«Oggi a Napoli si discute di municipalismo. Barcellona, Madrid, sono laboratori dove sperimentare vie di uscita dalle politiche di austerità». Il manifesto
Non è facile per i movimenti sociali europei superare il trauma greco. Dopo l’irruzione sulla scena della forza democratica dell’«oxi», del rifiuto politicamente esplicito delle politiche di austerity, la sconfitta del governo greco nella sua sfida alla costituzione finanziaria dell’Europa aveva prodotto una evidente difficoltà a riarticolare un discorso europeo da parte dei movimenti sociali. Si intensificano, però, negli ultimi temi, iniziative di portata continentale che provano a rilanciare il discorso sulla trasformazione europea: iniziative di diversa impostazione, anche molto eterogenee tra loro, che però hanno in comune il tentativo di superare l’insufficienza dell’azione politica circoscritta agli ambiti delle sovranità nazionali.
Così sono nate diverse piattaforme europee che provano a connettere le dimensioni eterogenee dell’attivismo, dei soggetti politici organizzati, della produzione di opinione e di discorso. Alla democratizzazione complessiva delle istituzioni europee guarda l’iniziativa di DiEM25, nata dall’attivismo di Yanis Varoufakis: un articolato manifesto che sembra soprattutto mirare, al momento, alla produzione di opinione pubblica, attraverso campagne sulla trasparenza, su un nuovo assetto costituzionale, sulla libertà di circolazione.
Un partecipatissimo incontro a Madrid ha poi lanciato il progetto «Plan B», che guarda alla confluenza dei movimenti sociali, sindacali, politici su una piattaforma di critica radicale delle politiche di austerità e dell’impalcatura istituzionale dei trattati europei. Prosegue intanto l’azione di reti di movimento che avevano già da tempo assunto come prioritaria la dimensione europea, come Blockupy.
Esperienze municipaliste
Mentre si riapre la sperimentazione, attraverso queste reti europee, di cosa può essere oggi una «politica delle lotte» europee, un deciso segnale di innovazione politica in Europa sta provenendo dalle città. Il laboratorio costituito da Barcellona, Madrid, e altre città spagnole, ha avuto l’effetto di incoraggiare la sperimentazione politica di percorsi neomunicipalisti in diverse realtà. Percorsi anche qui eterogenei, che non possono essere ridotti ad un unico modello politico: ma che hanno tutti la caratteristica di rimettere al centro la riappropriazione della decisione democratica dal basso, insieme a un rilancio dei temi del diritto alla città, per provare a «mordere» con qualche efficacia i processi di trasformazione urbana dettati dai ritmi della rendita e della finanziarizzazione.
Si costruiscono reti di assemblee popolari e di quartiere, si sperimentano laboratori di innovazione cittadina, si riattiva, in questo contesto, la sperimentazione sugli usi politici, o «tecnopolitici», delle tecnologie della comunicazione: sono movimenti che attraversano la metropoli come complesso laboratorio della produzione.
Napoli ha vissuto in questi anni un’esperienza amministrativa certamente «anomala» rispetto alle politiche che hanno caratterizzato il governo delle grandi città italiane. La presenza di De Magistris, certo molto forte, e con tutti gli evidenti rischi di accentramento personalistico, è stata evidentemente un elemento di rottura deciso. Ma lo spazio dell’anomalia Napoli è stato animato soprattutto dall’azione di soggetti sociali, occupazioni, comitati, che hanno costituito una vera e propria progressiva «politicizzazione del sociale».
Su questa anomalia si è innestata la sperimentazione municipalista di «Massa critica»: una rete che si propone la diffusione delle assemblee popolari, degli strumenti di democrazia e di riappropriazione della decisione dal basso. L’obiettivo è cercare di produrre un nuovo modello di governo della città, in una progressiva riappropriazione e redistribuzione orizzontale delle funzioni politiche e di amministrazione.
Ambizione per niente modesta, tant’è che proprio dai partecipanti arriva spesso l’avvertimento alla cautela, a considerare gli esperimenti municipalisti come percorsi, proprio perché estremamente ambiziosi, ancora allo stato nascente, da non rinchiudere in formule definitive, e, tantomeno, da confondere con la ricostruzione di questo o quello spazio politico tradizionale.
Non è la ricostruzione di un’area, insomma, e neppure un esperimento di movimento, anche se la connessione con le mobilitazioni dei movimenti sociali è evidente: si tratta, al contrario, di ambire a un nuovo modello di relazione tra partecipazione, decisione e governo della metropoli.
Del resto il modello sembra attecchire anche in situazioni molto diverse: i percorsi romani, come #Romanonsivende e di #decidelacittà, hanno queste stesse caratteristiche di sperimentazione di produzione di nuove «istituzioni» – iniziale e «acerba» quanto si vuole, ma che certamente prova a installarsi su quel desiderio costituente di reinvenzione della democrazia che attraversa l’Europa dai movimenti del 2011 in poi , quei movimenti che non a caso hanno scelto l’occupazione permanente delle piazze come loro «luogo».
Anche alcuni esperimenti che hanno attraversato direttamente la dimensione elettorale, si pensi alla «coalizione civica» bolognese, hanno significativamente scelto di utilizzare modalità di costruzione che rispondono ai tratti di queste sperimentazioni municipali.
Uno spazio mediterraneo
Oggi pomeriggio a Napoli, a partire dalle 16.30, presso un luogo molto significativo come l’Asilo, una delle nuove «istituzioni dal basso» più durature, alcune organizzazioni e collettivi – Euronomade, «European Alternative», Act, «Massa Critica» e appunto l’Asilo – hanno organizzato un incontro che ha come intenzione quello di mettere in relazione la dimensione europea con quella degli esperimenti municipalisti: con l’intervento di uno dei promotori di Plan B, il deputato di Podemos Miguel Urbán, Enric Bárcena di Barcelona en Comú con i collegamenti con Toni Negri e Sandro Mezzadra, si cercherà di comprendere quale rapporto ci può essere tra i percorsi del diritto alla città e la creazione delle piattaforme di connessione europea, quale relazione si può istituire tra processi che hanno dimensioni spaziali e modalità politiche eterogenee, ma che insieme potrebbero costituire un piano diversificato e multilivello di creazione di un nuovo spazio politico.
Il racconto di un'esperienza nuova di governo di una città. Allora cambiare è davvero possibile, per le persone. Anticipazione di un libro su Ada Colau che uscirà a breve per edizioni Alegre a firma sempre dei medesimi autori. nuovAtlantide, online, 26 marzo 2016.
A Barcellona l’attuale sindaca, ex occupante di case e proveniente dai movimenti sociali, sta attuando un reale cambiamento rompendo la dicotomia pubblico/privato – aprendo al “comune” – e sperimentando nuove forme di partecipazione. Senza tessere di partito, figlia degli Indignados, si pensa per lei già ad un ruolo oltre la Catalogna. E molti, in Italia, guardano con interesse al suo modello.
Al primissimo incontro erano pochi, seduti in circolo con le sedie. Eppure andavano ripetendo: “Dobbiamo vincere le elezioni”. L’ambizione, la vocazione maggioritaria, l’idea di raggiungere il governo. Tre pilastri fondamentali, dalla genesi di Barcelona en Comù, la lista che ha vinto le elezioni comunali a Barcellona nel maggio del 2015. Un progetto nato con un altro nome, Guanyem Barcelona – che significa “vinciamo, conquistiamo Barcellona” – e che è stato voluto fortemente da Ada Colau. La pasionaria degli Indignados.
L’ex occupante di case, 42 anni, sposata con l’economista Adrià Alemany e madre di un figlio di 5 anni, si è formata da noi: una breve parentesi Erasmus a Milano. Con il movimento No Global ha iniziato la sua militanza a tempo pieno e, dopo il G8 di Genova 2001, si è fatta promotrice a Barcellona dei primi cortei pacifisti contro le guerre preventive di Bush. Quel popolo arcobaleno che il New York Times etichettò nel 2003 come la seconda superpotenza al mondo, dopo gli Usa. È fronteggiando il dramma abitativo e, nel 2009, con la nascita della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH, Piattaforma delle vittime dei mutui) che diventa una leader di movimento conosciuta tanto da essere considerata dalle istituzioni “un soggetto pericoloso”.
Tra febbraio e marzo del 2014, Colau e le poche persone che erano al suo fianco organizzano degli incontri a porte chiuse. Si partecipa solo su invito. Venti, massimo trenta persone che aumenteranno con il passare delle settimane. Non saranno mai più di una cinquantina. Qualcuno, a sentire le loro conversazioni, li avrebbe presi per pazzi quando, in un numero esiguo e senza soldi, blateravano di governare la seconda città della Spagna e invece la storia ci racconterà altro.
Un gruppo ristretto formato essenzialmente da Ada Colau e dal suo nucleo duro, persone di fiducia da sempre, capitanato dal compagno Adrià Alemany e da Gerardo Pisarello, Jaume Asens e Gala Pin, tutti e tre attualmente assessori nella giunta comunale di Barcelona en Comú. Un nucleo duro che proviene dalle lotte sociali, dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) e dall’Observatori DESC, che sta per Osservatorio sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. E che poco a poco va allargandosi, includendo altre persone strettamente vincolate ai movimenti e alcune persone di prestigio legate al mondo universitario.
In tutta questa fase, i partiti non sono invitati e stanno a guardare, interessati, ma anche scettici. Sanno che devono contare sui movimenti dopo l’esplosione degli Indignados; sono coscienti che si devono trovare punti di incontro, allo stesso tempo sono gelosi della propria autonomia. “Non ci interessa unire la sinistra né creare sommatorie tra soggetti, ma creare qualcosa di nuovo e diverso”, afferma il gruppo di Colau che controllerà sempre la situazione, gelosa di non farsi scippare il progetto. Ma le riunioni sono vere: si parla, si discute animatamente, ci si confronta.
Tutti d’accordo nel dire che il percorso politico dovesse nascere dal basso rompendo il sistema partitico esistente, ormai in crisi, e rinnovando le modalità autorappresentative e minoritarie dei movimenti classici: “La logica movimentista e attivista, con le sue pratiche e il suo linguaggio, è fine a se stessa ed è necessario superarla, aprirsi alla società e intercettare tutti i cittadini colpiti dalla crisi. E, soprattutto, avere l’ambizione di vincere e porsi la questione di voler governare” affermavano all’unisono. Una campagna elettorale travolgente che ha visto la partecipazione di migliaia di persone. Un programma scritto nelle piazze attraverso affollate assemblee nei quartieri e l’utilizzo della Rete. Vera esperienza di tecno-politica. E senza alcun grande finanziatore alle spalle, né le tanto odiate banche: trasparenza e crowdfunding. Una proposta radicale, a leggere il programma.
Il 13 giugno 2015, un anno dopo, Ada Colau, attivista sociale ed ex occupante di case, diventava la nuova sindaca. La piazza Sant Jaume, davanti all’Ayuntamiento, era gremita e festante. “Non lasciatemi sola. Il futuro di Barcellona è nelle vostre mani”, le sue prime parole. Dai movimenti alle istituzioni. Il giorno successivo bloccava da primo cittadino uno sfratto opponendo resistenza passiva alle forze dell’ordine. Dopo otto mesi la ritroviamo nei quartieri più poveri della città, nelle assemblee territoriali, per ascoltare le richieste e confrontarsi direttamente coi cittadini. Un rapporto costante con le persone: “Mi interessa unire la gente, l’importante è condividere obiettivi e metodi per raggiungerli” va ripetendo Colau, da un barrio all’altro.
Democrazia, trasparenza e diritti sono i pilastri del cambiamento coi quali ha vinto le elezioni amministrative con la sua Barcelona en Comú, una lista civica nata dal basso e sostenuta da movimenti, in primis, e dai partiti come Podemos, gli ecosocialisti di Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), i comunisti di Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), il piccolo Procés Constituent e i verdi di Equo.
Non un’operazione politicista né una mera sommatoria, ma una “convergenza tra diversi”, un processo costruito orizzontalmente secondo il criterio una testa un voto. Un’intuizione che parte da lontano, partorita già nella primavera del 2014 da alcuni attivisti sociali e pensatori. Tra questi il politologo Joan Subirats: “In Spagna c’è stato un grande ciclo di mobilitazione che ha modificato lo scenario del Paese – afferma lo studioso – Barcelona en Comú non sarebbe esistita senza il 15M perché ha a che vedere con un cambiamento della coscienza politica e della mentalità, soprattutto con un fenomeno di politicizzazione della società. Nel biennio 2011-2013 gli Indignados sono riusciti ad identificare la natura del problema in PP e PSOE i quali, pur differendo su alcune questioni valoriali, negli anni hanno applicato le medesime politiche di austerity e i criteri imposti dall’Europa”.
Così la grande rabbia, quel “non ci rappresentano” che porterà a chiedere democrazia reale e la rottura dello storico bipartitismo iberico. Barcelona en Comú intravede lo spazio politico e si pone il problema del governo, da subito. “Fin dal primo incontro – ricorda Subirats – ci siamo dati l’obiettivo di vincere, non ci interessava l’ennesimo partito di sinistra del 6-7 per cento ma prendere il potere a Barcellona. Bisognava occuparsi delle istituzioni e recuperarle per metterle al servizio della gente e aggiornare il sistema democratico”. La divisione non è più tra destra e sinistra ma tra basso contro alto. Un progetto ambizioso. E nuovo.
L’Italia era vista come un modello. Il nome Barcelona en Comú è figlio del movimento referendario per l’acqua pubblica che ha sancito il trionfo del comune come categoria per spezzare la dicotomia privato/pubblico. E poi l’esperienza arancione dei sindaci Doria, Pisapia, Zedda e De Magistris. Ora, in realtà, sono in contatto soltanto con il primo cittadino di Napoli.
Alle elezioni del 2015 l’occasione per unire le realtà sociali della città: associazioni, comitati, reti territoriali e singoli cittadini. In tale processo, aperto, i partiti assumono un ruolo secondario: su 11 eletti in consiglio 6 provengono dalla società civile, 5 dai partiti (1 da Podemos, 3 da ICV, 1 da EUiA).
L’analisi elettorale evidenzia come Barcelona en Comú ottenga un “voto di classe”, ovvero vette di consenso alte soprattutto nei quartieri abbandonati e degradati di Barcellona.
La candidatura di Colau è, infatti, prima in sei dei dieci municipi della città (Nou Barris, Sant Martí, Sant Andreu, Horta-Guinardó, Sants-Montjuic e Ciutat Vella), quelli che hanno il reddito più basso. A Nou Barris, dove Convergència i Unió (CiU), partito catalanista di destra che ha governato la città nell’ultima legislatura, non raccoglie nemmeno il 10%, Barcelona en Comú raggiunge il 33,8%. A Ciutat Vella il 35,3%, a Sant Martí il 29,4%. Sono i quartieri più colpiti dalla crisi e dove più si è lavorato, non solo durante la campagna elettorale, ma dall’estate precedente, con assemblee, incontri, riunioni. Un lavoro sul territorio, costante e continuo, che ha dato i suoi frutti. Riavvicinare le persone alla politica, renderle partecipi, farle decidere su tutto. E il calo dell’astensionismo è evidente proprio qui: a Sant Andreu, Sant Martí, Nou Barris e Horta-Guinardó la partecipazione è aumentata dell’8 e del 9% rispetto al 2011, più che in altri quartieri.
Ma quello per Barcelona en Comú è stato anche un voto generazionale. Tra i giovani Ada Colau sbaraglia gli avversari. Gli under 25, ossia i figli della crisi e degli Indignados, non hanno avuto dubbi quando sono andati a votare. Lo hanno fatto maggioritariamente per la lista guidata dall’ex portavoce della PAH, che nel 2011 era nelle piazze occupate. Ma anche la lost generation dei trentenni, con lauree, master e dottorati ma senza la prospettiva di trovare un posto di lavoro, come mai in passato ha votato in massa per Barcelona en Comú. Questi sono alcuni degli elementi che hanno permesso il successo alle elezioni comunali del 24 maggio 2015.
Anche il ruolo decisivo di Colau è innegabile. La portavoce degli ultimi. La donna che da anni si batte per la democrazia e i diritti sociali. La leader storica della PAH. Il valore aggiunto. Qualcuno già ipotizza per lei un futuro come leader nazionale. Non a caso, già si sta adoperando per andare oltre il municipio di Barcellona perché, in alcuni ambiti, le decisioni vengono stabilite a livelli più alti. “Noi ad esempio ci siamo dichiarati ‘Barcellona città libera dal TTIP’, il trattato di libero commercio, perché pensiamo che sia un attentato alla nostra sovranità. Ne va della nostra democrazia. In Europa dobbiamo costruire alleanze a partire dai movimenti, dalle persone, dai municipi e dalle città, bisogna ricostruire un’altra Europa, quella reale, contro quella dei tecnocrati e dell’austerity”.
Per tale motivo ha firmato l’appello sul Piano B, e la democratizzazione dell’Europa, di Yanis Varoufakis, e siglato un accordo tra il Comune catalano e quelli di Lampedusa e Lesbo per dare una risposta alla crisi dei rifugiati. Spyros Galinos, sindaco dell’isola greca, e Giuseppina Nicolini, sindaca di Lampedusa si sono incontrati a Barcellona con Colau lo scorso 15 marzo. Nicolini è stata insignita anche del Premio per la Pace assegnato dall’Associazione delle Nazioni Unite in Spagna e dalla Provincia di Barcellona. “L’accordo UE-Turchia è immorale e illegale – le parole di Colau –. L’Europa sta sbagliando, il governo spagnolo sta sbagliando ed è complice della morte e la sofferenza di migliaia di persone”.
Secondo l’accordo, Barcellona offrirà appoggio tecnico, logistico, economico e anche politico affinché “si senta la voce delle città che vogliono che il Mediterraneo sia uno spazio comune di cultura, arte e scienze e non un enorme cimitero”, come ha dichiarato Colau. Il Comune catalano manderà a Lampedusa e a Lesbo esperti nei servizi di accoglienza ai migranti per dare inizio non a “un’alleanza paternalista o assistenziale, ma a un’alleanza tra città che non si rassegnano a un’Europa disumanizzata”.
La sindaca di Barcellona ha affermato che “gli Stati europei non si sono dimostrati all’altezza e non hanno applicato il diritto d’asilo, mentre i cittadini, le città e i popoli europei sì che sono stati all’altezza e hanno saputo dare una risposta non solo etica e politica, ma anche materiale e pratica” alla crisi dei rifugiati, ricordando che a Barcellona oltre 4 mila persone hanno offerto ospitalità nelle proprie case nei mesi scorsi.
Il governo spagnolo non sta dando nessuna risposta: finora sono solo 18 i rifugiati accolti. “Barcellona ha fatto tutto il possibile, ma non è sufficiente”, ha ricordato ancora Colau. “Abbiamo incrementato i fondi di cooperazione, abbiamo dichiarato Barcellona “Città rifugio”, abbiamo creato un mail del Comune per raccogliere le offerte di aiuto dei cittadini, abbiamo lanciato un bollettino a cui si sono iscritte oltre 3 mila persone”. Ora sono stati approvati altri fondi di 200.000 euro da destinarsi alle organizzazioni umanitarie che operano nelle zone colpite dalla crisi dei rifugiati. E Barcellona, oltre che con Lesbo e Lampedusa, collaborerà anche con Madrid, Atene, Amsterdam e Helsinki per formare un gruppo di lavoro su strategie di integrazione di rifugiati e migranti.
Adesso comunque arrivano, per lei, le prime difficoltà, un conto è l’opposizione di piazza un altro governare una città stritolata dai vincoli imposti da quest’Europea. Cosa ancor più difficile quando si governa in minoranza: Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41, e la maggioranza in Consiglio è di 21.
Non mancano le prime difficoltà con Colau che, qualche settimana fa, ha dovuto fronteggiare un tumulto, lo sciopero degli impiegati del servizio pubblico. Il programma è in effetti impegnativo. “I movimenti sociali devono rimanere autonomi e credo che il conflitto sia il perno di una democrazia – sentenzia Colau -. Bisogna essere ambiziosi e utopici per realizzare il cambiamento, è necessario avere ideali per riuscire a fare il massimo possibile”. Barcelona en Comú, un’esperienza che in Italia si studia e ammira, a sinistra. E pensare che una volta erano gli spagnoli che guardavano noi.
* questo testo è un’anticipazione di un libro su Ada Colau che uscirà a breve per edizioni Alegre a firma sempre dei medesimi autori
N».
La Repubblica,
LE CRISI possono diventare occasioni importanti di rinnovamento e di ridefinizione di vecchi equilibri di potere, soprattutto in quelle congiunture storiche nelle quali l’ordine esistente si alimenta della rovinosa continuazione della situazione di stallo. Questa è stata per molti versi la dinamica che ha visto nascere l’ideale europeo moderno. Essa si è sprigionata dall’interno dell’Europa dei totalitarismi e dei nazionalismi; anzi, dalle prigioni e dai luoghi di confino dove quei regimi liberticidi avevano voluto mettere a tacere gli avversari politici. L’ideale di una unione politica continentale fu maturato nella clandestinità, intuizione di pochi visionari convinti che solo gettando il cuore oltre l’ostacolo si potesse sconfiggere lo status quo e dar vita all’Europa del dopo, democratica e pacifica. È importante ricordare oggi che fu all’interno di una cornice anti-nazionalistica che prese corpo il Manifesto di Ventotene, uno dei prodotti più significativi dell’ideale liberal socialista.
Nelle interviste di Eugenio Scalfari a Laura Boldrini e di Stefano Folli a Giorgio Napolitiano, ospitate su Repubblica, non si può non sentire la forza di quell’ideale, e soprattutto la consapevolezza che ci troviamo, di nuovo, in una situazione di stallo critico, di equilibrio catastrofico che può avere esiti regressivi. Perché, come allora, anche oggi i pericoli al progetto di unione vengono dal nazionalismo, populista e non. Ben inteso, da quando la crisi economica si è abbattuta sul nostro continente e le politiche europee hanno messo a dura prova le politiche economiche e fiscali nazionali, le rimostranze degli Stati membri non sono state sempre ingiustificate. Le resistenze della Grecia, che lo scorso anno si trovò pressoché sola a contestare Bruxelles e la Troika, hanno aperto tuttavia un fronte nel quale altri paesi oggi sembrano volersi identificare. Le polemiche sulle politiche monetarie e le regole bancarie, sulla mancanza di una politica comune sull’immigrazione e il rischio di sospendere provvisoriamente Schengen: tutte queste questioni aperte, e le dinamiche politiche che possono innescare, ci inducono a temere per il futuro del progetto europeo.
Chi può rompere questo stallo, questo equilibrio potenzialmente catastrofico? Sostiene Napolitano, con ottime ragioni, che solo chi sa vedere oltre le strette politiche nazionali, chi non si lascia incagliare nelle questioni locali, può vincere la battaglia europea e, quindi, anche quella nazionale. Non vi è modo per reagire a chi vuole rialzare muri e chiudere le frontiere se non portando il cuore oltre l’ostacolo, progettando una soluzione che non sia nè un ritorno al passato, con gli stati padroni (nani) in casa loro, ma nemmeno la persistenza dello status quo, magari per strappare con trattative nazionali un piccolo “parecchio”. L’Europa degli accordi intergovernativi che si è stabilizzata in questi anni di crisi rischia di aprire entrambi questi scenari, alimentando una voglia di secessione. Per contenere sul nascere questi esiti occorrerebbero grandi leader, visionari che sappiano convicere i loro cittadini e quelli europei che il vero utile nazionale si persegue con politiche anti-nazionaliste. Che si deve volere l’Europa per voler il bene delle proprie società nazionali.
L’Europa deve farsi politica, dunque; superare il livello intermedio dell’attuale costituzionalismo funzionale, indiretto e burocratico, per marcare il corso verso un costituzionalismo compiutamente politico, dove obiezioni e proposte possano godere di legittimità democratica. E che sia il presidente della Bce, Mario Draghi, a farsi propugnatore di questo salto oltre l’ostacolo, a suggerire una unione politica “più perfetta” come direbbero gli americani, a prospettare la necessità di una politica bancaria e fiscale europea, strada verso un governo continentale legittimo, rende pienamente il senso della situazione grave nella quale si trova il progetto di Ventotene. Non leader politici, ma un leader “tecnico”, responsabile di un potere neutro, sente l’urgenza di avviare un’innovazione istituzionale forte. L’Europa con un bilancio comune, con politiche fiscali comuni e cogenti, condizioni essenziali per una vera unione monetaria e bancaria: l’Europa come progetto federale.
Nell’Europa autoritaria e dei totalitarismi, nacque una visione politica e morale che aveva un respiro sovrannazionale. Il Manifesto di Ventotene rispecchiava quella visione assai fedelmente quando sosteneva che “il principio di libertà” é fondamento della società umana e la critica di “tutti quegli aspetti della società che non hanno rispettato quel principio”. In conseguenza di ciò dichiarava il nazionalismo degli Stati come il vero responsabile della Prima guerra mondiale e dell’imperialismo nazionalista che ne era seguito. Il Manifesto sosteneva inoltre che senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati la diseguaglianza economica e il nazionalismo avrebbero continuato ad essere un rischio per la pace, anche qualora gli stati europei fossero divenuti democratici. Fino a quando non fosse stata superata la prospettiva nazionalistica, non ci sarebbe stato futuro sicuro né per la pace né per la libertà. Traducendo il paradigma di Kant in un programma politico, i visionari di Ventotene lanciavano il loro doppio progetto: una trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati (che è avvenuta), e la creazione di una federazione europea (che stenta ancora a nascere).
postilla
Ha ragione Urbinati quando sostiene che - come ieri col Manifesto di Ventotene - anche oggi si può uscire dalla crisi e, «gettando il cuore oltre l’ostacolo si può sconfiggere lo status quo e dar vita a un'Europa democratica e pacifica. Ma l'ostacolo oltre il quale si deve oggi gettare il cuore non è più la tirannide nazifascista. È quella che la nuova forma del capitalismo, il cui ventre è sempre fecondo, ha inventato: è quel sistema di potere nato dal cervello dei Chicago Boys, sperimentato nel Cile di Pinochet, nell'UK di Margaret Tatcher e negli USA di Donald Reagan, di cui l'Unione europea, è l'espressione. La forma è cambiata, la sostanza poco. Del resto, se anche per l'effetto del sogno di Ventotene era «avvenuta trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati europei, negli ultimi trentenni i governi di Craxi, Berlusconi e Renzi ci hanno riportato considerevolmente indietro, come Urbinati ci ha aiutato a comprendere.
«». Sbilanciamoci.info
Siamo riusciti a costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha qualcosa a che fare con la legittimazione democratica”. Pubblichiamo l’intervista a Yanis Varoufakis realizzata da Nick Buxton per il Transnational Institute (TNI).
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza, potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.
Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?
Questo è un anno speciale a tale riguardo poiché abbiamo avuto l’esperienza della Grecia, dove nelle elezioni la maggioranza dei greci ha deciso di sostenere un partito anti-establishment, SYRIZA, che è salito al potere “dicendo la verità al potere” e sfidando l’ordine costituito in Europa.
Quando la democrazia produce ciò che il sistema ama sentire, allora la democrazia non è una minaccia, ma quando produce forze anti-sistema e rivendicazioni, è allora che la democrazia diventa una minaccia. Siamo stati eletti per sfidare la troika dei creditori ed è stato a quel punto che la troika ha affermato con assoluta chiarezza che alla democrazia non può essere consentito di cambiare nulla.
Sulla base del tuo periodo da ministro greco delle finanze, che cosa ti ha rivelato l’esperienza a proposito della natura della democrazia e del potere? Quali sono le cose che ti hanno sorpreso?
Ci sono andato con gli occhi bene aperti. Non avevo illusioni. Ho sempre saputo che le istituzioni dell’Unione europea a Bruxelles – la Banca centrale europea e altre – erano state create progettualmente come zone aliene alla democrazia. Non è che un deficit di democrazia si è improvvisamente insinuato nell’UE; essa è stata creata principalmente come un cartello dell’industria pesante, che ha finito poi per cooptare anche gli agricoltori, principalmente gli agricoltori francesi. Ed è sempre stata amministrata come un cartello; non è mai stata intesa come l’inizio di una repubblica o di una democrazia in cui “noi, il popolo” dettiamo legge.
Riguardo alla tua domanda, mi hanno colpito un paio di cose. La prima è la sfacciataggine con cui mi è stato chiarito che la democrazia era considerata irrilevante. Nella primissima riunione dell’Eurogruppo a cui ho partecipato, quando ho cercato di fare un’affermazione che non pensavo sarebbe stata contestata – cioè che rappresentavo un governo neo-eletto il cui mandato andava rispettato in una certa misura, che questo avrebbe dovuto alimentare un dibattito su quali politiche economiche dovessero essere applicate alla Grecia, ecc. – sono rimasto attonito nel sentire il ministro delle finanze tedesco dirmi, alla lettera, che alle elezioni non può essere consentito di cambiare una politica economica stabilita. In altri termini, che la democrazia va bene fintanto che non minaccia di cambiare nulla! Anche se mi aspettavo che la musica fosse quella, non ero preparato a sentirmela suonare così brutalmente.
La seconda cosa per la quale dovrei dire che non ero preparato, per parafrasare la famosa espressione di Hannah Arendt sulla banalità del male, era la banalità della burocrazia. Mi aspettavo che i burocrati di Bruxelles fossero molto sprezzanti della democrazia, ma mi aspettavo che fossero garbati e tecnicamente competenti. Invece sono rimasto sorpreso nel constatare quanto erano banali e, da un punto di vista tecnocratico, quanto erano scadenti.
Come funziona dunque il potere nell’Unione europea?
La cosa principale da osservare riguardo all’UE è che l’intera attività di Bruxelles è basata su un processo di depoliticizzazione della politica che consiste ne prendere quelle che sono essenzialmente decisioni profondamente e irrevocabilmente politiche e forzarle nel regno di una tecnocrazia dominata dalle regole, un approccio algoritmico. È la pretesa che le decisioni riguardo alle economie in Europa siano semplicemente problemi tecnici che hanno bisogno di soluzioni tecniche decise da burocrati che seguono regole prestabilite, proprio come un algoritmo.
Così, quando si cerca di politicizzare il processo, si finisce con un genere particolarmente tossico di politica. Per farti solo un esempio, nell’Eurogruppo stavamo discutendo la politica economica relativa alla Grecia. Il programma che avevo ereditato come ministro delle finanze fissava un obiettivo di avanzo primario del 4,5 per cento del PIL, che consideravo esageratamente elevato. E lo stavo contestando su basi puramente tecniche, di teoria macroeconomica.
Così mi è stato immediatamente chiesto quale avrei preferito fosse l’avanzo primario. Ho cercato di fornire una risposta onesta, affermando che doveva essere considerato alla luce di tre fattori e dati chiave: gli investimenti in rapporto ai risparmi, le scadenze del rimborso del debito e il deficit o avanzo di partita corrente. Ho cercato di spiegare che se volevamo far funzionare il programma greco dopo cinque anni di fallimento catastrofico che avevano condotto alla perdita di quasi un terzo del reddito nazionale avremmo dovuto considerare queste tre variabili insieme.
Ma mi è stato detto che le norme affermano che dovevamo considerare un unico numero. Così ho replicato: «E allora? Se c’è una norma sbagliata dovremmo cambiarla». La risposta è stata: «Una norma è una norma!». E io ho rimbeccato affermando: «Sì, questa è una norma, ma perché dovrebbe essere una norma?». A quel punto ho ricevuto una risposta tautologica: «Perché è la norma». Questo è quel succede quando si abbandona un processo politico a favore di un processo dominato da norme: finiamo con un processo di depoliticizzazione che porta a politiche tossiche e ad una cattiva economia.
Un altro esempio che vorrei farti è che, a un certo punto, stavamo discutendo del programma greco e dibattendo la formulazione di un comunicato che doveva uscire riguardo a quella riunione dell’Eurogruppo. Io ho detto: «D’accordo, citiamo la stabilità finanziaria, la sostenibilità fiscale – tutte cose che la troika e altri volevano fossero dette – ma parliamo anche della crisi umanitaria e del fatto che ci stiamo occupando di cose come una fame diffusa». La risposta che ho ricevuto è stata che ciò sarebbe stato “troppo politico”. Che non possiamo avere simili “espressioni politiche” nel comunicato. Così i dati sulla stabilità finanziaria e sull’avanzo di bilancio andavano bene, ma dati sulla fame e sul numero di famiglie senza accesso all’elettricità e al riscaldamento in inverno non andavano bene perché erano “troppo politici”.
Ma tutto questo sforzo di depoliticizzazione in realtà è profondamente politico, visto che il neoliberismo e un processo politico.
Ma loro non la pensano così. Si sono convinti che esistono certe regole che riguardano variabili ed equazioni naturali e che tutto il resto non c’entra. E così che la pensano.
È sempre stata condannata al fallimento o ci sono stati dei processi o degli eventi particolari che hanno minato la democrazia in Europa, come il Trattato di Maastricht?
Quello che sto per condividere è più o meno il tema del mio libro, che uscirà ad aprile ed è intitolato And the weak suffer what they must? Europe’s crisis, America’s economic future (‘E il debole subisca quel che deve subire? La crisi dell’Europa, il futuro economico degli Stati Uniti’). Il titolo deriva dall’antico greco Tucidide e dal dibattito da lui riportato tra i generali ateniesi e i melii, che furono infine sconfitti dai generali.
Il punto che sto sostenendo è il seguente: diversamente dagli Stati statunitense, tedesco o britannico che sono emersi da secoli di evoluzione, attraverso i quali lo Stato si è evoluto come strumento funzionale per risolvere diversi generi di conflitti sociali, l’UE ha seguito una strada diversa. Ad esempio, se si prende lo Stato britannico, la gloriosa rivoluzione del 1688 è stata incentrata sul porre limiti al potere della monarchia in conseguenza degli scontri tra i baroni e il re; le riforme successive sono state il risultato di conflitti tra gli aristocratici ed i mercanti, poi tra i mercanti e la classe operaia. È così che si evolve uno Stato normale ed è così che nascono le democrazie liberali.
Ma l’UE non si è affatto evoluta così. La sua formazione, come dicevo prima, si è avuta nel 1950 con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che era fondamentalmente un cartello come l’OPEC. E Bruxelles era il quartier generale di tale cartello. Era qualcosa di molto diverso da uno Stato. Non aveva a che fare con la mitigazione di scontri tra classi e gruppi sociali. L’intera ragion d’essere di un cartello consiste nello stabilizzare i prezzi e limitare la concorrenza tra i propri membri.
La sfida per Bruxelles consisteva inizialmente nello stabilizzare i prezzi del carbone e dell’acciaio e poi quelli di altre materie prime e merci, in un cartello che copriva diversi regimi monetari e perciò sei rapporti di cambio. Senza rapporti stabili di cambio tra le monete di tale unione sarebbe stato impossibile stabilizzare i prezzi di un cartello di portata europea nei suoi sei membri iniziali. Finché c’era il sistema di Bretton Woods (che legava i rapporti di cambio al dollaro, il cui valore era fissato a 35 dollari l’oncia), mantenere allineate le monete europee era automatico. Ma quando quel sistema saltato per mano del segretario al Tesoro statunitense John Connally e di altri, nel 1971, i rapporti di cambio dei diversi paesi europei sono impazziti. Il marco della Germania ha cominciato a salire, la lira italiana ha cominciato a scendere, mentre il franco francese lottava per evitare lo stesso destino della lira. Ciò ha generato enormi forze che potevano fare a pezzi l’UE. Bruxelles non era più in grado di stabilizzare il suo cartello. Ed è qui che è emersa la necessità di una moneta comune.
Dai primi anni ’70 ci sono stati vari tentativi falliti di sostituire il sistema dei cambi fissi, che gli statunitensi avevano gestito sino ad allora, con un sistema europeo. Il primo fu il “serpente monetario europeo” nel 1972; negli anni ’90 abbiamo avuto ovviamente il Sistema monetario europeo e poi, infine, tra il 1992 ed il 1993, è stato introdotto l’euro con il Trattato di Maastricht, che ha legato monetariamente vari Stati europei sotto una singola valuta, una sola moneta.
Ma nel momento in cui hanno fatto ciò (senza disporre di alcun modo per gestire politicamente questa area monetaria), improvvisamente il processo di depoliticizzazione della politica (che era sempre stato parte integrante dell’Unione europea) è divenuto estremamente potente e ha cominciato a distruggere la sovranità politica.
Una delle poche persone che aveva capito bene questo non era di sinistra, bensì di destra. È stata Margaret Thatcher che ha guidato l’opposizione alla moneta unica e ne ha di fatto espresso molto chiaramente i pericoli. Io mi sono opposto alla Thatcher su tutto il resto, ma su questo aveva ragione lei. Diceva che chi controlla la moneta, la politica monetaria ed i tassi d’interesse, controlla la politica dell’economia sociale. La moneta è politica e può soltanto essere politica e qualsiasi tentativo di depoliticizzarla e di trasferirla ad un branco di burocrati irresponsabili di Francoforte (dove ha sede la Banca centrale europea) costituisce, in effetti, un’abdicazione della democrazia.
Perché la Thatcher è stata la sola voce d’opposizione considerato che ciò proteggeva gli interessi neoliberisti di cui lei era una forte sostenitrice?
La Thatcher era una conservatrice, una Tory. Pur essendo una pioniera del neoliberismo, credeva anche nella sovranità parlamentare e nel controllo del processo politico. Per lei il neoliberismo era un processo politico in cui credeva, ma per lei era ancora importante che il parlamento britannico controllasse la politica del neoliberismo. Non c’era alcun parlamento nell’eurozona; l’area euro non ha alcun parlamento. Il Parlamento europeo è una barzelletta; non opera da vero parlamento. È, al meglio, una simulazione di un parlamento, non un parlamento reale, perciò a una conservatrice inglese, per la quale la legittimazione della democrazia deriva dalla legittimazione del potere sovrano, dal parlamento, l’euro appariva come un’aria monetaria destinata ad avvizzire e morire.
Curiosamente uno dei miei maggiori sostenitori quando ero ministro delle finanze greco è stato un ministro della Thatcher e già cancelliere dello scacchiere, Norman Lamont. Siamo addirittura diventati amici. Quello che abbiamo in comune è una dedizione alla democrazia. Abbiamo idee molto diverse su quali politiche andrebbero messe in atto come parte della politica democratica, ma è rimasto scioccato anche lui per il modo in cui un branco dirigenti non eletti ha gestito le politiche fiscali e monetarie della Grecia e per come hanno raso al suolo la sua economia.
Dunque, visto che il Regno Unito è rimasto fuori dall’euro, è influenzato dalle politiche dell’eurozona?
Beh, come sappiamo la Gran Bretagna sta attraversando la prima fase di una campagna per un referendum sull’adesione all’UE. È un confronto molto emotivo. Io ritengo che sia stato magnifico per i britannici stare fuori dall’euro, un colpo di fortuna. Ma, detto questo, la loro economia è completamente determinata dalla prigione dell’eurozona e dunque l’idea che possano sottrarsi alla sua influenza votando per l’uscita dall’UE è eccessivamente ottimistica. Non possono uscire. Ora, i conservatori britannici che appoggiano l’uscita dall’UE sostengono di non avere bisogno dell’Unione europea; che possono avere il mercato unico senza la camicia di forza di Bruxelles. Ma questa è una tesi fortemente dubbia, poiché il mercato unico non può essere immaginato senza una protezione comune dei lavoratori, degli strumenti comuni per prevenire lo sfruttamento dei lavoratori o dei parametri comuni sull’ambiente o l’industria. Dunque l’idea che si possa avere il mercato unico senza unione politica si scontra con la realtà politica che il solo modo per avere il libero scambio di questi tempi è avere leggi comuni sui brevetti, sui parametri industriali, sulla disciplina della concorrenza, ecc. E come si possono avere leggi simili se non c’è il controllo di qualche genere di istituzione o di processo democratico che si applichi a ogni giurisdizione? Dunque, se si rifiuta la possibilità di un’Unione europea democratizzata, si rifiuta la possibilità di un parlamento britannico sovrano e si finisce per avere degli accordi commerciali atroci, come il TTIP.
Dove risiede, allora, il potere in Europa?
Questa è una domanda interessante. A prima vista le sole persone potenti in Europa sono Mario Draghi, capo della Banca centrale europea, e Angela Merkel, la cancelliera tedesca. Ma, detto questo, neppure loro sono poi tanto potenti. Ho visto Mario Draghi apparire estremamente frustrato nelle riunioni dell’Eurogruppo per ciò che veniva detto, per la sua stessa impotenza, perché doveva fare delle cose che pensava fossero orribili per l’Europa. Al tempo stesso, Angela Merkel si sente chiaramente accerchiata dalle richieste del suo stesso parlamento, del suo partito, circa la necessità di mantenere un tipo di modus vivendi con i francesi su cui lei non è d’accordo.
Dunque, la risposta alla tua domanda è che siamo riusciti a costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha qualcosa a che fare con la legittimazione democratica.
Ma questo processo non ha dato grande potere ai mercati finanziari?
I mercati finanziari non hanno più potere in Europa di quanto ne abbiano negli Stati Uniti o altrove.
Torniamo al 2008. In quell’anno, dopo anni di sperperi del settore finanziario e di creazione criminale di credito da parte sua, le istituzioni finanziarie sono implose ed i capitani della finanza si sono rivolti ai governi e hanno detto loro: «Salvateci». E l’abbiamo fatto, trasferendo enormi somme dai contribuenti alle banche. Questo è successo negli USA ed in Europa; non ci sono state differenze al riguardo.
Il problema è che l’architettura dell’UE, e in particolare dell’euro, era così scadente che questo massiccio trasferimento di denaro dai contribuenti, e specialmente dai settori più deboli della società, alle banche non è stato sufficiente a stabilizzare il sistema finanziario.
Lascia che ti faccia un esempio. Paragoniamo il Nevada con l’Irlanda. Il loro clima può essere molto diverso, ma sono entrambi di dimensioni uguali in termini di popolazione e hanno economie simili. Entrambe le economie sono basate sulle proprietà immobiliari, sul settore finanziario, sull’attirare imprese in base a bassissime imposte sugli utili. Dopo il 2008 entrambe le economie sono cadute in una profonda recessione, che ha colpito principalmente il settore immobiliare e l’industria delle costruzioni.
La differenza sta nel modo in cui sono stati in grado di reagire. Immagina che le zone del dollaro USA fossero state costruite allo stesso modo dell’eurozona. Allora lo Stato del Nevada avrebbe dovuto trovare fondi per salvare le banche e anche per pagare le indennità di disoccupazione dei lavoratori dell’edilizia, e senza l’aiuto della Federal Reserve. In altre parole il Nevada sarebbe dovuto andare col cappello in mano a chiedere prestiti al settore finanziario. Considerato che gli investitori avrebbero saputo che il governo del Nevada non aveva una banca centrale a sostenerlo, o non gli avrebbero concesso prestiti oppure non lo avrebbero finanziato a tassi d’interesse ragionevoli. Così il Nevada sarebbe finito in bancarotta e lo stesso sarebbe successo alle sue banche e la gente del Nevada avrebbe perso le indennità di disoccupazione o i servizi sanitari o dell’istruzione. Dunque immagina, allora, che lo Stato si fosse recato col cappello in mano dalla Federal Reserve a chiedere aiuto. E immagina che la Federal Reserve gli avesse detto: «Vi concederemo il salvataggio e vi presteremo fondi a condizione che riduciate i salari, le pensioni e le indennità di disoccupazione del 20 per cento». Ciò avrebbe consentito allo Stato del Nevada di onorare i pagamenti a breve, ma l’austerità e la riduzione dei redditi e delle pensioni, ecc. avrebbero ridotto le entrate del Nevada e aumentato il suo debito relativo ai prestiti di salvataggio in misura tale che il Nevada sarebbe imploso. Se ciò fosse successo nel Nevada, sarebbe successo in Missouri, in Arizona, ecc., avviando un effetto domino in tutti gli Stati Uniti.
Dunque è questo che sto dicendo. Non c’è alcuna differenza in termini dell’importanza del settore finanziario e della sua tirannide sulla democrazia tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma la differenza è che negli USA c’è un insieme di istituzioni che sono meglio capaci di gestire crisi come queste e di evitare che si trasformino in una crisi umanitaria. Gli statunitensi hanno appreso le loro lezioni negli anni ’30. Il New Deal mise in atto istituzioni che agirono come ammortizzatori, mentre in Europa siamo ancora dove eravamo nel 1929. Stiamo permettendo che questa austerità competitiva distrugga un paese dopo l’altro fino a quando l’Unione europea non si rivolgerà contro sé stessa.
Dunque è ora di sostenere un’uscita dall’euro? Ritornare a una moneta nazionale non darà almeno una migliore opportunità di accountability democratica?
Questa naturalmente è una battaglia che ho in corso con i miei compagni in Grecia. Sono cresciuto in un’economia capitalistica periferica piuttosto isolata, con una nostra moneta, la dracma, e un’economia con quote e dazi che impediva il libero flusso di merci e capitali. E posso garantirti che era una Grecia parecchio tetra; non era di certo un paradiso socialista. Dunque l’idea tornare allo Stato-nazione per creare una società migliore per me è sciocca e implausibile.
Ora, io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali. È vero che l’euro è stato un disastro. Ha creato un’unione monetaria progettata per fallire e che ha assicurato sofferenze indicibili ai popoli dell’Europa. Ma, detto questo, c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne. A causa di quella che in matematica chiamiamo isteresi. In altre parole uscire non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati.
Alcuni fanno l’esempio dell’Argentina, ma la Grecia non è nella situazione in cui era l’Argentina nel 2002. Non abbiamo una moneta da svalutare nei confronti dell’euro. Abbiamo l’euro! Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, paesi come la Germania, la cui moneta è stata cancellata in conseguenza dell’euro, vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. E ciò si ripeterebbe dovunque in Europa orientale e centrale: in Olanda, Austria, Finlandia, in quelli che chiamo paesi in attivo. Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in paesi come la Germania) ed un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali).
Dunque, se torniamo nel bozzolo dello Stato-nazione, avremo una linea di faglia lungo il fiume Reno e le Alpi. Tutte le economie ad est del Reno ed a nord delle Alpi finirebbero in depressione ed il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica caratterizzata da elevata disoccupazione e inflazione.
Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta. Eventi di questo tipo non vanno mai a vantaggio della sinistra. Saranno sempre gli ultranazionalisti, i razzisti, i fanatici ed i nazisti a trarne profitto.
L’euro o l’Unione Europea possono essere democratizzati?
Fondiamo entrambe le cose per il momento. L’Europa può essere democratizzata? Sì, penso di sì. Lo sarà? Sospetto di no. Se mi chiedi le mie previsioni, io sono molto pessimista. Penso che il processo di democratizzazione abbia pochissime possibilità di successo. Nel qual caso avremo una disintegrazione ed un futuro molto cupo. Ma la differenza, quando parliamo della società o del tempo, è che al tempo non interessa un fico secco delle nostre previsioni, dunque possiamo permetterci di rilassarci e guardare il cielo e dire che pioverà perché una tale affermazione non influenza la probabilità che piova. Ma quando si tratta di società e di politica abbiamo un dovere morale e politico di essere ottimisti e di dire, d’accordo, di tutte le scelte che ci sono disponibili, qual è quella che ha meno probabilità di causerà una catastrofe? Per me si tratta del tentativo di democratizzare l’Unione europea. Penso che riuscirà? Non lo so, ma se non spero che ci riusciremo, non posso alzarmi dal letto al mattino.
Democratizzare l’Europa è una questione di rivendicare principi fondamentali o di sviluppare una nuova idea di sovranità?
Entrambe le cose. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. L’idea di sovranità non cambia, ma il modo in cui si applica ad aree multietniche e multi-giurisdizionali come l’Europa va ripensata. È sempre stato frustrante cercar di convincere i francesi ed i tedeschi che c’è una profonda differenza tra un’Europa delle nazioni e un’Unione europea. I britannici lo capiscono meglio, specialmente i conservatori, ironicamente. Sono sostenitori di Edmund Burke, anti-costruttivisti che ritengono che debba esserci una mappatura uno a uno tra nazione, parlamento e moneta: una nazione, un parlamento, una moneta.
Quando chiedo ai miei amici Tory: «Ma e la Scozia? Gli scozzesi non sono una nazione vera? E in tal caso non dovrebbero avere uno Stato e una moneta separate?», la risposta che ottengo assume la forma seguente: «Naturalmente ci sono una nazione scozzese, gallese e inglese e non c’è una nazione britannica, ma c’è un’identità comune, forgiata come esito di guerre di conquista, partecipazione all’impero e via di seguito». Se questo è vero, e può esserlo, allora è possibile dire che nazionalità diverse possono essere legate da un’identità comune in evoluzione. Dunque è così che mi piacerebbe vederla. Non avremo mai una nazione europea, ma possiamo avere un’identità europea che corrisponda ad un popolo europeo sovrano. Dunque manteniamo il concetto vecchio stile di sovranità, ma lo colleghiamo ad un’identità europea in sviluppo, cioè collegata da una sovranità e da un parlamento unici che mantengono pesi e contrappesi sul potere esecutivo a livello europeo.
Al momento abbiamo l’ECOFIN, l’Eurogruppo ed il Consiglio Europeo che prendono decisioni importanti per conto del popolo europeo, ma questi organismi non rispondono ad alcun parlamento. Non è sufficiente dire che i membri di queste istituzioni rispondono ai loro parlamenti nazionali perché i membri di queste istituzioni, quando tornano in patria per presentarsi al proprio parlamento nazionale, dicono: «Non guardate me. Io ero in disaccordo su tutto a Bruxelles ma non ho avuto il potere di prendere una decisione, perciò non sono responsabile delle decisioni dell’Eurogruppo o del Consiglio o dell’ECOFIN». Fino a quando questi organismi istituzionali non potranno essere censurati o licenziati come organismo da un parlamento comune non si avrà una democrazia sovrana. Dunque dovrebbe essere questo l’obiettivo in Europa.
Alcuni sosterrebbero che questo rallenterebbe il processo decisionale e lo renderebbe inefficiente.
No, penso che non rallenterebbe il processo decisionale, lo rafforzerebbe! Al momento, poiché non c’è questo tipo di responsabilità, non viene presa nessuna decisione fino a quando è impossibile non agire. Continuano a rimandare, rimandare, negare un problema per anni e poi abborracciano un risultato all’ultimo minuto. Questo è il sistema più inefficiente in assoluto.
Ora sei impegnato nel lancio di un movimento per la democrazia in Europa. Parlacene.
Il lato positivo del modo in cui il nostro governo è stato schiacciato l’estate scorsa è che milioni di europei sono stati allertati sul modo in cui è gestita l’Europa. La gente è molto, molto arrabbiata, anche persone che dissentono da me e da noi.
Da mesi sto girando l’Europa da un paese all’altro cercando di promuovere la consapevolezza delle sfide comuni che abbiamo di fronte e della tossicità che deriva dalla mancanza di democrazia. Questo è stato il primo passo. Il secondo passo è consistito nel diffondere un manifesto, poiché i manifesti sono importanti in quanto concentrano l’attenzione e possono divenire punti focali per le persone arrabbiate e preoccupate e che vogliono partecipare ad un processo di democratizzazione dell’Europa.
Così, nelle prossime settimane metteremo in scena un evento importante a Berlino (il 9 febbraio), tenuto là per evidenti motivi simbolici, per lanciare il manifesto e sollecitare gli europei di tutti e 28 gli Stati membri ad unirsi a noi in un movimento che ha un unico semplice programma: democratizzare l’UE o abolirla. Perché se permetteremo che le attuali strutture e istituzioni burocratiche e non democratiche di Bruxelles, Francoforte e Lussemburgo continuino a gestire le politiche per nostro conto, finiremo nella distopia che ho descritto in precedenza.
Dopo l’evento di Berlino abbiamo in programma una serie di eventi in tutta Europa che daranno al nostro movimento lo slancio necessario. Non siamo una coalizione di partiti politici. L’idea è che ciascuno possa aderire indipendentemente dall’affiliazione partitica e dall’ideologia perché la democrazia può essere un tema unificante. Possono aderire persino i miei amici Tory o liberali che sono in grado di capire che l’UE non è solo insufficientemente democratica ma antidemocratica e, per tale motivo, economicamente incompetente.
In termini pratici come immaginiamo il nostro intervento? Il modello della politica in Europa si è basato su partiti politici specificamente nazionali. Così, un partito politico cresce in un paese particolare, elabora un manifesto che fa appello ai cittadini di quel paese e poi, solo una volta che il partito si trova al governo, vengono compiuti dei tentativi di costruire alleanze con partiti che la pensano allo stesso modo in Europa, nel Parlamento europeo, a Bruxelles, ecc. Per quanto mi riguarda questo modello di politica è finito. La sovranità dei parlamenti è stata dissolta dall’eurozona e dall’Eurogruppo; la capacità di adempiere al proprio mandato al livello dello Stato-nazione è stata sradicata e perciò qualsiasi manifesto rivolto ai cittadini di un particolare Stato membro diventa un esercizio teorico. I mandati elettorali sono ora per definizione impossibili da adempiere.
Così, invece di passare dal livello dello Stato-nazione a quello europeo, abbiamo pensato che dovevamo fare l’inverso; che dovevamo costruire un movimento paneuropeo transnazionale, tenere un confronto in quello spazio per identificare politiche comuni per affrontare problemi comuni e, una volta ottenuto il consenso su strategie comuni a livello europeo, tale consenso potrà trovare espressione a livello di Stato-nazione, regionale e municipale. Dunque stiamo rovesciando il processo, partendo dal livello europeo per tentare di trovare consenso per poi scendere verso il basso. Questo sarà il nostro modus operandi.
Quanto alla tempistica, abbiamo diviso il prossimo decennio in diversi periodi, perché abbiamo al massimo un decennio per cambiare l’Europa. Se arrivati al 2025 avremo fallito allora non penso ci sarà un’Unione europea da salvare o persino di cui parlare. A quelli che vogliono sapere che cosa vogliamo ora la risposta è: trasparenza! Come minimo stiamo chiedendo che le riunioni del Consiglio europeo, dell’ECOFIN e dell’Eurogruppo siano messe in rete in tempo reale, che i verbali della Banca centrale europea siano pubblicati e che i documenti relativi ai negoziati sugli scambi, come il TTIP, siano resi disponibili in rete. Nel breve-medio termine discuteremo il ridispiegamento delle istituzioni UE esistenti nell’ambito dei trattati esistenti (per quanto orribili), con l’ottica di stabilizzare la crisi in corso nel campo del debito pubblico, della carenza d’investimenti, del settore bancario e della crescente povertà. Infine, nel medio-lungo termine, solleciteremo la convocazione di un’assemblea costituente dei popoli dell’Europa, con il potere di decidere sulla costituzione democratica futura che sostituirà tutti i trattati europei esistenti.
Sembra che stiamo vivendo in un periodo sia difficile che di speranza. Assistiamo alla crescente popolarità di partiti come Podemos in Spagna, della sinistra in Portogallo, di Jeremy Corbyn nel Regno Unito e così via, ma al tempo stesso abbiamo l’esperienza di SYRIZA schiacciata senza cerimonie della troika. Quale speranza ricavi da questi rifiuti popolari delle politica di austerità, considerata l’esperienza di SYRIZA?
Penso che l’ascesa di questi partiti e movimenti contrari all’austerità dimostri chiaramente che i popoli europei, non solo in Spagna e in Grecia, ne abbiano piene le scatole del vecchio genere di politica, delle politiche incentrate sull’uniformità che hanno riprodotto la crisi e spinto l’Europa su un percorso di disintegrazione. Non ci sono dubbi al riguardo.
La questione è: come possiamo guidare tale scontento? Nel nostro caso, in Grecia, abbiamo fallito. C’è un grande distacco tra la dirigenza del partito e le persone che l’hanno votato. È per questo che credo che concentrarsi sullo Stato-nazione sia una cosa del passato. Se Podemos entrerà nel governo lo farà nelle stesse condizioni estremamente limitanti imposte dalla troika, proprio come il nuovo governo in formazione in Portogallo. A meno che tali partiti progressisti siano sostenuti da un movimento paneuropeo che eserciti una pressione progressista dovunque e contemporaneamente, finiranno per frustrare i loro elettori, costretti ad accettare tutte le regole che impediscono loro di adempiere ai loro mandati.
È per questo che pongo l’accento sulla costruzione di un movimento paneuropeo. È perché il solo modo per cambiare l’Europa consiste nel farlo attraverso un’onda che sorga in tutta Europa. Altrimenti i voti di protesta che si manifestano in Grecia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, ecc. se non sono sincronizzati alla fine si dissolveranno, lasciando dietro di sé null’altro che l’amarezza e l’insicurezza prodotta dalla frammentazione inarrestabile dell’Europa.
Articolo pubblicato sul sito del TNI il 18 gennaio 2016 e sul sito di eunews.it
Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2016 (m.p.r.)
Fin dall’inizio è con le parole che l’Europa ha tradito. Quel che chiamò crisi del debito greco doveva chiamarlo, in osservanza del principio di realtà: crisi dell’intero progetto d’unificazione europea. L'imprecisione linguistica non è mai casuale. Serve a nascondere, è una strategia di evitamento. Circoscrivere la crisi al debito greco neutralizza le responsabilità dell’Unione, la spoliticizza. Ingrandisce i poteri di una governance sempre più incontrollata e sopprime quelli dei cittadini, che non sanno più a quale governo rivolgersi né dove sia la sovranità (governance non è governo: è potere senza imputabilità). Il progetto europeo nacque col proposito di curare i tre mali che avevano distrutto il continente: l'ingiustizia sociale, l'ostilità fra Stati, l'autoritarismo. Oggi quei fini non sono raggiunti.
Quanto accaduto dopo la vicenda greca conferma sia la crisi del progetto, sia la cecità delle élite che ne hanno la guida. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere rialzate caoticamente, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e l'Unione resta impigliata nella presunzione fatale che le ricette adottate siano l'unica e ideale soluzione, che le istituzioni comunitarie non necessitino cambiamenti radicali (o che vadano cambiate surrettiziamente, dando vita appunto a un grande potere tutelare senza imputabilità). Che l’unica sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività, anche se ormai molti economisti negano la natura indispensabile della competitività e la coincidenza tra le regole di un’azienda e quelle di uno Stato.
La presunzione fatale - espressione di Friedrich Hayek per definire il progetto sovietico e socialista -caratterizza i difensori di dogmi e svolte autoritarie, e non a caso aumentano nell’Unione i politici e governanti attratti da modelli più efficaci e rapidi, come quello del Pc cinese. L’allargamento a Est ha rafforzato il fascino esercitato dall’autoritarismo: non a caso una parte di Solidarnosc tesseva le lodi delle strategie economiche di Pinochet.
Alla rovina democratica dell'Unione si può reagire in due modi. Alla maniera di Cicerone, come lo racconta Shakespeare nel Giulio Cesare (“Buona notte Casca, questo cielo turbato sconsiglia di andare in giro”). Ma sarebbe rispondere alla strategia dell'evitamento con un comportamento analogo. Oppure si può entrare nella tempesta, denunciare a chiare lettere chi prima ha voluto il predominio disordinato dei mercati poi ne ha profittato per diluire il patrimonio democratico delle nazioni, e cercare di influenzare gli eventi chiedendo che l’Unione si dia una Costituzione democratica, vincolante per i cittadini, gli Stati, e anche le istituzioni. Una Costituzione che rispetti le Costituzioni delle nazioni, spesso più avanzate del Trattato di Lisbona e anche della Carta europea dei diritti.
È l'alternativa che teorizzò Albert Hirschman: o l’
exit o il
voice, la presa di parola critica all'interno della costruzione europea. Sono le oligarchie europee e i singoli governi ad aver perso il rapporto sia con le realtà vissute dai cittadini sia con il progetto europeo. Sono le oligarchie a ignorare che non si può cocciutamente violare i diritti delle persone e le Carte approvate dall’Unione, che non si può sprezzare sistematicamente i verdetti elettorali senza prima o poi pagare tutto intero un prezzo molto alto e distruttivo. I custodi dell’austerità neoliberale e della sorveglianza di massa non sono più al servizio della democrazia costituzionale. Fin dagli anni ‘70 sono tentati da Costituzioni accentratrici di poteri, e
l’establishment di Bruxelles è già nella logica dei regimi autoritari.
Basti ricordare la risposta di Cecilia Malmström, Commissario al Commercio a una domanda sul Ttip: a cosa sono servite le petizioni contro il Trattato transatlantico in vari Paesi europei (circa 4 milioni di firme)? La replica della Malmström: «Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo». Se la Commissione non ha ricevuto un mandato dal popolo, da chi lo riceve? Chi controlla il sempre più potente controllore? Da chi ricevono il mandato la Banca centrale europea, la troika e l’Eurogruppo, struttura completamente fuori dal controllo parlamentare e che non tiene verbali delle proprie riunioni? L’ottimismo panglossiano ha sempre fatto dire ai responsabili Ue: “L’Unione politica che farà funzionare l’euro e legittimerà i vari organi tecnici dell’attuale governance verrà, perché necessaria”. Non è venuta e non viene. Il presidente della Bundesbank già dice che non serve più.
Il negoziato con Atene ha offerto un'occasione decisiva per sperimentare e consolidare una sorta di diritto emergenziale permanente, uno stato di eccezione che sfigura senza più pudore il progetto europeo, e non i valori astratti ma i diritti iscritti nella Carta e gli obiettivi fissati negli articoli 2 e 3 del Trattato (pluralismo, tolleranza, giustizia, solidarietà, e piena occupazione, progresso sociale, sviluppo sostenibile). Il diritto emergenziale si applica in tempi di guerra, e dopo gli ultimi attentati i leader europei non esitano a proclamare proprio lo stato di guerra. Il caos alle frontiere è stato spesso acceso dalle nostre politiche estere.
L'Europa ha subappaltato agli Usa la gestione della pace e della guerra, ma gli Usa hanno mostrato di essere non una potenza creatrice di ordine internazionale, ma un impotente artefice di caos globale. In questo senso, l’Europa deve darsi subito una politica razionale e seria verso la Russia: tra le tante sue mancanze, questa è oggi la più vistosa. Se non si mobilitano al contempo l’exite il voice, non ci sarà modo di opporsi alla strategia dell’evitamento che permette all'Europa di ignorare ciò che ha suscitato al suo interno prima l'ansia, poi la chiusura mentale, infine la propensione ad autodistruggersi.
Il caso del Portogallo è, insieme a quello della Grecia, molto utile per comprendere che cosa sta accadendo nel nostro subcontinente nel suo governo e nelle sue società. Nel male e nel bene. Intervista di Valeria Cirillo e Dario Guarascio a Francisco Louçã.
Sbilanciamoci.info, 12 novembre 2015
L’impasse politica che sta investendo il paese, il protagonismo del Presidente della Repubblica, il peso dell’austerità e dei vincoli europei. La crisi portoghese come paradigma del corto circuito tra rispetto del vincolo esterno e l’esercizio dei poteri democratici. Intervistiamo Francisco Louçã, economista dell’Università di Lisbona, ex parlamentare e membro del Blocco di Sinistra.
Cosa sta avvenendo in Portogallo e cosa ha di nuovo la situazione attuale?
La novità principale è rappresentata dal cambiamento dei rapporti di forza parlamentari dato dal fatto che il partito di estrema destra – che è stato al governo negli ultimi anni – ha perso oltre un milione di voti – all’incirca il 12% - ed è ora in minoranza in parlamento. E, a quanto pare, non è più nelle condizioni di governare. Questo ha condotto, per la prima volta in quaranta anni, ad una discussione politica tra il partito socialista – partito tradizionale e conforme all’europeismo per come esso è oggi concepito a Bruxelles – ed i partiti della sinistra (il Partito Comunista ed il Blocco di Sinistra). Una discussione per tentare di costruire un’alternativa all’austerità ed alle politiche messe in atto sino ad ora. E questa è una grossa novità.
Come crede reagiranno la Germania e l’Europa di fronte alla possibilità che il Portogallo si doti di un governo contrario al proseguimento dell’agenda dell’austerità?
Wolfgang Schauble e Angela Merkel saranno più cauti questa volta perché vorranno sicuramente evitare un altro caso greco. Anche perché il governo che potrebbe emergere dall’accordo tra i socialisti portoghesi e la sinistra, e questo è importante sottolinearlo, sarebbe decisamente più moderato rispetto a quelli che erano i propositi del primo governo Syriza. Si tratterebbe di un governo principalmente incaricato di assumere delle misure emergenziali tese ad alleviare le sofferenze più acute degli strati bassi della popolazione. Per una questione di realismo politico, la Germania non ha intenzione di scatenare un nuovo conflitto. Credo che accetterebbe di confrontarsi con un governo di tipo socialdemocratico tanto più che non si tratterebbe di un governo di sinistra analogo al primo governo Tsipras. In ogni caso cercheranno, per quanto gli è possibile, di evitare che un tale governo possa nascere continuando a sostenere la necessità di una coalizione unitaria tra centro-destra e centro-sinistra.
Che forme e che intensità stanno assumendo le pressioni esterne sulla dinamica politica portoghese? Vi sono ingerenze analoghe a quelle andate in scena in Grecia durante le fasi più dure del confronto tra Tsipras e la Troika?
Ci sono ingerenze molto forti, ma non siamo ai livelli raggiunti in Grecia. Non abbiamo un intervento di destabilizzazione del sistema bancario ad opera della BCE come quello visto nel paese ellenico. Tuttavia, le pressioni ci sono e sono tutt’altro che nascoste dal momento che la Commissione Europea sta formalmente intimando a al futuro governo – di qualunque governo si dovesse trattare – di non azzardarsi a deviare dal programma prestabilito. Un programma che ha al suo centro una profonda riforma del sistema pensionistico ed un vastissimo piano di privatizzazioni che, tuttavia, non saranno attuabili nei termini indicati da Bruxelles nel caso la coalizione con la sinistra andasse al governo.
Come spiega, in un tale contesto, la scarsa intensità della reazione popolare e, più in generale, del conflitto sociale?
Fino ad ora, l’unica area politica che sta cercando di mobilitare la propria base è la destra. Tuttavia, la manifestazione andata in scena qualche giorno fa per dare sostegno al premier uscente ha visto una bassissima partecipazione. Meno di un migliaio di persone. Per quanto riguarda l’assenza di mobilitazioni popolari, penso che ci siano due spiegazioni fondamentali. In primo luogo, la situazione non è ancora chiara e le persone sono in attesa per comprendere cosa accadrà nelle prossime settimane. Inoltre, la struttura sociale è cambiata molto durante gli anni della Troika e questo ha avuto effetti anche sulla struttura e le dinamiche sociali. La percentuale di coloro che sono coperti da un contratto collettivo di lavoro è, dopo cinque anni di austerità e di riforme strutturali, precipitato ad un livello pari al 5% della forza lavoro totale. Questi lavoratori spesso scelgono di non prendere parte alle mobilitazioni per paura di essere licenziati. Le persone sono molto spaventate, e questa è, dal mio punto di vista, la principale spiegazione dell’assenza di mobilitazioni di massa contro l’austerità. Le persone sono spaventate dal rischio di rimanere senza lavoro.
Pensando a quanto è accaduto la scorsa estate in Grecia ed all’attuale crisi politica portoghese - con il ruolo anomalo esercitato dal Presidente della Repubblica il quale è parso negare la legittimità costituzionale ai partiti che non intendessero riconoscere la primazia degli attuali principi europei, e cioè dei principi dell’austerità - come vede la relazione, sempre più complicata, tra l’Europa e l’esercizio delle prerogative democratiche negli stati membri?
È una questione complicata. Per essere concreti, io penso che l’Europa abbia assunto una configurazione tale per cui al suo interno i governi non possono far altro che imporre austerità, vivendo perennemente nelle condizioni di debitori in difficoltà. Si tratta di un sistema che genera, in modo quasi naturale, politiche di destra e profonde restrizioni degli spazi di democrazia. Lo spettro delle scelte politiche – e in particolar modo delle scelte di politica economica – è fortemente ridotto dai vincoli di bilancio, dall’euro, dall’orientamento dell’OECD e delle altre istituzioni sovranazionali, dal dominio della Germania in Europa – con ciò che questo significa dal punto di vista del comportamento della borghesia europea. Tutti questi elementi stanno agendo in modo combinato contribuendo a produrre una progressiva riduzione della democrazia e della libertà di scelta politica dei popoli europei.
Che ruolo possono giocare, in questo quadro, le costituzioni nazionali? La difesa della democrazia potrebbe passare dalla difesa delle costituzioni nazionali e, in particolare, delle parti delle stesse che riguardano la tutela e l’esercizio dei diritti sociali?
Le costituzioni dei vari stati membri sono molto diverse tra loro. Tuttavia, nel caso portoghese, si tratta di una costituzione relativamente giovane, promulgata subito dopo la rivoluzione e caratterizzata da un forte progressismo. Anche quando è stata in minoranza in parlamento, ad esempio, la sinistra ha potuto sbarrare la strada alle misure maggiormente antipopolari derivanti dai pacchetti di austerità appellandosi alla Corte Costituzionale e sfruttando la forza della Costituzione nazionale. Io penso che questo sia un punto centrale. La costituzione è legata in modo decisivo alle prerogative popolari ed all’esercizio della sovranità. Non vi può essere democrazia senza sovranità. Senza la libertà, da parte del popolo, di assumere posizioni e decisioni politiche che possano anche contrastare con la visione dominante. Difendere tali spazi di democrazia e di sovranità popolare è l’unica strada per combattere la xenophobia, il razzismo e le misure antipopolari e antidemocratiche che sono nell’agenda delle destre. E per combattere a difesa degli interessi di chi è oggi si trova al fondo della scala sociale.
«La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ultimissimi giorni dagli italiani che vorrebbero un cambiamento anche qui. L’appello firmato l’altro ieri da alcuni protagonisti della sinistra è piccola cosa rispetto alle prospettive aperte da Tsipras».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
A fronte dei muri e degli eserciti che l’Europa costruisce e schiera per respingere i migranti in fuga da guerre, violenze, fame e povertà, l’altra guerra, quella economica che l’ha attraversata e deformata, sembra quasi eclissata. E lontana dai riflettori è tornata la piccola Grecia che della oppressiva campagna finanziaria è stata, e ancora resta, la cavia da laboratorio delle politiche liberiste. Ma nella terra del Partenone la resistenza invece continua. E per la terza volta in pochi mesi, dopo le elezioni di gennaio e il referendum di luglio, oggi le urne si riapriranno affinché di nuovo i cittadini possano esprimere la loro volontà politica. Per dire chi li dovrà governare e chi potrà meglio difendere gli interessi di milioni di persone.
Alexis Tsipras si rivolge ai greci chiedendogli la fiducia e la forza elettorale necessarie per guidare il paese. Però né il leader che chiama il popolo a sostenerlo, né il popolo che deve decidere se tornare a votarlo, sono gli stessi di qualche mese fa. Sulle spalle del giovane politico grava soprattutto il macigno del memorandum imposto dall’Europa. Per sostenerne il peso senza essere schiacciato, Tsipras ha bisogno di una forza notevole, in grado di accompagnarlo nella difficile, solitaria sfida per applicare le richieste europee. E nello stesso tempo deve trovare il modo di proteggere le classi sociali più colpite. Un’impresa dunque. Resa, se possibile, ancora più ardua dall’escalation del tragico esodo dei migranti che ogni giorno approdano sulle isole greche. Non è lo stesso popolo che ha lottato per allontanare il giogo delle misure economiche che hanno ferito i bisogni primari del lavoro, della salute, delle speranze delle giovani generazioni.
Quanto sia più complicato riportare al voto — e alla fiducia nella democrazia — i greci che il 25 gennaio avevano tributato a Syriza oltre il 35 per cento del consenso, meglio di tutti lo sanno Tsipras e il gruppo dirigente che lo sostiene. È lo spettro di una rassegnata astensione il nemico da battere. Queste elezioni rappresentano lo snodo cruciale per il futuro di un popolo e, insieme, sono il banco di prova dell’agibilità politica di un governo di sinistra nelle condizioni peggiori. Eppure, proprio per questo, si tratta — come abbiamo capito e imparato dai lunghi mesi di lotta di Syriza contro l’austerità europea — di un cimento che oltrepassa i confini ateniesi. Nel mare aperto, senza rotte tracciate da precedenti navigatori, che Tsipras ha scelto di attraversare, navigano tutte le sinistre europee, comprese quelle che in Italia vorrebbero vedere la nascita di una forza certamente radicale e al tempo stesso di governo.
Ogni giorno sperimentiamo la difficoltà di un progetto così ambizioso e inedito, perché nelle fasi di crisi economica, è molto più facile assegnarsi il ruolo di opposizione contro le politiche liberiste dei governi. E non pochi considerano una follia assumere il compito di governare quando la crisi, anzi, quando il crollo di un intero sistema economico e sociale, cancella i diritti e gli assetti democratici novecenteschi.
Per Tsipras sarebbe più semplice, di fronte al prezzo politico e personale da pagare, lasciare la Grecia nelle mani dei politici che dal 2009 ne hanno sgovernato l’economia. Sarebbe anche stimolante tornare nella terra conosciuta delle piazze, magari per chiedere il ritorno alla dracma come adesso reclamano gli esponenti di Unità popolare, fuoriusciti da Syriza.
Per il leader il bilancio è durissimo. Quel memorandum che occupa Atene come un panzer ha spaccato il «partito» e ha indebolito il governo. E allora perché sfidare la sorte in elezioni molto incerte? «Perché chi sta lottando, anche se viene ferito, non smette di lottare». Sono le parole dette al manifesto da Nikos Kotziàs, l’ex ministro degli esteri del governo Tsipras, e racchiudono in un’immagine vera tutto il significato del voto.
La sofferenza del popolo greco non troverebbe giovamento con il centrodestra, perché solo un governo di sinistra può tentare di alleviare le misure dell’austerità. Ma questo risultato elettorale va ben oltre, perché se c’è un modo per portare l’Europa a discutere del debito dei paesi del lato sud del Continente serve una vittoria alle urne.
La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ultimissimi giorni dagli italiani che vorrebbero un cambiamento anche qui. L’appello firmato l’altro ieri da alcuni protagonisti della sinistra è piccola cosa rispetto alle prospettive aperte da Tsipras. Perché dopo è venuta la Spagna con Podemos; perché un politico «socialista» ha vinto le primarie nel Labour Party; perché adesso in Italia finalmente si discute su come costruire una forza in grado di porsi come alternativa.
Dunque nel voto greco non è in gioco solo il destino di un leader e di un paese intero: c’è anche il futuro delle sinistre in Europa.
Un'intervista molto utile per rendersi conto del perché la sconfitta di Tsipras nella trattativa con gli avvoltoi dell'Unione europea non era evitabile, che cosa la vicenda abbia aiutato a comprendere, e quindi come si debba attrezzarsi nel continuare la lotta. S
bilanciamoci.info newsletter, 19 settembre 2015
Per la seconda volta, dopo il referendum di luglio, la Grecia va al voto con la liquidità a singhiozzo.Un inedito strumento di pressione della Banca centrale europea sulla politica greca. Intervista a Marika Frangakis, economista vicina a Syriza e membro del team di consiglieri economici del vicepresidente Dragasakis
“La firma del memorandum è stata una sconfitta, chi sostiene il contrario mente, ma la guerra non è finita e ora bisogna guardare avanti, alla prossima battaglia”. Come andrà è difficile da prevedere, molto dipende dal risultato che uscirà dalle urne greche domenica. Economista molto vicina a Syriza, membro del direttivo dell’Istituto Nicos Poulantzas e del coordinamento dell’EuroMemorandum Group, Marika Frangakis ha vissuto l’esperienza dei 5 mesi di governo sulla prima linea, membro del team di consiglieri economici del vicepresidente Dragasakis. La incontriamo a Roma, dove è arrivata per partecipare a una giornata di approfondimento sulla Grecia organizzata alla Camera da Le Belle Bandiere.
La Grecia va al voto di nuovo sotto il capital control, può spiegarci che cosa significa?
Il capital control è stato introdotto il 28 giugno scorso e si è reso necessario quando la Bce ha deciso di interrompere i prestiti alle banche greche. Per una economia come quella greca, basata sostanzialmente sul cash - basti pensare che prima del capital control appena il 5 per cento del denaro circolava tramite carte di credito o strumenti simili – questo ha creato un enorme problema di liquidità. Gli unici soldi in circolazione erano quelli della Banca nazionale greca e, senza misure di controllo dei capitali appunto, non sarebbero bastati nemmeno per due settimane. Perciò il capital control è stato lo strumento utilizzato per fare accettare l’accordo a Tsipras: se non avesse firmato avrebbe dovuto trovare liquidità altrimenti. Non è stata solo una forma di pressione ma un vero e proprio strangolamento. Le banche sono rimaste chiuse 3 settimane, hanno riaperto subito dopo la firma del memorandum ma il ritorno alla normalità è stato lento e ancora oggi c’è un limite ai prelievi che si possono effettuare dal proprio conto corrente: 60 euro al giorno, con la possibilità di prelevare una volta sola alla settimana. In più non bisogna dimenticare che il capital control era stato introdotto anche a Cipro e, a due anni dall’esplosione della crisi, è ancora in vigore. Temo che in Grecia ci aspetti qualcosa di simile.
Quindi il capital control continua ad essere uno strumento di pressione sulla politica greca?
Certo, la liquidità è un problema. Le banche hanno una liquidità limitata quindi la quantità di denaro in generale che serve all’economia è limitata e questo è un po’ paradossale perché la Grecia non ha un problema di solvibilità, ci sono molti asset di valore nel paese.
Come giudica il ruolo della Bce in questa crisi?
La Banca centrale europea ha mostrato la sua vera faccia. E a dirlo non sono analisti di sinistra ma commentari autorevoli come il professore belga Paul De Grauwe. Il compito della Bce dovrebbe essere quello di salvaguardare la stabilità del sistema monetario e non quello di fare pressione sul governo greco. Non dobbiamo dimenticare che il programma di Quantitative easing varato da Mario Draghi era appena iniziato quando Syriza è arrivata al governo. La tendenza generale era quella di immettere liquidità nel sistema – 60 miliardi circa in prestiti agli istituti di credito – ma quando è stato il turno della Grecia hanno semplicemente detto di no.
Parliamo dell’ipotesi di Grexit: conosceva il piano B di Varoufakis?
Certo, il programma elettorale di Syriza faceva menzione della possibilità di lasciare l’euro come strumento di pressione sui negoziati. Ma molto presto è diventato chiaro che anche i creditori avevano un piano per spingere la Grecia fuori dall’euro. A quel punto è stato chiaro che uscire dall’euro non era una valida alternativa. Aggiungo che una delle difficoltà, in genere poco considerate, è lo scarso appoggio che questo governo ha trovato all’interno dell’apparato dello Stato. Il settore pubblico, a cui il governo in genere si appoggia, in Grecia è, soprattutto ai suoi vertici, strettamente connesso ai partiti mainstream. Quindi apparentemente tutti erano estremamente gentili, ma quando si trattava di richiedere un dossier, dei dati aggintivi o altro i tempi si dilatavano inesorabilmente, tutto diventava impossibile, e alla fine eri costretto a lasciare perdere.
La crisi, anche quella greca, non è stata uguale per tutti. Che conseguenze ha avuto sulla società?
I dati ci dicono che la disoccupazione è cresciuta, come anche la povertà, le disuguaglianze, la distribuzione del reddito e della ricchezza. Questo perché le misure prese per il consolidamento fiscale fin dal 2010 hanno colpito la classe media e la parte più povera della popolazione. Le tasse sono aumentate e i tagli hanno colpito la sanità, l’istruzione, le pensioni, il salario minimo. Quindi tutto è andato nella direzione di un approfondimento delle disuguaglianze. Ai livelli alti gli effetti della crisi sono stati limitati perché quei salari che si aggirano sui 200 mila euro all’anno non sono stati colpiti. Il governo di Tsipras, anche se alla fine è capitolato, ha provato ad alzare le tasse sui redditi più alti, ma la troika era contraria. Era parte del gioco anche questo, un modo per i creditori di chiarire che le èlite come loro non sarebbero state colpite dalle misure, perché le èlite lavorano insieme.
Quale è dunque la lezione della Grecia per parafrasare un suo recente intervento?
Non credo che la sinistra abbia realizzato davvero quanto forti e intransigenti e inflessibili i creditori siano. Tu sei convinto di avere a che fare con persone ragionevoli quindi ti aspetti di riuscire a negoziare qualcosa. Quello che scopri invece è che loro sono disposti a tutto, persino a tollerare un danno economico, piuttosto che concedere qualcosa. Quindi la prima lezione è che se la sinistra vuole combattere l’austerità deve essere consapevole che gli avversari non sono persone ragionevoli ma persone disposte a tutto. La lezione numero due è che le persone in generale devono essere a conoscenza del modo decisamente poco trasparente in cui le istituzioni operano. Infine: bisogna porsi il problema di come influenzare il processo decisionale in un modo o nell’altro. In questo senso anche stare all’opposizione è importante.
«Italia. Dopo le polemiche sul "piano B" ora tutti fanno quadrato su Syriza. Anche Fassina: "Una sconfitta sarebbe la restaurazione"».
Il manifesto, 18 settembre 2015
Il voto greco si avvicina, i sondaggi prefigurano scenari cupi e la sinistra italiana, la sinistra-sinistra, fa quadrato intorno al leader greco. A Roma mercoledì scorso economisti e politici della famiglia rossa (ma anche di quella verde) si erano riuniti per un confronto con la greca Marika Frangakis, invitata dall’associazione «Le belle bandiere» e il gruppo di Sbilanciamoci a discutere del futuro dell’economia di Atene dopo la firma del Memorandum e alla vigilia di un probabile governo di coalizione.
Dibattito franco e aperto, come si usa dire in questi casi: infatti le distanze fra la direzione obbligata imboccata dal governo di Syriza e l’ormai famoso «piano B» per un’uscita cooperativa dall’euro (firmato Varoufakis, Mélenchon, Lafontaine e Fassina) si erano misurate in maniera anche ruvida. All’appuntamento, che si svolgeva in una sala di Montecitorio, ad un certo punto è comparso anche Gianni Cuperlo, leader della corrente Sinistradem del Pd che alle scorse elezioni aveva tifato per Tsipras, «speranza e opportunità per l’Europa». Non c’era invece Pippo Civati ma solo perché in questi giorni è impegnato nella raccolta di firme su otto referendum sui quali invece quasi tutto il resto della compagnia si è disimpegnato.
Ieri però sono tornati tutti uniti. A tifare per Tsipras. Marciando divisi, per non perdere le abitudini della casa. «La riconferma di Syriza e ad Alexis Tsipras può far sì che non si spengano le speranze dei progressisti per un cambiamento profondo delle politiche europee. La loro sconfitta segnerebbe invece un brusco passo indietro ed un appiattimento completo sulle politiche di austerità», dice un nuovo appello firmato da Civati, Elly Schlein e Sergio Cofferati (europarlamentari ex Pd), Ferrero (Prc), Forenza e Maltese (due dei tre europarlamentari eletti con la lista Altra Europa per Tsipras, la terza è Barbara Spinelli che però a maggio ha abbandonato la lista ed è rimasta a Bruxelles da indipendente), Fratoianni e Vendola (Sel) e dai due sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli.
Dopo il negoziato difficile, l’isolamento, la «reazione punitiva delle forze conservatrici», scrivono, Tsipras ha dovuto accettare il Memorandum «per evitare conseguenze ancora più gravi al popolo greco»; oggi una sua sconfitta «sarebbe una vittoria per le forze conservatrici che hanno imposto misure durissime per la popolazione greca».
Stessa musica, o quasi, anche da Stefano Fassina. Che resta convinto che il memorandum sia «insostenibile» ma sa che il risultato di domenica farà comunque la differenza: «La vittoria di Nuova democrazia comprometterebbe anche l’offensiva anti-corruzione e anti-evasione avviata dal governo Tsipras e metterebbe a rischio gli interventi umanitari introdotti. Il popolo greco con il voto può evitare la restaurazione», è la conclusione.
La ’brigata Kalimera’ partirà anche stavolta. Ma non sarà né affollata né spensierata come l’ultima volta. In piazza Syntagma, venerdì al comizio Tsipras, ci sarà di nuovo Revelli con la squadra dell’Altra Europa, Raffaella Bolini dell’Arci, Forenza e Ferrero e l’ex 5 Stelle Francesco Campanella. Anche dal resto d’Europa stavolta arriveranno molti meno militanti. E con molte ansie in più.
«Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati?».
Il manifesto, 17 settembre 2015 (m.p.r.)
Il trattato di Schengen è a un passo dalla fine. Non nel senso di una sospensione temporanea, ma in quello di una sua definitiva sepoltura più o meno mascherata. E, venuto meno il diritto alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea, il passo verso il suo completo disfacimento è con tutta evidenza assai breve. I trattati europei, come sappiamo, prevedono sospensioni e deroghe in caso di emergenza, principio a prima vista ragionevole. Ma l’emergenza è un’espressione tutt’altro che univoca. A volte, pur reale, come l’allarme lanciato dalle coste mediterranee italiane e greche, trova ascolto tardivo e reticente, altre volte discende dall’arbitrio di questo o quell’interesse nazionale, o dall’enfatizzazione strumentale di minacce immaginarie. Nel caso della grande ondata migratoria, poi, trattandosi di un processo storico di lunga durata (negli Usa c’è chi lo stima a un paio di decenni) tra sospensione e abolizione passa ormai poca differenza. Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati?
Dopo il nulla di fatto del vertice Ue di lunedì, l’appuntamento è fissato al 22 di settembre. Il tempo stringe, nel giro di pochi giorni può accadere letteralmente di tutto. Compresa l’eventualità che i soldati di Orban comincino a sparare sui profughi che tentano di sottrarsi alla cattura. Già siamo oltre l’immaginabile quando un paese dell’Unione schiera tribunali da campo e giudici da battaglia lungo la frontiera per esercitare «giustizia» sommaria sui migranti. Se un nazionalismo sempre più incarognito regna incontrastato in buona parte delle discutibili «democrazie postcomuniste», anche a occidente priorità e interessi nazionali si fanno pericolosamente strada. La «generosità» del governo di Berlino, subito celebrata come un ritrovato primato morale della Germania, lascia rapidamente il passo a un «ordinato» processo di assorbimento secondo i ritmi e le necessità della macchina economica tedesca. Questo significa frontiere sotto stretto controllo e un capillare sistema di filtraggio nei paesi di confine tra l’Europa e le terre del caos.
Sistema cui è stato conferito il nome civettuolo di hotspot. Mentre l’Unione regredisce verso un mercato comune, peraltro fortemente squilibrato, le sovranità nazionali si dedicano, una dopo l’altra, certo con strumenti e retoriche diverse, a edificare i propri muri legislativi e fisici. E le barriere non si situano esclusivamente ai confini dell’Unione. Prima l’euroscettica Gran Bretagna manifesta l’intenzione di sfoltire i cittadini comunitari che la popolano e vi lavorano, poi la Corte di giustizia europea autorizza la Germania a negare prestazioni e sussidi ai cosiddetti «turisti del welfare» e cioè a quei precari che si spostano nell’area Schengen verso i paesi in cui l’intermittenza del lavoro non equivale a indigenza assoluta. Ma Berlino non si accontenta della sentenza favorevole e vorrebbe rimuovere anche le poche limitazioni che la Corte pone all’estromissione dal sistema previdenziale. Infine c’è chi vorrebbe escludere i profughi dal salario minimo per favorire l’impiego dei meno qualificati. Per fortuna tanto la Spd, quanto la centrale sindacale Dgb si oppongono non tanto per il dichiarato intento egualitario, quanto nel timore di una competizione al ribasso sul mercato del lavoro.
Ma è noto che il governo federale si pone da tempo l’obiettivo di rendere «meno attraente» il sistema di welfare tedesco per smorzare gli appetiti dei migranti comunitari o extracomunitari che siano. Ciò può essere fatto in due modi. O escludendo i nuovi arrivati da una serie di diritti e tutele, istituendo di fatto una popolazione di serie B, alla faccia di ogni principio e al prezzo di future tensioni, oppure limitando gli ammortizzatori sociali per tutti attraverso una ulteriore torsione liberista della cosiddetta «economia sociale di mercato». Soluzione che incontrerebbe però non poche resistenze interne. Sono tutti scricchiolii che annunciano il cedimento strutturale del progetto europeo.
La crisi greca aveva già assestato un duro colpo non solo all’Europa politica, ma anche alla stessa tenuta economica e sociale dell’eurozona. Tuttavia le modeste schermaglie tra falchi e colombe più inclini all’opportunismo che ai buoni sentimenti, non aveva intaccato il quadro di una Europa complessivamente accodata all’egemonia di Berlino contro le rivendicazioni strenuamente “europeiste” del governo di Atene condannato all’isolamento. Ma non era ancora entrata in scena quella guerra di tutti contro tutti, quella diffidenza reciproca, quel riflesso protezionista, quella chiusura identitaria che la grande ondata dei profughi sembra avere innescato, cancellando in un batter d’occhio le parole edificanti di Angela Merkel. Il nazionalismo, come la chiusura delle frontiere, è un fenomeno altamente contagioso.
C’è da dubitare che Berlino o Bruxelles condurranno l’Europa ad imporre ai regimi semidemocratici dell’Est, presso i quali la Germania coltiva importanti interessi economico-finanziari, un memorandum politico altrettanto stringente di quello economico imposto alla Grecia. Se non possono essere cacciati dall’euro, altri strumenti di pressione sono comunque disponibili. Ma la Cancelliera si è affrettata a precisare che in questo caso le minacce non sono indicate. I sostenitori delle sovranità nazionali, che da destra e da sinistra strizzano l’occhio a Victor Orbán, certamente si indigneranno di fronte all’eventualità di un ennesimo «diktat» europeo sul diritto di asilo. Sia chiaro però con quali torvi personaggi, con quali contenuti politici, con quali infami ideologie si accompagnano sotto la bandiera della nazione e contro l’integrazione europea. Quanti concordano implicitamente con l’affermazione di Marine Le Pen secondo cui il discrimine «non è tra destra e sinistra, ma tra nazionalisti e mondialisti» si esprimano infine con altrettanta chiarezza. Sapremo così con chi abbiamo a che fare.
Il manifesto, 16 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo sgambetto con cui la cronista ungherese Petra Laszlo ha buttato a terra un profugo siriano che portava il proprio figlio in salvo da una guerra mai dichiarata è un’immagine plastica del cinismo e della crudeltà che domina le politiche dell’Unione Europea e traduce a livello individuale la brutalità con cui i suoi governanti hanno cercato di interrompere la corsa del governo Tsipras per portare in salvo il popolo greco da un disastro di cui non porta alcuna responsabilità. Un accostamento non casuale: l’Unione Europea non sarà mai in grado di accogliere milioni di profughi fino a che negherà diritti e imporrà solo doveri ai popoli dei suoi stati periferici. Quel padre poi si è rialzato e ha continuato la sua corsa, mentre non sappiamo ancora se Tsipras riuscirà a fare altrettanto.
In entrambi i casi, accanto a cinismo e crudeltà, balza evidente l’impotenza dell’Europa, che non ha soluzioni di lungo termine per sottrarre la Grecia e gli altri paesi troppo indebitati al disastro finanziario, ma anche sociale e ambientale, a cui li condannano le sue politiche; ma non ha nemmeno idea di come affrontare lo «tsunami» di profughi che la sta investendo e che rischia di portarla alla dissoluzione. Con le sue promesse Angela Merkel ha cercato di restituire dignità all’immagine della Germania, permettendo così a migliaia di cittadini di dar prova di una solidarietà straordinaria.
Ma ha sottovalutato sia le dimensioni effettive dei flussi che avrebbero investito il paese, sia le resistenze degli altri partner europei: la decisione sulle «quote» di profughi è stata rimandata sine die; le frontiere interne tornano a chiudersi in barba a Schengen, scaricando tutto il peso su Italia e Grecia, che dovrebbero invece farsi carico fin da subito delle richieste di asilo e dei respingimenti. E mentre il governo ungherese imperversa impunito con le barriere di filo spinato e arrestando centinaia di profughi che cercano solo di attraversare il paese, l’Unione approva la «guerra agli scafisti», che è una guerra vera.
Una guerra fatta per respingere profughi e migranti nel deserto che hanno dovuto attraversare, dove sono stati rapinati e violati, e da cui cercheranno comunque di tornare a imbarcarsi per altre vie.
A questa bancarotta delle politiche europee – niente aveva finora diviso così profondamente gli Stati membri e anche il nesso tra «crisi dei profughi» e rating dei debiti sovrani non è sfuggito all’occhio vigile dell’alta finanza — occorre saper contrapporre un’alternativa praticabile. Quei profughi, aumenteranno comunque, perché guerre, dittature, miseria e ferocia che sono andati crescendo ai confini diretti e indiretti dell’Unione dureranno per anni, e si aggraveranno ogni volta che si cercherà di venirne a capo con altre guerre. Ma se la Germania ha forza e mezzi per sostenerne l’urto e ricavarne dei benefici di lungo termine, gli altri paesi dell’Unione no. Manca, per gli Stati più fragili, una politica europea di accoglienza, che vuol dire dare casa lavoro, formazione, reddito per milioni di profughi destinati a restare sul suolo europeo per anni, perché l’Unione, con le politiche di austerità da cui non deflette, non è più in grado di offrire quelle stesse cose a decine di milioni di suoi cittadini che ne sono stati privati dalla crisi, o ne sono privi da ancor prima. E certo non può dare ai nuovi arrivati ciò che non vuol dare a chi ne è privo da tempo.
Ma accogliere è indispensabile: quel flusso di profughi non si fermerà per quanti sforzi si facciano per trasformare l’Europa in fortezza: sia con le armi che con l’ipocrita distinzione tra profughi (da accogliere) e migranti (da respingere). Preliminare a ogni politica di accoglienza è l’istituzione di corridoi umanitari che evitino ai profughi di rischiare la vita e di consegnare agli scafisti di mare e di terra migliaia e migliaia di euro ciascuno. E’ ciò di cui non si vuole mai parlare. Ma accogliere significa poi inserire i nuovi arrivati nella società, e farli accettare a una comunità riducendo al massimo quel senso di un’intrusione che tante forze politiche alimentano per ricavarne un dividendo elettorale. Non è un’operazione solo economica, anche se trovar casa e lavoro ha dei costi molto alti, i cui ritorni, come sanno gli industriali tedeschi, sono rilevanti, arrivano solo nel tempo. Chi lo può fare? Non certo il «mercato», cioè il sistema produttivo così com’è oggi, specialmente al di fuori della Germania. Ma nemmeno gli apparati statali, perché è un’operazione delicata che ha bisogno, anche, di «calore umano»: un bene che la burocrazia non può elargire se non per caso.
Affrontare in modo burocratico questo compito è il modo migliore per far crescere la conflittualità sociale. Meno che mai lo si può lasciare, come si fa in Italia, alla spontaneità di un «privato», sociale e non, reclutato a casaccio, in modo clientelare o mafioso, da prefetture o amministrazioni comunali, che ha devastato immagine e reputazione del terzo settore. L’accoglienza, in questa accezione, è la missione specifica e insostituibile dell’economia sociale e solidale. Nessun’altra componente della società europea è in grado di abbinare, sulla base di esperienze consolidate, inserimento lavorativo e inserimento sociale con progetti mirati. Per questo occorre che insieme, e non in ordine sparso, le reti dell’economia sociale e solidale (SSE) dei paesi dell’Unione si candidino al ruolo di soggetto promotore e attuatore di quel programma pluriennale di accoglienza che è indispensabile per affrontare un compito di questa portata. Il 28 gennaio 2016, su iniziativa del gruppo parlamentare GUE/Ngl e di molte reti dei paesi dell’Unione, si terrà un Forum europeo dell’economia sociale e solidale (una riunione preparatoria si è già tenute il 3 settembre).
Sarà un’occasione, preparandola per tempo, per lanciare questa candidatura, che dovrà sostanziarsi fin da ora in progetti specifici, nazionali, territoriali e settoriali. Ma per farlo occorrono alcune condizioni preliminari:
1. Bisogna, soprattutto in Italia — ma la dimensione europea può aiutarci — ricostruire un’immagine decente del terzo settore, che oggi è in gran parte macchiata dalle vicende di Buzzi, Cara Mineo e Co. Le componenti sane del terzo settore devono denunciare senza remore gli episodi di malaffare, ma anche di clientelismo, di cui sono a conoscenza; a partire dai propri, che non mancano — quasi — mai. Essenziale è garantire un regime di trasparenza totale su tutte le attività.
2. Occorre mettere a punto in tempi rapidi i principi generali e gli strumenti attuativi di un piano europeo di accoglienza e inserimento sociale e lavorativo dei nuovi arrivi con standard condivisi da tutti i paesi.
3. Occorre individuare i settori in cui dovrà operare questo piano che, per le sue finalità di integrazione sociale, dovrà riguardare in egual misura profughi, migranti e cittadini europei senza lavoro, senza casa o senza reddito.
4. Quei settori sono quelli portanti delle conversione ecologica che la COP 21 di Parigi dovrebbe mettere all’ordine del giorno a fine anno: energie rinnovabili ed efficienza energetica; agricoltura ecologica, soprattutto nelle terre oggetto di abbandono o degrado; salvaguardia degli assetti idrogeologici; recupero e ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma (a partire da quelli in cui potranno essere ospitati migranti e senzatetto); gestione e recupero di scarti e rifiuti; servizi alla persona. 4. Il piano dovrà essere accompagnato da una stima generale dei costi.
Che non sono solo quelli degli investimenti produttivi per «mettere al lavoro» milioni di persone, ma anche quelli relativi a tutti gli altri aspetti del loro inserimento. L’economia sociale e solidale non deve più essere un modo, come spesso accade, soprattutto in Italia, per risparmiare sui costi del lavoro. Deve mirare, al contrario, ad incorporarere molti altri oneri di carattere sociale.
Ovviamente non ci si può aspettare che l’Unione o qualche suo Stato membro risponda positivamente a questa proposta domani; ma è importante che essa venga sottoposta a un pubblico confronto perché è l’unica in grado di affrontare in modo adeguato i problemi posti dai nuovi flussi di profughi. E l’«opinione pubblica» oggi è in gran parte con noi.
Il testo integrale dell'articolo di Guido Viale è stato pubblicato su eddyburg col titolo L'Europa rifondata
«».
Qualche prima e veloce osservazione sul documento firmato da Varoufakis, Melenchon, LaFontaine e Fassina che propone una conferenza internazionale per un piano B di possibile uscita dall'euro.
Il guaio vero di questo documento non è solo che esso vede la luce nella imminenza delle elezioni greche e quindi rappresenta obiettivamente un attacco aperto alla linea seguita da Syriza. Ognuno è libero e quindi si assume le proprie responsabilità. Certamente non può fare finta di niente.
Con l'accordo che Tsipras stesso definisce pieno di rischi recessivi, quindi tutt'altro che bello, subito in condizioni ricattatorie, il governo greco aveva però ottenuto di porre la questione del debito come questione da discutere a livello europeo. Non solo per la Grecia, ma per tutti i paesi europei vittime dello stesso problema. Naturalmente restando nell'Eurozona. D'altro canto non vedo altro modo per fare oggi una conferenza - come ha più volte detto Syriza - se non all'interno di uno spazio comune.
Qui invece si propone una conferenza internazionale, cioè un altro atto pubblico, non , come disse precedentemente Varoufakis, un gruppo di lavoro che prepara con la dovuta riservatezza un eventuale piano d'uscita dall'euro da eseguire in tempi rapidi per evitare speculazioni distruttive. In questo modo il piano B diventerebbe inevitabilmente quello A, cioè il principale. Cioè l'uscita dall'euro.
Non sto a ricordare che questa uscita sarebbe traumatica e quindi ci vorrebbe molta accortezza nell'assumerla. Strumenti di governo, e non solo di opposizione, forti per contrastare la fuga dei capitali, le manovre speculative, l'aumento verticale della inflazione, la perdita ancora più veloce del potere d'acquisto di salari e pensioni.
Va ricordato che l'uscita dall'euro non eviterebbe al paese che lo fa di restare in balia dei mercati internazionali. Né di essere possibile preda del dominio tedesco. La Polonia ha una sua moneta, lo zloti, - e intende mantenerla a quanto mi risulta -, ma questo non ha evitato che essa potesse diventare un'articolazione subordinata dell'apparato produttivo tedesco. La forza di un paese non si determina dalla sua moneta. E' vero il contrario.
La forza di una moneta sullo scenario internazionale dipende dalla potenza economica, produttiva, politica e militare del paese che la sostiene. E' la storia del rapporto Usa-Dollaro. Se vogliamo che l'Europa diventi una forza politica, federale, capace di dire la sua nel processo di transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est è necessario che non venga smembrata o che diventi un protettorato tedesco, che sconta l'abbandono o la cacciata dei paesi mediterranei in particolare, che è precisamente l'obiettivo della attuale leadership germanica.
Perché non possiamo uscire dallUE, ma dobbiamo conquistarla. «Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato». Nonostante le aggressioni e gli abbandoni (da destra e da sinistra) dobbiamo continuare a sostenere Tsipras.S
bilanciamoci.info, newsletter, 11 settembre 20l5
Sono oramai quasi cinque anni da quando è deflagrato il problema greco, reso clamoroso dalla crisi mondiale ma da quella solo in minima parte causato: già da quando il paese, nel 1981, era entrato nella Comunità europea, primo fra i nuovi sud mediterranei, era risultato evidente che l’allargamento a questa nuova zona dell’Europa avrebbe dovuto indurre cambiamenti di non poco conto nella politica di Bruxelles. Con l’ingresso della Grecia, e qualche anno dopo della Spagna e del Portogallo, tutti e tre peraltro appena usciti dalla dittatura, la nord-centrica entità avrebbe dovuto fare i conti con un ineludibile problema: quello nord-sud (cui solo l’Italia era familiare). Che molti di loro avevano conosciuto solo nei termini del colonialismo.
Con lucidità, quando qualche mese dopo esser diventata membro della Cee la Grecia divenne titolare della sua presidenza di turno, il suo ministro degli esteri Charampopulos, dichiarò: «Accettiamo le responsabilità che ci derivano dalla presidenza, ma non possiamo per questo venir meno ai nostri vecchi giudizi... L’Europa dei sei e poi dei nove era l’Europa dei ricchi, del nord. L’Europa dei dieci e ancor più quella dei dodici sarà un’Europa che vivrà in modo acuto i problemi nord-sud che non possono esser risolti se non attraverso un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato, destinato ad approfondire la polarizzazione».
Charampopulos rappresentava il primo governo socialista del paese, quello di Andreas Papandreu, che tuttavia, dopo un buon esordio, dimenticò molte cose. Fra queste l’impegno a trarre le conseguenze dalla realistica considerazione espressa all’inizio dell’avventura europea. Era ancora lui al governo, e perciò membro del Consiglio dei Ministri europeo, quando questo, nel 1986, assunse una delle decisioni più cariche di conseguenze negative: la liberalizzazione del movimento dei capitali senza che alcuna altra misura compensativa delle sue possibili conseguenze fosse presa. E non risulta che Atene abbia obiettato, così come, del resto, nessuno dei molti governi socialisti che a quel tempo governavano. Così come assai poco obiettarono anche le sinistre all’opposizione, come nel caso italiano. La speranza di un’intesa mediterranea non si concretizzò mai.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nel 1993, per non parlare dell’Eurozona, il divario nord-sud diventa cronico. A questo punto anche ove fosse ipotizzabile il massiccio trasferimento auspicato dalla Grecia nel 1981, non sarebbe più sufficiente. Sarebbe necessaria una ridefinizione complessiva del modello e della strategia dell’Unione. Che come sappiamo non ci fu, né c’è tantomeno oggi.
Le risorse dell’Unione furono così sfruttate con spregiudicatezza per operazioni speculative, sovvenzioni a investimenti privati non programmati e non produttivi e un po’ di demagogica spesa pubblica elettorale.
Sappiano tutti cosa è accaduto dopo: nel 1998, quando la Grecia chiede di entrare nel sistema monetario europeo, il suo deficit è al 4,6 % e il suo debito pubblico al 108,5. Cifre troppo negative per ottenere il diritto all’ingresso nell’esclusivo club. Ma il nuovo governo socialista, quello di Simitis, dichiara, solo due anni più tardi, di aver messo tutto in regola e ottiene di entrare nell’Eurozona. E però non era vero, il bilancio era stato falsato. Da allora cresce un’abnorme evasione fiscale, sperpero e corruzione, mentre il paese viene posto sotto la miope tutela di Bruxelles, tanto più interessata a non vedere la realtà perché chi comanda in Europa sono i compagni di partito di quelli al governo ad Atene.
Poi la serie di prestiti micragnosi e condizionati da inaccettabili misure di politica economica: nel 2009 110 miliardi di euro (80 dall’Ue,30 dal Fmi) sulla base del Memorandum of Understanding, da ripagare in 13 tranches. Molto lucrativo per i creditori, soprattutto tedeschi. Inutile per la Grecia. Così come il secondo piano del 2010, basato su prestiti del Fondo Europeo di Stabilità Monetaria, dell’Fmi, e del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, e così come tutte le altre misure d’emergenza caoticamente e affannosamente varate in questi ultimi anni senza alcuna legittimazione democratica dei procedimenti posti in atto. Perché sempre finalizzate alla restituzione del debito, mai a creare le condizioni necessarie a far sì che tale restituzione fosse possibile: una profonda ristrutturazione dell’economia del paese e un rilancio degli investimenti per uno sviluppo sensato.
Il resto, quanto avviene nella società greca e i mutamenti politici che si innescano, fino alla controffensiva democratica di Syriza, è cronaca attuale.
Ma a questo punto non siamo più al dramma greco, siamo alla crisi dell’Unione Europea tutta: investita da proteste, scetticismo, perduta credibilità. Cui Bruxelles risponde accentuando ulteriormente la tendenza a escludere la politica, e dunque il controllo democratico, dalle decisioni. Siamo oramai nel pieno del modello post-parlamentare e post-democratico, quello auspicato dalla Trilateral più di quaranta anni fa, quando, con la fine della convertibilità del dollaro, ci fu il primo segnale della crisi epocale che viviamo ancor oggi. C’è troppa democrazia, il sistema non può sopportarla – proclamarono allora gli esponenti dell’Occidente, consigliando di non lasciare le questioni economiche in mano a parlamenti incompetenti, perché troppo delicate e complesse.
Di questo modello l’Ue è diventata anticipatrice, sollecitando i governi nazionali dei paesi membri a seguire un’analoga indicazione. (Quello di Matteo Renzi è il miglior allievo).
Era inevitabile che una vicenda che ha prodotto drammi sociali così gravi aprisse un dibattito acceso sulla strategia da perseguire per rendere meno pesante il ricatto cui il paese è stato sopposto anche con il chiaro intento di liberarsi di un governo «pericoloso» come quello di Tsipras: uscire dall’euro e fatalmente dall’Ue, oppure subire il compromesso e cercare di gestirlo per recuperare un rapporto di forza che renda possibile un’alternativa.
Gli articoli, le interviste, i documenti pubblicati nelle pagine di questo e-book aiuteranno ciascuno a farsi un’opinione più circostanziata. La questione ha tanti e drammatici risvolti che non c’è da meravigliarsi se si sono verificati, in Grecia e non solo, dissensi anche aspri e rotture.
Confesso di far fatica a entrare nel dibattito greco perché capisco le perplessità di chi in questi anni ha forse pensato che la strada sarebbe stata più facile e oggi si trova invece difronte a scelte durissime. Capisco la sofferenza di chi vive in prima persona la lacerazione di Syriza la cui unità è stata, anche per noi, un esempio e una speranza. Sono tutti, da una parte e dall’altra, compagni che stimo, moltissimi che conosco da tempo e per cui nutro anche molto affetto. Ma proprio perché la vicenda non è ormai più solo greca ma europea, e dunque riguarda anche noi non greci, non posso esimermi dal dare un giudizio, avere un’opinione. Che tiene conto del fatto che, nel giudicare, mi preoccupa il come riorganizzeremo le forze di un fronte di sinistra in grado di combattere per una diversa Unione europea.
Ho detto Unione e non solo Europa, perché credo sarebbe una catastrofe se ciascuno decidesse di andarsene, così perdendo il terreno comune di lotta, il quadro entro cui, per difficile che sia, si deve combattere. Tenendo a mente soprattutto che se c’è, nell’era della globalizzazione, una speranza di conservare un qualche controllo politico sulle sorti delle nostre società, dobbiamo continuare a puntare su una articolazione macroregionale del mondo, al cui livello non è pensabile possa esser costruito un ordinamento democratico.
Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato. (La Germania, forse, potrebbe permettersi un’uscita dall’Ue, né la Grecia e nemmeno l’Italia, costi quel che costi. Il prezzo di un exit sarebbe molto più caro.)
Non perdere l’Europa, anche perché – come ha scritto Balibar in questo volume – l’Europa è stata condotta dalla storia dei suoi movimenti sociali (delle dure lotte di classe che vi si sono svolte) a un grado di riconoscimento istituzionale dei diritti sociali come diritti fondamentali senza uguali. Non a caso la cosa che abbiamo più in comune per davvero in Europa è proprio il nostro sindacalismo, non mero agente del prezzo della forza lavoro, ma portatore di un’etica che ha penetrato il buonsenso comune. È vero che questo patrimonio è ormai gravemente minacciato, ma proprio per questo dobbiamo cercare di non lasciare che ce lo portino definitivamente via.
Per tutte queste ragioni sono d’accordo con la difficile scelta di Tsipras. Anche perché la sua sfida mi tiene, come sinistra italiana ed europea, dentro la battaglia. Che è buona cosa per noi non greci, ma anche – credo – per i greci. Sebbene sia consapevole che quanto fino ad ora abbiamo fatto sia così poco; e quello che siamo riusciti a imporre ai nostri governi niente.
«Sinistre. Fuori dall'euro: lo propone un manifesto firmato Varoufakis, Lafontaine, Mélenchon e Stefano Fassina. Lanciano una conferenza internazionale. Propongono di dire basta ai trattati-capestro». Positivo allargare lo sguardo e il conflitto dalla Grecia all'Europa, ma negativo sarebbe praticare un Grexit da sinistra.
Il manifesto, 11 settembre 2015
«Un piano B per la Grecia» era quello di Yanis Varoufakis, quello della famosa «moneta parallela», quando da ministro dell’economia, nel corso delle trattative tra il suo paese e la Ue, cercava di convincere il primo ministro Alexis Tsipras a non cedere al ricatto delle istituzioni europee e cercare strade alternative a quella che lui considerava una resa. «Un plan B» è lo slogan usato in queste settimane da Jean-Luc Mélenchon, leader del Parti de Gauche francese, nel Front de Gauche, per indicare una strada alternativa a quella dell’obbedienza, anche obtorto collo, ai trattati europei. «Un piano B in Europa» è il titolo di un dibattito sbocciato ieri a sorpresa nel programma della Fête de l’Humanité, storico appuntamento della sinistra francese in corso in questi giorni alla Corneuve, alle porte di Parigi. Si terrà domani alle 16 e 30. E sarà un evento per le sinistre di tutta Europa. I protagonisti sono un poker d’assi dei cultori del genere. Nessuno di provenienza ’estremista’, anzi: sono tutti ex socialisti o socialdemocratici. Ma sono tutti usciti dai rispettivi partiti contro la loro irresistibile e inarrestabile «deriva a destra».
Naturalmente il padrone di casa sarà Mélenchon, deputato francese e già leader del Front de Gauche; con lui Varoufakis, oggi ancora dentro Syriza ma in rotta di collisione con le politiche del suo governo; Oskar Lafontaine, ex ministro delle finanze tedesco, fondatore della Linke; e infine per l’Italia ci sarà Stefano Fassina, ex responsabile economico del Pd, ex viceministro dell’economia del governo Letta, oggi fuori dal partito di Renzi e tra i leader della “sinistra radicale”. Tutti e quattro ex tifosi di Alexis Tsipras, che però dopo la firma del memorandum non seguono più. Ma soprattutto tutti e quattro ormai convinti dell’impossibilità di mettere concretamente in atto politiche di redistribuzione della ricchezza, di creazione di lavoro, di transizione ecologica e ricostruzione della partecipazione democratica senza «rompere con questa Europa» ovvero «dentro i vincoli di questa Ue». Dopo le vicende greche e alla vigilia di un nuovo voto ad Atene, il tema dell’accettazione delle regole agita la discussione di tutte le sinistre radicali europee, inclusa quella nostrana. E a sinistra le discussioni si intavolano su un piano inclinato che porta alle scissioni.
L’intento naturalmente è opposto. I quattro hanno scritto nero su bianco un manifesto che verrà reso pubblico forse già oggi, alla vigilia del dibattito. Di fatto è il lancio, se non l’atto di nascita, di una nuova organizzazione della sinistra europea. O di un nuovo movimento. Delinea un programma di massima per «levarsi di dosso la camicia di forza del neoliberismo» che passa per l’abolizione del fiscal compact e l’opposizione al Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti.
Fino a qui sembrerebbero i soliti i fondamentali delle sinistre già raccolte all’europarlamento nel Gue e nella Sinistra europea. Ma stavolta c’è una netta scelta di campo: basta con i trattati, è il senso del discorso, mai più firme dei governi alle condizioni capestro proposte dalle istituzioni europee, basta capitolazioni sotto la minaccia del «rullo compressore» di «una parte» della Bce.
L’invito, cioè il Piano A, è a una campagna di disobbedienza civile europea contro le scelte e le «regole» fino all’ottenimento della rinegoziazione. I governi che rappresentano le oligarchie — è questo il ragionamento — hanno un loro piano A, ovvero piegare la resistenza dei paesi in crisi, e un piano B, ovvero espellerli dall’eurozona nelle peggiori condizioni distruggendone il sistema bancario e l’economia, come hanno minacciato di fare con la Grecia. Per questo le sinistre debbono attrezzarsi. Dotandosi di un piano A, appunto il tentativo di negoziare il cambiamento dei trattati, ma anche e soprattutto di un piano B: se l’euro non può essere democratizzato serve un modo per non dover cedere al ricatto, per assicurare che gli europei abbiano un sistema monetario che operi a loro vantaggio. Il documento evita i dettagli ’tecnici’, ma non si sottrae agli esempi: valute parallele, digitalizzazione delle transazioni, fino all’uscita dall’euro e la sua trasformazione da moneta unica a valuta comune.
In ogni caso tutto questo sarebbe impossibile, ragionano i quattro autori, senza un’azione europea coordinata e «internazionalista». Per questo domani a Parigi lanceranno la proposta di una conferenza aperta a tutti, cittadini, partiti e organizzazioni, da tenersi in tempi brevi, già a novembre.
Visto da Atene, è un dito nell’occhio di Alexis Tsipras, alla vigilia delle elezioni in cui si gioca l’osso del collo, e un incoraggiamento ai fuoriusciti di Unione popolare. Ma il manifesto non può essere letto solo in traduzione greca e suona assai più ambizioso. L’autorevolezza dei quattro autori è incontestabile. E anche il colpo di scena per tutte le sinistre europee, tormentate dalla discussione sull’uscita dall’euro, fin qui bandiera quasi esclusiva delle destre radicali e di pochi gruppi a sinistra.