei casi, come ha fotografato anche il ministero dell’Interno nel “Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia” dell’ottobre 2015.
Anche Silvia Turelli, operatrice della cooperativa K-PAX Onlus di Breno (BS) al centro di un lungimirante progetto di accoglienza diffusa in Valle Camonica, è rimasta perplessa dall’opzione “caserme”. “L’ipotesi che grandi concentrazioni di persone possano assicurare sicurezza e integrazione non è assolutamente percorribile ed è già stata smentita dai fatti -afferma-. Com’è possibile creare interazione, non dico integrazione, collocando insieme 300 o 1.000 persone in una caserma? Se la soluzione fosse temporanea, al massimo per due settimane, e limitata all’esecuzione di fotosegnalamento e a un primo screening sanitario in vista di una ricollocazione sul territorio, allora avrebbe un senso. Ma trattenere 500 persone in un unico centro per minimo sei mesi sarebbe un errore”.
Il disinteresse di Report per il modello SPRAR è condiviso da buona parte degli enti locali del Paese, visto che nell’ultimo bando per l’assegnazione di posti e progetti non si è raggiunta la quota necessaria, mandandolo così praticamente deserto. “Ma la debolezza politica dell’accoglienza non è un buon motivo per abbandonare un modello come lo SPRAR che comporta una spesa contenuta e offre servizi assolutamente competitivi ed efficienti”, spiega Turelli. Nel 2015, il ministero dell’Interno ha stimato una spesa complessiva del sistema di accoglienza di 1.162 milioni di euro, 242,5 dei quali in capo allo SPRAR, con un “costo medio pro-capite giornaliero” identico alle strutture temporanee ma oneri di rendicontazione dei servizi erogati (assistenza legale, sanitaria e così via) ben più stringenti di quelli imposti ai gestori individuati con bando prefettizio.
“Il punto è che in Italia non c’è mai stata una reale politica dell’integrazione - riflette Turel i- e non affrontare la questione significa continuare a isolare le persone, limitarne la presenza, come se si dovessero scongiurare contatti tra mondi separati”. L’esempio di Breno e di K-PAX dimostra che il modello diffuso in piccoli appartamenti in grado di ospitare fino a cinque migranti funziona. “La forza sta nell’estrema flessibilità della gestione e nel coinvolgimento pieno delle persone, che è l’esatto contrario dell’aula fissa o lo spazio dei laboratori ripetuti ciclicamente. Nel nostro caso lo sforzo è stato quello di adattarsi alle esigenze dei migranti”. Uno sforzo condotto non soltanto da “insegnanti, formatori, psicologi” ma anche da mediatori culturali e operatori legali.
Ma l'ossessione del "dove metterli?" ha portato Report ha commettere un altro errore. A proposito dei richiedenti protezione, infatti, Gabanelli ha affermato che “In Italia, fino ad oggi sono arrivati perlopiù sub sahariani, che non fuggono da Paesi in guerra ma magari da guerriglie e quindi bisogna valutare caso per caso, per stabilire chi è richiedente asilo, chi ha diritto all’asilo e chi no e ci mettiamo fino a due anni”. Ma questa è la regola, la traduzione normativa di principi racchiusi in trattati e accordi internazionali sui rifugiati (come la Convenzione di Ginevra del 1951). A nessuno spetta formalmente una valutazione complessiva e sommaria a seconda del passaporto. Tutti, cittadini siriani o “sub-sahariani”, hanno dunque diritto all'esame individuale della loro richiesta di protezione. E tutti, salvo eccezioni (disciplinate ad esempio nel Dl 142/2015), hanno il diritto di ricorrere a un giudice terzo in caso di diniego opposto dalla commissione territoriale.
postilla
Davvero incredibile. Una persona come Gabanelli, una trasmissione come Report, che cadono in questa trappola. Per comprendere qual'è la soluzione non inumana del problema dei "migranti" ( noi preferuamo dire dell'"Esodo del XXI secolo") basterebbe leggere il bellissimo libretto (piccolo di dimensioni, ma grande di contenuto) di Guido Viale, Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti. Oppure guardare su eddyburg i nomerosissimi articoli raccolti sull'argomento.
Ancora di più stupisce che Gabanelli e Report condividano la convinzione turco-tedesca che chi fugge dalla miseria creata dalle guerre e dalle devastazioni ambientali, prodotte largamente dal Primo mondo, abbiano meno diritti umani degli altri. Non c'è bisogno di essere Guido Viale o Stefano Rodotà, o papa Francesco per comprenderlo. Veramente il danno prodotto dal neocolonialismo dell'attuale fase del capitalismo è profondo, e sara duro estirparlo.
Dialogo online, 8 maggio 2016
La proposta fatta dal governo Renzi alla Commissione Europea per risolvere il ‘problema’ dei migranti in arrivo dall’Africa, il cosidetto Migration Compact , è un brutto passo da parte dell’Italia. Infatti lo spirito del Migration Compact è lo stesso dell’accordo fatto dalla UE con la Turchia. Lo ha detto lo stesso nostro ministro degli esteri, Gentiloni, parlando a porte chiuse, alla Commissione Trilaterale (!): “Lo stesso impegno, profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, va ora usato sulla rotta del Mediterraneo centrale per chi arriva dalla Libia.”
Il Fatto quotidiano online, 7 maggio 2016 (p.d.)
Ma non solo Skala Sikamias. I migranti sbarcavano un po’ ovunque a Lesbo. Centinaia di sbarchi ogni giorno, migliaia di persone. Arrivavano, si riprendevano dal viaggio e poi via di nuovo verso la terraferma come uccelli migratori alla ricerca della primavera. Proprio come negli anni Venti quando oltre un milione di cristiani in fuga dal genocidio in Turchia si rifugiò sull’isola prima di arrivare in Grecia. Deve avercelo scritto nel destino, Lesbo, di essere l’isola di rifugiati.
Nel 2015, secondo i dati forniti dall’Unhcr, sono arrivate in Europa attraverso la rotta balcanica circa un milione di persone, di cui la metà transitate da Lesbo. Solo dall’inizio del 2016 ne sono passate circa 90mila dall’isola, quasi tutte prima del 20 marzo, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia. Da allora il mar Egeo è diventato un altro muro innalzato in Europa per fermare le migrazioni. La guardia costiera e gli agenti di Frontex sorvegliano costantemente le acque turche e respingono le imbarcazioni in partenza. Qualcuna riesce a passare lo stesso, di notte, in una rotta che non è mai la stessa. “A febbraio – spiega a IlFattoQuotidiano.it Boris Cheshirkov, portavoce di Unhcr a Lesbo – arrivavano nell’isoladalle 500 alle 2mila persone al giorno; a ottobre anche 5mila in una sola giornata. L’isola era piena di migranti. Adesso si respira tutta un’altra aria. Arriva un’imbarcazione ogni cinque o sei giorni. Quello che non funziona è il sistema di detenzione in cui sono costretti a vivere i migranti”.
Lesbo, da terra di speranza a terra di prigionia. Dal 20 marzo i migranti richiedenti asilo sono stati trasferiti nel campo profughi di Kara Tepe, a Mitelene. In attesa di sapere se la domanda verrà accettata, possono muoversi solo per l’isola. Tutti gli altri invece sono stati rinchiusi nel hotspot di Moira, sulle colline della città, da cui non possono uscire senza autorizzazione. E quella si ottiene non prima di un mese (e in ogni caso serve solo per circolare nei dintorni). È un vero e proprio centro di detenzione, circondato da un muro alto cinque metri e filo spinato, da cui anche le ong se ne sono andate per “non sentirsi complici”, come aveva dichiarato al momento della firma dell’accordo Medici senza frontiere.
Nei container del campo sono ammassate adesso 4mila persone. Ne potrebbero contenere giusto la metà. I minorenni sono circa mille, di cui duecento non accompagnati. “Le condizioni igieniche stanno deteriorando – fa sapere al Fatto.it Sacha Myers, responsabile della comunicazione per Save the children Grecia – Stanno aumentando i casi di bronchiti e di infezioni per complicazioni della febbre. Siamo anche preoccupati per la sicurezza dei bambini, dal momento che la tensione aumenta di giorno in giorno e si stanno verificando casi di violenza”.
Poco dopo la visita del Papa, un gruppo di minorenni ha incendiato cassonetti, letti, spaccato a calci e pugni le catene. Volevano solo essere liberi, nient’altro. E sopra il filo spinato che scorre sul muro si vedono ancora i segni della loro ricerca di libertà: le scarpe e i vestiti impigliati, le coperte abbandonate sulla doppia recinzione. Una fuga mai riuscita, perché da lì non si scappa.
Save the Children ha chiesto al governo greco che almeno i bambini non accompagnati vengano tolti da quell’inferno, ma per il momento è solo una speranza. E in ogni caso anche fuori dovrebbero fare i conti con gli spazi. Che non ci sono. Con la chiusura della frontiera macedone sono rimasti bloccati in Grecia infatti circa 2mila minori che hanno viaggiato da soli o perso le famiglie lungo la strada. I posti di accoglienza disponibili in tutto il Paese però sono solo 477. “Questi rifugi – spiega la ong – sono stati pieni per settimane. I bimbi sono rimasti a lungo nei centri di detenzione o nelle celle di polizia e questo mette i bambini vulnerabili e traumatizzati a rischio di abuso, sfruttamento da parte di trafficanti di esseri umani, malattie e disagio psicologico”.
Fuori dal campo di Moira due giovani afghani si allontanano sventolando un foglio. “Freedom, freedom”, gridano. Sembrano trentenni, ma hanno solo sedici e vent’anni. Si chiamano Shikhali e Rebaz. Uno di loro zoppica: ha una protesi alla gamba destra. “Me l’hanno fatta saltare in aria i talebanil’anno scorso”, racconta Shikhali. È il loro primo giorno di libertà dopo quaranta giorni di detenzione. “Cosa faremo oggi? – dicono – Torneremo il più tardi possibile dentro quel carcere”. Sono in attesa di capire che ne sarà di loro, come tutti gli altri. Se verranno rimpatriati o chissà. “Se mi rimpatriano, mi taglio anche l’altra gamba”, dice Shikhali. “Non abbiamo fatto tutto questo viaggio per essere rispediti indietro come pacchi postali”, aggiunge Rebaz.
Dal primo aprile ad oggi sono state rimpatriate circa 400 persone dalle isole greche nell’Egeo, di cui circa la metà da Lesbo. Alcune di loro erano siriane. Eppure le ricollocazioni previste dall’accordo (per ogni siriano rimpatriato in Turchia, un siriano deve essere ricollocato dal Paese in un paese membro Ue) vanno parecchio a rilento. “Il tema delle ricollocazioni è un altro su cui l’Europa sta facendo ben poco, lasciando di fatto la Grecia abbandonata a se stessa – spiega Cheshirkov – Dal settembre del 2015 a oggi hanno lasciato la Grecia solo 600 persone delle 66mila e 400 previste dai vecchi accordi. Dalla Turchia non abbiamo un numero preciso di quante persone siano state ricollocate. Ma sono sicuramente poche”.
E nel frattempo i migranti rimangono lì, bloccati sull’isola, dentro un labirinto di solitudine e tristezza. “Siamo saltati dalla guerra alla prigione”, racconta Fwad, curdo dell’Iraq, seduto su un muretto in riva al mare poco, distante dal campo profughi Kara Tepe. Beve una birra e fissa il mare. Le onde coprono e scoprono vecchi giubbotti di salvataggio incastrati tra gli scogli. “Sono venuto da là”, continua e indica la Turchia, che adesso si vede nitida. “Guarda cosa mi ha fatto il Daesh”. E mostra la sua cicatrice spessa un dito che gli attraversa la testa da parte a parte. “Mi è piovuta una bomba addosso”, continua. Fa una pausa e riprende. “Sono scappato dal Daesh, ho attraversato la Turchia, sono riuscito ad attraversare il mare. E ora sono in prigione”.
L’EUROPA è nata sul diritto di movimento. È stata voluta da ex-nemici mortali che si impegnarono a garantire la libertà di movimento ai loro concittadini, per rendere i confini porosi e infine, con il Trattato di Schengen, aperti agli europei e, seppure con minore certezza, agli immigrati col permesso di soggiorno dei rispettivi Paesi. Il Trattato di Roma, di cui si celebrerà il sessantesimo anniversario nel 2017, è il documento con il quale si riconobbe esplicitamente che i confini nazionali sono all’origine delle guerre.
I Paesi che avevano fatto dell’Europa un mattatoio ricostruirono la pace partendo proprio dal diritto più prossimo alla condizione umana: quello di cui secondo la bella intuizione kantiana ciascuno ha bisogno per poter essere libero di uscire dal proprio stato portando con sé le proprie radici.
Il diritto di visita era per il grande illuminista tedesco una protezione giuridica coerente alla nostra condizione che ci porta per le più svariate ragioni, per sopravvivere o per crescere, a muoverci per il mondo, a decidere di andare altrove. I confini sono artifici che devono poter essere relativizzati e la loro chiusura giustificata — ecco il senso dell’argomento del diritto contro la forza degli stati su cui i trattati europei e gli accordi internazionali per i rifugiati e i richiedenti asilo si fondano.
Le ideologie nazionaliste sono andate di pari passo con la cultura del diritto di movimento, anch’esse nate sull’onda delle Rivoluzioni del Settecento e con il proposito di contenere e rovesciare, se necessario, la logica di quel diritto. La religione della nazione ha cercato di far passare come naturale la nazione e tutto quel che ad essa consegue: i caratteri etnici, la religione, la lingua, infine i confini che tutto questo sigillano, celebrati anche come “sacri”.
Dalla radicalizzazione di queste premesse nazionaliste sono nati i mostri del Ventesimo secolo, come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann avevano scritto nel Manifesto di Ventotene: il militarismo, il colonialismo, le guerre europee, le politiche di sterminio nel nome della purezza della razza. Conosciamo questa storia. Ma non la ricordiamo più così bene, a quanto pare, vista la rinascita prepotente dei muri e del filo spinato tra l’Austria e noi, tra l’Ungheria e i Balcani e in altri luoghi ancora. Diceva Benedetto Croce che la storia non è maestra di vita.
Ogni generazione rivendica il diritto di fare gli stessi errori degli antenati, con la giustificazione del contesto storico che cambia, per cui non ci sono mai gli stessi errori. È proprio contro il relativismo del contesto che la pratica dei diritti ha cercato di fare breccia — a che servirebbe firmare trattati se non si presume che le condizioni storiche anche se diverse possano comunque essere governate da noi, dalla nostra “buona volontà”? I Paesi europei, quelli che hanno sottoscritto o aderito al Patto di Roma e ai trattati che ne sono seguiti, sembrano aver dimenticato sia la storia recente che la logica del diritto. E mettono fili spinati lungo le linee invisibili che separano gli uni dagli altri proprio mentre credono di tener fuori in non europei.
Non è dato sapere se i cittadini di questi Paesi siano informati sulle conseguenze che quel filo spinato avrà sulla loro libertà di movimento. Avranno gli austriaci o gli ungheresi consapevolezza che il filo spinato li chiude dentro proprio mentre tiene fuori i rifugiati? L’opinione pubblica dovrebbe, se non altro, chiarire che il diritto di movimento ha due direzioni, non una: è entrare ed uscire. E l’uscire impone ad un altro stato di accettare chi esce. I muri, fisici e amministrativi, sono purtroppo nascosti sotto una montagna di propaganda nazionalista che fa vedere solo un lato della storia. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire l´entrata ai migranti.
I muri anti-immigrazione che nascono nel cuore dell’Europa sono un modo molto concreto di dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le società globali: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universali e cosmopoliti e che resta comunque minoritaria, e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l´incertezza economica e può sviluppare, con l’aiuto di demagoghi astuti, un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo.
Le nuove destre populiste europee tengono insieme due ordini di discorso: gli interessi economici della loro classe media e lavoratrice (che il decurtamento delle politiche sociali e l’austerità imposta dal patto europeo di stabilità hanno reso più esposti alla crisi) e il linguaggio della comunità nazionale (che le coordinate tradizionali della politica, certo la sovranità, non sono più in grado di rappresentare soddisfacentemente).
Il nuovo collante che giustifica la costruzione dei muri di filo spinato — questo è il segno della destra populista e nazionalista — è nuovo e recente: il cospirazionismo, la cultura del complotto internazionale alimentato sia dagli attentati terroristici e dalla propaganda dell’Is che dal dominio della finanza globale sulle scelte nazionali. Questi ingredienti di vecchio e nuovo conio sconvolgono alla radice le ragioni dell’Europa e i propositi del Trattato di Roma, la cultura della libertà di movimento.
Corriere della Sera, 1 maggio 2016, con postilla
O sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o sono ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni facili facili. «Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi ricchi “blindassero” le loro frontiere», scrivono nel saggio «Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione» (Laterza), Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna citando i dati ufficiali della Population Division delle Nazioni Unite, «nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni». Ottantanove milioni in meno. Più o meno la popolazione in età lavorativa della Germania e dell’Italia messe insieme.
Nel nostro specifico, «nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325 mila potenziali lavoratori, un numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni». Con risultati, dalla produzione industriale all’equilibrio delle pensioni, disastrosi. Vale anche per l’Austria che vuole chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035 la popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4 milioni. Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi: ma poi? Chi vuole può pure maledire i tempi, ma poi?
E allora, ringhierà qualcuno, «dobbiamo prenderci tutti quelli che arrivano?». Ma niente affatto. Sarebbe impossibile perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti «nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno». Brividi.
Nessuno ha la formula magica per risolvere questo problema epocale. Nessuno può ricavarla dalla storia. Gli uomini si spostano, come spiega il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, «da quasi due milioni di anni». Ma mai prima c’era stato uno tsunami demografico di questo genere.
Questo è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e prendere atto con realismo della difficoltà di individuare qui e subito soluzioni salvifiche, un po’ come quando la scienza brancola dubbiosa davanti a nuovi virus, è però impossibile rassegnarci a certi andazzi. Di qua il tamponamento quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la distribuzione dei profughi a questo o quell’albergatore (magari senza scrupoli) senza un progetto di lungo respiro. Di là i barriti contro gli immigrati in fuga dalla fame o dalle guerre con l’incitamento a fermare l’immensa ondata stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di statista che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di essere all’altezza della biblica sfida.
Dice un rapporto Onu che «chi lascia un Paese più povero per uno più ricco vede in media un incremento pari a 15 volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: chiunque di noi, al loro posto, sarebbe disposto a giocarsi la pelle per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni emigrati veneti. Anche se, Dio non voglia, ci sparassero addosso. Tanto più sapendo che in Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a un welfare che comunque garantisce quel minimo vitale altrove impensabile, c’è ancora spazio per chi è pronto a fare i «ddd jobs», i lavori «dirty, dangerous and demeaning» (sporchi, pericolosi e umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio.
Non basterebbe neppure una miracolosa accelerazione nel futuro: nella California di Google e della Apple, ricordano ancora Allievi e Dalla Zuanna, «ogni due nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani». Altro che i corsi di formazione per baristi acrobatici.
Come ne usciamo? Soluzioni rapide «chiavi in mano», a dispetto di tutti i demagoghi, non ci sono. Ci vorranno tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune cose tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se può vivere dov’è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e le umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque «aiutarli a casa loro» sul serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell’Aquila diede all’Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la crisi), i doni ai dittatori o la cooperazione internazionale degli anni Ottanta che finì travolta dagli scandali (indimenticabili i silos veronesi sciolti sotto il sole sudanese) dopo che Gianni De Michelis aveva ammesso alla Camera che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a trattativa privata) ad aziende italiane che volevano commesse all’estero.
Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del commercio internazionale che per proteggere lo status quo dell’Occidente inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non crescere. Citiamo Kofi Annan: «Gli agricoltori dei Paesi poveri non devono solo competere con le sovvenzioni ai prodotti alimentari d’esportazione, ma devono anche superare grandi ostacoli a livello di importazione. (…) Le tariffe doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826%. Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai loro prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi». Qualche anno dopo, la situazione non è poi diversa.
Secondo: basta coi traffici di armamenti verso Paesi in guerra. Quanti eritrei che arrivano coi barconi scappano da casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le loro famiglie la «bontà» delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò l’Espresso , nonostante l’embargo? Pretendiamo che restino a casa loro e insieme che si svenino a comprare le nostre armi?
Terzo: parallelamente a un percorso accelerato per mettere gli italiani in condizione di fare più figli sempre più indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente arrivare finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza. Forse ci vorranno decenni per realizzare il sogno di Mameli («Di fonderci insieme già l’ora suonò») allargato a tanti nuovi italiani che vogliono sentirsi italiani, ma certo non è facile pretendere che sia un bravo cittadino chi cittadino fatica a diventare.
postilla
La bacchetta magica non ce l'ha nessuno, ma soluzioni ragionevoli certamente. Basterebbe leggere i giornali giusti, o magari seguire il lavoro di Barbara Spinelli al Parlamento europeo. Se conoscessimo l'indirizzo postale di Gianantonio Stella gli invieremmo il libretto (piccolo di dimensioni ma non di sostanza) di Guido Viale, “Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti”.