La Repubblica, 26 giugno 2016 (c.m.c.)
I miei studenti provengono dalla periferie di tutto il mondo. Hafiz giocava a pallone sui terreni sconnessi nei dintorni di Kabul prima che i talebani uccidessero i suoi genitori, ecco perché controlla la sfera come un adolescente brasiliano. Mamudu ha respirato l’odore degli pneumatici bruciati ai margini del deserto, a due passi da Bamako. Omar è cresciuto in una discarica non distante da Rabat. Ovidiu ha dormito nelle fogne di Bucarest. Rashdur suonava il flauto lungo le rive fangose degli acquitrini intorno a Dacca. Florinda vendeva schede telefoniche a Sarekunda, in Gambia.
E adesso, dopo che, in un modo o nell’altro, sono arrivati nell’Urbe imperitura, in quali ambienti vivono? Al Pantano, a Grotta Celoni, a Pietralata, a Santa Maria del Soccorso, a Mostacciano, a Torre Spaccata: i quartieri posti ai margini della metropoli dove hanno sede i centri di pronta accoglienza per minori non accompagnati, oppure per richiedenti asilo politico.
La nostra Africa. Palazzine con cancelletti e citofoni senza nomi al cui interno l’antica capitale colloca, non sapendo dove altro sistemarli, questi nuovi sciuscià, lazarilli, pinocchietti neri, coi ginocchi eternamente sbucciati, gli occhi vispi, le passioni segrete, le speranze perdute ma sempre sul punto di venire ritrovate. Penso a Moustafà, che vendeva datteri sul Delta del Nilo e stava tutto il giorno all’aperto.
Adesso abita in una stanza con un vecchio poster di Balotelli attaccato alla parete proprio sopra il lettino. Non fa niente dalla mattina alla sera. In una classe chiusa, seduto al banco, non ci saprebbe stare: preferisce venire da noi, alla Penny Wirton, a studiare l’italiano. Gli regaliamo una maestra tutta per lui con penna, quaderno, libro e caramelle. Perfino così è difficile tenerlo concentrato: analfabeta nella lingua madre, inventa qualsiasi scusa pur di evitare l’esercizio che gli sottopongo. Allora lo prendo per mano e me lo porto in giro, al secondo piano del liceo “Giovanni Keplero”, dietro Ponte Marconi, dove una dirigente scolastica illuminata, Maria Concetta Di Spigno, ci ha messo a disposizione sette aule il mercoledì e giovedì pomeriggio.
Il monello egiziano coi capelli tagliati alla Moicana, come Genny Savastano, vive un sentimento contrastante: da una parte è ancora Antoine Doinel, indimenticabile protagonista dei Quattrocento colpi, cioè vuole scappare continuando a correre sulla battigia, verso nuovi lidi, amori, felicità, professioni; dall’altra capisce che prima o poi dovrà fermarsi e, per essere veramente se stesso, avrà bisogno di trovare un lavoro, acquistare un’automobile, sposarsi, crescere dei figli. Ripeness is all, appunto. Mentre mi stacco da lui per entrare in sala insegnanti alla ricerca di atlanti e cartine, mi accorgo che la mano dello scolaro arabo oppone resistenza, come farebbe un figlio piccolo col padre, se questo lo lasciasse da solo per qualche attimo. Dopo aver riacciuffato il fuggiasco, ora devo rassicurarlo: aspetta, gli dico, prendo le parole colorate e torno.
Basta un attimo e lo perdo. È andato al bagno; attenzione perché potrebbe combinarne di tutti i colori: tipo spiccare il volo coi gabbiani della Magliana e tornarsene a casa sua, come in fondo desidera, anche se non lo ammetterebbe mai. È proprio vero: con lui non si può mollare la presa. È a questo punto che incrocio lo sguardo di Teresa, la liceale del “Pilo Albertelli”, all’Esquilino, che, insieme a una ventina di compagne, sta svolgendo presso di noi il tirocinio formativo nel quadro dell’alternanza scuola lavoro previsto dalla nuova riforma dell’istruzione pubblica.
Sarà per la presenza fantasmatica del priore di Barbiana, che non smette di agitarsi dentro di me, ma è naturale pensare a lei come alla soluzione dei problemi di Moustafà. Non era stato proprio don Lorenzo Milani a proclamare a chiare lettere che per fare una scuola come si deve basta chiamare dei sedicenni a insegnare ai dodicenni? E chi sono i ragazzi di Barbiana di oggi, se non quelli che sbarcano a Lampedusa? Così, nel momento in cui il diretto interessato spunta in corridoio, appena vede l’incredibile docente che gli ho affidato, trasforma l’aria scalcinata di bandolero stanco che lo contraddistingue in un’imprevedibile solerzia. La studentessa, che potrebbe essere una sorella maggiore, riesce perfino a farlo sillabare sul manuale: una cosa dell’altro mondo.
Mi torna alla mente, in contrapposizione speculare, Mohamed, il ragazzo marocchino che un paio di anni fa ci raccontò di aver vissuto da protagonista i fatti di Tor Sapienza. Gli abitanti del quartiere, inferociti dall’arrivo dei migranti, attaccarono il centro di accoglienza e lanciarono oggetti contro le finestre suscitando la reazione dei minori che vi alloggiavano. Una guerra fra poveri, leggemmo sui giornali. E la mortificazione che decifrai nell’espressione del nostro scolaro mentre rievocava gli eventi ai quale aveva partecipato restò un’emozione privata, soltanto mia.
Forse in quei giorni si verificò una frattura che certi osservatori hanno scoperto solo ieri l’altro, quando i risultati delle più recenti elezioni comunali l’hanno impietosamente registrata. Intendiamoci: lo scarto lancinante fra chi ha l’ufficio in Campidoglio e quelli che alle prime luci dell’alba prendono il tranvetto del Casilino diretti alle Ferrovie Laziali per andare al lavoro, sembra troppo forte per essere considerato il frutto di una semplice stortura amministrativa.
Tutti sapremmo indicare le magagne accumulate nel tempo. Le potremmo individuare con precisione, quasi fossero cicatrici di una ferita ben nota, le tappe della sconfitta annunciata: edilizia di rapina; trasporti improponibili; servizi inefficienti; interventi che cadono dall’alto come meteoriti, pensiamo alla Chiesa della Misericordia di Richard Meier a Tor Tre Teste; biblioteche lasciate da sole come fortini nella pianura del Serengeti; finanziamenti a progetti magari interessanti, ma che non hanno alcuna ricaduta nella vita sociale del territorio.
La crisi etica in cui annaspiamo, innegabile su scala nazionale e ben più grave dello scompenso economico del quale sempre sentiamo discettare, a Boccea è clamorosa. A Torre Maura diventa una piaga purulenta. A Ostia ha creato i presupposti dello sfacelo sotto i nostri occhi. Poi ci lamentiamo che molti ragazzi delle borgate vanno da Casa Pound a cercare uno sbocco al loro vitalismo tumefatto.
In quale altro luogo potrebbe andare un ragazzo cresciuto nel vuoto culturale, senza anticorpi, coi frantumi esplosivi che i suoi genitori, fragili e violenti, gli hanno trasmesso? Dove sono gli adulti credibili capaci di tenergli testa offrendogli un modello nuovo, che non sia quello degli addominali scolpiti in palestra, in grado di fargli comprendere che la libertà non è il superamento del limite ma la sua accettazione?
Continuiamo così, con le parole al vento, i linguaggi incrostati non legittimati dall’esperienza, la ricerca del consenso fine a se stessa, le frasi fatte, i cinismi introiettati nel sangue, gli alibi interiori e presto Corviale diventerà la nostra Molenbeek, là dove tutto sembrava perfetto: scuola, sanità, sport, corsi professionali. Cosa mancava? Il fattore più importante: la qualità del rapporto umano.
Lasciate stare le bandiere sventolate nei salotti della Grande Bellezza. Scendete da cavallo e baciate il lebbroso (spirituale) dei giorni nostri: ha una moglie e due figli, abita a Casetta Mattei, lavora ai ponteggi, guadagna mille euro. Per mantenere la sua famiglia fa una rivoluzione al mese. Se non parlate con lui, continuerete a vincere soltanto a Corso Francia.
Roma non potrà assorbire tutto, come ha sempre fatto, quasi fosse una spugna infinita. Detto questo, l’errore più grave che potremmo commettere sarebbe quello di attribuire alla classe politica l’intera responsabilità di quanto accaduto.
Come se noi, comuni cittadini, fossimo immuni. Non basta scandalizzarsi.
Bisogna entrare in azione, superando i vecchi schemi novecenteschi. Me lo ricordo Alessandro: naziskin dell’Alberone, il giorno in cui, rischiando, lo ammetto, gli posi di fronte Ismail. Chi non li avesse conosciuti, avrebbe potuto sintetizzare così: la croce uncinata contro la mezza luna. E allora, dico io, perché sorrisero, insieme a me, riconoscendosi fratelli nel nome del grande Mohamed Salah? Non il terrorista parigino, ma l’omonimo giocatore della Maggica.
Quando hai vent’anni ci sono diversi modi di pensare al mare. Puoi avere in testa solo una vacanza, una bella foto da condividere con gli amici. Oppure avere uno sguardo inquieto che riesce a spingersi un po’ più in là, oltre l’indifferenza e oltre una politica umanitaria che di umano ha ancora poco.
Seguendo quest’ultima strada, un gruppo di nove ragazzi tedeschi, tutti giovanissimi, ha deciso di raccogliere i fondi per comprare una nave, rimetterla a nuovo e trasformarla in un’imbarcazione da salvataggio, per i migranti che attraversano il Mediterraneo in fuga da miseria e guerra.
Un’idea ambiziosa e coraggiosa, un progetto serio, elaborato nei minimi dettagli, che nel giro di un anno è diventato qualcosa di più. Grazie a una campagna di crowdfunding divisa in due fasi sono stati ottenuti oltre 300mila euro, e presto la barca sarà pronta per partire e pattugliare il mare per sei mesi, guidata da un equipaggio di professionisti e volontari.
L’associazione che ha promosso l’iniziativa si chiama Jugend Rettet, ed è stata fondata da due giovani di Berlino, Jakob Schoen, e Lena Waldhoff, rispettivamente 20 e 23 anni. Alla base c’è la volontà di fare qualcosa di concreto per affrontare l’emergenza migranti, e allo stesso tempo di creare una rete europea, una sorta di piattaforma di discussione tra i giovani, per promuovere la partecipazione e sviluppare il tema del soccorso in mare e quello delle politiche di asilo.
«Siamo un gruppo di giovani con la possibilità di cambiare qualcosa – spiega Jakob Schoen sul sito del progetto – Una nave non è una soluzione a lungo termine. Tuttavia servirà a salvare vite umane. E farà sorgere una domanda: perché al posto dei governi europei, sono i giovani, con una loro iniziativa privata, a doversi fare carico di questa missione?».
Sul sito viene mostrata la timeline aggiornata e dettagliata. Il primo passo viene compiuto a giugno del 2015, pensando alle ultime stragi di migranti sulle rotte del Mediterraneo. I numeri dell’anno precedente sono spaventosi: nel 2014 almeno 3500 persone non sono sopravvissute al viaggio per raggiungere le coste dell’Europa e sono state inghiottite dal mare.
Anche se potrebbero essere molte di più, perché una stima esatta delle vittime di naufragi è impossibile farla. Da qui, dal senso di impotenza di fronte a un dramma senza precedenti, e dalla sensazione che l’Europa stia voltando lo sguardo dall’alta parte, arriva la spinta, nasce l’idea di mettersi in gioco in prima persona, e recuperare una nave per aiutare i richiedenti asilo che si trovano in mezzo al mare.
Così la squadra di ragazzi comincia a studiare per verificare la fattibilità, e prende contatti con organizzazioni come Greenpeace, che già hanno portato avanti esperienze di questo tipo, per avere consigli pratici su come fare. Il progetto è ben fatto e ben concepito, e in pochi mesi arrivano adesioni, proposte di collaborazione, piccole e grandi donazioni.
«Il nostro obiettivo è semplice: meno morti nel Mediterraneo. Da una parte c’è la nave, impiegata per le missioni di soccorso. Dall’altra, Jugend Rettet vuole costruire una rete europea dedicata ad adolescenti e giovani, che vogliano scambiarsi opinioni e pensieri sul ruolo dell’Europa in questa emergenza umanitaria. In questo modo le persone hanno la possibilità di essere coinvolti nella discussione sulle politiche di asilo».
Per questo l’associazione ha promosso, oltre alla raccolta fondi per sostenere le spese, anche la creazione di gruppo di “ambasciatori” del progetto, distribuiti per il momento in tutto il nord Europa.
La nave scelta è un’imbarcazione olandese, in grado di ospitare un centinaio di persone. Ha delle caratteristiche precise, è dotata di scialuppe, giubbotti di salvataggio e serbatoi di acqua dolce, per soccorrere chi si trova in stato di disidratazione.
A bordo ci sarà una squadra di professionisti, medici, skipper, e operatori, aiutati da volontari. Dieci persone suddivisi in turni bisettimanali. “Un equipaggio professionale garantisce che le operazioni siano condotte in modo sicuro e serio. Ma l’organizzazione vuole anche dare ad alcuni giovani la possibilità di partecipare direttamente nelle missioni di soccorso come marinai”. La partenza è prevista per la fine di giugno.
Coordinamento Comuni per la pace
APPELLO PER LA CHIUSURA
DEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE
Le condizioni di degrado, la disumanità, il mancato rispetto dei più elementari diritti umani sono elementi tali da consentire di definire illegali i Centri di identificazione ed espulsione, e di denunciare l'assoluta inadeguatezza delle grandi strutture destinate all'accoglienza, come i centri di primo soccorso e accoglienza e i centri per rifugiati e richiedenti asilo (CARA).
I CIE, in cui si può restare reclusi anche per 18 mesi, devono essere chiusi e l'intera politica sull'immigrazione deve essere profondamente riformata, con un maggior protagonismo degli enti locali e delle organizzazioni di tutela.
I suicidi, gli atti di autolesionismo, le proteste dei migranti rinchiusi si susseguono ma nulla cambia.
Occorre adottare immediatamente le misure necessarie per ripristinare la legalità e lo stato di diritto in tutti i luoghi in cui sono stati sospesi.
Per questo è necessario chiudere subito i CIE e tutti i centri di accoglienza che tali sono solo di nome e non di fatto; garantire condizioni dignitose di vita ai migranti giunti in Italia e procedure rapide e certe per richiedenti asilo e rifugiati; dedicare particolare attenzione alla tutela dei minori e delle persone in condizioni di disagio fisico e psichico; abolire la Bossi-Fini e il reato di clandestinità, riformando il Testo Unico sull'immigrazione; riformare la legislazione sulla cittadinanza.
Tutto ciò premesso
Considerato che assicurare adeguata protezione a coloro che fuggono da persecuzioni, conflitti e gravi violazioni dei diritti umani costituisce un diritto umano fondamentale riconosciuto dall’art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che recita: «1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite»;
- Considerato che la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e il relativo protocollo del 1964, deve essere interpretata nel contesto dell'intera normativa internazionale in materia di diritti umani;
-Considerato che il diritto dell'Unione Europea ha contribuito ad innovare profondamente il quadro dell'asilo in Europa introducendo più uniformi standard di tutela ma anche che la stessa normativa europea presenta tuttora degli aspetti critici molto rilevanti, per cui risulta necessario compiere molti passi in avanti nella direzione di assicurare in tutto il territorio dell'Unione un maggiore e più uniforme livello di protezione internazionale a coloro che ne hanno diritto;
- Considerato che l’Assemblea Costituente nel 1948 decise di dare massimo rilievo al diritto d’asilo inserendolo tra i principi fondanti dell'ordinamento democratico della Repubblica Italiana, così come sancito dall’art. 10 c.3 che afferma che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
- Considerato opportuno un forte richiamo al rispetto del Diritto dell’UE, troppe volte disatteso dall’Italia
-Preso atto della grave carenza costituita dal fatto che la disposizione costituzionale non ha mai trovato una sua attuazione all’interno di una legge organica e che è necessario un rinnovato impegno di tutta la società italiana per recuperare tale intollerabile ritardo;
Considerato che è necessario rafforzare in Italia e in Europa l'effettivo rispetto del diritto d'asilo, spesso minacciato da politiche e prassi eccessivamente restrittive e da atteggiamenti sociali di indifferenza od ostilità e che è necessario definire di forme di regolarizzazione permanente al fine di ridurre il bacino dell’irregolarità:
- Il Coordinamento Comuni per la Pace della provincia di Torino assume come propri i seguenti obiettivi desunti dalla rete nazionale per il diritto d’asilo denominata Europasilo:
1. Promuovere un'evoluzione del diritto europeo in materia di asilo adeguato a rispondere alle sfide poste dai cambiamenti determinati dall'evoluzione degli scenari internazionali garantendo in particolare più efficaci forme di protezione a coloro che fuggono da seri rischi derivanti da gravi ed estese violazione dei diritti umani e da disastri ambientali in atto nei paesi di origine;
2. Rafforzare, nel diritto europeo e nella norma italiana,un'effettiva protezione giuridica e sociale garantita ai richiedenti asilo e ai rifugiati con particolare attenzione ai seguenti aspetti:
a) garantire ai richiedenti asilo un accesso effettivo alla protezione, con particolare attenzione alle frontiere interne ed esterne dell'U.E) al fine di scongiurare seri rischi di refoulement e assicurare altresì un’effettiva tutela in sede giurisdizionale
b) garantire elevati standard di orientamento, protezione legale e sociale dei richiedenti asilo;
c) assicurare un accesso effettivo e tempestivo dei richiedenti asilo a misure di accoglienza per tutto il tempo della definizione della procedura di asilo, ivi compresa la fase della tutela giurisdizionale, in strutture di accoglienza ordinarie, diffuse capillarmente e gestite con il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile escludendo o riducendo a ipotesi eccezionali l'applicazione di misure detentive o di limitazione della libertà di circolazione;
d) superare il cd. Regolamento Dublino III rivelatasi norma iniqua, inefficace e comunque inidonea a rispondere alle effettive esigenze di tutela dei richiedenti e a perseguire l'obiettivo di una politica comune in materia di asilo nella UE fondata sulla solidarietà tra gli Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi;
e) giungere alla definizione di un programma unico europeo per l'accoglienza e la presa in carico delle vittime di tortura che supporti concretamente le persone nella realizzazione del loro percorso di autonomia ed eviti forme di ghettizzazioni delle stesse;
3. Promuovere una nuova legislazione organica in materia di asilo che dia attuazione all'art. 10 co.3 della Costituzione della Repubblica prevedendo in particolare:
a) l'introduzione di servizi adeguati di informazione, orientamento e protezione legale dei rifugiati alle frontiere aeroportuali e marittime;
b) una riforma della composizione e del funzionamento degli organi decisionali competenti ad esaminare le domande di asilo, al fine di assicurare un esame equo e competente delle domande di asilo, prevedendo altresì una maggiore indipendenza di detti organi dal potere esecutivo;
c) una profonda riforma del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo che preveda la costituzione di un unico sistema nazionale per la protezione dei richiedenti asilo, ivi compresi i minori stranieri non accompagnati, articolato su funzioni e ruoli propri dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali. Detta riforma dovrebbe operare una netta scelta a favore di un sistema di accoglienza decentrato, attraverso il ricorso a strutture di accoglienza di tipo ordinario gestite dagli enti locali, evitando grandi concentrazioni, ovvero la collocazione dei richiedenti in strutture inidonee, isolate e ghettizzanti. Gli standard di accoglienza attualmente previsti sia dalla normativa che dalle disposizioni amministrative risultano eccessivamente generici e come tali facilmente eludibili e andrebbero pertanto ridefiniti. Il sistema di accoglienza dovrebbe prevedere strumenti di monitoraggio (con pubblicazione di periodici rapporti) affidato ad enti indipendenti. La riforma del sistema pubblico dell’accoglienza dei rifugiati dovrebbe pertanto valorizzare la decennale esperienza dello SPRAR superandone però gli intrinseci limiti strutturali che ne hanno impedito un pieno sviluppo, con conseguente abrogazione dei CARA, rivelatisi strutture del tutto inefficaci a garantire adeguati livelli di tutela ai richiedenti asilo, incongruenti con il sistema dei servizi socio-assistenziali del territorio e dissipative di ingenti risorse pubbliche;
d) il superamento della attuale separazione delle politiche dell’asilo rispetto alla programmazione delle più generali politiche socio-sanitarie ed organizzazione dei relativi servizi;
e) la nascita di uno specifico piano nazionale per l'accoglienza e la riabilitazione delle vittime della tortura, che preveda che detti interventi siano realizzati nell'ambito della ordinaria programmazione dei servizi socio-sanitari del territorio, con rafforzamento delle competenze delle aziende sanitarie nella gestione di detta utenza;
f) introduzione, con norma primaria, della previsione di un adeguato periodo di accoglienza e supporto all'inclusione sociale dei titolari di protezione internazionale o umanitaria, successivo al riconoscimento giuridico della protezione, al fine di superare l'attuale gravissima situazione di abbandono dei rifugiati per la quale l'Italia è oggetto di serie e motivate critiche anche in sedi internazionali.
Nell’approvare il presente documento ci attendiamo dal Governo interventi rapidi ed efficaci, per restituire civiltà e dignità al nostro Paese.
Il manifesto, 23 giugno 2016 (m.p.r.)
Lo sgombero del campo di Idomeni in Grecia, la condizione dei rifugiati, il destino del popolo siriano e la balbuzie degli stati europei. Iniziare una rivoluzione in Siria per venire a perderne un’altra in Europa: questo sembra il destino di chi è rimasto per mesi bloccato a Idomeni. La protesta dei migranti che ha attratto l’attenzione del mondo su uno sperduto villaggio greco di collina, è finita.
Ma davanti a quel reticolato tra Grecia e Macedonia ha trovato continuità, come il secondo atto di una tragedia epica, il più potente gesto sovversivo, la più grande sconfitta collettiva e la più nobile affermazione di umanità del nostro secolo: il tentativo del popolo siriano di cambiare il proprio destino.
Gli undicimila uomini e donne che da Idomeni hanno atteso pazienti il corso avverso della storia, mettono la coscienza degli europei di fronte a un fatto nuovo: la richiesta esplicita di accesso in Europa, la fine del ricorso ai canali clandestini, il riconoscimento dell’esistenza di una condizione di fatto.
Da Idomeni non sono arrivate richieste di aiuto materiale o di accoglienza, né di legittimazione delle proprie intenzioni attraverso la formalità del diritto. Chi è rimasto a Idomeni ha lanciato un appello appendendosi alla forza di un dovere storico, a una causa umana, a una continuità con la vita per come essa più naturalmente si manifesta: il cammino delle generazioni verso una condizione migliore.
L’Europa, attendista e balbuziente, ha temporeggiato senza convinzioni, perché l’essere umano straccione e tenace che per settimane è rimasto seduto sulle traversine di una dimenticata stazione di frontiera, con le unghie sporche di terra, la voce stentorea e i bambini che gli giocano intorno, l’ha trascinata fatalmente su un piano dialettico, in cui essa non sa muoversi: per questo il progressivo irrigidimento, la paventata fine di Schengen, il ripristino dei confini, le guerre diplomatiche, le polizie schierate e, infine, lo sgombero.
Chi entra in Europa deve continuare a farlo clandestinamente, questo vuole dirci Idomeni. I trafficanti, figli illegittimi della stessa grande madre dei migranti, hanno iniziato da tempo a fantasticare su nuove rotte: Albania e Grecia, Montenegro e Serbia. Fiumi, giungle, pestaggi, nottate al chiaro di luna, eroiche traversate, corpi abbandonati alla corrente e approdi insperati saranno la nuova narrativa dell’Europa del domani, dei nostri vicini di casa.
Ma intanto Idomeni, prologo di una nuova fuga di massa, ha polarizzato sui suoi binari il più recondito e vitale spunto dell’uomo quando sottoposto a immani difficoltà: la presa di coscienza. Quanto di più temono le istituzioni europee sta avvenendo a causa della loro stessa rigidità: se il più autentico messaggio politico, la vera richiesta di cambiamento, l’unica visione di un futuro diverso dell’Europa arriva dal di fuori dei suoi confini, l’Europa stessa perde legittimità interna, e alza muri per proteggere le sue membra.
L’accampamento di Idomeni è ormai un ricordo, la massa umana che impuzzolentiva un verde tratto di pianura è stata spazzata via, come nell’immaginario collettivo è stata spazzata via la rivoluzione siriana, archiviata a guerra di interessi oscuri, cieca fame fratricida, insulto al patrimonio mondiale.
Ma cosa rende tale una rivoluzione? L’abbattimento del potere formale - un dittatore, un regime, una rete metallica - o la generazione di coscienza nuova che permea il mondo, gli umori e le idee dei figli dei figli?
In occasione del Vertice umanitario mondiale dell’Onu, a maggio in Turchia, il vicepresidente keniano William Ruto ha dichiarato che è ormai definitiva la decisione di chiudere Dadaab e Kakuma, i due campi profughi più grandi del paese.
E questo nonostante le chiusure siano una violazione del diritto internazionale e le Nazioni Unite abbiano avvertito delle “devastanti conseguenze” che ne deriveranno. Più di 600mila persone residenti saranno sfollate e si troveranno in una situazione di rischio immediato. La chiusura forzata tradisce inoltre i più elementari diritti dei rifugiati e non farà altro che inaugurare una serie di violazioni dei diritti umani, dal momento che facendo ritorno nel loro paese natale i profughi dovranno affrontare conseguenze molto pesanti.
La decisione del Kenya ha dei precedenti. Nel 2012 il governo della Tanzania aveva chiuso il campo profughi di Mtabila, costringendo i suoi 35mila abitanti burundesi a trovarsi una nuova sistemazione in Burundi, il paese in cui dilagava un conflitto violento dal quale erano fuggiti. Da allora le violenze in Burundi hanno costretto più 250mila abitanti del paese a cercare rifugio nei paesi vicini, e 137mila sono tornati in Tanzania.
Soluzione definitiva
E tuttavia la situazione del Kenya è il sintomo di un problema più ampio e sostanziale. Il nodo cruciale è che i campi rappresentano la base della strategia di risposta alle crisi di profughi messa in atto dalla comunità internazionale. Sono diventati il collettore della maggioranza degli aiuti umanitari. I campi sono diventati l’inizio, e in molti casi lo scopo, dell’intervento internazionale nelle crisi di profughi sempre più numerose.
Oggi più della metà della popolazione di profughi al mondo – circa il 60 per cento – risiede in aree urbane e non nei campi
La vicenda del Kenya sottolinea la necessità urgente di trovare alternative sostenibili ai campi e soluzioni sostenibili per i milioni di profughi urbani che li hanno lasciati o hanno scelto di evitarli. Oggi più della metà della popolazione di profughi al mondo – circa il 60 per cento – risiede in aree urbane e non nei campi. E una schiacciante maggioranza, l’86 per cento, si trova nei paesi più poveri.
In queste aree urbane, organizzazioni non governative di tutto il mondo mostrano la possibilità di creare alternative ai campi profughi. Con i loro programmi cercano di offrire ai profughi la possibilità di conquistare l’indipendenza dagli aiuti internazionali, trovare un modo per vivere dignitosamente e mezzi di sostentamento di lungo periodo che al tempo stesso hanno ricadute positive sulle comunità che li ospitano.
Un programma in Kenya, per esempio, fornisce un riparo e un sostegno a donne e bambini, che compongono più della metà della popolazione mondiale di profughi e sono esposti a gravi rischi di violenza sessuale e di genere. La casa famiglia garantisce la sicurezza 24 ore al giorno e fornisce importanti servizi di orientamento, assistenza legale e sanitaria e una comunità accogliente nei confronti delle ospiti. Il programma inoltre facilita le strategie di uscita positive per le donne, mettendole in collegamento con sistemazioni di lungo periodo un supporto sostenibile all’interno della comunità locale.
In molti casi sono i profughi stessi a guidare le iniziative di solidarietà nei paesi di accoglienza. Ma hanno poche risorse e nessun sostegno internazionale
In un altro programma a Irbid, in Giordania, sono state aperte delle abitazioni per accogliere i profughi siriani. A Irbid quello della casa è un problema di vecchia data. I programmi basati sull’affitto in cambio di soldi offrono soluzioni temporanee ma fanno schizzare alle stelle gli affitti nel mercato locale degli alloggi e rendono la vita più difficile agli abitanti del posto e ai profughi. Il programma di Irbid è sostenuto dal Consiglio norvegese per i profughi (Nrc) e offre ai proprietari locali fondi per completare la costruzione di edifici a più piani, creando abitazioni per i profughi e al tempo stesso stimolando l’economia locale. Fino a oggi sono state create 3.800 unità immobiliari per più di 8.700 profughi, e mentre altri ottomila sono in lista d’attesa l’Nrc può estendere le attività in altre aree urbane su tutto il territorio della Giordania.
Oltre a questo tipo di programmi messi in campo dalle ong, tante organizzazioni comunitarie forniscono un supporto vitale. Rappresentano spesso l’unica fonte di sostegno per i profughi urbani che in molti casi sono alla guida delle iniziative.
Fare promesse realistiche e mantenerle
Un esempio è l’organizzazione Young african refugees for integral development (Yarid), che dal 2008 è attiva nella comunità di profughi di Kampala, in Uganda. I fondatori di Yarid, profughi sfuggiti alle violenze nella Repubblica democratica del Congo e stabiliti in Uganda, hanno dato vita alla loro organizzazione dopo aver osservato le difficoltà affrontate dagli altri profughi come loro. Oggi Yarid rappresenta una comunità vitale che affronta questioni sociali come la disoccupazione, la salute pubblica e i conflitti etnici e fornisce servizi educativi fondamentali ai profughi urbani dell’Africa centrale. Tuttavia, a causa della scarsità di risorse e dell’assenza di un sostegno internazionale queste organizzazioni faticano a sopravvivere.
Oggi, una persona su 122 è costretta a vivere lontano dalla sua casa. La crisi è reale e la situazione in Kenya non è che un esempio di quanto sia ormai precaria la nostra dipendenza globale dal sistema dei campi. Se vogliamo che le alternative funzionino, dobbiamo investire in quello che funziona.
I campi profughi non stanno funzionando, al contrario di tanti programmi in tutto il mondo. È giunto il momento che la comunità internazionale dimostri il suo impegno a risolvere la crisi globale dei profughi investendo in soluzioni che mantengono promesse realistiche.
Articolo pubblicato dal The Guardian, traduzione di Giusy Muzzopappa
Ilmanifesto, 20 giugno 2016
Ma mentre il Ministero ribadiva il presunto impegno di Ankara nella protezione dei profughi (2,7 milioni i siriani oggi in Turchia, nei campi profughi o da invisibili nelle grandi città), al confine sud l’esercito apriva il fuoco come fatto innumerevoli volte negli ultimi mesi: almeno 11 i siriani uccisi, tra loro 4 bambini. Stavano tentando di attraversare la frontiera vicino al villaggio di Khirbet al-Jouz, dopo la fuga da Jarabulus e Idlib. Cinque appartenevano alla stessa famiglia: Obaid al-Abo, di 50 anni, e i figli Amani, 21, Fatoum, 20, Walaa, 17, Waed, 15, e Hassan di soli sei anni. La moglie ed un altro figlio sono rimasti feriti.
Secondo fonti locali, le guardie turche hanno «sparato in maniera indiscriminata contro famiglie che tentavano di passare il confine sabato notte». Alcune foto sono apparse sui social network: una mostrava una donna in lacrime con in braccio una bimba di due anni colpita allo stomaco, altre cadaveri a terra.
Non si tratta di un evento sporadico: nel 2016 almeno 60 rifugiati siriani sono stati uccisi alla frontiera, oggi blindata, della Turchia: la politica delle porte aperte non esiste almeno da due anni, quando i kurdi di Rojava cominciarono una strenua resistenza per salvare Kobane dall’avanzata dell’Isis. La chiusura è stata ufficializzata ad agosto 2015: ai migliaia di siriani in fuga, prima da Rojava, poi da Aleppo e Idlib, Ankara ha impedito l’accesso fino a costruire vere e proprie barriere fisiche, muri e reti elettrificate.
Pochissimi quelli che entrano. E chi ce la fa passa dalla brutalità della guerra civile a quella dell’esercito turco: l’11 maggio riportavamo su queste pagine dei video di Human Rights Watch che ha documentato arresti arbitrari, torture e pestaggi compiuti sui civili in fuga. Rapporti trattati come carta straccia dal presidente Erdogan che ha negato ogni accusa.
Reazioni al massacro di ieri non ne sono arrivate. Dalla Turchia nessun commento ufficiale eccezion fatta per le dichiarazioni di un funzionario anonimo che ha negato: «Le voci secondo cui i soldati turchi hanno ucciso persone che provavano ad attraversare il confine nella provincia di Hatay non sono vere. La scorsa notte c’è stato un tentativo di passaggio illegale del confine ma nessuna pallottola è stata sparata contro la gente: dopo colpi di avvertimento, un gruppo di 7-8 persone è fuggito nel bosco».
A parlare è anche la Coalizione Nazionale, principale gruppo di opposizione al presidente Assad, ampiamente finanziato e sostenuto da Ankara: in un comunicato esprime «sorpresa e condanna dopo questa terribile tragedia che contraddice l’ospitalità del governo turco». Una dichiarazione che non alcuna base, che definisce ‘tragedia’ una pratica ormai comune e che non dà all’evento la sua reale definizione, quella di crimine di guerra.
Nelle stesse ore il Dipartimento di Stato Usa parlava dell’operazione in corso per la liberazione della città di Manbij, portata avanti dalle Forze Democratiche Siriane guidate dalle Ypg kurde, come di un’azione di successo grazie alla cooperazione con la Turchia. Dimenticando che le Ypg kurde sono oggi tra i nemici numero uno di Ankara, contro i quali Erdogan non lesina l’uso di missili e artiglieria pesante e minaccia di invadere il nord della Siria.
Il manifesto, 18 giugno 2016 (m.p.r.)
La parola shame, vergogna, ricorre più volte nel comunicato con cui ieri Medici senza Frontiere dà l’addio a tutti i finanziamenti, e alle relative collaborazioni con le istituzioni europee, per l’applicazione dell’accordo Ue-Turchia sui migranti.
«Per mesi Msf ha denunciato la vergognosa risposta europea, concentrata sulla deterrenza invece che sulla necessità di fornire alle persone l’assistenza e la protezione di cui hanno bisogno», ha detto in conferenza stampa a Bruxelles Jérôme Oberreit, segretario generale internazionale di Medici Senza Frontiere, organizzazione premio Nobel per la pace 1999, per spiegare come è arrivato il gesto del gran rifiuto.
Un gesto effettivamente eclatante perché - anche se la portavoce della Commissione Ue Margaritis Schinas è corsa a dire, cercando di ridimensionarne l’impatto, che «Msf non è un partner attuativo dell’aiuto umanitario in Turchia, né ha fatto richiesta di finanziamenti per le sue attività in Turchia, di conseguenza la decisione non colpirà alcuna attività umanitaria per i profughi in Turchia» - l’organizzazione ha deciso di rifiutare 63 milioni di euro che gli venivano dall’Unione europea e dagli stati membri. Si trattava, nel bilancio dello scorso anno, di 37 milioni di fondi provenienti dagli stati Ue e di 19 milioni di euro direttamente erogati dalle istituzioni comunitarie di Bruxelles.
Il blocco dei fondi europei avrà effetto immediato e si applicherà ai progetti Msf in tutto il mondo. Il budget si ridurrà ma non intaccherà la solidità dell’ong, visto che il 92 per cento dei fondi che gli consentono di fornire aiuti medici e servizi, dai soccorsi per le catastrofi naturali alla gestione di interventi di emergenza in zona di guerra, gli arrivano da risorse private, dai grandi mecenati alle piccolissime donazioni mensili di singoli cittadini.
Il rifiuto di questi soldi è una pesante denuncia politica di tutta la politica europea sui migranti, imperniata appunto sull’accordo con la Turchia dello scorso 20 marzo. Il 49enne segretario generale Oberreit, che viene da esperienze decennali in Africa, lo ha detto chiaramente: il patto tra Europa e Turchia costituisce un precedente pericoloso per gli altri Paesi che ospitano rifugiati, come dimostra la proposta fatta settimana scorsa dalla Commissione europea di replicare la logica del patto in altri 16 paesi africani e mediorientali con i cosiddetti European compact.
Questi accordi ispirati a quello con Erdogan - ha scandito Oberreit - «hanno l’unico scopo di negare il diritto d’asilo» e rischiano di bloccare in Eritrea, Afghanistan, Sudan e Somalia – i quattro paesi che forniscono la maggior parte del flusso di profughi insieme alla Siria – le persone in fuga dai conflitti armati. Il giudizio durissimo, senza appello, di Msf sull’accordo Ue-Turchia è che «mette in forse lo stesso concetto di rifugiato e asilo». E perciò Msf non risparmia neanche la Grecia, dove 50 mila profughi siriani sono ancora accampati in condizioni vergognose tra ruderi di palazzi e tende, in attesa di un improbabile ricollocamento nei paesi più sviluppati del Nord Europa o addirittura di essere rispediti indietro, oltre la frontiera turca ora tendenzialmente sigillata.
«Chiediamo ai governi europei di rivedere le priorità: invece di massimizzare il numero di persone da respingere devono massimizzare il numero di quelle che accolgono e proteggono», ha chiesto Oberreit. «Il patto Ue-Turchia è stato presentato come una risposta umanitaria ed è questo che noi rifiutiamo perché in realtà si tratta di una risposta anti-umanitaria», ha aggiunto Aurelie Ponthieu, consigliera per le migrazioni di Msf.
Ieri il ministro greco alle Migrazioni Ioannis Moulazas, prima di incontrare con Alexis Tsipras il segretario generale Onu Ban Ki-moon in visita di due giorni ad Atene e Lesbo proprio per verificare il rispetto dei diritti umani dei migranti bloccati in Grecia - ha reiterato in tv la richiesta ai vicini turchi di vigilare sulle frontiere e arrestare i migranti che intendono attraversarle, dopo che negli ultimi due giorni almeno 200 persone sono tornate a tentare la traversata dell’Egeo. Il Parlamento di Atene ha anche cambiato la costituzione della commissione preposta a rilasciare lo status di rifugiato: i due membri rappresentanti dell’Onu e della commissione nazionale diritti umani sono stati sostituiti con due magistrati. Ankara per tutta risposta ha arrestato 51 migranti – siriani e eritrei – in procinto di imbarcarsi per le isole greche. Tra questi 13 donne e nove bambini.
Lady Pesc, Federica Mogherini ha detto che la Ue è pronta a sostenere missioni europee in Niger e Mali per cooperare con questi paesi a Sud della Libia a una «gestione integrata dei controlli alle frontiere». Ad Agadez in Niger – il più grande mercato per la tratta e i trafficanti di merce umana del continente – esistono già uffici di Frontex e si sta insediando una missione congiunta Ue-Unione africana. E mentre il Kenya, in ottemperanza alle nuove direttive di respingimento europee, ha deciso di chiudere il mega campo profughi di Dadaab ricacciando in Somalia 330 mila sfollati di vent’anni di conflitti tra i signori della guerra, in Mauritania rischiano lo stesso destino i 41 mila maliani che continuano a ingrossare il campo di Mbera.
«. Il Fatto quotidiano online,
Senza soluzione. Così appare il drammatico problema dei migranti, per il quale si passa dal semplicistico “accogliamoli tutti” all’altrettanto semplicistico “aiutiamoli a casa loro”. Ed il problema è sicuramente destinato a cronicizzarsi ed amplificarsi per via dei cambiamenti climatici.
Anche se i mass media non lo dicono, flussi migratori di questo tipo sono già palpabili. Sono i migranti ambientali, altrimenti detti emigranti climatici o eco-profughi, oppure ancora “rifugiati ambientali”, come li definì Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute.
Il Parlamento Ue segnala che 17,5 milioni di persone hanno lasciato il loro paese nel 2014, a seguito di catastrofi correlate al clima e che tali migrazioni hanno interessato soprattutto le regioni meridionali (l’Africa subsahariana), che sono oggi quelle maggiormente esposte agli effetti del cambiamento climatico.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) stima che, entro il 2050, i profughi ambientali potrebbero essere addirittura 200-250 milioni di persone. Ciononostante, manca ancora un riconoscimento giuridico dello status di “profugo” per un migrante ambientale, anche se il predetto parlamento Ue sta valutando tale ipotesi.
Ma domandiamoci: quand’anche ai migranti ambientali fosse riconosciuto lo status di profughi, resterà l’insolubile problema a monte. L’uomo ha ormai cambiato il clima e continua a cambiarlo. Qualche dubbio? Guardate il video della Nasa che, in trenta secondi, mostra il surriscaldamento globale dal 1880 al 2015. Ma non ci saranno solo i migranti ambientali. Ci saranno anche coloro che migreranno a causa delle guerre che nasceranno proprio dall’insorgere degli squilibri ambientali. Un esempio fra tutti, il più classico, le guerre dell’acqua.
In realtà, ci sono già coloro che migrano per via delle guerre connesse con i mutamenti climatici. L’ultimo numero di Altreconomia riporta un articolo sulle conseguenze già in essere dovute alla carenza d’acqua. E l’intervistato, Giorgio Cancelliere, esperto di cooperazione internazionale, afferma che lo stesso conflitto siriano è in parte determinato dalla spaventosa siccità che attanaglia il paese da anni e che costringe a migrare all’interno del paese popolazioni di fede religiosa opposta, con conseguenti conflitti. E rileva altresì come sia pura utopia che buona parte di coloro che fuggono dalla Siria vi possano tornare, a causa della desertificazione dei territori che abitavano.
Fa quindi ancor più mestamente sorridere l'”aiutiamoli a casa loro” dell’esordio di questo post. Lo stesso intervistato ricorda come negli ultimi cinquant’anni ci siano stati in Medio Oriente ben 32 conflitti per l’acqua. In realtà, con l’innalzamento delle temperature su tutto l’orbe terracqueo, l’acqua diventerà sempre più oro blu.
Si stima che, nei prossimi trent’anni, il fiume Giallo e lo Yangtze, il Gange e l’Indo, l’Eufrate e il Giordano, il Nilo e molti altri fiumi soffriranno una riduzione di portata d’acqua del 25-30%, proprio a causa dei cambiamenti climatici. Ed intanto crescerà la domanda di acqua per energia, agricoltura ed usi domestici. Insomma, anche da questo angolo di visuale il futuro non si prospetta esattamente roseo.
Per la prima volta un giudice italiano riconosce un permesso di soggiorno per fame. Tecnicamente, si chiama ‘protezione umanitaria’, l’ultima carta dei disperati che non hanno le caratteristiche né per lo status di rifugiato né per chiedere il diritto d’asilo. Mai era stata riconosciuta ai migranti economici.
E’ un provvedimento visionario ed emozionante quello del giudice civile di Milano Federico Salmeri che, osserva l’avvocato Eugenio Losco, esperto della materia, “non fa una piega in diritto“. Alti e saldi sono i principi a cui si ancora per accogliere un ragazzo di 24 anni scappato dal poverissimo Gambia: l’articolo 32 della costituzione che riconosce il diritto alla salute inteso anche come diritto ad avere un pasto; la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nella quale si fa diretto riferimento al diritto all’alimentazione; i patti internazionali ratificati dall’Italia che sanciscono “il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame”.
Per il magistrato, il richiedente “è titolare del pieno diritto ad accedere alla protezione umanitaria affinché gli sia garantito un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia laddove le condizioni economico – sanitarie del proprio paese non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita”. Il fondo monetario internazionale, le nazioni unite e wikipedia (citati dal giudice) raccontano di un paese dalle terre infertili dove le famiglie non possono comprare nemmen un pugno di riso.
Questo significa una “protezione di massa umanitaria?”, si chiede il giudice, prevenendo le reazioni alla sua decisione, come quella del leader leghista Matteo Salvini (“sentenza folle”). La sua risposta è: “il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso”.
Resta chiaro che la decisione di un giudice non vincola gli altri che dovranno pronunciarsi sullo stesso tema, limitandosi a essere un precedente. “Un precedente rivoluzionario – chiude l’avvocato Losco – se pensiamo anche agli immigrati italiani del novecento che scappavano da una povertà meno severa di quella di questo ragazzo”.
Il testo dell’ordinanza del giudice dal sito Melting Pot
« .». Corriere della Sera, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
Le ultime rilevazioni dicono che l’attrazione verso la Ue è in forte calo nelle opinioni pubbliche del Vecchio Continente. E come potrebbe essere diversamente?Se si guarda l’Europa dal di fuori, ci potrà forse risultare più chiaro che il nostro mito politico ruota attorno a un’idea: il principio della dignità umana come base possibile, insieme, dell’ordine democratico e dello sviluppo economico. Qualcosa che ci distingue tanto dagli Stati Uniti (dove prevale il mito della nuova frontiera e del self-made man ) quanto della Cina (che vive del mito dell’armonia).
Non si tratta solo di un principio astratto. Se si prende una cartina geografica, si può constatare che solo nel Vecchio Continente esiste un sistema universalistico di protezione sociale chiamato welfare . Al di là di tutte le sue inefficienze e insufficienze, è questo il tratto che più ci contraddistingue e di cui dovremmo essere più gelosi e orgogliosi.
Non è dunque per caso che la questione dei migranti sia oggi il punto di tensione più forte che sta attraversando l’Europa. Da una parte, c’è il richiamo a questo nostro principio, messo alla prova in modo drammatico. Dall’altro ci sono comprensibili e legittime preoccupazioni, accentuate dalla mancanza di una chiara linea d’azione comune.
I nostri sistemi politici sono profondamente scossi da questa sfida, che coinvolge dimensioni economiche, politiche, culturali. Al punto che siamo arrivati a costruire muri! E persino nella civile Inghilterra, la gestione dell’immigrazione è uno dei temi caldi della dibattito sulla Brexit. Si può arrivare a dire che proprio la questione storica del migranti sarà il terreno su cui vivrà — dandogli misura, sostenibilità e sensatezza istituzionale — o morirà il progetto politico che sta alla base della Ue. Ma cosa significa questo? Almeno tre cose.
Primo: senza la capacità di tradurre in una forma istituzionale concreta il principio della dignità umana l’Europa non c’è più. Semplicemente perché viene meno la ragione dello stare insieme. Non c’è dubbio che il mutuo vantaggio economico sia un argomento forte. Ma nella storia non si è mai vista una forma politica nascere senza la condivisione di un mito comune.
Secondo: nel momento in cui assume forma istituzionale, il principio della dignità della persona deve fare i conti con la complessità del reale. La riflessione sul welfare — e la sua concreta costruzione istituzionale — è stata storicamente vittoriosa perché ha saputo mostrare che la mediazione tra le esigenze della crescita e la cura delle persone non solo è possibile ma è addirittura vantaggiosa. Oggi sappiamo quanto il welfare sia minacciato dalla crescente pressione della globalizzazione, oltre che per il progressivo invecchiamento della popolazione e la crescita della domanda sanitaria. Tanto che ci poniamo domande sulla sua sostenibilità. Ed è proprio da questa angolatura che la questione dei migranti va ripensata.
Intanto, tenendo conto che le curve demografiche europee sono allarmanti. Il previsto calo della popolazione e il suo invecchiamento nei prossimi decenni saranno il fattore di rischio più importante per la nostra prosperità. Il recupero — da avviare in modo urgentissimo — di un equilibrio migliore passa, almeno in parte, da una corretta gestione del fenomeno migratorio. E poi considerando che il lungo e difficile processo di integrazione dei migranti — un lavoro vero e proprio che richiederà anni — può essere un modo per generare occupazione.
Che è qualcosa di cui in Europa abbiamo molto bisogno. Negli anni 30, per spiegare il senso del New Deal , Keynes sosteneva che l’uscita dalla crisi passava dal ruolo anticiclico della spesa pubblica: arrivando a dire che, se necessario, si dovevano scavare buche per poi ricoprirle. Ovviamente ciò richiede risorse. Ma come è evidente in questi anni di politiche monetarie convenzionali, le risorse finanziarie possono essere anche create ex nihilo . Laddove esiste una volontà politica per farlo e sostenerlo.
In terzo luogo, una politica di apertura e accoglienza non può essere senza misura. Deve rispettare la sostenibilità. Che più che economica è qui di ordine sociale e culturale: l’innesto di persone provenienti da altri mondi è sempre un’operazione delicata e che può facilmente provocare una crisi di rigetto quando non è chiaro il patto di cittadinanza (fatto di diritti e doveri) che si propone ai nuovi arrivati. Negli anni scorsi si è parlato tanto di identità europea. Spesso solo retoricamente. Ma l’identità si costruisce — culturalmente e istituzionalmente — solo in rapporto all’esperienza, alla vita.
Per questo la crisi migratoria — che l’Onu avverte è destinata a durare molti anni essendo una conseguenza di medio termine del grande salto storico rappresentato dalla «globalizzazione» — costituisce per l’Europa il terreno di gioco su cui si forgerà la sua identità futura.
A partire dalla capacità di fare del principio della dignità della persona umana la base di nuovi assetti istituzionali. Ma anche dell’identità che vogliamo dare all’Europa. Dalla storia che vogliamo scrivere. Quella dei migranti è cioè il principale banco di prova per dire cosa è l’Europa e quale tipo di società politica vuole essere. Sempre ammesso che una tale aspirazione stia nella testa e nel cuore degli europei .
Il manifesto, 12 giugno 2016
La Commissione europea ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento europeo la sua proposta sulla gestione delle relazioni con i paesi terzi in materia di gestione dei flussi migratori. Com’è già accaduto più volte in questi ultimi mesi, leggiamo fiumi di parole che denotano interesse per le vite umane e per le vittime dei naufragi, dichiarazioni di impegni condivisi dai governi e dalle istituzioni dell’Ue sull’accoglienza. Le proposte concrete però vanno esattamente nella direzione opposta.
Il cinismo caratterizza l’analisi e soprattutto le proposte: salvare vite umane e gestire i flussi in maniera ordinata, si ripete più volte. In che modo? Regalando miliardi, come già fatto con Erdogan, ai tanti come lui in giro per l’Africa. Chiedendo loro, in cambio, di fermare le persone che scappano proprio dalla violenza dei regimi con i quali intendiamo fare accordi.
È il caso dell’Eritrea di Isaias Afewerki (presidente dal 1993), del Gambia di Yahya Jammeh (presidente dal 1994), dell’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi (quel campione dei diritti umani che tutti conoscono). La lista dei paesi è lunga: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Libia, Ghana, Guinea, Mali, Marocco, Senegal, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan.
Insomma, il progetto è ambizioso e il quadro è molto chiaro. Utilizzare fondi per lo sviluppo come arma di ricatto verso i paesi di origine e di transito: chi più si riprende le persone espulse e meglio coopera al controllo dei flussi migratori, più risorse riceverà.
Invece i paesi che non si impegneranno a fare i gendarmi dell’Europa saranno penalizzati, con una sorta di sistema a punti. Quella che una volta si chiamava cooperazione allo sviluppo, solidarietà tra i popoli, si trasforma in sostegno ai governi e al loro potere, condizionato dal rispetto delle indicazioni che i governi dell’Unione europea e la Commissione daranno in materia di gestione dei flussi e delle frontiere. Fermare il maggior numero di persone che scappano. Se riescono a passare i loro confini, bloccarli nei paesi di transito. Se non muoiono dopo le torture e le violenze dei trafficanti (in Libia e non solo), rimandarli indietro, con il consenso di questi governi. Non c’è che dire, un vero capolavoro da grandi statisti!
Pericolosissimo anche il dialogo che si vuole aprire con una Libia dilaniata dai conflitti, con cui l’Europa conta di fare accordi per il controllo delle partenze usando l’agenzia Frontex. Una proposta coerente con l’atteggiamento che Bruxelles sta tenendo con la Turchia di Erdogan, considerato un esperimento di successo. Con i 6 miliardi erogati in base a quell’accordo, sono stati fermati i siriani che scappano dalle bombe, costringendoli nelle galere turche o rispedendoli in Siria. L’Europa non sta chiedendo al governo turco, a quello eritreo o a quello del Gambia di rispettare i diritti umani e di consentire elezioni democratiche per avere il sostegno dell’Ue.
Al contrario, si sacrificano i diritti umani e qualche secolo di civiltà europea in cambio di una proposta con la quale i governi dell’Unione europea, e la Commissione, pensano, forse, di fermare la frana populista, razzista e fascista che sta travolgendo i paesi del continente. L’esperienza austriaca sta lì a dimostrare che si ottiene esattamente il risultato opposto. Ma per i nostri esimi statisti questo non conta.
Pensano evidentemente di essere più furbi e abili del capo del governo austriaco, che ha dovuto dimettersi per il flop del suo partito alle recenti presidenziali. Tutto ciò sulla pelle di quei bambini, quelle famiglie, quelle persone che, in assenza di canali umanitari, programmi di ricerca e salvataggio, possibilità di vie di ingresso sicure e legali, dovranno pagare sempre di più e rischiare sempre di più. E aumenteranno inesorabilmente, visto che verranno foraggiati e rafforzati proprio quei governi da cui fuggono.
Sin dalla loro nascita ufficiale come componente integrante della Guerra Fredda, nel 1946 a opera del presidente Usa Truman, gli aiuti allo sviluppo sono sempre stati in qualche modo condizionati e condizionanti. Allora, parlando al Congresso, Truman disse che il ruolo americano era quello di portare ogni paese che avesse seguito il suo modello economico allo stesso livello di vita degli statunitensi. Un sogno che si è poi rivelato un incubo per molti.
Nella storia degli aiuti allo sviluppo i periodi più significativi partono dalla cosiddetta «cooperazione tecnica» degli anni ’60, l’idea cioè che una sufficiente infrastrutturazione di quello che allora veniva definito Terzo Mondo, avrebbe portato le nazioni appena indipendenti a un livello di accumulazione del capitale tale da consentire l’avvio di un ciclo positivo, di ricchezza per tutti.
In realtà gli ingenti prestiti forniti a governi, perlopiù dittatoriali, essendo stati eliminati tutti i leader democratici che rimettevano in discussione il modello di sviluppo post coloniale – vedi Lumumba, portarono a due evidenti risultati: costruire infrastrutture funzionali all’esportazione delle materie prime a basso costo, e un indebitamento il cui servizio sarebbe esploso vent’anni dopo consentendo ai donatori di gettare una seria ipoteca sulla sovranità economica e politica di quei Paesi.
Negli anni ‘70 la competizione Est-Ovest fa propendere invece per un approccio più «di base», a causa delle rivoluzioni in Nicaragua, dell’indipendenza di ispirazione socialista delle ex colonie portoghesi e della sconfitta Usa in Viet Nam, nonché dell’inimmaginabile rivoluzione iraniana.
Nascono allora le politiche di cooperazione basate sui «basic needs»: acqua potabile, cibo, prevenzione sanitaria e una attenzione alle zone rurali, allora ancora prevalenti. Tutto questo, funzionale ad «asciugare l’acqua» in cui nuotava il potenziale pesce rivoluzionario, tramonta bruscamente dopo la caduta del muro di Berlino per essere sostituito dagli aiuti condizionati al rispetto dei diritti umani e della democrazia; in concreto un assist ai nuovi governi multi-partitici che in quegli anni scalzavano i residui del socialismo africano e si adeguavano al nuovo corso liberista.
Molte volte i Governi africani si sono lamentati di queste condizionalità che, sotto l’egida dei diritti umani tendevano a profilare forme di gestione privatistica della cosa pubblica che mantenessero inalterate le relazioni tra paesi produttori e consumatori. Prova di questo strumento sono anche le varie «rivoluzioni arancioni» in Europa o la situazione di alcune democrazie popolari in America latina.
Adesso, ultimo ma non per importanza, arriva nel Migration Compact, ove risulta centrale la condizionalità inerente alla gestione dei flussi migratori.
È una ennesima evoluzione, o involuzione, dunque, di prassi molto ben consolidate nel tempo, e che ha mostrato la sua indubbia efficacia nel condizionare le politiche estere e interne di interi continenti.
In particolare la sottolineatura sul ruolo del settore privato la dice lunga su cosa rischiano di essere queste politiche di aiuto alla gestione dei flussi migratori: un’ulteriore messa a punto delle divisione internazionale del lavoro, operata dalle stesse multinazionali che hanno deciso che i «veri» diritti umani non sono quelli universali ma solo quelli di chi se li può comperare.
Dunque bisognerà vigilare su cosa realmente sarà proposto e soprattutto riproporre come criterio di valutazione e di efficacia quello dell’equità e della democrazia economica nei Paesi di emigrazione, onde evitare che la crisi dei migranti diventi, ancor di più, un’occasione per restringere le libertà su scala planetaria in nome della sicurezza delle frontiere europee.
«L’accusa è corruzione nelle gare per i pozzi nel Paese africano: pagato un miliardo».E' a simili personaggi e interessi che ii fautori del "Migration compact" vorrebbero affidare le sorti dei popoli in fuga dalle regioni che proprio loro hanno contribuito a devastare. La Repubblica, 10 giugno 2012
È stato presentato nei giorni scorsi il secondo rapporto del relatore speciale Onu sui crimini e violazioni dei diritti umani in Eritrea. Ennesimo atto di accusa verso un regime spietato quello di Isaias Afewerki, uno dei possibili beneficiari dei fondi previsti dal presentato anch’esso nei giorni scorsi a Bruxelles e figlio di una proposta avanzata da Matteo Renzi. Una proposta e un’iniziativa non solo improntata su un’approccio securitario, che mira a bloccare sull’altra sponda del Mediterraneo i flussi di migranti e possibili richiedenti asilo, ma rischia anche di consolidare e perpetuare le cause stesse di quelle migrazioni. L’idea di fondo è quella di sostenere i governi dei paesi di origine, e investire decine di miliardi di euro in infrastrutture, usando la leva degli investimenti privati, né più e né meno come pretende di fare il piano Jucker per l’Europa.
In realtà il Migration Compact è muto, cieco e sordo riguardo le vere cause dell’esodo di massa verso l’Europa, guerra e repressione, violenza e dittature. Ci sono certo coloro che cercano un futuro lavorativo in Europa ci mancherebbe ed è loro diritto fondamentale, perché le migliaia e migliaia di italiani che se ne vanno dal paese per costruirsi un progetto di vita altrove che sono, beneficiati dal loro colore della pelle? Il punto però è che per molti provenienti da altre zone di conflitto, passerebbe la visione secondo la quale il problema (per gli eritrei e non solo, si pensi ad esempio agli etiopi Omo e Oromo magari, vessati e espulsi dalle loro terre) sarebbe un problema di sviluppo, di crescita. Insomma non persone che fuggono per salvare la propria vita, ma migranti economici, ai quali proporre chissà quando un posto di lavoro a casa propria.
Diciamo le cose come stanno, se si dovesse fare un calcolo in termini di posti di lavoro, in Africa se ne dovrebbero “costruire” oltre ottocento milioni. E fino quando questi benedetti posti di lavoro non verranno creati e queste infrastrutture costruite quelle persone dove vanno? Magari in campi di concentramento trasformati in sale di attesa? Se invece si ragionasse in altra maniera, riconoscendo le vocazioni e le specificità di quei territori a creare reddito, non necessariamente attraverso il classico posto di lavoro, non necessariamente reddito in termini di Prodotto interno lordo o Indici di Sviluppo Umano, magari si riuscirebbe a dare la possibilità a milioni di persone di produrre il loro cibo, e dar loro accesso agli strumenti per determinare il proprio futuro. Questo è il primo elemento. Ma anche l’assioma secondo il quale la crescita porterà democrazia fa acqua da tutte le parti.
Chi controlla l’economia di quei paesi? Dove andranno le risorse economiche e finanziarie? Le parole della commissione di inchiesta sui crimini in Eritrea ci riportano alla realtà nuda e cruda, e mettono di nuovo a nudo la contraddizione se non l’ipocrisia dell’Europa e del suo Migration Compact. Insomma una spruzzata di umanitarismo e lotta alla povertà mainstream, per nascondere le vere questioni politiche e le cause del fenomeno migratorio, e addolcire la pillola amara della repressione “poliziesca” fatta di filo spinato e hotspot. Pillola amarissima per chi fugge dalla guerra o dalla repressione e la galera e si ritroverebbe dentro un’altra galera per poi essere rispedito a casa in attesa di un fantomatico “posto di lavoro”.
Ma non è che forse proprio per quel modello di sviluppo, a causa dell’illusorio mito della crescita e del “trickle-down” development praticato in Africa e non solo che migliaia di persone partono dall’Africa se non per sfuggire alla guerra o alla repressione, almeno in cerca di una vita più decente? Per non dimenticare che nel frattempo l’Unione Europea sta continuando a spingere sui quei paesi per l’attuazione rapida degli Accordi di Partenariato Economico (Epa o Economic Partnership Agreements) che rischiano di creare grave pregiudizio alla possibilità di quelle economie di svilupparsi autonomanente. E così facendo ricreando le premesse per nuovi esodi migratori. Sono altre le maniere di ripagare un debito ecologico e sociale accumulato verso quel continente. Mi pare invece che il gatto si morda la coda. Anzi ancora una volta è il gatto che si mangia il topo.
La Repubblica, 9 giugno 2016
Più schiavi di quando c’erano i caporali bianchi, i ruffiani dei padroncini degli aranceti che erano tutti del posto, contemporanea versione del campiere. Più schiavi di quando si erano ribellati sei anni fa ai boss dei giardini. Più schiavi di quando li avevano ammassati lì dentro perché la vecchia fabbrica abbandonata era diventata una porcilaia immonda. Era un oleificio finanziato nel 1981 con soldi pubblici e dove non hanno mai spremuto un solo litro di olio, luogo ideale anche per il macero di umanità, per infliggere pene indicibili, per rinchiudere ai confini del mondo i più dimenticati.
Tende nel fango, tanfo, veleni, faide e vendette per un pezzo di capra squartata e contesa. Schiavi fra gennaio e i primi di marzo, quando la pianura stordisce con il profumo di zagara e loro si spaccano la schiena per meno di un euro a cassetta. Schiavi quando non ci sono più arance e mandarini, ma solo terra arsa e non c’è più neanche quell’euro. Schiavi come non lo erano stati mai nemmeno a casa loro. In Senegal, in Ghana, nel Mali, in Niger, in Burkina Faso.
Molti di loro non sono neanche più nomadi. Solo i più fortunati si spostano, quelli che hanno un aggancio in Puglia per le olive, quegli altri che hanno amici negli orti della Campania. Ma i fantasmi restano sempre qui, nell’accampamento prigione, nel bivacco “temporaneo” che è oramai per sempre la loro casa, di plastica o di corda, di cartone, o con il cellophane che quando tira vento si gonfia come una vela.
Qualcuno si fa vedere sulla Gioia Tauro Road. Così la chiamano loro, la vecchia statale numero 18 che una volta era la sola strada a scendere da Napoli fino a Reggio Calabria. Ma solo i più intrepidi si avventurano lungo su quel percorso dove all’orizzonte si stagliano le gigantesche gru del porto e i mezzi meccanici che sembrano “pupi”, sempre in movimento, tirati da fili invisibili.
È vero che ci sono più controlli nei campi, che i “mediatori” calabresi non si espongono più e al loro posto hanno ingaggiato gente dell’Est e pure qualche nero, fratelli contro fratelli. Ma sanzioni amministrative e qualche centinaia di euro di multe, non fermano i padroni dei giardini che con il popolo nero raccattano milioni di euro a stagione. È vero che promettono da anni di risanare la tendopoli di San Ferdinando, di abbatterla e di ricostruirla «più bella». Ma la tendopoli è sempre lì, in tutta la sua oscenità e in tutta la sua immoralità.
L’Italia ha le sue emergenze nel fronte Sud, la costa africana della Sicilia, l’isola di Lampedusa, gli sbarchi, i naufragi, le tragedie con tutti quei cadaveri in fondo al Mediterraneo. L’Italia deve soccorrere gli ultimi che vengono dal mare. Gli ultimi che hanno toccato terra non interessano più. Se sono vivi o se sono morti-vivi, non importa. Tanto nessuno se ne accorge. Nessuno li conosce. Nessuno sa che esistono. Nemmeno a Rosarno, a Gioia Tauro, a Taurianova, nemmeno a San Ferdinando che è lì a un passo.
Il manifesto, 8 giugno 2016
Una nuova risoluzione che permetta di allargare i compiti della missione europea Sophia in acque territoriali libiche, E’ quanto ha chiesto ieri il capo della diplomazia Ue Federica Mogherini al consiglio di sicurezza dell’Onu. Si tratta di un passaggio che segna un ulteriore salto di qualità nei compiti della missione e che prevede sia l’addestramento della guardia costiera libica, per la quale sono già pronte otto motovedette italiane, che un controllo sul rispetto dell’embargo di armi destinate alle milizie. «La scorsa primavera il Consiglio è stato unanime nel dare il via all’operazione navale che ha consentito di salvare decine di migliaia di vite umane, sequestrare centinaia di asset e portare i trafficanti davanti alla giustizia», ha spiegato ieri Mogherini intervenendo a New York.
Un altro passo della strategia europea per arginare il flusso di migranti sci sarà oggi a Strasburgo, dove Mogherini presenterà insieme al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans il migration compact per l’Africa: 62 miliardi di euro di investimenti privati nel medio e lungo termine, per «pacchetti su misura» soprattutto per i Paesi africani, con l’obiettivo di combattere le cause alla radice dei flussi migratori e negoziare accordi per i rimpatri. Sette i paesi con cui verranno avviati i primi progetti: Etiopia, Eritrea, Niger, Nigeria, Mali, Libano e Giordania. Il lavoro è già stato avviato con tutte le capitali, in particolare con Niamey ed Addis Abeba. Nell’immediato si punta ad utilizzare 1,8 miliardi del Fondo per l’Africa, ai quali la Commissione europea aggiungerà 500 milioni dal budget Ue, con la prospettiva che gli Stati membri ne diano almeno altrettanti, ma possibilmente raddoppino l’intera cifra. Nel contenitore confluiranno anche fondi per i profughi e la cooperazione già esistenti.
La proposta legislativa vera e propria sul piano globale di investimenti arriverà comunque ad ottobre. Il controllo dei flussi migratori sarà il punto centrale attorno al quale ruoteranno le intese con i Paesi terzi, e potrà essere anche una delle ragioni per negare benefici commerciali o privilegi sui visti.
Ieri intanto l’Unione europea ha rispedito al mittente la proposta avanzata domenica dal ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz di concentrare e trattenere i migranti su alcune isole dalle quali non potrebbero muoversi. «Come fecero gli Stati uniti a Ellis Island o come fa oggi l’Australia», ha spiegato in un’intervista l’esponente del partito popolare. Esempi, specie quest’ultimo, che non sono piaciuti a Bruxelles. «Abbiamo una chiara posizione sul modello australiano: non è un esempio da seguire per l’Ue», ha spiegato un portavoce della Commissione europea.
In contrasto a quanto previsto dal diritto internazionale, il governo di Canberra confina i profughi in campi allestiti su due isole del Pacifico dai quali per loro è impossibile allontanarsi e dove, stando a molte denunce, sono vittime di violenze di ogni genere. «La politica (europea, ndr) sull’asilo e i profughi è pienamente in linea con le leggi e convenzioni internazionali e con il principio di non respingimento e questo non cambierà», ha concluso il portavoce.
Vienna comunque non sembra avere nessuna intenzione di abbandonare politiche e iniziative contro i migranti. Dopo aver completato i lavori preparatori all’innalzamento di una barriera al Brennero, dove ha schierato anche 80 poliziotti, ieri ha annunciato di voler avviare la costruzione di barriere analoghe anche ad altri valichi con l’Italia e la Slovenia. Si tratterebbe, proprio come ha fatto al Brennero, di recinzioni preventive, da innalzare solo in caso di nuovi arrivi di migranti, ha spiegato il portavoce della polizia, Rainer Dionisio.
FERMARE I MIGRANTI,
L’UE È PRONTA A PAGARE
di Anna Maria Merlo
«Bruxelles. Il piano europeo prevede soldi e investimenti per i paesi che bloccano i flussi. Servono 62 miliardi. Il primo accordo sarà con la Libia, poi con Tunisia, Libano e Giordania»
Ci sono stati più di 10mila morti nel Mediterraneo dal 2014, secondo dati Onu. La tragedia dei rifugiati, che scappano dalle guerre o per ragioni economiche, è un avvenimento epocale, non un fatto transitorio. La Commissione europea, messa di fronte al dramma che non può avere risposte nazionali ma che genera paura negli stati membri, cerca una soluzione. L’ultima proposta è stata illustrata ieri di fronte all’Europarlamento. Si tratta di un «nuovo quadro di partnership» da proporre agli stati di origine dei migranti, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, «cominciando da un primo gruppo», ha precisato, per arrivare a concludere dei «patti adattati alla situazione di ogni paese». Il «punto di partenza», per Timmermans, è il Migration Compact presentato dall’Italia e che sarà sul tavolo del Consiglio europeo di fine giugno. Bruxelles spera di poter dotare questo «patto» di 62 miliardi di euro: ma questa cifra sarebbe la risultante di un «effetto leva», a partire da un molto più modesto finanziamento di 3,1 miliardi provenienti dai fondi comunitari, a cui dovrebbe affiancarsi una cifra analoga versata dai paesi membri. L’obiettivo del moltiplicatore dell’effetto leva è «incentivare gli investimenti privati».
La Ue avanza con i piedi di piombo su un terreno sconosciuto. Per la prima volta in un documento comunitario viene stabilito un chiaro legame tra migrazione e cooperazione, con il ricorso anche a «incentivi negativi»: la Commissione propone di limitare gli aiuti e i vantaggi economici ai paesi che non contengono i flussi di migrazione. Un do ut des, che però solleva molte perplessità tra i giuristi, che si chiedono se sia legale stabilire degli accordi che pongono come clausola il freno alla migrazione. La Ue vuole «dare un maggiore appoggio ai paesi che fanno maggiori sforzi» nel limitare le partenze e nel riprendersi i propri cittadini emigrati illegalmente, anche facendo ricorso agli incentivi negativi. Ormai, tutti gli accordi che verranno firmati dalla Ue con dei paesi terzi prenderanno in considerazione la questione delle migrazioni, legata a tutti gli aspetti economici, come energia, investimenti o cambiamento climatico. Finora, gli accordi includevano riferimenti al rispetto dei diritti umani, dei diritti del lavoro o allo sviluppo sostenibile.
Per la Ue il problema più urgente del momento è la Libia. «Decine di migliaia di persone cercano il modo per entrare nella Ue» dice l’Onu. Mrs. Pesc, Federica Mogherini, ha chiesto lunedì all’Onu di autorizzare l’operazione europea Sophia a fare dei controlli sulle imbarcazioni al largo della Libia, per verificare che venga rispettato l’embargo sulle armi. Ieri, Mogherini ha spiegato che la Ue cerca un «nuovo approccio», che va dal salvataggio in mare dei profughi, alla lotta ai passeurs, al sostegno ai paesi che accolgono rifugiati, fino alla conclusione di «patti» favorevoli alla crescita dei paesi partner. La Ue cerca la strada per un approccio «più coordinato, più sistematico, più strutturato» per far fronte alla sfida. L’accordo concluso con la Turchia, criticato da più parti e sempre sottoposto al ricatto di Erdogan, viene comunque considerato positivo a Bruxelles, perché per il momento sembra aver messo sotto controllo gli sbarchi in Grecia, obiettivo principe degli europei. «Patti» precisi, per la Commisisone, dovranno essere conclusi, dopo la Libia, con Tunisia, Libano e Gordania. Poi seguono Niger, Nigeria, Mali, Senegal, Etiopia. «Vogliamo convincere i paesi d’origine che i problemi di immigrazione e di sviluppo sono legati, da loro e da noi», spiega Timmermans.
Per l’Unione europea i migranti economici rappresentano un problema, ma se nella massa di disperati che cerca di raggiungere il Vecchio Continente ci sono dei «talenti», ovvero lavoratori altamente qualificati e preziosi per il nostro mercato del lavoro, allora il discorso cambia. E molto. Entro il 2025, avverte infatti Bruxelles, serviranno tra i 68 e gli 83 milioni di lavoratori specializzati, manodopera indispensabile per mettere un argine al calo della popolazione in età lavorativa, ma soprattutto per rispondere alle esigenze di un mercato che richiede competenze sempre più alte. E di questi almeno 18 milioni servono praticamente subito, entro il prossimo decennio. Una necessità che l’Europa da sola non è grado di soddisfare e per questo deve fare ricorso ai migranti.
A lanciare l’allarme, sottolineando la necessità di personale iperqualificato, è un documento della Commissione europea che già nello scorso mese di aprile avvertiva i capi di stato e di governo della necessità di gestire in maniera diversa i flussi migratori. «La migrazione è stata e continuerà ad essere nei prossimi decenni una delle questioni fondamentali per l’Europa», è scritto nel testo in cui si ricorda come i cambiamenti climatici, le guerre e l’instabilità economica di aree a noi vicine continueranno a spingere le persone a cercare rifugio in Europa. Per gli stati resta quindi prioritario garantire protezione a chi fugge ma, avverte il documento, «con l’evolvere delle loro tendenze demografiche dovranno ricorrere alle opportunità e ai vantaggi offerti dai talenti e dalle capacità degli immigrati, e quindi cercare di attirarli».
Nel migration compact discusso ieri dall’europarlamento è prevista anche una revisione della Blu card, lo speciale permesso di soggiorno varato dall’Ue nel 2009 proprio per attirare lavoratori altamente qualificati. Revisione che era stata sollecitata ad aprile dalla Commissione guidata da Jean Claude Juncker per la quale era necessario uno strumento più efficace. Del resto anche l’Ocse proprio ieri ha sollecitato l’Europa a varare politiche in grado di attirare e trattenere cervelli, tanto più che dei migranti che ogni anno approdano nel Vecchio Continente solo una minoranza è ben qualificata. La migrazione umanitaria – è scritto nel rapporto presentato ieri a Parigi – «non può sostituire i canali discrezionali e selettivi della migrazione professionale tramite cui i datori di lavoro dovrebbero soddisfare i futuri bisogni di competenze».
Facile, a questo punto, ipotizzare come in futuro la selezione dei migranti, e forse anche dei richiedenti asilo da accogliere in Europa potrebbe avvenire sulla base delle indicazioni espresse sia dalla Commissione Ue che dall’Ocse. Se l’Europa «vuole rimanere un attore competitivo a livello mondiale», avverte il documento della Commissione, dovrà trovare il modo per attirare dall’estero le competenze che gli servono. «Ciò è essenziale non solo per soddisfare il fabbisogno attuale e futuro di competenze e salvaguardare un’economia dinamica – conclude il testo – ma anche per assicurare la sostenibilità dei nostri sistemi assistenziali a lungo termine».
Insomma la battaglia per accaparrarsi gli immigrati più qualificati è cominciata. Anche perché i «talenti» non farebbero gola solo a noi europei. Qualche giorno fa il quotidiano tedesco Der Spiegel ha accusato Ankara di escludere dall’accordo siglato con l’Ue (un siriano accolto in Europa per ogni siriano entrato illegalmente ripreso dalla Turchia) i profughi più qualificati, trattenendo così ingegneri, medici o comunque lavoratori estremamente qualificati. La questione sarebbe stata posta ad aprile dal rappresentante del Lussemburgo in una riunione dell’Ue. Al loro posto, Ankara invierebbe profughi non qualificati e malati.
La proposta riciclata da Renzi per fini meramente propagandistici, se fosse accolta dall'UE, moltiplicherebbe all'infinito i mortiferi campi di concentramento dei profughi. La realtà è che l'esodo dalla paura e dalla miseria si può affrontare solo se l'Europa intera si convertirà a una politica dell'accoglienza, anche nel proprio interesse. Il manifesto, 4 gennaio 2016
Con la "strepitosa" (come dice lui) proposta del Migration compact - prelevata peraltro di peso da un documento elaborato dallo staff della sua affiliata Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea - Renzi sostiene di aver trovato la soluzione per bloccare il flusso dei profughi provenienti dall'Africa. Si tratta non solo di pagare i governi degli Stati di origine o di transito dei profughi perché li trattengano lì, o ne accettino il rimpatrio, sul modello dell'accordo tra UE e Turchia, ma anche di promuovere sviluppo e occupazione in tutti quei paesi, perché i loro abitanti non abbiano più motivi di emigrare.
qui e nell'icona il campo profughi di Daadab, Kenia |
Probabilmente invece, di tutte queste cose qualcosa sa; potrebbero averglielo spiegato i suoi collaboratori. Ma pare comunque evidente, come in tutto quello che Renzi fa da quando è al governo, il fine elettorale anche di questa "trovata" fatta sulla pelle dei profughi. Renzi, che come tutto l'establishment europeo, non ha idea di come affrontare il problema, sta cercando di nasconderne le vere dimensioni, per tranquillizzare un elettorato aizzato da Salvini e dai suoi sodali, e di far credere che la soluzione sia a portata di mano. E ha fretta che il Migration compact venga approvato dal Consiglio europeo prima del referendum su cui si gioca il suo futuro; e anche di spacciarlo come soluzione prima delle elezioni amministrative.
Stupisce invece il servilismo con cui i commentatori italiani di stampa e media stanno al gioco, fingendo di non capire che quel piano non è altro che una patacca. Persino coloro che hanno il coraggio di ammettere che il problema non si risolve in quattro e quattr'otto - e che è urgente attrezzarsi per far fronte non solo all'accoglienza immediata, ma anche alla permanenza di centinaia di migliaia di profughi che non possono, e non potranno tornare indietro per anni - come i vescovi italiani, continuano però a sottovalutare le dimensioni del problema, lasciando campo libero all'allarmismo di un Salvini; o, come il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, fanno credere che l'Italia, stretta nella "tenaglia" tra gli sbarchi e la chiusura delle frontiere alle Alpi, possa affrontare da sola un flusso destinato a durare ed a crescere negli anni. Certo accoglierli tutti in Italia probabilmente non si può. Ma in Europa sì, e ne avrebbe anche bisogno.
Nel dibattito su questo tema si continua a parlare di accoglienza come fosse una libera scelta, senza dire che respingere e rimpatriare sono sì un crimini contro l'umanità, perché che portano morte, torture, sofferenze inaudite, ma non hanno alcuna possibilità di raggiungere il risultato. Per cui il problema non è se, ma come accogliere: per non trasformare l'Europa in un paese di Lager.
«Genocidio degli armeni. In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice "baluardo orientale della Nato", ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso».il manifesto, 3 giugno 2016
Il passato che non passa, torna regolarmente agli onori (o ai disonori) della cronaca. Le scuse o le mancate scuse per i crimini commessi da una nazione ai danni di un’altra (Obama recentemente a Hiroshima per la prima tragica atomica Usa); l’incommensurabile orrore della Shoà, che ci viene ricordato, in ogni modo, quotidianamente; i massacri, le annessioni di territori con la violenza, i misfatti delle potenze coloniali, sono altrettanti capitoli della storia del mondo, davanti ai quali la tentazione è sovente quella giustificazionista (tutti gli Stati sono nati dalla violenza, per esempio), o liquidatoria (ne abbiamo parlato abbastanza).
Oppure, sull’altro fronte, si affaccia la tendenza etico-giurisdizionalistica: condanne di tribunali internazionali (spesso dalla dubbia legittimità, come quello sui crimini della ex Jugoslavia) o di parlamenti nazionali. No, il passato non passa, a meno che non intervenga la storia, come scienza dei fatti accaduti, documentati, a mettere le cose a posto. E la storia ha acclarato, ad esempio, senza alcun ragionevole dubbio, che i campi di sterminio nazisti sono esistiti.
Fra i grandi crimini del Novecento, a dispetto del silenzio dei governi e della società turca, vi è il massacro degli Armeni, avvenuto nel 1915-16, quando l’Europa si dilaniava nel primo conflitto continentale. Quanti furono i morti? Un milione? Un milione duecentomila? Un milione e mezzo? Certo fu un crimine sistematico, organizzato scientemente, anche se non eseguito in modo «industriale» come nelle «docce» e nei forni di Auschwitz. Molti morirono di stenti in marce forzate, di cui ci sono agghiaccianti testimonianze fotografiche. Altri furono passati per le armi nelle loro case, altri impiccati o fucilati un po’ dovunque, in carceri, per strada, in luoghi di deportazione, ammesso che vi arrivassero ancora vivi. Va ricordato che fra i massacratori vi furono anche milizie kurde, ossia espressione di un popolo a cui proprio la Turchia, innanzi tutto, ha negato nazionalità, sottoponendolo a una persecuzione infinita.
Quel massacro, avvenuto con la collaborazione delle autorità del Reich Guglielmino, allora alleato dell’Impero Ottomano (nella cui traiettoria si staglia quella turpe vicenda, in un processo guidato dai cosiddetti «Giovani Turchi»), non ha ricevuto finora i riconoscimenti che gli spettavano.
Fra i primi Stati a riconoscere che di genocidio si è trattato, è stata la Francia, e spesso per le vie di Parigi si assiste a raduni, manifestazioni, capannelli di armeni (un film recente, assai bello, Mandarines, di Zaza Urushadze) evoca gli strascichi attuali di quella vicenda, nella triste guerra del Nagorno-Karabak). Papa Francesco, Obama, il parlamento di Vienna, richiamarono con varia terminologia quell’evento, suscitando la reazione irritata del governo turco, che rispose con il canonico richiamo dell’ambasciatore. Ora che è il Bundestag tedesco a farlo, la reazione è stata ancora più dura, non solo richiamando l’ambasciatore, ma minacciando conseguenze non precisate.
In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso. Riceve denaro per bloccare i migranti, che in realtà sfuggono e cercano altre vie per l’Europa; vuole aderire all’Ue, ma non si sogna di ottemperare le regole minime ripetute in modo sempre più stanco dai rappresentanti istituzionali dell’Unione. Con l’arrivo al potere di Erdogan mentre si erode la laicità dello Stato – quello costruito, con la violenza, da Ataturk – se ne cancella ogni vestigia di democrazia: oggi raccontare la verità in Turchia significa esporsi al rischio di finire la carriera di giornalista, scrittore, blogger, fotoreporter in galera o peggio. Erdogan spadroneggia, e si permette il lusso di svillaneggiare il papa, di ridicolizzare l’Unione Europea a cui pure pretende di aderire, e senza tanti complimenti chiude ogni voce critica.
E in nome del quieto vivere, nella speranza che quel governo faccia il suo sporco lavoro (contro i migranti), le diplomazie europee tacciono, o al più balbettano. Il passato che non passa è però un macigno anche per le robuste spalle del nuovo sultano di Ankara.
Il manifesto, 2 giugno 2016 (p.d.)
Ad Idomeni non c’è più nessun dio. È zona sconsacrata. Nessuno può entrare. Un cimitero di tende e lamiere, raschiate dalle ruspe dello sgombero. Posti di blocco ovunque, la polizia presiede le strade, chiede i documenti, la nazionalità è fondamentale in questi casi. «Ma voi siete volontari?», è la domanda. Poi, lo sguardo fermo. «Cittadinanza italiana», si legge sulla carta d’identità.
«Volontari sicuramente – dice Francesco Scardaccione, barese, 23 anni – ma prima di tutto siamo attivisti provenienti da tutto il mondo, completamente autonomi, slegati dalle organizzazioni governative e dalle Ong…». Francesco è uno di quelli che ha visto intere famiglie sbarcare a Lesbo in fin di vita. Francesco è l’attivista che ha tirato su un forno con un gruppo di iraniani, dove si impastava il pane e la pizza. Francesco è uno dei tanti che ha vissuto per due mesi nel campo di Idomeni, i suoi vicini di tenda erano siriani. «Costruiamo insieme ai migranti la solidarietà, condividiamo mezzi, strumenti, problematiche e possibili soluzioni». Il mutuo soccorso, il piano è umanitario, l’esodo è costante e inarrestabile, «Scarpe rotte, pur bisogna andare, tutti insieme», indicando la Macedonia.
Nonostante lo sgombero, gli attivisti sono sempre qui. In centinaia infatti sono rimasti, a decine ne stanno arrivando, per monitorare la situazione, per denunciare «le condizioni indegne dei campi militari nei dintorni di Salonicco», per fare informazione. Il sito di Melting pot Europe sforna resoconti costanti, giornalieri, la pagina facebook di Communia.net carica le foto degli attivisti presenti, le immagini del calvario. Un mondo tranciato da muri e dalle bombe, spaccati generazionali e culturali a confronto. L’intento, mostrare le mistificazioni, rendere visibile ciò che è invisibile nella cortina di fumo e afa che circonda l’area che va da Policastro a Salonicco.
Curdi, siriani e iracheni, migliaia di persone sono state deportate in questi centri. Syndos Frakapor ad esempio, un ex magazzino, un hangar gigantesco e fatiscente, riconvertito a campo militare. Il distretto industriale di Salonicco attorno, fabbriche dismesse e abbandonate, le insigne rosicchiate dalla crisi economica che ha sconvolto la Grecia. 800, i curdi ammassati nella tendopoli. «Abbiamo poca acqua, il cibo scarseggia. Una ventina di bagni chimici per quanti ne siamo e nessuno viene a pulire da una settimana», racconta Imad, capelli bianchi, fuggito dalla Turchia di Erdogan, con il Buzouki sotto braccio.
Imad aveva stretto amicizia con Francesco al campo di Idomeni. Si abbracciano, rievocano aneddoti, si prendono in giro. Imad aveva impacchettato, inforcando due pezzi di legno e uno straccio incerato di una tenda devastata dalla pioggia e dal vento, un aquilone su cui avevo scritto «Rojava, Kurdistan». L’aquilone svettava sulla tendopoli, lo ricordano tutti. La polizia puntella i cancelli del campo, gli attivisti fanno foto, prendono appunti
«Se non ci fossero i volontari, saremmo invisibili, nessuno parlerebbe di noi, tutti ci dimenticherebbero – continua poi, sorridendo al flash delle foto – a Idomeni si stava meglio, facevamo le nostre cose, vivevamo!»
«Niente giornalisti», intima il militare all’entrata, quasi ad interrompere quel minimo di connubio umano raffazzonato in pochi minuti. «Il governo greco sembra che voglia nascondere l’emergenza umanitaria in un recinto di filo spinato e di ossequioso silenzio. Non è un caso che L’Europa abbia sbloccato la tranche da 11 miliardi lo stesso giorno in cui Idomeni veniva evacuata», dice Stefano, il quaderno in mano, trapiantato oramai in Grecia dalla lontana Bolzano, salutando Imad in lontananza. Azzittire, rendere invisibili, nascondere ovunque il tacito accordo con la Turchia. La firma è quella di Alexis Tsipras. I campi militari invece, 11 per l’esattezza, una corona di cemento e detenzione millantata ad asilo, alle porte della Macedonia, sono responsabilità della fortezza Europa.
«Quanto resti?» Abud, siriano di Damasco, mentre sorseggia un bicchiere di Chai.
«Non saprei dove andare», ironico, scrollando le spalle, Pigi, attivista italiano.
Eko station, un campo informale, occupato da migliaia di migranti, non autorizzato, una distesa di tende e tendoni sull’asfalto della stazione di rifornimento. «Non abbiamo accettato di entrare nei campi militari per paura che il mondo ci dimenticasse, aspettiamo…», dice Abud, accendendosi una sigaretta. A giorni è previsto lo sgombero di tutti i campi “illegali”. L’atmosfera è tesa. Più di quattro mila persone rischiano la prigionia e il rimpatrio forzato.
Qui però gli attivisti si fanno sentire, possono entrare. Camuffati dal circo mediatico in un problema da estirpare, ovunque invisibili, a gran voce, una trentina di italiani della staffetta #overthefortress ha installato una radio, con casse musica e microfoni. La frequenza è 95.00, Radio No Borders. I siriani cantano, ballano. Le persone si accalcano.
Abud studiava per diventare un veterinario e nel tempo libero si dilettava a strimpellare qualche canzone. Improvvisa, gorgheggiando, l’inno dell’esercito libero siriano. «Quando tornate, ve lo recito in italiano», con applauso finale, è ovvio.
Il manifesto, 2 giugno 2016 (p.d.)
E se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati nell’intervista di ieri aRepubblica, rivelano una lungimiranza tale da proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di «accoglierli tutti», i richiedenti asilo e i migranti economici.
D’altra parte «Accogliamoli tutti» fu il titolo di una prima pagina del manifesto di qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un sottotitolo («Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati») che motivava la possibile combinazione virtuosa, in base a una sorta di «altruismo interessato», tra interessi dei residenti e interessi dei nuovi arrivati.
Non vogliamo, certo, attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di parlare in prima persona e con argomenti ben torniti le nostre convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e di cui mai usufruiranno sottoforma di pensioni, rappresentano «quasi un punto di Pil», offre un’indicazione preziosa.
In altre parole, l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a mostrarlo con inequivocabile evidenza.
Questo significa, forse, che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente, socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è insormontabile.
E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla Fortezza Europa – come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo scusa agli Amish veri) – bensì a una sorta di «cronicario Europa», senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo. Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo, gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila stranieri già regolarmente residenti.
Perché tutte queste cifre che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare sensibilmente quell’immagine di «emergenza epocale» costantemente evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna, accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di invasione.
Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e tantomeno profetica, pensiamo proprio che «accoglierli tutti» (o quasi) sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e moltiplicando quelle iniziative – oggi modeste nelle dimensioni, ma potenti per il messaggio trasmesso – capaci di realizzare canali legali e sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese.
D’altra parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti conflitti etnici e alla stessa dis-integrazione dell’Europa.
Richiede molto tempo e intelligenza politica e, soprattutto, la capacità di sottrarsi a quella sudditanza psicologica nei confronti degli imprenditori politici dell’intolleranza, che sembra paralizzare una parte estesa della classe politica. Sullo sfondo, un’antica lezione che – per quanto la storia l’abbia mille volte confermata – sembra, ancora una volta, restare inascoltata. Quando la sinistra fa la destra, è sempre la destra a vincere. Di fronte a una copia abborracciata è pressoché fatale che si finisca con lo scegliere l’originale.
Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2016 (p.d.)
Com’era prevedibile, e come era stato largamente anticipato, la massa di migranti e profughi si è puntualmente presentata alle porte di casa. Ci era stato detto che l’Europa avrebbe fatto la sua parte, che la Libia del nuovo corso si sarebbe impegnata, l’Egitto avrebbe collaborato e la Turchia si sarebbe accontentata di qualche altro miliardo. Per un brevissimo periodo ci avevamo creduto, ma i sospetti che si trattasse di un ennesimo bluff non ci avevano mai abbandonato. In realtà non ci voleva molto per accorgersene.
L’Ue ha applicato le regole a vantaggio dei soliti paesi centro-nordici. Le periferie meridionali sono rimaste al palo. La cosiddetta flotta europea ha dovuto prendere atto che la sola missione possibile è quella di soccorrere e salvare i naufraghi. Talvolta riesce a prevenire il peggio, ma quasi sempre la tragedia si consuma prima.
La Libia avrebbe dovuto controllare i flussi in partenza dalle sue coste e la promessa è stata accompagnata da una richiesta di soldi. Ma il traffico dei migranti in Libia non è più gestito dal governo, come ai tempi di Gheddafi. Nessuno regola più la spoletta della bomba migratoria per fini politici e le masse che arrivano sulle coste sono in balia di altri criminali. Egitto e Turchia non hanno alcun interesse a bloccare i migranti: li possono taglieggiare, selezionare e scartare a volontà. E così possono anche taglieggiare l’intera Europa.
Le perplessità erano anche evidenti sul fronte nazionale perché a dispetto degli annunci festosi e spavaldi, non si è visto alcun cambiamento di approccio strategico. Si è continuato a parlare di migranti che scappano dalle guerre, quando in realtà quelli che ci dovrebbero preoccupare sono coloro che scappano da governi incapaci di offrire un futuro più dignitoso. I profughi hanno leggi internazionali che li salvaguardano (o almeno dovrebbero), gli altri migranti no. S’è continuato a parlare d’emergenza, come si trattasse di un evento imprevedibile, contingente e transitorio. È invece un fenomeno demografico di lungo periodo che nemmeno i tradizionali “strumenti di controllo” come guerre, carestie ed esperimenti d’ingegneria sociale possono arrestare. I popoli in boom demografico si spingono verso i paesi in deficit o addirittura “capitolazione” demografica. Tutta l’Europa è in capitolazione e per mantenere il proprio standard di vita e difendere la propria cultura ha bisogno di nuovi afflussi. Alcuni paesi hanno una politica demografica in tal senso, ma non per solidarietà: di fatto selezionano “la merce migliore”per coprire il fabbisogno di mano d’opera per lavori che gli stessi europei non vogliono più fare.
Altri si arrampicano sugli specchi della xenofobia o della “difesa della razza”. La soluzione d’incrementare la natalità europea con gli oboli fascisti, è un bluff. Se manca la prospettiva di lavoro e inserimento dignitoso nella società, non sarà una manciata di euro a convincere i giovani, già in crisi e delusi, a mettere al mondo altri figli. Inoltre, tra vent’anni nessuno potrà costringere i giovani nati grazie al contributo statale o all’impegno personale dei leader a svolgere i lavori che i loro padri hanno rifiutato. La soluzione strategica di lungo termine è di una banalità imbarazzante: occorre creare in ogni paese, anche nel nostro, ma soprattutto nei luoghi d’origine delle migrazioni le condizioni perché i popoli si sentano liberi di rimanere e di partecipare con dignità alla vita sociale.
Questa banalità ne comporta altre che tutti i leader del mondo conoscono e dicono di condividere, ma che non vogliono attuare. Si tratta di ridistribuire la ricchezza, eliminare la corruzione e le ingiustizie sociali. Ma non riusciamo a realizzare queste cose a casa nostra e non facciamo nulla neppure per frenare la fuga dei nostri “cervelli”.
Si è sperato nel contrasto ai migranti nei paesi di partenza e in quelli di transito, ma nulla è stato fatto per impedire che proprio in quei paesi venissero perseguitati e massacrati o catturati e forzati alla migrazione. Sono state solo pianificate missioni militari per impedire l’imbarco e distruggere i barconi già presenti sulle coste. Ma soprattutto non è stato preso atto che, in attesa di realizzazione di migliori condizioni nei luoghi di origine, l’unica soluzione al fenomeno non è demonizzarlo o ignorarlo o passarne: occorre gestirlo come un fenomeno strutturale di lungo periodo e non una semplice emergenza all’insegna del “ha da passa' 'a nuttata”. Significa pianificare, organizzare ed eseguire: il coordinamento dei flussi, l’accoglienza, il controllo di sicurezza, l’inserimento produttivo, i ricongiungimenti familiari e i trasferimenti verso altre sedi. Significa smetterla di sperare in una burrasca permanente sul mare.
La Repubblica, 1° giugno 2016
La Repubblica, 31 maggio 2014
Le migrazioni rischiano di trasformare l’Italia in una pentola a pressione. Per il convergere di tre fattori: i crescenti flussi da sud e da est; i severi controlli anti-migrante lungo le frontiere alpine; soprattutto, la deriva xenofoba che la retorica dell’”invasione” minaccia di suscitare nel nostro paese, con gravi conseguenze per la pace sociale e l’ordine pubblico.
Gli oltre 14 mila sbarchi in tre giorni hanno fatto saltare la catena degli hot spot e indotto il ministero dell’Interno a emanare una circolare di emergenza per il trasferimento provvisorio di 70 migranti in 80 province (a proposito: non volevamo abolirle?). Nella frenesia da campagna elettorale la Lega e altre destre hanno evocato lo spettro del “genocidio”, ovvero la “sostituzione etnica” degli italiani che si presumono “puri” con gli “impuri” lanciati da qualche misteriosa entità (immaginiamo pluto-giudaico- massonica) alla conquista dello Stivale.
Restiamo ai fatti. Dall’inizio dell’anno a oggi sono sbarcate sulle nostre coste 47.740 persone, il 4,06% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Quasi tutte provenienti dall’Africa subsahariana e dall’Eritrea via porti della Tripolitania ormai somalizzata e, in qualche caso, dell’Egitto. L’effetto “invasione” non è dunque dato dal totale degli sbarchi ma dalla loro concentrazione nel tempo e nello spazio. Oltre che dalla smisurata eco mediatica.
Questo non garantisce affatto il futuro: sappiamo che centinaia di migliaia di migranti economici e ambientali, oltre che di richiedenti asilo, attendono di raggiungere l’Unione Europea. In particolare la Germania e i paesi nordici, dove le opportunità di impiego e le garanzie di assistenza sono nettamente superiori a quanto offra l’Italia. Ed è anche probabile che la chiusura della rotta balcanica — ammesso che l’accordo Merkel- Erdogan non salti — finisca per deviare i migranti in fuga dalle guerre mediorientali verso il Canale di Sicilia.
Qui sta il rischio. Se all’aumento della pressione migratoria dovessero corrispondere controlli più aggressivi alle frontiere con Austria e Francia, o addirittura la loro temporanea chiusura, l’Italia si troverebbe compressa in una micidiale tenaglia. Non è scenario di fantasia. Il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, ha ricordato che tra pochi mesi il suo paese raggiungerà la soglia massima prestabilita per i richiedenti asilo, il che provocherà il respingimento (in Italia) degli aspiranti rifugiati. E il fermento a Ventimiglia, dove un parroco ha accolto in chiesa un centinaio di migranti (più di quanti il Viminale ne abbia assegnati a una provincia intera), non promette nulla di buono, viste anche le costanti frizioni franco-italiane.
La Francia è infatti in prima linea nel pretendere dall’Italia non solo più hot spot (abbiamo promesso che ne apriremo altri), ma anche più centri di identificazione ed espulsione: in parole povere — ma terribili — campi di concentramento. Qui si devono trattenere gli “irregolari” in attesa di espulsione — ovvero persone che non hanno commesso alcun reato — in condizioni spesso rivoltanti. Il governo di Roma resiste a tali pressioni per ragioni anzitutto umanitarie. I partner nordici insistono, arrivando a minacciare procedure d’infrazione europea, peraltro prive di base giuridica.
Renzi finora resiste. Sul fronte interno, respingendo l’offensiva xenofoba. In campo europeo, rilanciando con il suo migration compact. Aiutiamo gli africani a casa loro, così dovremo soccorrerne di meno a casa nostra. Giusto. Il presidente della Commissione, Juncker, ha risposto con una lettera di plauso. Punto. Siamo e probabilmente resteremo alle buone intenzioni. Fatti zero.
Di qui due conclusioni — una per l’immediato, l’altra per la prospettiva.
Primo: c’è un’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. Se non l’affrontiamo, i morti solo quest’anno potrebbero essere migliaia. Marina e Guardia costiera italiana stanno facendo miracoli, di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Con l’aiuto di Forze armate di altri paesi, di organizzazioni umanitarie e internazionali, oltre che di semplici volontari, il raggio d’azione delle operazioni di salvataggio può essere allargato. In attesa di allestire canali migratori umani, regolati ed economici, che mettano all’angolo gli scafisti. Il primo diritto umano è quello alla vita. Dopo averlo tanto predicato, è il momento di praticarlo.
Secondo: l’Europa non ci salverà. L’Italia deve attrezzarsi ad affrontare la questione migratoria — non l’emergenza di un giorno: la normalità dei prossimi decenni — con i propri mezzi. Ciò significa investire in infrastrutture per l’accoglienza e per l’integrazione, a meno di non accettare che il Belpaese si sfiguri in arcipelago di ghetti. Con annessi lager. La Germania, scartando per una volta dal dogma antikeynesiano, ha appena varato misure analoghe per decine di miliardi, sulla cui ripartizione già s’azzannano governo centrale e Laender. È urgente che l’Italia si doti di una sua legge per l’integrazione e che mobiliti le risorse economiche, culturali e politiche necessarie. Perché qui si gioca il futuro della nostra comunità. Se falliremo, non avremo prove d’appello.