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Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2018. Amaro resoconto dal luogo dove era nata la speranza di una Europa dei popoli e delle civiltà, assassinata dall'inettitudine della politica e dei politici dell'Unione europea, serva del capitalismo finanziario

«La resa - Non è rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan»

All’ingresso di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide metropoli mediorientali.

Nel centro di Atene, a pochi isolati dal Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.

“Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di permanenza 6 mesi, poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella – sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.

Agli studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le mafie dei passeur.

La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 difettosi venduti dagli USA.

La Grecia di Tsipras, nata per rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika (restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e quel che resta del sistema bancario.

Il nerbo del Paese è ormai in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta democratica.

In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

14 settembre 2017. Due realtà politiche molto vicine tra loro sia per la sostanza neoliberista e la maschera democratica dei partiti dominanti sia per l'assenza di un'alternativa di sinistra.

A un mese dalle elezioni parlamentari tedesche anche nella stampa italiana (p.es. l'Espresso 35/2017) si parla già di una "beatificazione" della Cancelliera Merkel ripetendo il cliché, caro alle destre, di un suo presunto "spostamento a sinistra" - dall'accoglienza dei migranti nel 2015 alle recenti riforme civiche. Eppure non si tratta d'altro che dell'abile pragmatismo conservatore della cancelliera che riesce spesso a cogliere delle tematiche nell'aria facendole sue, smontandole e rendendo obsolete le rispettive richieste politiche dell'opposizione. Questa è una prassi conservatrice collaudata in Germania, basti ricordare le riforme di welfare ante litteram di un Bismarck, che introdusse nell'Ottocento di fronte alla temuta avanzata della SPD già una prima previdenza sociale o del Cancelliere Adenauer, che varò nel lontano 1957 un consistente aumento delle magre pensioni di vecchiaia e il loro aggancio dinamico ai salari, assicurando con ciò la maggioranza assoluta alla sua CDU nelle elezioni successive.

Secondo tutte le previsioni la cancelliera seguirà dunque i suoi predecessori Kohl e Adenauer ponendosi per un quarto mandato alla guida del governo della Bundesrepublik, più che altro per la non-esistenza di una vera alternativa politica, ritornello ripetuto da anni dalla stessa Merkel. «Keine Experimente» (nessun esperimento): in Germania vince ancora quella vecchia massima della CDU, anni '60, contro cui la SPD già allora seppe contrapporre solo un timido: «Osare più democrazia!» ("Mehr Demokratie wagen".)

Eppure in Italia non ci si stanca di ammirare proprio quella stabilità politica tedesca contrapponendola alla deplorata instabilità italiana. Il che corrisponde alla realtà solo se si confrontano i numeri dei rispettivi governi nel dopoguerra, ma non la persistenza del blocco sociale ed economico al potere nei due paesi. Qui l'Italia potrebbe vantare addirittura una stabilità maggiore, dovuta ad un vero e proprio blocco del sistema delle forze al potere, non avendo mai permesso al maggior partito di opposizione di arrivare alla guida del governo. Solo dopo la fine dell'URSS, il conseguente scioglimento del PCI e la esplicita svolta della sua reincarnazione nel PD verso posizioni neoliberiste, questa ex-sinistra ha potuto - sempre per breve tempo e in coalizioni con varie forze del centro politico - assumere la guida del paese, per lo più per compiere le impopolari, ma decisive scelte europeiste come l'entrata nell'Euro e varie misure di deregolarizzazione economico-sociale. E lo stesso blocco sociale (nonostante le seguenti fantasiose denominazioni delle vecchie forze politiche in campo) dovrebbe continuare a guidare il Belpaese anche dopo le elezioni politiche del 2018, almeno secondo gli auspici di Berlino e Bruxelles, magari addirittura con una Grosse Koalition alla tedesca, tra una ri-berlusconizzata FI e il residuale PD.

Intanto la Grosse Koalition incombe ancora sulla Germania, nonostante essa in tre legislature abbia portato il partner minore, l'SPD, ad un declino che pare ormai inarrestabile. Lo stesso sfidante attuale, Martin Schulz, estratto ex novo dal cappello elettorale come un coniglio bianco, non è riuscito a smarcarsi da una impostazione politica troppo vicina a quella della cancelliera in carica. Dopo l'unico duello televisivo tra i due, percepito piuttosto come un “duetto”, Schulz viene anche già visto come possibile futuro vicecancelliere e ministro degli esteri. Anche in Germania - dove i partiti postbellici non hanno subito la Caporetto dei partiti italiani - le elezioni del parlamento federale si sono ormai da anni trasformate in confronti tra i singoli leader, ai quali gli elettori si sottomettono per lo più come sudditi. Ma la disaffezione ai partiti tradizionali si manifesta anche lì sia nell'astensionismo crescente, sia nella proliferazione di partiti minuscoli: nelle elezioni del prossimo 24 settembre gli elettori possono scegliere tra ben 21 liste diverse.

Rispetto alle elezioni del 2005 e del 2013 anche in Germania la prospettiva politica si è ulteriormente spostata a destra. Allora gli elettori si erano espressi ancora in maggioranza numerica proporzionale per i partiti a sinistra della Cdu/ Csu, ovvero per Spd/Linke / Grüne - una coalizione politica tuttora irrealizzabile tra queste forze - sicché di fatto la Merkel fu "senza alternativa" già allora. Ma questa volta la sinistra è fuori gioco dall'inizio e la questione di un'alternativa politica non si pone affatto (avendo Martin Schulz escluso dall'inizio una coalizione con la Linke). Decisivi per eventuali nuove prospettive di coalizione della Cdu/Csu saranno dunque i voti a favore dei partiti minori, che figurano ciascuno intorno al 10%, in prima linea i Verdi e di nuovo i liberali della FDP, risuscitati grazie ad un nuovo leader yuppi, oltre alla Linke e all' AfD, fuori dall'orbita di governo.

La crescente protesta sociale dei tedeschi non ha rafforzato la sinistra della Linke, ma si è raccolta negli ultimi anni intorno ad una destra, che si autoproclama abilmente come unica "Alternativa per la Germania "(Afd). L' affermazione di questo nuovo partito xenofobo, composto da varie anime più o meno estremiste, compresi elementi ex-democristiani e neo-nazisti, costituisce una preoccupante novità nel panorama politico. Per lunghi decenni la Cdu/Csu si era sempre vantato di aver tenuto fuori dalla sfera del governo federale i partiti "a destra della Csu", soprattutto i neonazisti dellla Npd e dei Republikaner, che non avevano mai oltrepassato l'ambito regionale.

Al riguardo è diffusa l'opinione chela svolta a destra sarebbe una conseguenza della politica generosa di Mutti Merkel verso i profughi, che in verità non sarebbero poi così benvoluti dal paese profondo, come voleva farsi credere. Con ciò non si mette in conto la crescita dei movimenti di destra già ben prima dell' estate del 2015, in seguito al crescente disagio sociale nei Länder perdenti (ad est come ad ovest) nella riconversione economica della Germania dopo l'affrettata riunificazione nazionale. Una tematica che la politica ha rimosso ormai da un quarto di secolo.

La Germania, il paese più ricco d'Europa, è storicamente connotata da una grande diseguaglianza economica, caratteristica rafforzata dalla riforma monetaria del 1948, attuata nelle zone occidentali sotto controllo degli alleati a guida USA, che anticipò la successiva divisione nazionale. Ma nella Repubblica federale il divario sociale venne mitigato negli anni della ricostruzione postbellica e del boom economico da strumenti di welfare crescenti. Un complesso sistema di sussidi sociali e di disoccupazione, smantellato dopo il 2000, ovvero razionalizzato secondo le direttive neoliberiste della Agenda 2010, aveva ancora tenuti a bada i milioni di disoccupati degli anni Settanta e Ottanta. La cosiddetta riunificazione aveva poi risollevata la bassa congiuntura economica e portato anche ad una profonda "riforma" sia delle condizioni di lavoro che del welfare unificato, ad opera della Spd del Cancelliere Schröder (2001/04). Fu l'inizio del lento declino politico alla Spd. Queste cosiddette riforme Hartz hanno precarizzato il lavoro e imposto ai disoccupati e ai lavoratori poveri (working poor) un rigidissimo controllo burocratico e sociale, difficilmente pensabile e ancor meno imponibile in paesi con strutture statali meno forti ed efficienti. Eppure proprio a questo “modello tedesco” dovrebbero ispirarsi anche gli stati più deboli economicamente, secondo il volere del governo di Berlino. Questo intende Angela Merkel quando parla dei “compiti a casa” (Hausaufgaben) per l'Europa, al momento è la Francia di Macron a provarci ancora.

E non mancano i tentativi di "riforma" neanche in Italia -da tempo nel mirino sono p.es. le pensioni italiane finora ancora "più ricche" percentualmente rispetto a quelle tedesche, che corrispondono ormai solo più al 47% dell'importo dell'ultimo stipendio (2016), con tendenza al ribasso. Ma in Germania esse vengono integrate, almeno per i più fortunati, da diverse forme pensionistiche aziendali o private, quasi inesistenti in Italia. Prove evidenti dell' inadeguatezza assoluta al bisogno reale delle nuove proposte di welfare in Italia sono anche i recenti progetti della REI, ovvero del magro sussidio previsto per appena un quarto dei milioni di poveri. In un' Italia deindustrializzata con milioni di disoccupati e senza massicci investimenti pubblici e privati per una riconversione dell'economia mancano i soldi per garantire la sopravvivenza a tutti, a meno che non si invertono i meccanismi di fondo che sorreggono l'economia europea. Ma di questo non si parla, non si discute nei comizi elettorali. E nei programmi dei partiti dominanti mancano - in Germania come in Italia - proprio delle visioni ampie per un futuro che possa affrontare in modo diverso le grandi contraddizioni e i compiti urgenti del nostro tempo.

Che cosa allora si dovrà aspettare domani un qualunque nuovo governo italiano da un reiterato governo della grande finanza tedesca a guida Merkel, con o senza Schäuble, ma con un probabile nuovo presidente della Bce (dal 2019) di cognome Weidmann? E chi dirigererà il nuovo ministero delle finanze europee appena propagandato dal Presidente Juncker?

«Il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie».

il manifesto, 26 marzo 2017

La cerimonia per celebrare i Trattati di Roma sarà ricordata nella storia dei posteri come quella dei nani sulle spalle dei giganti. L’Europa costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale oggi si è ritrovata nel salone degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio sommersa dalla retorica della pace mentre alle nostre frontiere il fenomeno migratorio ci ricorda ogni giorno che nuove macerie le stanno attraversando portando l’eco delle guerre.

Tante manifestazioni in programma, una partecipazione di migliaia di persone isolate per le piazze di una Roma spettrale, in un sabato pomeriggio che ha svuotato la città, con le strade deserte occupate da vigili urbani mai visti così numerosi a ogni angolo del centro storico. E naturalmente con uno spiegamento massiccio delle forze dell’ordine per i venti di guerriglia che giornali e televisioni annunciavano a tamburo, formidabile antidoto a una partecipazione più larga.

Così il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie. A parlare di povertà, di lavoro, invitando la gente ad «abbracciare i confini».

Difficile del resto appassionarsi alla cerimonia del Campidoglio, ai discorsi ufficiali dei capi di stato e di governo. La scena mediatica, che avrebbe dovuto celebrare i fasti di un Renzi vittorioso al referendum del 4 dicembre, ha ricevuto la tranquilla accoglienza del suo successore. Che ha svolto diligentemente il suo compito. Come anche il presidente Mattarella che è tornato a insistere sulla necessità di una nuova Costituzione dopo averne già sottolineato l’urgenza nel discorso davanti alle Camere riunite, per una riforma dei trattati, per dare una nuova Costituzione all’Europa. Ma proprio ritrovarne le ragioni profonde non è semplice né scontato. Se a parole e nei riti della ricorrenza, con dosi di retorica pari alla mancanza di solennità, tutti hanno parlato dei problemi sociali, dell’economia che si nutre delle diseguaglianze, nei fatti le promesse e gli impegni di costruire un’Europa sociale sono contraddetti dalle vicende degli anni recenti come l’esempio della Grecia dimostra con le sue sofferenze. Per iniziare un processo costituente bisognerebbe battersi per quei valori che noi italiani abbiamo appena difeso con il referendum del 4 dicembre, quando abbiamo fatto scudo alla Costituzione che vorremmo vedere riflessa a fondamento di un’altra Europa, di un altro progetto politico. Quello schieramento che si è unito nel referendum era in piazza, con la destra e la sinistra presenti con parole d’ordine che hanno trovato espressione trasversalmente agli schieramenti, tra nazionalismi risorgenti e principi europeisti messi a dura prova dal grande sonno delle classi dirigenti. Più vicine agli Orazi e Curiazi che allo spirito di Ventotene.»La cerimonia per celebrare i Trattati di Roma sarà ricordata nella storia dei posteri come quella dei nani sulle spalle dei giganti. L’Europa costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale oggi si è ritrovata nel salone degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio sommersa dalla retorica della pace mentre alle nostre frontiere il fenomeno migratorio ci ricorda ogni giorno che nuove macerie le stanno attraversando portando l’eco delle guerre.

Tante manifestazioni in programma, una partecipazione di migliaia di persone isolate per le piazze di una Roma spettrale, in un sabato pomeriggio che ha svuotato la città, con le strade deserte occupate da vigili urbani mai visti così numerosi a ogni angolo del centro storico. E naturalmente con uno spiegamento massiccio delle forze dell’ordine per i venti di guerriglia che giornali e televisioni annunciavano a tamburo, formidabile antidoto a una partecipazione più larga.

Così il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie. A parlare di povertà, di lavoro, invitando la gente ad «abbracciare i confini».

Difficile del resto appassionarsi alla cerimonia del Campidoglio, ai discorsi ufficiali dei capi di stato e di governo. La scena mediatica, che avrebbe dovuto celebrare i fasti di un Renzi vittorioso al referendum del 4 dicembre, ha ricevuto la tranquilla accoglienza del suo successore. Che ha svolto diligentemente il suo compito. Come anche il presidente Mattarella che è tornato a insistere sulla necessità di una nuova Costituzione dopo averne già sottolineato l’urgenza nel discorso davanti alle Camere riunite, per una riforma dei trattati, per dare una nuova Costituzione all’Europa. Ma proprio ritrovarne le ragioni profonde non è semplice né scontato.

Se a parole e nei riti della ricorrenza, con dosi di retorica pari alla mancanza di solennità, tutti hanno parlato dei problemi sociali, dell’economia che si nutre delle diseguaglianze, nei fatti le promesse e gli impegni di costruire un’Europa sociale sono contraddetti dalle vicende degli anni recenti come l’esempio della Grecia dimostra con le sue sofferenze. Per iniziare un processo costituente bisognerebbe battersi per quei valori che noi italiani abbiamo appena difeso con il referendum del 4 dicembre, quando abbiamo fatto scudo alla Costituzione che vorremmo vedere riflessa a fondamento di un’altra Europa, di un altro progetto politico. Quello schieramento che si è unito nel referendum era in piazza, con la destra e la sinistra presenti con parole d’ordine che hanno trovato espressione trasversalmente agli schieramenti, tra nazionalismi risorgenti e principi europeisti messi a dura prova dal grande sonno delle classi dirigenti. Più vicine agli Orazi e Curiazi che allo spirito di Ventotene.

«Il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati

». Huffingto Post online, 25 Marzo 2017 (c.m.c.)
ùIl processo di unificazione Europea, di cui celebriamo il sessantesimo compleanno, ha aperto la strada a una nuova cittadinanza. Studiosi della politica e giuristi hanno abbondantemente illustrato il paradigma post-nazionale e sovranazionale della libertà politica che dissocia la cittadinanza dalla nazionalità. Si tratta di una rivoluzione non meno epocale di quella del 1789 che, per ripetere le parole di Hannah Arendt, inaugurò la «conquista dello stato da parte della nazione» e in questo modo l’inizio della democratizzazione.

La storia dell’Europa moderna conferma che mentre la formazione dello stato territoriale ha unificato il corpo dei sudditi della legge è stata la sovranità nazionale a rendere gli stati democratici. Il diritto che ha segnato questo mutamento epocale è quello di e/immigrazione, ovvero la libertà di movimento, delle persone e dei beni.

L’Unione europea nacque sulla libertà di movimento ma con un’ambiguità economica che non è scomparsa, nemmeno quando con il trattato di Lisbona la cittadinanza europea è stata consolidata da una famiglia di diritti costruiti attorno al “libero movimento” e alla “non discriminazione” tra gli Stati membri e all’interno di essi. Pur riconoscendo che l’immigrazione è un fatto fondamentale della vita umana, che riflette la ricerca di individui e collettività di migliorare la propria condizione di vita, ha scritto Ulrich Preuss, essa non mai ha di fatto tolto di mezzo le ragioni economiche per il diritto di movimento e il ruolo degli Stati membri. È vero che, comunque, le ragioni economiche non furono mai così preponderanti da bloccare lo sviluppo di decisioni riguardo la cittadinanza dell’Unione europea e da dare a quest’ultima uno status giuridico formale (il Trattato di Maastricht del 1993) e aumentarlo incrementalmente con i successivi trattati di Amsterdam (1999), Nizza (2003) e Lisbona (2009). Ma tutto questo è avvenuto prima della grande crisi finanziaria.

È stata sufficiente questa crisi a mostrare le ambiguità: il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati.

All’inizio del processo europeo di unificazione, quell’ambiguità si applicava essenzialmente all’immigrazione interna (l’antica preoccupazione degli anni ’50 e ’60). Successivamente si è applicata all’immigrazione extracomunitaria, formando sia la politica di integrazione con gli immigrati irregolari (descritti come cittadini di Paesi terzi) sia quella della repressione con i migranti sans-papiers. Joseph Weiler ha così argomentato che «la cittadinanza europea equivale a poco più di un cinico esercizio di pubbliche relazioni e che anche il più sostanziale diritto (al libero movimento e alla residenza) non è concesso secondo uno status dell’individuo in quanto cittadino ma in ragione delle capacità dei singoli come fattori di produzione».

Se il diritto fondamentale di libertà di movimento è così direttamente connesso a ragioni economiche – la circolazione di una forza lavoro concorrenziale – ciò significa che i confini nazionali sono interpretati e utilizzati come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro. Essi diventano il centro del conflitto tra opposti interessi, nel senso che i lavoratori stranieri (che minacciano la classe lavoratrice di una nazione accettando di lavorare senza la stessa protezione sociale e gli stessi salari della classe lavoratrice nazionale), incontrano gli interessi di quei settori economici la cui competitività si basa sul lavoro a basso costo. Questo è stato il ragionamento (populista ma non irrazionale) che ha guidato gli elettori nel referendum su Brexit.

Questo conflitto è il cuore di ciò che James Hollifiel ha chiamato il “paradosso liberale”, il fatto che una società democratica basata sul libero mercato e sulla libertà di movimento conserva un tratto di chiusura legale al fine di proteggere il contratto sociale tra lavoro e capitale, così riconoscendo che il proprio welfare presuppone una società chiusa e uniforme. Strategie di chiusura legale non sono necessariamente e brutalmente di tipo diretto (bloccando i confini, incarcerando e rimpatriando gli immigrati irregolari).

Di fatto, sono strategie per la maggior parte indirette, in modo particolare quando sono rivolte agli immigrati regolari, per esempio limitando i loro diritti civili e sociali, rendendo loro difficile la naturalizzazione, restringendo il loro accesso ai servizi sociali o impedendo i ricongiungimenti familiari. Dunque, per gli Stati europei, e ora anche per l’Unione europea, riguadagnare il controllo dei propri confini equivale ad ammettere che “il controllo dell’immigrazione può richiedere una riduzione dei diritti civili e dei diritti umani per i non cittadini”.

È sull’immigrazione che si gioca quindi il futuro dell’Unione: su questo diritto è sorta e su questo stesso diritto può cadere se lascerà che i singoli stati membri regolino le loro politiche delle frontiere in maniera nazionalistica (come del resto stanno già facendo ad Est). Non sembrano esserci altre soluzioni al problema europeo: perché l’Unione sopravviva deve farsi politica e avere un potere federale capace di imporsi ai governi degli stati membri. Una soluzione più utopistica oggi di sessant’anni fa, nonostante quell’Europa venisse da una carneficina mondiale e questa da sei decenni di pace.

«Il problema dell’Unione europea non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia ». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)

Al momento delle sue ultime elezioni l’Olanda è stata irrisa da tutti perché si è saputo che concorrevano ben 28 partiti. In realtà non c’era niente da ridere: grazie al privilegio di una legge rigorosamente proporzionalista, senza trucchi maggioritari, gli olandesi, con quei loro 28 partiti, hanno potuto rendere esplicita la crisi di rappresentanza che ormai percorre l’Europa, sconvolgendo antiche e storiche costellazioni politiche, producendo una varietà di fenomeni sbrigativamente catalogati col termine di populismo. La crisi del sistema democratico appare ormai in tutta la sua evidenza.

Di questo sarebbe bene che i rappresentanti dei 28 stati europei riflettessero oggi a Roma. Perché larga parte delle responsabilità di questa ormai profonda crisi di fiducia stanno proprio nel modo come è stata gestita l’Unione in questi sessant’anni che oggi invece si festeggiano.

Non lo faranno, ne sono certa: ricorreranno, come sempre, alla più insipida retorica.

Nel parlare di questo anniversario ci sarebbero mille cose da dire. L’elenco dei problemi all’ordine del giorno è lungo e drammatico. Non vi accenno, perché sono noti a tutti e tutti i giorni ne parliamo.

Temo che dal vertice celebrativo di Roma non uscirà nulla di serio, casomai solo qualcosa di preoccupante, come la già sbandierata proposta di rafforzare la nostra comune potenza militare (peraltro già ragguardevole, contrariamente a quanto si pensa), come se il possesso di un numero maggiore di cannoni potesse darci maggiore sicurezza contro il pericolo terrorista. O più autonomia dagli Stati uniti.

In realtà per riavviare qualche interesse per l’Unione europea, in un momento in cui più scarso non potrebbe essere, ci vorrebbe proprio una riflessione sul perché le tradizionali forze europeiste – di sinistra ma anche di destra – hanno a tal punto perduto la fiducia dei loro elettori.

E’ accaduto per molte ragioni ma essenzialmente perché si è andato sempre più confondendo il progetto europeo con quello della globalizzazione: l’Europa anziché smarcarsene, riaffermando la sua positiva specificità (a cominciare dal welfare ma soprattutto dalla sua storica maggiore distanza dalla mercificazione di ogni aspetto della vita), vi si è piattamente sempre più allineata.

E allora, perché l’Europa? Che senso ha, se resta niente altro che un pezzetto anonimo del mercato mondiale?

Costruire una nuova entità supernazionale, dotata di una qualche omogeneità culturale, sociale, economica e dunque politica, non è obiettivo facile. Tanto più se si pensa che la storia dell’Europa è storia delle sue nazioni, diverse in tantissime cose, a cominciare dalla lingua che vi si parla. Ma proprio per questo bisognava aver cura della società e non impegnarsi tecnocraticamente a costruire una pletorica macchina burocratica totalmente anti-democratica.

Senza un soggetto europeo, un popolo europeo in grado di diventare protagonista, dotato di quei corpi intermedi che danno forza all’opinione pubblica – sindacati, partiti, media, associazioni – come si può pensare di chiedere redistribuzione di risorse, solidarietà anziché competizione, comune sentire? Il problema dell’Unione europea, insomma, non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia.

Torno a richiamare la riflessione su un ultimo esempio: un mese fa la Bayer ha comprato la Monsanto, un puro accordo commerciale privato internazionale. Che avrà però per tutti noi conseguenze pesantissime, molto più rilevanti di qualsiasi altra deliberazione parlamentare.

Crediamo davvero che un’ Italietta che riacquista la propria totale sovranità nazionale potrebbe esercitare un controllo su simili decisioni? Se c’è una speranza di recuperare qualche forma di de-privatizzazione delle decisioni ormai assunte dai colossi operanti sul mercato internazionale l’abbiamo se daremo più forza a una delle entità in cui la globalizzazione potrebbe articolarsi, l’Europa, per l’appunto. Ma non una Europa qualsiasi, non l’attuale, bensì solo a una entità politica che abbia ridisegnato un modello di vera democrazia adeguato alla nostra epoca. Che ha come premessa il diritto-potere del popolo di contribuire alla determinazione delle scelte che lo riguardano.

Un tempo si chiamava “sovranità popolare” ed era intesa come “nazionale”; ora dobbiamo coniugarla come “europea”, ma senza, per questo, perdere la sostanza del termine sovranità e popolare.

Per questo è importante l’iniziativa delle tante associazioni, a cominciare dalla “mia” Arci, che, con il titolo “La nostra Europa”, ha promosso seminari e incontri in questi due giorni e oggi la marcia che parte alle 11 da piazza Vittorio.

E’ diversa da tutte le altre in programma: perché vuole dire sì all’Europa ma insieme che deve cambiare profondamente. E anche che per dare consistenza a questo obiettivo bisogna cominciare a dare protagonismo ai cittadini europei, non come individui, ma come soggetto collettivo. “La nostra Europa” ne è l’embrione.

« L'ex ministro greco, presenta un

New Deal europeo. Un piano in due tempi: subito proposte dirompenti per l’economia e il lavoro, poi una Costituzione che sostituisca i trattati». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)

Diem 25 (Democracy in Europe Movement), il movimento paneuropeo fondato dall’ex ministro greco dell’economia Yanis Varoufakis un anno fa a Berlino, oggi torna a Roma per presentare il suo programma economico. È il primo passo per approntare un’agenda «progressista» nella prospettiva delle elezioni europee del 2019. Entro il 2025, Diem intende «democratizzare l’Unione Europea», sempre che ne esisterà una tra otto anni. Nel frattempo propone un «dialogo» con le forze politiche esistenti per individuare una forma politica capace di dare vita a un «terzo spazio» oltre i liberismi, i sovranismi e i populismi «che vogliono recuperare un passato che non è mai esistito e vivono del rigetto dell’establishment» sostiene il co-fondatore italiano Lorenzo Marsili. Sul piatto Diem mette 60 mila iscritti in Europa, 8 mila in Italia. Oggi Varoufakis sarà alla manifestazione «La nostra Europa» che parte alle 11 da piazza Vittorio.

Dalla dichiarazione di Roma oggi non arriverà alcuna svolta per un’Europa agonizzante. Il futuro sarà l’Europa a due velocità sostenuta da Italia, Spagna, Francia e Germania, ma rifiutata dal blocco dell’Est?
Questa soluzione mi intristisce. Esiste già da molto tempo. È un revival della proposta Juncker sulle geometrie variabili dell’Unione Europea. Se questo è il futuro significa che questi politici si dichiarano già sconfitti e non sanno dove portare questo continente. Quella che stanno celebrando è la distruzione dell’Unione Europea e il suo approccio business as usual che alimenta populismo, xenofobia e reazione.

Cosa propone Diem 25 per uscire da questa impasse?
Una strategia in due tempi: ora un New Deal europeo, proposte economiche dirompenti, attuabili già da domani mattina, a trattati vigenti di cui non sono affatto orgoglioso. Dopo avere affrontato seriamente il problema della povertà di massa e della cronica mancanza di investimenti, promuovere un’assemblea costituente paneuropea che elabori una costituzione democratica e sostituisca tutti i trattati.

Un tentativo di costituzione europea è stato respinto nel 2005 dai referendum in Francia e in Olanda, soprattutto da sinistra che ha contestato la natura neoliberista di quel testo. Questo nuovo, eventuale, tentativo sarà diverso e in che modo?
Non può che essere diverso. La prospettiva è costruire una repubblica europea su base federalista e che coinvolga tanto i parlamenti quanto le autonomie locali, sempre a partire dai cittadini e dalle loro città. Questo non sarà possibile farlo finché l’Europa continuerà a disgregarsi. Non sarà possibile parlare di una simile prospettiva finché dalla Grecia alla stessa Germania ci sarà la paura di perdere il lavoro o di non trovarlo.

Cosa prevede il «New Deal europeo» che presenterà stasera alle 20 al teatro Italia di Roma?
Un piano di investimenti per la riconversione ecologica da finanziare con un nuovo uso del Quantitative Easing con il quale, oggi, la Bce di Draghi acquista titoli di stato e delle imprese. È basato su un rilancio della Banca Europea degli investimenti. La Bce dovrebbe acquistare i suoi bond per finanziare gli investimenti. Inoltre vanno assicurati i beni di prima necessità e il diritto a un alloggio degno da finanziare con i profitti delle banche centrali europee. I rendimenti del capitale e della finanza vanno socializzati.

Diem 25 si sta configurando come un movimento politico trans-europeo. Quali saranno i suoi prossimi passi?
Abbiamo rivolto un invito aperto, e non una lista di cose da fare, ai partiti, sindacati, movimenti, ai cittadini. Confrontiamoci nei prossimi due mesi. Il 25 maggio ci incontreremo alla Volksbühne di Berlino, a un anno dalla nostra fondazione, per avviare un processo politico elettorale in vista delle prossime europee. Il processo prenderà forme diverse in ogni paese per dare una declinazione nazionale dell’agenda che avremo discusso e condiviso.

Da De Magistris a numerosi esponenti delle associazioni e delle sinistre fino a D’Alema, sono numerosi i soggetti interessati a un discorso critico e rifondativo dell’Europa politica. Ma seguono opzioni non proprio convergenti. Quale spazio avrà Diem?
De Magistris ha aderito al nostro movimento, molti esponenti della sinistra italiana sono interessati. D’Alema ha iniziato a fare un discorso molto critico su quello che è diventata l’Europa. Sta a lui capire se vuole parlare con noi. Il nostro documento sul New Deal non è la bibbia, stabilisce i parametri per un confronto.

Quali sono i vostri obiettivi?
Creare un’infrastruttura che possa permettere alle sinistre, e a un’area politico-culturale più ampia, di avviare un dialogo diverso da quello che esiste oggi. È il nostro lavoro: aprire lo spazio affinché questo possa avvenire a livello continentale.

Cosa risponde a chi, da sinistra, vuole uscire dall’Euro e dall’Unione Europea?
L’Unione Europea, per com’è stata costruita, è una cattiva idea. Lo sostengo dal 1998. La Grecia non doveva entrarci. E questo non lo dico perché sono anti-europeo, ma perché era insostenibile la sua permanenza. Di questa realtà bisogna tuttavia fare un’analisi dinamica e non statica. Gli eventi sono determinati da una molteplicità di cause. Ora non basta dire che l’uscita ci porterà al punto dove l’Unione Europea non ci porterà mai. La nostra proposta è seria, modesta e internazionalista, basata su una disobbedienza costruttiva. A differenza dei left-exiters il nostro piano A non prevede l’uscita dall’Unione Europea, ma un meccanismo per gestire gli effetti negativi di una possibile disgregazione dell’Eurozona. Quando l’establishment metterà una pistola alla tempia, come ha fatto con me quando facevo il ministro dell’Economia della Grecia, allora sarà possibile dire: fallo. E ne pagherai le conseguenze. Dobbiamo condividere le responsabilità politiche e smetterla di accusarci a vicenda.

«Una oligarchia sovranazionale sempre più lontana dalla vita reale della gente cerca una nuova legittimità presentandosi come protettrice necessaria e benefica, a prescindere dai contenuti e dagli effetti delle sue politiche».

il Fatto quotidiano, 23 marzo 2017
L’Unione europea si appresta a celebrare il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma manifestandosi sotto forma di un immenso accumulo di spettacoli. Come nelle analisi di Guy Debord, tutto ciò che è direttamente vissuto dai cittadini è allontanato in una rappresentazione.

Le celebrazioni sono il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi. Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”.

La realtà dell’Unione va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali sono i suoi strumenti privilegiati?

La prima cosa che vuole è risolvere a proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo, illustrando il Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Ue, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere Ue deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati.

In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi.

La difesa europea e anche l’Europa a due velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro: siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica, solidarietà, e pace alle frontiere e nel mondo. Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’Ue. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente.

All’indomani della crisi del 2007-2008, la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra.

La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione Ue), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori: come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non.

Se decidesse di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è con il tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle più forti (nazionali o sovranazionali).

Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico, Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.

«Draghi ha difeso la funzione della moneta unica ed è pronto a aumentare il programma di acquisti di titoli. Ma pensare di battere i nazionalismi rilanciando le virtù del liberoscambismo, del quale approfitta solo il neomercantilismo tedesco, appare del pari suicida».

il manifesto, 7 febbraio 2017

Che la Ue possa implodere e con essa la sua moneta era ed è una consapevolezza che si sta facendo strada persino nei templi del pensiero mainstream e tra le elites europee. Specialmente dopo la Brexit e il possibile asse Trump-May. Il guaio è che il morto rischia di afferrare il vivo. Così le terapie che vengono avanzate appaiono peggiori della malattia, mancando una diagnosi corretta. Non solo si vuole un ennesimo giro di vite nei confronti della Grecia ed entrano nel mirino dei contabili di Bruxelles il Portogallo e l’Italia. Ma in vista dell’incontro, che si profila non solo celebrativo, del 25 marzo, in occasione del 60° dei trattati di Roma, tiene banco la trovata dell’Europa a due velocità. L’ha rilanciata Merkel, trovando il plauso di Gentiloni, ma soprattutto il placet entusiasta di Prodi. Il quale ha scoperto che l’America di Trump si comporta come un «cugino dispettoso» nei confronti dell’Europa e che quindi bisogna reagire.

Solo che lo si vuole fare nella direzione sbagliata. I nazionalismi e i populismi dall’alto, d’oltreoceano o europei, Trump come Le Pen, vengono agitati sia per motivi interni ai singoli paesi che vanno incontro a elezioni, fra cui la Germania, sia per allargare il metodo Schaeuble, proposto a suo tempo alla Grecia, nei confronti di un arco di paesi più ampio. Ne risulterebbe un’Europa a due velocità, o due gironi, nella quale il nucleo forte sarebbe naturalmente a dominanza tedesca, magari con un ministro delle finanze unico, in grado di tenere ancor meglio sotto controllo i bilanci altrui in un quadro istituzionale del tutto a-democratico. Attorno si distribuirebbe una corona di paesi più deboli, con l’onere di fare da filtro e da assorbimento dei processi migratori. Il tema centrale al vertice di Malta.

Si può e si deve osservare che già questa è la tendenza reale. Ce lo dicono i dati economici con la potenza germanica incurante delle regole: il suo surplus non dovrebbe superare il 6%, mentre veleggia di più di due punti e mezzo al di sopra. Ce lo ricorda il fatto che proprio quest’anno il famigerato fiscal compact dovrebbe entrare nel diritto europeo di primo livello, come i trattati istitutivi dell’Unione. Ma la codificazione di questa realtà costituirebbe una potente accelerazione verso l’implosione e la disgregazione dell’Europa. Anche perché è ben poco chiaro quali siano le effettive condizioni che dovrebbero regolare i due diversi livelli di integrazione sotto il profilo economico e delle sorti debito pubblico dei singoli paesi.

Diversi i toni usati da Draghi che ieri ha ammonito chi vuole andarsene di regolare prima i propri conti con la Bce, cosa devastante per chi ha i debiti pubblici più elevati. Poi ha orgogliosamente difeso la funzione della moneta unica, attribuendole addirittura ruoli taumaturgici nei confronti della crisi economica, per ribadire che la Bce è pronta ad aumentare “in termini di mole e durata” il programma di acquisti di titoli, cioè il quantitative easing. Ma pensare di battere i nazionalismi rilanciando le virtù del liberoscambismo, del quale approfitta solo il neomercantilismo tedesco, appare del pari suicida.

Non è questa la risposta, come però non lo è neppure l’illusione, coltivata anche a sinistra, che il ritorno alle sovranità nazionali e alle monete di un tempo aiuti la lotta alle diseguaglianze e per un diverso sviluppo. Spaccare in due l’Europa non è l’uovo di Colombo ma la china che porta alla negazione di ogni progetto europeo. La indispensabile lotta contro il liberismo dei trattati, quelli originari e quelli che hanno costruito la governance europea in questi ultimi anni di crisi, non può che coinvolgere e svolgersi nell’Europa nel suo complesso, con un ruolo crescente proprio dei paesi che si vorrebbero collocare nel secondo girone, come già la crescita di movimenti politici e sociali, alcuni assurti a esperienze di governo, hanno dimostrato di sapere fare. Un’Europa dimidiata sarebbe un interlocutore ancora meno credibile, in uno scenario internazionale ove le spinte belliche con Trump sono destinate a moltiplicarsi e ad aggravarsi.

C

«I dati macroeconomici dicono che la cura dell’austerità ha funzionato. Bassi salari, depressione della domanda interna, aumento delle esportazioni, crescita della povertà. L’Italia batte il record del calo della produzione industriale del 22% dal 2007». Insomma, i potenti sono più potenti, gli altri fottuti.

il manifesto, 24 settembre 2016

In questo periodo, i governi europei sono alle prese con i bilanci di previsione e con le leggi di stabilità, che, com’è noto, devono essere presentate alla Commissione entro il 15 ottobre. Quale migliore occasione, allora, per fare un bilancio del Patto di Stabilità, ovvero delle regole poste a fondamento della governance economica dell’Unione? Calato il sipario sull’ultimo vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi a Bratislava, ci ha pensato Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, a fare il punto, intervenendo alla plenaria del Cese, organismo consultivo dell’Unione, rappresentativo della società civile organizzata.

La sua considerazione: «Il patto di stabilità non è stupido e funziona, lo dimostrano le cifre. Nel 2009 il deficit medio era del 6,3%, ora la media è dell’1,9. È la prova che il consolidamento progredisce». Come dargli torto? Un successone, se non fosse che proprio in tale successo sta la chiave di lettura dei mali attuali dell’economia europea.

Facciamo un passo indietro. È acquisito, ormai, che il costo dell’ultima crisi finanziaria sia stato scaricato sul groppone dei cittadini. A differenza degli Usa, da dove il virus è partito, però, in Europa la crisi è stata anche colta come un’opportunità, per irrigidire e rendere più cogenti le regole fiscali cui soggiacciono gli Stati membri e per imporre agli stessi l’adozione di «riforme strutturali» del mercato del lavoro.

Nell’arco di un quinquennio, i deficit di bilancio si sono assottigliati ovunque, fino a centrare, o a lambire, gli obiettivi di finanza pubblica previsti dai Trattati. Chi più, chi meno, tutti i Paesi hanno fatto la loro parte, tagliando la spesa pubblica, aumentando le tasse, cambiando la legislazione sul lavoro. E i risultati si sono visti anche sul versante delle bilance commerciali. Fino al 2012, fra i principali Paesi dell’eurozona, solo Germania e Olanda vantavano un saldo positivo delle partite correnti. Tutti gli altri erano in deficit ed accumulavano debiti con l’estero, uno dei motivi, tra l’altro, per cui in alcuni Paesi periferici, la crisi ha avuto un impatto devastante.

La situazione inizia a mutare rapidamente con l’inasprirsi delle politiche di austerità: nel giro di 2-3 anni, con la sola eccezione della Francia, tutti i deficit si trasformano in surplus. Forse che tutti i Paesi della zona euro sono diventati, di colpo, locomotive dell’export? Macché, è solo che la stretta fiscale e le politiche di moderazione salariale hanno comportato una caduta dei consumi delle famiglie, quindi un calo delle importazioni. In sostanza, l’operazione di riequilibro delle bilance commerciali ha avuto come corollario una depressione della domanda interna e, più in generale, un impoverimento delle popolazioni.

Il termometro di questa situazione è senz’altro la spirale deflattiva che attanaglia molti Paesi europei, nonostante l’iniezione a dosi massicce di liquidità nel sistema da parte della Bce. Parlano chiaro anche i numeri che provengono dall’economia: crescita al palo, povertà in aumento. Gli ultimi dati forniti da Eurostat relativi al secondo trimestre dicono che l’economia europea rallenta e per alcuni Paesi torna addirittura lo spettro della recessione. In questo quadro, chi se la passa peggio è proprio il nostro Paese, per il quale l’Ocse, nel suo Outlook di settembre, ha ritoccato al ribasso le stime di crescita per l’anno in corso e per il 2017. Un vero grattacapo per il governo, visti gli obiettivi di finanza pubblica fissati per il 2016 e quelli successivi ed un debito pubblico che a luglio ha toccato la cifra record 2.252,2 miliardi di euro (oltre 132,2% del Pil).

Ieri, nel frattempo, è arrivata un’altra doccia gelata, questa volta dall’Istat, che ha ridimensionato la variazione del Pil nel 2015, da +0,8% a +0,7%. Ma si sa: l’Italia i compiti a casa li ha fatti bene in questi anni, tant’è che dal 2007 al 2016 la sua produzione industriale è crollata del 22% e gli investimenti di cinque punti di Pil.

L’unica eccezione sarebbe la Spagna. In realtà, il quadro della Spagna è più problematico di quanto la sola crescita del Pil lasci intravedere (0,8% su base trimestrale, 3,2% annuo). Alla base del “successo” spagnolo, difatti, ci sono fattori del tutto congiunturali e, soprattutto, una dinamica salariale al ribasso, favorita dalla disoccupazione di massa. Il recupero di competitività, peraltro effimero, sui mercati esteri avviene a detrimento dei redditi da lavoro e del benessere generale della società. Non è un caso che ai numeri del Pil facciano da contraltare un tasso di disoccupazione al 20% (giovanile oltre il 45%), un’esile domanda interna, una persistente deflazione.

Rispetto al 2008, mancano all’appello 5 milioni di posti di lavoro. Un quarto della popolazione europea (123 milioni di individui) sarebbe a rischio povertà ed esclusione sociale, mentre già oggi oltre 50 milioni di cittadini comunitari vivrebbero in stato di grave deprivazione materiale. Nel complesso, l’Europa si presenta oggi come un gigante sedato, avvinto da gravi problemi economici e sociali, sempre sull’orlo di una nuova crisi sistemica. D’altronde, le falle del suo sistema bancario, unite alla debolezza della sua economia ed alla crescita del debito, sia pubblico che privato, potrebbero innescare una crisi ancora più perniciosa di quella del 2007-2008.

Un rischio paventato recentemente anche dall’Ocse, che sul punto, ha sentenziato: «La lentezza della ripresa dell’Eurozona è un forte freno alla crescita globale e lascia l’Europa vulnerabile agli shock globali».

Non c’è che dire, il Patto di Stabilità sta funzionando alla grande. Probabilmente, sarà ribadito anche mercoledì a Berlino, nel corso del vertice tra Angela Merkel, Francois Hollande e lo stesso Jean-Claude Juncker, al quale il premier italiano, in segno di punizione (o avvertimento), non è stato invitato.

Morte della politica. Con Stiglitz e Fassina, per restare nell’Unione, superando in modo condiviso e parziale la moneta unica. La democrazia chiede ancora la battaglia politica nazionale».

Il manifesto, 17 settembre 2016 (c.m.c.)

È vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).

Per schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni conservatrici (all’insegna del “non c’è alternativa” all’euro e alle sue regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli Stati uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una contraddizione fra euro e democrazia sociale.

Ma mentre questa opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non può essere che una parentesi), che andranno incontro a una polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.

L’altra fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo – in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e forze antisistema.

Il punto è che le forze antisistema si coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di lettura e d’azione.

Dal dibattito in corso sul manifesto (vedi sotto, ndr) sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina) favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a quello mondiale, iniziando col “disobbedire” alle regole economiche della moneta unica, senza uscirne.

Al di là della sovrapposizione fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la questione del demos –.

Non c’è nulla di nazionalistico o di sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più vasta scala, è senz’altro lo Stato.

La politica su scala continentale ha inizio là dove la politica si condensa significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico, politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza nazionale –.

Se non passa attraverso la scala statale, la lotta sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un nuovo assetto delle relazioni internazionali.

Ci si deve servire dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi? Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.

Lo spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.

«L’intento comune è quello di costituire un organismo che promuova i temi globali e nazionali inerenti il debito e al contempo crei una sorta di supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini». Comune.info, 9 settembre 2016 (c.m.c.)
La leggenda del debito di cui tutti, dal neonato angolano al pastore del Gennargentu, dobbiamo farci carico gode ancora di maggior credibilità di quella del peccato di Eva nel giardino dell’Eden. Per certi versi, però, svolge la stessa funzione: generare senso di colpa.
Il debito pubblico viene agitato su scala internazionale, nazionale e locale per giustificare le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.
Rompere la sua trappola è dunque un passaggio essenziale per avviare un altro modello di società. Qui si racconta di un tentativo serio di costituire in Italia un organismo che ne ridiscuta la natura e gli obiettivi e, soprattutto, dia supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini

Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto. La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura. Nel capitalismo finanziarizzato, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia basata sul debito.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, unita alla convinzione –dettata dalla favola liberista- che il futuro potesse essere sempre e costantemente più copioso e munifico del presente ha indotto i detentori di capitali a prestarli facendo conto su generosi e costanti innalzamenti della redditività finanziaria, a prescindere dall’andamento dei profitti delle attività reali che andavano direttamente o indirettamente a finanziare.

E’ così che le attività finanziarie si sono progressivamente “autonomizzate”, investendo non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone. Le scelte adottate dalle elite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi – che a tutti gli effetti è sistemica – in crisi del debito pubblico. Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.

Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone. Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.

Rompere la trappola del debito diviene dunque l’obiettivo principale per avviare un altro modello di società, basato sulla sovranità, la solidarietà e la cooperazione tra i popoli, la pace, l’eguaglianza, la giustizia sociale e un modello economico ecologicamente e socialmente orientato. Da tempo, il Cadtm (Comitato per l’annullamento del debito illegittimo), rete internazionale fondata in Belgio nel 1990 e presente con comitati in Europa, Africa, America Latina e Asia, agisce in collaborazione con altre organizzazioni e movimenti per una battaglia a tutto campo finalizzata all’annullamento del debito illegittimo e per l’abbandono delle politiche di aggiustamento strutturale e di austerità.

Il Cadtm ha partecipato all’audit del debito pubblico in Ecuador e alla Commissione parlamentare per la verità sul debito pubblico in Grecia e partecipa ai movimenti contro i debiti illegittimi in numerosi paesi. Da tempo riteniamo che, anche in Italia, la questione del debito debba essere al centro dell’azione dei movimenti sociali, perché senza una decostruzione dell’ideologia del debito, e senza un processo di verità sulla sua natura, scopi e legittimità, nessuna riappropriazione sociale di ciò che a tutti appartiene può raggiungere il proprio obiettivo.

Per questo, forti dell’esperienza accumulata in questi anni dentro i percorsi aperti con il Forum per una nuova finanza pubblica e sociale e con l’internità a tutti i movimenti sociali prodottisi a livello locale e nazionale, e dopo un primo accordo di adesione alla rete Cadtm, sottoscritto da Attac Italia in rappresentanza collettiva, nell’Assemblea mondiale di Cadtm a Tunisi dell’aprile 2016, abbiamo deciso di far nascere Cadtm Italia, come luogo plurale e inclusivo di associazioni che condividano l’obiettivo di mettere la contestazione dell’ideologia del debito alla base dell’azione collettiva per una radicale trasformazione della società.

L’intento comune è quello di costituire un organismo che promuova i temi globali e nazionali inerenti il debito e al contempo crei una sorta di supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini. Un organismo che svolga funzioni di Centro Studi per costruire analisi e informazione alternativa alla narrazione dominante sul debito e che nel contempo agisca da Comitato operativo per il supporto alle inchieste sul debito pubblico promosse a qualsiasi livello. Il convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’ : il Giubileo del debito ?” tenutosi a Genova il 19 luglio 2016, ha ribadito questi impegni, sottoscritti nel documento “Carta di Genova” Perché occorre liberare il presente per riappropriarsi del futuro. E sappiamo che il tempo è ora.

Primi promotori :

Attac Italia – Centro Nuovo Modello di Sviluppo – Commissione per l’audit del debito pubblico di Parma – Communia Network – Cooperativa Bottega Solidale Genova – Fair — Fondazione “Lorenzo Milani” Onlus di Termoli – Pax Christi Italia – e i firmatari della Carta di Genova

«Zona euro. Per contrastare a tutti i livelli praticabili il potere della finanza sulle nostre vite vanno moltiplicati i circuiti autogestiti. In attesa delle prossime trasformazioni ».

Il manifesto, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

Non viviamo più da tempo in un’economia di sussistenza, dove ogni comunità si sostenta con beni prodotti al proprio interno. Oggi cibo, energia, casa e altri fattori essenziali alla vita civile come salute, istruzione, assistenza, mobilità si comprano; oppure possono essere forniti dallo Stato, che a sua volta li paga con il ricavato delle nostre imposte. Senza denaro anche la cosiddetta «nuda vita» si ferma.

Quando il denaro era costituito esclusivamente da monete metalliche, le emetteva lo Stato, che poteva anche truccarle (e lo faceva) alterandone il contenuto. Ma nessuno se non chi le possedeva poteva poi controllare come, quante e quando spenderle. Ma oggi monete e carta moneta non sono più del tre-quattro per cento della circolazione monetaria. Tutte le altre transazioni avvengono tramite banca. Bloccare le banche vuol dire bloccare tutta la vita economica.

Poi, finché è rimasta in vigore la separazione tra banche commerciali e di investimento introdotta dal New Deal, l’attività delle prime, cioè la circolazione monetaria, era sì regolata dallo Stato o dalla Banca centrale attraverso il tasso di sconto e l’obbligo della riserva, ma bloccarla era molto difficile. Infine, finché l’attività della Banca centrale è stata regolata dallo Stato e ne era di fatto una branca – prima, cioè, del “divorzio” tra Governo e Banca centrale, poi esteso anche alla Bce – lo Stato che spendeva in deficit più di quanto incassava con le imposte si indebitava di fatto con se stesso; o solo con chi accettava di prestargli del denaro alle condizioni decise dal Governo.

Non era facile speculare sulle emissioni di Stato: era il Governo, e non la finanza, a fissarne il rendimento. Un deficit eccessivo poteva sì provocare inflazione: è la motivazione con cui quel “divorzio” è stato imposto. Ma allora controllarne gli effetti era più facile che non ora, con i deficit in mano a una finanza extraterritoriale.

Oggi tutti i livelli della circolazione monetaria – spese quotidiane delle famiglie; depositi e risparmi; bonifici, fidi e anticipi di cassa delle imprese; spesa pubblica e relativi deficit; investimenti, sia speculativi che non – sono pezzi di un’unica piramide in mano all’alta finanza: una entità anonima, anche se governata da persone in carne e ossa, con nome, cognome e patrimonio personale di ampia entità.

È la privatizzazione totale, nelle mani di un numero sempre più ristretto di «operatori» e beneficiari, di tutto ciò che facciamo, che abbiamo, che siamo: i nostri redditi; i servizi forniti da Governo, Regioni e Comuni; le attività delle aziende, sottoposte ad alti e bassi del credito che rispondono più agli andamenti dei mercati finanziari che ai risultati delle imprese produttive; ma anche le attività di ogni comune cittadino o cittadina che, indipendentemente dai suoi guadagni e dal suo indebitamento personale (mutui, acquisti a rate, prestiti d’onore, cessione del quinto, scoperti bancari) è comunque titolare di una quota di debito pubblico che impone prelievi annuali per pagare interessi che si accumulano con la legge dell’interesse composto.

Il gigantesco debito pubblico italiano è minore degli interessi pagati su di esso dall’anno del divorzio tra Governo e Banca centrale. Ma non è all’impossibile restituzione di quel debito che si punta, bensì a usarlo per imporre la vendita – per ridurre, si dice, quel debito – di tutto ciò che di pubblico o di comune presenta un interesse economico. E questo, anche se in Italia la vendita di tutte le imprese pubbliche non basterebbe a pagare ai detentori del suo debito gli interessi di un anno. L’anno successivo però quegli interessi vanno pagati di nuovo, ma quelle imprese e i loro proventi non ci sarebbero più.

Come uscire da questo circolo vizioso? Per gli economisti mainstream non c’è altra strada che riportare il debito a un livello sostenibile rimborsandolo un po’ per volta, nonostante che quasi mai nella storia i debiti degli Stati siano stati saldati: il loro peso sul Pil veniva riassorbito in tutto o in gran parte dalla crescita o dall’inflazione; oppure venivano condonati; o azzerati con un default: evento molto frequente nella storia, anche se più difficile da sostenere oggi in un’economia globalizzata; perché oggi i creditori degli Stati non stanno in nessun luogo particolare, ma possono palesarsi ovunque e le ritorsioni, anche preventive, che possono attivare sono ubique. Così, nel luglio del 2015, Draghi e la Bce avevano dimostrato alla Grecia che chiudendo i rubinetti del credito si può paralizzare la vita di un intero paese.

Così, se entrare nell’euro può essere stato un errore, l’idea di uscirne unilateralmente, pensando di riconquistare competitività internazionale e sovranità monetaria, non fa i conti con le sanzioni e i costi che ciò comporterebbe; né con le difficoltà tecniche di un’operazione che lascerebbe per mesi, se non anni, mani libere alla speculazione; né, soprattutto, con il mutato contesto internazionale, dove contano sempre di più i meri rapporti di forza. Tutto ciò la rende non solo una strada impraticabile, ma denota anche la sua permanenza all’interno di un orizzonte “liberista”, dove la competitività è una panacea e il governo centralistico della moneta non fa problema.

Per questo, invece di demonizzare le scelte con cui il governo Tsipras ha cercato di far fronte a quel ricatto, in attesa che una parte almeno dell’Europa lo affiancasse nell’opposizione alle politiche della Trojka, sarebbe opportuno ripercorrere a ritroso il filo delle sue scelte, a partire anche da quelle precedenti all’avvento di Syriza al governo. Con il senno di poi, questa rivisitazione non può che confrontarsi con la necessità di costruire, dentro il contesto sociale esistente, circuiti di autonomia monetaria e finanziaria per restituire al denaro, o a una parte di esso, la sua natura di “bene comune” o, per dirla con Karl Polanyi, di «merce fittizia»: un bene che, come il lavoro e la terra (oggi diremmo l’ambiente), non si può comprare e vendere come qualsiasi altra merce, pena la dissoluzione dei legami che tengono insieme convivenza e società.

Si tratta allora, mentre lo si combatte anche in altri modi, di erodere a tutti i livelli praticabili il potere della finanza sulle nostre vite, moltiplicando circuiti monetari il più possibile autonomi e autogestiti: sul territorio, con monete locali oggi largamente sperimentate in diversi contesti e diversi continenti e, come già negli anni ’30 del ‘900, con maggior successo dove hanno il sostegno delle amministrazioni locali (ma oggi, in più, con il vantaggio di poter essere gestite con internet).

A livello interaziendale, con una moneta studiata per aver corso solo nell’interscambio tra imprese, ovviamente, anche qui con una garanzia pubblica. Ed è anche l’ambito in cui si è sviluppato il Sardex: una delle versioni odierne di autonomia monetaria, in questo caso elettronica, introdotta con successo da alcuni anni in Sardegna e che si sta espandendo in diverse regioni italiane, viene studiato in tutto il mondo e sta gradualmente conquistando anche i circuiti del commercio al minuto.

Per quanto riguarda la spesa pubblica, infine, integrandola con soluzioni come i certificati fiscali proposti da Luciano Gallino ed Enrico Grazzini, che consentirebbero il trasferimento di un potere di acquisto aggiuntivo alle piccole imprese e alle fasce più deboli anche senza violare le regole europee. Certo, fino alla sua possibile dissoluzione, di giorno in giorno più probabile, l’euro rimarrebbe il mezzo di pagamento principale (ed esclusivo nelle transazioni internazionali). Ma intanto, in vista di successive trasformazioni, una buona dose di autonomia monetaria sarebbe conquistata.

È questo il risvolto monetario di un programma per favorire e promuovere l’unica alternativa praticabile alla globalizzazione attuale, fondata sulla corsa al ribasso di salari, servizi pubblici, tutele ambientali e solidarietà: l’alternativa della riterritorializzazione o rilocalizzazione di una quota crescente di processi produttivi, di relazioni di mercato, di rapporti di lavoro. Una componente essenziale della conversione ecologica che va affrontata proprio a partire dalla dimensione locale.

«Grecia. L’alleanza dei leader progressisti in vista del summit di Bratislava. L’attacco di Schauble: "Niente di buono"» I

l manifesto, 10 settembre 2016 (c.m.c.)

«Il summit del sud Europa» ha come obiettivo «il miglioramento della vita dei cittadini dell’Unione», ha dichiarato alla fine di questo «incontro a sette», il primo ministro greco, Alexis Tsipras. Le previsioni della vigilia sono state rispettate: nessuno scontro frontale con Berlino, nessun desiderio di isolazionismo politico, ma la volontà di contribuire in modo fattivo, a dare nuovo e diverso impulso alla costruzione europea. Italia, Grecia, Francia, Cipro, Malta, Portogallo e Spagna (malgrado Rajoy non abbia partecipato, a causa della perenne crisi politica di Madrid), sono convinte che si debba ricercare soluzioni migliori.

Per una gestione solidale della questione migratoria, per riportare in primo piano il valore ed il bisogno di un’Europa sociale, per potenziare e possibilmente raddoppiare i fondi del Piano Juncker riservati alla crescita e gli investimenti. «Contribuiamo al dialogo, abbiamo bisogno di una nuova visione, vogliamo ispirare i nostri popoli», ha dichiarato il leader di Syriza. Ed allo stesso tempo, ha sottolineato che si deve fare di tutto per rigettare, con forza, le chiusure nazionalistiche e la xenofobia.

Il prossimo incontro dei paesi del Sud Europa si terrà in Portogallo, e lo scopo, come hanno detto tutti, non è e non sarà dividere, ma arrivare ad un’«Unione migliore». Nel corso della conferenza stampa, Matteo Renzi ha sottolineato che «la scommessa di questo incontro di Atene è rinnovare un’idea di Mediterraneo da cui l’Europa tira fuori la parte migliore di sé». Perché non può essere solo «regole, finanza, austerity e tecnicità», ma deve voler dire anche «valori, ideali e dimensione sociale».

Per formare il cittadino europeo di domani, il quale dovrà essere «kalos kai agathos», con un forte riferimento alla dimensione etica del suo agire. E Francois Hollande, dal canto suo, ha ribadito il bisogno di unità e coesione, per riuscire a dare speranza alle popolazioni dei paesi membri dell’Unione, specie quelle dei paesi che si affacciano sulla sponda mediterranea. La questione principale, quindi, è riuscire a rilanciare al più presto politiche di crescita, che possano avere ricadute positive sull’ occupazione e sulla vita concreta dei cittadini.

Il presidente francese e tutti gli altri partecipanti al vertice sanno bene che dopo il referendum sulla Brexit, non si può più far finta di niente, e che bisogna cercare di far sentire la propria voce, per incidere sul cammino che, d’ora un poi, seguirà l’Ue. «Non vogliamo creare un gruppo separato, ma l’Europa ha bisogno di un nuovo orientamento», ha spiegato il presidente di Cipro, Nikos Anastasiadis. Al momento, si può dire che l’iniziativa politica di Alexis Tsipras ha raggiunto il suo scopo: dimostrare che in questa realtà europea non c’è più un pensiero unico neoliberale, proporre delle iniziative concrete (come il rafforzamento del piano Juncker) e rendere l’ incontro dei leader del Sud Europa, un appuntamento stabile.

Non solo di quelli a orientamento progressista, come ha dimostrato la partecipazione all’iniziativa, di Cipro e Spagna. Perché un problema come quello dei giovani, «che non guardano al futuro con speranza, e chiedono un lavoro di qualità»- come ha detto il primo ministro portoghese Antonio Costa- in questo vastissimo Mezzogiorno fatto di disoccupazione e sofferenza, travalica anche le divisioni di carattere meramente ideologico.

Al vertice di Atene ha voluto reagire con stizza, una parte importante dei popolari: il ministro delle finanze tedesco, il noto falco Wolfgang Schauble, ha dichiarato che «per lo più, quando i leader socialisti si incontrano, non viene fuori nulla di buono». E il capogruppo dei popolari al Parlamento Europeo, Manfred Weber, ha deciso di rincarare la dose, convinto che Renzi e Hollande «si stiano lasciando manipolare da Alexis Tsipras» e che «questo atteggiamento non sia davvero indice di senso di responsabilità».

Prese di posizione estreme, che sono indice di nervosismo, in vista del vertice dei capi di stato e di governo europei a Bratislava, tra una settimana, dove si dovrà dare indicazioni concrete su priorità e scelte dell’Unione.

«Se Merkel, Hollande e Renzi rileggessero quel testo, scritto da Spinelli nel ’41, con l’auspicio della fine delle guerre. E non sarebbe stato male se avessero colto l’occasione di ricordare che se oggi Africa e M.O. sono quella polveriera che sappiamo è per colpa di quello che quasi tutti gli Stati europei hanno combinato».

Il manifesto, 23 agosto 2016 (c.m.c.)

Visto il pasticcio in cui sono rimasti impigliati i poveri turisti di Ventotene in questo scorcio ferragostano (collegamenti sospesi, file per i controlli, divieto di navigazione attorno all’isola ); nonchè le difficoltà che hanno dovuto affrontare gli altrettanto poveri addetti alla sicurezza, alle prese con una popolazione locale infinitamente più abbondante di quella normale (sicché hanno dovuto rinchiudere il vertice in una corazzata), c’è da ritenere che Renzi avesse proprio grande urgenza di invitare lì Merkel e Hollande, vale a dire che non avesse davvero potuto aspettare nemmeno una settimana quando nell’isola tutto sarebbe stato più facile. Forse voleva profittare della stagione per mostrare il presidente francese in bikini, sì da consentirgli di riaffermare i superiori valori della nostra civiltà. (Per fortuna l’orribile immagine ci è stata risparmiata).

Per carità, è stata una bella idea scegliere Ventotene. Discuto solo i tempi. Diffido poi degli eventi fondati sul richiamo di simboli usati senza entrare nel merito – anzi nascondendolo – di cosa, nella sostanza, li aveva resi tali. E’ un esercizio assai diffuso che, generalmente, si chiama “retorica”.

Ridurre il discorso di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di prigionia al semplice auspicio di un’Europa unita è fargli infatti torto. Perché in realtà ci hanno detto molto di più, anche come avrebbe potuto essere unita.Quanto è in discussione oggi è soprattutto questo. E sarebbe stato davvero interessante se i nostri tre avessero scelto Ventotene proprio per una riflessione, critica e autocritica, su cosa è stato fatto in questi quasi 75 anni. Avrebbero potuto rileggere assieme il lontano testo scritto nel ’41, soprattutto ripensare all’auspicio fondante che l’aveva ispirato: porre fine alle guerre.

Tanto è vero che poi quell’obiettivo si tradusse in un articolo della nostra Costituzione, l’11, che, si dice, sia stato inserito proprio su sollecitazione del gruppo federalista dell’ Assemblea Costituente. Un tema di grande attualità, perché da allora, se è vero che abbiamo evitato un terzo conflitto continentale, di guerre ne abbiamo tuttavia collezionate non poche. Dentro e fuori dai nostri collettivi confini.

Sarebbe stata, questa visita a Ventotene, l’occasione per ricordare quanto male sia nata l’attuale Unione: come strumento proprio di una guerra che, sia pur fredda, ha stravolto il significato del progetto. (Forse bisognerebbe ricordare che il primo atto parlamentare in favore degli stati uniti europei non fu nemmeno europeo, ma del Congresso americano, su sollecitazione di Allen Foster Dalles, in seguito capo della Cia, esattamente l’11 marzo 1947 al Senato e il 24 alla Camera dei rappresentanti ).

L’identificazione fra Europa e Nato nasce da lì, e visti i guasti che il continuo allungamento di quel Patto militare verso est, strategia demenziale di provocazione nei confronti della Russia, a tutto vantaggio del nazionalismo di Putin, si può ben dire che trattasi di argomento tutt’ora di attualità. Militari, e sempre soprattutto militari, di difesa dei confini sono apparse del resto anche le proposte emerse dal vertice.

Ventotene sarebbe stata anche l’occasione per qualche altra riflessione. I nostri confinati, col loro Manifesto, si erano pronunciati non solo per l’Europa, ma anche contro l’orrore del fascismo e dei valori dei suoi «stati bellici» (così li chiamarono) di cui il colonialismo è stata componente anticipatrice ed omogenea. Ebbene, forse non sarebbe stato male se avessero colto l’occasione di ricordare che se oggi Africa e Medio Oriente sono quella polveriera che sappiamo è per colpa di quello che quasi tutti gli Stati europei hanno combinato: dalla spartizione di quello che era stato l’Impero Ottomano dopo la prima guerra mondiale, ridisegnando la regione sulle linee dei rispettivi interessi petroliferi e così creando inventate nazioni (la bomba del bambino Isis durante la festa di nozze di una coppia kurda: quel popolo, è bene ricordarlo, è stato frammentato in quattro stati diversi, perché sul suo territorio c’era molta popolazione e molto oro nero, ed era bene impedirgli ogni protagonismo.

Così fu loro negata una nazione, inventata invece per il Kuwait, dove c’era altrettanto petrolio ma in compenso pochissimi abitanti, solo qualche beduino nel deserto, non in grado di avanzare pretese).

Quanto alla nuova Europa partorita nel marzo 1957, a meno di un anno dall’attacco di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto di Nasser che aveva osato riappropriarsi del canale di Suez, consiglio a tutti di andare a leggersi i diari del nostro, all’epoca, ambasciatore a Parigi, Quaroni. Racconta di come la preoccupazione determinante di Parigi fu allora di impedire che la neonata Cee potesse interferire con i problemi coloniali dei suoi stati membri. Che non intendevano affatto sciogliere.

Ecco, la buona idea annunciata da Renzi: il campus studentesco che dovrà nascere nell’ex prigione dell’isola di Santo Stefano, accanto a Ventotene. Buona, ma solo a condizione che gli attuali capi di stato e di governo dell’Unione siano fra i primi allievi in un corso sulla storia d’Europa. Utile, appunto, per capire che la migliore protezione dell’Europa consiste nel fare ammenda per gli orrori che abbiamo prodotto e che continuano ad alimentare le peggiori reazioni.

Il vertice era in realtà stato presentato come occasione per ridiscutere dell’austerità. Vedremo se i sorrisi di Merkel significheranno maggiore flessibilità. Ma se un anno fa – quando Tsipras osò sfidare Bruxelles – anziché regalargli una cravatta, Renzi si fosse adoperato per cominciare a costruire un fronte che combattesse con coerenza l’ideologia ordoliberista, e non, invece, a farsi vedere sorridente e ironico accanto ad una Merkel allora totalmente schierata col suo falco ministro Scheuble, bè, forse sarebbe stato più utile.

Arrivederci Angela, Francois, Matteo (così amano ormai chiamarsi fra di loro, scimmiottando i bambini dell’asilo). Vi aspettiamo un’altra volta a Ventotene. Ma al campus.

Il manifesto, 2 agosto 2016 (c.m.c.)

Dopo la Brexit, è sempre più evidente che l’Europa sta pagando i prezzi della globalizzazione, cioè dell’adesione a un paradigma che ha azzerato gli argini al capitalismo finanziario (ad esempio, facendo saltare ogni intercapedine protettiva tra risparmio e speculazione, economia reale e finanza tossica) e puntato tutto sulla creazione di un esercito proletario di riserva globale.

A dispetto della narrazione sui presunti effetti liberatori dell’empowerment individualistico, la sostanza concreta è uno stato di natura creato dall’alto, ovvero la guerra di tutti contro tutti tra subalterni. Nell’illusione di gestirla attraverso una separazione definitiva tra “alto” (inafferabile perché sradicato) e “basso” (depotenziato perché schiacciato sui territori): uno schema che ambiva a una completa immunizzazione del capitale e delle tecnocrazie al suo servizio.

Ci sarebbe l’ostacolo della democrazia, che in tempi difficili non è così agevolmente domabile (nonostante il potere del denaro e l’asservimento mediatico al discorso dominante). Ecco emergere, allora, un fronte antioligarchico, ambivalente quanto si vuole, ma che esprime un’effettiva energia politica “popolare”.

È bene essere chiari rispetto a quanto sta succedendo: non si tratta né di una sfortunata congiuntura (come se il fallimento dell’Europa fosse una calamità naturale), né di un destino cinico e baro (non ci avete capito, siete ignoranti, ve ne pentirete): il nodo è strutturale e la responsabilità complessiva, tanto economica quanto istituzionale e politica. L’establishment dell’Unione, e le classi dirigenti nazionali, hanno scelto di sacrificare il modello sociale europeo e di consegnarsi allo strapotere della finanza: per furore fideista travestito da necessità tecnica, convenienze nazionali (dei Paesi più forti), calcoli di piccolo cabotaggio (ad esempio del governo italiano), rifiuto di dire la verità sulle contraddizioni strutturali dell’euro, hanno «comprato tempo» (cfr. W.Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli 2013) confidando nel metadone (il quantitive easing) di Draghi.

Ma nel momento in cui l’Europa si è messa integralmente al servizio del culto ordoliberale, accantonando gli obblighi di solidarietà proclamati nella Carta dei diritti (tranne che, paradossalmente, per i ricchi tedeschi esportatori e i grandi creditori), si è condannata per forza di cose al ripudio da parte dei popoli europei.

È surreale, ma estremamente significativo, che ciò sia accaduto di fronte alla più grande crisi economica e sociale dopo il 1929: la memoria evidentemente non insegna più nulla, se non è sostenuta da soggettività politiche critiche e da una sfida antagonistica (come fu quella dell’eresia bolscevica) che la tengano viva. È come se la gestione della crisi e i suoi effetti avessero avuto un effetto di disvelamento sulla reale natura dell’Europa di Maastricht, edificata sulle macerie del Muro.

Se l’Europa, e in particolare l’area euro, si fosse incamminata, di fronte alla crisi, sulla strada di un’unione politica della solidarietà, la situazione attuale sarebbe molto diversa, perché avremmo non squilibri crescenti ma coesione (tra gli Stati e al loro interno), e ciò consentirebbe di affrontare con ben altre risorse materiali e simboliche la sfida complicata della costruzione di un’effettiva sfera pubblica europea e di un’integrazione paritaria. Ma questa strada avrebbe implicato una decisione politica esplicita e consapevole della sua natura costituente, che accettando il rischio di coinvolgere i popoli europei, ponesse fine a quell’aggiramento dei nodi del politico che in tanti hanno coltivato in questi anni.

La cruda realtà invece è che oggi siamo di fronte a un dispositivo di governo che tutela i forti e penalizza i deboli. Perciò è l’Europa stessa la prima fonte di divisione.

Del resto, che fossimo di fronte al rischio di una saldatura tra questione sociale e questione identitaria era evidente. Ma nulla è stato fatto per favorire un recupero di sovranità democratica e solidarietà sociale. Al contrario, governi tecnici e larghe intese sono serviti a blindare le fallimentari ricette antisociali dell’Ue, adottate in nome dell’emergenza, frutto dei dogmi stessi sulla quale l’Europa attuale è costruita. Sullo sfondo, il monito della lezione impartita ai greci riottosi, che avevano osato ribellarsi esercitando la loro libertà politica e il diritto a decidere di se stessi.

È notevole come la presunta neutralità tecnocratica viva di pregiudizi moralistico-antropologici: i greci irragionevoli, gli italiani scansafatiche, in generale i ceti popolari ignoranti e privi di lungimiranza. In realtà, sono le reazioni isteriche alla Brexit a rivelare grande superficialità: nessuna analisi seria, autocritica, un profluvio di moralismo propagandistico unito a umori violentemente antipopolari.

Le presunte nuove fratture, come quella generazionale, o fra istruiti e non, sono coperture fuorvianti, diversivi che mantengono il dibattito sulla superficie. Servono a compiacere e rassicurare i vincenti della globalizzazione (o quelli che ancora stanno a galla), attraverso una strategia di squalificazione morale degli esclusi, confermando l’auto-narrazione neoliberale. Ma le questioni profonde, strutturali, sono sociali, indotte dalle dinamiche del capitalismo globale e dell’Europa ordoliberale: impoverimento della working class, disoccupazione, decadimento delle infrastrutture pubbliche, tagli al Welfare. Il punto è che tali contraddizioni non sfociano in un conflitto economico-sociale esplicito, aperto, né trovano una coerente rappresentanza, e perciò si traducono in dicotomie (come quelle connesse all’immigrazione) che occultano o distorcono la loro concreta matrice.

Il vero tema, per il rilancio di una politica effettivamente di sinistra, e per una riflessione all’altezza di questo compito, è come recuperare a una dialettica democratica reale questo nucleo di classe. Si tratta di indagarlo nella concretezza delle forme in cui si manifesta, senza fare troppo gli schizzinosi, e a partire da qui riorientarlo verso i bersagli giusti, come ci invita a fare Zizek nel suo ultimo libro (La nuova lotta di classe, Ponte alla Grazie 2016), che smonta un bel po’ di luoghi comuni perbenisti della sinistra. Il primo rischio da evitare è quello del cordone sanitario rispetto ai «barbari»: ci porterebbe tutti sotto l’ombrello della Bce. Come aveva ben capito Gramsci, il pericolo per gli «intellettuali» è sempre quello di parlare di se stessi, scambiando il proprio punto di vista particolare, le proprie esigenze di ceto, con la realtà. Anche per questo in tanti, oggi, sono spiazzati da una realtà popolare» che non conoscono né comprendono.

Mentre i sintomi di una sindrome weimariana su scala europea si manifestano, le cosiddette élites, di cui ormai è parte integrante ciò che resta del socialismo europeo (che infatti è boccheggiante), continuano a vivere in un mondo rovesciato, in una bolla: non a caso credono (o fingono di credere) in cose che non esistono (l’Unione come democrazia sovranazionale, l’austerità espansiva, le magnifiche sorti e progressive del TTIP).

Tutto per non ammettere che stanno solo difendendo il «sistema» (il capitalismo finanziario: la democrazia e la dignità delle persone non c’entrano nulla) e che le terapie velenose che hanno imposto hanno solo peggiorato la situazione. I fallimenti sembrano renderle ancora più cieche e livide, quindi pericolose.

Tutto lascia prevedere che se non si attivano energie di sinistra in grado di riprendere contatto con la realtà sociale dei ceti popolari, l’uscita dal fallimento europeo sarà da destra. Il rischio è con l’Europa siano travolte anche le democrazie costituzionali.

«e». Corriere della Sera, 31 luglio 2016 (c.m.c.)

Di ritorno, dopo una lunga assenza, nel mio vecchio quartiere di Londra, passando dalle parti della locale scuola elementare, ho notato un cambiamento. Molti dei miei amici una volta studiavano qui, e di recente — quando una malattia in famiglia ci ha costretto a ritornare in Inghilterra per un anno — vi ho iscritto mia figlia.

Un bell’edificio vittoriano in mattoni rossi, per molto tempo oggetto di «misure speciali», un giudizio dell’ispettorato scolastico chiamato Ofsted, il livello più basso attribuibile a una scuola statale. Con una valutazione simile, molti genitori ovviamente si spaventerebbero e iscriverebbero i loro figli altrove; altri, vedendo con i loro occhi ciò che Ofsted — che si affida principalmente ai dati — non può umanamente vedere, dubiterebbero della ragionevolezza di Ofsted, e resterebbero lì. Altri però potrebbero non saper leggere in inglese, o non avere a casa una connessione ad Internet, o non aver mai sentito parlare di Ofsted, o ancor meno considerato di controllare ossessivamente il suo sito.

La mia storia

Nel mio caso, avevo il vantaggio della storia locale: per anni, mio fratello ha insegnato qui, in un doposcuola per bambini immigrati, e sapevo perfettamente bene quanto la scuola fosse, come è sempre stata, valida e ospitale nei confronti della sua popolazione eterogenea, in molti casi appena arrivata nel Paese. Ora, a distanza di un anno, Ofsted l’ha giudicata ufficialmente «Buona» e, conoscendo i residenti della zona, ciò significa che più genitori borghesi, solitamente bianchi, correranno quello che considerano un rischio, si trasferiranno nei dintorni della scuola, e manderanno lì i loro bambini.

Se questo processo si sviluppa come a New York, la borghesia bianca aumenterà, assecondando la trasformazione da quartiere popolare a residenziale, e i confini del «bacino di utenza» scolastica si restringeranno, fino a renderlo, nel corso degli anni, quasi totalmente omogeneo, con tratti di diversità; a quel punto, l’ente di regolamentazione gli attribuirà finalmente la sua valutazione più alta. Ma nel vecchio quartiere non è ancora successo niente di tutto ciò, né, forse, succederà mai — data la sua lunga e orgogliosa storia di qualunque forma concepibile di diversità — e comunque, questo non era il cambiamento che avevo notato passando di lì.

All’epoca, il mio particolare tipo di paranoia liberale era focalizzato su altro: ho notato il recinto. Perché questa scuola vittoriana, a cui per cento anni sono bastate delle ringhiere di ghisa per delimitare i suoi confini, ora aveva aggiunto tra le sbarre quelle che sembravano delle alte stecche di bambù, unitamente a due metri di piante fatte arrampicare sulle assi, impedendo la vista del cortile, e quindi dei bambini che giocano, dalla strada. Sono andata a casa e ho mandato una email di fuoco a un paio di rappresentanti dei genitori:

«Sono passata nei pressi della scuola per la prima volta da quando sono tornata a casa (ieri) e ho notato il velo di legno — per non dire altro — eretto intorno alla scuola. Mi ha rattristato. Ho abitato per 40 anni in questa zona. Ho visto erigere un muro fuori dalla scuola ebraica dieci anni fa, e qualche anno fa, intorno a quella musulmana. Ma non avrei mai pensato di trovarne uno fuori... Sono molto curiosa di sapere come si è arrivati a questo, chi l’ha richiesto, come mai è stato deciso, se i genitori ne sono contenti, e quale è — ufficialmente — il suo scopo. «Sicurezza»? «Privacy»? O qualcos’altro?

Una email feroce, piena di paranoia liberale. La risposta che ho ricevuto era invece ragionevole ed educata. «Privacy e inquinamento» erano le ragioni addotte, in particolare il problema dell’inquinamento, «una cosa assai rilevante al momento», che la scuola era stata chiamata ad affrontare su richiesta del consiglio locale. Inoltre il cortile è pieno di cemento, la vegetazione ingentilisce l’area, e francamente, i rappresentanti dei genitori non avevano immaginato che il nuovo allestimento sarebbe sembrato in qualche modo difensivo o strano ai passanti. Rileggo la mia email e mi vergogno di averla inviata. Quale stato d’animo mi aveva portato a interpretare così negativamente un semplice ritocco estetico?

Realtà e simboli

Sono abituata al cambiamento: da queste parti è la regola. Il vecchio ginnasio in cima alla collina è diventato una delle più grandi scuole musulmane d’Europa; la vecchia sinagoga è diventata una moschea; la vecchia chiesa ora è un palazzo di case private. Le ondate migratorie e di trasformazione residenziale attraversano queste strade come bus. Ma suppongo che questa scuola locale, nella mia mente, fosse una specie di simbolo. E se c’è qualcosa che negli ultimi tempi abbiamo imparato, è che, noi britannici, finiamo per comportarci in modo strano quando lasciamo che le realtà materiali si trasformino in simboli.

Valutavo questa piccola scuola in modo speciale, simbolico, come un’istituzione variegata in cui i figli delle famiglie relativamente ricche e i poveri, i figli di musulmani, ebrei, indù, sikh, protestanti, cattolici, atei, marxisti, e quel tipo di persone che fanno del Pilates una religione, seguono le lezioni tutti insieme nelle stesse aule, giocano insieme nello stesso cortile, discutono insieme della loro fede — o della sua mancanza — mentre passo e spesso guardo dentro, trovando così una vitale conferma simbolica che il mondo della mia infanzia non è ancora scomparso del tutto.

In questi giorni, la scuola ebraica assomiglia a Fort Knox. La scuola musulmana segue a poca distanza. Anche la nostra piccola scuola era destinata a diventare un luogo circondato da un recinto, separato, privato, paranoide, preoccupato per la sicurezza, che dà le spalle alla comunità più estesa?

Il referendum

Due giorni dopo, i britannici hanno votato per la Brexit. Mi trovavo nell’Irlanda del Nord, dai miei suoceri, dei protestanti nordirlandesi moderatamente conservatori con i quali mi sono trovata d’accordo, per la prima volta nella nostra storia, in merito a una questione politica. Lo choc che avevo provato di fronte alla staccionata ora lo provavo davanti alla loro enorme televisione, mentre guardavamo insieme l’Inghilterra isolarsi dal resto dell’Europa dietro a uno steccato, senza un pensiero per le conseguenze per i suoi cugini scozzesi e irlandesi a Nord e Ovest del Paese.

Da allora, è stato scritto molto sul comportamento spaventosamente irresponsabile sia di David Cameron che di Boris Johnson, ma non penso che mi sarei concentrata completamente su Boris e Dave se mi fossi svegliata nel mio letto, a Londra. No, in quel caso le mie riflessioni sarebbero state essenzialmente di tipo ermeneutico. Cosa significa questo voto? Cosa riguardava? L’immigrazione? Le disuguaglianze? La storica xenofobia? La sovranità? La burocrazia Ue? La rivoluzione anti-neoliberale? La lotta di classe?

Ma nell’Irlanda del Nord era chiaro che questa sicuramente non c’entrava, neanche lontanamente, e ciò mi portò a riflettere sullo straordinario atto di solipsismo che aveva permesso a questo piccolo Paese, a lungo brutalizzato, di diventare il danno collaterale di una frattura interna al Partito conservatore. E la Scozia! Difficile da credere. Che due uomini presumibilmente istruiti, che si suppone avessero letto la storia della Gran Bretagna, abbiano potuto, con tale mancanza di scrupoli, mettere a repentaglio un’unione sudata, vecchia di 300 anni — per soddisfare le loro ambizioni personali — quella mattina, sembrava, a me, un crimine più grave della rottura del decennale patto europeo che l’aveva causato.

I «piromani»

«Conservatore» non è più il termine giusto per entrambi: quella parola quanto meno implica la cura e la tutela di un’eredità. «Piromane» sembra essere un termine più preciso. Intanto, Michael Gove e Nigel Farage sono i veri ideologi di destra, con una chiara agenda, per cui lavorano da molti anni. Il primo aveva la sua idea del cavallo di Troia della «sovranità», il cui simbolo vuoto avrebbe presumibilmente partorito una finanza libera e deregolamentata.

Il secondo, dimessosi il 4 luglio, sembrava essere nella morsa di un’autentica ossessione razziale, combinata alla determinazione di isolare con un recinto la Gran Bretagna dal pensiero comune europeo, non solo per questione di libertà di movimento ma anche per una serie di questioni: dal cambiamento climatico, al controllo delle armi, al rimpatrio degli immigrati.

Un referendum esalta gli aspetti peggiori di un sistema già imperfetto — la democrazia — convogliando in un cancello stretto una quantità impressionante di problemi. Ha le sembianze dell’intensità — Democrazia definitiva! Pollice in su o in giù! — ma in pratica banalizza la questione in modo fuorviante. Anche molti di quelli che hanno votato «Leave», alla fine, hanno sentito che il loro voto non esprimeva esattamente i loro sentimenti. Avevano un’ampia varietà di ragioni per il loro voto, e gran parte del fronte «Remain» era similmente scisso.

Porre la questione in termini binari aveva quasi comicamente rimosso parte della riflessione. Un amico la cui madre vive ancora nel circondario descrive una conversazione, al di là del recinto, tra sua madre e una persona di sinistra del Nord di Londra, che spiegava alla madre del mio amico che lei stessa aveva votato «Leave» per «cacciare quel maledetto ministro della Sanità!». Ah, anch’io, come molti cittadini di questa grande nazione, sogno di liberarmi di Jeremy Hunt, ma un referendum risulta essere un martello molto inefficace per mille chiodi storti.

«Cosa ci hanno fatto?»

Il primo istinto di molti elettori di sinistra pro «Remain» era pensare che fosse solo una questione di immigrati. Quando sono emersi i numeri ed è stata resa nota l’analisi dettagliata delle classi ed età, si è delineata più chiaramente una rivoluzione operaia populista, sebbene fosse una di quelle che rendono sempre perplessi i liberali borghesi, inclini a essere sia politicamente ingenui che sentimentali nei confronti della classe operaia. Per tutto il giorno, ho chiamato a casa e inviato email, cercando di elaborare , come gran parte di Londra — o quanto meno la parte che conosco — il nostro grande senso di choc. «Cosa hanno fatto?» ci siamo detti, a volte riferendoci ai leader, che sentivamo dovessero sapere quello che facevano, e altre volte alla gente che, deducevamo, non lo sapeva.

Ora sono tentata di pensare che fosse il contrario. Fare qualcosa, qualunque cosa, era vagamente lo scopo. La nota caratteristica del neoliberismo è che ti dà l’impressione che non puoi fare niente per cambiarlo, ma questo voto offriva il raro premio di causare una rottura caotica in un sistema che, usualmente, asfalta tutto quello che trova sulla sua strada. Ma anche questa interpretazione più ottimistica di sinistra — che si trattava di una reazione violenta, più o meno ponderata, una reazione all’austerità e al precedente crollo economico neoliberista — non può negare il razzismo casuale che sembra essere stato sguinzagliato parallelamente, sia dalla campagna che dallo stesso voto.

I racconti di mia madre

Ai molti aneddoti, ne aggiungerò due riportati da mia madre, di origini giamaicane. Una settimana prima delle votazioni, uno skinhead è corso contro di lei a Willesden, gridandole in faccia «Über Alles Deutschland!» (La Germania sopra tutto, ndt ), come una reminiscenza della fine degli anni Settanta. Il giorno dopo il voto, una signora, che faceva acquisti di biancheria e asciugamani in Kilburn High Road, si fermò davanti a mia madre e alla mezza dozzina di altre persone originarie di altri Paesi, annunciando a nessuna in particolare: «Allora, adesso dovrete andarvene tutti a casa!”.

Cosa hai fatto, Boris? Cosa hai fatto, Dave? Eppure, in questo racconto dei nostri leader solipsistici, che hanno innescato la bomba senza pensarci troppo, c’è una storia meno gradevole del nostro solipsismo londra-centrico, che mi pare altrettanto reale, e questa ha creato un diverso tipo di velo, forse altrettanto difficile da penetrare come la cieca ambizione personale di un uomo come Boris. Il trauma profondo, che — come tanti altri londinesi — ho avvertito dopo l’esito del voto, suggerisce come minimo che dobbiamo aver vissuto dietro a una sorta di velo, incapaci di vedere il nostro Paese per quello che è diventato.

La notte prima di partire per l’Irlanda del Nord, ho cenato con dei vecchi amici, intellettuali del Nord di Londra, in effetti esattamente il genere di persone a cui il parlamentare laburista Andy Burnham si riferiva simbolicamente, quando dichiarò che il Labour Party aveva perso terreno rispetto all’Ukip perché era «troppo Hampstead e non abbastanza Hull», sebbene, certo, in realtà fossimo stati da tempo tutti esclusi da Hampstead dai banchieri e dagli oligarchi russi. Stavamo considerando la Brexit. Probabilmente i commensali di ogni cena nel Nord di Londra facevano altrettanto. Ma è emerso che non potevamo averla considerata molto bene perché nessuno di noi, neanche per un momento, credeva che potesse accadere. Era così ovviamente sbagliata, e noi avevamo così ovviamente ragione. Come poteva succedere?

Risolta questa questione, siamo passati tutti a deprecare la strana tendenza delle ultime generazioni di sinistra a censurare e zittire i discorsi e le opinioni che considerano in qualche modo sbagliate: Niente propaganda, spazi sicuri, e tutto il resto. Avevamo tutti ragione anche su queste cose. Ma poi, dall’angolo, su un divano, la più intelligente di noi, mentre allattava un neonato, aspettò che finissimo di sproloquiare per aggiungere: «Beh, hanno preso quell’abitudine da noi. Noi volevamo essere visti dalla parte della ragione. Dalla parte giusta di una questione. Ancor più che fare qualunque cosa. Avere ragione era sempre la cosa più importante» .

Nei giorni successivi all’esito delle votazioni, ho pensato molto a questa analisi. Ho continuato a leggere i pezzi di fieri londinesi che parlavano orgogliosamente della loro città multiculturale rivolta all’esterno, così diversa da quelle località del Nord, provinciali e xenofobe. Suonava corretto, e volevo che fosse vero, ma l’evidenza che appariva ai miei occhi offriva una contro-narrazione. Perché la gente di questa città che vive veramente in una dimensione multiculturale è quella i cui figli sono educati in ambienti misti, o che vivono in ambienti autenticamente eterogenei, in case popolari o in un pugno di quartieri storicamente variegati, e non ce ne sono più tanti quanti ci piace credere.

L’equivoco multiculturale

Attualmente, gli aspetti della vita di molti londinesi che si presumono essere multiculturali e trasversali a tutte le classi sono in realtà rappresentati dal loro personale di servizio — tate, addetti alle pulizie —, quelli che versano i loro caffè e guidano i loro taxi, o ancora quei pochi, onnipresenti principi nigeriani che trovi nelle scuole private. La verità dolorosa è che gli steccati sono eretti dappertutto a Londra. Intorno alle aree scolastiche, ai quartieri, intorno alle vite. Una utile conseguenza della Brexit è di rivelare, alla fine apertamente, una profonda frattura nella società britannica, che ha impiegato trent’anni per prodursi.

I divari tra Nord e Sud, tra le classi sociali, tra i londinesi e tutti gli altri, tra i ricchi e i poveri londinesi, tra i bianchi, gli scuri e i neri sono reali, e devono essere affrontati da tutti noi, non solo da quelli che hanno votato «Leave». Tra tutte le caratterizzazioni isteriche di quei sostenitori del «Leave» — non ultime le mie stesse — all’indomani del voto, mi sono fermata a pensare a una giovane che avevo notato nel cortile l’anno in cui mia figlia frequentava quella scuola oggetto di misure speciali. Era una madre, come il resto di noi, ma almeno 15 anni più giovane. Dopo aver camminato dietro di lei verso casa un po’ di volte, ho immaginato che vivesse nello stesso quartiere di case popolari in cui sono cresciuta. La ragione per cui l’ho notata era perché mia figlia si era profondamente innamorata di suo figlio. Il prossimo passo naturale era un appuntamento per giocare in casa.

Ma quel passo io non l’ho mai fatto, e lei neppure. Non sapevo come far breccia in quella corazza di paura e diffidenza che sembrava provare verso di me, non perché fossi nera — l’avevo vista parlare allegramente con altre mamme nere — ma perché avevo il marchio della borghesia. Mi aveva visto aprire il portone nero tirato a lucido della casa di fronte alla sua palazzina popolare, come io avevo visto lei entrare ogni giorno nella tromba delle scale di quello stabile.

Ripensai a certi episodi che avevano segnato la mia infanzia, quando le cose erano al contrario. Potevo invitare la ragazza con la villa sul parco nel nostro misero appartamento popolare? E più avanti, quando ci eravamo trasferiti in un decorosissimo appartamento dal lato giusto di Willesden, potevo andare a trovare la mia amica in uno sgarrupato dal lato sbagliato di Kilburn?

La risposta era, di solito, affermativa. Non senza tensione, non senza qualche mortificante episodio da commedia sociale, o qualche fugace scena di vita domestica al confine con la tragedia — ma era comunque affermativa. Allora, eravamo tutti ancora disposti a correre il «rischio», se questa è la parola giusta per descrivere l’ingresso nelle vite altrui, in modo concreto e non solo simbolico. Ma in questa nuova Inghilterra sembrava, almeno per me, impossibile. E credo anche per lei. Il divario tra noi era diventato troppo ampio.

La casa vittoriana alta e stretta che ho comprato una quindicina d’anni fa, pur essendo esattamente lo stesso tipo di abitazione in cui vivevano in miei amici d’infanzia della borghesia, oggi vale una cifra scandalosa, e temevo potesse pensare che io avessi sborsato una cifra scandalosa per accaparrarmela. La distanza tra il suo appartamento e casa mia — pur misurando in realtà solo duecento metri — è simbolicamente più estesa che mai. Il nostro potenziale appuntamento per far giocare i bambini aleggia da qualche parte su questo abisso, e non si è mai concretizzato, perché non ho mai osato chiederlo.

Cocktail e diseguaglianze

Le diseguaglianze estreme frammentano le comunità, e dopo un po’ le crepe diventano così ampie che l’intero edificio viene giù. In questo processo tutti ci rimettono da tempo, ma probabilmente nessuno quanto i bianchi della classe lavoratrice ai quali non è rimasto davvero nulla, nemmeno la presunta levatura morale che deriva da un trauma conclamato o dallo status riconosciuto di vittima.

La sinistra si vergogna profondamente di loro. La destra li considera solo un utile strumento per le proprie ambizioni personali. La scomoda rivoluzione della classe lavoratrice alla quale stiamo oggi assistendo è stata tacciata di stupidità — io stessa l’ho maledetta il giorno in cui è scoppiata — ma più la si analizza, più ci si rende conto che da un certo punto di vista ha un che di geniale, perché ha saputo intuire le debolezze del nemico e sfruttarle in modo efficace. Alla sinistra borghese piace così tanto avere ragione! E una fetta così consistente della reietta classe lavoratrice ha scelto in modo così flagrante e spudorato di sbagliare.

C’è tutta una tradizione, in Gran Bretagna, di ridicolizzazione dei poveri, colpevoli di «tagliarsi le gambe da soli», di «votare contro i propri interessi». Ma il ceto medio e medio-alto neoliberale è stato non meno autolesionista, vivendo nelle sue prigioni dorate di Londra. Se vi sembra un’esagerazione, fate un salto a Notting Hill e date uno sguardo alle auto della vigilanza privata, pagate dai residenti del quartiere, che pattugliano le strade su e giù lentamente, davanti a tutte quelle dimore da 20 milioni di sterline, magari nel timore degli abitanti degli edifici popolari ancora abbarbicati lì, dall’alto lato di Portobello Road. Oppure passate al Savoy e date un’occhiata alla lista dei cockail vintage, dove il drink più economico viene offerto a 100 sterline (il più caro è qualcosa chiamato Sazerac — che afferma di essere il più costoso cocktail al mondo — e viene 5 mila).

Tempi strani.

Naturalmente quella lista dei cocktail è solo un altro stupido simbolo, ma lo è del suo tempo e luogo. A Londra si assiste da tempo a una folle ostentazione del denaro, e noi che siamo qui a guardare fatichiamo a cogliere, in certi simboli, la minima traccia di una vita piacevole, armoniosa o addirittura felice (una persona felice ha bisogno di farsi vedere mentre ordina un cocktail da 5 mila sterline?), anche se chi è così ricco può almeno agevolmente illudersi di essere felice, ricorrendo a quella che i marxisti di una volta definivano «falsa coscienza». Quello stereotipo antiquato non è più adatto a descrivere i britannici che vedono negati i loro diritti economici e sociali: sono persone che faticano ad andare avanti, profondamente infelici, e lo sanno bene.

Destra e sinistra

Davvero credo che, lasciando da parte quelli di destra ideologicamente convinti, come pure gli idealisti di sinistra che si oppongono alla Ue definendola uno strumento del capitalismo globale, la maggioranza dei cittadini che hanno votato «Leave» sia stata spinta dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla delusione, aiutata in questo da anni di calcolata manipolazione da parte della stampa e dei politici di certi bassi sentimenti e istinti di base. Per quanto sia doloroso scrivere queste cose, se Google ha registrato nelle ore successive al voto un alto numero di cittadini britannici intenti a chiedere al motore di ricerca «Cos’è la Ue?», è assai difficile negare che il 23 giugno scorso una percentuale significativa della nostra popolazione abbia vergognosamente trascurato quello che è un suo dovere democratico.

La gente merita di essere ascoltata, a prescindere da come vota, ma l’ignoranza alle urne elettorali non è un successo da festeggiare o da difendere in mala fede. E, al di là dell’ignoranza, è semplicemente sbagliato prendere un’iniziativa seria senza aver seriamente considerato le sue conseguenze per gli altri cittadini, e in questo caso per intere nazioni sovrane a Nord e a Ovest del proprio territorio, per non parlare del resto d’Europa. Detto questo, non trovo che le persone che hanno votato «Leave» siano in alcun modo eccezionali nell’avere bassi motivi.

«Noi» e «loro»

Mentre condanniamo a gran voce — e giustamente — gli scellerati atteggiamenti razziali che hanno portato milioni di persone a chiedere di tutelare «noi» e mandar via «loro», per liberare posti di lavoro, case popolari, ospedali, scuole, insomma l’intero Paese, dovremmo anche ripercorrere gli ultimi trent’anni di storia e chiederci che tipo di atteggiamento possa aver consentito a un’altra categoria di persone di manovrare in sordina, da dietro le quinte, per far sì che «noi» e «loro» non potessimo mai incontrarci, se non in maniera simbolica.

La Londra benestante, sia conservatrice che laburista, è sempre stata capace di scegliere come impostare le sue relazioni multiculturali e interclassiste, dando lezioni al resto del Paese, tacciato di chiusura mentale, e al tempo stesso barricandosi dietro i suoi discreti vantaggi. Ci capita molto spesso di camminare accanto a «loro» per strada, di salire sui loro taxi e di mangiare il cibo che preparano nei loro ristoranti etnici, ma la verità è che il più delle volte non frequentano le nostre scuole, non fanno parte dei nostri circoli sociali, e molto raramente entrano nelle nostre case — a meno che non vengano per lavorare nelle nostre cucine sempre nuove di zecca.

È nel resto della Gran Bretagna che la gente vive effettivamente gomito a gomito con gli immigrati di recente ingresso, e sperimenta sulla propria pelle la concorrenza economica dei nuovi arrivati. Sono loro a dover lottare per le risorse sotto un governo di austerità che rende fin troppo facile dare la colpa della mancanza di posti letto in ospedale alla famiglia di immigrati della porta accanto, o a una subdola burocrazia al di là del Canale che — gli stupidi demagoghi alla tv non si stancano mai di ripeterlo — prosciuga i fondi del servizio sanitario nazionale. In questo clima di ipocrisia e palese inganno, i poveri della classe lavoratrice avrebbero dovuto dimostrare di essere «persone sagge», quando intorno a loro dilagano opportunismo e corruzione? Quando tutti erigono steccati, starsene esposti ai quattro venti non è da sciocchi?

In questo momento la macchina dell’informazione corre così veloce che rischia di perdere qualche pezzo, e si fa un gran parlare di un secondo referendum, che naturalmente non farebbe che confermare i sospetti striscianti di molti di quei cittadini discriminati, per cui siamo solo noi, i «Remainer» benestanti e benpensanti, a prendere le vere decisioni che contano. No: questo ci è toccato in sorte, e dobbiamo farcene una ragione. Ma affermare che ognuno ha fatto la sua parte non significa dimenticare chi ha svolto il ruolo centrale di direttore di questo vergognoso concerto d’addio.

Cameron e Johnson sono già caduti e/o sono stati fatti fuori, e Gove li ha seguiti, ma un personaggio fatalmente inutile come Jeremy Corbyn — nonostante le decine di coltellate alle spalle — si rifiuta di cedere. Se è vero che non solo si è dimostrato un incapace nella campagna per il «Remain», ma si è anche impegnato in un «deliberato sabotaggio» della stessa, come ha sostenuto Phil Wilson, deputato e coordinatore del gruppo parlamentare «Labour in for Britain», allora Corbyn ha tradito in pieno il voto dei giovani che solo poco tempo prima lo avevano portato al potere. Deve andarsene.

Quando una scuola inglese viene sottoposta a «misure speciali», le mamme ottimiste della borghesia — categoria nella quale mi inserisco anch’io — sussurrano prendendo il caffè del mattino: «Bene, le misure speciali sono una gran bella cosa, perché adesso dovranno fare qualcosa».

La Gran Bretagna oggi è sottoposta a misure speciali — la crisi che serpeggia da sempre è stata messa allo scoperto — e invece di stendere un altro velo sul caos potremmo tentare di ripartire da qui. Il primo punto all’ordine del giorno dovrebbe essere la sostituzione del «capo» — come in ogni scuola disastrata — per poi prepararsi con quel che rimane della sinistra per una nuova battaglia. I diritti e le tutele garantiti dall’Europa al popolo britannico, anche se in modo imperfetto, non devono ora essere sostituiti dall’insensata visione alla Farage della sovranità britannica, in cui un San Giorgio mutilato, con gli arti mozzati, sguaina la spada e si avvia claudicante alla battaglia contro il drago-Ue per rinegoziare, da una posizione molto più debole, tutte le condizioni costate decenni di trattative.

Le scarpe di Nigel

Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo, Farage era stato avvistato con un sorriso trionfante e un paio di scarpe con il disegno dell’Union Jack a una festa privata, assieme a Rupert Murdoch, Alexander Lebedev (proprietario dell’ Evening Standard e dell’ Independent ) e Liam Fox (allora in corsa per la leadership del partito conservatore), intento a discutere di questioni di rilevanza pubblica a porte chiuse. Quando ho finito di scriverlo, Farage aveva rassegnato le dimissioni, dichiarando: «Voglio indietro la mia vita».

In Gran Bretagna i Nigel vanno e vengono, ma i Rupert sono per sempre. La mia vita e quella dei miei connazionali britannici sono state sempre condizionate, almeno in parte, da una classe di miliardari non eletti e in servizio permanente che possiedono giornali e gran parte delle emittenti tv, attraverso i quali figure assurde come Farage vengono pompate facilmente, spostando gli equilibri elettorali e influenzando le politiche.

Un’altra utilissima lezione: il patto postbellico tra governo e popolo britannico non è blindato, e può essere disfatto con un’iniziativa collettiva o calpestato da una manciata di personaggi in mala fede. Di conseguenza, i princìpi della civiltà liberale su cui sono stati fondati il sistema sanitario universale, l’istruzione statale e l’edilizia pubblica a partire dalle macerie della guerra richiedono oggi un partito disposto a riformulare quegli stessi princìpi nella nuova era del capitalismo globale; resta però da vedere se tale partito porterà ancora il nome «Laburista».

Gli immigrati di recente arrivo hanno scelto questo Paese proprio in virtù del suo patrimonio — l’edilizia, l’istruzione, la sanità —, e non c’è dubbio che alcuni di loro siano venuti con l’unico scopo di sfruttarlo. La maggior parte, però, è venuta per partecipare: iscrive i figli nelle nostre scuole pubbliche, paga le tasse al Fisco britannico, cerca di trovare una sua strada. Non è certo un reato, né un peccato, cercare una vita migliore altrove, o fuggire da Paesi dilaniati da guerre e conflitti — in molti dei quali c’è anche il nostro zampino. Il dubbio, ora, è se noi britannici sappiamo ancora cosa significhi una vita migliore, quali siano le condizioni necessarie e come realizzarle.

Una cena a Parigi

Qualche giorno dopo il voto sono andata in Francia per tenere una serie di lezioni ai miei studenti della New York University, a Parigi per un programma estivo; un’esperienza che presto non sarà più così facile ripetere, temo. Appena scesa dal treno, sono andata a cena in un ristorante con uno dei miei colleghi, lo scrittore di origini bosniache Aleksandar Hemon, ho ordinato da bere e ho sentenziato in tono melodrammatico che la Brexit era «un totale disastro».

Gli scrittori sono facili al melodramma. Hemon ha sospirato e con un sorriso triste ha detto: «No: solo “un disastro”. La guerra è il disastro totale». Aver vissuto la sanguinosa implosione dello Stato jugoslavo dà a un uomo il senso delle proporzioni. Una guerra europea su quella scala è qualcosa che la Gran Bretagna ha evitato di sperimentare intimamente ormai per più di mezzo secolo, e per difendersi dalla quale è stata costituita la Ue (tra le altre cose). Sta a noi adesso decidere se proseguire o meno lungo la via del «disastro».

«». Corriere della Sera, 31 luglio 2016 (c.m.c.)

Berlino Est, 1953, operai in rivolta repressi manu militari. «La classe operaia ha tradito la fiducia del partito, ora dovrà lavorare duramente per riguadagnarla», dichiara il segretario dell’Unione degli scrittori. Bertolt Brecht, sarcastico, parafrasa così: «Il comitato centrale ha deciso. Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».

Storie di ieri, anzi, dell’altro ieri. Ma, per paradosso, una loro attualità ce l’hanno. Di fronte al dilagare del populismo, della xenofobia, delle spinte a chiudersi a riccio in difesa di quel che resta delle identità tradizionali, vere o presunte, le nostre élite, che pure non sono sorrette né da un’ideologia potente né dall’Armata rossa, non si comportano troppo diversamente dagli uomini di ferro della Repubblica democratica tedesca.

Condannano, come è giusto che sia. E però, quasi fossero classi dirigenti per diritto divino, rifiutano di interrogarsi su se stesse, sembrano non chiedersi nemmeno se per caso portano qualche responsabilità per questo disastro, provano a navigare a vista. È difficile, certo. Ma, se non si parte di qui, la battaglia, almeno sotto il profilo politico e culturale, è persa in partenza, tanto più adesso, quando le cronache ci danno conto quasi quotidianamente, e in tempo reale, degli orrori perpetrati dal terrorismo diffuso fondamentalista, e chiunque si chiede se il peggio debba ancora arrivare.

Non è una boutade: cominciare a discutere apertamente di noi, e del nostro passato prossimo, sarebbe con ogni probabilità più utile, per affrontare il presente e il futuro, che chiedersi angosciati se sia tornato o no il tempo delle guerre di religione: de te fabula narratur .

È appena il caso di sottolineare un’evidenza comune a tutto l’Occidente, anche se, naturalmente, le cose non vanno dappertutto nello stesso modo, e non mancano i tentativi di invertire la rotta. Il mondo ci è cambiato intorno, e il nemico ci è cresciuto nel cortile di casa (è la globalizzazione, bellezza) senza che, fatte salve le dovute eccezioni, la politica (a differenza delle donne e degli uomini in carne e ossa) se ne rendesse conto o vi facesse troppo caso, anche perché era, e in gran parte è ancora, in tutt’altre faccende affaccendata.

Bruciate rapidamente le illusioni degli anni Novanta del secolo scorso, frutto in gran parte dall’ingenuo entusiasmo con cui venne salutata la caduta dell’Unione Sovietica, una politica sin troppo ridimensionata nei suoi poteri reali e nelle sue ambizioni si è ritrovata clamorosamente sprovvista tanto di un sensorio vigile nei confronti dei mutamenti tellurici della morfologia sociale quanto di una qualsivoglia visione o, per parlare in modo più chiaro, di quel confronto tra diverse culture, tradizioni e idee di società che è, o che ci illudevamo fosse, il sale di ogni democrazia degna di questo nome.

È stata investita contemporaneamente dunque, o si è autoinvestita, da un vistoso deficit di conoscenza, di rappresentanza, di decisione e di leadership: in poche parole, nella sua autoreferenzialità è parsa inutile, prima ancora che lontana e ostile, agli occhi di un numero sempre crescente di cittadini. Per tornare al paradosso del vecchio Brecht, si può anche pensare di venirne a capo abrogando il popolo che, come dicevano gli sgherri di Scarpia nella Tosca cinematografica di Luigi Magni, «è boia, è voltagabbana, oggi ti onora domani te sbrana». Naturalmente è più ragionevole affrontare la questione dal lato opposto, restituendo cioè dignità alla politica: peccato che sia così difficile capire come, e soprattutto con chi, si possa farlo.

A voler essere onesti ce n’è per tutti, anche per quello che una volta si chiamava il mondo dell’informazione e dei suoi abitanti, dal più prestigioso opinion maker (altra espressione ormai desueta) al più giovane dei cronisti. Proprio quando sarebbero stati necessari pensieri e politiche ben diversi, certo, da quelli novecenteschi, ma non meno forti e forse non meno radicali, ci siamo nutriti di pensieri e politiche deboli o, come allegramente suol dirsi, smart . Di più. Molto spesso li abbiamo invocati come gli unici auspicabili e necessari, anche nella convinzione che oltretutto, nell’età di Twitter, fossero gli unici possibili.

Non abbiamo reso un buon servizio né a una politica che aveva e ha bisogno di una rigenerazione profonda né a una società civile, o come si chiama adesso, che non necessita sicuramente di pedagoghi, ma di conoscenze che ne allarghino e ne approfondiscano il punto di vista, sì. Sulla Promenade des Anglais appena riaperta, tanti turisti e tanti nizzardi si sono accalcati per farsi un selfie sul luogo della strage. Forse, anzi, sicuramente una folla solitaria manifesta anche così il suo dolore e la sua vicinanza. Non c’è da scandalizzarsi. Ma da interrogare, e da interrogarsi, sì.

Il manifesto,

Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.

Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche. Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni «al di sopra delle proprie possibilità» e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per 18 volte e la parte dei cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700 miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e servizi.

Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura «in ultima istanza» da parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i diritti di tutti.

La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto questo aggiungiamo il fiscal compact, ovvero l’impegno preso in sede europea a riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno, il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste, sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?

Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte del contratto stipulato?
Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi sull’apprendimento in «debiti» e «crediti»?

Credo di no e, a sostegno d questa tesi, basta leggersi l’art.103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al fiscal compact?

Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua «professione»: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento –gli interessi- e la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).

Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il debito è oggi agitato come «lo shock per far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile» (Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo shock –che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla narrazione dominante- alla sana pre-occupazione, ovvero alla capacità collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i livelli –locale, nazionale e internazionale- la necessità di un’indagine indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e quanta parte è odiosa –dunque da non pagare- e che affronti, partendo dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo se ne discuterà all’università estiva di Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che, partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e istituzionali nelle «città ribelli» di Barcellona, Napoli e Roma (http://www.italia.attac.org/index.php).Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del futuro.

Altraeconomia, 22 luglio 2016 (c.m.c)

Il drammatico attacco di Nizza, che è soltanto l’ultimo di una scia sanguinosa, il tentativo di colpo di Stato in Turchia, ma anche la Brexit e il radicarsi di forti sentimenti xenofobi in giro per l’Europa, sono i segnali evidenti di una nuova fase della storia mondiale.


La globalizzazione, avviatasi dagli anni Settanta, ha generato il duplice effetto del brusco indebolimento delle sovranità nazionali e dell’affidamento ai mercati e alle istituzioni sovrastatuali del cruciale compito di definire le politiche economiche e sociali del Pianeta.

In estrema sintesi, gli Stati hanno dovuto abdicare al loro ruolo di espressione della volontà popolare per sottostare a regole che dovevano, di fatto, garantire una “graduale” crescita dell’economia, ritenuta indispensabile per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Tali regole che erano, come detto, concepite da realtà non espressione diretta della volontà popolare, a partire dalla Commissione europea per approdare al WTO, hanno così eroso, fin quasi a ridicolizzare, il peso prima di tutto culturale della nozione di cittadinanza, figlia dell’appartenenza a Stati democratici. 



Una simile dissoluzione ha certamente favorito la ripresa di un fanatismo religioso che ha tratto linfa dalla sostanziale incapacità del nuovo modello economico mondiale di ridurre le disuguaglianze tra parti del Pianeta e tra gruppi sociali. Anzi, quel modello ha approfondito i divari e le fratture, rendendole ancora più forti e lasciandole senza la protezione di un’autorità statale in grado di intervenirvi. Dove la democrazia non ha preso piede, lo stesso modello ha sostenuto, in nome del bene primario della stabilità, governi apertamente dittatoriali, che hanno individuato nella loro per molti versi artificiale “laicità” l’elemento con cui legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, spaventata dall’avanzata delle forme più aggressive dell’Islam. 



Lungo questo percorso, durato pochi decenni, è stata così liquidata una tradizione, quella nata con l’illuminismo e con la rivoluzione francese, ma anche con la riflessione liberale ottocentesca, con il socialismo transalpino e tedesco, con il keynesismo, con il cattolicesimo liberale e la riflessione del Concilio Vaticano II, che avevano trovato proprio nel modello di Stato democratico del Novecento una possibile per quanto difficoltosa sintesi.

Senza questi punti di riferimento che hanno rappresentato un ancoraggio ideale per gran parte della popolazione europea e un modello a cui ispirarsi per altre culture politiche sono diventati però possibili comportamenti e visioni ferocemente egoistiche, prive di reali coordinate generali e di prospettive “solidaristiche”, accentuate da due altri elementi. 


Il primo è costituito dal grande e pericoloso fascino esercitato dalla costante ricerca della spettacolarizzazione dell’esistenza individuale, alimentata dal linguaggio e dalle immagini della rete globale. Di fronte ad panorama in cui sono stati destrutturati i simboli dell’appartenenza collettiva, a cominciare appunto dagli Stati e dalle politiche pubbliche, si afferma l’esaltazione rappresentata e raccontata in tempo reale dell’atto individuale; dell’atto e non dei comportamenti, perché è l’eccezionalità dell’azione che colpisce e consente di essere raffigurata in pochi scatti e poche righe. In questo senso, più che del fanatismo religioso o di piani organici e persino di strategie economiche siamo vittime del fascino perverso della comunicazione, “socializzata” nella rete, del gesto clamoroso in grado di incarnare un immediato e gigantesco rifiuto istantaneo della società esistente.

Il secondo elemento è costituto dalla sempre più rapida aggregazione degli individualismi in forme settarie, che certo trovano spazio nella fine dell’autorevolezza dello Stato; si assiste in questo senso all’affermarsi di un distorto senso di nazionalismo tribalizzato per cui si decide, in maniera tutta istintiva, di aderire ad una “setta” -che sia l’Inghilterra come espressione di una genuina verginità popolare o una fede religiosa in quanto luogo di comune predestinazione o persino una “banda” di simili- e dall’interno di quella setta, chiaramente raccontata all’esterno ancora attraverso la rete, dichiarare guerra a tutti gli altri. 


Siamo forse alla fine della storia se con tale termine si indica lo sforzo di porre in essere visioni generali capaci di rifiutare le barbarie dell’“homo homini lupus”, tanto fotogenico quanto tragico.

«Il manifesto, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

Non è ancora il colpo di grazia, ma sicuramente il voto che ha deciso l’uscita del Regno Unito è una tappa decisiva verso la dissoluzione dell’Unione europea. Un esito irreversibile che mette all’ordine del giorno la sua ricostruzione su basi completamente nuove: una sua «rifondazione».

Perché è chiaro che in un mondo globalizzato non c’è alcuno spazio per l’autonomia politica delle piccole nazioni. La politica, che per noi è lotta e conflitto sociale, o si sviluppa in un orizzonte per lo meno europeo, o è condannata comunque alla sconfitta.

Chi, nel nostro come negli altri paesi dell’Unione, sostiene che l’uscita dall’Unione o la dissoluzione dell’euro – che di giorno in giorno diventa peraltro più probabile – comporterebbero un guadagno per le classi lavoratrici tradisce in realtà una completa sudditanza al liberismo – teoria che affida le sorti dell’economia al mercato – pensando invece di sottrarsi alla sudditanza nei confronti del cosiddetto "neoliberismo": una denominazione del tutto inappropriata del pensiero unico dominante, che non è né nuovo (neo) né liberista, perché è semplicemente la teorizzazione dell’approvazione privata di tutto l’esistente – il "creato" – dove a contare sono soltanto i rapporti di forza.

Si vorrebbe infatti far credere che con una svalutazione competitiva, in mezzo a 28 altri paesi impegnati nella stessa politica, il paese potrebbe imboccare la strada di una rinnovata competitività, di un rilancio dello "sviluppo" e, perché no? di una maggiore eguaglianza, quando è chiaro, invece, che nel mondo globalizzato conta solo più l’esercizio brutale del potere; e che più una nazione è piccola, più è impotente. Chi nel Regno Unito ha votato per la brexit lo ha fatto convinto che, per qualche oscura ragione, il suo paese sia ancora un impero. Ma non è così.

Era e resta, come tutti gli altri membri dell’Unione che ha abbandonato, un paese in mano a una finanza mondiale che ignora le ragioni dei lavoratori e dei popoli; di qualsiasi popolo; cercando anche di mettere i giovani contro i vecchi, entrambi tartassati, anche se in modi diversi.

Ma poiché, secondo me, come ho già argomentato (Alle radici del problema europeo, il manifesto, 20.6), il voto inglese è stato soprattutto un pronunciamento – quasi alla pari: una roulette – tra respingere e accogliere profughi e migranti, è del tutto verosimile che, sotto la spinta delle dilaganti pulsioni identitarie e razziste, all’exit inglese altri ne seguiranno, magari anche in forme e con modalità diverse, mettendo comunque fine alla configurazione dell’Unione europea così come l’abbiamo conosciuta.

L’establishment che attualmente la governa non è assolutamente in grado di fermare questa deriva perché ne è anzi il principale responsabile. È stato proprio quell’establishment a presentare come un problema insostenibile l’arrivo di un numero di profughi peraltro inferiore a quello dei migranti a cui fino a qualche anno prima aveva saputo, e avuto interesse, a trovare un posto e un lavoro sul suo territorio (Italia compresa).

E la ragione di questa insostenibilità è semplice: essendosi impegnato a togliere ai propri concittadini (al 99 per cento di essi) tutto quello che era possibile sottrargli – reddito, servizi sociali, «piena» occupazione (o, per lo meno, la pretesa di perseguirla), sicurezza sul lavoro, cultura, democrazia, dignità e quant’altro – era nella logica delle cose indirizzare verso un capro espiatorio il malcontento e la rabbia delle vittime di queste sue politiche di cosiddetta austerity.

La cosa doveva sembrare tanto più naturale in quanto, non essendoci più, secondo la versione dell’economia mainstream, i "soldi" per pagare tutte quelle cose ai cittadini europei (sono stati infatti destinati tutti a salvare o a far prosperare banche e finanza), era ovvio che di "soldi" non ce ne fossero neanche più per mantenere, a spese degli Stati, «tutti quei profughi».

Per eludere gli esiti dissolutivi e devastanti della brexit, quell’establishment dovrebbe invertire le sue politiche di 180 gradi.

Ma non può farlo: primo perché è prigioniero di una cultura, e di un conglomerato di interessi, per le quali "non c’è alternativa". L’alternativa può crescere solo dal basso, contro di loro. Poi, perché la marea identitaria e razzista che quell’establishment ha messo in moto con la leggerezza di un apprendista stregone – il razzismo, ricorda Zigmund Bauman, non si sviluppa se non promosso dall’alto – gli è ormai sfuggita di mano, e viene cavalcata con crescente successo da forze nazionaliste di estrema destra.

Forze che lo stanno scalzando dai suoi insediamenti elettorali tradizionali in nome di una finta opposizione alle politiche economiche vigenti, che non ne mette però in discussione i fondamenti, e di una politica di respingimenti, altrettanto impraticabile, ma di grande successo immediato, perché evita accuratamente di prefigurarne le conseguenze: che sono quelle di risospingere i profughi, e magari anche di espellere i migranti, tra le braccia di quelle forze che li hanno costretti a fuggire; moltiplicando i fronti di guerra ai confini dell’Europa – e poi contro di essa – e con essi la spinta a farsi coinvolgere sempre di più, al seguito della Nato, in conflitti senza sbocco.

Ma anche in questo caso un’alternativa vera, fondata su pace, solidarietà e cooperazione, potrà nascere e crescere solo dal basso.

Dunque? Dunque l’Europa, l’ambito insopprimibile di ogni vera politica, va rifondata alle radici, richiamando in servizio il manifesto di Ventotene; ma in un contesto completamente mutato.

Per realizzare non più, solo, una federazione degli Stati europei per evitare che i suoi popoli tornino a scannarsi tra di loro, e collaborino invece a promuovere un comune !sviluppo". Ma già l’annessione (non saprei chiamarla altrimenti) dell’Est europeo all’Unione e alla Nato era servita più a rinfocolare la guerra (fredda, ma anche calda) contro la Russia e altri paesi invisi agli Stati Uniti che a portare avanti la distensione.

Quello che occorre è invece un processo federativo incentrato sulle autonomie locali, impegnato in un grande progetto di conversione ecologica, e capace di includere e renderne protagoniste, anche attraverso il coinvolgimento di coloro che oggi o in un passato più o meno remoto hanno raggiunto il suolo europeo come profughi o come migranti, quelle comunità e quei paesi da cui sono dovuti fuggire: una grande federazione di popoli euromediterranei ed euroafricani per riportare la pace non solo all’interno dell’Europa, ma anche ai suoi confini vicini e lontani.

Utopia? Certo. Ma proprio la brexit e le molte sue conseguenze vicine e lontane ci mostrano che il mondo di domani non sarà più come quello che abbiamo conosciuto.

Niente sarà più come prima («This changes everything«) come ha scritto Naomi Klein. E se non sappiamo prima concepirlo, e poi progettarlo, il mondo di domani non riusciremo certo a realizzarlo.

«Banning Poverty 2018 online, 25 giugno 2016
Dopo tanti anni di accettazione, anche se critica, dello stradominio delle logiche di mercato e finanziarie che hanno stravolto e devastato l’intero sistema dello «Stato dei diritti» e della «società della sicurezza sociale» in Europa, non è più accettabile di giocherellare alla ricerca di capri espiatori, anche se ce ne sono tanti che meritano di esserlo.

Il rifiuto da parte della Camera dei deputati del Regno Unito questo 25 aprile di accogliere tremila bambini siriani orfani o rimasti abbandonati nei campi «profughi» di mezza Europa, imprigionati da nuovi muri, fili spinati e barriere di ogni tipo, ri-costruiti da quasi tutti gli Stati membri dell’UE (dall’Ungheria all’Austria, dalla Francia alla Slovenia, dal Regno Unito alla Polonia, senza dimenticare la Danimarca, i Paesi Bassi e l’Italia), dimostra che l’Europa non deve essere solo liberata dal Regno Unito (Brexit) o dall’Austria o dall’Ungheria… ma soprattutto dall’EU, dal sistema che questa ha costruito ed ha imposto agli Europei.

Noi vogliamo con forza l’unione dell’Europa, vogliamo l’Europa unita democratica, giusta, degna e libera. Con pari forza non vogliamo l’Europa dei nazionalismi, delle sovranità nazionali (First Britain) o regionali (First Veneto), l’Europa xenofoba e razzista alla Hoffered alla Salvini. E con altrettanta se non maggiore forza non vogliamo l’Europa delle diseguaglianze, delle esclusioni socialii, delle tecnocrazie ademocratiche, dei poteri forti finanziari predatori della natura e delle «risorse umane». Non vogliamo l’EU dell’austerità che alimenta le disunioni tra i popoli europei e le guerre fra gli impoveriti favorendo l’arricchimento dei già ricchi. Non vogliamo questa EU che separa, divide e punisce coloro che non obbediscono e non si sottomettono ai diktats della Troika. Milioni di europei non si sono battuti per decenni per dare potere alla Troika ma ad un Parlamento di rappresentanti eletti europei. Non vogliamo una EU che ha accettato di sottomettersi sul piano militare e della politica estera al dominio delle armi e degli Stati Uniti d’America nell’ambito della NATO. Infine, non vogliamo una EU che mistifica il funzionamento della democrazia rappresentativa e diretta, che stravolge i diritti e la dignità del lavoro, che toglie il potere e la responsabilità di decisione sui beni comuni ed i servizi pubblici alle autorità ed istituzioni pubbliche per affidarli a soggetti privati e lasciarli in balia della mercificazione, privatizzazione, competitività, monetizzazione e finanziarizzazione in nome dell’efficienza (il mantra dell’«Efficient Europe»), l’EU ha ucciso i valori fondamentali dell’uguaglianza, giustizia, libertà e fraternità delle società europee.

Penso che sia giusto e saggio che l’EU esca dalla storia futura dell’Europa. Tocca ai cittadini, alle organizzazioni della società civile ed ai rappresentanti eletti al Parlamento europeo di spingere l’EU verso l’uscita promuovendo una nuova fase Costituente europea.

Riferimenti
L'articolo è tratto dal sito Banning Poverty2015. Sul carattere almeno ambiguo della costruzione dell'Unione europea ( la cui radicenel nocciolo del siarema capitalistico affondano dagli anni e dai luoghi del nazismo ) vedi su eddyburg l'articolo di Susanna Böhm Kuby, Castellina:«L'Europa per fare che?»

«

Alexis Tsipras dice con chiarezza che il processo di unificazione europea ha subito un duro colpo. Secondo il leader di Syriza, che ha parlato ai greci con un messaggio televisivo, il risultato emerso dal referendum britannico mostra che l’Europa sta affrontando una crisi di identità e anche una crisi più complessiva, di carattere strategico. Ritiene, in sostanza, che Bruxelles e alcuni grandi paesi dell’Unione non abbiano letto con l’attenzione necessaria i messaggi arrivati dall’aumento delle percentuali dei partiti nazionalistici e di estrema destra in Europa.

Secondo Tsipras «le scelte estreme dell’austerità hanno aumentato le differenze, tanto fra i paesi del Nord e del Sud Europa, quanto all’interno dei singoli stati membri». Dovrebbe iniziare, ora, un periodo di analisi, di assunzione di responsabilità e di ricostruzione. La Grecia, con il suo primo ministro, ricorda che siamo arrivati a questo punto anche «a causa di una gestione della crisi dei migranti à la carte, a causa della chiusura delle frontiere e di chi ha deciso di erigere muri invece di accogliere», invece di chiedere all’Europa una vera condivisione delle responsabilità. Atene sa benissimo – sulla sua pelle – che la crisi del debito è stata affrontata dando precedenza agli interessi nazionali e della finanza e non andando avanti tutti insieme, grazie a interventi realmente solidali, con la richiesta di riforme «umane», realmente sostenibili.

Proprio la Grecia, che lo scorso anno è stata stretta nell’angolo, costretta a firmare un accordo che contiene nuovi tagli, aumenti dell’Iva e che mantiene il totale della pressione fiscale a livelli troppo alti, questa Grecia segue ora gli sviluppi di Oltremanica con lo sguardo lucido di chi aveva profetizzato con saggezza, rimanendo inascoltato.

«Chi è responsabile per il rafforzamento dell’estrema destra e dei nazionalisti?», è la domanda che ha posto ieri Tsipras. Secondo il primo ministro di Syriza, la colpa è del deficit di democrazia, dell’imposizione ricattatoria di scelte antipopolari e ingiuste e degli stereotipi divisivi che descrivono il Nord Europa come produttivo e virtuoso e il Sud come scansafatiche. Ora, dopo la fase della denuncia, bisognerà vedere se l’Europa sarà capace di compiere qualche ulteriore passo, riconoscendo i propri errori e smettendo di scavare fossati. La Grecia, ovviamente, dice no all’isolazionismo nazionale che, secondo il governo guidato dalla sinistra, porta a un vicolo cieco.

Ad Atene, tuttavia, è chiaro che ci troviamo davanti all’ennesimo bivio, forse il più importante di tutti i precedenti incontrati nel corso del recente cammino europeo. Per dirla con le parole di Alexis Tsipras, « o il referendum britannico riuscirà a svegliare il sonnambulo che sta procedendo verso il vuoto, o sarà l’inizio di un percorso pieno di insidie per i popoli europei».

Il leader greco chiede un profondo cambio di rotta, con scelte che rafforzino il carattere democratico dell’Europa. Lo scopo, chiaramente, è riuscire a gettare delle nuove basi, cambiare molte delle politiche seguite sinora e porre un forte argine alle forze nazionaliste e ultraconservatrici. Il primo banco di prova, nei prossimi mesi, sarà la difesa dei diritti dei lavoratori da chi vorrebbe mettere definitivamente in soffitta i contratti collettivi di lavoro. Tsipras si oppone ed ha deciso di metterci la faccia.

«Sono convinto che più che attaccare l’Europa dall’esterno sia meglio restarci dentro, unirci agli altri gruppi di sinistra, Syriza, Podemos, alla sinistra francese, tedesca. E batterci per creare un’altra Europa più giusta». Intervista di Arianna Finos.

La Repubblica, 24 maggio 2016

Tra le ragioni dei “leave”, cioè di chi al referendum del 23 giugno voterà per la Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, c’è quella che restare nell’Ue significa fronteggiare la minaccia dell’invasione dei migranti. Contro quest’idea si scaglia, con forza, Ken Loach: «L’immigrazione è uno dei più problemi contemporanei più grandi. La Gran Bretagna di Tony Blair ha creato moltissimi rifugiati con la terribile, illegale guerra che ha fatto in Iraq insieme agli Stati Uniti. E’ iniziato tutto lì. Molta gente è stata costretta a lasciare il proprio paese e la grande instabilità economica ha causato migrazioni di persone che, se vivessero in una società più giusta e sicura, se ne starebbero a casa propria».

Alla festa sul lungomare dopo la vittoria della Palma d’oro per “I, Daniel Blake”, il regista di “Nuneaton”, 80 anni il 17 giugno, non ha smesso di spendersi per la politica che ama e la società debole che difende. Dice no a Brexit, perché sarebbe il rimedio peggiore. Bisogna lottare dall’interno, “per portare a sinistra l’Inghilterra e la stessa Europa”. Come lui la pensano 281 artisti britannici che hanno firmato un appello. «Questa Europa anti-debito e anti-migranti sta uccidendo solidarietà sociale, lavoro e ambiente. Uscirne, però, sarebbe solo l’ultimo errore».

Loach, la sua scelta di restare in Europa è dettata dalla necessità?«L’Unione europea sta facendo passi indietro, questo è un problema per tutti i britannici che stanno andando a votare. Per me, oggi, la Ue è un’organizzazione neoliberale. Subisce le pressioni delle grandi corporazioni, diminuisce le tutele per i lavoratori, attacca l’ambiente. Con il loro lavoro di “lobbing” le multinazionali perseguono i propri profitti eliminando ogni ostacolo. Interi paesi, come la Grecia e il Portogallo, vengono umiliati. Comprendo che per la sinistra sia difficile decidere: non vuole sostenere quell’organizzazione neoliberista che è oggi l’Unione, ma sono convinto che più che attaccare l’Europa dall’esterno sia meglio restarci dentro, unirci agli altri gruppi di sinistra, Syriza, Podemos, alla sinistra francese, tedesca. E batterci per creare un’altra Europa più giusta.È possibile e necessario».

Cosa potrebbe succedere in Gran Bretagna con la vittoria dei fautori dell’uscita dall’Ue?
«Il nostro governo si sposterebbe ancora più a destra. La destra estrema vuole la Brexit per aumentare il potere del mercato, la “deregulation”, le privatizzazioni ».

Anche in Gran Bretagna ci sono cittadini che fanno la fame, perdono la casa, la salute, la speranza. Il suo film “I, Daniel Blake” è un atto d’accusa al welfare britannico.
«Nel nostro paese la burocrazia statale è sempre più crudele, volutamente inefficiente. Si parla di austerità, semplicemente si vuole dare più potere alle multinazionali, rendere i lavoratori più vulnerabili».

È un ritorno all’epoca della Thatcher?
«Margareth Thatcher iniziò un percorso che ora David Cameron sta portando avanti. Quarant’anni dopo la Gran Bretagna è il paese in cui i precetti del neoliberismo sono applicati nel modo più aggressivo».

Lei ha molta fiducia nel leader laburista Jeremy Corbyn?
«Averlo alla guida del Partito laburista è la cosa migliore capitata al mio paese dal dopoguerra. Blair non era un uomo di sinistra, neppure Gordon Brown. La guerra imperialista in Iraq è una scelta di destra, come lo è dialogare con chi ragiona solo in termini di profitto. Corbyn, invece, capisce e difende i bisogni della classe operaia. Con lui potremo, finalmente, tentare di avere un vero partito di sinistra. Il Partito socialista europeo è passato alla destra, ora dobbiamo cogliere la possibilità di un cambiamento reale».

Il sindaco di Londra appena eletto, Sadiq Khan, lo sosterrà?
«L’elezione di Khan è stata una vittoria della sinistra. Ora il sindaco deve provare di esserlo, sostenendo Corbyn. Intanto è riuscito a liberarci di Boris Johnson».

«Una bella sorpresa dalla vecchia Europa. La prima conclusione è che la cultura non è una merce e non si lascia per sempre vendere e comprare».Il manifesto

Sa il cielo se abbiamo bisogno di buone notizie, così tanto che quando arrivano si tende a non crederci. Invece è successo: dopo che l’estrema destra in crescita da tempo aveva stravinto il primo turno delle politiche, sembrava che si dovesse aggiungere l’Austria al novero dei paesi che in Europa virano verso la destra estrema, sia i democratici paesi del Nordeuropa sia i paesi dell’ex blocco sovietico. C’è ben poco di allegro, la situazione spinge ad abbandonare l’Europa a un destino regressivo verso le nazionalità, merce pericolosa che tende a degenerare in nazionalismo, localismo egoistico, razzismo.

I politologi faranno analisi più sofisticate analizzando i flussi elettorali impazziti e le giravolte di massa avvenute in poche settimane, ma noi intanto ci freghiamo le mani, tiriamo un sospiro di sollievo: e lasciateci essere per un momento umani e umane, prima di rimetterci la corazza austera e neutrale degli osservatori “scientifici” che non ci azzeccano mai.

Qualcosa deve essersi guastato negli strumenti conoscitivi dei quali ci serviamo, non ci avvisano per tempo, non ci indicano la direzione, non prevedono né sviluppi né cadute e dopo ricominciano a fare conti calcoli e sondaggi. Credo che il pasticcio politico nel quale stiamo dipenda in parte notevole dal fatto che quasi non c’è più la cultura politica, ma sondaggi e statistiche molto simili a quelle che servono ai mercati su che cosa vende e che cosa comprare.

La prima conclusione è che la cultura non è una merce e non si lascia per sempre vendere e comprare. E la prima conclusione attiva è che nella vecchia Europa girano semiclandestine a voce bassa, un po’ tristi e un po’ speranzose, un po’ avvilite e un po’ rivendicative cose avanzate dalle culture che poco tempo fa ancora la governavano, la mettevano in riga, segnavano i margini delle strade.

La bella sorpresa austriaca dunque ci dice che periodizzare col termine modernità giova poco e che spinge alla superficialità violenta del mercato. Non si tratta di riproporre il catechismo marxista e la rigidità del passato, però qualche ripasso contro l’ignoranza che cancella la memoria e azzera le lezioni della storia, se ce la facciamo, seno anche solo la cronaca.

Ad esempi Hollande non è molto credibile come uomo di sinistra limpida e contro il suo governo le lotte riprendono e durano, la situazione in Spagna è in movimento, la Grecia ripercorre testardamente il suo momento di epifania (rivelazione) e ci avverte che privato Pericle lo chiamava idiotes, cioè idiota e che il linguaggio pesa, le parole sono pietre diceva giustamente Primo Levi.

Conclusione (provvisoria): abbiamo perso, ci siamo lasciate derubare di una preziosa stagione prerivoluzionaria nel mitico ’68. Vi pare che possiamo ripetere quella enorme sciocchezza? Sarebbe da vergognarsi. Proviamo allora, almeno proviamo.

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